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Socrate
Scuola la rivoluzione francese
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
Valentina Aprea Giancristiano Desiderio Andrea Ranieri pagina 12 Emilio Spedicato
polemiche RADICALI, GIÙ LE MANI DA POPPER
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STRATEGIE DI UN LEADER
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Andrea Mancia
Il vecchio trucco del “voto utile” inasprisce una campagna elettorale che tutti volevano sobria. E la polemica sulle “liste pulite” spacca il Pdl...
memorie
Tutti a parlare di Fidel…
…e di Mario Chanes? pakistan
Quali mezzi e quali fini? alle pagine 2, 3, 4
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Renzo Foa
e
EQUILIBRIO PRECARIO TRA VINCITORI E VINTI pagina 10
Frédéric Grare
cultura DRIEU LA ROCHELLE E LA COMMEDIA DELLA GRANDE GUERRA Giovanni F. Accolla
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il trucco
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del voto utile
Le due ultime polemiche di Fini in una campagna elettorale che non è cominciata bene per i moderati italiani
Il «voto utile» a chi? Meglio il «voto buono» di Renzo Foa nvidio un po’ gli elettori del Pd che si raccolgono attorno a Walter Veltroni, che vivono lo spirito della rincorsa e che hanno già dimenticato Romano Prodi e il lungo disastroso matrimonio con la sinistra antagonista. Solo un anno fa erano rintanati nelle trincee dell’«aumento delle tasse» e dell’antiberlusconismo, ora si sono impadroniti (e ne sono perdipiù convinti) delle ricette reaganiane e guardano con speranza all’accordo con Berlusconi. Solo venti giorni fa si misuravano ancora con il problema della sopravvivenza, ora credono nella rimonta possibile. Mentre, detto in tutta franchezza, vista dalla parte dei moderati non è finora una bella campagna elettorale. Sui nostri fronti politici, in questi stessi venti giorni, è cambiato tutto. È stata rotta l’alleanza, per ragioni che ai più appaiono inspiegabili. La prospettiva di una vittoria sicura è stata cancellata dalla possibile precarietà del risultato al Senato. E, soprattutto, sta sempre più prevalendo un’unica immagine: quella di una partita che ha per orizzonte solo i due giorni del voto, il momento della conta, mentre il dopo resta avvolto dalla nebbia. Si dirà che è sempre stato così, che alle elezioni si è sempre partecipato solo per vincere. Ma non è vero. Non è mai stato vero. Se non altro, si guardava ai cinque anni della legislatura. Per stare solo ai due ultimi appuntamenti, ancora nel 2006 l’Unione si era presentata annunciando che «domani è un altro giorno» e nel 2001 la Casa delle libertà prometteva una rivoluzione liberale, destinata a ridisegnare l’Italia. Ora, invece, il Pdl è rimasto impigliato nella rete dei calcoli minuziosi delle alleanze al Senato, ha rinunciato a spiegare agli elettori quali devono essere le ragioni sostanziali per le quali deve essere scelto, si è attardato sul messaggio secondo il quale Veltroni è il duplicato di Prodi e rappresenta il «vecchio», si è concentrato sulla polemica con l’Udc. L’Udc che, a sua volta, ha dovuto cambiare completamente passo, alle prese non tanto con il risultato della Camera, ma con lo sbarramento dell’8% al Senato.
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L’esempio più clamoroso l’ha datto Gianfranco Fini quando ha lanciato la polemica sul «voto utile», lanciando un messaggio molto, troppo riduttivo. Perché ha detto che contenuti e identità non contano più, perché ha cercato di convincere che l’utilità di una scelta non si misura sulle intenzioni di questo o quel partito, ma solo sugli equilibri. Perché ha spiegato l’utilità solo nella chiave del premio ad uno schema, che prima era il bipolarismo e che oggi è il bipartitismo. Paradossalmente, chiedendo anche di pronunciarsi per il Pd, cioè per quel Veltroni che dovrebbe essere il suo avversario. So bene che il richiamo al «voto utile» è una vecchia tecnica, di cui è stato per tanti maestro il Pci quando, nella competizione all’ultima scheda con la Dc, ripeteva quotidianamente i suoi appelli contro la dispersione, in particolare contro le liste dell’estrema sinistra. So bene anche che molti elettori, prima di recarsi ai seggi, si pongono il problema di quale possa essere la scelta più utile. Che è sempre esistito il dilemma tra il rafforzamento del partito maggiore o
E la proposta di ”liste pulite” mostra che dentro il Pdl restano ancora due partiti, intatti nelle loro visioni e nel loro Dna
E così i riferimenti di tempo e di spazio si limitano alla metà di aprile. Quando si saprà, a spoglio completato, quali saranno i rapporti di forza non solo tra Pdl e Pd, ma anche tra questi e l’Udc e la Sinistra arcobaleno e soprattutto gli equilibri a Palazzo Madama.
uno minore, vicino per valori di riferimento e per programma. Che ci si è sempre chiesti se nei due campi ad assicurare stabilità ed efficienza fossero una volta la Dc (Motanelli docet) o il Pci e dal 1994 in poi Forza Italia o il Pds-Ds-Pd oppure fossero altri, più piccoli ma destinati ad assicurare un punto di equilibrio. Insomma, il vero problema è sempre stato quello della scelta più che per il «voto utile» per il «voto buono». Quello che serve a conciliare una proposta con la sua realizzabilità. So poi che, in questo caso, giocano altri elementi. Che per Fini la scommessa del Pdl ha un valore tattico e strategico. Sul piano tattico, è stata – se la lista diventerà davvero un partito – la scelta più semplice per superare An con tutti i suoi limiti, per sfuggire al confronto con la scissione di Francesco Storace, per cercare di iscriversi al Partito popolare europeo. E poi, sul piano strategico, sono anni che egli è fra i partigiani più decisi di un partito unico (o prevalente) in cui riunire il centrodestra, anche se vi aveva lavorato perché si realizzasse in condizioni molto diverse, direi opposte, a quella semplificazione che ha avuto il suo inizio con il
discorso di Berlusconi in Piazza San Babila (definite «le comiche finali») e il suo epilogo in quelle poche ore in cui è stato deciso il listone comune. È quindi ovvio che per il suo progetto il «voto utile» sia quello al Pdl (anche se è meno ovvio che lo sia al Pd). Ed è ovvio che tanta più alta sarà la percentuale ottenuta dall’Udc quanto più complicata sarà la navigazione del listone. Ma questo non significa affatto quel che è utile a Fini, o sia buono per Fini, sia utile o buono ai moderati italiani, posti al-
portante che è quello del rinnovamento della politica? Sono solo domande, ma domande a cui rispondere aldifuori degli schemi e riflettendo un po’ su quel che ha fatto svanire il sogno di un bipolarismo salvifico.
E p o i , a t t e n z io n e , questo bipartitismo inizia mostrando le sue crepe. Non penso alle difficoltà nella composizione delle liste e alle tensioni sugli apparentamenti, vistose sia nel Pd che nel Pdl. Sono entrambe scontate. Penso piuttosto ai contenuti. Anche qui, Gianfranco Fini, quando ha parlato di «liste pulite», è stato coerente con la sua storia. Ma anche qui il suo orizzonte si è fissato al 13 e 14 aprile, cioè ai candidati da presentare. E soprattutto, qui, ha creato la prima crisi interna al Pdl, contrapponendo apertamente la sua visione a quella storica di Forza Italia. Direi ad un Dna definito attraverso il conflitto originario tra politica e giustizia. Ha aperto, è vero, un conflitto su una questione che una parte forse maggioritaria della pubComizio per le elezioni del 1946, quando i voti erano «buoni» blica opinione conl’improvviso di fronte alla scelta trau- sidera importante. Ma il risultato è che, matica fra due offerte, vicine per valo- per quanto ridotta al minimo indispenri, lontane per motodo e in conflitto al- sabile, la polemica ha sottolineato che le elezioni. C’è intanto una domanda. nel listone restano ancora due partiti, Questa: perché un bipartitismo improv- due storie, due Dna. Oltretutto con un visato (come è quello che ora c’è in Ita- secondo risultato: quello di non far calia) dovrebbe garantire una migliore pire la ragione dell’apertura di un fronstabilità delle passate coalizioni? Solo te come questo fra compagni di strada perché ci sarebbe una maggiore omo- impegnati a costruire, dopo il voto, un geneità? È tutto da verificare, visto che partito comune. Partito che però dole grandi imprese politiche non nasco- vrebbe avere come requisito la condivino mai a tavolino, ma soprattutto da sione delle scelte fondamentali. grandi realizzazioni attuate sul terreno Ecco un po’ di ragioni per cui questa del governo di uno Stato e di una so- campagna elettorale non può finora escietà. Dalla forza espressa dalle leader- sere ancora considerata bella ed avvinship. Dalle idee. Dalla credibilità delle cente da un elettore moderato. Forse intenzioni. E poi perché l’assetto mi- bisogna solo aspettare. Forse bisogna gliore (per gli italiani tutti e non per le confidare – appunto il contrario del élite) da costruire dopo un bipolarismo «voto utile» – in una vera concorrenza che non ha funzionato dovrebbe essere tra Udc e Pdl non in una lotta della prila sua estremizzazione nel bipartitismo ma per la sua sopravvivenza e in e non in un’offerta come quella che si un’ambizione egemonica della seconsta prospettando ora, cioè di due sini- da, ma in una contesa sul rinnovamenstre separate e di un’area moderata che to della politica, definita dalle idee, dai si presenta con due proposte diverse e valori e dalla serietà, per dare un nuocompetitive fra loro, sul terreno più im- vo senso al ruolo dei moderati in Italia.
