Oggi il supplemento
MOBY DICK SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80216
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
di e h c a n cro
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
di Ferdinando Adornato
Con la dichiarazione d‘indipendenza si rischia un’altra guerra civile. E Putin soffia sul fuoco
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Creato I miracoli di Darwin
Kosovo alleanze
Giuseppe Sermonti Riccardo Paradisi, Alfonso Piscitelli Marco Respinti
da pagina 12 SABATO 16
FEBBRAIO
relativismo
UDC, SICILIA, CIRCOLI. LE SPINE DEL POPOLO DELLA LIBERTÀ di Nicola Procaccini
a pagina 6
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
Parte da Londra la rassegnazione alla Shari’a europea di Daniel Pipes
27 •
WWW.LIBERAL.IT
pagine 2, 3, 4 e 5
ARRIVEDERCI A MARTEDÌ
Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 19
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Kosovo
pagina 2 • 16 febbraio 2008
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I dilemmi di una scelta
Siamo nel Duemila non al Congresso di Vienna di Renzo Foa indipendenza kosovara dovrebbe essere la conclusione naturale di una storia di resistenze e di difesa dell’identità, le cui radici nei meandri del passato più lontano. Non è un’invenzione dei nazionalisti di Hashim Thaci. Basta andarsi a rileggere gli scritti di Ibrahim Rugova, il Gandhi dei Balcani, per capire quanto è stata forte e diffusa la pulsione all’autodeterminazione, anche in una piccola regione di frontiera. E per capire che, se già lo Stato federale jugoslavo era vissuto come un’occupazione e un’ingiustizia, oggi il legame con la Serbia è solo un anacronismo. Se non altro perché Belgrado non esercita che un diritto formale di sovranità, scritto solo sulla carta. Eppure fa paura, nonostante il sostegno politico dei maggiori paesi occidentali. Evoca i fantasmi della guerra. Si proietta sugli squilibri internazionali. E pone problemi che l’Europa, ancora di recente, non sospettava di avere: quelli della sua frammentazione, delle spinte alle separazioni secondo confini etnici, linguistici e religiosi. Dilaga la parola «contagio», se perfino nella stabile Belgio è aperta una difficile partita tra fiamminghi e valloni. Per non parlare del rapporto con la Russia di Putin e degli scambi che egli ha offerto. Il Kosovo sta diventando il simbolo dei paradossi di un assetto internazionale che fa fronte ai dilemmi del XXI secolo ma che, spesso, negli equilibri geopolitici è fermo al Congresso di Vienna. Ben prima dell’era dell’interventismo «umanitario» o «democratico». Il paradosso maggiore consiste nel fatto che anche molti di coloro che nella lunga crisi jugoslava sostennero l’uso della forza contro il nazionalismo serbo, oggi sono diffidenti. Se allora c’era la consapevolezza che il prezzo più salato veniva pagato con l’inerzia, ora si teme il contrario. Si teme che la formalizzazione della nascita del nuovo Stato crei più problemi di quanti non ne risolva. Si ripropone il solito dilemma tra la scuola realista e la scuola unilateralista. Viene da chiedersi allora perché non venne risolto nel 1999 il problema che si pone oggi. Attenzione. È la stessa domanda posta sull’Iraq, dove gli americani erano già giunti nel 1991 alle porte di Baghdad, per poi dover riaprire lo stesso dossier dodici anni dopo. Viene da chiedersi, anche pensando alle crisi aperte altrove, se quando si ricorre allo strumento militare non si debba andare subito fino in fondo. Cioè subito fino al conseguimento degli scopi politici di un intervento. Per di più nel 1999 l’indipendenza sarebbe stata consegnata a Rugova.
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Lo scenario di una crisi incontrollabile (alimentata anche dai russi)
Il rischio? Un’escalation difficile da fermare Colloquio con Richard C. Holbrooke di Bernard Gwertzman er Richard C. Holbrooke, ex ambasciatore Usa presso le Nazioni Unite nonché mediatore degli accordi di Dayton che hanno posto fine alla guerra in Bosnia, la mancata cooperazione da parte della Russia potrebbe portare ad «un tremendo disastro ferroviario» nel momento in cui il Kosovo dicharerà la propria indipendenza. I russi, che nel 1999 contribuirono a bloccare i combattimenti quando le forze della Nato bombardarono la Serbia, stavolta non solo non hanno aiutato, ma hanno incoraggiato l’atteggiamento caparbio della Serbia, rifutandosi di contribuire all’elaborazione di un accordo per consentire al Kosovo una transizione pacifica verso l’indipendenza, come era stato promesso dalla comunità internazionale. Lo scorso dicembre la troika - composta dall’inviato statunitense Frank Wisner, dal rappresentante russo Alexander Botsan-Kharchenko e dall’inviato della Ue Wolfgang Ischinger - istituita dall’Onu per giungere ad una soluzione negoziale tra il Kosovo e la Serbia, ha concluso la propria opera in modo fallimentare. E domani Pristina dovrebbe annunciare la propria indipendenza. Il Kosovo chiederà alle Nazioni del mondo e all’Onu di riconoscerli? Si. Lo scenario è al momento questo: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia hanno già dichiarato che riconosceranno l’indipendenza. Altri lo faranno in tempi un po’ più lun-
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ghi, mentre la Russia non lo farà. Molti Paesi non hanno ancora preso posizione e verranno esercitate notevoli pressioni in ambedue le direzioni. Immagino anche che i Paesi islamici riconosceranno l’indipendenza della provincia serba. In questo modo il neo Stato del Kosovo si troverebbe in una posizione piuttosto scomoda. L’ammissione all’interno dell’Onu non sarebbe possibile fin quando i russi fossero intenzionati ad imporre il proprio veto, come hanno già annunciato di voler fare. L’Ue dovrebbe trovare un modo per fornire assitenza economica ai kosova-
ceranno di non essere disposte ad accettare di far parte del nuovo stato kosovaro indipendente. Diranno: «No, facciamo ancora parte della Serbia». E quindi scoppierà l’ennesima guerra di secessione, come altre che hanno costellato l’Europa dell’Est e l’ex Unione Sovietica negli ultimi quindici anni: basti pensare al Nagorno-Karabakh (una repubblica a tutti gli effetti indipendente all’interno dell’Azerbaigian rivendicata dall’Armenia), l’Ossezia meridionale (regione ribelle della Georgia sostenuta dalla Russia), l’Abkhazia (una repubblica indipendente all’interno della Georgia non riconosciuta da alcuno Stato ma spalleggiata dalla Russia) e il Trans-Dniester (zona separatista della Moldavia, anch’essa appoggiata dalla Russia. Ritengo che le aree serbe del Kosovo rientreranno in questa categoria. Parliamo un attimo della situazione a Belgrado. In teoria il governo serbo è filo-occidentale, giusto? E vorrebbe entrare nell’Unione Europea. Dire che il governo serbo di Belgrado sia filo-occidentale mi pare esagerato. Sono profondamente nazionalisti, soprattutto il Primo ministro Kostunica. Lui sì che è nazionalista. L’ex presidente serbo Slobodan Milosevic faceva finta di esserlo. Ma questo qui lo è sul serio. Ha un attaccamento mistico nei confronti del Kosovo che considera la culla del popolo serbo. Alcuni dei più importanti monumenti religiosi in Europa sono gli antichi monasteri serbi sparsi un po’ per tutto il Kosovo: mona-
C’è il problema prioritario della ridefinizione del ruolo della Nato e del mandato da attribuire alla forza multinazionale in caso di violenze e scontri ri, anche senza il riconoscimento dell’indipendenza da parte di tutti i membri. Quanti serbi vivono ancora in Kosovo? Non esiste un censimento preciso, ma le stime più attendibili parlano di circa due milioni di albanesi, a fronte di una popolazione serba tra i 100 e i 200 mila abitanti. I serbi sono la maggioranza nella parte più settentrionale de paese, al confine con la Serbia. Attorno alla città settentrionale di Mitrovica la popolazione è a maggioranza serba e poi ci sono altre comunità serbe sparse nel resto del Kosovo. La mia ipotesi è che le aree popolate da serbi, che non hanno partecipato in alcun modo alle recenti elezioni, annun-
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Tappe di una separazione 1389 Il 28 giugno viene sconfitto l’esercito serbo per mano dei Turchi, a Kosovo Polje vicino l’attuale capitale. Nessun posto è più caro ai serbi di quella pianura a ovest di Pristina
1986 Slobodan Milosevic, accusa di genocidio gli albanesi kosovari
1989 È annullata l’autonomia. Inizialmente la resistenza kosovara fu «non violenta» e incarnata da Ibrahim Rugova, leader della Lega democratica del Kosovo (Ldk)
1990 Il 2 luglio dichiarazione d’indipendenza della repubblica del Kosovo. Riconosciuta solo dall’Albania
1992 Un referendum plebiscitario conferma quella scelta e un’altro elegge Rugova presidente della Repubblica. Nessun ricoscimento da Belgrado
1995
operazioni dell’Esercito iugoslavo e del ministero degli Interni contro il Kosovo liberation army (Kla)
1999 Il 24 marzo, operazione Nato «Allied force», contro la forza d’invasione iugoslava, che terminerà il 20 giugno. Alla Conferenza di pace di Rambouillet (febbraio) si propone lo status «ex ante» l’indipendenza del 1990, poi parte Kfor e l’amministrazione Onu
2000 Condoleezza Rice definisce il Kosovo una questione strategica per la Nato, non solamente un problema umanitario
2007 In Aprile Martii Ahtisaari, inviato speciale Onu presenta il documento che propone l’indipendenza al Consiglio di sicurezza. Il Kosovo accetta i termini dell’accordo, la Serbia no. Ci provano anche la Troika Ue, Russia e Usa, senza esito
2008
Dopo la guerra in Bosnia Erzegovina, nasce l’Ushtria clirimtare kosoves (Uck) che conterà i primi volontari islamici. Operazione Nato «Deliberate force», la prima contro uno Stato indipendente
Si è arrivati all’annuncio dell’auto proclamazione d’indipendenza
1998 A maggio cominciano le
steri del dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo secolo. I serbi vivono in quella zona da secoli, ma col tempo la maggioranza della popolazione è diventata di etnia alabanese. I serbi hanno oppresso gli albanesi negando loro i diritti politici, in particolare sotto Milosevic, ma già dal 1912 i serbi governavano il Kosovo pur essendo una minoranza; ora la situazione sta per essere ribaltata nel modo più eclatante. La popolazione serba del Kosovo del nord dichiarerà di voler far parte della Serbia? È senz’altro possibile che le regioni settentrionali si comportino come le zone serbe della Bosnia nel 1992, quando i musulmani bosniaci dichiararono l’indipendenza del Paese. Si ricorderà che i serbi bosniaci rifiutarono di accettare la situazione e scoppiò una terribile guerra civile dalle conseguenze devastanti. Tuttavia la differenza tra il Kosovo nel 2008 e la Bosnia nel 1992 è duplice: innanzi tutto perché la stragrande maggioranza della popolazione kosovara (oltre il 90%) è albanese, mentre in Bosnia c’era un relativo equilibrio tra i tre gruppi: bosniaci, serbi e croati. In secondo luogo, da tempo, in quella zona non esiste più la stessa brama di guerra totale, brutale e genocida. La violenza rimane comunque una minac-
cia concreta ed è per questo che, in un mio recente articolo per il Washington Post, ho chiesto agli Stati Uniti e alla Nato di inviare altre truppe in Kosovo e in Bosnia il più presto possible. Non un numero enorme, perché non sarebbero comunque disponibili, ma comunque in numero sufficiente da far capire ai due possibili contendenti che un ritorno alla violenza non sarebbe accettabile per la comunità internazionale. Per quanto riguarda la Russia, gli Stati Uniti hanno esercitato qualche pressione su Putin?
unissero all’Ue e agli Usa per trovare una soluzione. Lo hanno fatto nel 1999, mentre gli Stati Uniti e la Nato stavano bombardando la Serbia da 77 giorni, e quel gruppo, composto dall’ex poresidente finlandese Martti Ahtisaari per l’Unione Europea, dal vice segretario di Stato Strobe Talbott per gli Usa e dall’inviato russo Viktor Chernomyrdin, produsse la Risoluzione 1244, che pose fine ai bombardamenti e creato l’amministrazione fiduciaria del Kosovo da parte dell’Onu. Ma questa volta Putin sta giocando una partita completamente diversa. In realtà sta dando forza
La comunità internazionale deve impedire agli albanesi di attuare vendette sulle minoranze serbe nelle énclaves sparpagliate nel Paese Lo hanno fatto in modo inadeguato. Il Presidente Bush non ha affrontato l’argomento con Putin in modo chiaro e determinato E i rapporti tra i due non sono particolarmente idilliaci. Questa amministrazione non ha sempre capito le intenzioni di Putin e lui ne ha approfittato. Pensa che il Kosovo possa giungere ad un accordo con la Serbia senza aiuti esterni? No. L’unica possibilità in questo senso sarebbe se i Russi si
ai serbi. Non sta esercitando alcuna pressione su di loro per convincerli a raggiungere un accordo. Al contrario, è diventato il loro istigatore ed è per questo che ci stiamo dirigendo verso uno spaventoso incidente ferroviario della diplomazia. Esistono possibilità che i serbi cerchino di inviare truppe in Kosovo? La possibilità esiste e si può prevenire solo in due modi: intanto la comunità internazionale deve fare in modo che gli albanesi non cerchino la ven-
detta nei confronti dei serbi: si tratta di un pericolo reale e molto serio. In secondo luogo la presenza di altre truppe, in particolare della Nato, rappresenta la migliore garanzia per ridurre la possibilità che qosovo, sarebbe una provocazione difficile da immaginare. Ci sono problemi anche in Bosnia? In Bosnia, dopo dodici anni in cui gli Accordi di Dayton hanno funzionato abbastanza bene, siamo di fronte ad un dilemma molto serio. Nella parte serba della Bosnia, il leader serbo Milorad Dodik è sempre stato filo-occidentale e collaborativo con gli Usa e la Ue, ma ora sembra essersi trasformato in un leader antioccidentale, filorusso e filoseparatista. Secondo me è perché i russi lo hanno sommerso di petrodollari ed ora è posto sotto pressioni enormi. Questo è il problema, ma è anche vero che alcuni politici musulmani a Sarajevo hanno fatto dichiarazioni provocatorie. Torniamo al Kosovo. Lei ha accennato alla possibilità che gli albanesi possano cercare di vendicarsi contro i serbi. Hanno giò
compiuto un piccolo massacro un paio di anni fa, vero? Sì. Molto grave. Pensavo che la situazione fosse ormai stabilizzata, ma sembra che non sia così. Chi può dirlo? L’odio fra la gente - odio profondo - è maggiore di quanto ce ne fosse in Bosnia. In Kosovo i matrimoni misti sono praticamente inesistenti, le lingue sono diverse: sono culture differenti che vivono nello stesso territorio. La situazione è più simile a quella degli arabi e degli israeliani. I bosniaci, i croati e i serbi parlavano tutti la stessa lingua, frequentavano le stesse scuole, vivevano tutti insieme - una situazione ben diversa da questo apartheid in Kosovo. Per non parlare del peso della storia. Persino in Medio Oriente non si trovano popoli che si odiano così intensamente. © Council on Foreign Relations
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Kosovo
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Per non rischiare un’umiliazione internazionale, il Cremlino può esasperare i conflitti in atto
La rappresaglia di Putin. Primo target la Georgia di Fernando Orlandi e dichiarazioni dei principali esponenti politici russi, a partire dal presidente uscente Vladimir Putin, si caratterizzano sempre più per la loro truculenza, dalle minacce di puntare i missili nucleari sulla vicina Ucraina al rimettere in volo bombardieri strategici che iniziavano ad essere tecnologicamente obsoleti quando l’Unione Sovietica scomparve dalle carte geografiche, in uno sfoggio di muscoli piuttosto mollicci. Questa evidente deriva della politica estera del Cremlino, dal Kosovo all’Iran, è destinata ad entrare in una permanente rotta di collisione non solo con gli Stati Uniti ma anche con l’Unione Europa. In questo scenario il deterioramento dei rapporti con Londra costituisce una eccellente cartina di tornasole. Questo fine settimana è destinato ad inasprire un poco le relazioni. Il centro della disputa è il Kosovo, che sta per proclamare la sovranità, con la copertura di Washington e l’appoggio di varie capitali europee. Quanto sta accadendo assomiglia alla sceneggiatura di un film già visto, con gli attori incapaci di uscire dai loro ruoli. Il 14 gennaio Putin, nella sua conferenza stampa ha sostenuto che l’indipendenza del Kosovo sarebbe «immorale e illegale» e che l’Unione Europea dovrebbe vergognarsi per il doppio standard utilizzato, perché concede agli albanesi quello che non ha riconosciuto ai nord-ciprioti. Ma al Cremlino si dimentica come il caso del Kosovo sia unico: la dissoluzione della Jugoslavia, le pulizie etniche di Slobodan Milosevic, la condizione di cittadini di “serie b” in cui si trovavano gli albanesi e il loro rifiuto di riconoscere in Belgrado la loro capitale hanno creato una situazione eccezionale in cui sono confluite rivendicazioni morali, storiche e pratiche. A sua volta il primo ministro serbo Vojislav Kostunica parla di umiliazione per il paese e il presidente Boris Tadic, pur affermando che il futuro della Serbia sta nell’Unione Europea, sostiene che «non c’è al-
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A sinistra, il presidente serbo Boris Tadic. A destra, il presidente russo Vladimir Putin. In basso, Putin sorseggia una tazza di tè ternativa alla difesa dell’integrità territoriale». E il ministro degli Esteri Vuk Jeremic, parlando il 14 febbraio alla speciale sessione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, svoltasi a porte chiuse, non ha mancato di lasciarsi sfuggire che la Serbia è pronta “a morire” per il Kosovo.
