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ISSN 1827-8817 80220

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

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Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

di Ferdinando Adornato

DOPO LA SCONFITTA DI MUSHARRAF Comincia Comincia la la prova prova più più difficile difficile per per la la democrazia democrazia asiatica, asiatica, sulla sulla frontiera frontiera del del fondamentalismo fondamentalismo islamico. islamico. Con Con una una paurosa paurosa domanda: domanda: chi chi controlla controlla l’atomica? l’atomica?

Puzzle Pakistan

pagine 2, 3, 4 e 5

Occidente Ma l’Italia c’è ancora in Europa? Franco Frattini Maria Maggiore, Enrico Singer Jacek Saryusz-Wolski

da pagina 12 MERCOLEDÌ 20

FEBBRAIO

parla Pisanu

politica

«ALL’UDC DICO: SONO CERTO, CI RITROVEREMO»

UNA SFIDA SUL FUTURO DEL CENTRODESTRA

di Errico Novi

a pagina 8

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

pensionamenti

Il castrismo è morto, abbasso Castro!

di Ferdinando Adornato a pagina 9

NUMERO

29 •

WWW.LIBERAL.IT

di Gennaro Malgieri

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 10

19.30


pagina 2 • 20 febbraio 2008

puzzle

Pakistan

La stabilità passa per un accordo che non escluda il presidente dal governo. Viceversa saranno guai

Elezioni vere con due ombre: il destino di Musharraf e il controllo della bomba di Mario Arpino l presidente Pervez Musharraf, nonostante voci di brogli in alcune sezioni, bassissima affluenza alle urne e un certo numero di attentati, ha definito le elezioni «libere, imparziali e trasparenti», impegnandosi pubblicamente a rispettarne i risultati e rendendo nota la sua disponibilità a stendere la mano al vincitore per creare una coesistenza che renda possibile una qualche forma di governo. L’esito delle elezioni non gli è stato favorevole, ma se venisse concordata un’alleanza con il partito orfano di Benazir Bhutto, tutto sommato si avvererebbe ciò che il generale aveva già previsto quando aveva perdonato a Benazir tutti i suoi peccati di finanza… facile, consentendole di rientrare in patria e competere. Se ciò avvenisse, sarebbe forse possibile scongiurare eccessive turbolenze nel Paese e pericolosi mutamenti strategici nelle scelte governative correnti. I militari rimarrebbero alla finestra, sempre attenti agli avvenimenti, ma senza intervenire.

I

La Bhutto e il suo partito, in fondo, avevano già preso le distanze dai talebani e dai fondamentalisti durante il suo secondo governo. Ritenendo di poter escludere ogni possibilità di alleanza tra il partito di Musharraf e quello di Sharif, potrebbe valutarsi anche, come terza alternativa, un’alleanza del partito ex Bhutto-Zardhari con quello dell’ex premier Sharif, questo sì, appoggiato - per motivi di reciproci interessi, che poco hanno a che fare con la fede in Allah - dai talebani e da una parte dei fondamentalisti “urbani”. Sarebbe, a mio avviso, una scelta sciagurata per il Paese, innaturale per due clan di potenti che si sono sempre odiati, operata solo in spregio a Musharraf, per abbatterlo prima del termine del suo mandato, che scade nel 2009. Scelta folle, ma costituzionalmente

Dopo l’11 settembre, tra Pervez Musharraf e Colin Powell ci sarebbero stati degli accordi in materia di protezione della struttura nucleare strategica, su cui viene mantenuto il più stretto riserbo

alcuni scienziati. Sotto il profilo tecnico-operativo, un nuovo organismo, la Divisione per i piani strategici, assiste l’Nca nell’attuazione dei piani e nella supervisione e controllo degli assetti strategici (missili con capacità nucleare). Sul campo, il controllo tattico degli assetti è responsabilità di specifici comandi per le operazioni strategiche delle tre forze armate, mentre il controllo operativo rimane centralizzato a livello Nca. Se tutta la catena non viene positivamente percorsa, in mancanza di una serie di autorizzazioni successive la “bomba” rimane inerte. Si tratta di un sistema politicomilitare di controlli incrociati molto valido ed efficace, simile a quello occidentale (doppia chiave, o chiavi multiple), sul quale, come detto, anche gli esperti del Pentagono sembrano riporre fiducia. Ciò significa che non è poi così improbabile che, immediatamente dopo l’11 settembre, tra Musharraf e Powell ci siano stati degli accordi particolari anche in materia di protezione del nucleare, su cui viene ovviamente mantenuto il più stretto riserbo. Le preoccupazioni, quindi, sinora sembravano di altra natura, e riguardavano la possibile cessione di materiale fissile, piuttosto che della stessa bomba, a organizzazioni estremiste non statuali.

passo avanti non già della democrazia, ma di una possibile telebanizzazione del Paese e, di conseguenza, del rischi oggettivo che il nucleare pachistano diventi davvero la “bomba islamica”. Nonostante Musharraf nelle frequenti interviste – l’ultima è quella rilasciata un paio di settimane or sono a Pino Buongiorno di Panorama - abbia sinora continuato a dare ampie assicurazioni alla comunità internazionale sulla sicurezza dell’armamento nucleare, l’inopinabile verificarsi della terza

A detta del generale, allo stato dei fatti, questo pericolo sembrerebbe inconsistente, visto che l’ingegner Khan, dopo i pasticci con l’Iran, è stato escluso da ogni attività direttamente connessa alle armi ed i laboratori di ricerca sono sotto stretto controllo militare. Ovvero dello stesso Musharraf, cui i militari restano fedeli. Dopo le elezioni la soluzione più probabile, quella cioè di un patto tra il partito del generale e quello degli eredi di Benazir Bhutto, a parer mio non muterebbe sensibilmente la situazione.

percorribile in funzione di calcoli percentuali circa il risultato delle elezioni. In questo caso i militari ed il generale non starebbero certo a guardare, e potrebbe aprirsi davvero quello scenario di sangue e guerra civile ipotizzato ieri da Andrea Margelletti su queste colonne. Anche se i militari – forse non tutti – cercherebbero di impedirlo, questa ipotesi sarebbe un

ipotesi, potrebbe davvero metterla a rischio. Anche il Pentagono sinora ha gettato acqua sul fuoco, dimostrando un buon grado di fiducia nell’attuale sistema di “custodia”. Effettivamente, prima di Musharraf la questione veniva trattata dai primi ministri pro-tempore direttamente con il “chiacchierato” ingegner Khan, padre di quella che alcuni chiamano im-

propriamente la bomba islamica. Solo successivamente, il presidente Ghulam Ishaq Khan, civile, cominciò a coinvolgere il capo dell’esercito, che, a sua volta, si avvaleva del capo di un organismo simile alla nostra Direzione generale degli armamenti. A questo generale, e solo a questo, l’ingegner Khan riferiva direttamente, mantenendo però intatta ogni libertà d’azione in termini di produzione e ricerca. Questa situazione di cieca fiducia nell’ingegnere e nell’ asserita impermeabilità dei suoi

laboratori (Khan research laboratories, Krl) non venne mai meno anche nell’alternanza dei così detti “governi democratici” di Benazir Bhutto e di Nawaz Sharif. Fiducia, come si è visto in seguito, che all’epoca era stata irresponsabilmente mal riposta. Di fatto, sotto quei governi la questione nucleare, come molte altre questioni, continuava ad essere condotta

come se si trattasse di una faccenda privata, e forse faceva comodo così. Già all’atto della nomina a capo delle forze armate, Musharraf aveva rappresentato a Sharif l’irregolarità della situazione, proponendo una struttura di controllo regolamentata. Un anno dopo, avendo assunto egli stesso anche l’incarico di chief executive, fu libero di attivarla. Per la policy nucleare c’é ora una National command authority (Nca), che comprende: presidente, primo ministro, alcuni ministri chiave, i capi militari e


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Pakistan

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Nawaz Sharif (a sinistra) Il presidente della Lega musulmana-N è nato nel 1949. Nemico giurato di Musharraf, condannato all’ergastolo per corruzione nel 2000, è fuggito in esilio volontario in Arabia Saudita. Due volte primo ministro, non potrà ricoprire la carica una terza volta a meno di una modifica costituzionale. Asif Ali Zardari (a destra) Il co-presidente del Partito popolare pakistano ed ex marito di Benazir Bhutto guida i popolari dall’assassinio della moglie. Accusato di corruzione (è stato in carcere diversi anni), ha già dichiarato di non volere la carica di primo ministro.

Vincono i partiti d’opposizione e non avanzano i radicali islamici, per la prima volta cristiani in Parlamento

L’effetto Bhutto irrompe nelle urne di Vincenzo Faccioli Pintozzi iolenze e discriminazioni nei seggi, scarsa affluenza e poco tempo per la campagna elettorale, ma anche una vittoria netta e sorprendente dei partiti democratici nelle aree tribali del Paese (roccaforte delle milizie talebane) e la prevista sconfitta di Musharraf. Sono questi i fattori che hanno caratterizzato le elezioni legislative che si sono svolte in Pakistan, le prime veramente libere dopo decenni di dittature militari. Nonostante una conta ancora parziale dei voti, e l’attesa per il pronunciamento degli osservatori internazionali sulla legittimità del voto, si delinea una vittoria schiacciante del Partito popolare che, orfano di Benazir Bhutto, si prepara a reggere la prossima assemblea nazionale. Tuttavia, questa vittoria è stata caratterizzata da molte sfaccettature che hanno tutte a che fare con il tessuto sociale del Pakistan contemporaneo.

V

Alcune esplosioni avvenute nei pressi dei distretti elettorali di tutto il Paese e le violenze fra sostenitori di diversi partiti, hanno fatto ventiquattro vittime accertate e molte decine di feriti gravi. Si registrano casi di violenza, ad opera delle milizie talebane, che nel nord del Paese hanno cercato di impedire con minacce ed intimidazioni l’affluenza alle urne per un voto che, dicono, «non ha validità». Le donne hanno subito discriminazioni praticamente ovunque: Peter Jacob, segretario della Commissione episcopale giustizia e pace, spiega all’agenzia AsiaNews: «Quello della discriminazione non è un problema relegato alle aree tribali: le donne sono state impedite nel loro diritto di voto praticamente ovunque». Secondo Jacob, il governo «non ha mantenuto le sue promesse e si è preparato in maniera limitata a questo

voto: ho incontrato Asma Jahangir, presidente della Commissione per i diritti umani, e lei mi ha detto che il suo nome non era nemmeno nelle liste elettorali». In alcuni seggi, tuttavia, si sono formate delle “ronde civiche”spontanee, che hanno risposto alle aggressioni dei talebani permettendo il normale svolgimento della consultazione. In risposta, Mangal Bagh (capo della formazione estremista del Lashkar-e-Islami) ha annunciato «severe punizioni». Oltre a queste violente discriminazioni, ha fatto discutere la cattiva preparazione dei distretti al voto. Circa duecento votanti si sono visti rimpiazzati per casi di omonimia o errata trascrizione dei patronimici: a Lahore ha votato un bambino di sette anni, e molto probabilmente il suo voto verrà considerato valido. Con il 60 per cento delle schede scrutinate, si delineano i principali risultati elettorali del voto di ieri: il Partito popolare pachistano (Ppp), guidato fino al suo assassinio da Benazir Bhutto, appare in testa, nel conteggio dei seggi conquistati in un Parlamento che, se va avanti così, avrà tutti i numeri per avviare l’impeachment contro Musharraf, accusato di aver tentato un golpe lo scorso novembre con la dichiarazione dello stato di emergenza. Il Ppp ha ottenuto, all’ultimo conteggio, 74 seggi; la Lega musulmana-N guidata da Nawaz Sharif ne ha 62. La Lega musulmana-Q (Quaid), guidata dagli uomini di Musharraf, ha 31 deputati, seguita dal Movimento Mutahida Quami, anch’esso nella coalizione che fa riferimento al capo dello Stato, che ha ottenuto 17 seggi.

Non è stato rieletto Chaudhry Shujaat, uno degli uomini chiave del presidente. Gli altri partiti che sostengono Musharraf, come pure i suoi alleati tradizionali, hanno ottenuto soltanto 57 seggi nelle 241 circoscrizioni i cui risultati sono già stati annunciati. Anche se dovessero conquistare tutti i seggi rimasti in sospeso, gli stessi partiti non riuscirebbero ad avere la maggioranza assoluta di 272 deputati. I risultati più clamorosi sono stati ottenuti proprio nelle aree tribali, quelle che più facevano temere per una deriva talebana: diversi distretti della provincia della Frontiera nordoccidentale sono finiti in mano popolare (nonostante la presenza dei talebani contrari al voto) e nel Punjab le due Leghe musulmane non hanno ottenuto la maggioranza. Nonostante le tensioni, l’affluenza è come quella delle elezioni del 2002, quando i cittadini vennero chiamati ad eleggere un esecutivo fantoccio sotto la dittatura militare di Musharraf: secondo i primi dati, infatti, soltanto il 40 per cento degli 81 milioni di aventi diritto al voto si sono presentati alle urne. In alcune zone, però, il timore di attentati e violenze ha indotto molti a restare a casa. A Karachi si stima che abbia votato soltanto il 20 - 25 per cento degli elettori. Khalil Tahir, avvocato cristiano in corsa per un seggio dell’Assemblea provinciale del Punjab (è quasi certa la sua elezione), afferma ad AsiaNews: «Se sarò eletto, farò del mio meglio per abolire quelle leggi che discriminano le minoranze. Inoltre, intendo lavorare per garantire eguali diritti a tutti i citta-

Nawaz Sharif accusa il partito del presidente di brogli e violenze pre-elettorali: «il voto ha sconfitto tutti i trucchi di Musharraf»

dini pakistani, anche non musulmani». Come cristiano, aggiunge, «il nostro percorso è pieno di ostacoli, ma da dentro il sistema potrò fare qualcosa per cambiarlo». Asif Bhatti, cristiano del Partito nazionale Awami di impronta liberale, è riuscito a sconfiggere nel suo seggio la Muttahida Majlis-e-Amal (Mma, coalizione di 6 partiti islamici di impronta fondamentalista). Ora afferma: «Sono molto contento del risultato, e soprattutto del fatto che questo sia stato ottenuto a Peshawar, capitale della Frontiera».

Secondo il futuro deputato, questo voto «dimostra che la popolazione non vuole mischiare la fede alla politica. Il mio partito ha sempre condannato l’estremismo, ed il fatto che abbia preso tanti voti nella culla dei talebani ci dà ragione. Questa vittoria rappresenta una speranza per tutti i cristiani». Il presidente della Lega musulmana-Q ha ammesso la sconfitta. E già nella notte il portavoce della stessa formazione,Tariq Azeem, aveva affermato: «Gli elettori hanno consegnato il loro verdetto e, come democratici, noi lo accettiamo». Lo stesso presidente Musharraf si è detto «convinto del voto delle urne» ed ha promesso di «rispettare il desiderio della popolazione, qualunque forma esso assuma». Nawaz Sharif ha invece accusato la formazione presidenziale di brogli e violenze pre-elettorali, ed ha sottolineato come «il voto ha sconfitto tutti i trucchi di Musharraf». Sharif, ex primo ministro reduce da un lungo esilio obbligato, dopo il primo golpe del presidente, teme ritorsioni sulla vittoria: la Costituzione gli vieta di essere di nuovo primo ministro e, senza un intervento governativo, questo è un ostacolo insormontabile.


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Pakistan

Per la scrittrice pakistana è improbabiile che nasca un governo forte

«Più che al potere mirate al perdono del popolo» di Moni Mohsin er affrontre una possibile insurrezione islamica, la crisi economica ed il crescente separatismo di alcune province, il Pakistan ha urgente bisogno di un governo forte che possa resistere di fronte a tali minacce. Quali probabilità ci sono che da queste elezioni possa nascere un governo simile? Vista la situazione, desolatamente poche. Non ci sono salvatori in agguato dietro le quinte. Dopo il licenziamento dell’inflessibile capo della Corte Suprema e la successiva ondata repressiva nei confronti della società civile, il Presidente Musharraf e i suoi alleati parlamentari, la Lega Musulmana Pakistana Qadi (Pml-Q), hanno subito un’emorragia di consensi inarrestabile.

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L’assassinio a dicembre di Benazir Bhutto, capo del più grande partito politico del paese, il Partito Popolare Pakistano (Ppp), ha ulteriormente minato la loro legittimità. Il sostegno che erano riusciti a costruirsi grazie alla crescita economica degli ultimi cinque anni si è dissolto, a causa di alcune decisioni sbagliate in campo microeconomico che hanno provocato pesanti interruzioni della fornitura di energia elettrica ed un aumento vertiginoso dei prezzi del grano. Sprovvisto del carapace della sua divisa militare, Musharraf è esposto, isolato e sempre più impopolare. Non gli rimane più alcun ruolo chiaro da svolgere in un sistema democratico. Persino le sue creature, i leader del Pml-Q stanno prendendo le distanze da lui. Gli altri contendenti sono il Ppp e la Lega Musulmana Pakistana di Nawaz Sharif (Pml-N). Tuttora sotto choc a seguito dell’omicidio della Bhutto, il Ppp adesso è guidato dal suo vedovo, Asif Zardhari. Ritenuto dal molti un personaggio corrotto e autocratico, Zardhari veniva chiamato il “Signor dieci percento” durante i due mandati della Bhutto come primo ministro, ma ha comunque ricevuto in eredità dalla moglie la guida del partito. A fatica cerca di tenere unito il Ppp, nonstante i tentativi compiuti da altri partiti di sottrarre candidati dalle sue file. Anche Nawaz Sharif, leader della Pml-N, due volte cacciato quando era prima ministro tra accuse di corruzione e malgoverno, è seriamente compromesso. Quando è stato deposto da un colpo di stato militare nel 1999, è sceso a patti con Musharraf accettando di vivere in esilio volontario in Arabia

Saudita per dieci anni in cambio della propria libertà.