il trucco ianfranco Fini il 19 febbraio invita gli italiani a dare un voto utile, cioè a votare o per il Pd o per il Pdl. Sono i partiti (presumibilmente) più grossi e quelli che hanno più probabilità di governare. La riorganizzazione del sistema politico operata da Veltroni e Berlusconi avrebbe di fatto anticipato il risultato positivo del referendum conducendo l’Italia verso un sistema bipartitico. La tesi da parte di Fini appare in un certo senso obbligata. Egli può giustificare la dissoluzione di un partito come An, a forte componente identitaria, solo presentandola come il risultato di una forza maggiore, a cui era inutile ed impossibile opporsi. La politica - in quella prospettiva - non ha più il compito di rappresentare identità e valori ma semplicemente quello di organizzare la competizione fra élite politiche alternative per la occupazione delle cariche pubbliche. Può essere doloroso - sottintende Fini - per chi viene come lui da una tradizione fortemente identitaria, ma questa è la realtà ed in questo è anche la giustificazione dei suoi comportamenti.
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bile che possa svolgere questa funzione di garanzia nel futuro. Molti che si sono fidati di una Forza Italia all’interno di una coalizione che la aiutava a resistere alle tentazioni del conflitto di interessi potrebbero non fidarsi di un Pdl in cui questi argini sono caduti. Il paese ha bisogno di un’Udc forte e capace di arbitrare con serietà e con giustizia i processi politici, contro le tentazioni di una gestione padronale del potere da una parte o dall’altro e contro la tentazione (forse addirittura peggiore) di una spartizione del potere fra i maggiori partiti.
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Proviamo adesso a spiegare perché la tesi di Fini è non solo sbagliata ma anche pericolosa. Lo stesso Fini, il 18 febbraio critica Veltroni dicendo che il suo programma è “la fotocopia” del programma del Pdl. Abbiamo dunque (lo dice Fini) i due maggiori partiti che concorrono per il governo agitando lo stesso programma, ovvero due programmi indistinguibili fra di loro. A leggerli si trovano le stesse promesse: siamo per il sole e contro la pioggia, per il bene e contro il male, a favore della pace e contro la guerra… L’unica differenza fra i due maggiori partiti sembra essere che il Pd vorrebbe governare lui ed il Pdl invece pure. È inevitabile che sia così per partiti che si lasciano guidare dai sondaggi per dire agli elettori quello che gli elettori vogliono sentirsi dire invece di fare lo sforzo di spiegare loro la verità e di chiedere loro il consenso su di un programma adeguato ad invertire il pericoloso declino sul quale siamo avviati. Quel maligno di Storace trae da questa situazione la conseguenza che alla fine, dopo le elezioni, i due maggiori partiti potrebbero anche fare un accordo fra loro per spartirsi il potere. Se l’unico problema della politica è determinare chi comanda, allora si potrebbe anche decidere di comandare un po’ per uno. Ora si dà il caso che oggi gli italiani siano stanchi proprio di questa politica senza idee, che per aggregare il consenso demonizza l’avversario salvo
Fini cerca solo di coprire la dissoluzione del suo partito e la sfida di Storace
Caro Gianfranco, inutile è solo la vostra politica senza valori di Rocco Buttiglione poi imprevedibilmente stringere con esso accordi di potere. È aperta la ricerca di un’altra politica, una politica che metta al primo posto idee e valori e proponga una credibile identità. Il paese infatti è in crisi di identità e non gli daranno identità, fiducia in se stesso, convinzione di avere un futuro ed un destino partiti essi stessi senza identità. L’Udc è l’unico partito che pone la questione della identità nazionale italiana e dice che questa identità nasce dalla storia cristiana del paese. Questo non ha nulla di confessionale. Un grande romanziere israeliano, Yehoshua, spiegava qualche giorno fa’ su di un grande giornale italiano di non essere credente ma di essere profondamente costituito nei suoi atteggiamenti fondamentali verso la vita, la morte, il lavoro e l’amore dalla cultura ebraica alla quale appartiene. Benedetto Croce aveva detto a suo tempo qualcosa di non molto diverso intorno al suo rapporto con il cristianesimo. La nuova (vecchia) politica dei due grandi contenitori deve escludere i valori dalla politica. Ma è proprio la politica senza valori e senza convinzioni morali forti, la politica del potere quella che oggi genera il riget-
to del paese. È da forti convinzioni morali che nasce anche il coraggio di dire le verità impopolari che oggi molti non vogliono sentire. Senza una diagnosi esatta ed impietosa dei mali del paese non si trovano le terapie capaci di guarirlo. In
Nella vecchia Cdl, insieme con An, abbiamo mantenuto la coalizione sul terreno della politica. Ora che l’Udc è fuori sarà tutto più difficile un paese affamato di garanzie, di protezioni, di privilegi e di raccomandazioni bisogna avere il coraggio di credere con coerenza nel potere salvifico della libertà, del merito, della competizione leale. Chi per primo saprà collegare fra loro identità cristiana e fiducia nella libertà aprirà una pagina nuova nella storia del paese. Mi ricordo che molti anni fa frequentavo un gruppo di matti che, in Polonia, sognavano di un’altra politica. I “realisti” cercavano di disilluderli. La politica “vera” gli dicevano, è un’al-
tra cosa. La Polonia di allora era più fortunata dell’Italia di oggi. Di partiti “utili” non ne aveva due bensì uno solo e la scelta era quindi ancora più facile. Poi tutto quel sistema crollò come un castello di carte. Esiste un confine sottile fra il realismo ed il cinismo della politica e bisogna stare attenti a non superarlo. Per concludere questa prima considerazione: il voto “utile” chiesto da Fini va bene per chi è contento di “questa” politica. Chi vuole una nuova politica dei valori fa bene a votare Udc.
Esiste un secondo buon motivo per votare Udc. Nella vecchia Casa delle libertà Udc e An, insieme, hanno svolto la essenziale funzione di mantenere la coalizione sul terreno della politica. Quando sono affiorate tentazioni di fare leggi per influenzare il decorso di processi in atto o di regolare il mercato televisivo a favore di un semimonopolista privato oppure di favorire la nascita di una democrazia televisiva in cui vince chi ha più possibilità di fare spots. eccetera… Con discrezione e con fermezza Udc ed An hanno indicato un limite e lo hanno fatto osservare. Adesso An ha ceduto di schianto. È improba-
Al neonato Pdl piace presentarsi come la realizzazione del progetto del Partito popolare europeo in Italia. Anche noi amiamo quel progetto e proprio per questo non aderiamo al Pdl. Come mai? Spiegava Giovan Battista Vico, negli anni in cui Napoli era capitale della cultura e non dell’immondizia europea, che nella genesi delle cose è contenuto anche il segreto del loro crescimento. Detto in un linguaggio un poco più moderno: se una cosa nasce male c’è da attendersi che finirà peggio. Il Partito popolare europeo in Italia non si fonda senza una forte e convinta partecipazione di base, non si fonda senza chiamare ad una nuova partecipazione politica il popolo dei movimento cristiani che costituisce l’unica riserva di energie morali a cui attingere per salvare l’Italia, non si fonda senza le forze della imprenditoria sana, che sta sul mercato senza protezioni e si afferma con il lavoro e con l’innovazione. Non si fonda senza procedure democratiche, direzioni nazionali, consigli nazionali, congressi e quanto altro. Se nasce dall’appello di un capo non sarà mai altro che il partito del capo, cioè una cosa assai diversa dal Partito popolare europeo. Se un giorno si potrà fare davvero il Ppe in Italia lo si potrà fare perché in un momento decisivo l’Udc ha detto di no ed ha preservato la speranza e la possibilità che, dopo un falsa partenza, si possa un giorno partire con il piede giusto. È possibile che dalle elezioni emerga un sistema politico diverso da quello che Fini spera e più simile a quello che noi avremmo voluto realizzare con una riforma elettorale di tipo tedesco. Avremo probabilmente una sinistra comunista, una sinistra riformista, un centro ed una destra. E con un sistema elettorale che al senato non garantisce la governabilità saremo probabilmente tutti chiamati ad esercitare un di più di fantasia e di senso di responsabilità. Altro che voto inutile!