Insomma, morire per Pristina? Si è propensi a pensare di no. Il mese scorso, con l’accordo per la costruzione di un
nuovo gasdotto e l’acquisizione della Nis, insomma delle infrastrutture energetiche, Mosca ha raccolto una serie di importanti successi nei Balcani e in Serbia. Con questa mossa è stato sferrato un altro colpo al Nabucco, il progetto di gasdotto sostenuto dall’Unione Europea, che ora rischia di agonizzare e lasciare definitivamente il passo al rivale (e controllato da Mosca) South Stream. Mosca poteva ben “accontentarsi” e porre un limite alla retorica
Alle dichiarazioni roboanti dei tg russi non seguiranno vie di fatto nei Balcani. È più probabile che Mosca alzi il livello delle sue interferenze in alcune zone della ex Urss. A cominciare da Tbilisi che si è avvicinata all’Occidente sulla “fratellanza panslava”, così come Putin chiuse gli occhi dinanzi al destino dei russi che dal Turkmenistan non potevano andarsene, vivendo una condizione di miserabile discriminazione. Uno degli argomenti “forti” di Mosca nell’opporsi all’indipendenza del Kosovo è che questa fornirà «un eccellente argomento» a molti altri separatisti, come ha sostenuto più volte negli ultimi tempi il ministro degli esteri Sergei Lavrov. Il
Kosovo, insomma, sarà un pericoloso Vaso di Pandora. Per evitare la sua apertura, e in ogni caso per non accettare l’atto unilaterale, la Russia minaccia di prendere tutti i provvedimenti, per ora mantenuti segreti, del caso.
Cosa può accadere, dunque? Inutile dire che le dichiarazioni saranno alquanto roboanti, che nei telegiornali russi si vedranno servizi ampi e dalle tinte forti. Ma che può succedere? Mosca potrà stizzare su alcuni problemi europei, da Cipro ai baschi. Potrà creare molti problemi nei cosiddetti “conflitti congelati”: Transnistia, Nagorno Karabakh, Ossetia del sud e Abkhazia. Soprattutto in Ossetia del sud e Abkhazia, due regioni della Georgia, un paese verso il quale Mosca negli ultimi anni non ha mancato di far sentire il fiato sul collo, non potendo accettare il suo avvicinarsi all’Occidente. Molto difficilmente nell’immediato il Cremlino potrebbe risolversi a riconoscere unilateralmente l’indipendenza di questi territori. Al massimo potrà porre il veto all’Onu sul Kosovo. Alla fine la roboante retorica russa potrebbe tramutarsi in un boomerang. Già ora la sua voce è stata molto poco ascoltata nelle stanze dei bottoni, se si pensa alla facilità con cui diversi stati europei nei prossimi giorni riconosceranno l’indipendenza del Kosovo. Mosca molto probabilmente dovrà fare i conti con una situazione di relativa impotenza, di incapacità di imporsi su una questione su cui ha apertamente puntato forse troppe carte diplomatiche e non. Qualcosa indubbiamente di non piacevole per il Cremlino, che grazie ai proventi derivanti dalle vendite di idrocarburi e all’utilizzo delle risorse energetiche ha acquisito un ambito ruolo di primo piano sulla scena economica e politica, posizione di potenza di cui va orgoglioso. Ma la partita in corso potrebbe terminare con un risultato inaspettato per Mosca: vedere la propria impotenza tramutarsi in umiliazione, come ha osservato Liliya Shevtsova.
Kosovo
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Le diplomazie tentano la strada confederale per garantire autonomie e identità
Esercizio tripartito Belgrado, Pristina e Ue di Fabrizio Edomarchi due mesi dalla conclusione dell’esercizio negoziale, quando la trojka del Gruppo di Contatto consegnò a Ban Ki Moon un “nulla di fatto”, il Kosovo si avvia verso l’indipendenza. O meglio si avvia verso una nuova proclamazione d’indipendenza, avendo già proceduto in tal senso nel giugno 1990 con nessun seguito allora - da parte della Comunità Internazionale. La grande differenza rispetto a quella circostanza è il concentrato di riflettori, aspettative, minacce, emozionalità che tale decisione porta con sè e la conseguente decisione di agire nella direzione del riconoscimento da parte dei principali soggetti del campo Ue-Usa, dei Paesi prossimi per etnia (Albania), per storia recente (Montenegro e, con ogni probabilità, Croazia), per cultura (un significativo numero di Paesi aderenti
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alla Organizzazione della Conferenza Islamica). Il clamoroso divario in termini attenzione (ed azione) internazionale si spiega con la storia degli ultimi 18 anni, fra dissoluzione jugoslava, pulizia etnica, intervento Nato, amministrazione Unmik e negoziato del Gruppo di Contatto. E, per certo, con una diversa attenzione e peso con cui, rispettivamente, gli Stati
azioni in difesa della popolazione locale nonchè nel raffreddamento dei rapporti con Ue e Paesi sostenitori di Pristina, il vero quesito riguarda il Kosovo. Gli argomenti che sono soliti portare gli interlocutori di Pristina per motivare la improrogabilità dell’indipendenza sono di tre tipi: un primo afferisce alle sofferenze cui la popolazione locale è stata sottoposta nel corso dell’ulti-
“unicità” del caso kosovaro, tale da legittimarne l’esito dell’indipendenza. Un secondo argomento afferisce alla specificità culturale albano-kosovara, ed al compimento del suo destino nazionale, della sua plurisecolare storia che affonda le radici negli insediamenti illirici, passa per la Dardania romana ed i vilajet ottomani e si consegna all’epoca moderna con la Lega di Prizren,
Il cammino kosovaro potrebbe rivelarsi inutile? Nient’affatto. Non vi è per forza contrapposizione fra affermazione della propria identità e stabilità regionale Uniti e la Russia guardano al Kosovo. Quali scenari ci attendono nell’immediato? Se è presumibile (ed ampiamente annunciato) un irrigidimento serbo nei confronti dell’autoproclamata repubblica che potrebbe concretizzarsi in un embargo soft ed in
mo secolo - dal “promemoria per l’espulsione degli Albanesi”diVasa Cubrilovic del 1937 fino alla tragica pulizia etnica voluta da Slobodan Milosevic, passando per l’abolizione dell’autonomia costituzionale nel 1989 - che costituirebbero la “sostanza” dell’
culla dell’identità albanese. Il terzo argomento afferisce alla supposta insostenibilità dello status attuale nell’ottica dello sviluppo economico del Paese, e nello specifico nella logica dell’attrazione di investimenti esteri, vera chiave, secondo i beninformati di Pri-
stina, dello sviluppo del Kosovo. Mantenere la situazione attuale, il protettorato de facto e la permanenza della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza Onu (quella dell’integrità territoriale della Serbia) scoraggerebbe gli investitori e chiunque, per ragioni sentimentali (è il caso della cospicua diaspora) o imprenditoriali (quanti vedono nel Kosovo un potenziale hub balcanico dei corridoi energetici e commerciali), sarebbe pronto ad impegnarsi economicamente nella regione. Proprio la sintesi dei tre argomenti fa comprendere come lo scenario che si sta prefigurando abbia i contorni, esso si, dell’insostenibilità. Come si può pensare che, all’indomani dell’indipendenza, un Kosovo sotto embargo, con economia d’emergenza e de facto diviso, una regione fortemente destabilizzata (con i Serbi di Bosnia pronti a scomporre il puzzle bosniaco e le persitenti fibrillazioni macedoni), una Russia, la Cina ed 1/5 dell’Ue su posizioni ipercritche possano rappresentare i presupposti per un clima di cospicui investimenti? Risvegliarsi da questa illusione potrebbe costare caro al Kosovo. Allora il lungo cammino kosovaro potrebbe rivelarsi inutile? Nient’affatto. Non vi è per forza contrapposizione fra affermazione della propria identità e stabilità regionale. La chiave è un esercizio tripartito: Serbia e Kosovo hanno, ciascuno con la propria specificità, problemi simili: entrambe impegnate nel difficile cammino di integrazione euroatlantica, entrambe impegnate a dotarsi di infrastrutture logistiche ed energetiche, entrambe impegnate a superare una difficile eredità storica che penalizza i più giovani. Entrambe con l’esigenza di una cornice di stabilità regionale sulla via di Bruxelles. Ebbene i due stati, una volta affermata la rispettiva indipendenza, adottate le rispettive costituzioni ed i simboli nazionali, potrebbero dare vita ad un esercizio tripartito Serbia-Kosovo-Ue, un unicum giuridico (del resto la stessa Ue lo è) nella forma di una confederazione in cui i soggetti condividono competenze su singoli dossier: dalla tutela dell’eredità culturale-religiosa alle infrastrutture energetiche, dalla lotta all’human trafficking ai progetti di ricerca scientifica. In sostanza un esercizio tripartito, un elaborato confederale che possa garantire le rispettive indipendenze ed identità (anche su aspetti di grande impatto iconografico, come le rappresentative sportive, sul modello del Regno Unito) ma, nel rispettivo riconoscimento del diritto di “ingerenza”settoriale, possa al contempo risultare meno indolore per la Serbia. E garantire una stabilità regionale e globale di cui i Balcani (ed il Mondo) hanno gran bisogno.
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politica A meno di due mesi dal voto, troppi i nodi ancora da sciogliere
Udc, Sicilia, Storace e Circoli: tutte le spine del PdL di Nicola Procaccini
ROMA. Giorno dopo giorno cresce il numero e la mole degli ostacoli che si frappongono tra Silvio Berlusconi ed il suo quarto governo. E la vera sciagura per il Cavaliere è che a Walter Veltroni sta succedendo esattamente l’opposto. Dopo aver chiuso l’accordo con Di Pietro, rosicchiando qualche punticino ancora al divario che lo separa dal Pdl, ora l’ex sindaco di Roma sembra viaggiare piuttosto veloce in questa campagna elettorale. Forse perché favorito dalla spinta dei mass media di cui Walter è un abile manipolatore, forse perché la Cosa Rossa non ha cominciato ancora a “mordere i polpacci”del Partito democratico, o forse sarà merito del nuovissimo pullman hi-tech con cui il candidato del Pd girerà l’Italia nei prossimi giorni. Resta il fatto che tanto la marcia di Veltroni appare agile e spedita quanto quella di Berlusconi lenta. L’inventore del Pdl appare gravato da troppe preoccupazioni per dettare l’agenda politica al suo concorrente più agguerrito. Ecco quali sono i punti di crisi principali nel Pdl.
Innanzitutto c’è la questione Udc che si riveste di una attenzione molto particolare per via delle pressioni che stanno spingendo il Cavaliere verso l’apparentamento con il partito di Pierferdinando Casini. Da un lato c’è la Chiesa che vorrebbe per i cattolici una presenza più forte e qualificata all’interno del centrodestra, dall’altro lato ci sono i realisti-pessimisti del Pdl che iniziano a temere una bruciante sconfitta in termini di seggi al Senato. Una brutta gatta da pelare è quella dell’Udeur. Sembrerebbe che, sondaggi alla mano, l’inclusione di Mastella nel Pdl sia più dannosa che utile. Forse da qui viene la freddezza di Berlusconi nei suoi confronti, ma l’ex guardasigilli di Romano Prodi non ci sta e prima di annunciare la sua corsa solitaria, ha proclamato: “Silvio mi vuole fregare! Mi ha mollato? Ed io rimango nelle giunte locali di centrosinistra, e corro da solo, e gli faccio pure perdere le elezioni!”. Terzo capitolo, le remore di Fausto Bertinotti nell’attaccare Veltroni non le ha Francesco Storace nell’aggredire polemicamente Berlusconi. “Se ne pentirà amaramente” aveva sibilato, uscendo da Palazzo Grazioli, l’ex governatore del Lazio dopo il rifiuto del leader del Pdl ad un apparentamento con la Destra. Ed anche ieri Storace ci è andato giù duro: “Il decreto che ha fissato le modalità di raccolta delle firme per la presentazione
Avrebbe dovuto essere una passeggiata, ma il problema delle alleanze rallenta la campagna elettorale della nuova lista
delle candidature è un chiaro segno dell’accordo politico tra Berlusconi e Veltroni”. Sembra di assistere allo stesso psicodramma che sta andando in scena in Sicilia. La vera cassaforte elettorale del centrodestra, e dell’Udc in particolare.Tralasciando lo scontro Cuffaro-Miccichè, si registra quotidianamente una escalation di tensione nei rapporti fra i maggiorenti isolani della ex Cdl. “Un pacato e positivo scambio di opinioni” è stata l’espressione con cui Raffaele Lombardo, leader dell’Autonomia siciliana, ha raccontato ai cronisti l’incontro con Salvatore Cuffaro al bar dell’hotel in cui si è svolto il summit nazionale dell’Udc. Sarà stato anche positivo, ma pacato non è esattamente il termine che userebbero coloro che hanno assistito alla scena per descrivere lo scambio di opinioni tra i due.
Innumerevoli sono i nodi da sciogliere all’interno del Pdl in merito alle candidature per le elezioni amministrative. Una faccenda di cui Berlusconi avrebbe fatto volentieri a meno di interessarsi, ma siccome alcune situazioni locali (su tutte, Roma) avranno riflessi importanti sull’elezione generale, non può evitare di occuparsene. C’è poi la difficile questione della composizione delle liste del Pdl per Camera e Senato. E una impresa che sarebbe già stata difficile di per sé, nel momento in cui bisogna mettere d’accordo Forza Italia con Alleanza Nazionale ed una serie indefinita di piccoli partiti, rischia di diventare addirittura epica. Oggi si svolge a Roma la Direzione Nazionale di An, Berlusconi si augura che non ne escano sorprese, ulteriori fibrillazioni per il Pdl. Ma nel frattempo ad Arezzo si sta svolgendo un incontro tra i Circoli della Libertà che contestano la leadership di Michela Brambilla ed anche lì sarà interessante cogliere l’umore di una base elettorale stizzita e disorientata. Giungeranno da tutta Italia. Non si tratta di pochi militanti, ma di decine e decine di circoli e associazioni. Dopo essere stati ignorati e contrastati dalla Brambilla hanno chiesto di essere considerati da coloro che compilano le liste per le candidature in via dell’Umiltà. Ma se i vertici di Forza Italia ignoreranno le loro rivendicazioni lasciano intendere che le conseguenze politiche saranno imprevedibili. Insomma, molte sono le spine per Silvio Berlusconi e quella che era partita come la sua campagna elettorale più facile si sta rivelando come la più complicata dai tempi della sua “discesa in campo”.
politica
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Veltroni: «No alla grande coalizione» Alla vigilia della partenza del suo pullman elettorale, il segretario del Pd a Unomattina dice che con l’annuncio di andare da solo ha «rotto uno schema» della politica italiana e dice no alla grande coalizione: ««Scrivere insieme le regole del gioco e poi partita tra squadre diverse: questa è la mia idea della democrazia».
Rosa Bianca e Storace non devono raccogliere firme La Destra di Francesco Storace e la Rosa Bianca di Savino Pezzotta sono esonerati dalla raccolta delle firme per la presentazione delle liste elettorali. Questo, a quanto si apprende, il risultato delle modifiche al decreto legge in materia elettorale, approvate dal Consiglio dei Ministri.
Mastella: «Con Veltroni? Francamente no» Dopo aver annunciato che «il Pdl è troppo a destra» per lui, Clemente Mastella esclude di tornare nel centrosinistra pronunciando un netto no a chi gli chiede se sia possibile una riapertura del dialogo con Veltroni. «Con Veltroni francamente no», ha risposto il leader dell’Udeur.
Battute finali per la «telenovela» sull’alleanza Pdl-centristi
Udc, oggi si decide di Susanna Turco
ROMA. Va verso una partita a quattro, la corsa elettorale al voto del 13 aprile. È infatti sempre più lontana l’ipotesi di un accordo tra Silvio Berlusconi e l’Udc di Pier Ferdinando Casini. Da Benevento, il leader centrista chiarisce che la «telenovela» sarà chiusa nelle prossime ore: «Ho chiamato Berlusconi, ma era impegnato. Mi richiamerà». Cosa che il Cavaliere ha puntualmente fatto nel pomeriggio. Una telefonata «cordiale». Ma il margine della trattativa non sembra più largo di due giorni fa. Del resto, Casini già parla da sfidante, quando ribadisce «l’irrinunciabilità» del simbolo e chiarisce: «La nostra preferenza è per un accordo con il centrodestra, se non si potrà fare, la nostra decisione è quella di andare da soli». Ma in questo caso, «ci sarà scontro, come tra Bertinotti e Veltroni». Insomma una campagna «a 360 gradi», nella quale il leader centrista si posiziona già come punto di riferimento dei cattolici: «Veltroni e Berlusconi hanno spiegato che i temi di natura etica non devono entrare in campagna elettorale, io credo il contrario perché fare le leggi è compito dei politici», dice a Benevento.
Al di fuori dell’ufficialità, e della strategia di addossare ogni responsabilità della rottura al Cavaliere, sembra che Casini stia tentando davvero di trovare un punto di mediazione con il leader del Pdl. Ma il clima non è di quelli più accoglienti. E del resto sulla fermezza di Arcore pesa anche la
consapevolezza che porte spalancate all’Udc potrebbero creare problemi nei rapporti con Alleanza nazionale. Il che non vuol dire però che uno spiraglio non ci sia: dopo aver ridotto all’osso Casini – argomentano in molti – Berlusconi potrebbe in extremis offrire una mediazione onorevole, che non offenda gli altri suoi alleati.