Depressi ed irritati, viste le scelte deludenti a loro disposizione, i pakistani sono andati alle urne con grande riluttanza. Ma per avere una qualche legittimità, il processo elettorale dovrà risultare equo e libero. È improbabile che Musharraf si sia spinto a tanto - licenziando giudici, imbavagliando i media, arrestando avvocati e imponendo lo stato di emergenza - per poi cedere tranquillamente il potere. Avrà tentato la strada dei brogli elettorali. I partiti di opposizione si sono già opposti alla la nomina arbitraria di una commissione elettorale, affermando anche che le agenzie di intelligence del paese erano all’opera per aiutare il Pml-Q in alcuni seggi marginali. Le limitazioni imposte ai media durante l’emergenza dello scorso novembre non sono state eliminate e i canali televisivi indipendenti non sono liberi di descrivere la situazione liberamente. Nonostante questo quadro di incertezza, i principali partiti politici di opposizione hanno dato prova di maturità (soprattutto pragmatismo) decidendo di non boicottare le elezioni. I brogli vengono in qualche misura accettati in quanto parte della cultura politica pakistana: nessuna elezione ne è mai stata completamente esente. Certo, questa

islamisti sono in agguato. Se avevano bisogno di ulteriori prove della gravità di questa minaccia, gli sono state fornite dalla pubblica uccisione di Benazir in pieno giorno. Fino a questo momento, Sharif e Zardhari si sono comportati in modo relativamente responsabile, mettendo da parte le proprie divergenze per lavorare insieme. È improbabile, sebbene non sia

Musharraf può riscattarsi accettando il responso delle urne e un minor potere presidenziale, ma Sharif e Zardhari dovranno dimostrare agli elettori che, nonostante le delusioni inflitte loro in passato, possono essere leader credibili volta la gente sarebbe meno disposta a chiudere un occhio. Molto dipenderà dal comportamento dei partiti di opposizione dopo le elezioni. In passato, l’imperativo per loro era stato quello di conquistare il potere e poi arrabattarsi per mantenerlo, anche a costo della credibilità propria e di tutto il processo democratico. A dire il vero, negli anni Novanta sia la Bhutto che Sharif erano usi schierarsi dalla parte del potere precostituito per scardinare il governo democraticamente eletto dell’altro. Ma sia Sharif che Zardhari si rendono conto che anch’essi stanno esaurendo le proprie vite politiche. Gli

una certezza, che un unico partito riesca a ricevere un numero di voti sufficienti da formare un governo. Probabilmente il Ppp otterrà più seggi in assoluto, sfruttando il sentimento di partecipazione provocato dal tragico attentato.

Il Pml-N probabilmente otterrà buoni risultati nel Punjab, provincia di origine di Sharif. Se le previsioni dovessero rivelarsi giuste, il Pml-N dovrebbe ottenere il 20% dei seggi in Parlamento. Il Pml-Q non scomparirà completamente. I candidati singoli con un’esperienza consolidata di buon governo alle spalle manterranno i propri seggi.

Con ogni probabilità, il Ppp e il Pml-N dovranno creare una coalizione. Sia Zardhari che Sharif si sono impegnati pubblicamente in tal senso. Ma gestire concretamente una coalizione di governo non è impresa facile. Richiede una motivazione di fondo preponderante per avere successo, come una guerra. Il Pakistan dispone di una motivazione del genere sotto forma della minaccia islamista. Ora i pakistani devono augurarsi che i loro leader siano abbastanza saggi da accorgersene. Musharraf può riscattarsi dopo questi risultati accettando il responso dell urne, nonostante quello che può signifcare per la sua presidenza. E Sharif e Zardhari possono dimostrare ai loro elettori che, nonostante le delusioni inflitte loro in passato, meritano ancora la loro fiducia. Il signifcato di queste elezioni non è tanto quello di ottenere un incarico politico, quanto quello di guadagnarsi il perdono. Queste elezioni non produrranno un nuovo eroe, ma potrebbero fornire un’opportunità ad un ex-cattivo di riscattarsi. E alla fine il vincitore non sarà quello che sarà proclamato tale, ma colui che si comporterà secondo i nuovi voleri dell’elettorato. Scrittrice pakistana, emigrata in Gran Bretagna nel ’77 dopo il colpo di Stato del generale Zia. Il suo ultimo libro è The End of Innocence (Penguin)


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Pakistan

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d i a r i o

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g i o r n o

L’addio di Castro In una lettera pubblicata su Granma, Fidel Castro ha annunciato che rinuncerà alla carica di Presidente del Consiglio di Stato e comandante in capo del regime cubano. Dopo 49 anni, Castro lascerà il potere ad un successore che verrà eletto il prossimo 24 febbraio dal parlamento.

Russia su Kosovo: a rischio stabilità La dichiarazione di indipendenza pronunciata dal parlamento del Kosovo è «inaccettabile e pericolosa» e rischia di «distruggere la stabilità internazionale»: è l’avvertimento che il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha lanciato al segretario di Stato americano, Condolezza Rice. Il presidente serbo Boris Tadic ha invece promesso di fronte al Consiglio di Sicurezza dell’Onu che la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo non generera «alcun atto di ritorsione». Fermo restando che «la decisione unilaterale del governo kosovaro non potrà non incidere gravemente sull’equilibrio dell’area».

La Siria converge su Suleiman? La Siria faciliterà l’elezione all’ultim’ora di un presidente per il Libano. Lo scrive il quotidiano panarabo al-Hayat, parlando della nomina di un nuovo capo di Stato per il Paese dei Cedri che dovrebbe avvenire prima del vertice arabo in programma a Damasco per la fine di marzo. Il quotidiano, citando fonti europee, sostiene che la Siria agevolerà l’elezione del generale Michel Suleiman, comandante dell’Esercito libanese e candidato unico alla presidenza, per «costringere i principali Paesi arabi a non boicottare» il summit di Damasco.

Armenia: exit poll, vince premier Il premier uscente Serzh Sarkisian starebbe vincendo, secondo i dati dell’istituto britannico Populus, secondo o stesso sondaggio lo sfidante, Levon Ter-Petrosian, primo presidente dell’Armenia postsovietica, avrebbe ottenuto il 17,4 per cento dei voti. Al terzo posto Arthur Bagdasarian, già presidente del Parlamento, con il 14,6 per cento delle preferenze.

Palestina: per Livni si deve dialogare

Gli Usa devono dialogare con i vincitori di queste elezioni

Il generale non basta più di Lisa Curtis difficile valutare a caldo le ripercussioni che l’esito di queste elezioni provocherà in Pakistan, e ancor più complicato è immaginare sia gli sviluppi politici immediati sia come il nuovo assetto politico contrasterà la minaccia dell’estremismo religioso in molte zone del Paese. L’abilità a prevenire ed arginare la minaccia fondamentalista è strettamente collegata alla vittoria finale contro il terrorismo di al Qaeda. L’immagine degli Usa in Pakistan è minata non solo per la percezione che Washington abbia eccessivamente pesato - anche militarmente - nella guerra al terrore scatenata nel Paese, ma anche per l’incapacità americana di criticare fino adesso l’operato dittatoriale di Musharraf che spesso ha oberato la società civile. Secondo un recente sondaggio commis-

È

sionato dal Partito Repubblicano Usa, il 73% dei pakistani è convinto che l’estremismo religioso sia l’urgenza immediata del Paese, ma solo il 9% crede che il Pakistan debba accettare l’aiuto degli Stati Uniti nella guerra al terrore. Il Pakistan ha attraversato dei cambiamenti drammatici lo scorso anno, con la società civile costretta sotto il pugno di ferro di un Musharraf che vedeva compromesso il suo potere reale. La rabbia contro il presidente si è fusa e confusa con quella verso gli Stati Uniti che lo hanno sostenuto nella lotta contro i terroristi, soprattutto nelle Aree Tribali. Gli Usa ritengono Musharraf l’unico “collante” in grado di tenere insieme il Paese, ma un numero sempre crescente di pakistani lo considera un reale fattore di instabilità. Il divario fra queste due visioni può

erodere pericolosamnete il legame fra gli Usa e il Pakistan, specialmente se Washington - come sembra - sosterrà Musharraf anche dopo la batosta elettorale che ha preso. È fondamentale che gli Stati Uniti siano il più possibile pragmatici ed imparziali in questa fase post elettorale e prendano atto dei risultati. Sostenendo l’opinione pubblica locale anche assieme agli amici europei. La posizione americana su queste storiche elezioni inciderà per molto tempo sulla qualità dei rapporti fra i due Paesi. Gli Usa deve cominciare a vedere Musharraf come una figura di transizione in Pakistan ed essere pronti a dialogare con un governo legittimamente eletto dal popolo. Senior Research Fellow all’Heritage Foundation

Il ministro degli Esteri israeliano Tzipi Livni ha dichiarato ieri che i colloqui di pace con i palestinesi sono necessari per salavaguardare gli interessi del popolo israeliano. «Questi colloqui aiutano a garantire il futuro d’Israele come Stato ebraico e democratico», ha sostenuto la Livni. «Un fallimento dei negoziati con i palestinesi, getterà Israele in una guerra religiosa su vasta scala per la quale non vi è soluzione».

La Grecia teme rivendicazioni territoriali Rappresentanti del governo di Atene e di Skopje hanno dato il via a nuovi negoziati per porre fine a una disputa che dura da oltre 17 anni sul nome ufficiale della Macedonia. La Grecia minaccia di porre il proprio veto alla richiesta d’adesione della Macedonia alla Nato, che dovrà essere discusso al prossimo summit di Bucarest.Il timore è che se il nome della Macedonia fosse riconosciuto internazionalmente, allora Skopje potrebbe avanzare rivendicazioni territoriali sulle regioni nord della Grecia - soprattutto intorno alla città di Salonicco - dove vive una forte minoranza macedone, non ancora riconosciuta da Atene.

Kenya, dialogo possibile Al termine del vertice tra i leader keniani di governo e opposizione, incentrato sulla crisi post elettorale che ha causato una lunga serie di violenze nel Paese, il segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, ha detto che le distanze tra le parti non sono «incolmabili» e che entrambe dovrebbero accettare in tempi brevi una spartizione dei poteri e aprire la strada a un governo di coalizione.

Accordo Macedonia-Kosovo su visti Firmato ieri a Tirana da Sali Berisha e da Nikola Gruevsky, rispettivamente premier di Albania e Macedonia, un accordo che liberalizza il regime dei visti fra i due Paesi superando la crisi che si era innescata lo scorso mese per l’inasprimento delle procedure per il passaggio della frontiera introdotto da Skopje. Dopo l’intervento della Ue che aveva duramente criticato questa scelta la decisione di liberalizzare il regime dei visti fra i due Paesi.


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politica

Il grande tema della vita infiamma la politica, mentre Pd e Pdl scelgono la fuga

Giusto il tagliando alla “194“ giusto parlarne in questa contesa di Luisa Santolini a situazione politica, la campagna elettorale, gli orientamenti di voto, gli apparentamenti e i calcoli dei seggi stanno ormai occupando le pagine di tutti i giornali e i palinsesti dei dibattiti televisivi: iniziano le scaramucce, si prefigurano scontri più aspri anche se più civili, ognuno cerca di dare le proprie ragioni e soprattutto cerca di convincere l’elettorato sulla bontà delle proprie posizioni. Fin qui nulla di nuovo direi, tuttavia una cosa nuova va registrata e, non essendo di secondaria importanza, merita una riflessione. Sia Berlusconi che Veltroni evitano con cura di confrontarsi sui temi eticamente sensibili e, se tirati per la giacca, si limitano ad affermazioni scontate aggiungendo che questi temi non sono da campagna elettorale, perché in ogni caso in Parlamento non ci sarà una posizione univoca del partito e quindi del leader, ma libertà di coscienza in cui ognuno voterà come crede.

L

Non sono d’accordo e credo che i giornalisti, la pubblica opinione, i siti internet e tutti coloro che tengono al futuro del nostro Paese debbano interrogare candidati premier e parlamentari sulle questioni etiche e non fare in modo che tutto questo sia relegato nel limbo dei temi da evitare perché scottanti o perché di secondaria importanza. La verità è che sia Veltroni che Berlusconi hanno tutto l’interesse a tacere sulla vita, sulla morte e sulla famiglia perché i loro partiti, frutto di alleanze “forzate”, non hanno al loro interno una posizione condivisa e non possono mettere d’accordo anime diversissime che tutti ben conosciamo. È chiaro che il silenzio in questo caso è d’oro, ma non è più tempo per tacere. Sono convinta che i temi etici faranno la differenza in questa competizione elettorale, perché è chiaro che dietro ad ogni posizione su questi argomenti si nasconde una visione della società, dell’uomo e del suo destino. Occorre affronta-

Occorre affrontare a viso aperto i «valori non negoziabili». Come donna mi rifiuto di pensare che i soli temi sul tappeto siano quelli economici re a viso aperto i «valori non negoziabili» che sono tutti argomentabili e quindi non sono dogmatici. Le tattiche, le frenate, i distinguo non servono e soprattutto fanno un pessimo servizio alla verità di una campagna elettorale che si gioca a tutto campo senza remore e senza riserve. La visione della società che ogni partito ha è decisiva per gli assetti futuri e per il futuro governo e uno dei grandi meriti di Ferrara è quello di avere sollevato il velo di ipocrisia che copre da anni il dramma della soppressione di vite umane. Dietro la cultura dell’aborto si nasconde una cultura contro la vita e in trent’anni la legge 194 ha procurato non solo milioni di aborti, ma soprattutto ha fatto passare per normale la decisione della donna che, sola e senza aiuti di sorta, decide di negare la vita che ha in sé. Come si fa a mettere da parte le donne ancora una volta e far finta che queste loro scelte non siano un argomento “politico”? Cosa dire alle donne scese in piazza per i fatti di Napoli e come rispondere a quelle donne che non si riconoscono in nulla in quelle po-

sizioni e vorrebbero che quelle donne non parlassero a nome di tutte le donne ma a titolo personale? Come donna mi rifiuto di pensare che i soli temi sul tappeto siano l’economia, i salari, la sicurezza e la Tav e vorrei che tutti i parlamentari e i loro candidati premier avessero il coraggio di dedicare del tempo a dibattere questi temi, non andando nelle piazze dove tutti applaudono perché sono tutti da una parte, ma in sedi opportune che consentano un confronto aperto e franco con posizioni diverse.

Per queste ragioni ho apprezzato quanto affermato da Pierferdinando Casini a questo proposito (“di temi etici si deve parlare da subito”) e ho apprezzato l’idea di fare una inchiesta seria sulla applicazione della 194 in Italia, tutta la 194, a partire dai primi articoli dove si afferma il valore sociale della maternità e dove si dice che la Repubblica tutela la maternità dal suo inizio. Questo non significa scatenare una caccia alle streghe (che non ci sono) ma cercare di capire come e dove si può e si

deve intervenire per dare alle donne la libertà di non abortire se è vero come è vero che spesso l’aborto è dovuto a cause economiche o è dovuto ad una cultura che con indifferenza e tragica colpevolezza abbandona le donne al loro destino e le spinge ad abortire, inconsapevoli vittime di un atteggiamento pilatesco davanti ai loro problemi. Tutte le leggi andrebbero sempre monitorate perché possono avere esiti non previsti e non augurabili e dunque possono essere migliorate perché la ratio che le ha ispirate venga rispettata. Questo criterio deve valere sulle grandi riforme della scuola e della legge Biagi, sulla riforma delle pensioni e sui contratti di lavoro, sul walfare e sulla sanità. Perché non deve valere per la 194 che parla della vita di un bambino e della vita di una madre? Chi ha paura della verità e della voglia di ragionare su temi così decisivi? Ho paura che qualcuno ci sia e che sia agguerrito e, se mi si consente, accecato dalla ideologia. È di questi giorni una lettera aperta a Veltroni, Bertinotti & C. di alcune intellettuali di sinistra

(poche in verità, ma che pesano!) le quali rispolverano toni aspri e inaccettabili contro “l’offensiva clericale contro le donne” contro “l’oscena proposta di moratoria dell’aborto” contro la “recente ingiunzione a rianimare i feti ultraprematuri anche contro la volontà della madre” (il corsivo è nel testo!). In altre parole “i corpi delle donne sono tornati ad essere “cose”, terreno di scontro per il fanatismo religioso” e “queste aggressioni clericali e bigotte sono le ultime e più subdole forma di violenza mascherate dietro l’arroganza ipocrita di difendere la vita”. In conclusione “pretendono” una presa di posizione che ribadisca senza mezzi termini “la autodeterminazione delle donne, il nostro diritto a dire la prima e ultima parola sul nostro corpo e sulle nostre gravidanze” e dunque esigono “di eliminare l’obiezione di coscienza dei medici, di rendere immediatamente disponibile la pillola abortiva RU486, una serie di campagne di contraccezione fin dalle medie, l’educazione sessuale fin dalle elementari, e campagne sociali di sostegno alle donne immigrate.” “Questi sono per noi valori non negoziabili”è l’epitaffio finale. Capite? Valori non negoziabili.