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il trucco
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Parla Luca Ricolfi: «La semplificazione mi va bene, ma col duopolio si può uccidere il pluralismo»
Il bipartitismo populista colloquio con Luca Ricolfi di Riccardo Paradisi
ROMA. Si fa presto a dire semplificazione del quadro politico, o voto utile. Poi però come la si mette con quei settori di opinione nella società che restano fuori dalla rappresentazione del nuovo duopolio italiano? Ne abbiamo parlato con Luca Ricolfi, professore di analisi dei dati all’università di Torino e editorialista della Stampa. Quotidiano su cui Ricolfi ha avuto ieri una polemica durissima con Romano Prodi sui numeri della politica economica del governo. In questo bipolarismo professore i due principali competitors sembrano configurarsi come forze a cui manca un centro. Su Polena, la rivista che dirigo, uscirà uno studio condotto lo scorso autunno che immaginava una possibile semplificazione della politica italiana. Avevamo ipotizzato la presenza di queste forze: la Cosa rossa, il Pd, la Cosa bianca, un partito unitario An-Fi e poi la Lega. Abbiamo chiesto poi a un campione rappresentativo di esprimere la sua preferenza tra queste forze. La Cosa bianca dei partiti di centro cattolico prendeva un consenso intorno al 10-12 per cento. Dunque il centro continua ad attirare consenso. Però attenzione. Allo stesso campione consultato, in alternativa a questa offerta politica, ne abbiamo proposta un’altra: che cosa voterebbe se oltre a questi raggruppamenti ve ne fosse un altro guidato da Luca Cordero di Montezemolo? L’ipotesi faceva registrare un grande successo: maggiore di quello della Cosa di centro. Morale: il centro liberaldemocratico ha più spazio di quello puramente cattolico. A voi interessava l’esperimento per definire lo spazio del centro? Più che altro per distinguere due centri, quello liberaldemocratico e riformista e
Secondo il sociologo di Torino «La teoria del “voto utile” rischia di essere la maschera usata da due apparati oligarchici che provano a sostenersi l’uno con l’altro» quello cattolico. Anche perchè il centro cattolico è una delle tre componenti del partito della spesa pubblica, percepito in Italia, secondo me giustamente, come un freno alle riforme. Le altre due componenti quali sono? Rifondazione comunista e Alleanza nazionale. Sui forestali calabresi Il Secolo d’Italia e Liberazione avevano le stesse identiche posizioni. An però è nel Popolo delle libertà. Una presenza che si dice sposti anche troppo a destra la coalizione di Berlusconi. È vero, ma credo che più che lo spostamento a destra a venire percepito è lo scongelamento del sistema, l’opportunity più che il difetto. Continuando a ragionare con le categorie delle liberalizzazioni il Pdl senza il centro viene percepito come partito più riformistico e modernizzatore. Anche se da questo punto di vista Berlusconi avrebbe dovuto rinunciare anche a Fini, privilegiando un asse con la Lega e magari includendo i radicali. La scelta di Berlusconi si spiega con la teoria delle coalizioni: senza An la vittoria sarebbe stata molto più incerta di quello che già è. Stiamo ragionando con categorie di politiche economiche: nessuno sembra tenere in considerazione il fatto che tutto il portato dei valori cristiani sembra eclissarsi dal di-
battito politico. Sembrano prudentemente rimossi i temi eticamente sensibili da questa campagna elettorale. Ha ragione, sta accadendo questo. Però non credo che questo sia un male. Le do una risposta molto dubitativa, nel senso che tra un anno potrei convincermi del contrario vista la forza che stanno assumendo certi temi. In un sistema democratico ci sono due schieramenti principali che si alternano, se questo è vero dobbiamo chiederci che cosa può differenziare questi due schieramenti. Se si differenziano sulla politica economico–sociale mi sembra che abbia un senso. Lo scenario che si formerebbe sulla divisione sui temi eticamente sensibili partorirebbe un’alternanza tra guelfi e ghibellini al governo. A me spaventa, dico la verità, uno scenario di questo tipo. Per questo sono d’accordo nel tenere questi temi fuori dalla campagna elettorale. Il Pdl di Berlusconi sembra non uscire mai da una fase sturm und drang. La sintesi sembra ancora difficile: non c’è più il centro ma sono tutti assieme Mussolini e Capezzone, Pisanu e Bossi: non è una semplificazione che in nome del voto utile rischia di sacrificare settori di rappresentanza politica e sociale?
Il rischio di forti amputazioni c’è tutto, e una campagna elettorale basata sul voto utile non lo elimina, anzi lo esaspera. Però noi veniamo da una proliferazione patologica di partitini a vocazione ricattatoria che doveva essere fermata. Certo, la soluzione a questo dato desta una serie infinita di perplessità. Ora infatti si rischia di buttar via il bambino della rappresentazione pluralista con l’acqua sporca dei partitini italiani. Cosa implica questa formula del voto utile? Il messaggio di Veltroni e Berlusconi è questo: facciamo tutto noi. Fanno leva sull’esigenza di semplificazione, di superamento dei bizantinismi. Ma non stanno dicendo una cosa fondamentale: come verrà garantito il pluralismo con questo processo di semplificazione? Il modello populista di Forza Italia è stato esportato anche a sinistra: il Pd è un partito che si erige su basi molto dirigistiche e l’unico che sembra accorgersene e preoccuparsene sembra Arturo Parisi. La realtà è che stiamo costruendo due organismi poco democratici e alquanto oligarchici. Con l’orizzonte della consociazione post-elettorale dove il problema del pluralismo sarà ancora più grave. Lei non crede che più centro a sinistra ma soprattuto a destra avrebbe potuto giocare un ruolo dialettico a questi modelli di leadership? Sulle politiche economiche e sociali credo che la presenza di Casini nel centrodestra avrebbe comportato più compromessi. Sulle regole generali, sulla cultura moderata, sul bon ton istituzionale, su temi come il pluralismo dell’informazione, la riforma della giustizia, credo che la sua presenza sarebbe stata invece molto utile.
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Fini mette in imbarazzo Forza Italia con la sua proposta di non candidare gli indagati
Polemica sulle “liste pulite”: il Pdl già si divide in due partiti di Errico Novi
ROMA.
Veltroni e Di Pietro hanno studiato bene il percorso. Hanno già individuato i punti in cui rischiano di inciampare. Sull’indulto per esempio hanno evitato di soffermarsi. E hanno virato sulle liste pulite, sull’esclusione dei condannati, compresi quelli in primo grado. Fini è andato oltre, nell’intervista pubblicata ieri dalla Stampa :ha allargato la categoria della ”incandidabilità”anche ai semplici indagati. Si è quindi soffermato sulla revisione dei benefici ai detenuti previsti dalla legge Gozzini e ha definito «un’assurdità» il ricorso all’indulto come sistema per svuotare le carceri. Tutto questo mette fatalmente in imbarazzo l’altro azionista del Popolo della libertà, Forza Italia. Che a suo tempo aveva votato l’indulto e che ieri sulla pulizia delle liste è rimasta a lungo silenziosa. Con qualche eccezione significativa. Fabrizio Cicchitto ha rilasciato una dichiarazione che si può definire di bandiera, vista la provenienza del vicecoordinatore azzurro dal partito colpito più di tutti all’epoca di Mani pulite, il Psi di Bettino Craxi: «Ho dei dubbi a lasciare che siano le Procure a fare le liste elettorali con i loro avvisi di garanzia, in passato molti sono stati criminalizzati e poi assolti, e intere forze politiche sono state distrutte con questo metodo. È bene», ha avvertito Cicchitto, «che il centrodestra non cada in queste trappole».