Ancora più lontana appare la possibilità della rinascita di un rinnovato Ccd. Dopo la rottura col Cavaliere grandemente influenzata dai sondaggi arrivati a Palazzo Grazioli (secondo cui ”troppa Udeur”nuocerebbe al Pdl nel nord) Clemente Mastella, al
Clemente Mastella rompe con Berlusconi e apre al centro: «Andiamo da soli, anche se spero che si creino delle compatibilità con altri» termine dell’ufficio politico del suo partito, annunciava: «Ci presenteremo da soli, anche se speriamo che si creino le condizioni di compatibilità con altri». Un appello all’«enorme spazio che si crea al centro» che però sembra destinato a cadere nel vuoto. Se la Rosa bianca aveva escluso già da tempo l’ipotesi di imbarcare l’ex Guardasigilli, ieri anche Casini ha infatti chiuso la porta al suo ex sodale: «La mia gente non
lo capirebbe», spiegava ieri. Così, a guardarla da qui, se le ipotesi delle corse in solitaria di Casini, Mastella e Rosa bianca dovessero essere confermate si aprirebbe una ben strana competizione al centro, proprio tra i soggetti che negli ultimi anni più hanno lavorato sull’idea di una ricomposizione dei moderati di destra e di sinistra.
L’assetto a quattro che sembra profilarsi in queste ore non fa comunque particolarmente felice nessuno dei protagonisti. Non Berlusconi, che si trova a gestire una partita più complicata di quella che gli si prospettava all’indomani della caduta del governo Prodi, soprattutto per quanto riguarda i futuri assetti del Senato. Non Casini che certamente si trovava nel suo elemento quando si trattava di correre soli ma in coalizione con il Pdl, e che invece adesso, andando solo, avrebbe margini di crescita più ampi, ma correndo rischi maggiori. L’assetto a quattro non giova nemmeno a Bertinotti: la forzata discesa in campo di Casini, infatti, offre al Partito democratico qualche chance in più in più, rendendo più sensato il cosiddetto «voto utile» e provocando quindi uno spostamento degli «indecisi» verso Veltroni. È il segretario del Pd, quindi, l’unico a pensaee di non essere danneggiato dalla discesa in campo di Casini. Anche se una proporzionalizzazione della sfida alla fine non gli gioverebbe.
Radicali verso la lista autonoma Il partito di Veltroni ha proposto ad Emma Bonino e ad altri esponenti radicali se sono intenzionati a entrare nelle liste del Pd. Non ancora sciolta la riserva, ma Pannella sembra orientato al no.
Appello della Boniver per Contrada Margherita Boniver ha incontrato il ministro della Giustizia, Luigi Scotti per sollecitare il differimento della pena o gli arresti domiciliari per Bruno Contrada. «L’ho visto, alcune settimane fa - ha detto la Boniver in carcere a Santa Maria Capua Vetere in condizioni spaventose incompatibili, a mio parere, con il regime carcerario. Ho appreso che, sempre nel pomeriggio, l’anziano poliziotto è stato dimesso dall’ospedale dopo un ischemia celebrale e ritengo che la sua detenzione equivalga ad una condanna a morte».
Burani: fondi per i consultori «Nel prossimo governo Berlusconi proporremo un piano di interventi straordinario in favore dei consultori con un progetto obiettivo biennale che metta a disposizione fondi per ridurre ancora di un altro 50 per cento il numero degli aborti». Lo ha dichiarato la senatrice e responsabile nazionale famiglie e minori di Forza Italia, Maria Burani Procaccini. «È un obiettivo possibile - ha aggiunto in considerazione del fatto che non è mai esistito un piano strutturale che prevedesse obiettivi certi per i consultori, con incentivazioni al personale che vi lavora».
Il 14 marzo l’Unicef incontra i politici L’Unicef ha promosso per il 14 marzo un incontro aperto alle forze politiche per discutere di lotta alla pedofilia, condizione degli immigrati e dei rom. Temi che sono al centro della campagna elettorale appena iniziata. «In questo appuntamento l’Unicef Italia - ha detto il presidente, Antonio Sclavi - intende presentare ai partiti politici un documento di impegno sui diritti dei bambini e degli adolescenti, nel quale sono stati individuati i passi più urgenti da compiere; tra questi: la creazione di un Garante nazionale per l’infanzia, l’approvazione di un Piano nazionale infanzia, lo stanziamento di risorse adeguate anche per la cooperazione internazionale, la lotta alla discriminazione e alla violenza».
Sodano: misure per uscire dall’emergenza rifiuti Il presidente della commissione Ambiente del Senato,Tommaso Sodano, commentando le dichiarazioni della delegazione dell’Unione europea, invisita a Napoli per la crisi dei rifiuti ha dichiarato: «Occorre avviare da subito misure strutturali per superare l’emergenza. Le sanzioni si possono evitare se si cambia approccio in tempi brevi occorre spingere sulla raccolta differenziata e avviare al piu’ presto, una volta individuate le discariche, la bonifica degli impianti di cdr, che sono del tutto fuori legge».
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pensieri
L’INTERVENTO
Un progetto sbagliato per il centro di Firenze
La tramvia senza senso di Giannozzo Pucci ro consigliere comunale quando si cominciò, nella prima metà degli anni ’90, a discutere della tramvia e del suo tracciato, in occasione del piano regolatore in approvazione allora. Ero e sono favorevole alla tramvia in una città come Firenze, che non si presta, nè per la sua dimensione, nè per la qualità del suo rapporto tradizionale coi cittadini, a una metropolitana. Però proprio per la silenziosità della tramvia moderna ero ferocemente contrario a che, in presenza di alternative, il tracciato passasse per strade principali e di grande traffico: avevo verificato la possibilità di disegnare, specie in periferia e in zone come l’Isolotto, un tracciato in aree secondarie e retrostanti i casermoni che desse sia ai passeggeri che ai cittadini un rapporto nuovo e positivo con il mezzo di trasporto. Per quanto riguarda il centro storico, abbiamo avuto già in passato il tram in piazza del Duomo, ma il dubbio che mi rodeva riguardava la vitalità del centro, che viene decisamente ridotta
E
con la pedonalizzazione. Una strada pedonalizzata, incatenata in modo duro, va bene forse per i negozi delle grandi marche, le banche, non per una città che vuole vivere in tutti i suoi molteplici aspetti. In particolare un percorso della tram-
Savonarola diceva: «Firenze non si move se tutta non si dole». Ma non basta il dolore per muoversi, occorre anche il sogno via che dalla Stazione di Santa Maria Novella arrivi a piazza del Duomo per poi girare e arrivare a piazza della Libertà è un non senso sia trasportistico che urbanistico. È sensato invece che la tramvia arrivi a piazza della Libertà passando per i viali.
Resto convinto da anni che la soluzione per il centro storico di Firenze sia il ”tutto elettrico” in ogni forma possibile di trasporto: dai bussini, ai taxi collettivi elettrici senza radio a bordo e affidati a padroncini
tremare è un partito che si era andato ricostituendo nell’anno 2007 e che si era dato un nome impegnativo, quello di Partito socialista. La ricostituzione avrebbe dovuto concludersi con un congresso al quale i Boselli, i Craxi e i De Michelis, viste le difficili contingenze, dovranno forse rinunciare. Enrico Boselli e Roberto Villetti, dopo il fallimento della Rosa nel pugno, hanno posto mano, nell’anno passato, a un disegno, quello dell’unità socialista, rimettendo insieme gruppi e personalità singole che avevano vissuto esperienze diverse, disparate in qualche caso, nei quindici anni seguiti alla fine del Psi craxiano. Accorsero i gruppi di Bobo Craxi e di De Michelis, i calabresi riuniti attorno all’on Zavattieri e al deputato cosentino Mancini, Rino Formica, e Nerio Nesi che nel suo percorso era finito nella Rifondazione cossuttiana. Si erano aggiunti, dono insperato, parlamentari reduci dalla scissione dei Ds nel momento della formazione del Pd, fra i quali Angius,Turci, Spini, sì da assicurare al gruppo parlamentare una discreta consistenza. La riunificazione di tante forze
A
con un limite di prezzo a passeggero che non superi il biglietto dell’autobus, alle auto elettriche, eccetera, con la cancellazione del maggior numero di sensi unici, per ridare la massima qualità al rapporto fra la città e coloro che la abi-
tano. Ciò però dovrebbe comportare anche il divieto ai motorini non elettrici e un buon servizio di motorini elettrici e biciclette in affitto a basso costo. Esistono in Inghilterra anche dei piccoli tram senza fili con una base spostabile che, senza pedonalizzazioni, possono essere adatti a passare il centro da parte a parte. A Firenze la sostituzione delle macchine coi motorini in centro è stata una scelta conservatrice dell’archeologia modernista, cioè legata alla conservazione della cultura del mezzo privato. La riprova che una città ha avviato a soluzione il problema del traffico nel centro si ha quando l’organizzazione dei mezzi pubblici e semipubblici è tale da rendere migliore e a minor costo la vita a chi non ha il mezzo di trasporto privato. Ma per questo occorre realizzare un cambiamento graduale dalla civiltà del mezzo individuale a quella del mezzo comune e il motorino non va in questa direzione
Dopo che il Partito Democratico ha preferito Di Pietro
I socialisti rifiutati di Arturo Gismondi sparse fu un successo e come tale venne celebrato. Il limite era quello di rimettere insieme un ceto politico disperso, povero di collegamenti con la società, e alla fine rivelatosi anche povero di idee. Tanto vero che nell’ultimo anno la presenza in Parlamento è apparsa, nel turbinio delle polemiche e delle rotture, del tutto afasica limitandosi a tamponare le fratture che via via si aprivano nella maggioranza prodiana. Un partito di questa natura, che ha visto svanire in pochi giorni la prospettiva dell’alleanza col Pd e persino quella di un ritorno possibile alla Rosa nel pugno, si trova improvvisamente a fare i conti con un prevedibile e penoso isolamento. Aggravato dalla umiliazione di vedersi preferito, dal Pd di Veltroni, l’Italia dei Valori di An-
tonio Di Pietro. L’unica offerta venuta a Boselli da Mussi, che si sappia, è quella di un possibile ”collegamento tecnico” con l’estrema dinanzi al quale i socialisti appaiono ragionevolmente dubbiosi. Al momento, il Ps appare, fra i piccoli partiti colpiti dalle strategie di Veltroni e Berlusconi, il più isolato. Vedremo come Boselli, Villetti, e De Michelis supereranno questa impasse. In verità, però, la debolezza del Ps non consiste solo nell’aver messo insieme esperienze diverse, e disparate. La stessa storia dello Sdi rivela la debolezza di un socialismo da sempre legato, fin dalle prime elezioni assicurate dall’allora Pds in collegi sicuri ad alcuni dei suoi leader. Così va letta l’afasia del gruppo parlamentare nell’ultima legislatura, nella quale il partito si è limi-
oltre a mantenere un alto livello di inquinamento dell’aria. Per una trasformazione del genere penso che sarebbe opportuno fare delle prove generali di superamento dei livelli di inquinamento e perciò di blocco del traffico in tutta la città preparando i cittadini con settimane di anticipo, chiedendone la collaborazione per indicare le disfunzioni e le idee migliorative e organizzando le alternative per l’emergenza con tutti i mezzi non inquinanti possibili. Ma per realizzare un cambiamento di civiltà del traffico occorre una volontà politica insieme a una certa fantasia pratica che le gabbie ideologiche tendono a schiacciare.
Da anni è diffusa trasversalmente alle parti politiche, ma strutturalmente incardinata nella sinistra, che detiene il potere sui dogmi urbanistici, un’ideologia quasi religiosa che considera il centro storico non un luogo per la vita attuale ma solo per il turismo, le banche e gli uffici di rappresentanza, perciò da mettere il più possibile sotto una cappa di vetro e ricavarci una rendita di posizione. L’attuale sindaco Domenici è un adepto di questa religione infatti ha persino ceduto al museo l’ufficio del sindaco che è stato di Fabiani, La Pira, Bargellini, per finire in una stanza più moderna e astorica. Di fronte a queste opzioni Firenze si mette in ibernazione aspettando che il flagello faccia il suo corso e arrivino tempi migliori? Savonarola diceva «Firenze non si move se tutta non si dole», ma non basta il dolore per muoversi, occorre il sogno.
tato ad amministrare il capitale, il tesoretto di un laicismo che gli stessi radicale hanno nelle ultime vicende notevolmente annacquato. Il Ps oggi, come lo Sdi ieri, appare lontano, nella fedeltà mostrata nell’ultima legislatura all’Unione prodiana, a quella base socialista che ancora nelle ultime elezioni alla quale i socialisti hanno potuto partecipare, quelle del lontano 1992 aveva sfiorato il 15 per cento dei voti. Un elettorato al quale né il Pds né lo Sdi, fin dalle elezioni del 1994, riuscirono mai ad attingere. Ogni ricerca sui flussi elettorali arriva alla conclusione che gli elettori socialisti avevano nella grandissima parte, trovato riparo nella casa messa su da Berlusconi E molti segni lasciano intendere che la situazione da allora non sia cambiata. I socialisti di Boselli e di Villetti, a parte qualche voce isolata, non si posero mai il problema della tragedia craxiana, e della reale natura della tempesta giudiziaria negli anni ’92 e ’93. Oggi mostrano di sentirsi umiliati dalla scelta del Pd di Veltroni in favore di Di Pietro che appare invece del tutto comprensibile per un partito che ha messo insieme quel che resta del Pci e della sinistra Dc.
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parole
otto la superficie apparentemente tranquilla della vita quotidiana, la popolazione britannica è impegnata in uno scontro epocale con l’Islam. Tre sviluppi della scorsa settimana, ognuno di essi riassuntivo di un processo che dura da anni - e lungi dal costituire delle semplici eccezioni esemplificano i cambiamenti in corso. Innanzitutto, il governo britannico ha deciso che gli atti di terrorismo perpetrati dai musulmani in nome dell’Islam, in realtà, non sono correlati all’Islam e non sono neppure anti-islamici. Questa idea ha preso piede nel 2006, quando il Foreign Office, temendo che l’espressione “guerra al terrore”infiammasse i musulmani britannici, cercò di utilizzare un linguaggio che tutelasse ”i valori condivisi per contrastare i terroristi”. All’inizio del 2007, l’Unione europea pubblicò un prontuario confidenziale che bandiva l’uso dei termini “jihad”, “islamico” e “fondamentalista”, proponendo piuttosto alcune espressioni “inoffensive”. La scorsa estate, il premier Gordon Brown proibì ai suoi ministri di utilizzare il vocabolo musulmano correlato al terrorismo. A gennaio, il ministro degli Interni Jacqui Smith è andata oltre, definendo di fatto il terrorismo come “antiislamico”. E la scorsa settimana il ministero degli Interni ha finito per ingarbugliare del tutto le cose, pubblicando un manuale di conversazione sul controterrorismo, che dà istruzioni ai funzionari pubblici di parlare soltanto di estremismo violento e di assassini criminali e non di estremismo islamista e di fondamentalisti-jihadisti.
S
In secondo luogo, e sempre dopo diversi anni di evoluzione, il governo britannico riconosce adesso i matrimoni poligami. Esso ha mutato le disposizioni nel “Tax Credits (Polygamous Marriages) Regulations 2003”. Precedentemente, solo a una moglie era permesso di ereditare i beni esenti da imposte del marito defunto. Questa legislazione permette a più mogli di ereditare esentasse, purché il matrimonio sia stato contratto in un paese dove la poligamia è legale, come in Nigeria, Pakistan o in India. In un settore correlato, il Dipartimento per il Lavoro e le Pensioni ha iniziato a concedere sostegni finanziari agli harem sotto forma di sussidi, come indennità di disoccupazione, assegni integrativi per inquilini non abbienti e sgravi fiscali. La scorsa settimana è giunta notizia che, dopo una disamina durata dodici mesi, quattro dipartimenti governativi (Lavoro e Pensioni, Tesoro, Fisco e Dogane, Ministero degli Interni) sono giunti alla conclusione che il riconoscimento ufficiale della poligamia sia «la migliore opzione possibile» per il Governo di Sua Maestà.
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La Shari’a europea parte della Gran Bretagna. E mette in PERICOLO tutto l’Occidente di Daniel Pipes
L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, dice che la «legge islamica sembra ormai inevitabile» in Gran Bretagna
In terzo luogo, l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, ha approvato l’applicazione di alcuni aspetti della legge islamica (la Shari‘a) in Gran Bretagna. Approvare i suoi elementi civili, egli ha spiegato, «sembra inevitabile», poiché non tutti i musulmani britannici si riconoscono nel sistema giudiziario esistente e l’applicazione della Shari‘a aiuterebbe la loro coesione sociale. Se i musulmani potessero fare appello a una corte civile islamica non dovrebbero essere messi di fronte alla «rigida alternativa tra la fedeltà alla loro cultura o la lealtà allo stato». Continuare a insistere sul «monopolio legale» della common law britannica, piuttosto che autorizzare la Shari‘a, ha ammonito Williams, causerebbe «un certo pericolo» per il Paese.
Il premier Brown ha immediatamente criticato il suggerimento di Williams: la Shari‘a, ha dichiarato Downing Street, «non può essere utilizzata come giustificazione per infrangere
le leggi britanniche, né i principi della Shari‘a possono essere invocati in una corte civile. Il Primo ministro ritiene che in questo Paese debbano applicarsi le leggi britanniche basate sui valori britannici». Critiche alle dichiarazioni del primate anglicano sono inoltre arrivate da tutti i lati dello spettro politico: da Sayeeda Warsi del fronte conservatore, ministro ombra (musulmano) per l’integrazione e la coesione sociale; da Nick Clegg, leader dei Liberal-democratici e da Gerald Batten del Partito indipendentista del Regno Unito. Gruppi laici e cristiani si oppongono a Williams. Così anche Trevor Phillips, a capo della commissione per l’eguaglianza. In Australia, la Chiesa anglicana ha biasimato la sua proposta unitamente a membri di spicco della sua stessa Chiesa, incluso il suo predecessore Lord Carey. Melanie Phillips ha definito il suo ragionamento «del tutto confuso assurdo ed erroneo». Il quotidiano Sun si è così espresso con un editoriale: «È facile denigrare l’arcivescovo di Canterbury, trattandolo da vecchio idiota. In realtà, egli è una pericolosa minaccia per la nostra nazione». Per poi concludere con toni caustici che «l’arcivescovo di Canterbury ha sbagliato chiesa».