Dietro questo delirante appello di donne ormai fuori dalla storia e sconfitte nei fatti c’è o no una visione di società? C’è o no una cultura che non prende minimamente in considerazione il fatto che si parla di vite umane, di bambini frutto di un abbraccio tra un uomo e una donna? E dove sono gli uomini? Cosa dicono Veltroni e Bertinotti? E Berlusconi? Come si fa a non parlare di queste cose quando si incontrano le donne e gli uomini che ancora sventolano il complotto clericale e bigotto? E quando si incontrano gli uomini e le donne che vorrebbero ragionare, ma sono travolti da questo linguaggio intollerante e inquietante? Noi dell’Udc ne parleremo e vedremo se ci arriveranno delle risposte meno furiose.


politica

20 febbraio 2008 • pagina 7

Nel Pd no dei cattolici ai radicali. Lombardo verso l’intesa col Pdl

Bonino sì, Pannella no di Susanna Turco

ROMA. Vicina al traguardo la composizione degli schieramenti in vista delle elezioni. Sul fronte del centrodestra, ieri il leader dell’Mpa Raffaele Lombardo ha avuto un incontro con Silvio Berlusconi, presente anche il leghista Roberto Calderoli, dove sarebbe stato definito un accordo di massima, secondo il quale nelle regionali, Lombardo correrebbe come candidato governatore di Pdl e Udc, mentre alle politiche si presenterebbe come Mpa, apparentato al Pdl sul modello Lega. Ulteriore ipotesi, che dipende dalla sentenza che sarà emessa a fine febbraio, quella di utilizzare come simbolo lo scudociato di Pizza. «Ci sono i presupposti per un’intesa», ha confermato il leader Mpa dopo l’ufficio politico. «Quelle siciliane sono elezioni locali, e io non affido il mio futuro a Lombardo», ha commentato con freddezza Pier Ferdinando Casini. Sul fronte del centrosinistra, dovrebbe invece chiudersi oggi in un modo o nell’altro - la trattativa tra Partito democratico e radicali sull’eventuale alleanza elettorale. I radicali resterebbero favorevoli a chiudere l’accordo («ma scritto nero su bianco», dicono nel partito) che, se non consentirà loro di presentarsi apparentati sul modello Idv, per lo meno gli garantisca una decina di deputati nelle liste, più un ministero e una presidenza di Commissione in caso di vittoria. Su questa soluzione, che è all’incirca quella già prospettata in via informale dai vertici di Piazza Sant’Anastasia, pesa tuttavia il parere contrario della componente cattolica, che ieri si è unanimemente pronunciata contro l’ingresso dei radicali nel Pd. Conversando con questo giornale, la senatrice teodem Paola Binetti spiega infatti che per una volta tutte le varie componenti cattoliche, della ex Margherita soprattutto, sono concordi nel dire che l’innesto di un partito identitario come quello radicale può «alterare la natura del Pd», gli può nuocere. E torna perciò a battere sull’idea già espressa da Fassino giorni fa: Bonino sì, Pannella no.

go e non credo che l’assenza dei radicali rappresenti un suo indebolimento. Viceversa, molte loro battaglie sono già presenti nella nostra proposta».

Da questa mitragliata

«La penso esattamente come Castagnetti», esordisce la senatrice, «I radicali portano avanti alcune battaglie profondamente condivisibili, come quella sulla moratoria sulla pena di morte, però certamente ci sono nel loro dna battaglie che non potremmo condividere, perché toccano principi non negoziabili per noi fondamentali, e penso all’eutanasia, alla liberalizzazione delle droghe, a una certa cultura nell’affrontare la questione dell’aborto. Punti su cui non possiamo che differenziarci,

Fa eccezione la Lombardia: tra i club e la coordinatrice Gelmini c’è feeling e la Brambilla sarà tra i capilista. Oggi si scioglie il nodo Mpa noi e loro. E quando dico noi intendo il mondo cattolico rappresentato nel Pd: non è un caso che tutte le componenti della Margherita cattolica si siano espresse in senso contrario. Un’alleanza non sarebbe utile nemmeno in termini di consensi», spiega. Qualcuno dice che l’ingresso di Pannella e C. connoterebbe più chiaramente la laicità del Partito democratico. «Ma la laicità - continua Binetti si declina nell’apertura, nel dialo-

di difficoltà si salva solo la Bonino. «Ha fatto un lavoro unanimemente apprezzato, e sa di poter contare sulla stima che non le manca, è esplicita ed è anche la mia», dice Binetti. «E non solo a parole. Ho potuto verificare nei fatti, partecipando alla commissione Affari europei, la sua capacità di risolvere i problemi». Dunque porte aperte per la Bonino: «Come singolo politico andrebbe benissimo, anche perché potrebbe sottoscrivere statuto e programma del Pd, ma lo farebbe ad personam. Altra cosa è inserire nel Pd un partito come quello radicale. A mio avviso non è possibile». E se un accordo si dovesse fare, la Binetti che farebbe? «Dipende da come si fa l’accordo, chiederò anche io di essere rassicurata sui temi eticamente sensibili. A un certo punto era sembrato che i radicali potessero entrare nel partito con una sorta di silenzio sui temi etici. Ecco, io non potrei pensare a una convivenza che si regge sul silenzio. Bisogna dimostrare a tutti i cattolici, che in questa tornata elettorale hanno un paniere piuttosto ricco di offerte, perché dovrebbero dare al Pd il loro voto». Ma Binetti potrebbe, su questa questione, pensare di lasciare il partito democratico? «Guardi, io sto in questo partito anche come persona che si fa garante, presso una parte importante del popolo cattolico, che il Pd non confliggerà coi loro valori. Beh, coi radicali dentro, sarebbe difficile dimostrarlo. Bisognerebbe avere tante di quelle rassicurazioni...». L’unica soluzione della senatrice, resta dunque la Bonino: «È una donna intelligente, è importante che stia in un contesto nel quale possa esprimere le sue capacità. Del resto, alla fine Cappato è europarlamentare: che resti in Europa, potrà digiunare tranquillamente». E Pannella? «Non se ne parla proprio, penso che un suo ingresso l’abbiano escluso tutti».

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Saltano i faccia a faccia in tv Oggi alle 14 la commisione parlamentare di vigilanza sulla Rai tornerà a riunirsi. Ci sarà un ulteriore tentativo di trovare un accordo sulla par condicio in campagna elettorale. Ma dopo la riunione di ieri dell’organismo bicamerale, è diventato abbastanza chiaro che i faccia a faccia tra candidati premier stavolta non ci saranno. Quando si votò nel 2006 ve ne furono tre, tutti su Rai Uno. Ma oggi, con otto candidati premier, significherebbe fare cinquantasei confronti: ognuno dovrebbe sfidare tutti gli altri. «Se il numero dei candidati premier resta questo - ha spiegato il presidente della commissione Mario Landolfi - parlare di faccia a faccia è tecnicamente impossibile».

Stop a Ferrara, Meloni candidata a Roma Tramonta l’ipotesi di Giuliano Ferrara candidato alla poltrona di sindaco di Roma per il Popolo della libertà. Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sarebbero ormai decisi ad optare per Giorgia Meloni al Campidoglio e l’azzurro Alfredo Antoniozzi alla Provincia. La candidatura del direttore del Foglio a primo cittadino della Capitale si è bloccata sulla condizione posta nei giorni scorsi: l’apparentamento con il Pdl alle Politiche per la lista pro-life.

Election-day e Lombardo, sciolta l’incognita siciliana Due notizie nello stesso giorno. Mentre il leader del Movimento per l’autonomia Raffaele Lombardo raggiungeva l’intesa con Silvio Berlusconi per essere candidato presidente in Sicilia (ottenendo anche il sostegno di Totò Cuffaro e quello implicito di Pier Ferdinando Casini), la giunta regionale dell’Isola fissava per il 13 e 14 aprile la data del voto per eleggere il nuovo governatore. Anche in Sicilia dunque ci sarà l’election day.

Bertinotti: indicizziamo salari e pensioni Introdurre un meccanismo annuale di indicizzazione di salari e pensioni. È la proposta lanciata ieri da Fausto Bertinotti durante la registrazione di ”Porta a Porta”: «Non penso di proporre la scala mobile ma un meccanismo annuale di indicizzazione di salari e pensioni, in modo che se al primo gennaio il pensionato o il lavoratore ha un potere di acquisto 100 e a fine anno si ritrova a 95, viene riportato a 100».A pagare l’aumento, dice il candidato premier della Sinistra arcobaleno, sarebbero «le imprese». A suo giudizio l’impoverimento dei lavoratori dipendenti seguito all’introduzione dell’euro non ci sarebbe stato «se ci fosse stato uno straccio di scala mobile», visto che con uno strumento del genere «gli aumenti sarebbero stati pagati da tutti».

Voto ”utile”: Casini risponde a Fini Dopo Silvio Berlusconi anche Gianfranco Fini ha sposato la tesi del ”voto utile”, concentrato cioè sul Popolo della libertà per gli elettori di centrodestra e sul Partito democratico per quelli di centrosinistra. L’ex vicepremier si è sbilanciato sulla questione ieri mattina durante la trasmissione ”Radio anch’io”. Gli ha risposto dopo poche ore Pier Ferdinando Casini, per il quale il discorso dimostra che al Pdl mancano idee da proporre al Paese. Secondo Fini «il voto utile sarà ben presente nella testa degli elettori: i quali - ha sostenuto il leader di An - non voteranno per quei partiti presenti sulla scheda solo per onor di firma senza possibilità di governare». Il candidato premier dell’Udc ha commentato con ironia la presa di posizione di Berlusconi e Fini: «Penso che sono alla frutta: se a due mesi dal voto ricorrono all’argomento del voto utile anziché parlare dei programmi vuol dire che hanno poche proposte».

Il comitato del referendum fa ricorso La partita non è ancora chiusa, secondo i promotori della consultazione sulla legge elettorale. Ieri il comitato presieduto da Giovanni Guzzetta ha presentato ricorso davanti alla Corte costituzionale contro la previsione del rinvio di un anno del referendum. «L’obiettivo dell’iniziativa», spiegano dal comitato, «è assicurare che il voto sui quesiti si celebri, come stabilito dal Consiglio dei ministri lo scorso 5 febbraio, il 18 maggio 2008». A poco più di un mese di distanza dalle Politiche, dunque.


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politica

ROMA. Da cattolico Beppe Pisanu non perde la speranza. Guarda oltre le divisioni di questa campagna elettorale, elabora la rottura tra il Popolo della libertà e l’Udc come un episodio, un passaggio destinato a risolversi quando «tutti noi moderati ci ritroveremo, già dopo le elezioni». Sarà la comune appartenenza al popolarismo europeo il punto di confluenza, sarà «la forza stessa delle cose». Intanto l’ex ministro dell’Interno, da senatore uscente, sta per riproporsi nella lista unica varata da Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Ma lo stesso Pdl per lui è il primo atto di un grande progetto, non un punto di arrivo, e non pregiudica affatto la riappacificazione con Pier Ferdinando Casini. «Con la confluenza di Forza Italia, An e altri gruppi minori nella lista del Pdl è concretamente iniziato il cammino del partito unico dei moderati italiani. È un fatto molto importante, destinato a segnare profondamente il futuro politico del nostro Paese». Un primo passo, dice: lei non esclude dunque un futuro ricongiungimento con l’Udc. «Non solo non lo escludo, ma auspico vivamente che l’incontro con il partito di Casini possa realizzarsi dopo la campagna elettorale». Adesso sembra impossibile. «Ricordiamo una cosa: molti amici dell’Udc insieme a tanti altri esponenti di Forza Italia e An sono stati tra i principali protagonisti di quei convegni di Todi nei quali fu elaborato il progetto del partito dei moderati. Da quel lavoro è venuta fuori una carta dei valori che poi è stata sottoscritta da Berlusconi, Fini e Casini». È una burrasca destinata a esaurirsi presto, insomma. Converrà che il suo punto di vista è veramente un’eccezione, in questo momento. «Guardi, la mia impressione è questa: un gruppo di amici che ha camminato a lungo con noi in vista di un traguardo ben individuato ha preso adesso un sentiero laterale, ma solo per poco tempo». Intanto c’è una rottura pesante per l’elettorato. Siamo lontani dal caso francese: Casini non è assimilabile a François Bayrou, il cui partito si riconosceva in una famiglia politica europea diversa dal Ppe. Noi parliamo di forze che rientrano tutte nell’alveo popolarismo o, nel caso di An, aspirano a farne parte. «E infatti siamo in un caso del tutto diverso: pur deviando rispetto al percorso politico interno, gli amici dell’Udc restano a pieno titolo nella casa comune del Partito popolare europeo, e comunque lì ci ritroveremo». Ora però c’è il voto e la divisone apparirà evidente. «Adesso forse è difficile richiamare alla mente certe questioni di fondo: ma il 2 dicembre del 2006 nella folla straripante di piazza San Giovanni si coglieva una domanda possente di unità dei moderati. E io credo che quella domanda oggi interpelli particolarmente gli amici dell’Udc». Sarà anche per il sistema elettorale, ma sul fatto che il centrodestra possa ricompattarsi in Parlamento pesano molte incognite. «Non solo gli amici dell’Udc, ma anche

Parla Giuseppe Pisanu: con l’Udc il cammino riprenderà dopo le elezioni

«Sono certo,ci ritroveremo» di Errico Novi tutti noi del Popolo della libertà, nonostante le incomprensioni e i rischi di questa campagna elettorale, dobbiamo tenere presente che il traguardo dell’unità ci è stato assegnato dai moderati e che lì prima o poi dovremo arrivare insieme». Dalle cose che dice, senatore, si capisce che avverte non solo il peso ma persino il dolore di questa rottura. «Certamente è una vicenda che addolora tutti. E proprio perché credo che possa essere sanata in tempi ragionevolmente brevi spero che ciascuno di noi faccia ora tutto il possibile per attenuarne gli effetti negativi».

«Nel partito di Casini ci sono figure che hanno scritto la Carta dei valori di tutto il centrodestra», dice il senatore Va bene che siamo in campagna elettorale ma, insomma, cerchiamo di non farci troppo del male. «Non conviene a nessuno nel centrodestra regalare spunti polemici alla sinistra». Ma lei crede a un recupero del Pd? O è Veltroni che si aggrappa a quello che capita? «Non mi lascio suggestionare da certi espedienti elettoralistici e so bene che allo stato attuale delle cose il vantaggio del centrodestra è praticamente incolmabile. Il Pd di Veltroni sta facendo di tutto per apparire come un partito di sinistra che marcia verso il centro. Con il

deliberato proposito di arrivare ai voti dell’area moderata e giocarsi tutto con questa parte di elettorato». E questo può diventare un rischio per il Pdl? Bisogna affidarsi a qualche tema in particolare per respingere l’attacco? «Ma finora è Veltroni che ha cercato di appropriarsi dei temi classici del centrodestra: dalla sicurezza alle tasse, alla questione dei valori e dell’identità sostanzialmente cristiana del popolo italiano. E non credo che su questo terreno possano essere più credibili di noi». Si può perdere qualche quota di consenso? «Sono convinto che mentre Veltroni marcia verso il centro, il Pdl può avanzare a passo ancora più spedito verso il blocco sociale della sinistra, compresi i lavoratori dipendenti. Già oggi il centrodestra è maggioritario nel mondo operaio del Nord». Ecco, questo è un discorso finora sottovalutato dalla campagna elettorale. «Ed è per questo che l’operazione di Veltroni mi sembra un po’ spericolata: rischia di perdere a sinistra molto più di quanto possa sperare di guadagnare al centro». Quando dice a sinistra non intende verso la Sinistra di Bertinotti. «Assolutamente no, faccio non a caso l’esempio del Nord, dove il centrodestra è già maggioritario anche nella mitica classe operaia del triangolo industriale». C’è un problema diverso al Sud: lì bisogna competere con sistemi di potere locali come quello campano che rischiano di essere una zavorra per qualsiasi governo.

«La Campania, la Calabria e altre aree del Mezzogiorno continentale cercano disperatamente di uscire dalla morsa della malapolitica e del crimine organizzato. Serve un’iniziativa dei gruppi dirigenti più responsabili della società, dell’economia e della politica meridionale. A noi del Pdl spetta senz’altro un grande sforzo per inserire nelle liste personalità riconoscibili del mondo cattolico proprio al Sud, dove la domanda di competenza e moralità è così acuta e quasi angosciante». I cattolici moderati: sarebbe incomprensibile vederli divisi in Parlamento. «Ma in questi ultimi quindici anni noi ci siamo ritrovati uniti sulle istanze eticoreligiose come su tutti i grandi problemi della politica interna e internazionale. A elezioni fatte sarebbe molto più difficile distinguersi che ritrovarsi insieme. Guardi, il mio auspicio non è sentimentale, è razionale: fa affidamento sulla forza delle cose». C’è un rischio di dispersione del voto moderato, di uno smarrimento tra gli elettori? «Certamente ci potrà essere smarrimento, disorientamento. Ma non fino al punto da spingere gli elettori moderati ad andare a sinistra». Servono nervi saldi, per scongiurare il pericolo. «Sono convinto che tutti i dirigenti del Pdl e dell’Udc hanno il dovere di affrontare le difficoltà della campagna elettorale con la consapevolezza di essere momentaneamente divisi in una prospettiva definitivamente unitaria. Che senso avrebbe farci del male tra noi a beneficio esclusivo dei nostri avversari?».


politica ngelo Panebianco, nel fondo pubblicato domenica scorsa dal Corriere della Sera (“Il partito dei cattolici”) individua con la consueta lucidità, i problemi posti dalla scelta dell’Udc di non subire uno scioglimento forzato e, dunque, di “correre da solo”. Provo a interagire con alcune delle riflessioni di Panebianco al fine di indicare qualche variante allo scenario descritto dal suo articolo, cosa che mi pare decisiva per comprendere appieno la scelta politico-strategica del partito di Casini. 1) Panebianco sostiene che la ragione profonda della rottura dell’Udc con Berlusconi sta nel fatto che quest’ultimo continua a credere nel bipolarismo e Pier Ferdinando Casini no. Sulla base di questa premessa, Panebianco non nasconde le sue simpatie per la scelta di Berlusconi ricordando che nelle democrazie occidentali il sistema bipolare non prevede l’“occupazione stabile” del centro da parte di un partito, ma la “concorrenza” di due partiti che, da destra e da sinistra, si contendono i voti di centro. Quest’ultima osservazione è incontestabile. E resta tale anche se l’esperienza dei liberali tedeschi indica una storica eccezione. Resta tale, però, a una condizione: che ci si intenda sui termini di destra e di sinistra. Panebianco li usa, giustamente, in chiave sistemica, per indicare le due carreggiate alternative dello schieramento parlamentare. Ma l’analisi cesserebbe di essere corretta se gli stessi concetti venissero usati in chiave identitaria. Ed è proprio questa la confusione che oggi impera in Italia.