Gaetano Pecorella è stato assai meno diplomatico. L’ex presidente della commissione Giustizia e avvocato di Berlusconi ha ricordato che «una conseguenza come quella che propone Fini non si prevede a livello costituzionale». Le regole suggerite dall’ex vicepremier appaiono a Pecorella «pensate per escludere dalle liste quelli che non si vuole più ricandidare. Ci sono già leggi che definiscono l’interdizione dai pubblici uffici, e la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva è un principio sacrosanto». Nel Pdl i partiti sono due e si vede. La fusione sarà anche av-
viata da poco. Sarà pure complicata dalla campagna elettorale. Ma certi sintomi suggeriscono l’idea del rigetto. E il problema appare persino più evidente se confrontato all’agile intesa Veltroni-Di Pietro. Il segretario del Pd ha acquisito
creano conflitto. Nel Popolo della libertà non c’è forse un clima così guardingo da imporre verifiche preliminari su tutto. Ma la maggiore omogeneità non fa ancora della lista un partito unico. Ed ecco il comprensibile imbarazzo, anzi il
care nel Pdl un ruolo speculare a quello che Di Pietro ha nell’alleanza col Pd. Recupera la vocazione giustizialista vissuta dal suo partito a cavallo della svolta di Fiuggi. E mostra oggettiva sintonia con l’Italia dei valori, come d’altra parte ave-
Alle dichiarazioni dell’ex vicepremier gli azzurri rispondono in modo gelido. Pecorella: «La presunzione d’innocenza è un principio sacrosanto, certe regole sembrano strumentali». Cicchitto: «Non cadiamo nella trappola giustizialista» dall’alleato la giusta dose di giustizialismo senza alterare gli equilibri interni. Le alleanze consentono questo tipo di soluzioni: si converge sulle scelte condivisibili, si mettono da parte quelle che
gelo avvertito ieri tra gli azzurri dopo le affermazioni di Fini. Forza Italia ha vissuto in modo drammatico il rapporto con alcune Procure. D’altronde anche in An ci sono figure non proprio marginali, da Domenico Nania a Ugo Martinat, colpite dalle inchieste. Il numero uno di Via della Scrofa prova a gio-
va fatto già l’anno scorso persino sul referendum elettorale. In questo però Fini dà la sensazione di voler riguadagnare l’identità della destra. Sembra preoccupato di una diluizione
Nel nuovo partito gli esclusi sarebbero tanti ROMA. È persino difficile tenere il conto. Martinat e Silvano Moffa. Senza considerare Sono tanti i parlamentari o gli esponenti di rilievo che il Pdl non potrebbe ricandidare, se passasse l’idea di Gianfranco Fini. Tra i condannati in via definitiva c’è addirittura il presidente della giunta per le elezioni del Senato, Domenico Nania, di An. Via della Scrofa dovrebbe tenere fuori dalle liste un altro senatore, Marcello De Angelis, colpito da una sentenza per banda armata e associazione sovversiva. E se fosse applicato il criterio nella sua versione più rigida, che prevede l’esclusione anche per i semplici indagati, ne pagherebbero le conseguenze l’ex viceministro alle Infrastrutture Ugo
le posizioni di chi in Forza Italia protesta da anni la propria innocenza, da Silvio Berlusconi a tanti parlamentari a lui vicini. Marcello Dell’Utri e Giampiero Cantoni ma anche Aldo Brancher. Lo stesso ex governatore pugliese Raffaele Fitto, coordinatore regionale di Forza Italia, è stato colpito nel 2006 da una richiesta di arresto per corruzione. Lino Jannuzzi pagherebbe per aver ricevuto tre condanne per diffamazione come direttore di giornale. E vedrebbe agitarsi nuovi fantasmi Egidio Sterpa, le cui vicende giudiziarie risalgono a quando era dirigente del vecchio Partito liberale.
troppo rapida, per An, nel nuovo percorso unitario. Ed è quasi come se volesse scongiurare la profezia pronunciata ieri da Lorenzo Cesa: «Finirà per far sparire il suo partito». Dopo le elezioni, Fini dovrà senz’altro negoziare con Forza Italia il rispettivo peso nella nuova organizzazione. Si discuterà di strutture e organigrammi, oltre che del governo del Paese. Arrivare a quel negoziato con una Alleanza nazionale già spogliata di gran parte della sua identità farebbe perdere potere contrattuale. L’ex vicepremier sembra dunque voler scongiurare soprattutto questo pericolo.
Eppure la strada scelta è destinata a incontrare perplessità persino a via della Scrofa. Poche ore prima dell’intervista di Fini alla Stampa Maurizio Gasparri aveva affrontato così il tema delle liste pulite: «È un fatto di cui i partiti devono tenere conto, ma ci sono vicende e vicende, ci sarà da valutare caso per caso. Alcune storie di persecuzione vanno considerate in termini politici, e poi ci sono i reati di opinione». Dentro An l’ex ministro è tra i più vicini a Berlusconi. Lo è anche Ignazio La Russa, che ieri ha adottato una chiave da grande equilibrista: «Noi abbiamo sempre rispettato il principio di non candidare chi è condannato o indagato per reati gravi come quelli legati alla mafia e alla corruzione. Ed è naturale che cerchiamo di portare questa idea anche nel nuovo partito». Dibatterne in campagna elettorale non è agevole, questo è il punto. D’altronde c’è il rischio che anche su questo tema il Pdl dia la sensazione di farsi dettare l’agenda dal Pd. Di rincorrere sempre. E tutto assume il senso della beffa, se si pensa che ieri il capogruppo alla Camera dei dipietristi, Massimo Donadi, ha definito Fini «un signor tentenna, che si limita alle parole mentre l’Italia dei valori e il Pd hanno stabilito un patto etico senza se e senza ma sui condannati». La campagna elettorale in genere è così: l’avversario ti attacca anche quando gli dici che ha ragione.
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politica d i a r i o
d e l
g i o r n o
Pd-Radicali: la scelta spetta a Pannella «Il rifiuto di Veltroni di accettare il sostegno di una lista elettorale radicale è politicamente incomprensibile». Lo affermano in una dichiarazione comune i radicali Marco Cappato e Rita Bernardini. «Ci si vuole in questo modo negare la possibilità - aggiungono - di portare in modo chiaro e pieno il nostro contributo alla sua vittoria come candidato alla Presidenza del Consiglio, allo stesso modo di quanto già abbiamo fatto determinando l’elezione di Romano Prodi». «Ci auguriamo - concludono Cappato e Bernardini - che il Pd voglia conquistarsi il tempo necessario per raggiungere un accordo politico pieno che in tanti in queste ore stanno richiedendo per aprire una nuova stagione riformatrice e liberale».
Fini: «Sicilia, accordo in arrivo»
Già avviati i contatti con Rosa bianca, Udc e Udeur
De Mita, addio al Pd di Susanna Turco
ROMA. Giornata difficile per il Partito democratico, per la sua ala cattolica soprattutto, che è stata stretta a tenaglia tra la trattativa coi radicali - proseguita nonostante il no di popolari e teodem e l’addio di Ciriaco De Mita. A fine mattinata, durante la riunione del coordinamento nazionale per approvare il regolamento per le candidature, lo storico leader della sinistra Dc impiega ventisette secondi per attaccare il limite dei tre mandati e abbandonare la partita: «I criteri per le candidature - dice De Mita - fanno riferimento all’età, non all’intelligenza. Lo ritengo un insulto, non ci sono più le condizioni per la mia partecipazione al partito». Ventisette secondi e il ras di Nusco è fuori. A prendere contatti con la Rosa bianca, con l’Udc (ma «solo al livello locale», precisano i casiniani) ma anche con Clemente Mastella, suo ex pupillo col quale negli ultimi tempi i rapporti sono tornati ad essere buoni.
«Se non sarò con voi vuol dire che sarò contro di voi», dice De Mita prima di uscire dalla sede del Pd di via del Nazareno. Il suo è infatti un addio al partito, non certo alla politica. Un po’ come accadde nel 1994, quando il leader democristiano entrò in conflitto coi popolari di Bianco proprio sulla questione delle candidature e sfruttò il meccanismo dell’uninominale per presentarsi da solo ad Avellino, costringendo i popolari a non proporre un no-
me alternativo e quindi a convergere su di lui. Certo, sono passati quattordici anni da allora e non è detto che De Mita voglia ritrovarsi in prima linea nella campagna elettorale. Di certo, però, tanto sono stati freddi i commenti dei popolari del Pd, da Castagnetti a Marini passando per il fedelissimo Tino Iannuzzi, che unanimemente hanno espresso «dispiacere» per l’addio e auspicato un (improbabilissimo) «recupero» senza certo stracciarsi le vesti, tanto accoglienti sono stati sussurri dei moderati fuori dal centrosinistra, che in attesa di mettersi d’accordo
«Lasciarlo andare via è un errore», dicono i dalemiani. Mastella: «Con Ciriaco fuori dal Pd si aprono prospettive meno anguste per il centro» tra di loro concordano sul fatto che il reclutamento di un personaggio come De Mita avrebbe numerosi vantaggi e soprattutto uno: mettere al sicuro il raggiungimento del quorum al Senato in Campania.