Benché sia stato ampiamente biasimato (e a rischio di perdere l’incarico), può darsi che Williams abbia ragione in merito al fatto che la Shari‘a sia inevitabile. Il ministro della Giustizia olandese ha annunciato che «se due terzi della popolazione olandese domani si pronunciasse a favore dell’introduzione della Shari‘a, allora ciò dovrebbe essere possibile». Un giudice tedesco ha fatto riferimento al Corano in una ordinaria causa di divorzio. In Gran Bretagna già esiste un parallelo sistema giudiziario, il gar somalo. Questi sviluppi mostrano che l’appeasement britannico riguardo la guerra al terrore, la natura della famiglia e la supremazia della legge sono parte di un quadro più ampio. Queste tendenze costituiscono una sfida, ancor più della minaccia alla sicurezza posta dalla violenza islamista, e probabilmente esse cambieranno la vera natura della vita occidentale.
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mondo
Il premio Nobel va alla radice della crisi che infiamma il Paese. E ipotizza una via di uscita stabile per Kibaki e Odinga
Il Kenya in guerra con se stesso «Agli scontri è stata data una connotazione etnica. I kenioti sanno che i “conflitti tribali” rappresentano una belva che i politici risvegliano soprattutto in occasione delle elezioni politiche. Per creare uno Stato nazionale coeso, la classe dirigente deve investire tempo energie e risorse nel garantire la libertà di tutti, sicurezza e un’equa distribuzione delle risorse»
di Wangari Maathai il momento del “tutto per tutto” per il Kenya. Dopo settimane di stallo, Mwai Kibaki e Raila Odinga, ognuno dei quali rivendica la vittoria delle elezioni presidenziali dello scorso 27 dicembre, hanno dato il via alle trattative. Le due parti, nell’ambito dei negoziati cui sovrintende l’ex Segretario Generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, hanno raggiunto una prima intesa. Alcuni hanno chiesto l’istituzione di una Commissione per la verità e la riconciliazione, indispensabile per il riconoscimento delle responsabilità degli autori delle recenti violenze. Per l’Unione Africana, la crisi keniota costituisce una delle attuali priorità, così come per l’Unione Europea e ed il Congresso statunitense, che in settimana hanno dibattuto del risultato elettorale viziato. Nutro un cauto ottimismo in ordine alla possibilità di trovare una soluzione e riportare la pace nel mio Paese. E’ tuttavia assolutamente necessario chiarire le cause sottese alle violenze, cessando di nasconderle come i leader kenioti hanno fatto in passato. Per sei settimane circa, il Kenya è sembrato essere in guerra con se stesso. Purtroppo, agli scontri è stata data una connotazione etnica. I kenioti sanno che i “conflitti tribali” rappresentano
È
una belva che i politici sanno risvegliare, soprattutto in occasione delle elezioni politiche. Nel periodo precedente e successivo alle elezioni del 1992, la violenza straziò le popolazioni della Rift Valley. Centinaia furono le vittime (forse più) e migliaia i profughi, alcuni dei quali non hanno ancora fatto ritorno alle loro case. Per risolvere la crisi attuale, dobbiamo comprendere le ragioni del prodursi di questi scontri ricorrenti. Soltanto allora le ferite inizieranno a guarire e la gente potrà cominciare a
ratterizzato da un elevato grado di competitività, la proprietà terriera è divenuta terreno di battaglia. Per i politici non è difficile persuadere la popolazione, promettendo terre in cambio di voti. Se l’unico modo di entrare in possesso di un appezzamento di terra è cacciando con la forza un compatriota, i vicini diventano le vittime designate. E l’impunità di tali reati ne incentiva gli autori, che scoraggiano e traumatizzano le loro vittime, in maniera che non facciano più ritorno. I pregiudizi e gli stereotipi delle diverse
Riforme costituzionali, legali e istituzionali entro l’anno: è il fulcro dell’intesa siglata da governo e opposizione. Annan è fiducioso di chiudere positivamente la trattativa la prossima settimana sperare nel futuro. Uno dei fattori scatenanti è costituito dall’iniqua distribuzione delle risorse naturali del Paese e segnatamente la terra. In passato, il governo coloniale ha costretto con la forza numerosissimi kenioti a lasciare le loro terre per far posto ai coloni. Con l’indipendenza, la terra è passata in altre mani, ma restano aperte le spinose questioni della proprietà e della distribuzione. Nello scenario politico keniota, ca-
comunità hanno origini lontane nel tempo e vengono utilizzati per alimentare odio e risenti-
mento. Lo Stato moderno africano consiste essenzialmente in un insieme slegato di aree tribali o “micro-nazioni”. Il Kenya ne ha 42. La più vasta ha diversi milioni di abitanti, mentre la più piccola ne ha solo qualche migliaio. Il potere politico è determinato da questi numeri. I conflitti tribali, in Kenya come in tutta l’Africa, testimoniano la scarsa solidità degli stati nazionali. La maggior parte degli Stati africani fu creata dalle potenze coloniali all’atto del loro ritiro, riunendo o dividendo le micro-nazionalità. La maggior parte degli africani non ha capito il nuovo stato nazionale ed è rimasta in larga misura fedele ed attaccata alla propria micro-nazionalità. Dal canto loro, le élite al potere sono rimaste distaccate e lontane. Ancora oggi, per un semplice cittadino africano, una minaccia contro la propria micro-nazionalità o quelli che egli considera i suoi capi ha maggiore rilevanza di un pericolo per la nazione. I conflitti tribali sono inoltre alimentati dalla povertà, dalla corruzione e dalla percezione di un’iniqua distribuzione delle risorse. Le micro-nazionalità agognano l’ascesa alla presidenza da parte di uno dei loro, cosicché giunga per quella comunità il suo “turno a tavola”. Per creare uno stato nazionale coeso, la classe dirigente deve
investire tempo, energie e risorse nel garantire la libertà di tutti, sicurezza ed un’equa distribuzione delle risorse. E invece di cercare di distruggere le micro comunità di cui sopra, gli africani dovrebbero abbracciare ed includere le loro diverse espressioni culturali, linguistiche e valoriali. Integrando il meglio delle comunità locali nello stato nazionale, contribuirebbero ad un arricchimento generale. Basti pensare che: le micro-nazionalità inizierebbero a godere dei benefici dell’unità nella diversità. Non vi sarebbe più bisogno che qualcuno inneschi ed alimenti conflitti tribali tra popolazioni vicine. I rappresentanti verrebbero eletti per le capacità e l’impegno dimostrati, anziché grazie ai voti raggranellati nelle loro comunità. In tal modo, gli africani riuscirebbero ad andare oltre la politica gretta per abbracciare il sogno di un’Africa Unita, nutrito non soltanto dal loro Paese ma dalla stessa Unione Africana. Tutto questo richiede capacità di guidare il Paese, non solo da parte dei politici ma di tutti noi. E’ l’unica via verso una soluzione all’attuale crisi keniota e, quindi, verso la Pace. © Pfd New York group Nobel per la Pace nel 2004, parlamentare keniota dal 2002 al 2007
mondo
16 febbraio 2008 • pagina 11
L’eliminazione di Mughniya è un duro colpo per l’Iran e Hezbollah
Damasco non è più una fortezza terrorista di Emanuele Ottolenghi artedì sera scorso a Damasco, in un quartiere residenziale sede di varie agenzie di sicurezza siriane e di uffici iraniani, Imad Mughniya è saltato in aria salendo sulla sua auto, in una curiosa esplosione che ha causato poco danno al di là della morte dello stesso Mughniya. Mughniya era il terrorista per eccellenza, l’inventore dell’attentato suicida e l’uomo chiave delle operazioni di Hezbollah. Divenuto famoso per aver organizzato gli attentati all’ambasciata americana di Beirut e al quartiere generale dei marines americani e dei parà francesi, dove morirono più di trecento persone. E per aver giocato un ruolo chiave nel dirottamento a Beirut di un jumbo Twa, la cui vicenda si concluse con l’esecuzione a bordo di un cittadino americano il cui corpo fu poi gettato sulla pista. In più Mughniya era responsabile degli attentati contro l’ambasciata israeliana e un centro ebraico a Buenos Aires (più di cento morti) nel 1994, e contro le torri di Khobar in Arabia Saudita nel 1996. Non solo. Secondo esperti di al Qaeda e più di recente ha tessuto legami con Abu Musa Al-Zarqawi. Rispondeva direttamente ad Ali Khamenei, il leader supremo dell’Iran ed era parte integrante del regime iraniano e delle sue guardie rivoluzionarie. La sua morte è un duro colpo per l’Iran e per Hezbollah, il cui leader spirituale, lo Sceicco Fadlallah ha dichiarato che Hezbollah ha perso una delle sue“colonne”nella guerra santa contro Israele. La scomparsa di questo personaggio, chiunque sia dietro l’attentato, è un successo per la lotta al terrorismo e un duro colpo al network del terrore e ai suoi sponsors. Ma al di là degli effetti di breve e lungo termine occorre fare alcune considerazioni importanti per la politica estera occidentale nella regione, che emergono da questo episodio. Primo, Mughniya era nascosto a Damasco, insieme a molti altri leader terroristi. Chi sostiene il dialogo con la Siria, specie a Washington, ora deve spiegare come mai il terrorista più ricercato sulla lista della Fbi, era ospite del regime. Occorre insomma riconoscere che la presenza di un terrorista del rango di Mughniya in Siria non si sposa bene con la teoria del dialogo: la Siria rimane un rifugio per i terroristi. Secondo, l’imbarazzo causato agli avvocati del dialogo è nulla a para-
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Domenica ciprioti alle urne Oltre mezzo milione di ciprioti vanno alle urne domenica per scegliere il nuovo presidente della Repubblica in un clima di estrema incertezza circa il risultato. I tre principali candidati sono il presidente uscente Tassos Papadopoulos, 73 anni, avvocato, più volte ministro e fondatore del Partito Democratico (Diko, centro); Demetris Christofias, 61 anni, presidente del Parlamento e da 20 anni segretario generale del Partito progressista dei Lavoratori (Akel, comunista); Ioannis Cassoulides, 60 anni, deputato europeo di Unione Democratica (Disy, centro-destra) ed ex ministro degli Esteri che si presenta come indipendente. In base agli ultimi sondaggi d’opinione, i tre candidati sono praticamente testa a testa con circa il 30% ciascuno nelle preferenze espresse dagli elettori.
Somalia, 6 mln per salvare 90mila bimbi Servono 6 milioni di euro per salvare la vita di 90.000 bambini somali. Soldi che «devono» arrivare entro le prossime due settimane. A riportare sotto i riflettori la dimenticata crisi umanitaria in Somalia è stato il rappresentante Unicef per il Paese del Corno d’Africa, Christian Balslev-Olesen. «Ci troviamo di fronte a una bomba ad orologeria che sta per esplodere», ha dichiarato da Ginevra il funzionario Onu, «e non abbiamo i mezzi necessari per disinnescarla». Balslev-Olesen ha spiegato che la situazione somala è ulteriormente peggiorata negli ultimi mesi e attualmente oltre due milioni di persone (il 24 per cento della popolazione) sopravvivono solo grazie agli aiuti umanitari.
McCain: nessun ritiro immediato dall’Iraq La guerra in Iraq entra prepotentemente nella campagna elettorale per le presidenziali Usa. Il candidato repubblicano John McCain ha preso le distanze da quanto dichiarato dai due concorrenti democratici, affermando che ritirarsi prematuramente dall’Iraq significherebbe dar vita ad un «genocidio». In un’intervista alla Cnn, McCain ha criticato le promesse di Hillary Clinton e Barack Obama per un ritiro delle truppe nei primi mesi del loro eventuale insediamento alla Casa Bianca. «Questo significherebbe il caos», ha riferito il 71enne senatore dell’Arizona nel corso del programma di Larry King.
Hillary sorride dopo la conta in New Mexico
La capacità di colpire gli estremisti islamici sotto il naso dell’Intelligence siriana provoca non poco imbarazzo al regime di Assad gone della costernazione che l’eliminazione di Mughniya deve aver causato all’Iran e alla sua fiducia nel regime di Damasco. Mughniya si è unito alle sue 72 vergini in paradiso il giorno in cui il ministro degli esteri iraniano Manuchehr Mottaki è arrivato a Damasco in visita ufficiale. La sua presenza al funerale a Beirut giovedì non fa altro che confermare il legame intimo tra Hezbollah e Tehran. Terzo, la capacità di colpire personaggi come Mughniya in Siria provoca non poco imbarazzo anche al regime siriano e dimostra come la Siria sia tutt’altro che impenetrabile. Mughniya è stato eliminato sotto il naso dei servizi segreti siriani, dopo che la Siria ha subito una serie non indifferente di recenti imbarazzi l’ultimo dei quali il bombardamento israeliano della sospetta centrale nucleare costruita con aiuto nordcoreano non ha riscosso alcuna solidarietà nel mondo arabo. I leader di Hamas e della Jihad Islamica ora do-
vranno stare sul chi vive, persino a Damasco. Chiaramente, non è detto che siano stati gli israeliani. Ma chiunque abbia firmato quest’operazione, è evidente che sono la deterrenza di Hezbollah e della Siria – non d’Israele – ad aver patito. Quarto, Hezbollah, dopo aver per anni negato d’essere altro che un’organizzazione popolare libanese intenta a difendere gli sciiti e a combattere Israele, ha dato al terrorista Mughniya un funerale degno d’un re, ammettendo il proprio legame con un individuo integrale alla struttura e alla catena di comando della rivoluzione iraniana: chi continua a credere ai proclami d’innocenza di Hezbollah dovrebbe ricredersi. L’eliminazione di Mughniya segna un’importante vittoria nella lotta contro il terrorismo e un duro colpo alle forze allineate all’Iran nella regione. Chi ne riconosce il pernicioso ruolo non può che essere soddisfatto dell’esito di quest’operazione.
Dopo tante brutte notizie, una piccola buona notizia per Hillary Clinton che, dopo 12 giorni di riconteggi, è stata dichiarata la vincitrice in New Mexico. Una vittoria di misura, per esattezza per 73.105 voti contro i 71.396 di Barack Obama, che le fa attribuire solo due delegati in più, 14 contro 12, dell’avversario che ha comunque un vantaggio di circa 130 delegati eletti nel conteggio totale.
Accordo economico tra Cuba e Iran I governi di Cuba ed Iran hanno firmato a L’Avana un accordo scientifico-tecnologico «con l’obiettivo di contribuire allo sviluppo economico e sociale di entrambe le nazioni». Il telegiornale cubano ha precisato che l’intesa si propone di aumentare l’interscambio di studiosi, ricercatori, specialisti e professori dei due paesi «e di rendere possibile l’organizzazione di seminari bilaterali e corsi su temi di interesse bilaterale». L’accordo è stato firmato dal ministro iraniano della Scienza, Mohammad Medi Zahedi, e dal primo viceministro della Scienza cubano, Fernando Gonzalez.
Le Farc rifiutano la mediazione dei vescovi I vertici del gruppo guerrigliero colombiano, Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), hanno rifiutato la proposta di mediazione avanzata nei giorni scorsi dalla Chiesa locale e dal governo di Spagna. Secondo il portavoce delle Farc Raul Reyes sia il governo di Madrid che la Chiesa locale di sarebbero “autoesclusi” dal ruolo di mediatori nei negoziati per lo scambio di prigionieri, prendendo posizione a fianco del governo del presidente Alvaro Uribe. Alla fine di gennaio, i vescovi colombiani avevano ribadito la disponibilità della Chiesa a «facilitare e ad accompagnare tutti i processi che possano favorire la costruzione di una Colombia riconciliata», proponendo una «zona d’incontro» nella quale i delegati del governo e i rappresentanti delle Farc potessero riunirsi per definire i termini di un accordo che portasse alla liberazione di tutti gli ostaggi in mano alla guerriglia. Una proposta analoga era stata avanzata anche da Madrid, così come da altri governi internazionali. La Spagna e la Chiesa, però, erano state le mediazioni scelte dal presidente colombiano Uribe.
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BIOETICA E AMBIENTE di Riccardo Paradisi idea di uno sviluppo evolutivo graduale della nostra specie da creature come l’australopiteco, attraverso il pitecantropo, il sinantropo e il neanderthaliano, deve essere considerata come totalmente priva di fondamento e va respinta con decisione. L’uomo non è l’anello più recente di una lunga catena evolutiva, ma, al contrario rappresenta un taxon che esiste sostanzialmente immutato fin dagli albori dell’era Quaternaria… Sul piano morfologico e anatomo-comparativo, il più primitivo – o meno evoluto – fra tutti gli ominidi risulta essere proprio l’uomo di tipo moderno. Per questo sono senz’altro meno lontani dalla verità coloro che sostengono l’ipotesi opposta, e cioè che Australopiteci, Arcantropi e Paleoantropi siano tutte forme derivate dall’uomo di tipo moderno».