A

Qualche esempio: la Cdu tedesca può essere definita un partito di destra? E può essere definito di destra il Partito popolare spagnolo? Certo che no. Si tratta evidentemente di partiti di centro, di marcata ispirazione cristiana. Analogamente per il Labour party di Blair farei fatica ad usare il termine “sinistra”, così come lo intendiamo in Italia. E anche in Germania Schroeder ha dovuto dividersi dalla sinistra di Lafontaine in modo simile a ciò che Veltroni sta oggi meritoriamente facendo in Italia con quella di Bertinotti. Cosa se ne ricava? Che in un buon bipolarismo i due competitori, di destra come di sinistra, sono in realtà due grandi partiti di centro. Sta succedendo la stessa cosa in Italia? Non mi pare proprio. Il Pd di Veltro-

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La scelta dell’Udc non è “terzista”. Si è aperta

UNA SFIDA SUL FUTURO del centrodestra di Ferdinando Adornato ni forse sta sulla strada giusta. Ma è ancora assai nebuloso il suo volto identitario, terribilmente diviso sulla “questione cattolica” in un progetto nel quale non appare agevole mettere d’accordo la Binetti e la Bonino o nel quale, in altri termini, la scelta di aderire al Partito Socialista Europeo rischia di mettere in crisi almeno un terzo dei riferimenti politicoculturali che erano stati dell’Ulivo, e che ancora oggi animano il Pd. Sull’altro versante, la lista proposta da Berlusconi e Fini appare ancora più distante dal

troni. In altre parole: si tratta solo di un escamotage, un’ammucchiata (in tutto eguale a prima) realizzata però in un partito solo. Non conveniva allora tenere in piedi l’alleanza della Cdl, limitandola magari ai quattro soci fondatori? In secondo luogo, la sbandierata adesione al Ppe, essendo però condita dalla rottura con l’Udc, non riesce a mascherare l’evidente caduta nell’irrilevanza dell’ispirazione cristiana. Sia Berlusoni che Fini non sono in alcun modo leader di riferimento etico: il loro identikit va-

loriale è, per loro stessa scelta, ridotto al minimo. Altri sono i loro pregi: non certo quelli di credere nell’ispirazione cristiana della politica. Il fatto che all’interno di Forza Italia e di An siano tanti i militanti e i dirigenti di estrazione cattolica non risolve il problema: semmai mette questi ultimi in condizione di grave imbarazzo.

Stando così le cose, non è affatto detto che la scelta dell’Udc debba essere letta come una scelta “terzista”. Al contrario: essa rappresenta l’inizio di

È una battaglia che non può esaurirsi con le prossime elezioni. Oggi è Davide contro Golia. Ma la scommessa sul futuro non è quella di una forza di interposizione tra due giganti, quanto gettare il seme di un “gigante buono”, quel grande partito dei moderati, di centro e cristiano, che oggi il Pdl non è traguardo di formare un grande partito di centro. Non solo perché, rifiutando l’alleanza con l’Udc, ha di fatto sancito una rottura con parte significativa dell’elettorato di centro, ma soprattutto per altre due ragioni: la prima riguarda la natura del listone Pdl. Si tratta della riedizione di un partito carismatico, privo di un preciso quadro di valori di riferimento, nel quale possono convivere Capezzone e Giovanardi, la Mussolini e Dini, Bossi e Pisanu, al solo scopo di prendere un voto in più di Vel-

una battaglia per superare, anche nel centrodestra, il bipolarismo selvaggio dell’ultimo decennio. In altri termini: l’Udc ”usa”oggi il suo simbolo in concorrenza con il Pdl, puntando sui concetti di autorità, di merito, di responsabilità, di serietà, per fare in modo che non sia un partito spostato a destra, dominato da una logica pubblicitaria e proprietaria della politica, indifferente all’ispirazione cristiana (un partito in definitiva non moderato) l’unico rappresentante “bipolare”del centrodestra. E’ evidente che tale battaglia, appena agli inizi, non può esaurirsi con le prossime elezioni. Oggi è Davide contro Golia. Importante però è intenderla correttamente: la scommessa

sul futuro non è quella di una forza di interposizione tra due giganti. Ma gettare il seme di un “gigante buono”, quel grande partito dei moderati, di centro e cristiano, che oggi il Pdl non è. In sostanza: alternativi storicamente a Veltroni nel bipolarismo. Alternativi politicamente a Berlusconi e Fini nella definizione del centrodestra di cui ha bisogno l’Italia.

2) Panebianco considera infine irrealistico riproporre nell’Italia di oggi “il partito dei cattolici”. Ma davvero questo sta facendo l’Udc? Panebianco sa che io lo penso da tempo: non c’è bisogno di essere cattolici osservanti per voler difendere l’identità cristiana dell’Italia. Difendendola, infatti, si difendono anche i valori universali che fondano la libertà delle nostre democrazie. Perciò non è detto (lista Ferrara docet) che debba essere solo “il partito dei cattolici”a rappresentare questi valori. Eppure, lo ripeto, succede un fatto assai curioso: oggi né Berlusconi, né Fini, né Veltroni (nonostante tanti cattolici votino per i loro partiti) intendono dare personalmente battaglia sui temi “eticamente sensibili”. Questo è il motivo per cui, sulla difesa dell’identità cristiana dell’Italia, finisce per avere ragione Panebianco: si tratta di uno spazio occupato pressoché esclusivamente dall’Udc. Non però, ecco il punto, per la voglia di Casini di riproporre l’arcaica “unità politica dei cattolici” sul modello Dc (del resto a quei tempi tali battaglie non erano neanche immaginabili), quanto per l’abbandono sostanziale del campo da parte del Pd e del Pdl, che si rifugiano nella rituale “libertà di coscienza”, pur di non scontentare nessuno, appunto, Capezzone e Giovanardi, la Binetti e la Bonino. Per la stessa ragione, però, a contrario l’Udc, “partito dei cattolici”, può diventare anche il partito di tanti laici. E’la linea di liberal fin dalla sua fondazione: solo una nuova vera alleanza tra cristiani e liberali può creare le condizioni di un grande partito dei moderati che competa, sul centrodestra, per il governo di una matura democrazia bipolare. Traguardo che, se il buon giorno si vede dal mattino, il Pdl non può rappresentare. Insomma, con la rottura BerlusconiCasini si è aperta una sfida sul futuro del centrodestra: il big party del Ppe deve essere populista o moderato? Marketing e pubblicità possono sostituire serietà e responsabilità? Anche a queste domande cominceranno a dare risposta le elezioni del 13 aprile.


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pensieri

idel Castro ha dato l’addio al potere, ma il castrismo era morto da tempo. Un mito che si è consumato mentre l’uomo che lo incarnava “tradiva” la sua stessa rivoluzione la quale, nell’immaginario collettivo, come si diceva una volta, sopravviveva soltanto grazie alle suggestioni del “guevarismo”, un altro mito bugiardo, fabbricato ad arte dal comunismo internazionale, strumento ideologico di persuasione presso le giovani generazioni. In realtà tanto Castro che Ernesto Che Guevara sono stati legionari del totalitarismo, agli ordini del sovietismo in un’area cruciale nella quale frequentemente, negli anni Sessanta e Settanta soprattutto, hanno spirato forti venti di guerra. Cuba doveva essere l’avamposto militare e politico dell’antiamericanismo ad uso e consumo degli occidentali: è soltanto, a quasi cinquant’anni dalla rivoluzione castrista, un’isola dove il sole della libertà ancora non scalda tutti i diseredati ed i figli dei diseredati che nel 1959 scesero nelle strade dell’Avana inneggiando ai barbudos che cacciavano Fulgencio Batista,“servo” degli americani. Adesso Castro, malato e politicamente in disarmo, apertamente messo in discussione dal fratello Raul e dai molti “aspiranti” a diventare “uomini forti” del regime che verrà o che, quantomeno, proverà a rinnovarsi, lascia scie di dolore incolmabili ed un Paese distrutto dalla lebbra del potere assoluto esercitato sotto l’usbergo del comunismo, a fini tutt’altro che nobili: servire una causa che non era quella dei cubani, farsi usare da una potenza straniera, compiacerla al punto da sacrificare innumerevoli vite umane mandandole a combattere per cause che non erano le loro in giro per il mondo, soprattutto in Africa. I miliziani di Castro hanno messo a ferro e fuoco l’Angola ed il Mozambico, tra gli altri Paesi, ma di questi dettagli i castristi occidentali, ed in particolare gli italiani, non hanno mai tenuto conto, immaginando che la presenza dei “proconsoli” dei colonizzatori sovietici nel Continente nero si risolvesse in un’operazione umanitaria.

L’INTERVENTO Un falso mito idolatrato dalla sinistra occidentale

F

Il castrismo è morto, abbasso Castro! di Gennaro Malgieri potere. E’ arrivato all’età di 81 anni, malato, logorato e sostanzialmente solo per capire che il suo tempo era scaduto. Ma intanto le carceri cubane sono ancora popolate di dissidenti, la fame non ha abbandonato l’isola, la corruzione è aumentata. Però, si dice, che qualche ospedale funziona ed i bambini non muoiono più come una volta. Neppure in Urss questo accadeva, ma non bastava per dire che era il paradiso in terra. L’infedele Fidel Castro, come lo definì Yves Guilbert, nella dettagliata biografia del tiranno, ha per mezzo secolo esercitato un potere assoluto quale mai, nessun autocrate, è stato in grado di esercitare. «Per lo meno i despoti del passato - scriveva Guilbert - non solevano parlare in nome della libertà e dell’umanesimo. Questa è, del resto, una triste originalità del nostro secolo: le peggiori dittature si celano sotto la maschera della democrazia. Epoca di mala fede e di ipocrisia, in cui i tiranni brandiscono il vessillo della libertà». E’ stata questa l’impostura

Una forza di suggestione fondata su un finto ribellismo presentato da media e intellettuali incuranti di ogni effetto disastroso

Qualche anno fa, a Ignacio Ramonet, direttore di Le Monde diplomatique, che lo intervistava per un libro, Castro disse: «Sappiamo che il tempo passa e che le energie umane si sfiancano. Però le dico ciò che dissi ai compagni dell’Assemblea nazionale il 6 marzo 2003, quando mi rielessero presidente del Consiglio di Stato: “Ora capisco che il mio destino non era venire al mondo per riposarmi alla fine della mia vita”. Ho promesso loro di rimanere con loro, se lo desiderano, tutto il tempo necessario finchè avrò coscienza di essere utile, né un secondo di più, né un minuto di meno». Peccato che Castro si sia sempre dimenticato di chiedere ai suoi compatrioti se lo volevano ancora al

del castrismo. Manifestarsi come ideologia di liberazione contro la “tirannia” americana, il capitalismo occidentale, le disuguaglianze nel cosiddetto “mondo libero” e farsi esempio di martirio di fronte allo strapotere dei grandi contro cui Cuba combatteva a mani nude, secondo la vulgata corrente. Sembra quasi inspiegabile la diffusione del castrismo come “religione” rivoluzionaria se si tiene conto delle evidenti contraddizioni esibite dal regime. Tuttavia non si può negare che, per generazioni di occidentali che si riconoscevano nella sinistra, essa è stata

l’àncora alla quale attaccarsi perfino quando l’identità vacillava o addirittura andava in pezzi. La forza di suggestione del castrismo, e a maggior ragione del guevarismo, si è fondata sul ribellismo artatamente presentato da intellettuali e media incuranti degli effetti disastrosi della rivoluzione stessa della quale si sono serviti per manipolarla in chiave antiamericana con un accanimento o una devozione che non saprei se più criminale o masochista. Il risultato è stato quello che abbiamo sotto gli occhi. E per quanto svanito nell’immaginario dello stesso “popolo di sinistra”, a parte frange irrilevanti, si coglie ancora, qua e là, una certa ammirazione nei confronti di un regime che ha messo tra parentesi la libertà e non ha risolto neppure una delle grandi questioni sociali ammettendo di non poterlo fare per via della prepotenza statuniten-

se. Poi, le democrazie occidentali hanno fatto il resto. Con quanta clemenza la maggior parte degli Stati europei si sono rivolti a Cuba per giustificare, smussare, edulcorare, quel che veniva denunciato? Nel luglio 2003, come presidente del Comitato permanente dei diritti umani della Camera dei deputati, ospitai Alina Fernandez Castro, la figlia “degenere”secondo il padre, la quale rese una testimonianza agghiacciante su quanto accadeva a Cuba. Inoltre considerò che «quando si dissolse il campo socialista, tutti pensammo che anche il regime cubano sarebbe crollato, ma ciò non è successo perché esso ha trovato alleati in altre parti del mondo».

Questa è la verità. Cuba è stata “usata” da chiunque ne avesse interesse e perché l’uso fosse meno traumatico o addirittura indolore, ci si è prodigati per diffondere il castrismo ed il guevarismo come religioni rivoluzionarie tuttalpiù maneggiate con poca perizia. Ma il trionfo e la solidità di una religione, osservava qualche tempo fa Enrique Patterson, filosofo cubano e fondatore del partito socialdemocratico all’Avana, esule a Miami, «si misurano in base alla capacità di conversione senza l’uso della spada, alla sua permanenza e crescita dopo la scomparsa del messia e alla quantità sufficiente e in crescendo di miracoli. Il castrianesimo non ha ancora passato nessuna di queste prove”. Inconfutabile. Adesso è tardi perché l’“infedele”Fidel possa tornare indietro e dare sostanza ad un mito usurpato. Al debutto della rivoluzione disse: «Le Ande saranno domani la Sierra Madre dell’America». Suo fratello Raul che ne raccoglie l’eredità, aggiunse: «Cuba ha duecento milioni di abitanti: i duecento milioni di abitanti dell’America Latina, ai quali la rivoluzione si estenderà». Noi sappiamo dei morti e dei prigionieri e dei diseredati che una rivoluzione menzognera quanto criminale ha provocato non soltanto nel subcontinente americano. Di libertà non se n’è vista affatto dove sono arrivati i miliziani del servo di Mosca nei Carabi. Di miseria tanta. Ora si dice, dopo il ritiro di Castro, che la “transizione” può cominciare. Tremo all’idea che la guideranno coloro che sono al suo capezzale, perché questo accadrà. E, curiosamente, mi viene in mente un verso di José Marti, poeta cubano: «Cambiare padrone non significa essere liberi». L’Occidente lo ricordi.


&

parole

l regista americano Steven Spielberg non è l’unico intellettuale ad abbandonare il regime di Pechino in vista delle Olimpiadi di agosto. Spielberg, che era stato nominato “consigliere artistico”dei Giochi olimpici, ha accusato la Cina di non fare abbastanza per interrompere “le continue sofferenze umane” nella travagliata regione del Darfur. Ha scritto ancora: «La mia coscienza non mi permette di trattare questa questione come se fosse un semplice lavoro. Arrivato a questo punto, non devo più spendere tempo per le cerimonie olimpiche, ma devo fare tutto ciò che posso per fermare i crimini contro l’umanità che vengono commessi in Darfur». Finalmente un grande intellettuale, una firma notissima del mondo dello spettacolo mondiale eleva la sua voce per fermare i massacri in Darfur. Ma tutti gli altri, scrittori, registi, poeti, anche italiani, perchè non fanno nulla per denunciare il genocidio portato avanti da una casta di militari del Sudan asserviti alla Cina? Ricordiamo che, in oltre quattro anni, in Darfur sono stati assassinati non meno di duecentomila esseri umani, donne e bambini compresi, mentre più di due milioni e mezzo di cittadini sono fuggiti in altri paesi confinanti del Sudan. Pechino è il principale sponsor del governo di Khartoum: acquista il 70% delle esportazioni in cambio di armi e di altre attrezzature militari; ha investito 1,6 miliardi di euro, costruendo pozzi petroliferi, seicento chilometri di oleodotti, raffinerie e diversi porti. Ed è questa la principale ragione per cui Pechino si è sempre opposta ad ogni intervento delle Nazioni Unite in questa regione.

I

Ma Spielberg (e anche un gruppo composito di Premi Nobel, che ha inviato una lettera di denuncia al presidente cinese Hu Jintao) non ha protestato solo per il Darfur, bensì anche per le continue violazioni dei diritti umani, in Cina soprattutto nei confronti di giornalisti, operatori umanitari, minoranze etniche e religiose. Il caso recente più clamoroso è quello di Hu Jia, un difensore dei diritti umani, arrestato nel dicembre scorso, cui vengono negate le cure mediche e ogni visita dei familiari. Sua moglie, Zeng Jiyan è ancora agli arresti domiciliari insieme al suo bambino di poche settimane, con le linee telefoniche tagliate. Jia aveva lottato per difendere l’azione degli operatori umanitari e dei cittadini che erano stati espropriati brutalmente dalle loro abitazioni, poi abbattute per far posto a nuove strutture sportive da utilizzare proprio per i Giochi olimpici. Quei principi di umanità, di libertà e solidarietà che sono la bandiera delle Olimpiadi sembrano

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Il messaggio lanciato dal grande regista decidendo di boicottare i Giochi di Pechino

Modello Spielberg Prima di tutto i diritti dell’uomo di Aldo Forbice

totalmente negate a Pechino. Le promesse fatte dalle autorità cinesi nel 2001 al Cio (Comitato olimpico internazionale ) non sono state in alcun modo mantenute. Questo non lo afferma solo Amnesty International, che ha in corso una campagna per i diritti umani in Cina, ma anche osservatori, esperti umanitari e intellettuali cinesi.