«Aver eliminato dalle liste elettorali del Pd uno come De Mita, vuole dire non considerare la forza di quel personaggio», scrive persino la Velina rossa di simpatie
dalemiane. Anche da quella fonte arrivano conferme che «l’ex segretario della Dc sarebbe in procinto di stringere un accordo elettorale con l’Udc di Casini e con la Rosa Bianca». Ma proprio un’intesa tra questi due soggetti, pur prevedibile nel medio periodo, ancora stenta a decollare. All’ora di pranzo, Pier Ferdinando Casini ha avuto un colloquio con Savino Pezzotta e Pellegrino Capaldo (vicino tra l’altro proprio a De Mita), ma non si sono fatti molti passi avanti. «Si può fare un accordo, non un’annessione», spiegano da parte della Rosa bianca. «Il punto è che le richieste sono troppo alte», replicano sempre in via informale da parte uddiccina. Pezzotta spiega chiaramente quali sono le condizioni poste dal leader centrista: «Casini - dice - vuole che resti il simbolo dell’Udc, vuole restare candidato premier» ma, chiarisce, «io all’Udc non aderisco, l’intesa dipende da quanti passi indietro fa lui...». Tutto questo, mentre Mario Baccini rilancia: «Casini può fare il leader, anche il leader planetario, se vuole». Ma al di là delle schermaglie, è chiaro che a questo punto un accordo sarebbe più che ragionevole. E l’ingresso nella partita di De Mita potrebbe contribuire ad ammorbidire la partita. «Dopo la sua uscita dal Pd», argomenta Mastella, «si aprono prospettive nuove, a patto che ci sia buon senso e che nessuno ponga veti, altrimenti c’è il rischio che nessuno raggiunga il 4 per cento».
Se in Sicilia dovesse essere candidato alla guida della Regione il presidente dell’Mpa Raffaele Lombardo e il suo nome dovesse essere indicato alla presidenza della Regione per la CdL, e ci fosse una convergenza dell’Udc non ci sarebbe nessuna incoerenza». Lo ha detto il presidente di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini a margine di un convegno sul Mezzogiorno che si sta tenendo a Napoli nei saloni della Stazione Marittima. «L’accordo è in dirittura d’arrivo. Non ho avuto telefonate durante il tragitto che mi ha portato a Napoli. Il mio auspicio - ha spiegato - quindi è che sia Lombardo il candidato alla presidenza della Regione Sicilia non solo con l’appoggio del Pdl ma anche dell’Udc».
Roccella candidata nel PdL Eugenia Roccella, portavoce del Family Day, sarà candidata alla Camera nelle liste del Popolo della Libertà. «La candidatura, sollecitata da numerose personalità politiche - si legge in un comunicato diffuso da Forza Italia - ha il senso di sottolineare la centralità nel programma del PdL della difesa della famiglia e dei temi di biopolitica. I temi etici, sui quali laici e cattolici insieme devono saper rispondere alla sfida della sinistra che, una volta ancora, vuole affermare una visione totalitaria in cui non c’è spazio per la piena dignità della persona».
Roma, in dubbio la candidatura Meloni Sarà annunciato con ogni probabilità venerdì, in occasione del primo direttivo romano del PdL, il nome del candidato a sindaco di Roma che andrà a sfidare, per il nuovo raggruppamento, Francesco Rutelli. Tuttavia anche sul direttivo non mancano le incognite: «Direttivo? Io non ne so niente - afferma il deputato e coordinatore regionale del Lazio e romano di Forza Italia, Francesco Giro - mi pare ci sia una grande confusione nella parte “aennina” del PdL». Intanto, tramontata definitivamente l’ipotesi di Giuliano Ferrara, proseguono le riunioni e i contatti tra An e Forza Italia per arrivare ad una scelta unitaria. Secondo quanto si è appreso, sempre da ambienti di An, la scelta potrebbe ricadere su una figura maschile e non più sulla vicepresidente della Camera Giorgia Meloni (An), nome che è circolato con insistenza negli ultimi giorni».
Assemblea della Rosa bianca La Rosa bianca si riunisce in assemblea nazionale i prossimi 23 e 24 febbraio a Montecatini Terme. “In mille per fondare la Rosa bianca”, il titolo dell’evento che sarà presieduto dal presidente Savino Pezzotta, dal segretario Mario Baccini e dal candidato premier Bruno Tabacci.All’evento parteciperanno anche associazioni (cattoliche e non), giovani, semplici simpatizzanti e amministratori locali che hanno aderito al nuovo partito. «Saremo in mille, o magari due, tre, cinquemila”, ha detto Baccini presentando il meeting in una conferenza stampa a Montecitorio. I lavori verranno aperti da Baccini sabato pomeriggio. Dopo vari interventi e proposte, concluderà la giornata Pezzotta. Il giorno dopo, domenica, si aprirà con una messa, e intorno alle 13 concluderà i lavori Tabacci».
polemiche
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Il filosofo viennese della Società Aperta finisce, a sproposito, nel pantheon pannelliano
Radicali, giù le mani da Karl Popper! di Andrea Mancia i Radicali italiani piace da impazzire il “giochino del pantheon”. Fino a pochi mesi fa, le tre divinità laiche di Torre Argentina erano Tony Blair, Loris Fortuna e José Luis Zapatero. Niente da eccepire, vista la deriva monomaniaca del partito sui temi etici e l’alleanza “liberalsocialista” che aveva dato vita alla Rosa nel Pugno. Ultimamente, però, il pantheon transnazionale ha subito un restyling totale. Messe in soffitta le “star” del riformismo europeo, i radicali hanno deciso di puntare più in alto. Forse, troppo in alto. E nel di-
A
cembre dello scorso anno, presentando il “Primo Satyagraha Mondiale per la Pace”, hanno deciso di ispirare la loro azione politica per il 2008 alle figure del Mahatma Gandhi, di Martin Luther King, di Immanuel Kant e di... Karl Popper. Orrore e raccapriccio. Si tratta forse dello stesso Karl Raymund Popper, autore de “La società aperta e i suoi nemici” e fondatore, di fatto, dell’epistemologia moderna? Si tratta dello stesso Popper conosciuto per la sua critica devastante all’hegelismo e al marxismo, ma che attaccò con pari durezza anche
lo scientismo, l’induttivismo e il positivismo del Circolo di Vienna? Chi scrive ha avuto la fortuna, grazie a Dario Antiseri, di studiare il pensiero del filosofo austriaco in un’epoca in cui Popper - come Friedrich A. von Hayek, Ludwig von Mises e Carl Menger - erano considerati, dalla vulgata mainstream del nostro mondo accademico, alla stessa stregua delle Brigate Rosse. Anzi, un po’ peggio. La critica a Platone, Hegel e Marx aveva confinato Popper nel limbo degli “intoccabili”, impedendo per decenni la pubblicazione in Italia della Società Aperta.
Ancora prima, però, che un pensatore politico (appena troppo liberal per gli standard del liberalismo contemporaneo), Popper è stato un filosofo della scienza. Ed è stato proprio nel campo dell’epistemologia che le intuizioni di Popper restano inarrivabili. Con il suo “razionalismo critico”, Popper non demolisce soltanto l’induttivismo, il verificazionismo e l’empirismo logico, ma restituisce dignità al “logos filosofico” dopo decenni di sbronze scientiste. Delimitando con accuratezza i confini della scienza (una teoria è scientifica solo se è falsificabile), Popper non attacca soltanto le pretese di scientificità della psicoanalisi e del materialismo dialettico, ma riporta la metafisica al timone delle “leggi eterne ed assolute”; che non sono scienza, ma non per questo sono meno importanti per l’umanità. Sul sito internet di Radio Radicale, nella pagina di presentazione del nuovo quadrumvirato ideale Gandhi-King-KantPopper, vengono pubblicati
di diritto - scrive Popper - consiste prima di tutto nell’eliminare la violenza. Io non posso, in base al diritto, prendere a pugni un’altra persona. La libertà dei miei pugni è limitata dal diritto degli altri di difendere il loro naso. Quando consentiamo che venga abbattuta e tolta di scena la generale avversione alla violenza, davvero sabotiamo lo Stato di diritto e l’accordo generale in base al quale la violenza deve essere evitata. In quel modo sabotiamo la nostra civilizzazione». Letto, sottoscritto e approvato: anche in questo caso il pensiero del filosofo viennese ben si adatta ad evocare le suggestioni, la storia e le lotte del movimento radicale.