D’
Questa riflessione di Giuseppe Sermonti – la cui critica al darwinismo inizia nel 1970 appare all’ortodossia scientista una pura e semplice eresia. Perchè mette in discussione un dogma, un assunto a priori: e cioè che la biologia debba accettare come assioma la teoria dell’evoluzione della specie malgrado le sue aporie le sue contraddizioni, i suoi anelli di congiunzione mancanti. Bisogna ammettere che è un modo molto curioso di intendere la ricerca scientifica questo, più vicino al fondamentalismo religioso che alla metodologia laica sperimentale. Ma è proprio sull’imposizione di un paradigma specifico, quello molecolare e meccanicistico, che la cosiddetta scienza dell’evoluzione, fa valere i suoi principi astratti finendo col mettere in disparte, nell’esplicito disinteresse per le forme, persino le osservazioni naturalistiche. Per la scienza ufficale infatti Adolf Portmann, professore di biologia e direttore dell’Istituto zoologico dell’Università di Basilea, che dissentì dalle spiegazioni consuete del vivente, è quasi un alieno. Neogoethiano, antievoluzionista Portmann dimostrò che quell’idea di lotta per la sopravvivenza, non spiegava affatto le forme viventi. Meglio ricorrere alla morfologia, allo studio delle forme, disciplina che l’apparentamento della biologia all’economia – che aveva sedotto nel 1838 Darwin, mentre leggeva il saggio sulla popolazione di Malthus – ha impedito di sviluppare affidandosi piuttosto a una visione meccanicistica del mondo che ha fatto evolvere la biologia a un’ingegneria del vivente. Con ciò la dottrina darwiniana, scaturita da questo approccio, non sembra avere guadagnato nemmeno in logica: «Arrivati all’homo sapiens neaderthalensis (centomila anni fa
il Creato I miracoli di Darwin
circa) con un cervello di volume superiore al nostro», nota lo scienziato Antonio Zichichi, «la teoria dell’evoluzione biologica della specie umana ci dice che, quarantamila anni fa circa, l’homo sapiens neaderthalensis si estingue in modo inspiegabile. E compare infine, in modo altrettanto inspiegabile, ventimila anni fa circa, l’homo sapiens, sapiens. Cioè noi. Una teoria con anelli mancanti, sviluppi miracolosi, inspiegabili estinzioni, improvvise scomparse. Questa non è scienza galileiana».
Eppure l’uomo della strada è generalmente convinto che Darwin abbia scientificamente dimostrato la discendenza diretta dell’uomo dalla scimmia. Ma non solo i neogoethiani come Portmann o i creazionisti come Zichichi hanno nutrito seri dubbi sulla dottrina darwiniana dell’evoluzione della specie. Lo stesso Darwin era perfettamente cosciente delle difficoltà che incontrava la sua teoria: «Aclune di esse, dirà lui stesso nell’“Origine della specie”, sono talmente gravi che non ci posso riflettere senza sgomentarmi». E così il padre dell’evoluzionismo si
poneva domande di questo tipo: perchè i viventi non presentano un gran numero di forme di transizione? Come possono essersi formati degli individui – ad esempio il pipistrello – attraverso piccole variazioni da progenitori completamente diversi? E anche: come possono essersi formati organi così perfetti come l’occhio? E ancora, come può la selezione naturale far acquisire o modificare istinti altamente raffinati come quello che guida l’ape a fare cellette di un’incredibile perfezione geometrica? Darwin non sa peraltro rispondere al perchè si assista alla comparsa improvvisa di molti tipi di organismi viventi mentre non esistono fossili più antichi.
I dubbi che Darwin nutriva sulla sua teoria alla fine dell’Ottocento oggi peraltro si moltiplicherebbero. Alla sua concezione di un lento processo lineare di modificazioni ereditarie infinitesimamente piccole delle forme viventi , cioè di variazioni cumulative degli organismi, si oppongono i dati di una paleontologia meno frammentaria di quella dell’epoca di Darwin. Il quale per giustificare il fatto che non vi fossero
prove fossili riscontrabili sufficienti a spiegare le sue ipotetiche forme di transizione si appellava al fatto che evidentemente gli strati geologici furono sottoposti a sconvolgimenti che li avevano alterati. Oggi la paleontologia assicura invece che i fossili degli strati geologici sono rappresentativi degli organismi vissuti sulla terra e che la loro documentazione smentisce le forme di transizione che non possono essere scomparse nel nulla o cancellate da strati geologici alterati come si riteneva erroneamente all’epoca di Darwin.
Gli unici anelli mancanti ritrovati si riducono così solo ai clamorosi falsi storici fabbricati dai seguaci del naturalista inglese. Come l’uomo scimmia di Piltdown, ottenuto mettendo accanto ossa umane a quelle di un orango o l’Archaeraptor liaoningensis: un artefatto ottenuto ibridando il fossile di un uccello a quello della coda di un rettile. Si sa che l’errore sfugge ai fatti quando soddisfa un bisogno. Nel caso specifico del teorema darwiniano se ne sono costruiti addirittura di falsi. Del resto la fede sposta le montagne, figurarsi i reperti fossili.
Quelli che non credono all’evoluzionismo l darwinismo si è sviluppato in contrapposizione al dogma religioso. È stato scritto che Darwin “ha ucciso Adamo”, ovvero l’uomo come creatura di Dio. Ma col passare dei decenni l’evoluzionismo si è sempre più trasformato in una fede: “lo so che è perfettamente stupido pensare che una cellula si sia potuta fabbricare da sé, eppure eccoci qua! E sono convinto che siamo il frutto di una generazione spontanea”, scriveva l’evoluzionista americano Wald. Inevitabile allora che sorgano i miscredenti:
I
I teorici americani dell’Intelligent Design ritengono che la stratosferica complessità degli organismi dimostri l’esistenza di un disegno. Esattamente come un aereo presuppone il progetto di un ingegnere. I genetisti della Scuola di Osaka - dubitano che dai rimescolamenti casuali di geni possano sorgere nuovi organi, nuove specie. I paleontologi antidarwiniani come Roberto Fondi - sottolineano che gli anelli mancano proprio dove dovrebbero esserci: negli intervalli tra i vari ordini di viventi e i generi.
Gli studiosi delle forme viventi come Thompson d’Arcy e Adolf Portmann: sottolineano come tutto in natura dal cristallo di neve, alla corolla del girasole, alla struttura delle ossa umane segua mirabili geometrie, simmetrie, forme. Che non sono il frutto del caso. Gli etologi come Remy Chauvin: dopo aver illustrato le società degli insetti, gli istinti degli animali aggiungono beffardi: provate a spiegarne l’origine in base ai meccanismi darwiniani…
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il Creato
Anelli mancanti, sviluppi inspiegabili, improvvise scomparse: ecco tutti i “buchi” della sua teoria
Questa la posizione della Chiesa cattolica sui temi in questione
«Sì alla ragione, no al materialismo» di Marco Respinti a un certo punto di vista, chiedersi cosa pensi la Chiesa cattolica dell’evoluzionismo è un nonsense. E questo per due motivi. L’evoluzionismo è una spiegazione di certi meccanismi naturali e, appartenendo al campo dell’indagine scientifica, non può che riferirsi a datti di fatto: chiedersi dunque quale sia l’opinione di qualcuno, fosse anche la Chiesa cattolica, su dei fatti è insensato. In secondo luogo, alla Chiesa cattolica non è lecito avere opinioni. Se vivesse di “secondo me”, non sarebbe quello che pretende di essere e che per milioni di persone nel mondo, e da secoli, è. Occorre allora riformulare la domanda. Non cosa pensa la Chiesa dell’evoluzionismo, ma cosa è l’evoluzionismo. E qui, delle due l’una: o l’evoluzionismo è un fatto e allora a nessuno, men che meno alla Chiesa, è lecito avere opinioni in materia; oppure è una ipotesi e allora se ne deve discutere la plausibilità. Ora, che l’evoluzionismo sia un fatto è cosa tutt’altro che acclarata. Oggi non lo afferma nessuno. Addirittura diversi scienziati, pure evoluzionisti, affermano che i buchi neri o gli spazi bianchi di quell’ipotesi sono più dei fatti in nostro possesso. È, cioè, una posizione filosofica e non una realtà scientifica; e dato che non si basa su fatti, una posizione filosofica di tipo fideistico. Molti scienziati infatti ne denunciano le lacune e però continuano a credervi. Qui sì, allora, è lecito interrogarsi in merito a come la Chiesa cattolica giudichi le pretese filosofiche fideistiche del credo evoluzionista. Ciò detto, occorre rilevare che nella percezione media per esempio del mondo protestante la posizione della Chiesa cattolica sull’evoluzionismo è connotata da una forte ambiguità, quando non peggio, tesa a conciliare la fede e il materialismo soggiaciente al darwinismo. Un giudizio assai importante, perché oggi nel mondo i critici più seri e scientifici dell’ipotesi evoluzionista appartengono in gran parte al mondo del conservatorismo protestante. Curioso, peraltro, giacché il mondo laico e laicista ha la percezione esattamente contaria e descrive la Chiesa cattolica caparbiamente arroccata su posizioni creazioniste. Per sfatare queste due pregiudizi uguali e contrari basterebbe peraltro sfogliare il Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato da Papa Giovanni Paolo II o anche solo il suo Compendio pubblicato da Papa Benedetto XVI. La Chiesa non cede affatto, in alcun modo, al materialismo insito nell’ipotesi evoluzionistca, epperò non pecca nemmeno di un lettaralismo biblico sordo alla ragione. Detto per inciso che il creazionismo può non essere, soprattuto per la Chiesa cattolica, una ipotesi assurda, va sottolineato che la Chiesa sostiene da sempre ciò
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che oggi (e sono i protestanti conservatori i padrini di questa definizione) è chiamato “progetto intelligente”. Altro di suo la Chiesa cattolica non può del resto fare. Alla Chiesa spetta infatti un giudizio di tipo filosofico-teologico, lasciando gli scienziati svolgere indagini nel campo che è loro proprio. Quella certa ambiguità che taluni, per esempio diversi protestanti, riscontrano nell’atteggiamento della Chiesa in materia di evoluzionismo risale peraltro al messaggio inviato il 22 ottobre 1996 da Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze, ma quell’ambiguità è inesistente nel testo ed è senz’alto attribuibile a cattiva lettura. Certo il pontefice disse «oggi [...] nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi». Ma questo non significa dire che allora il darwinismo è divenuto un fatto acclarato, semplicemente che da ipotesi si è mutato in teoria, laddove la teoria è «un’elaborazione metascientifica, distinta dai risultati dell’osservazione, ma ad essi affine». Un costrutto, cioè, più o meno organico e coerente, che collega assieme diverse ipotesi e che come tale patisce comunque diverse fomulazioni, «letture materialistiche e riduttive e letture spiritualistiche». Teorie, insomma, che si muovono interrogando, talora invadendo, anche il campo filosofico-teologico. Solo a questo punto Giovanni Paolo II può dire che «il giudizio è qui di competenza propria della filosofia e, ancora oltre, della teologia», rivendicando insomma alla Chiesa un ruolo critico primario. Questo: «[…] le teorie dell’evoluzione che, in funzione delle filosofie che le ispirano, considerano lo spirito come emergente dalle forze della materia viva o come un semplice epifenomeno di questa materia, sono incompatibili con la verità dell’uomo. Esse sono inoltre incapaci di fondare la dignità della persona». Il magistero della Chiesa cattolica sulla teoria evoluzionista è questo, e se non coincide con l’opinione, singola per quanto strombazzata, di questo o di quel cattolico, magari pure di qualche principe della Chiesa, pazienza. Quanto all’ipotesi evoluzionistica in ambito scientifico, la scienza empirica continua ad attendere le incontrovertibili prove concrete di certe affermazioni. Compito delle scienze naturali, certo; la filosofia e la teologia stanno a guardare, ma sono pronte a reagire se qualcuno o qualcosa dovesse invaderne polemicamente il campo. Segni di questo atteggiamento attento, ricettivo e mai superficiale, si trovano un po’ dappertutto nel corpus del teologo Joseph Ratzinger, che fra l’altro ha ben presente quel grand bel manuale di biologia, scientifico, critico e affatto creazionista, che è Evoluzione. Un trattato critico (trad. it. Gribaudi, Milano 2007), curato da Reinhard Junker e da Siegfried Scherer a capo di una équipe internazionale di 12 specialisti. E che questa sia l’autentica prospettiva della Chiesa lo dimostra bene quanto scritto sul tema dal cardinal Christoph Schönborn – non opinioni peregrine, ma ragionamenti in perfetta linea con il magistero – nel volume Caso o disegno? Evoluzione e creazione secondo una fede ragionevole (Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2007).
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il Creato iuseppe Sermonti è stato tra i primi in Italia a occuparsi di Genetica dei microorganismi. Ha diretto la International School of General Genetics e ha pubblicato agli inizi degli anni Settanta per la Boringhieri un manuale di Genetica Generale. Nel 1978 era a Mosca in veste di vicepresidente del XIV Congresso internazionale di Genetica. Uno scienziato illustre – interlocutore dei più innovativi ricercatori come i giapponesi della Scuola di Osaka – che però non ha mai fatto neppure una comparsata in una delle centinaia di trasmissioni del divulgatore Piero Angela. Mai invitato, mai interpellato, forse a causa della sua personale “miscredenza” che nel corso degli anni lo ha portato a dubitare di tutta una serie di concetti: l’origine casuale della vita, il sorgere delle specie in base a un cieco meccanismo di selezione alimentare, gli anelli di congiunzione. Giuseppe Sermonti ha scritto, insieme al paleontologo Roberto Fondi, un’ opera fondamentale della critica all’evoluzionismo: “Dopo Darwin”, pubblicata nel 1980 da Rusconi. Da allora sono passati quasi trenta anni e i dogmi scientifici contestati in quel libro cominciano a mostrare l’usura del tempo. Il darwinismo si sta estinguendo come un vecchio brontosauro, come sostengono gli aggressivi critici di nuova generazione? Oppure le ultime pratiche scientifiche rappresentano una conferma della idea di Darwin? Ne abbiamo parlato con Giuseppe Sermonti. Perché non si può sempre stare ad ascoltare la versione di Piero (e Alberto) Angela… Oggi si manipolano gli organismi vegetali, si fondono pezzi di dna di vari esseri viventi. Quale migliore prova del fatto che la natura si evolve e le specie cambiano? Darwin studiò il lavoro degli allevatori e vide che sotto le loro mani le specie cambiavano per taglia, miglioravano per capacità. Quindi generalizzò questa osservazione e la utilizzò per spiegare la genesi di tutti gli esseri viventi. Ma in verità le modifiche indotte dagli allevatori rimanevano pur sempre nell’ambito delle potenzialità della specie. Allo stesso modo, le manipolazioni che oggi vengono indotte alla fin fine risultano modeste, non rappresentano una “evoluzione”, perché non portano alla creazione di nuove specie o di nuovi organi . Realizzano in maniera più sofisticato quel che un tempo si otteneva attraverso l’ibridazione, attraverso gli incroci. E poi c’è un altro fattore… Quale? Sono manipolazioni coscienti!
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Non sono per nulla la prova del fatto che le specie cambiano spontaneamente, a caso. Negli anni Sessanta Miller mise una serie di ingredienti chimici in un alambicco, guidò la formazione di un amminoacido e alla fine disse che l’amminoacido era sorto“spontaneamente”… Infatti. Questi esempi rappresentano la prova contraria alla tesi della origine casuale della vita perché se mescolando gli elementi viene fuori una molecola di amminoacido ciò vuol dire che esiste una tendenza intrinseca della natura a strutturarsi secondo la forma degli amminoacidi, o dei nucleotidi. Se poi lo scienziato guida il processo di composizione e “salva” il prodotto dalla sua naturale tendenza alla decomposizione allora altro che “origine casuale”… Passiamo su un altro pianeta. Si dice che su Marte ci siano tracce di acqua, dunque è probabile che in un passato ci sia stata la vita. Ma basta l’acqua per far emergere spontaneamente la vita? L’acqua è necessaria, ma di certo non basta. Si spendono miliardi di dollari per cercare una goccia d’acqua su Marte, per poi affermare che se c’è l’acqua deve esserci anche la vita, necessariamente. Ma questa affermazione dal punto di vista scientifico è del tutto stupida. I creazionisti americani sostengono che per formare la vita non ci vuole l’acqua, ci vuole un Creatore. Lei è un creazionista? Siccome creazionista è un epite-
«La scimmia è una sore
colloquio con Giuseppe Ser
Quando fu contestato alla Sapienza 19 maggio 2003, Aula A del Dipartimento di Chirurgia Pietro Valdoni all’Università La Sapienza di Roma. È in programma la presentazione del libro di Giuseppe Sermonti, Dimenticare Darwin: ombre sull’evoluzione (Rimini, Il Cerchio iniziative Editoriali, 2003). Ci sono centinaia di persone ad assistere al dibattito, in aula anche un drappello di studenti dei collettivi: negano la legittimità dell’incontro, l’agibilità politica di uno scienziato non conforme al pensiero ufficiale. Motivo: il genetista Sermonti non è un darwiniano. Quattro scienziati della sapienza del resto avevano scritto nei giorni precedenti al Rettore per protestare contro l’iniziativa. Anziché
contraddire con argomentazioni razionali le tesi che Sermonti propone i quattro chiedono che si impedisca allo scienziato dissidente di prendere la parola all’Università di Roma, perché ormai il problema dell’evoluzione è risolto e superato, e il dibattito “relegato nei recessi dell’America bigotta e fondamentalista”. Sermonti è stato presidente della Associazione Genetica Italiana e vice-presidente di un Congresso Mondiale di Genetica (Mosca, 1980) ma all’Università di Roma il suo diritto alla parola è messo in discussione. In poche ore alla Sapienza si calpestano la democrazia, il liberalismo e lo spirito scientifico. La storia come è noto si ripeterà.