Il governo cinese non sembra preoccuparsi troppo del dissenso, anche se sta predisponendo

La scelta è stata compiuta contro l’appoggio cinese al genocidio nel Darfur e suona come un appello ad agire al mondo della cultura una gigantesca rete poliziesca e militare, per prevenire ogni possibile manifestazione di denuncia. Il “Grande fratello cinese” vigila con molto rigore,mobilitando oltre cinquantamila militari esperti di Internet per bloccare siti e arrestate i navigatori. La censura è sempre più serrata e i giornalisti stranieri hanno ogni giorno spazi di movimento più ristretti: subiscono pressioni, minacce di espulsione e qualche volta anche arresti. C’è una notizia, fra la tante, che ci ha fortemente inquietato per il collegamento (culturale e politico?) tra le olim-

piadi di Berlino 1936 e di Pechino 2008. Da cinque anni un architetto tedesco di 72 anni è impegnato nella ristrutturazione del paesaggio urbano di Pechino in vista delle Olimpiadi. Questo signore, che si chiama Albert Speer, ha scelto come elemento distintivo del suo progetto per Pechino un asse di cinque miglia che parte dalla nuova stazione ferroviaria, attraversa Piazza Tienanmen e arriva all’Olympic Green, sede dei nuovi impianti olimpici, il Bird’s Nest e il Water Cube. Ma chi è questo grande architetto? Avevate indovinato: è il figlio del criminale nazista Albert Speer, ideatore e progettista degli edifici del Reich. Per questo ruolo venne definito “l’architetto del Diavolo”. Un altro segnale inquietante di una Olimpiade che non nasce sotto i migliori auspici,anche perché le autorità della più grande tirannia del mondo promettono, certo, ma hanno dimostrato di non voler rispettare alcun impegno sulla difesa dei diritti degli esseri umani.


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AFFARI ESTERI

Occidente MA L’ITALIA C’È ANCORA IN EUROPA? Colloquio con Franco Frattini di Maria Maggiore

BRUXELLES. Visto da Palazzo Berlyamont, a Bruxelles, «il declino dell’Italia è molto più profondo delle immagini dei rifiuti», della corruzione o delle inchieste giudiziarie di cui parlano i giornali di tutto il mondo. Quelli sono fattacci che «capitano in tutti i Paesi». Ma «il nostro ritardo in Europa, in termini di posti-chiave, capacità di lobby e di leadership è molto più radicato». Parola del VicePresidente della Commissione europea Franco Frattini. Che avverte i suoi compagni di centro-destra. «L’Europa, d’ora un poi, deve salire in cima alle priorità di governo». Vice-Presidente Frattini, mi scusi, ma le montagne d’immondizia, gli arresti e le dimissioni eccellenti, i governi che si formano e cadono come nelle montagne russe, tutto questo è normale? No, certo che no. Negli ultimi otto-dieci mesi siamo riusciti a moltiplicare un’immagine negativa dopo l’altra. Ma anche negli altri Paesi succedono cose terribili, su cui i media del mondo speculano. Pensi al Belgio, che non è riuscito a formare un governo per sei mesi. La stampa francese aveva sentenziato che il Paese era ormai morto. In Europa c’è ormai una competizione molto forte tra paesi membri, proprio perchè ci stiamo integrando sempre di più. In un mercato unico non ci possono essere né privilegi né trattamen-

ti privilegiati, perciò la competizione virtuosa si fa anche sottolineando posizioni di debolezza di questo o quel Paese. Il declino dell’Italia in Europa è solo passeggero? No, purtroppo è un problema serio. L’Italia non è in grado di fare sistema a Bruxelles, di montare una strategia per inviare in Europa i migliori funzionari. Ho cercato di capire il nostro ruolo a Bruxelles incontrando rappresentanti di imprese, sindacati. Ma al di là di incontri e eventi specifici, non c’è una strategia d’insieme per decidere come muoversi. Altri paesi ce l’hanno.

Jean-Claude Juncker

In alcune rappresentazioni permanenti, come quella francese o spagnola, c’è una persona incaricata a tempo pieno di seguire la carriera dei funzionari di quel Paese. E da noi? Sta scherzando? Quando sono arrivato quasi quattro anni fa ho voluto incontrare i nostri funzionari. Li ho riuniti tutti insieme. Mi sono interessato delle loro carriere. E loro mi hanno guardato come se venissi dalla luna, perchè nessuno l’aveva mai fatto. Il divario fra Paesi come la Francia e la Germania che hanno 28 direttori alla Commissione europea e l’Italia che ne ha 15, è vistoso. La responsabilità è di un governo piuttosto che di un altro? No, destra e sinistra hanno fatto lo stesso errore di non investire in funzionari internazionali per un periodo che va dagli anni ’80 fino all’inizio degli anni ’90. La gente non studiava le lingue, non voleva spostarsi e, sbagliando, si preferisce tenere i migliori funzionari nei Ministeri invece di mandarli in posti chiave a Bruxelles. Oggi abbiamo una generazione di funzionari, ormai prossimo alla pensione, con un grado elevato, una generazione di giovani funzionari eccellenti, mentre c’è una scarsissima presenza di funzionari di 45-55 anni, che rappresentano il core-business del potere istituzionale nella

Ue, i direttori e i capo unità. Agli italiani piace insomma stare a casa? È il sistema che non ha favorito gli spostamenti. Le faccio un esempio: quando sono stato ministro della Funzione Pubblica dal 2001 al 2002 ho proposto una legge che consente al funzionario italiano di andare in un’istituzione internazionale per qualche anno e poi tornare, salvaguardando quindi il proprio posto. Prima del 2002 non si poteva fare. Se uno partiva all’estero, perdeva il lavoro, doveva dimettersi. Non esisteva una legge. Ebbene, sa quanti funzionari hanno beneficiato di questa legge in otto anni? Tredici, solo tredici!

Tony Blair

E negli anni in cui Romano Prodi è stato a capo della Commissione europea, questo ritardo è stato recuperato? No, direi anzi che è peggiorato! Da quando sono arrivato, abbiamo fatto qualche piccola operazione di recupero, facendo nominare per esempio un vice-direttore aggiunto nella direzione di Almunia per gli affari economici. Ma occorre lavorarci ancora perchè c’è un atteggiamento per cui se l’Italia propone qualcuno, sembra che voglia oltrepassare le regole del «politically correct», se lo fanno altri è assolutamente normale e bisogna ascoltare. Quindi c’è ancora un pregiudizio anti-italiano? Altrochè. Chi comanda a Bruxelles, sempre la coppia-francotedesca? Non solo. Gli inglesi hanno una straordinaria capacità di penetrazione e comunque portano persone di grande valore. Io stesso ho un direttore generale inglese che sarà difficilissimo sostituire. E i Paesi dell’Est? Stanno marciando alla velocità del suono. Arrivano con qualità professionali ottime, parlano correntemente tre lingue – inglese, francese e tedesco- oltre alla loro lingua madre. Ragionano come gli americani, possono lavorare quattro anni a Bruxelles, poi si spostano a Vienna poi tornano a Varsavia. Nel 2008 verranno attribuite delle poltrone im-


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Occidente

«Non siamo in grado di fare sistema e inviare i migliori funzionari» portanti, come i presidenti dell’Unione e della Commissione e il ministro degli esteri. Al vertice di primavera, il prossimo 13 marzo, si parlerà dei candidati. Ma il nostro governo arriva in piena campagna elettorale. Abbiamo qualche chance? Dubito che l’Italia possa correre per una di queste poltrone. Intanto si sta trovando una convergenza in Europa intorno all’attuale Presidente Barroso a cui si riconosce piena legittimazione ad aspirare a un secondo mandato. Poi c’è il problema del Presidente dell’Unione, che deve prendere funzioni

dal primo gennaio 2009, quindi prima di elezioni europee di giugno e dell’alto rappresentante della politica estera con il nuovo doppio cappello di vicepresidente della Commissione. È chiaro che si farà un pacchetto e la presidenza francese (luglio-dicembre 2008) intende giocare un ruolo di coordinamento per queste nomine. Ecco, proprio il Presidente francese Nicolas Sarkozy sponsorizza apertamente Tony Blair a capo dell’Unione. Ma questo presidente avrà dei poteri reali d’indirizzo, oltre a fornire quel numero di telefono dell’Europa che chiedeva,

«La ratifica del Trattato di Lisbona è una priorità assoluta» tanti anni fa, Kissinger? Dipende da chi sarà nominato. Se sarà un presidente fortemente politico, come Blair, avrà capacità d’indirizzo e di coordinamento. Ma i governi decideranno. Se sarà un ottimo conoscitore delle istituzioni e un grande europeo, come il primo ministro lussemburghese JeanClaude Juncker, avrà un ruolo più penetrante nei dossier. Ma siamo ancora lontani. Arriveremo a una scelta verso la fine dell’anno. Romano Prodi potrebbe occupare un’altra carica europea ? Non lo so, ma di solito chi è stato Presidente della Commissio-

ne europea ha difficoltà a riinserirsi. E lei, ha deciso se abbandonare il cappello europeo per la campagna elettorale? Rifletterò fino alla metà di marzo e poi deciderò se sospendermi dall’incarico europeo per il tempo della campagna, come ha fatto il mio collega belga Louis Michel l’anno scorso. In tema di campagna elettorale, in quanto tempo si recupera il ritardo dell’Italia in Europa? Sei mesi, un anno, cinque anni? Dipende dalla priorità che il nuovo governo attribuirà ai temi europei. Il Popolo delle Li-

bertà deve piazzare l’Europa al primo posto, per recuperare credibilità europea, indispensabile per il nostro Paese, ma anche per poter beneficiare della strategia di crescita che rientra nel Patto di Lisbona. Insomma, per essere nella e della partita. Il 2008 sarà anno della ratifica del Trattato di Lisbona. E poi? La ratifica per l’Italia deve essere una priorità assoluta. Poi, dobbiamo agganciare la cresita, se ci sarà, e non rimetterci troppo se arriverà una recessione dagli Stati Uniti. L’Italia deve insomma rimanere nella media dei Paesi virtuosi.


Il 2009 è l’anno delle nomine europee. L’Italia è fuori

Un presidente eletto dalle Cancellerie di Enrico Singer l 13 e il 14 marzo, quando a Bruxelles si riunirà il vertice di primavera della Ue, in Italia saremo ormai nel pieno della campagna elettorale e al tavolo delle trattative europee si presenterà un premier con le valigie già pronte accompagnato da un ministro degli Esteri con la testa più al suo collegio di Gallipoli che alle questioni comunitarie. E il disastro sarà completo. Per la verità, qualcuno a Palazzo Chigi si sente addirittura più tranquillo - anche se non lo confesserà mai - perché ha trovato almeno un alibi per la disfatta che attende il nostro Paese. In quell’incontro, infatti, non si parlerà soltanto dei temi economici, ai quali tradizionalmente è dedicato il primo dei due summit annuali dei capi di Stato e di governo europei, né soltanto di Kosovo. In una fitta rete di contatti informali si disegnerà anche la nuova mappa del potere dell’Europa a venti-

I

sette che sarà, poi, formalizzata in dicembre e che scatterà dal 2009. E in quella mappa l’Italia è destinata a diventare ancora più piccola. Certo, il governo che verrà avrà il compito di risalire la corrente, di rimediare all’assenza d’iniziativa nella fase cruciale dei negoziati e, di sicuro, ce la metterà tutta. Ma il rischio è che sarà troppo tardi, che i giochi saranno già fatti.

I candidati alle due nuove poltronissime di presidente dell’Unione europea e di responsabile della politica estera ci sono già e non sono italiani. La conferma del portoghese Manuel Barroso alla guida della Commissione è una prospettiva sempre più concreta. Anche la presidenza del Parlamento europeo è fuori dalla nostra portata. Eppure l’occasione di entrare nel grande giro c’era ed è stata sprecata ben prima dell’apertura formale della crisi. Per colpa di piccoli calcoli partigia-

Nella mappa del nuovo potere europeo il nostro Paese è destinato a diventare più piccolo

ni e di enormi vergogne: a partire dallo spettacolo di Napoli sommersa dai rifiuti che ha danneggiato l’Italia più di qualsiasi statistica sui ritardi dell’innovazione o della scuola. La verità è che l’Italia conta meno in Europa da quando ha imboccato la strada del declino. Al di là dei numeri del recupero nel rapporto deficit-pil che, pure, l’Ecofin ci ha riconosciuto, ma che è costato un blocco dello sviluppo e perfino la sparizione del tanto decantato “tesoretto”. Appena una settimana fa l’Index 2008 della Heritage Foundation e del Wall Street Journal ci ha fatto scivolare al 29° posto in Europa (su 41 Paesi) e ha fotografato la realtà di un’economia che non cresce e di una società che non cambia. Ecco perché, in fondo, la crisi di governo è adesso soltanto un comodo alibi per mascherare il declassamento che ci attende nella prossima spartizione delle posizioni di potere nel vertice istituzionale della Ue. In palio ci sono diciannove poltrone: le due nuove (quella del presidente del Consiglio europeo con un mandato di due anni e mezzo rinnovabile e quella di alto rappresentante per la politica estera), le quindici di commissario, quella del presidente della Commissione e quella del presidente dell’Europarlamento.

Manuel Barroso

I favoriti sono Blair e Juncker, Aznàr è un possibile outsider. Bildt ministro degli Esteri? Nelle due poltrone di prima fila una candidatura italiana era possibile. Non tanto per la presidenza del Consiglio – dove la partita si annuncia uno scontro a due tra Tony Blair e il premier lussemburghese Jean-Claude Junker, con José Maria Aznar in posizione di terzo incomodo – ma per quello che doveva essere il “ministro degli Esteri” dell’Europa e che l’ultima versione rivista e corretta del Trattato ha ridimensionato ad “alto rappresentante”. Qui la carta italiana aveva un solo nome credibile: Franco Frattini, l’attuale commissario per Giustizia, Sicurezza e Libertà, vicepresidente della Commissione ed ex ministro degli Esteri. Qualcuno, negli ambienti del governo Prodi, aveva fatto circolare anche i nomi di Massimo D’Alema e di Piero Fassino. Ma queste erano candidature impossibili, in realtà, perché

senza alcun consistente seguito nelle altre capitali europee, oltre che assai difficili da digerire dagli Stati Uniti e da Israele. E nella scelta del primo “alto rappresentante” della politica estera dell’Europa anche questo conta. Nel giro delle alte burocrazie bruxellesi, che di solito sono molto bene informate su tutte le trattative segrete che s’intrecciano tra i Paesi dell’Unione, si racconta che c’è stato un momento in cui l’Italia avrebbe davvero potuto conquistare la poltronissima di “ministro degli Esteri” per Franco Frattini. Quelle che circolano, naturalmente, sono soltanto delle voci che i diretti interessati non vogliono nemmeno commentare. Ed è normale che sia così perché in questa fase del totonomine non ci sono né dichiarazioni ufficiali né, tantomeno, esistono verbali degli incontri. L’ipotesi sarebbe


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Occidente stata questa: Frattini avrebbe dovuto già prendere il posto dello spagnolo Javier Solana, che è l’attuale Alto rappresentante del Consiglio europeo per la sicurezza e la politica estera, per adesso, con poteri limitati rispetto a quelli che il nuovo Trattato gli conferirà dal gennaio 2009 e che comprenderanno anche il ruolo di vicepresidente della Commissione. Il passaggio di Frattini al posto di Solana, per di più, avrebbe liberato in prospettiva un’altra poltrona di commissario per l’Italia al momento della formazione del futuro esecutivo europeo. L’ipotesi era caldeggiata da un gruppo di Paesi che non sostiene più Solana (socialista ed ex segretario generale della Nato) che è al suo posto dal 1999 e che Zapatero era anche pronto a candidare come sindaco di Madrid. Ma sarebbe stata stoppata sul nascere proprio dal governo Prodi che aveva in mente altri progetti: secondo alcuni, anche quello di trovare una casella europea per Tommaso Padoa-Schioppa o per Paolo De Castro. Risultato: nella corsa alla nuova carica di “ministro degli Esteri” europeo le azioni di Javier Solana, a questo punto, sono precipitate al minimo perché un gruppo di Paesi – tra i quali molti fanno parte del nuovo blocco dell’Europa orientale – si è già pronunciato contro di lui e chi ci ha

guadagnato è il capo della diplomazia svedese, il conservatore Carl Bildt, che oggi si presenta come il candidato più forte alla nuova carica.