Manca qualcosa, però. Mancano soprattutto le centinaia di pagine scritte da Popper contro lo scientismo. Secondo Popper (e secondo la logica), la pretesa di dimostrare che la scienza è l’unica forma possibile di conoscenza non è falsificabile. E dunque non è scientifica. Questa autocontraddizione, questa
Grandi citazioni per gli scritti contro la violenza, ma nessun accenno alle devastanti critiche popperiane contro lo scientismo, l’induttivismo e il positivismo che «nell’ansia di demolire la metafisica, hanno demolito la scienza» due brani scritti dal filosofo austriaco. Il primo (tratto dalla raccolta postuma “All Life is Problem Solving”), Popper si dichiara «un avversario del cosiddetto movimento pacifista, nell’interesse della pace», invitando gli occidentali ad imparare dall’esperienza nazista. Niente da obiettare: i Radicali hanno sempre colto la distinzione tra “non violenza” e pacifismo imbelle.
Anche il secondo brano si adatta bene alla storia radicale, visto che si tratta di un celebre scritto contro la violenza tratto da un’altra raccolta, “La lezione di questo secolo”, curata da quel Giancarlo Bosetti che rese famoso Popper in Italia con una operazione di dubbio gusto e correttezza, trasformando un appello contro l’eccesso di violenza nei palinsesti televisivi in una sorta di manifesto anti-berlusconiano. «Lo Stato
aporìa insanabile che sembra una riedizione moderna del “paradosso del cretese”(«Tutti i cretesi mentono», ma se l’affermazione è vera, è vero anche il suo contrario, cioè che non tutti i cretesi mentono, perché almeno uno ha detto la verità) non è soltanto un falso dogma scientista, ma un grave ostacolo alla scienza stessa. «I positivisti - scriveva Popper - nella loro ansia di annichilire la metafisica, annichiliscono anche la scienza naturale». Ma di questo i Radicali italiani non parlano. Questo lato “oscuro” del loro nuovo punto di riferimento ideale non viene citato o discusso, neppure per essere smentito. Se lo facessero, dovrebbero ammettere che la critica di Popper allo scientismo assomiglia, in modo impressionante, ad una descrizione della loro recente parabola politica: i radicali, nell’ansia di annichilire il Papa, annichiliscono anche se stessi.
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memorie La figura emblematica di un cubano, vittima dell’utopia e richiuso in carcere per trent’anni
Tutti a parlare di Fidel. E di Mario Chanes? di Renzo Foa
on Mario Chanes sentivo di avere un debito. Stavo andando da lui per farmi raccontare la sua vita. Era il novembre del 1996. Il giorno prima Laura Gonzales mi aveva parlato di due date: il 17 luglio del 1961 e il 16 luglio del 1991, la prima era quella del suo arresto, la seconda quella della scarcerazione. Trent’anni esatti. Ero rimasto senza parole e avevo guardato a lungo quell’uomo ormai anziano, basso di statura, dalla voce rauca. Cercavo di capire cosa potesse voler dire trascorrere un periodo così lungo dietro le sbarre, entrare in prigione giovane, uscirne da vecchio e trovare un altro mondo. Cercavo di capire cosa significava essere vittima dell’utopia. E Laura, per rendere il tutto ancora più chiaro, aveva aggiunto che era rimasto in carcere più a lungo di Nelson Mandela. Con una differenza: l’uno era stato un eroe, un mito, un simbolo dell’ingiustizia, l’altro era stato ignorato, la sua detenzione si era consumata nel silenzio.
C
Cercavo delle domande, ma non riuscivo a trovarne. Temevo anche di non capirne il linguaggio, tanto forte era stato lo strabismo provocato dalle gabbie dell’ideologia e grazie al quale non avevo mai guardato dalla sua parte. Forse un argomento c’era: il tempo. Cos’era stato il suo 1961? E quanto era stato diverso dal mio? Mi rivedevo in quei piccoli cortei di ragazzi in cui gridavamo: «Cuba sì, yankee no». Bloccavamo il traffico a Largo Chigi, correndo via di fronte alla prima carica dei celerini, che brandivano il manganello, ritrovandoci un centinaio di metri più in là, fra gli autobus di via del Corso, attorno al primo che ricominciava a scandire: «Cuba libera, Cuba libera». Fino alla nuova carica. Era la primavera dello sbarco alla Baia dei porci, l’attacco voluto da John Kennedy – quando poi Jacqueline parlò degli invasori sconfitti come degli eroi a cui voleva che assomigliassero i suoi figli. Ed era
stato proprio difficile conciliare l’immagine del New Deal di Roosevelt, con la decisione di rovesciare Fidel Castro, che governava il «primo territorio libero di America». Come l’avremmo messa se l’invasione dei «mercenari della Cia» avesse avuto successo? La vittoria dei barbudos – si chiamavano ancora così – fu davvero una fortuna per la nostra coscienza, ci risolse il problema.
intervistare: non mi ero preoccupato di lui, non ne conoscevo nemmeno l’esistenza, invocavo per strada pace e libertà per Cuba, senza pensare alla libertà dei cubani. Non riuscii a fare domande. Seduti in tre nella hall di un piccolo albergo accanto alla stazione Termini – c’era anche Laura – mi limitai a chiedergli di raccontarmi la sua storia. Scelse lui da dove cominciare, comin-
no a sparare contro quei giovanotti, vestiti anch’essi da soldati, stipati nelle automobili giunte davanti al portone del Moncada, la seconda caserma di Cuba. La battaglia non ebbe storia. Si sentì quasi subito l’urlo con cui Fidel dette l’ordine di ritirata. Era il 26 luglio del 1953. Erano passati quarantatre anni. «Ero sindacalista, nel settore del commercio dell’Avana. Il mio sindacato era diret-
Giovane oppositore di Batista, era con Fidel nell’assalto al Moncada, poi partecipò all’impresa del Granma e alla rivoluzione. Aveva il difetto di dire quel che pensava: arrestato il 17 luglio del 1961 tornò in libertà il 16 luglio del 1991 Comunque, Chanes in quei giorni non era ancora in carcere. Lo sarebbe stato però nell’autunno dell’anno dopo, il 1962. Mi rividi nelle stesse piccole manifestazioni, sempre a Largo Chigi, sempre a via del Corso, quando Krusciov installò a Cuba i missili che avrebbero potuto colpire gli Stati Uniti in pochi minuti e quando fu sempre Kennedy a rispondere con il blocco navale dell’isola. Io a gridare: «Cuba libera». Lui all’inizio del suo ergastolo. Già chiuso in un carcere. Ecco il debito che sentivo nei confronti dell’uomo che stavo andando a
ciò a parlare lentamente e mi accorsi subito che, ascoltandolo, vedevo anche delle immagini. Vedevo proprio Mario Chanes nella terza macchina. Dalla prima avevano gridato: «Sta arrivando el general, sta arrivando el general». Speravano che le sentinelle ci cascassero, che lasciassero passare il corteo pensando ad un’improvvisa visita del general, il dittatore Fulgencio Batista. Nella seconda c’era Fidel Castro, che comandava l’assalto. Non fece in tempo a scendere che giunse, inattesa, la «guardia cosacca», cioè la ronda. I soldati cominciaro-
to da Narciso Sautier, un comunista. Non avevo alcun preconcetto personale o ideologico. Semplicemente non condividevo la sua politica, improntata alla demagogia. Quando la convivenza diventò impossibile, con altri compagni fondammo un altro sindacato di cui venni eletto segretario. Il nostro punto di riferimento ideale era Josè Martì, quello politico era la Costituzione del 1940, una delle più avanzate. Già allora garantiva i diritti dei lavoratori come adesso, guardando all’America latina, non vengono riconosciuti da nessuna
parte. Tantomeno a Cuba. Anche oggi, con qualche emendamento, sarebbe attuale». Mario Chanes continuò. «Conobbi Fidel Castro dopo il golpe di Batista del 10 marzo 1952, compiuto ottanta giorni prima delle elezioni. Era allora un leader del mondo universitario. Me lo presentò un compagno del sindacato che si chiamava Fernando Cenard Piña. C’era un’attività legale, ma avevamo formato cellule clandestine di resistenza, con un capo ed un secondo nel caso che il capo venisse preso. Cenard era il capo, io il secondo. Ci si incontrava regolarmente nella sede del Partito ortodoxo, si faceva il bilancio della settimana. C’era il lavoro politico pubblico, c’era l’attività clandestina, c’era anche l’addestramento militare. L’addestramento militare si faceva all’università dell’Avana. Montavamo e smontavamo le armi, ne imparavamo l’uso, ma naturalmente non sparavamo. Castro era uno dei nostri interlocutori. Si discuteva molto di politica: l’obiettivo era di abbattere la dittatura di Batista e di ripristinare la Costituzione del 1940; eravamo contro tutte le dittature, a Cuba, in America latina e anche quelle comuniste. Quando decidemmo di attaccare il Moncada, non pensavamo ad una battaglia. Puntavano sulla sorpresa, volevamo impadronirci delle armi dell’arsenale, speravamo che i militari contrari alla dittatura si sarebbero uniti a noi. Indossavamo le uniformi dell’esercito, con una sola eccezione, le scarpe, che non eravamo riusciti a trovare. Partimmo in centoventi».