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Il vecchio Charles diventa un’icona ideologica empre più icona ideologica, la figura di Charles Darwin si appresta ad essere coinvolta nelle baruffe anticlericali della nostra università. A partire da martedì 12 febbraio e per tutta la settimana sono previsti una trentina di incontri dedicati al 199 anniversario della nascita di Darwin, che in verità noi si era mai espresso in favore delle tesi dell’ateismo militante e che oggi forse guarderebbe con sospetto l’utilizzo che delle sue tesi fa l’Unione Atei e Agnostici Razionalisti. Già in passato alcuni gruppi laicisti del mondo universitario avevano innalzato la bandiera del darwinismo contro il presunto oscurantismo delle istituzioni. La polemica che oggi si indirizza nei confronti di Benedetto XVI qualche anno fa si era orientata contro Letizia invece Moratti, allora ministro dell’istruzione. La Moratti era stata accusata di «voler cancellare l’insegnamento dell’evoluzionismo dalle pagine
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ella, non nostra madre»
rmonti di Alfonso Piscitelli to, un improperio, sono riluttante a definirmi tale. Non sono un creazionista, ma una creatura… Trasformando l’epiteto in un termine semanticamente più neutro: lei ritiene che abbia validità scientifica il paradigma dell’ “intelligent design”? Secondo me sì: è valido il paradigma che ricerca l’intelligenza dietro la complessità. È una giusta reazione alla teoria che vuole spiegare le creazioni più complesse come frutti del caso. E volendo semplificare, tutto ciò che non è “casuale” in un certo senso è “design”. Einstein alla fine disse:“Dio non gioca a dadi con l’universo”. E affermò il suo stupore di scienziato per il fatto che l’universo fosse “intellegibile”, e che dunque presentasse una struttura“intelligente”. Io ho un atteggiamento un po’ diverso: nell’universo c’è tanto di comprensibile, e questo fa la gioia degli scienziati e di tutte le persone intelligenti. Però, sovra-
Il genetista antidarwiniano: «Le creazioni più complesse non sono frutto del caso» stante tutto, c’è sempre il mistero. Ci sono delle cose che non solo non comprendiamo, ma riguardo alle quali capiamo che non sono comprensibili. Perlomeno col nostro attuale paradigma scientifico. L’origine del tutto dal “non essere” è un fenomeno misterioso che ci lascia attoniti, sbalorditi. La teoria del Big Bang è solo un pallido sforzo per cercare di comprendere, uno sforzo alla fin fine impotente. E lo stesso velo di mistero avvolge anche la vita nella sua fase originaria. Giuliano Ferrara nel lanciare la sua provocazione sulla moratoria dell’aborto ha fatto riferimento a quella sorta di darwinismo pratico, fai-da-te, che consiste
nel sopprimere gli embrioni di sesso indesiderato o con caratteristiche fisiche ritenute invalidanti. Il darwinismo ha fornito due contributi determinanti alla ideologia abortista: uno è quello di assimilare all’embrione qualunque formazione biologica, fosse anche un foruncolo. E viceversa concludere che l’embrione non è dissimile da un’altra appendice organica, non ha nessuna dignità particolare. Il secondo consiste nel sottolineare l’opportunità sociale di eliminare il disadatto. Io penso che nell’aborto, il “disadatto” non sia l’embrione, ma il genitore…il genitore che non apprezza la grandezza di quel che ha in grembo, o di quel che
ha fecondato. Più in generale, il progresso secondo Darwin si ha attraverso la selezione, ovvero l’eliminazione dell’inferiore o di chi è scomodo. Ma non è che Hitler leggeva Darwin? Lui no personalmente, ma è probabile che attraverso Haeckel il darwinismo abbia influenzato alcune concezioni del nazionalsocialismo, che però a suo modo era una dottrina troppo “religiosa”per essere darwiniana, legata all’idea di un Dio creatore della natura. Ieri ho visto una scimmia in televisione e mi sono ricordato di un mio conoscente: stessa espressione, stesso sguardo, forse anche stesso modo di ragionare… Possibile che non ci sia nessuna parentela, neanche alla larga? Guardi che la scimmia è quasi identica a noi, ma questa non è una scoperta di Darwin. Già Linneo affermò: “io dovrei classificare la scimmia nello stesso genere dell’uomo, non lo faccio per non urtare la suscettibilità della chiesa”. La scimmia è una specie sorella. Non una specie madre? Assolutamente no, la paleontologia da questo punto di vista è chiara. Occorre individuare un’altra specie madre più indiffe-
dei libri di scuola», in realtà più semplicemente (e in linea con le esigenze del dibattito scientifico contemporaneo) gli esperti del ministero della pubblica istruzione si erano limitati ad avanzare una esigenza di maggior pluralismo. Il darwinismo non è una certezza acclarata, ma una ipotesi con molte zone d’ombra. È lecito metterne in discussione i punti deboli o dobbiamo essere costretti ad accettarlo come un dogma? E ancora, esistono anche paradigmi alternativi al darwinismo per spiegare la genesi delle specie viventi - ad esempio il paradigma dell’"intelligent design" abbiamo il diritto di conscere anche questo punto di vista oppure dobbiamo ignorarlo? A furia di confrontarsi polemicamente con le autorità ecclesistiche, i laicisti di oggi sembrano essere stati contagiati da un atteggiamento che credevamo appartenesse soltanto al passato: l’atteggiamento inquisitorio edogmatico.
renziata dalla quale discenda sia l’uomo, sia lo scimpanzé e il gorilla. In questo senso si era orientato il grande zoologo francese Grassè. Lei pensa che la biologia si stia avviando a superare l’interpretazione della natura di tipo darwinista? Io penso che l’abbia superata da un bel po’. Il darwinismo è rimasto più come una lobby nelle università, che come una spiegazione efficace e feconda. Vuol dire che tra gli stessi autori darwinisti ci sono forme di ripensamento? Certo. L’esempio più tipico di questo ripensamento è Stephen J. Gould che onorava Darwin però considerava la selezione naturale, il caso, gli anelli di congiunzione inadeguati a spiegare il mistero della vita. Eppure continuava a dirsi darwiniano. Anche Voltaire dopo aver deriso la trinità, l’incarnazione, i miracoli, la resurrezione continuava a dirsi cristiano… Io l’ho conosciuto bene Gould. Una volta venne a Roma a tenere una conferenza all’Accademia dei Lincei e fece riferimento a me come al “creazionista italiano”. Dovetti alzarmi e fare una precisazione: io non sono un creazionista, non ho mai usato una definizione del genere. Però sono “una creatura”.
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libri e riviste li organismi sono complessi come orologi (per usare un eufemismo…), ma nessuno ne ha accordato le lancette, le molle, le rotelle. L’orologiaio è cieco, e il cieco caso basta a spiegare la vita. Dawkins coniuga una difesa a oltranza del darwinismo con un aggressivo ateismo. È come se dicesse: lo so che quel che affermiamo è improbabile, ma l’alternativa quale sarebbe? Questo tipo di autori ama polemizzare con i creazionisti biblici soprattutto con quelli più letterali (legati all’idea di una Terra vecchia di pochi millenni e di una creazione compiuta in una settimana). Per la serie: ti piace vincere facile? Richard Dawkins L’orologiaio cieco Mondadori 2006, pagine 440, euro 8,33
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tephen Gould era un darwinista eretico e un marxista newyorkese. I suoi avversari avrebbero più di una ragione per accusarlo di “revisionismo”. Spirito anticonformista e grande conoscitore dei dati paleontologici è arrivato alla conclusione che quel passaggio graduale da una specie all’altro ipotizzato da Darwin è una chimera: esattamente come certi “anelli di congiunzioni” fabbricati ad arte (vedi i“pitecantropi”che
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ancora si affacciano nei riquadri dei libri di biologia delle medie). Gould afferma che la storia naturale conosce lunghi periodi di stabilità, di ordine, seguiti da improvvise fasi di “rivoluzione”, in cui sorgono nuove specie. Eretico e “revisionista storico-naturale”. Stephen J. Gould Il pollice del panda Saggiatore 2001, pagine 370, euro 16 ultimo libro del genetista italiano Giuseppe Sermonti, che affronta lo spinoso problema della origine dell’uomo, del suo rapporto con la scimmia. Sermonti ribadisce le sue critiche a Darwin (vedi intervista) e cerca di tratteggiare un paradigma alternativo a quello evoluzionista-darwiniano. Giuseppe Sermonti Il Tao della Biologia Lindau 2007, pagine 185, euro 14
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li americani hanno Dembsky, noi dobbiamo accontentarci di Odifreddi. Dembsky è uno scienziato e matematico, assertore dell’intelligent design. Per la serie: buttate a caso delle letterine sul tavolo: pensate che esca fuori la Divina Commedia? E se ripetete l’esperimento per 40 anni, alla
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edizioni
fine esce qualcosa? I darwinisti credono che in milioni di anni, in un tempo remoto e inverificabile ciò che è statisticamente impossibile sia accaduto, non una, ma miriadi di volte. Dembsky con gli argomenti della matematica e della fisica si oppone a questa credenza. Perché c’è il II Principio della Termodinamica che non la consente… William Dembsky Intelligent Design Il ponte fra scienza e teologia Alfa & Omega, Caltanissetta 2007 pagine 378, euro 21,90
evoluzionismo è e resta ancora una ipotesi. I dati di fatto incontrovertibili che dovrebbero suffragarlo mancano da sempre. I fossili aiutano poco e niente. E l’idea di“selezione naturale” è contradditoria: come si può infatti parlare di “selezione ”, cioè di “scelta”, la quale per definizione prevede sempre qualcuno che scelga, se si postula all’origine di tutto solamente il caso? Ecco dunque una indagine pacata ma rigorosa e svolta a tutto campo sulle pretese della spiegazione evoluzionistica dell’origine e dello sviluppo della vita sulla Terra che ha uno e un solo scopo: quello di mettere qualche dubbio in più nella testa del lettore. Su questa materia sono ancora troppe, infatti, le falsità spac-
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ciate per verità, troppo le frodi conclamate (il famoso e inesistente Uomo di Piltdown, per esempio), troppi insomma gli abusi commessi in nome del darwinismo (l’eugenetica, per esempio). Marco Respinti Processo a Darwin Piemme, pagine 192, euro 12
a cura di Alfonso Piscitelli
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ROBERT CONQUEST
I DRAGONI DELLA SPERANZA Una storia mai raccontata della Guerra Traduzione di Govanni Piccioni
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca
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DELLE IDEE
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economia
Il suo utilizzo farebbe ammortizzare i costi per il non rispetto dei parametri di Kyoto entro il 2012
Ecco perché il nucleare fa risparmiare di Strategicus l commissario Ue all’Energia, Andris Pielbags, ha dichiarato che il nucleare è una fonte di produzione di energia troppo cara e che “non può funzionare, perché i costi del nucleare non diminuiranno col tempo. I costi base sono chiari”. Il premio Nobel per la fisica, Carlo Rubbia, si è detto possibilista per un ritorno in Italia del nucleare, ma che esso non risolverebbe i problemi generali energetici italiani e che non produrrà un effetto di diminuzione della bolletta elettrica, portando l’esempio di uno studio fatto in Svizzera.
I
Cerchiamo di riportare l’argomento su un binario più realistico e meno ideologico. Innanzitutto, il prezzo della bolletta elettrica dipende, oltre che dall’andamento del prezzo globale dell’energia, soprattutto dalla regolamentazione interna di un Paese. Pensare alla Svizzera come esempio è veicolare un messaggio sbagliato. Entrambi sono per l’aumento della produzione di energia da fonte nucleare. E lo sono per due motivi. Primo, perché non possono non esserlo alla luce dello stato attuale del contesto energetico globale e delle caratteristiche intrinseche del nucleare. Sono consapevoli che sia a livello europeo che italiano, la necessità di ridurre la dipendenza dall’importazione di idrocarburi (petrolio e gas) passa solamente attraverso l’aumento della produzione da fonte nucleare. Non esistono specchietti per le allodole (solare), mulini a vento (eolico) o idrogeno che possano sopravanzare la maggiore sostenibilità, competitività ed eticità del nucleare. Secondo, perché la direttiva Ue sull’energia parla chiaramente di aumentare la percentuale di produzione da fonte nucleare. L’Italia ha adottato con entusiasmo tale direttiva. Ma portiamo qualche numero a sostegno della nostra tesi. Nel
mondo, la produzione di energia elettrica da fonte nucleare è del 16 per cento, rispetto al carbone 40 per cento, al gas 19 per cento, all’idroelettrico 16 per cento, all’olio combustibile 7 per cento e ad altre rinnovabili 2 per cento. In Europa, il nucleare si assesta al 33 per cento, il carbone al 30 per cento, il gas al 20 per cento, l’idroelettrico all’11 per cento, l’olio combustibile al 4 per cento, e le altre rinnovabili al 2 per cento. La media dei Paesi Ocse vede il nucleare al 24 per cento. Il trend mondiale vede Paesi, quali Cina, India, Giappone, Stati Uniti, Russia, Francia, Gran Bretagna e molti altri, che hanno e stanno sviluppando piani di costruzione di nuove centrali nucleari. Il fatto poi che sarebbe economicamente poco conveniente, se non in un’ottica di lungo periodo (35-40 anni), evidenzia lacune di visione globale del settore energetico.
ressi nazionali, grazie all’indipendenza dalle importazioni di petrolio e gas da aree geopoliticamente instabili e con alti rischi di isteresi dei prezzi delle fonti energetiche.
Un paragone tra Italia e Francia basta a sciogliere molti dubbi. Innanzitutto, l’Italia importa, negli ultimi 10 anni, per il fabbisogno nazionale dal 14 al 16 per cento di energia elettronucleare l’anno (principalmente dalla Francia, dalla Svizzera e dalla Slovenia). Dalla Francia l’import si aggira intorno ai 3 miliardi di euro l’anno, che equivale alla costruzione di un reattore Epr da 1.600 MW l’anno. Già questo è un dato impressionante che evidenzia come l’Italia abbia perso troppo tempo e troppi soldi. In più, gli attuali prezzi dell’energia elettrica per le utenze industriali in Italia nel 2006 sono del 24 per cento superiori alla media dell’Ue; mentre quelli per le utenze domestiche addirittura del 45 per cento della media Ue e del 70 per cento della Francia. Ciò significa che ad oggi l’Italia scarica sulle famiglie il costo di produzione dell’energia elettrica per cercare di mantenere competitivo il sistema industriale, con la conseguenza diretta che la bolletta elettrica degli italiani è la più cara d’Europa e che il 24 per cento dell’industria la porta comunque quasi fuori mercato.
MaMa Carlo Rubbia ritiene che un ritorno dell’Italia all’energia atomica non risolverebbe i nostri problemi
Prima di tutto, la Francia ha beneficiato della scelta di dipendere per il 78 per cento (non il 72 per cento!) dal nucleare non solo per il mantenimento di competenze industriali nazionali e per il basso costo della bolletta elettrica (la meno cara d’Europa). Ne ha guadagnato anche in termini di rango internazionale, di capacità e forza sui principali tavoli di negoziazione e di rafforzamento degli inte-
Quest’ultimo è un dato raccapricciante. Andris Pielbags e Carlo Rubbia devono saperlo. Esserne consapevoli vuol dire capire che senza un’accelerazione del processo decisionale politico verso un mix più ragionevole di fonti di produzione di energia tutto il sistemaItalia rischia di saltare. La globalizzazione non ammette ritardi. L’incredibile aumento della domanda di energia da Paesi “energivori” (in primis Cina ed India) rischia seriamente di far saltare il banco, con un cambio delle rotte di destinazione dell’energia ed una modifica della geografia dell’energia, spinta anche dalle ricerche di giacimenti in aree remote, quali Siberia Orientale e Artico. A tutto ciò si aggiunge che i “geni italiani” che hanno aiutato la stesura del Protocollo di Kyoto non hanno pensato a tutelare l’interesse nazionale. L’Italia, entro il 2012, non sarà in grado di soddisfare i limiti di emissione stabiliti dal Protocollo. L’Italia dovrà, quindi, per il mancato rispetto dei vincoli di Kyoto una sanzione complessiva per le eccedenze di emissioni entro il 2012 di oltre 55 miliardi di euro. Ma forse un via di salvezza c’è e guarda caso viene proprio dal nucleare. Tale eccedenza di pagamento sarebbe quasi azzerabile - l’Italia già paga ogni anno le sue eccedenze - con la sola enunciazione dell’intenzione di costruire 8 EPR da 1.600 MW ciascuno (4 centrali da 2 reattori l’una), con un costo complessivo di circa 23 miliardi di euro. Essi verrebbero in sostanza pagati con le sanzioni di Kyoto e con anche un risparmio superiore ai 15 miliardi di euro. Se il banco dovesse saltare, i veri penalizzati saranno i Paesi a più alta percentuale di dipendenza dall’estero e a bassa capacità di decision-making politico interno. L’Italia ha purtroppo il doppio primato.
I problemi di un imprenditore che fornisce servizi alla pubblica amministrazione
«Le aziende pubbliche pagano in ritardo e i costi lievitano» Scrivo sulla mia piccola impresa dedicata alla progettazione, produzione e fornitura in opera di strutture di copertura ”a tenuta” in leghe d’alluminio per il contenimento delle emanazioni inquinanti provenienti da vasche degli impianti di depurazione delle acque reflue sia civili che industriali. I nostri clienti sono prevalentemente aziende pubbliche regionali o consortili quali Hera (Emilia Romagna), Umbra Acque (Umbria), Acea (Lazio), Ianomi (Provincia di Milano). Tutte queste aziende forniscono servizi (fognature, depurazione, eccetera) a utenti privati e industriali che pagano i servizi a mezzo bollettini postali a vista: cioè se non paghi entro il termine il servizio viene sospeso. Queste aziende, però, pagano i loro fornitori dai novanta ai centoventi giorni dalla data della fattura, fa-
cendo in pratica diventare questi fornitori finanziatori dei loro investimenti. Quando evidenziamo il problema queste aziende, candidamente, ci invitano ad aumentare il valore della fornitura con il costo del denaro anticipato dalle banche. Tutto questo è veramente perverso perché causa un aumento del prezzo delle forniture che, ovviamente, si ripercuote sul costo dei servizi erogati che, alla fine, ricade sui cittadini. Purtroppo questo vizietto interessa tutta l’economia italiana: dalle aziende più grandi (che pagano i fornitori a centottanta giorni dalla data della fattura), fino alle imprese pubbliche. Con questo sistema ci rimettono tutti tranne gli istituti di credito che attraverso i cosìdetti ”anticipi su fatture” finanziano il flusso di cassa dell’economia
italiana, diventando di fatto i maggiori fruitori dei margini di profitto che vengono generati dalle imprese che lavorano. A mio avviso, questa è la piaga maggiore che da sempre danneggia l’economia sana e che mette l’Italia al di fuori dalle regole degli altri Paesi civili. Ogni volta che chiedo ai mie fornitori di materiali provenienti dall’estero (dagli Usa in particolare) di poter pagare soltanto a sessanta giorni dalla data della fattura mi sento rispondere: ”My dear Mario, we are not bankers, we are an industry, if you or your customer do not have the money for what you want to buy, then go to your bank and get the money and then get back to us and pay us when we will deliver to you the goods”. Questa è la prassi nel mondo intero meno che in Italia.