Per la poltronissima di primo presidente del Consiglio della Ue i pretendenti “ufficiali” – nel senso che hanno già un nucleo di loro sostenitori – sono due: l’ex primo ministro britannico, Tony Blair, che ha l’appoggio dichiarato del presidente francese Nicolas Sarkozy, e JeanClaude Juncker, premier del Lussemburgo, sostenuto da Angela Merkel. Due candidati agli antipodi: Juncker è un popolare, è leader di uno dei Paesi piccoli (altra “categoria”che il manuale Cancelli europeo prende in considerazione) e fondatori della Ue. Blair è laburista, esponente di uno dei grandi Paesi dell’Unione che, per di più, ha la posizione defilata dal nocciolo duro europeo (non è nell’euro e nemmeno nell’accordo di Shengen sulla libera circolazione), ma proprio per questo potrebbe diventare una specie di simbolo dell’integrazione britannica nell’Europa comunitaria. In questa complicata partita a domino per le due nuove poltronissime della Ue potrebbe entrare come outsider anche l’ex premier spagnolo José Maria Aznar, anche lui esponente di spicco del partito popolare. Ma, sempre in

Frattini avrebbe potuto conquistare gli Esteri ma sarebbe stato fermato da Prodi

libri e riviste

e crociate viste con gli occhi dell’Islam. Come quelli del venerabile quadi al Horauni, scappato dalla Gerusalemme, conquistata il 15 luglio del 1099 dai frang, i franchi - come hanno sempre chiamati gli arabi i guerrieri biondi che venivano dal nord - e giunto ad una corte di Bagdad apatica e indolente, che si scuoterà solo mezzo secolo più tardi comprendendo meglio il pericolo per l’intero universo islamico. La prima sfortunata crociata - l’esercito di straccioni - che s’infranse contro le mura di Nicea, lunghe un farsakh (6 chilometri) con 240 torri e l’astuzia del suo difensore Quislig Arlan, principe Selgiudico, erede dei guerrieri dalle lunghe trecce che venivano da oriente ed erano imbattibili con l’arco. Se c’era un nome conosciuto, nell’XI secolo, in Asia come in Europa, era il loro e quello della loro cavalleria leggera. La battaglia che

L

Javier Solana

considerazione del “Cencelli europeo”, i quattro posti-chiave del vertice europeo dovranno essere comunque divisi equamente tra le due grandi famiglie politiche tenendo conto anche delle altre variabili come Nord e Sud dell’Europa, nuovi e vecchi Paesi membri, piccoli e grandi. Un gioco a incastro di pesi e contrappesi. Così, se il laburista Blair dovesse diventare presidente, il responsabile della politica estera dovrebbe essere un popolare ed anche le altre due cariche – presidente della Commissione e presidente del Parlamento europeo – dovrebbero rispettare la stessa logica. La costruzione finale di tutta l’architettura del potere della Ue sarà completata sotto la regia di Nicolas Sarkozy per-

portò alla conquista di Nicea - vicina a Costantinopoli - e poi di Smirne, prima di puntare a sud verso la Terra Santa, segnò il passaggio di un’epoca per l’Islam. La storia del Basileus dei Rum (romani) come i musulmani definivano i greci bizantini, che poco si fidava dei franchi, come dei selgiudichi, ma che, terrorizzato, chiedeva continuamente aiuto alla prima Roma, fu un accenno della fine - avvenuta qualche secolo dopo dell’impero d’Oriente. Un Islam tutt’altro che unito e pronto alla difesa immediata dell’umma minacciata, è quello che emerge dalle pagine di un libro che racconta le crociate dalla parte dei fedeli di Allah. Amin Maalouf Le Crociate viste dagli Arabi Sei, pagine 303, euro 10

Il nuovo governo avrà il compito di rimediare all’assenza nei negoziati ché la presidenza dell’Unione nella seconda metà dell’anno spetterà alla Francia. Con una singolare coincidenza: mentre negli Stati Uniti la corsa alla Casa Bianca si concluderà, in novembre, con un voto al termine della battaglia delle primarie che sta appassionando milioni di persone da una parte e dall’altra dell’Atlantico, il primo presidente dell’Europa uscirà dal segreto delle riunioni dei capi di Stato e di governo della Ue. Non a caso l’ex ministro per gli Affari europei bri-

l’editore di una delle testate più conservatrici d’America a scendere in campo per risvegliare le truppe repubblicane dalla sindrome da sconfitta e dall’autoflegellazione. Dopo che tanti rappresentanti della fronda repubblicana, da Tom De Lay a James Dobson, avevano spiegato perché il partito non era pronto a governare il Paese per la terza volta consecutiva, Kristol ci spiega che, in fondo, le cose non vanno tanto male. Il neoconservatorimo è riuscito a difendersi dagli attacchi dei “realisti” in politica estera, rinnovando il pensiero politico sui temi cari agli americani come sanità, tassazione e famiglia. Leccate le ferite il Good old party potrebbe riparare i danni e ripartire verso Pennsylvania avenue. William Kristol Good News for Conservatives The Weekly Standard – 18 febbraio 2008

È

tannico, Denis MacShane, ha scritto che il nuovo presidente del Consiglio europeo «somiglierà più al segretario generale dell’Onu o all’allenatore della nazionale di calcio e dovrà avere le stesse loro capacità di mediare». Doti che, secondo MacShane, naturalmente, non mancano all’ex inquilino di Downing Street, tanto che il suo intervento sul Financial Times aveva un titolo inequivocabile: «L’Europa ha bisogno della leadership e dell’abilità di Blair».

egemonia attraverso il consenso culturale in grado di conquistare l’appoggio del mondo. Nye, professore all’Harvard University, ci spiega good e bad practice nella conquista dei cuori e delle menti da parte dell’ultima potenza egemonica: gli Stati Uniti d’America. Ciò che funziona e quello che danneggia la causa dell’esportazione della democrazia o delle opportunità – secondo una più recente interpretazione. Strumenti culturali che potrebbero portare ad una ricomposizione delle fratture lungo la faglia della weltanschauung tra Occidente e Oriente. Joseph S. Nye Jr. Soft Power Einaudi, pagine 187, euro 15

L’

a cura di Pierre Chiartano


pagina 16 • 20 febbraio 2008

Occidente

Per il presidente della Commissione Esteri la Ue predica bene e razzola male, tenendo a distanza i Paesi dell’Est

Europa, non temere Solidarnosc di Jacek Saryusz-Wolski

BRUXELLES. «Cammina, cammina Dubrowski! Cammina, dalla terra italica alla Polonia!» Queste parole dovrebbero suonare familiari a un lettore italiano perché sono l’incipit della seconda strofa dell’inno nazionale polacco, scritto nel 1797 da Józef Wybicki a Reggio Emilia, mentre le truppe polacche stavano in Italia. In quegli anni sia la Polonia che l’Italia erano divise e non pensavano all’indipendenza. Oggi, due secoli do-

ro valori si sentivano parte dell’Unione europea già da molto tempo. Da questo punto di vista, il processo di allargamento avrebbe potuto essere più rapido. E, contro gli scettici da entrambe le parti, ha dimostrato con successo i vantaggi che ne derivano per tutti.

Quando la Polonia ha aderito all’Unione europea, ha portato con sè lo spirito di Solidarnosc. E non è una coincidenza

Riformiamo il potere post-westfaliano con la democrazia, non con le armi po, entrambe le nazioni si tengono per mano, insieme agli altri Paesi dell’Ue, per costruire l’Europa unita, la nostra casa comune, dove la pace prevale e si condividono gli stessi valori. Non fosse stato per la bizzarria della storia, la Polonia sarebbe sicuramente stata, al pari dell’Italia, tra i padri fondatori della Comunità europea.

Nel 1980, nacque il movimento Solidarnosc. All’apice del suo successo, sotto la guida del premio nobel Lech Walesa, il movimento contò quasi dieci milioni di polacchi. Questa dimostrazione massiccia di anticomunismo comprendeva anche un sentimento eroico, perché chi si ribellava veniva immediatamente perseguitato dal regime. Gli scioperi organizzati da Solidarnosc forzarono però i leader comunisti a cedere e ad aprire al dialogo. Le cosiddette “tavole-rotonde” cominciate nell’Ottantotto culminarono nel cambiamento pacifico del sistema polacco, aprendo la strada ai cambiamenti anche nei Paesi confinanti: gli ungheresi organizzarono a loro volta delle tavolerotonde, la Germania dell’est assistette alla caduta del Muro di Berlino e la Cecoslovacchia fu attraversata dalla “Rivoluzione di velluto”. Dalla nascita di Solidarnosc ci sono voluti quattordici anni per diventare membri dell’Unione europea a pieno titolo. Eppure, se nel 2004 i polacchi hanno raggiunto formalmente la Ue, nella loro mente e nei lo-

Sopra, Jacek Saryusz-Wolski. A lato, un manifestante di Solidarnosc

ne, offrendo assistenza nelle riforme dello Stato e dando aiuti concreti alla società civile per la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Soltanto così l’Unione avrà realizzato le proprie ambizioni e si sarà trasformata in un normative soft power. La Polonia vuole riportare l’Europa alle sue radici, al suo spirito di Solidarietà e al suo

se proprio noi siamo stati tra i primi ad appoggiare la Rivoluzione arancione in Ucraina nel 2004-2005. Oggi a Kiev ci sono un presidente e un governo democraticamente eletti ed entrambi si dichiarano proiettati verso l’Europa. La Polonia è insomma il Paese-membro che più sponsorizza una politica di vicinato con l’Europa dell’Est perché convinta di poter riformare il potere post-westfaliano con metodi democratici piuttosto che con l’uso delle armi o della coercizione. Idee, quest’ultime che stanno guadagnando terreno all’interno delle società dei Paesi dell’Est. Questo implica che la Ue deve impegnarsi e andare fino in fondo nella sua politica di vicinato, senza prendere decisioni

pregiudiziali sulle sue frontiere esterne. La politica di vicinato non può essere venduta come un’eterna anticamera. La porta dell’Unione deve essere aperta. Le radici polacche di Solidarnosc hanno predestinato la Polonia a esprimere - proprio come una grancassa - il suo attaccamento al valore della Solidarietà dentro l’Unione europea. Questa solidarietà ha una dimensione interna ed esterna. All’interno dell’Ue si traduce nell’assistenza alle regioni più povere per diminuire i gap di sviluppo e con una mutua assistenza in caso di black-out, calamità naturali, attacchi terroristici, et cetera. Ma solidarietà vuol dire anche permettere ai nuovi arrivati di raccogliere i benefici del mercato in-

La politica estera sostenga gli sforzi di transizione dei Paesi orientali terno, che è in larga parte responsabile della ricchezza dei vostri Paesi dell’ovest.

La dimensione esterna della Solidarietà è invece più confusa. L’Unione europea dovrebbe in ogni caso praticare quello che predica, quando mostra comprensione e interesse verso i suoi vicini e il resto del mondo. La sua politica estera dovrebbe essere rivolta a sostenere gli sforzi di transizio-

coraggio di metterlo in pratica. Papa Giovanni Paolo II, non solo uno dei più grandi polacchi, ma anche uno dei migliori Europei, ripeteva spesso «non abbiate paura» e la Polonia di oggi vuole ripetere questo appello. Europa, non avere paura! Presidente della Commissione Affari Esteri del Parlamento europeo e già ministro degli Affari europei nel ’91-96 e 2000-01


Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca

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DELLE IDEE


pagina 18 • 20 febbraio 2008

economia

L’attivismo del governo imbarazza l’impresa. Che però non disdegnerebbe un piano di aiuti contro la crisi

Berlino si accolla il conto dei subprime per salvare (e pilotare) le banche private di Alessandro Alviani

BERLINO. È giusto spendere oltre un miliardo di euro di soldi pubblici per salvare una banca privata? La domanda rimbalza da giorni su tutti i principali quotidiani tedeschi. Il governo federale non ci ha pensato su due volte e ha dato una risposta netta: non solo è giusto, è persino necessario per evitare guai maggiori. E così il ministro delle Finanze, Peer Steinbrück, ha promesso circa 1,2 miliardi per Ikb, l’istituto travolto dalla crisi dei mutui subprime statunitensi e tenuto in vita grazie a un nuovo pacchetto di salvataggio messo in piedi in fretta e furia.

Il ministro delle Finanze, Peer Steinbrück, ha promesso 1,2 miliardi per la disastrata Ikb. E si fanno pressioni sui grandi colossi del credito (Commerz in testa) per intervenire su Postbank e sugli istituti regionali per fondersi

La banca ha urgente bisogno di almeno 1,5 miliardi di euro, praticamente nulla, ha pensato il governo, in confronto ai 24 miliardi di depositi a rischio in caso di fallimento. Un collasso dell’istituto «avrebbe provocato una notevole perdita di fiducia per l’intera piazza finanziaria tedesca», si è giustificato Steinbrück. L’intervento di Berlino è diventato così il simbolo di un nuovo attivismo del governo federale in ambito economico-finanzia-

annunciato svalutazioni per quasi due miliardi come conseguenza della sua esposizione sul mercato immobiliare statunitense. C’è poi il caso di Postbank. L’esecutivo federale ha colto al balzo l’occasione dello scandalo fiscale che ha travolto l’ex capo di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel, per accelerare sulla vendita dell’istituto di credito. Da mesi, stando ai media tedeschi, vanno avanti colloqui con Commerzbank, affinché

rio, i cui segni sono ormai evidenti da mesi. Per rendersene conto basta guardare alle pressanti richieste giunte dallo stesso Steinbrück in direzione delle banche pubbliche regionali, affinché accelerino il loro processo di fusione. Un invito che è destinato a riproporsi nelle prossime settimane, dopo che anche BayernLb, il secondo più grande istituto regionale, ha

acquisisca Postbank e dia vita a un nuovo gigante nazionale accanto a Deutsche Bank.

Infine c’è la vicenda Ikb. L’attivismo del governo, in questo caso, non è del tutto ingiustificato. L’azionista di maggioranza della banca, specializzata nel credito alle piccole e medie imprese, si chiama infatti Kfw, istituto controllato dallo Stato.

Kfw, che detiene finora il 43 per cento di Ikb, ha avviato un processo per sbarazzarsi della sua quota. Di fronte agli elevati rischi dell’affare, però, i principali aspiranti, da Commerzbank a DZ Bank, hanno abbandonato la corsa, costringendo a rinviare di almeno una settimana il termine per la presentazione delle offerte. Le ultime operazioni del governo federale in ambito economico-finanziario si inseriscono comunque in un più generale

clima diffuso tra le imprese tedesche. Di fronte a un contesto internazionale denso di incognite e di segnali negativi, dalla frenata dell’economia statunitense alla forza dell’euro, il sistema industriale tedesco sembra infatti attendersi dal governo un intervento su un doppio binario. Intanto una parte degli imprenditori non vedrebbe di cattivo

occhio un pacchetto congiunturale sul modello di quello statunitense. Una richiesta che circola in modo più o meno velato e che traspare dagli ultimi dati sulla fiducia delle imprese che, malgrado tutto, lasciano intravedere un miglioramento rispetto a gennaio. Sia il ministro delle Finanze, Steinbrück, sia quello dell’Economia, Michael Glos, hanno comunque smorzato a più riprese gli entusiasmi. Simili programmi congiunturali «non sono assoluta-

mente la risposta giusta e adeguata all’attuale situazione», ha spiegato la scorsa settimana Steinbrück di fronte ai deputati del Bundestag (la camera bassa del Parlamento). La stessa Bundesbank si è schierata dalla parte dei due ministri, definendo superfluo un intervento straordinario.

D’altro canto il sistema industriale tedesco non disdegnerebbe un’azione di ”moral suasion” del governo sulla Banca centrale europea, affinché si decida a mettere mano ai tassi di interesse. Gli ultimi dati e le stesse previsioni dell’esecutivo indicano infatti un rallentamento del boom tedesco e soprattutto delle esportazioni, tradizionale traino della prima economia di Eurolandia. Alla richiesta di intervento su Francoforte si oppone però la stessa cancelliera Angela Merkel, che ha più volte lodato l’operato della Bce e ne ha sottolineato, in aperto contrasto con il presidente francese Nicolas Sarkozy, l’indipendenza dal potere politico.


economia

20 febbraio 2008 • pagina 19

Vertice oggi a Roma con le Fondazioni Free, Ircocervo e Magna Carta

Salari e welfare, il Pdl cambia il programma di Francesco Pacifico

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Benzina vicina al record di 1,4 euro La benzina sfiora la soglia psicologica degli 1,4 euro. I primi rincari sono arrivati ieri sulla rete Agip, che ha aumentato il prezzo della verde di 1,9 centesimi di euro al litro a 1,399 euro al litro. Per il diesel, si apprende da fonti di settore, l’aumento è di 2,4 centesimi di euro a litro, riportandolo a quota 1,320 euro al litro. anche altre compagnie hanno superato il livello degli 1,390: Q8 a 1,394 euro a litro, Shell a 1,392,Api-Ip ed Erg a 1,390. Per spiegare questo boom l’Unione petrolifera ha ricordato: «Il Brent a gennaio in media ha quotato intorno ai 92 dollari al barile contro i circa 54 dello stesso periodo del 2007, pari ad un incremento del 70 per cento. A febbraio, sempre in media, sale a 93 dollari al barile, con una punta vicina ai 97 registrata il 15 febbraio rispetto ai 57,5 del febbraio 2007».

ROMA. Cavalli di battaglia come le

Milleproroghe, emendamento per Malpensa

due aliquote fiscali uniche o l’abolizione dell’articolo 18 sono ricordi del passato. Promesse sulla creazione di posti di lavoro, il taglio dell’Ici sulla prima casa o la costruzione del Ponte di Messina andranno centellinate. Meglio dare soluzioni per rimpinguare i salari o per sconfiggere la disoccupazione al Sud. Complice il lancio dei dodici punti di Veltroni, anche il Popolo delle libertà deve accelerare sulla stesura del suo programma. E qualcosa in più si dovrebbe decidere questa mattina a Roma, quando si terrà un seminario a porte chiuse organizzato dalle fondazioni Free (guidata da Renato Brunetta) e Magna Carta (presieduta Gaetano Quagliariello) e dalla rivista Ircocervo (di Fabrizio Cicchitto) per parlare della piattaforma. L’obiettivo è discutere le proposte che sono state formulate in questi due anni d’opposizione in campo economico, sulle riforme istituzionali e sulla scuola e sull’università. Per questo sono stati invitati molti parlamentari del centrodestra ed esperti d’area, ma soprattutto è previsto l’arrivo di Giulio Tremonti. Silvio Berlusconi avrà sempre l’ultima parola ma è Tremonti, come nel 2001 e nel 2006, a fare la sintesi tra le diverse istanze e metterà nero su bianco il programma elettorale.

Anche l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini è intervenuto a sostegno dello sciopero dei lavoratori di Malpensa: «Continuo a ritenere che la proposta più adeguata per affrontare l’emergenza in cui versa lo scalo sia quella di una moratoria per il tempo necessario a modificare le regole del trasporto aereo e garantire che un altro operatore possa prendere il posto di Alitalia, senza traumi e senza conseguenze su occupazione, lavoro e sviluppo». Intanto è stato approvato nelle commissioni Bilancio e Affari costituzionali il decreto per la cassa integrazione per i lavoratori di Alitalia. Lo ha riferito il sottosegretario all’Economia, Mario Lettieri. La norma consente alla compagnia di bandiera di utilizzare gli ammortizzatori sociali. Sempre nel decreto vengono inserite risorse a favore di Malpensa. Per il 2008 sono previsti 40 milioni per far fronte alla crisi occupazionale e 40 milioni per le opere infrastrutturali.