Mario Chanes non lo sapeva. Ma quella data -il 26 luglioavrebbe segnato il resto della sua vita. Non lo sapeva allora e, soprattutto, non ebbe tempo di pensarlo quando, udito l’ordine di Castro, ripiegò insieme agli altri, fino alla piccola fattoria da dove erano partiti. Si tolsero le uniformi militari. Contarono i morti, prestarono le prime cure ai feriti, poi si nascosero su una collina vicina. Un’ora dopo arrivò l’esercito. Da lontano sentirono gli spari, con cui venivano uccisi i feriti. «Eravamo rimasti in dicianno-
memorie
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ve. Camminammo per due giorni senza saper bene dove andare. Fidel non sapeva cosa fare: in certi momenti diceva che bisognava proseguire la rivolta, in altri che bisognava cercare di raggiungere Santiago de Cuba e nascondersi lì in città. Gli venne anche l’idea di provare a dare l’assalto ad un’altra caserma. Ma gli fu risposto da tutti che era pazzo, che l’esercito era lì ad aspettarci per farci a pezzi. Alla fine decidemmo di andare a Santiago. Cinque se ne andarono per conto loro. Il nostro era un azzardo: non conoscevamo le strade, non avevamo cibo e avevamo poche armi. Grazie ad una radio a pile apprendemmo che c’erano stati trentatre morti nostri, avendo conferma che i feriti erano stati uccisi. Al quarto giorno ci fermammo a parlare con un contadino, che ci raccontò che le esecuzioni sommarie erano finite grazie all’intervento del vescovo Perez Serantes, che girava in macchina per la zona lanciando con un altoparlante un appello alla resa, garantendo la nostra salvezza. La sera del 31 luglio eravamo rimasti in otto, troppi per riuscire ad entrare in città inosservati. Fu allora che Fidel chiese a cinque di noi di consegnarci, per consentire a lui di sfuggire all’arresto. Ma nessuno di noi accettò la proposta. Eravamo venuti lì a combattere, non ad arrenderci. Fidel insistette, disse che l’unico modo di salvare la rivoluzione era salvare il
Risposi che «non avevo fatto la rivoluzione per poter collaborare ad interrogatori come questi». Alla Cabaña seppi che l’accusa era di aver preparato piani di sabotaggio e piani per attentatare alla vita di Fidel Castro e di Carlos Rafael Rodriguez, il Mario Chanes ricorda che in capo del Partito comunista. Il sabotaggio si riferiva alla prequei giorni più che l’arresto, il parazione di uno sciopero geprocesso e la condanna a dieci nerale di protesta per il 26 luanni di carcere lo turbò l’angoglio. Quanto a Carlos Rafael scia per i compagni caduti. Fu Rodriguez non l’avevo mai indeportato con gli altri del Moncontrato, l’avevo solo visto in tv cada all’Isola dei pini. Vi restò e ascoltato alla radio. Su di lui poco più di ventun mesi, perché feci una dichiarazione molto un’amnistia decretata da Fulsemplice, in prigione, pretengencio Batista consentì a tutto dendo che la registrassero. il gruppo di uscire. Pochi anni Questa: «Non lo conosco diretdopo, di nuovo rinchiuso all’Itamente, ma so che i sola dei pini, si accomunisti e lui percorse con sorpresa sonalmente hanno di dover rimpiangeappoggiato Batista re quei giorni, quannelle elezioni del do poteva avere li1940. So che Carlos bri, riviste, cibo. Rafael Rodriguez Scoprì che era stato era stato ministro proibito ai detenuti nel governo di Batitenere qualsiasi costa, mentre io lo avesa da leggere e che vo combattuto»». le perquisizioni eraMario Chanes si era no occasioni per insposato cinque mesi sultarci e picchiarci, prima dell’arresto, il che non c’era più lo 18 febbraio del ‘61 e spaccio dove poter sua moglie era incincomprare qualcosa ta quando la polizia da mangiare. Mario lo venne a prendere. Chanes, liberato alViveva da due anni l’amnistia di Batista Mario Chanes in una foto dei suoi ultimi anni tra speranze e disilnel maggio del 1955, e (in bianco e nero) negli anni 50. Poi il dittatore lusioni. Nel 1959, cocontinuò a vivere gli Fulgencio Batista; Fidel Castro, Chanes (alla sua me tanti altri che altri passi della rivosinistra) e gli altri detenuti all’uscita del carcere dopo avevano partecipato luzione cubana. l’amnistia del maggio del 1955; infine Ernesto alla lotta fin dall’iniAndò con Fidel Castro in Messico, si Che Guevara e Castro nei primi anni della rivoluzione zio venendo dal mo-
me. Ma sapevo che non sarebbe venuto; altri compagni mi avevano detto che lui era perfettamente informato del malcontento mio e di una parte di coloro che avevano partecipato fin dall’inizio al 26 luglio. Non è che avessi un pregiudizio ideologico o problemi personali con i comunisti. Semplicemente erano arrivati per ultimi alla lotta contro Batista. Ancora il 6 aprile del 1958 quando cercammo di organizzare uno sciopero generale, che si concluse con un disastro totale e con grandi perdite in vite umane, i comunisti non solo non ci appoggiarono, ma ci boicottarono».
suo comandante. Naturalmente eravamo grandi idealisti (e lo siamo ancora), lui aveva una grande capacità di convinzione e abbiamo pensato che sacrificandoci avremmo salvato la rivoluzione. Decidemmo che l’indomani, al risveglio, ci saremmo consegnati. C’era un piano preciso: arrendendoci, avremmo detto che Fidel era riuscito a scappare in una zona distante della costa, in modo da allentare la morsa e consentirgli di raggiungere Santiago. Così, come concordato, all’alba, il contadino ci venne a cercare, perché il proprietario della fattoria dove egli lavorava nella notte era andato a parlare con il vescovo Perez Serantes. Salutammo Fidel e ci incamminammo verso il luogo fissato. C’era il vescovo, ma nascosti dietro la
addestrò alle armi e si impegnò nelle lunghe discussioni politiche ed ideologiche in quegli anni di risveglio di una generazione di intellettuali latino-americani che rifiutavano il destino delle dittature militari, del latifondo, della dipendenza. Era sul Granma, il 2 dicembre del 1956, partecipò al primo combattimento, tre giorni dopo quando l’esercito attaccò a Alegria de Pio i rivoluzionari sbarcati e quando Che Guevara, arruolatosi come medico, venne ferito al collo e diventò un guerrigliero; salì sulla Sierra e poi venne mandato qua e là per Cuba. Nel 1958 fu di nuovo arrestato, a Piñar del Rio, dove doveva organizzare degli attentati per il 26 luglio, insieme a un gruppo di seguaci di Prio Socarras, il presidente deposto
vimento sindacale e dal mondo della borghesia progressista, non aveva condiviso l’alleanza tra Fidel Castro e il Partito comunista. Aveva visto con sofferenza come quell’alleanza diventasse emarginazione di tanti militanti della «prima ora» e poi repressione aperta, con raffiche di arresti e di condanne, anche a morte, di ministri, esponenti politici, comandanti militari. Molti erano amici del lider maximo e venivano stritolati dal potere nella morsa che si stringeva tra l’aggressività di Washington e l’abbraccio con Mosca. «In quel periodo incontrai Fidel Castro una sola volta, al ministero della pianificazione durante una riunione. Mi disse che sarebbe passato a trovarmi alla Polar, che voleva parlare con
nell’arringa che non chiedeva la pena di morte solo perché ero stato uno dei fondatori del 26 luglio, perché avevo partecipato al Granma, perché ero stato vicino a Fidel». Mario Chanes uscì dal carcere il 16 luglio del 1991. Aveva rifiutato il piano di riabilitazione, era stato escluso da ogni provvedimento di clemenza, aveva scontato fino all’ultimo giorno. «Quando uscii e vidi come si era ridotta Cuba, con le case in rovina, con la gente alla fame, ho provato uno scoramento terribile, come non mi era successo nemmeno nelle celle di punizione, nelle peggiori carceri, neanche nelle celle murate».
sua macchina c’erano dei soldati che cominciarono a sparare in aria. Noi ci gettammo a terra. Poi fummo arrestati e ci ritrovammo tutti assieme, perché il piano era fallito e anche Fidel era stato preso».
nel 1952. Così il giorno della fuga di Batista era ancora in carcere. Il 1° gennaio del 1959 il regime si frantumò. Lui, liberato, riprese subito i contatti con i suoi vecchi compagni del sindacato all’Avana, li organizzò militarmente, si ritrovò capo della polizia a Marianao, la maggiore municipalità dopo l’Avana. Ma ci restò poco, solo un mese. Prevalse in lui l’anima del sindacalista e si mise a organizzare le mense popolari. Poi, superati i tempi dell’emergenza, andò a lavorare alla Polar, la fabbrica di birra di cui suo padre era stato uno dei fondatori. «Fui arrestato di nuovo il 17 lu-
glio del 1961. Fui portato nella sede dei servizi di sicurezza (si chiamavano G2) e poi in una casa che non conoscevo. Fu una specie di sequestro. Mi interrogarono due volte, mi chiesero se avessi partecipato a delle riunioni e a quali. Risposi che avrebbero dovuto farmi delle accuse precise, chiedermi a quali riunioni avessi partecipato. Mi risposero che no, che sapevano che non avevo partecipato ad alcuna riunione di oppositori, ma che avevo molte informazioni perché conoscevo persone che a quelle riunioni erano state presenti. Mi rifiutai di rispondere e chiesi ancora: «Se avete accuse, fatemele». Allora dissero che mi avrebbero trasferito alla Cabaña, il vecchio cercare dell’Avana: «Lì crederanno a noi e non a te».