Mario M. Fortini
economia
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d i a r i o
d e l
g i o r n o
La campagna per il silenzio energetico ”M’illumino di meno” la campagna per il black-out volontario, lanciata dalla trasmissione radiofonica di Radiodue, ha coinvolto molte città europee.Alle 18 si sono spente piazze e monumenti, dal Colosseo alla Tour Eiffel alla facciata del Foreign Office a Londra al Castello di Edimburgo. Al buio anche la ruota del Prater a Vienna, il Parlamento Europeo e per 5 minuti il Custom House.
Napolitano al Bicentenario della Borsa Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio, Romano Prodi e il ministro dell’Economia, Tommaso PadoaSchioppa hanno partecipato ieri a Palazzo Mezzanotte alla festa dei 200 anni della Borsa Italiana. Alla cerimonia presenti anche il sindaco di Milano Letizia Moratti, i presidenti della Regione e della Provincia, Roberto Formigoni e Filippo Penati. Il mondo dell’economia e della finanza era rappresentato tra gli altri dal presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, John Elkann, Tronchetti Provera, Giovanni Bazoli, Sergio Marchionne.
Per la prima volta dall’Unità il Pil e inferiore alla media nazionale
Se il Piemonte cresce meno del resto d’Italia di Mino Giachino algrado un certo ottimismo sulla città che è migliorata, salvo i trasporti, sulla città che ha saputo trovare una nuova “mission” non dipendente dalla Fiat, la crescita del Pil regionale, che, per la prima volta dall’Unità nazionale, è inferiore alla media nazionale, è un grosso campanello d’allarme. I finanziamenti del governo per le Olimpiadi invernali hanno abbellito e qualificato la città, ma evidentemente non sono bastati a rilanciare lo sviluppo di Torino e del Piemonte, dopo il ridimensionamento della Fiat e la grave chiusura della Olivetti. Malgrado la città ospiti da oltre 30 anni i centri di ricerche della Fiat, della Telecom, della Rai, della Motorola cresce poco. Perché è mal collegata all’Europa allargata? Perché il porto di Genova cresce meno dei porti spagnoli e olandesi e ci dà meno indotto? Perché senza la Tav e il Terzo Valico non decolla l’area logistica più importante del Sud Europa, come nelle intenzioni del progetto presentato in Europa dal nostro governo nel 2003?
M
È chiaro che a fianco di situazioni produttive positive come la Ferrero e la Miroglio di Alba, l’agroalimentare del cuneese e dell’astigiano, di alcuni segmenti del tessile e dell’indotto metalmeccanico, l’economia piemontese malgrado il rilancio di immagine di Torino dovuto alle Olimpiadi del 2006 cresce meno
Le Olimpiadi invernali del 2006 non sono stato sufficienti a rilanciare l’immagine e l’economia di Torino e della regione
della media nazionale. E si vede. La fascia di popolazione esclusa o ai margini del ciclo produttivo insieme alla fascia che fatica ad arrivare a fine mese è aumentata.
È chiaro quindi che non è sufficiente puntare al rilancio attrattivo-turistico-culturale della città e delle bellezze regionali per avere un futuro migliore. Se dopo dieci anni e più di Torino internazionale, della Fiera del Libro, di Slow Food la città cresce così poco vuole dire che è meno competitiva e meno attrattiva di nuove iniziative. Continuare a leggere paginate di inchieste e analisi sul miglioramento della qualità della vita della città non è di grande consolazione, anzi. Eppure i commenti degli uomini di cultura e degli opinion leader che fanno parte della “compagnia di giro” dei consulenti del Comune, delle banche torinesi o degli enti culturali della città si sperticano in lodi all’Amministrazione cittadina. Pochi pensano al 40 per cento della nostra gente che sta meno bene e
che vive male. Compito delle forze politiche popolari è dare una risposta programmatica che ridia speranza prima di tutto a coloro che sono ancora fuori o esclusi dal mondo produttivo e ai più deboli. Ma non basta l’assistenza: occorre puntare a iniziative che facciano crescere di più l’economia regionale, che la rendano più competitiva, che creino nuove opportunità di lavoro.
Per TrasportoAmico la risposta migliore e sicura sta nelle grandi ricadute che deriveranno dalla realizzazione delle Grandi Reti di trasporto europee, su rotaia e quindi non inquinanti, come la Tav e il Terzo Valico che - incrociandosi a Novara - daranno luogo alla creazione nella nostra Regione della più grande area di logistica del Sud Europa, resa ancora più forte dalla presenza dei porti liguri e dell’aeroporto di Malpensa. Questa iniziativa sta tutta nelle nostre mani solo che lo vogliamo. Su questa iniziativa dovrebbero lavorare coinvolgendo le Fondazioni bancarie del nostro territorio, le Amministrazioni piemontesi con quelle liguri e lombarde. Mentre occorrerà definire rapidamente in modo bipartisan tutti gli interventi di salvaguardia del territorio per la Val di Susa che ancora una volta, come nell’800, dovrà contribuire allo sviluppo economico e sociale del Paese. Segretario generale TrasportoAmico
Il piano Eni per lo sviluppo L’Eni ha reso noto il piano strategico 2008-2011: investimenti per 49,8 miliardi di euro, rafforzamento della leadership nel mercato europeo del gas, rimpiazzo delle riserve maggiore del 100 per cento e una crescita media annua della produzione rivista al rialzo a +4,5 per cento rispetto al precedente target di +4 per cento. Il piano, spiega la societa’, ”consolida le precedenti linee strategiche che hanno consentito di raggiungere importanti obiettivi. Eni proseguirà la propria strategia di crescita anche attraverso lo sviluppo del portafoglio di asset produttivi acquisiti nel corso del 2007 e il rafforzamento della leadership europea nel gas”.
Alitalia, Spinetta incontrerà i sindacati Il presidente di Air France, Jean Cyril Spinetta, verrà a Roma il 27 febbraio prossimo per illustrare ai sindacati il piano industriale per l’acquisizione dell’Alitalia. Il 24,25 e 26 febbraio prossimi, invece, si svolgeranno incontri tra i sindacati e i vertici dell’Alitalia. La visita di Spinetta slitterebbe di circa una decina di giorni rispetto alle prime indiscrezioni. Una decisione presumibilmente legata all’attesa del pronunciamento del Tar dopo il ricorso di Air One, previsto per il 20 febbraio.
Nel 2006 boom della pay tv Il Sistema integrato delle comunicazioni vale 23,640 miliardi di euro il valore complessivo del Sistema integrato delle comunicazioni per il 2006, con un aumento del 2,92 per cento rispetto al 2005. La fetta più consistente è quella dei ricavi di radio e tv (8,503 miliardi) grazie all’eccezionale crescita della pay tv (2,328 miliardi).
Solo sei imprese italiane tra i big Nella classifica dei 250 migliori produttori al mondo di beni di consumo stilata da Deloitte figurano soltanto sei aziende italiane. La Ferrero è al 106mo posto, la Pirelli in 108ma posizione. Più distanti Parmalat e Barilla, rispettivamente al 130mo e al 190mo posto. Oltre la posizione 200 ci sono Cremonini (209) e Valentino (238).
Germania, mega evasione fiscale Secondo il quotidiano Sueddeutsche Zeitung sarebbero state evase tasse per 3.400 milioni Per la polizia tedesca sarebbe la più grande evasione fiscale di sempre che sembra coinvolgere centinaia di persone, tra le più influenti del Paese, sospettate di aver tentato di sfuggire al fisco nascondendo denaro in Lichtenstein. Lo scandalo è scoppiato quando la procura di Bochum ha annunciato di stare indagando nei confronti del numero uno delle Poste tedesche, Klaus Zumwinkel, per frode fiscale.
Microsoft lancia i virus buoni Un virus ”buono”, che trasmette gli antidoti con la stessa velocità con cui si propaga l’infezione. È questo il metodo che è sta sperimentando la Microsoft, come riporta un articolo della rivista New Scientist. Secondo le intenzioni dei ricercatori, in questo modo si dovrebbe favorire la diffusione nella rete delle cosiddette ’patch’, cioé righe di codice che correggono i ’buchi’ presenti nei programmi usati. Secondo un rapporto dell’Ibm sono proprio i virus che attaccano i ’buchi’ dei programmi la minaccia più seria nel Web.
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ritratto
Con la missione impossibile di smantellare le accuse per la strage di Erba
Lo 007 che sta provando a salvare Rosa e Olindo di Cristiano Bucchi
TORINO. Un po’ Rambo, un po’ Hercule Poirot. Nell’inchiesta sul massacro di Erba c’è un uomo che si muove con discrezione. Non ama la notorietà e per questo evita accuratamente telecamere e microfoni. Si chiama Oscar Candian, 42 anni, torinese. È l’investigatore privato di Rosa e Olindo Romano. Era a Lugano il giorno che lo l’avvocato Fabio chiamò Schembri. «Fu una telefonata veloce. Mi disse: ho bisogno di incontrarti, ti vorrei far vedere delle carte. Ci vedemmo il giorno dopo e mi raccontò di aver accettato la difesa di Rosa e Olindo. Aveva bisogno del mio aiuto. Io scherzando gli risposi: se vi serve una via di fuga per scappare, mi dispiace ma non posso aiutarvi in alcun modo. Mi consegnò delle carte aggiungendo che avevo due mesi di tempo per leggerle e per farmi un idea».
Ex paracadutista della Folgore, appassionato di tecniche militari, Candian frequenta dopo il servizio militare diverse accademie di intelligence israeliane, prima di fondare nel 1999 a Torino la Stealth, un agenzia di investigazione. «Ho scelto questo lavoro perchè mi permette di apprendere ogni giorno qualcosa di nuovo. Mi fa star bene». Ha letto migliaia di volte le carte processuali prima di accettare l’incarico. «All’inizio ho avuto grandissime difficoltà perchè ci trovavamo di fronte al corpo di un bambino e la cosa mi ha creato non pochi problemi. Poi ho iniziato ad applicare le cose che so fare mantenendo il dovuto distacco, analizzando i dati oggettivamente. Mi accorsi subito che c’erano parecchi elementi che non combaciavano.
Tutto è diventato più chiaro quando ho sentito le registrazioni delle confessioni. Gli imputati si limitano a ripetere quello che gli viene contestato, non danno particolari di qualcuno che è stato sulla scena del crimine».
Poi ci sono i viaggi a Erba dove Oscar Candian esegue diversi sopralluoghi. Studia con attenzione la piccola casa di Rosa e Olindo; ordinata, pulita, con gli oggetti sistemati accuratamente per non togliere spazio. Visita anche l’abitazione di Raffaella Castagna dove è avvenuta la mattanza. Nel suo
Un po’ Rambo e un po’ Hercule Poirot, l’investigatore torinese Oscar Candian spiega la strategia difensiva: «Smonteremo la ricostruzione della Procura di Como e la spontaneità delle prime ammissioni degli imputati» studio di Torino simula la scena al computer con dei modelli tridimensionali, e qui si accorge che la ricostruzione degli inquirenti solleva qual-
che dubbio. Non è convinto dell’ossessione verso i vicini di casa che avrebbe portato all’omicidio di quattro persone, nè della deposizione di Rosa e Olindo, tantomeno del racconto fatto da Mario Frigerio, testimone oculare, unico scampato e cardine dell’accusa. «Lui fin dall’inizio riconosce una persona con tanti capelli neri, occhi neri, di carnagione olivastra, esperto di arti marziali che con poche mosse lo butta per terra e gli taglia la gola. Improvvisamente
cambia versione e riconosce in Olindo l’aggressore, occhi verdi, carnagione chiara. Insomma un altra persona».
Il processo nel tribunale di Como intanto va avanti. Due udienze a settimana, nella speranza di arrivare in tempi record a una sentenza. Nell’aula 40 posti sono per i giornalisti, 30 al pubblico; in uno stanzone è stata organizzata la sala stampa con un maxischermo per seguire il dibattimento. Davanti ai giudici sflilano i testimoni dell’accusa. Vicini di casa dei coniugi Romano o amici della famiglia Castagna. Tutti parlano del clima di terrore che si viveva nella cascina a causa del comportamento di Rosa e Olindo: aggressivi, paranoici, tanto da innervosirsi per rumori inesistenti. Per Candian però le missioni impossibili non esistono. «Abbiamo accettato la difesa con il professor Torre, l’avvocato Schembri e l’avvocato Bordeaux, perchè se non lo avessimo fatto noi non lo avrebbe fatto nessuno. Rosa e Olindo non potrebbero permettersi una difesa così. Presenteremo alla Corte d’Assise oltre 150 testimoni. Proveremo a puntare sulla perizia dei Ris sul luogo della strage, incrinare le certezze dell’unico sopravvissuto. Tenteremo di smontare pezzo per pezzo la ricostruzione della procura e non la veridicità delle prime ammissioni fatte dai due imputati». È sera quando esco dagli uffici della Stealth. Candian mi accompagna al portone e mentre mi stringe la mano mi confessa un desiderio. «A me piacerebbe essere contattato da un regista o da uno sceneggiatore perchè avrei del materiale per girare una fiction dal titolo Indagini Imperfette. Potrei mettere a disposizione tutta la mia esperienza, le decine e decine di scene che ho potuto rilevare in giro per il mondo». I panni dello 007 ormai gli stanno un pò stretti e visto che in tv c’è posto per tutti perchè non provare. Magari in prima serata.
spettacolo
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Arriva su Sky la fiction Usa campione di ascolti e di cinismo ambientata nella New York degli anni Sessanta
Mad Men, più cattivo di Dottor House di Priscilla Del Ninno on importa chi sei, cosa vuoi o quali siano i tuoi valori. L’unica cosa che importa è come lo vendi». Questo l’emblematico assioma narrativo da cui sono partiti gli autori di Mad Men, serial tv tra le novità più glamour dei palinsesti satellitari. La fiction, che oltreoceano ha subito eguagliato per cinismo e ascolti i primati da record del Dottor House, promossa dalla critica Usa e letteralmente osannata dai proseliti del rito mediatico intestato alla rivisitazione corrosiva del linguaggio spettacolare, approderà sui nostri teleschermi a marzo grazie a Cult, il canale 142 di Sky.
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L’atteso seriale, firmato da Matthew Weiner, già autore e produttore de I Sopranos, è ambientato nella New York degli anni ‘60, sfondo spietato per eccellenza, su cui si stagliano in primo piano le vicende di un gruppo di ambiziosi pubblicitari, i dipendenti della Sterling Cooper Agency, capitanati da Don Draper, cui presta volto e maschera da cattivo Jon Hamm, che nelle vesti di pubblicitario ha già stracciato il medico senza camice più amato del piccolo schermo, Hugh Laurie, soppiantato nel cuore di spettatori e giurati del Golden Globe, che hanno incoronato Mad Men migliore serie (svettando su Dr House e Grey’s Anatomy), e l’astro esordiente attore dell’anno. Dunque cambiano le ambientazioni - non
siamo nel 2000 e in un reparto ospedaliero, ma nei febbrili anni ‘60 in aperto campo di battaglia pubblicitario – ma le logiche narrative perseguite da autori e produttori nella più spregiudicata gestione di un prodotto seriale sono le stesse: vicende scottanti e temi spinosi da raccontare in chiave politicamente scorretta.
E allora, razzismo, sessismo, omofobia, rappresentano la bussola in un cammino tv che, sui binari dell’eccesso e dell’affabulazione provocatoria, ha irretito pubblico e critica in un viaggio intorno alla galassia culturale a stelle e strisce degli anni ‘60, dove la politica anti fumo e le leggi contro la discriminazione sessuale e razziale ancora non esistevano.Tanto che, tra
strizzatine d’occhio e battutacce, Mad Men ricostruisce il clima del capitalismo efferato mostrando con rinnovato lessico autoriale il volto dissacrato e dissacrante del sogno americano che non aveva ancora rivelato a pieno i suoi risvolti da incubo; entusiasmando nello spiattellare le crudeltà quotidiane rilette nei costumi dell’epoca; immergendo in un’atmosfera sapientemente retrò di cui, autori svezzati nell’epopea catodica dell’irriverenza, hanno saputo attualiz-
Cinismo, sesso e razzismo sono messi in scena con compiacimento e senza veli. John Hamm, nelle vesti di un pubblicitario, ha surclassato Hugh Laurie zare e parafrasare maschere e tematiche. In quest’ultima era tv tramontano dunque definitivamente le beatificazioni spettacolari, e sugli antieroi per caso prevalgono le nuove icone anticonformiste, in nome di un gusto popolare ormai sedotto dal fascino sprezzante dei nuovi personaggi. Così, dopo stagioni di trionfi retorici, chi la fiction la fa e chi la fiction sceglie di guardarla, si aggiornano al gusto cattivista in voga.