Al netto di qualche stonatura, Silvio Berlusconi ha deciso di affidarsi a un approccio istituzionale in questa campagna elettorale. Anche perché è difficile fare promesse con un quadro finanziario non ancora chiaro: tanto che è stato promesso di usare il tesoretto per il deficit. Così al centro della piattaforma economica ci sarà soprattutto il potere d’acquisto dei salari. Seguendo il dibattito di questi mesi, l’obiettivo del Popolo della libertà sarà legare al meglio la produzione ai salari. Maurizio Sacconi avrebbe già pronto un pacchetto di misure dove la principale è una aliquota secca al 10 per cento per tutti gli elementi del salario legati alla produttività, alla quale far seguire un’ulteriore detassazione per quanto riguarda straordinari, gratifiche, tredicesime e quattordicesime. Per le aziende sgravi per gli utili reinvestiti. Proprio nel salario di produttività dovrebbe essere compreso il mag-

Unicredit riduce esposizione sui derivati

Berlusconi punterà su crescita dei redditi e incentivi alla produzione. Ritocchi alle pensioni e nuove privatizzazioni giore intervento sull’Irpef. Anche se non è escluso un provvedimento a favore degli incapienti. Più in generale, sul versante fiscale Renato Brunetta spinge per la progressiva abolizione dell’Irap, con le aziende che potrebbero ottenere un nuovo taglio del cuneo fiscale. Per le imprese dei più giovani ci saranno incentivi al microcredito, magari attraverso gli sportelli delle Poste, e l’introduzione di quella Basic tax al 5 per cento che Giulio Tremonti lanciò nel 2006. Non mancheranno alleggerimenti fiscali per attirare nuovi investimenti dall’estero oppure la riduzione dell’Iva sul turismo, seguendo quanto già fatto in Francia. Molto ambiziosa anche la piattaforma sul welfare. Se Berlusconi ha annunciato nei giorni scorsi il ritorno dello scalone Maroni, i tecnici del centrodestra sembrano studiare un innalzamento dell’età pensionabile (fino a 67) dal 2014: attraverso una nuova griglia di coefficienti di rivalutazione i lavoratori da quella data potranno scegliere se andare in riposo a 62 anni oppure restare al lavoro. E se più in generale non si vuole riaprire lo scontro registrato nei mesi scorsi,

allora va bene anche confermare gli ammortizzatori sociali previsti da Cesare Damiano nel protocollo del Welfare. Su questo versante ci saranno correttivi per la definizione dei lavori usuranti, legando le uscite alle disponibilità finanziarie. Ma nel capitolo welfare l’obiettivo principale sembra aumentare le tutele per gli atipici, magari incentivando il ricorso al pilastro privato, con forme di opting out verso sistemi a capitalizzazione individuale. Più in generale il Popolo della libertà studia per tutti i nuovi assunti, e dal 2009, un’aliquota unica pensionistica del 22 per cento, che salirebbe di un punto nei due anni. Si valuta anche l’estensione al sistema contributivo dell’integrazione al minimo per chi non ha maturato una pensione sufficiente.

Non è esclusa una riorganizzazione degli enti previdenziali. Da un lato il centrodestra vuole far confluire le tante strutture in due grandi poli da creare attorno a Inps e Inpdap; dall’altro si punta a riformare l’Inail trasformandolo in un organismo deputato alla sicurezza del lavoro, girando anche le competenze di prevenzione e di controllo che oggi le normative destinano alle Asl. Ampio il capitolo liberalizzazioni: per marcare il senso punitivo delle misure di Bersani, si punta a intervenire sui servizi bancari, assicurativi ed energetici. Ma per una vera svolta ecco privatizzazioni in massa delle municipalizzate.

In trasferta a Instabul Alessandro Profumo ha provato a tranquillizzare i consiglieri della banca sull’esposizione per i derivati sottoscritti da clienti. Il banchiere, durante il Cda della banca che si è tenuto nella capitale turca, ha annunciato che la perdita potenziale complessiva è passata a circa 1,1 miliardi di euro di fine 2007 dai 1,75 miliardi di dodici mesi prima. Profumo, oltre a spiegare che piazza Cordusio è in condizioni migliori rispetto a tutto il mercato, avrebbe aggiunto che l’istituto sta aiutando i propri clienti a chiudere le posizioni più critiche.

Bankitalia: nessun caso Socgen in Italia «Un caso Socgen in Italia? Non credo ci sia un rischio di tipo generalizzato per il nostro sistema.Anche se è chiaro che i problemi possono capitale dappertutto». Il direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, esclude per il Belpaese crack come quelli registrati negli ultimi mesi. Guardando all’esposizione, Saccomanni ha fatto presente che «tenendo anche conto dei rischi indiretti relativi ai titoli strutturati, è inferiore al 3 per cento del patrimonio di vigilanza e al 20 per cento degli utili lordi del sistema».

Deficit della bilancia commerciale la Coldiretti lancia l’allarme e sottolinea che il deficit commerciale con la Cina è cresciuto del 20 per cento. Le importazioni in Italia di prodotti agroalimentari dalla Cina superano di quasi sette volte (580 per cento) in valore le esportazioni made in Italy. La Cina, tuttavia, non rinuncia a misure protezionistiche come dimostra il blocco dei primi prosciutti italiani, nonostante il via libera formale all’importazione concesso dalle Autorità orientali nel luglio 2007.

Gates non rilancia per Yahoo Bill Gates in perona chiude la ridda di ipotesi su un rilancio da parte di Microsoft per Yahoo: non si alzerà l’offerta di 31 dollari per azione. «Abbiamo mandato una lettera», ha spiegato Gates, «specificando che a nostro avviso si tratta di un’offerta conveniente. Per questo motivo non abbiamo intenzione di modificarla, dovrebbero considerarla con molta attenzione». Il colosso di Richmond ha valutato complessivamente il motore di ricerca 44,6 miliardi di dollari, cifra che si è abbassata a 41 miliardi dopo le ultime quotazioni. Yahoo considera queste cifre inferiori rispetto al suo reale valore. A questo punto a Microsoft non resta che rivolgersi direttamente agli azionisti della sua preda, sperando di fare breccia, anche se il New York Times prevede strascichi legali in questa partita.


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he effetto cercare su Google un riferimento al titolo del suo ultimo film e trovare già la parentisi chiusa intorno alla sua vita (Brest 1922, Caen 2008), precoce volontà di liquidarlo. Fa effetto pensare che non sentiremo più rimbombare il suo affettuoso ruggito da basso sovietico, e la sua risata interrogativa, mentre scherza: «Ah, les italiens, et l’autre dove è finitto?». Eravamo partiti da Torino giovanissimi, due universitari curiosi e incantati dalla rivoluzione della ”scuola dello sguardo”, così poco italiana, per l’incantato Castello di Cerisy La Salle, dalle parti di quella Caen ove Robbe-Grillet è morto, nell’amato Calvados. Si dormiva tutti in una stalla raffinatissima, con le mangiatoie per armadio e i box da cavalli trasformati in camerette aperte, e solo l’Orco baldanzoso stava serrato nel castello ove già Gide e Valery avevano discettato di letteratura, con la deliziosa consorte Catherine, una farmacista, che aveva affrontata la scrittura erotica, con lo pseudonimo d’un pittore fiammingo, per anni sospettata d’esser la vera autrice di Histoire d’O.Voce mai troppo smentita, per amore del romanzesco, che Robbe- Grillet aveva decapato dalle sue pagine, ma non dalla vita: si mormorava che la notte i pochi privilegiati scendesseto nelle alcoliche cantine del Maniero, per inscenare riti sadiani, in omaggio alle trame pruriginose del neo-regista. Al massimo, poi si seppe, un in-

C

cultura Il regista-scrittore era considerato il padre della Nouveau roman

Robbe-Grillet e l’ambiguità dell’agrimensore di Marco Vallora Tutti per la loro strada. Si ritrovarono a Spoleto, molto decenni dopo, complice Menotti e il compositore De Banflied, a recitare una pièce di Virginia Woolf, Freeshwater, che esigeva attori illustri: c’erano la già decrepita Sarraute, il ”suonato” Jonesco, lo spaesato Pinget, e il faccione da imperatore barbuto di Robbe- Grillet, con la sue imperitura dolce vita bianca. Non si badavano quasi: eppure quando il giovane ma non giovanissimo Robbe-Grillet, tornato dall’Africa, ove aveva svolto il suo lavoro di agrimensore - che forse qualche influsso avrebbe avuto sulla sua scrittura ”da geometra”, così i detrattori - ebbene, quando accanto all’etereo Jerome Landon si affiancò alle Editions de

La sua era una letteratura senza ricorso al cuore e alla psicologia: romanzi senza trame, racconti senza veri decorsi drammaturgici nocente uovo crudo di giornata, schiuso sul pube disponibile d’una bella stagiare, col grande orchestratore del Souvenir du triangle d’or ad officiare le cerimonie.

Terrorizzato il mio compagno di viaggio che anch’io mi perdessi in quei penetrali: una sorta di Bobi Bazlen coltissimo, che vive oggi sepolto nell’eporediese, consigliando libri agli editori, e certo il più dotto conoscitore italiano dell’epopea del Nouveau Roman, che Robbe-Grillet negava esistere, ribadendo il proprio isolamento. E se la prendeva con il fotografo Dondero, che aveva ”inventato” quell’accolita improvvisata di scrittori ma anti-tradizionali, tanto diversi fra loro, con un’astuto scatto, quasi fosse un gruppo compatto, una scuola.

Minuit, aveva perorato molto la loro causa. Una letteratura senza ricorso al cuore e alla psicologia, una scrittura cieca da parte d’un autore non più onniscente, che governa la sua trama, ma semmai come un lettore inconsapevole, che collabora anche lui a questa caccia al tesoro d’un significato latitante, in strutture gialle o poliziesche,

Alain Robbe-Grillet è morto domenica notte per una crisi cardiaca, aveva 85 anni

che non posseggono più né un cadavere né un colpevole. Romanzi senza trame, racconti senza veri decorsi drammaturgici, immersi in quella scrittura bianca e denotativa, che così bene Roland Barthes aveva descritto nel suo “Grado zero della scrittura”. Ma Butor, per esempio, era tutto diverso: lui rintroduceva la psicologia, il tempo analitico della durata proustiana, voltava il suo racconto non nella terza persona impersonale della scrittura d’agrimensore di Robbe-Grillet, ove tutto era ambiguo (e la ’gelosia’ non era il vero sentimento drammatico d’un amore difficile, ma semmai la persiana della stanza così meticolosamente descritta) in una confidenziale seconda persona, che diventava pretesto di conoscenza: “tu stai scendendo dal treno, stai vedendo questa stazione...”

Robbe-Grillet, invece, era diventato popolare con la straordinaria sceneggiatura di L’anno scorso a Marienband, un insospettabile Albertazzi internazionale, le zoomate inesorabili nel labirinto d’un un vecchio grand hotel delabré, un interminabile giochino di società irresolubile e la macchina da presa del grande Resnais, che si posava sopra una fontana barocca. «Non dategli dei nomi, non imprestategli degli aggettivi, potrebbero aver avuto tante altre avventure». Questo era Robbe-Grillet. Ma intervistato anni dopo un crepuscolare Resnais al Negresco di Cannes, durante il Festival di Chantez pas la chanson, non è che ne avesse poi un ricordo così affabile. Mai troppo simpatico a nessuno, il vecchio leone dalla graffiata stanca. Interrogato il perfido scontroso Godard, sempre a Cannes, all’uscita del rivale Trans-Europe-Express, esordio nella regia del Nostro, aveva bofonchiato, strasciando il sigaro: “Robbe-qui? Connaispas. C’est nul”. Ma a quel tempo lo diceva anche dell’ex-amicissimo Truffaut, non ancora morto. Robbe-Grillet dimentica la letteratura per il cinema, lo criticavano. Comparve anche al convegno di Cerisy su Barthes, ma come un pesce fuor d’acqua, rompendo un po’ le righe e l’atmosfera troppo “feutré”, come diceva lui: vellutata, flautata. Barthes non la prese bene. Aveva scritto alcune pagine nei Frammenti del discorso amoroso sulla Gradiva di Jansen, studiata anche da Freud. RobbeGrillet le aveva sfrutate per il suo ultimo film, la ricerca di un carnet scomparso di Delacroix, in Marocco. Mi aveva invitato, dato il numero della produzione a Tangeri, mannaggia, il disordine, perché ho perduto quel bigliettino? Non riascolterò più il suo ruggito.


spettacolo

20 febbraio 2008 • pagina 21

Adele Adkins, Duffy e Kate Nash, Laura Marling e Fiona Bevan sono le novità del 2008

Il ritorno delle ragazze con la chitarra di Alfredo Marziano

Nella foto in alto Adele Laurie Blue Adkins, definita la nuova Amy Winehouse, ha venduto centomila copie del suo album nella prima settimana; in basso, Laura Marling che ha ricevuto ottime critiche dall’Indipendent ricorda la prima Joni Mitchell a destra, Kate Nash che si ispira alla tradizione popolare e alle piste da ballo dei club

l caschetto color castano, il faccino pulito e la taglia forte portata con disinvoltura sono da ragazza della porta accanto, quella che incontri ogni giorno al bar o al supermercato. Però quella voce già smaliziata e ricca di chiaroscuri, da una teenager come lei non te la aspetteresti proprio: ecco servita Adele Laurie Blue Adkins, in arte solo Adele, “la nuova Amy Winehouse” che spopola nelle classifiche inglesi con il romantico singolo Chasing Pavements e un album che si intitola come i suoi verdi anni, 19.

I

Nell’epoca dell’iPod la musica consuma e rimpiazza i suoi divi a velocità doppia. Ma Adele e quelle della sua generazione in piena fioritura, Duffy e Kate Nash, Laura Marling e Fiona Bevan, hanno il gambo fragile solo in apparenza, potrebbero anche resistere ai venti delle mode e intanto spandono una nuova fragranza nell’ambiente del pop: dopo le divette sexy e plastificate da videoclip, dopo le bad girls sciroccate che nutrono i pettegolezzi dei tabloid, dopo i cloni di Beyoncè e Mariah Carey replicati in serie dai programmi tv come American Idol, tornano finalmente le ragazze in carne ed ossa.

le vedi, le ascolti, e non senti subito puzza di marketing, di costruzione a tavolino, di glamour usato come scopa per nascondere sotto il tappeto la pochezza artistica. Della Winehouse Adele non ha poi molto, in realtà, a parte la provenienza geografica (area Nord di Londra), certe frequentazioni come il dj e produttore Mark Ronson, la predilezione per certa raffinata musica d’antiquariato che oggi è tornata di gran moda: magari coglie meglio nel segno chi la paragona ad Alison Moyet, brava e un po’ sfortunata vocalist anni Ottanta, senza andare a scomodare Dusty Springfield, la cotonata Mina britannica che oltre Manica resta un’inossidabile icona nazionale. Il suo destino l’ha incontrato un giorno mentre bighellonava tra gli scaffali di Hmv, la grande catena di megastore musicali, alla ricerca di ispirazione per una nuova pet-

Duffy (l’”anziana”del mazzo, con i suoi 24 anni in scadenza a giugno), bionda e caruccia, è più yè-yè ed estroversa: la Bbc l’ha piazzata al secondo posto, proprio alle spalle di Adele, nel suo elenco di grandi speranze per il 2008, ma intanto ha già in curriculum un’apparizione sul palco a fianco del vecchio soul man Eddie Floyd (che oggi canta nei Blues Brothers) e collaborazioni a quattro mani con Bernard Butler, l’ex chitarrista degli Suede. Però le loro storie si assomigliano e le loro strade si incrociano. Adkins e Nash hanno frequentato la stessa scuola d’arte, a Croydon.

E come un’altra giovanissima di belle speranze, Fiona Bevan, hanno affidato i loro primi messaggi in bottiglia all’oceano di MySpace, il social network di Internet che i ragazzi frequentano per fare conoscenze virtuali, scambiarsi opinioni e suggerimenti, assaggiare che musica nuova si ascolta in giro. È grazie alle esibizioni nei club e al “word of mouth”, al passaparola dei fan, che hanno cominciato a farsi un nome: un bel vantaggio, perché se delle belle parole e dei lanci promozionali delle case discografiche non si fida più nessuno, dei consigli spassionati degli amici invece sì. Poi, e solo poi, sono arrivati i contratti con XL, Polydor, Virgin, le etichette che contano sul mercato della musica “giovane”. E l’interesse dei media tradizionali: i giornali, che si coccolano queste giovani figlie d’Albione in un ennesimo sussulto di orgoglio nazionalistico, e la televisione, pronta a scodellarle a chi alla seggiola del computer preferisce il divano del salotto; per tutte, il Later with Jools Holland e il Friday Night with Jonathan Ross, programmi di musica dal vivo, sono già stati un passaggio obbligato, il battesimo del fuoco che le proietta verso lo stardom nazionale.

Con il singolo Chasing Pavements e l’album 19 Adele spopola nelle classifiche inglesi. Suona e interpetra le canzoni adoperando i linguaggi del pop condito con soul e jazz

Graziose, sì, ma anche brufolose, lentigginose, imperfette. Acqua e sapone, e magari con qualche problema di sovrappeso.Vere, in una parola, e ben attrezzate di voce, talento, personalità. Ancora acerbe, magari, e beatamente incoscienti come vuole la loro età: però

tinatura: ci ha trovato invece la musica di Etta James e di Ella Fitzgerald, ed è stata passione a primo ascolto. E così ecco 19, un disco fresco e piacevole (centomila copie di botto, nella settimana del debutto) in cui Adele scrive, suona e interpreta canzoni autobiografiche che raccontano di infatuazioni sentimentali (Daydreamer) e del quartiere in cui è cresciuta (Hometown Glory) adoperando i linguaggi del miglior pop orchestrale d’antan condito con una spolverata di Northern soul e una punta di jazz: tutta farina del suo sacco, tranne la Make Me Feel My Love con cui la ragazza rende devoto omaggio all’imprescindibile Bob Dylan.

La Nash (classe 1987), con quel marcato accento cockney che vorrebbe suggerire un’educazione più autodidatta e stradaiola, sembra molto più sfacciata e smaliziata di lei, un occhio alla tradizione popolare (adora il cantautore militante Billy Bragg) e uno alle piste da ballo dei club. La Marling, classe 1990 e lodatissima dal quotidiano Independent, è più folk e introspettiva, stile prima Joni Mitchell. Mentre la gallese

Ora le nuove Brit girl sono pronte ad affacciarsi anche alle nostre frontiere: Adele è annunciata in concerto in Italia, sul minuscolo ma ben frequentato palco della Casa 139 di Milano, il prossimo 7 marzo, e 19 sarà nei nostri negozi una settimana prima. Chi ha ancora bisogno delle Spice?


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Berlusconi ha fatto bene a rinunciare a Casini? L’Italia ha bisogno dei moderati, Berlusconi si è spostato a destra

Così rischiamo di perdere e riconsegnare il Paese al centrosinistra

In realtà è stato Pier Ferdinando Casini a rinunciare a Berlusconi e al Partito delle Libertà. E non solo perché si sarebbe trattato di annessione e non di alleanza. Il problema vero è quello di fare chiarezza nel centrodestra. Con la fusione tra Forza Italia e Alleanza nazionale non c’è dubbio che nella ex Casa delle Libertà si è verificato un evidente spostamento a destra. Che, secondo me, non è esattamente quello di cui ha bisogno l’Italia. C’è bisogno di centro e il popolo dei moderati ora ha l’occasione di farsi sentire e di poter contare di più nelle scelte del prossimo governo, qualunque esso sia. Pertanto c’è da augurarsi che la Rosa bianca e l’Udeur facciano causa comune con l’Udc per formare quel centro, che funga magari un domani da Polo di attrazione per tutti quelli che a sinistra e a destra non si sentono a casa loro.

Io non credo proprio che Berlusconi abbia fatto bene a rinunciare all’apporto dell’elettorato di Casini. Qui si rischia di perdere di nuovo e di ritrovarci non solo Veltroni, ma anche i Prodi, i PadoaSchioppa e i Visco. Sono convinto che l’elettorato della Cdl avrebbe voluto vedere i quattro fondatori ancora uniti, e questa volta la vittoria sarebbe stata sicura. Si è rimesso tutto in discussione con una mossa che si poteva fare a elezioni vinte, e se necessario. In fondo l’apparentamento con l’Udc poteva essere concesso così come è stato fatto per la Lega nord, e probabilmente come verrà fatto con la lista di Ferrara.

Giorgio Tamiri Milano

L’Udc in questi anni si è reso antipatico per aver ostacolato il cammino della CdL Secondo me Silvio Berlusconi può fare a meno di Pier Ferdinando Casini, ma personalmente ritengo che avrebbe dovuto far di tutto per non lasciarsi scappare Ferdinando Adornato. Il partitino ex Dc in questi anni si è reso antipatico alla gente comune proprio per aver costantemente ostacolato il cammino della Casa delle Libertà, criticando un giorno sì e l’altro anche la leadership e mostrando ogni giorno sempre più le crepe del centrodestra. Pur rispettandone le scelte mi dispiace che non sia proprio lui a scrivere le regole e i valori del nuovo contenitore.

Alberto Moioli via Internet

Luigi Nanni Bari

Spero in un’alleanza tra PdL e Udc dopo le elezioni Non so chi abbia fatto bene o abbia fatto male. Però temo che questa operazione la pagherà quell’elettorato che ha sempre sostenuto la Casa delle Libertà e che aveva finalmente intravisto la possibilità di cacciare all’opposizione il centrosinistra. È ancora così? Siamo in tanti a sperarlo. E comunque mi auguro che una collaborazione tra Pdl e Udc possa realizzarsi a elezioni vinte. Da elettore Udc, vorrei invitare il vostro giornale a muoversi in tal senso.

A rischio elezioni già vinte Non ho le competenze per stabilire se Berlusconi abbia fatto bene a rinunciare a Casini e all’Udc. So, però, che il centrodestra ha perso un’occasione per stravincere le elezioni.

Antonio Mastice Roma

LA DOMANDA DI DOMANI

L’Europa dovrebbe avere una posizione unitaria sul Kosovo?

Caro direttore, rimango scandalizzato da chi si scandalizza per la castrazione chimica dei pedofili. Vorrei rassicurare qualcuno (temo in molti) che non si tratta del taglio coattivo degli organi genitali, ma di una cura medica. Personalmente, sono d’accordo con la proposta della castrazione chimica per i pedofili, non soltanto per impedire che dei bambini abbiano una vita distrutta dalla violenza sessuale, ma anche per alleviare la sofferenza di coloro che sentono questo impulso malsano per i più piccoli. Per questo mi fanno ridere le anime belle della sinistra che parlano di «proposta medioevale». La pedofilia, che è un disturbo psichico come tanti altri, deve essere curata con i farmaci appropriati. Alla stessa maniera della schizofrenia o delle manie ossessive-compulsive. Non è per nulla raro leggere le dichiarazioni di pedofili che addirittura invocano tale misura nei propri confronti. Detto questo, senza scadere troppo nel becero, io rivendico il sacrosanto diritto delle vittime, effettive o potenziali, e dei loro parenti a che lo Stato ci difenda da questa minaccia. Non ci deve essere, d’altra parte, nessuna confusione tra pena e cura. La cura può essere parte accessoria della pena, ma certamente non può sostituirla. Resta il fatto che i cittadini italiani pretendono dai politici e dai magistrati due cose: certezza della pena e tutela dall’incubo pedofilia. In molte nazioni del mondo questo è possibile. Perchè non può esserlo anche in Italia. Chiusura polemica. Non vorrei che dietro «lo scandalo» per la castrazione chimica si celasse una considerazione dei pedofili come di soggetti

dai circoli liberal

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UNA SCELTA DI QUALITÀ E SERIETÀ Una scelta di responsabilità per il futuro di un Paese in stallo, che porta da troppi anni sulle spalle il peso di una crescita quasi insussistente, di un ‘apparatocrazia’ opprimente, di un’incapacità innata a quel problem solving che dovrebbe ispirare qualsiasi formazione di governo, il peso di una sfiducia dilagante verso una politica sempre più distante e ritenuta priva di qualsiasi capacità riformatrice. La vita politica pare invece indirizzarsi verso mete diverse: la dinamica della scena partitica sembra oggi perdere di vista la realtà sociale che la circonda. Cominciamo da sinistra: da un lato la nuova entità del Pd sembra affidarsi alle sole gesta del suo ‘capo’, alla sua capacità di onnicomprendere al suo interno i giovani rampolli della Confindustria, e quanti si affidano alla speranza che un tono di voce sapientemente pacato sa infondere in loro; dall’altro i più variegati soggetti della cosiddetta sinistra radicale si riuniscono attorno ad un progetto ”unitario” e allo stesso tempo ”plurale”, un soggetto incapace di

fornire risposte concrete e attuali alle più pressanti esigenze del mondo contemporaneo perché irrimediabilmente legato a dinamiche economico-sociali che rendono impossibile quella capacità decisionale che dovrà caratterizzare il nostro futuro più prossimo. Ma la situazione non pare mutare saltando lo steccato: un partito a vocazione imperialista che, solamente ora nelle more delle elezioni, giunge alla tanto attesa decisione di superare inutili particolarismi partitici per ”annettere” a sé altre entità che, da parte loro, dimenticandosi della propria tradizione, breve o lunga che essa fosse, fanno proprio un progetto fondato sull’unico elemento della forza della personalità del suo capo. Non so quali altre sorprese potrà riservarci la campagna elettorale, ma conosco i motivi per cui mi sono avvicinato e continuo a sostenere la Fondazione Liberal: l’incontro liberale tra laici e cattolici; la promozione di una vera comunanza di valori; l’impegno perché il merito prevalga tanto sulle condizioni sociali quanto su quel castello di corruzione riconosciuto purtroppo

caratterizzati da una certa «diversità», e che per questo vanno capiti e non criminalizzati. A questa cultura io mi oppongo con tutte le forze e chiedo alla politica italiana che tra pochi giorni si presenterà al voto di esprimersi chiaramente. Dobbiamo sapere come la pensano su questo tema i nostri potenziali governanti. Queste sono le cose che orientano il voto degli italiani, molto più della disquisizione sul sistema elettorale.

Vittorio Angelini Latina

Solo promesse, niente programmi Caro direttore, mi perdoni lo sfogo, ma volevo sottoporre alla sua attenzione un fatto che ritengo inaudito. Nella cosiddetta “seconda repubblica” tutti i politici, sotto elezioni, si inventano le promesse più ardite e irrealizzabili. Mai nessuno, però, che si azzardi a scrivere programmi seri, che siano in qualche modo realizzabili, magari specificando con quali risorse dello Stato hanno intenzione di finanziare le loro proposte. Nel 2001 Berlusconi si era limitato a 5 punti striminziti, senza peraltro essere in grado di realizzarli in cinque anni di governo. Nel 2006 Prodi ha risposto con un’enciclopedia lunga e incomprensibile, anch’essa totalmente disattesa durante i due anni della legislatura che si è appena conclusa. Spero che, in questa campagna elettorale, Berlusconi e Veltroni non si limitino a “colpi ad effetto” per acchiappare qualche centinaio di voti in più, ma si dedichino alla stesura puntuale di un serio programma di governo. Lei che dice, ci faranno la grazia?

Sandro Romaggioli Roma

parte integrante del nostro ordinamento pubblico; un’idea di coalizione che andando al di là degli egoismi, sia capace di riflettere l’animo moderato dell’elettorato; una concezione seria della politica come veicolo di idee, principi e valori in grado di assurgere al ruolo di guida per la società. La solita querelle tra serietà e impegno, capaci di generare nel futuro un progetto politico che possa essere definito tale volto solo a raccogliere i frutti del momento, del vantaggio dell’oggi. Michele Ghiggia RESPONSABILE LIBERAL GIOVANI, AREA NORD

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Grazie per questa lezione «Fernando, è ancora sotto l’effetto doloroso che mi ha provocato la lettura della sua lettera, che le invio queste parole. I miei timori e le mie intime convinzioni non mi avevano ingannata, mi accorgo che mi stavo affezionando a uno di questi esseri che si prendono gioco del puro affetto, che sono capaci di stancarsi per poter torturare il cuore delle povere ragazze, cercando di poter avere con loro una relazione non per affetto, non per una simpatia di speranze future, non per interesse e neppure per capriccio, ma soltanto perché piace loro affliggere, infastidire e torturare colei che fra l’altro non aveva mai pensato a lui, e neppure lo conosceva. Proprio bello! Sublime! Grande! Per quanto riguarda le mie lettere, può conservarle, se desidera, sebbene esse siano troppo semplici! Quanto a me, non mancherò in futuro di trarre vantaggio da questa lezione: mi ha fatto sapere fino a che punto di sincerità un uomo esprime la sua simpatia, il suo affetto, il suo amore, tutte le speranze future riguardo a ragazze ancora inesperte». Ofélia Queiroz a Fernando Pessoa

Rutelli e i giovani Caro Direttore, mi presento, ho venticinque anni, sono donna, e trovo l’idea di Rutelli di fare una lista di soli candidati giovani per farsi sostenere alle elezioni di Roma, repellente. Proprio come avrei trovato altrettanto repellente l’idea di una lista per sole donne. E guardate se tra Veltroni e Rutelli non si inventeranno anche questa... Mi disgusta questa trovata elettorale del «piacione» perchè rivela la terrificante considerazione delle giovani generazioni che ha lui ed il suo partito. Ovvero, una massa indistinta senza meriti, senza qualità uniche e personali che si può prendere tranquillamente per il culo con stratagemmi del genere, ma ben attenti a non mettere i giovani alla pari con i vecchi tromboni della politica italiana. La lista di Rutelli sembra quasi un baby parking dove si possono parcheggiare i bambini mentre i grandi si occupano delle cose da grandi. Di più, una specie di zoo dove i passanti gettano le noccioline a degli esserini curiosi, simpatici, ma pur sempre fermi ad uno stadio evo-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

lutivo precedente a quello umano. Ora, qualcuno mi deve spiegare per quale motivo i giovani del Pd non possono stare nella lista ufficiale del Pd e devono stare invece in una lista fatta apposta per quelli della loro età. Mi pare una chiara espressione di quel giovanilismo sessantottino che sfrutta i giovani elettoralmente, ma non riconosce loro alcun titolo di merito, perchè non crede che ci siano persone con poche decine di anni alle spalle più capaci di altre che hanno già ricoperto tutte le poltrone possibili e immaginabili. Ebbene, caro Rutelli, I have a dream, per usare una espressione tanto cara alla

tua generazione, che siano proprio queste le elezioni in cui un giovane riesca a spazzare via te ed il tuo modo vecchio di pensare la società e la politica. Anzi, una giovane per essere precisi. In campana Francè.

Valeria - Roma

No, Obama no! Caro Direttore, compro il suo giornale regolarmente da quando è diventato quotidiano. E devo dire di essere molto soddisfatto, non tanto per la parte relativa alla politica italiana (io voterò Pdl e l’abbandono dell’Udc non mi tocca), quanto per le splendide firme che vengono ospitate negli esteri: Michael Novak, Bill Kristol, Daniel Pipes! Quello che non riesco a capire, però, è una certa insistenza nei confronti della candidatura di Barack Obama per la presidenza degli Stati Uniti. Obama è un ottimo oratore, per carità, ma con le mie idee (e con quelle di liberal), per dirla con Di Pietro, “che c’azzecca”? O mi sono perso qualcosa?

Antonio Giulietti - Udine

PUNTURE Caro direttore, Rosario Fiorello ha dato il suo consiglio per la soluzione del problema rifiuti: «Quando vi arriva il certificato elettorale strappatelo e buttatelo per strada». E la raccolta differenziata?

Giancristiano Desiderio

Si può evitare la violenza solo minacciandola HENRY KISSINGER

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

il meglio di

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Il Kosovo e l’Europa L’indipendenza del Kosovo destabilizza i Balcani. Non c’è dubbio. La Serbia, da cui la piccola regione si è separata, non la manda a dire e ritira il suo ambasciatore negli Stati Uniti, prima mossa di uno scontro diplomatico che non si risolverà con un invito a cena nel ranch texano. Ma ha torto perché questa mossa di Pristina non destabilizza solo i Balcani, ma anche l’Europa stessa. Sul Kosovo infatti si gioca una partita a scacchi molto pericolosa, che va nella direzione dell’inasprimento delle relazioni tra Russia e resto del mondo. E nel resto del mondo l’Europa è in prima linea. Il problema non è tanto la divisione dell’Ue, con alcuni paesi (tra cui l’Italia) subito pronti a riconoscere la nuova repubblica e altri (la Spagna, Cipro, la Romania) che non ci pensano nemmeno (perché non vogliono dare argomenti ai separatisti di casa loro). Il problema è che siamo ancora lì, dov’eravamo con la dissoluzione della Jugoslavia, e nonostante la guerra, nonostante l’intervento militare dell’Onu, nonostante i bombardamenti, l’accordo tra le parti sembra, in quei lidi, una chimera. L’errore fu costruire da zero la Jugoslavia, è evidente. Uno stato forte, accentrato, dirigista, non poteva attecchire presso popolazioni etnicamente distanti e nemiche. (...) Da altre parti è tutto un calcolo. Gli spagnoli dicono di no perché sennò anche ai Baschi dovranno dire di sì, ad esempio. Ma anche gli Stati Uniti non sono lontani da queste mosse. E’abbastanza palese che gli Usa non amino un’Europa forte, e spingano dove possono verso i regionalismi. (...) C’è solo da augurarsi che can che abbaia non morda, e che l’Onu possa interporsi per qualche anno in modo da sedare le velleità guerrafondaie di chi, e stiamo parlando della

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Russia, non vede l’ora di tornare ad egemonizzare una parte del nostro continente. Ma prima o poi l’Europa dovrà essere una patria forte, altrimenti questi problemi saranno eterni. Opinioni Liberali liberali.myblog.it Le spartizioni del Pd Aria nuova con Veltroni e il Partito Democratico. Certo. E si vede. A Sindaco di Roma chi candidano? Il buon Rutelli, ex radicale, ora cristiano convinto. Già Sindaco di Roma, e senza lasciare nostalgie. Lo sforzo di Veltroni, è , quindi, tutto incentrato a fare chiacchere. Poi ci si mette Di Pietro che avanza proposte del tutto personali e non ancora condivise, che buttano benzina sugli intendimenti veltroniani, di pacifica convivenza con la controparte politica, in vista di un possibile fidanzamento di interesse, chiamato ”larghe intese”. Di Pietro ancora confonde l’astio personale con gli interessi pubblici, e fa ancora dell’antiberlusconismo un cartello. Il problema delle Tv non si risolve ponendolo a base del proprio programma politico, cercando di sucitare la coesione nell’odio per Berlusconi, e lo ha capito anche la sinistra radicale, ma immaginando riforme sistemiche e non mirate contro qualcuno. Ma già la giustizia il buon Di Pietro la immaginò contro qualcuno e senza toccare qualcun altro, figuriamoci le reti Tv. Quando maturerà la classe politica italiana sarà troppo tardi. Intanto ci approntiamo a sorbirci la polpetta del secolo, e cioè una competizione elettorale ipocrita, che dice di puntare a questo, sperando di arrivare a quello. Soliti uomini, sempre poche donne, e dentro semmai pure imputati e condannati. De Gregori! Ci canti ”Viva l’Italia?”. Luciano Petrullo www.lucianopetrullo.it

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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