E allora in Mad men il protagonista Draper si presenta come un uomo che durante la guerra di Corea si appropria dell’identità di un commilitone, resettando trascorsi e personalità su cui mentirà anche con la moglie Betty (January Jones), casalinga disperata ante litteram che del marito ignora passato e presente infedele. Si delinea da subito, insomma, il clima che rivive nel microcosmo di Madison Avenue (da lì il nome della serie), un’a-
genzia pubblicitaria pronta a cedere alle lusinghe del boom, fregandosene del giudizio morale e facendo dell’arrivismo sfrenato una bandiera. A partire da Draper-Hamm, manager per il quale persino i sentimenti rappresentano una merce di scambio da portare al tavolo della trattativa. Passando per Roger Sterling (John Slattery), uno dei cervelli della ditta e cinico antisemita; fino a Pete Campbell (Vincent Kartheiser), classico figlio di papà che estorce vantaggi con ricatti e segreti. E se l’art director gay Salvatore Romano (Robert Morse), negandosi al coming out, respinge al mittente le avances di un collega in nome di un’ostentata “fede cattolica”, le donne dell’agenzia Peggy e Joan (Elisabeth Moss e Christina Hendricks) non possono che arrendersi al ruolo di obsolete prede sessuali.
Un quadro composito e non del tutto inedito, insomma, quello ridisegnato dal serial in arrivo su Sky che, come già Peyton Place, Twin Peaks e Melmose Place ieri, Sex and the city e Desperate Housewives oggi, svela come ipocrisia e peccato scorrano nei gangli connettivali della società e delle produzioni Usa, con una forza creativa e un impatto sociologico che l’avvicendarsi delle mode televisive non scalfisce nemmeno. Arricchendo l’immaginario di un nuovo racconto sul lato oscuro di un’epoca spesso ritratta con mistificanti tinte pastello. Il tutto nella fedeltà ad uno schema adottato dagli addetti ai lavori che prescrive proprio – ci si consenta il gioco di parole – di uscire dagli schemi. Quelli ingessati nei confini stilistici dell’edulcorazione tv, oggi sempre più impietosamente smascherata da seriali come Mad men; e nel passaggio di testimone dal conciliatorio al trasgressivo la fiction cresce, la critica applaude e gli ascolti lievitano. E tutti vissero felici e contenti…
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO
Quali donne vorreste nel prossimo governo? La Boniver sarebbe un ottimo vicepremier, Giulia Bongiorno una perfetta Guardasigilli Non so se saranno elette, però alcune donne le vorrei vedere alla guida di ministeri o comunque in alcuni posti di comando. La Boniver la vedrei come ottima vicepremier. Giulia Bongiorno alla Giustizia. Per competenza e per grinta potrebbe essere un ottimo Guardasigilli. La Gelmini Mariastella un bel ministro degli Interni. E poi l’astro nascente, Michela Vittoria Brambilla. Per lei il ministero delle Attività industriali. Infine la Carfagna. Potrebbe mietere successi agli Esteri, ma è troppo giovane per diventare ministro, per ora diamole un posto di sottosegretario. Agli Esteri naturalmente.
Adriano Lucchini - Roma
Non vedo di buon occhio donne al governo, ma la Ferretto e la Battistoni lo meriterebbero Ammetto di non gradire affatto che sia obbligatorio che nel governo di un paese ci debba essere una certa percentuale di donne.Vorrei che emergessero persone davvero libere come Silvia Ferretto, che a Milano si batte per i problemi della gente. Cattolica, libera, sincera e determinata per un’Italia migliore. Ed in ultimo, mi piacerebbe trovare in un ruolo di rilievo anche la preparatissima Chiara Battistoni.
Alberto Moioli - Milano
Spero che il Pd vinca su Berlusconi, ma volti nuovi di giovani donne non ce ne sono Sono una elettrice di centrosinistra, anzi ora devo dire del Pd. Spero tanto che il nostro Veltroni ce la faccia contro Berlusconi. Ma poiché sono un’ottimista rispondo alla domanda di Liberal. Tra quelle che militano nel Partito democratico, quali donne al governo? Sarebbe il caso, e Veltroni lo vuole, di inserire volti nuovi, giovani, ma chi? Di ancora
giovane ci sarebbe la Melandri, che però tanto nuova non è. No, meglio di no. Lasciamo che continui a ballare con Briatore. Mi vengono in mente solo nomi di donne che ormai sono così stagionate. Rosy Bindi no. Però a ben pensare con il suo carattere potremmo darle il ministero della Difesa. La Finocchiaro. Anche lei è grandina, ma potrebbe essere un buon ministro di Giustizia. Mi sembra che sia pure magistrato. La Pollastrini,no no. Mandiamola a giocare a canasta con le dame di San Vincenzo. Non ho altri nomi da proporre. Però speriamo che il Pd vinca.
Antonietta Belcastro - Mantova
Giorgia Meloni ministro dei Giovani, Michela Brambilla alle Attività produttive Posto che la destra ha più volti nuovi, femminili e non, rispetto alla sinistra, è comunque difficile trovarne di davvero validi. Se vincesse il Pdl, credo che andrebbero valorizzate donne come Giorgia Meloni e Barbara Saltamartini, entrambe di An e rispettivamente vicepresidente della Camera (ma anche presidente nazionale di Azione giovani) e coordinatrice nazionale dipartimento Pari opportunità. La Meloni sarebbe perfetta per rappresentare proprio i giovani. La Saltamartini, appunto, un bravo ministro delle Pari opportunità. Non dimentichiamoci comunque anche di Adriana Poli Bortone, donna di straordinaria forza e lucidità politica. Poi mi piacerebbe vedere al governo la Lorenzin o la Carfagna, e senz’altro la Brambilla, alle Attività produttive. Della Lega non mi viene in mente nessuno. Se vincesse il Pd, mi spiace ma non ne vorrei vedere proprio nessuna. Forse Giovanna Melandri, ma non come ministro dei Giovani e dello Sport: faceva decisamente ridere.
Simona Riva - Bolzano
LA DOMANDA DI DOMANI
È giusto che a Pistorius sia impedito di gareggiare alle Olimpiadi?
Vogliamo giovani competenti, solo così ci sarà rinnovamento Il presidente Casini si è preso qualche ora per riflettere. Immagino ci sarà una telefonata o qualche incontro con il leader del Popolo delle Libertà. Mi auguro che, al di là dello scetticismo dei palazzi e delle diffidenze reciproche, si trovi un accordo, nel segno della comune apartenenza al Ppe. E’ del resto interesse di entrambi rafforzare il peso del centro moderato, nel quadro di un nuovo centrodestra più unito, più concorde, più concentrato sulle necessità del Paese che sulle schermaglie di partito. Non si può tornare indietro allo schema della Cdl, si deve guardare avanti e cogliere il senso dell’iniziativa ”gollista” del presidente Berlusconi, volta a dare una guida stabile al Paese e ad affrontarne i prolemi urgenti con il metodo del dialogo costruttivo con l’opposizione del Pd. Bene ha fatto Casini a non chiudere al confronto con il Cavaliere, che dal canto suo ha escluso ogni tentazione di annientamento dell’identità dell’Udc e dei suoi programmi. Forse è il momento per i centristi di fare una scelta difficile, che può aprire la strada ad uno strabiliante successo elettorale del Popolo della Libertà e, quindi, dei programmi di governo condivisi dalla stessa Udc. Ritengo che il Popolo della Libertà sia una straordinaria opportunità, almeno per vincere le elezioni politiche e dare un senso riformatore alla prossima legislatura. Pensiamo alla convergenza nel Pdl di personalità come i senatori Dini e Fisichella. Finalmente appare realizzabile il miraggio di un partito unitario dei liberali e dei moderati! A questo riguardo giustamente Casini pone il problema delle candidature della Mussolini e di Capezzone. Penso che su questi nomi anche Berlusconi debba riflettere. Continuo peraltro a ripetere l’appello che la lista del Popolo
dai circoli liberal
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
BERLUSCONI NON PROPONE IL PARTITO UNICO, MA IL SUO Quella che a qualcuno potrebbe sembrare ostinatezza da parte di Liberal, e soprattutto da parte del presidente, onorevole Ferdinando Adornato, non è che la ferma e convinta continuità del progetto che da sempre proponiamo al centrodestra italiano.Voglio subito mettere in chiaro anche un altro aspetto che a me personalmente sembra paradossale. La miopia dei mass media e degli addetti ai lavori rispetto a quanto accade in queste ore nel nostro Paese. Tutto quello che da pochi giorni, con insistenza, sentiamo dire e ribadire a Silvio Berlusconi con l’eco di Fini, è quanto, anticipando brillantemente tutti, Ferdinando Adornato ha non solo detto ma anche concretizzato e materializzato attraverso la sottoscrizione della Costituente. Allora qualcuno si domanderà: ma se lui l’ha detto e l’ha fatto prima di tutti che cosa cambia? Perché oggi non consiglia a Casini di concretizzare quanto da egli stesso previsto? La risposta per chi osserva la politica è chiara, ma per chi non lo fa o non lo vuole capire, è logi-
ca: non può nascere il Partito unico del centrodestra e dei moderati italiani su una imposizione, o meglio ancora definita composizione, marchio incluso, fatta solo ed esclusivamente ad immagine e somiglianza di Silvio Berlusconi. Qui non si tratta di essere il padrone assoluto di qualcosa, né tanto meno di avere il primato del brand o il riconoscimento da parte della storia come unico e solo ideatore del cambiamento del sistema politico italiano, bensì di condividere con pari dignità, e soprattutto riconoscendo a chi intellettualmente e con onestà politica e culturale ha dato e indicato questa nuova via. Non possono immaginare Berlusconi & Co. di far finta che niente sia accaduto e di dire oggi di essere loro quelli che promuovono e vogliono ciò che fino a ieri per loro non era maturo, pronto, realizzabile. Forse solo perché qualcun altro, con umiltà e con impegno, aveva posto l’attenzione ai leader e al popolo del centrodestra italiano. E’ una questione quindi non di primogenitura, ma bensì di condivisione. Che include un modello ragionato e partecipativo. Dove chi pensa, non deve farlo al buio delle stan-
della Libertà (e anche quella dell’Udc, qualora andasse da sola) siano comunque aperte a utili candidature di giovani competenti e meritevoli di fiducia: solo così si potrà garantire un vero rinnovamento e la formazione della classe dirigente del domani. Cordialità.
Matteo Prandi
La corsa solitaria di Casini è la speranza di tutti i moderati La corsa solitaria dell’Udc riempie d’orgoglio e di speranza tutti i moderati italiani. Del resto, meglio una sconfitta dignitosa che una vittoria senza radici, cioè, senza futuro. Ma siamo proprio sicuri, poi, che la dignità porti necessariamente alla sconfitta? Cordiali saluti.
Michele Forino - Genova
Il nuovo parlamento tolga il Catasto su base patrimoniale Fra gli impegni che il nuovo parlamento dovrà assumere, mi auguro che rientri presto la sparizione dell’incostituzionale Catasto su base patrimoniale, che tante motivate preoccupazioni stava sollevando in tutti i proprietari di casa. Il principio sul quale dovrebbe reggersi la tassazione sulla casa, come qualsiasi altra tassazione, è che si debbono pagare imposte sui redditi effettivamente percepiti. I migliori saluti.
Carletto Palombi - Roma
ze, ma avere la libertà di farlo alla luce del sole. Regalando alle sue idee, al suo lavoro e alle sue intuizioni, se si rivelano giuste e corrette, gli oneri e gli onori del caso. In conclusione, Silvio Berlusconi continua a sbagliare quando attorno a sé fa terra bruciata, si circonda di uomini utili e ubbidienti e non di quelli utili e intelligenti, di cui il Paese e il centrodestra italiano hanno bisogno. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog ”Gentile signorina, non sono puntuale” Gentile signorina, mi chiamo Franz Kafka e sono quello che la prima volta la salutò a Praga quella sera in casa del direttore Brod, poi le porse da un lato all’altro della tavola fotografie di un viaggio da Talia, e infine con questa mano tenne la sua, con la quale lei confermò la promessa di fare con lui l’anno venturo un viaggio in Palestina. Devo confessare una cosa: io non sono puntuale nello scrivere lettere. In compenso non mi aspetto mai che le lettere arrivino puntualmente; perfino quando ne aspetto una con ansia, non resto mai deluso se non arriva, e quando infine arriva rimango facilmente scosso. Nell’infilare ogni foglio noto che mi sono presentato forse più difficile di quanto non sia. Eppure, se anche ci dovessero essere dubbi per prendermi in un viaggio come accompagnatore, guida, zavorra, tiranno e quello che ancora potessi diventare, non ci dovrebbe essere da fare alcuna obiezione decisa e Lei potrebbe probabilmente tentare con me. Suo cordialmente devoto. Franz Kafka a Felice Bauer
Vorrei che Ferrara entrasse in politica col Pdl Giuliano Ferrara si rifiuta di confrontarsi con Marco Pannella in tivù. ”Mi confronto con te in un teatro ma non in televisione. Il video è antiveritativo”, ha detto il direttore del Foglio. E ha fatto bene, aggiungo io. Posto che secondo me Ferrara ha sbagliato a scegliere di candidarsi con un movimento per la vita (ce n’era davvero bisogno?), credo comunque sia una delle menti più brillanti che abbiamo in Italia. Avrei però preferito che camminasse al fianco di Berlusconi, nel Pdl, invece di capeggiare qualcosa di cui non c’era davvero necessità e che rischia anche di abbassare la percentuale di vittoria del centrodestra alle elezioni.
Sandro Melone - Como
Perché non si parla degli omicidi compiuti dai partigiani? Di recente abbiamo letto nei giornali e visto nelle televisioni il ricordo dell’eccidio nazista degli ebrei. Giustissimo ricordare gli orrori della storia affinché questi non accadano più. Ma perché lo stesso spazio non è stato dedicato anche alla pulizia etnica perpetrata dai comunisti di Tito a
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
danno di cittadini italiani nelle foibe? E agli omicidi compiuti dai partigiani comunisti e rimasti impuniti nel triangolo rosso emiliano? E perché non si parla mai dei soldati italiani trucidati in Russia da Stalin con la connivenza di Togliatti, futuro ministro della Giustizia, e della compagna Nilde Jotti, alla quale abbiamo fatto anche un funerale di Stato?
Silvia Romiti - Roma
Legge sulle imprese, un milione di euro è ridicolo Due giorni fa la Regione Lazio ha preso in esame la proposta di legge sulla internazionalizzazione delle imprese. Francamente un milione di euro non mi sembra una somma adeguata per rilanciarla. Evidentemente la Re-
gione punta più sul cinema, grande passione di Veltroni. La commissione Bilancio ha infatti deliberato uno stanziamento di oltre un milione e mezzo di euro per compartecipare alla fondazione di Cinema per Roma, mentre il consiglio regionale si trova a dibattere su una legge con risorse finanziarie ridicole che disattende le aspettative dei piccoli e medi imprenditori del Lazio.
Carlo Pinti - Rieti
Gli Usa non dovrebbero vendere le armi ai ragazzi Ennesima strage in una scuola statunitense. Bilancio: cinque ragazzi uccisi e suicidio dell’aggressore. A quando un’America meno bacchettona su alcol e sigarette e più severa sul porto d’armi?
Veronica Sambo - Lecce
Se le donne dello spettacolo mostrano gli effetti del bisturi La pubblicità è l’anima del commercio. Avete notato che quasi tutte le donne di spettacolo che aumentano chirurgicamente la misura del reggiseno mostrano generosamente il risultato? Con quello che è costato loro almeno lo fanno rendere.
Arianna Salvati - Pisa
PUNTURE Mastella voleva 10 deputati e 5 senatori. Berlusconi gli ha risposto picche: 3 deputati e 1 senatore. A furia di mastellare Mastella è rimasto mastellato.
Giancristiano Desiderio
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Se un’idea è più moderna di un’altra, è segno che non sono immortali né l’una né l’altra. C ARLO E MIL IO G ADDA
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
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il meglio di THE END A suggello della conclusione anticipata delle primarie Repubblicane (5 mesi prima della loro fine naturale) è arrivato da Boston l’endorsement di Mitt Romney a John McCain. A questo punto, persino qualche possibile scherzetto degli elettori conservatori ”duri e puri” (difficile, ma non impossibile), potrà essere sistemato dalla base del partito tramite i super delegati alla convention di Settembre. Possiamo quindi ufficialmente chiudere qui la ”kermesse” Repubblicana. Ora per John sarà importante continuare nel ”door to door” (con tutti i mezzi disponibili) al fine di convincere tutto il Gop ed oltre, ad andarlo a votare a Novembre. Compito arduo certo, ma non impossibile. La mossa di Romney è stata ben concepita nell’ottica di un possibile ritorno nel 2012, come ci spiega Jonathan Martin qui. McCain ha vinto una grande battaglia. Ora tocca vincere la guerra.
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DALLA FIONDA ALLA MEGABOMBA Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare. Detto altrimenti: si rende evidente l’ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità
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abissali di male – possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo (Spe salvi, n.22) Queste le parole di Benedetto XVI a proposito del progresso scientifico, che non è un male in sé, ma non può essere motivo di speranza affidabile. Perché sappiamo benissimo che l’uomo, e lo scienziato è un uomo, non è esente dalla tentazione del successo, del denaro, del potere, come sempre è stato e sempre sarà. Occorre che la scienza sia regolata dall’etica, altrimenti si arriva a esiti incontrollabili e terribili che diventano sempre più spaventosi col passare del tempo: si pensi ai mostri che può creare l’ingegneria genetica lasciata alla libera fantasia di scienziati senza scrupoli, che ci promettono danni immani, che intaccano la stessa struttura fisica dell’uomo; danni decisamente peggiori di quelli provocati a Hiroshima e Nagasaki. L’unica speranza affidabile è quella che si fonda sulla certezza di un presente in cui ci sentiamo amati da una forza più grande della morte. E la certezza non è un pio desiderio, ma si fonda su fatti innegabili, perché accadono.
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FEDE E LIBERTÀ Dialoghi sullo spirito del tempo
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