Al processo Mario Chanes venne condannato a trent’anni di carcere. «Fu la pena più pesante. Dopo di me erano stati arrestati altri sette od otto della Polar, che effettivamente avevano messo su una rete clandestina, e si presero vent’anni. Tante volte ho discusso con altri compagni in prigione di questo accanimento contro di me. Io sapevo che c’era gente che stava cospirando, ma io non ero in alcun gruppo e tantomeno lo organizzavo. Tra l’altro, non facevo parte del governo, dicevo apertamente quello che pensavo, non avevo alcun bisogno di cospirare. Il presidente del tribunale mi accusò di diserzione, il pubblico ministero di tradimento della causa rivoluzionaria. Risposi che non ero stato nè traditore né disertore e non aggiunsi altro. Il pm disse
Ps. Mario Chanes è morto il 24 febbraio del 2007 in Florida, all’età di 79 anni.
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mondo
Musharraf non si dimetterà, l’impeachment è possibile, ma i due vincitori non è detto che trovino un accordo
Pakistan, un equilibrio precario fra vincitori e vinti Colloquio con Frédéric Grare di Bernard Gwertzman «
el medio periodo il Pakistan vivrà giornate di instabilità. I due vincitori, il Ppp (Partito del popolo pakistano) di Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, e il Pml-N (Partito della lega musulmana - N) di Sharif probabilmente lavoreranno assieme, almeno al principio. Ma non è chiaro per quanto. Le opzioni sono due: alla luce della maggioranza conquistata possono chiedere l’impeachment di Musharraf, e questo è al momento lo scenario più gettonato. Se lo faranno, c’è il rischio di una successiva lotta di potere fra i due e qui fare previsioni diventa difficile. Se non si arrivasse all’impeachment, Musharraf cercherà di mettere l’uno contro l’altro. In ogni caso, andremo verso un periodo di instabilità politica, il che non significa necessariamente un precipitare della situazione». Frederic Grare, massimo esperto di Asia del Sud per il Carnegie Endowment for International Peace, non si fa illusioni. I risultai elettorali hanno scoperchiato un vaso di Pandora e adesso tutto è possibile. Ma non lo scenario peggiore: il caos. Quell’ipotesi è abbastanza lontana. L’esercito, spina dorsale di Musharraf nonché fulcro delle operazioni contro i talebani e al-Qaeda, verrà marginalizzato? No. L’esercito continuerà ad avere un ruolo primario nella politica pakistana, anche laddove Musharraf venisse estromesso. Sotto un profilo di guerra al terrore, lo scenario in un primo periodo rimarrebbe inalterato. E il supporto degli
N
Usa, pianificato già da tempo, sarebbe garantito. Piuttosto, c’è la concreta possibilità che i nuovi leader mobilitino la popolazione in questa guerra, un passo mai fatto da Musharraf. Questo potrebbe significare un passaggio dalla “guerra al terrore” alla “guerra del popolo” contro un estremismo che fa meno proseliti di quanto si creda in patria. Non dimentichiamo che gli stessi che due giorni fa hanno affossato Musharraf alle urne, lo avevano sostenuto durante gli incidenti della Moschea Rossa dello scorso anno.
Sharif non ha buoni rapporti con gli Usa. Che succederà? Nessuno dei due vincitori è particolarmente amico degli Usa visto il supporto accordato a Musharraf. E gli americani dovrebbero capire che la loro impopolarità nella regione è dovuta a questo e non è figlia di alcuna ideologia. Sharif sa che ogni critica contro l’alleanza militare con gli Usa attirerebbe molti plausi, ma sarebbe comunque dannosa. Il principale bacino di voti di Sharif si concentra nel Punjab, la ex roccaforte di Musharraf.
«Il prossimo Primo ministro? Probabilmente Makdoom Amin Fahim, leader parlamentare del Ppp di Benazir Bhutto. L’instabilità politica è certa, ma non degenererà nel caos» Musharraf potrebbe dimettersi? Sarebbe una mossa azzeccata, ma non credo proprio che Musharraf accetti di andarsene così, su due piedi. Non gli piace essere messo con le spalle al muro. Chi sarà il prossimo Primo ministro? Probabilmente Makdoom Amin Fahim, il leader parlamentare del Ppp. Ma bisognerà attendere ancora qualche giorno per saperlo. La nomina mostrerà i nuovi equilibri politici in campo. E l’Assemblea nazionale esprime solo una parte di questa nuova composizione. Il “tutto” comprende anche i parlamenti provinciali.
Questo non deve stupire, perché l’elettorato del Pml-Q (il partito della lega musulmana che fa capo al generale) è praticamente lo stesso del Pml-N. È solo che il bacino elettorale di Sharif era transitato nel Pml-Q quando lui era andato in esilio volontario. Washington cosa dovrebbe fare adesso? Aspettare, ma comunque prendere atto dei risultati del voto. Un segnale in questo senso c’è comunque già stato: una sorta di presa di distanza da Pervez Musharraf. Condoleeza Rice, il Segretario di Stato, ha parlato di «politica pakistana» e non di politica Musharraf. Quanto tempo occorrerà per una modifica del-
l’azione diplomatica è da vedere. Il generale Jehangir Karamat, ex capo dell’esercito pakistano e ambasciatore a Washington, ha detto che il crollo dei partiti estremisti islamici nelle province Nord Occidentali gioca a favore degli Usa, visto che sono stati preferiti due partiti secolaristi. Il Mma (l’alleanza dei partit islamici) ha vinto in passato nel Belucistan e nelle Provincie Nord Occidentali soltanto grazie ai brogli elettorali del 2002. Quel voto è da prendere con le pinze. Quella che adesso emerge non è una nuova opportunità, ma una chance. C’è una bella differenza. Il Pakistan ha una possibilità di formare un governo legittimo e serio? I governi passati erano corrotti. È sotto gli occhi di tutti. E a suo modo lo è stato anche il governo “militare”di Musharraf. Dunque, di cosa stiamo parlando? È evidente che una sana forma di governo, in quell’area, non è ancora ipotizzabile. Certamente, però, il potere militare verrà ridimensionato. Le nuove leadership potrebbero rendere partecipe la popolazione alla vita politica? E se si, come? Al momento soltanto diventando degli interlocutori credibili per i loro elettori. Se questo dovesse realizzarsi, allora alcune cose potrebbero cominciare a mutare. © Council on Foreign Relations
mondo
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Giordania, il movimento islamista si spacca: emorragia di consensi
Hamas richiama i Fratelli musulmani di Federica Zoja
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Usa 2008: vincono McCain e Obama Dopo la vittoria in Wisconsin un trionfante John McCain ha rivendicato per la prima volta la candidatura repubblicana alla Casa Bianca, ammettendo di essere riuscito ad avere la meglio su un partito affollato di aspiranti alla nomination molto agguerriti e divisi. Intanto si comincia ad ipotizzare un possibile ticket con Condoleeza Rice come vicepresidente. Barack Obama, alla sua decima vittoria consecutiva, vince anche alle Hawaii conquistando un buon vantaggio di delegati e preparando un terreno favorevole in vista delle primarie in Ohio e Texas.
Kosovo: riaperti posti frontiera L’Unmik, la polizia internazionale delle Nazioni Unite in Kosovo, ha fatto sapere di aver riaperto i due posti di frontiera di Jarinje e Banja dati alle fiamme ieri per mano della minoranza serba dello Stato neo-proclamato.
Djukanovic premier del Montenegro Il presidente del Montenegro, Filip Vujanovic, ha nominato premier Milo Djukanovic. Per lui, che è stato anche presidente della piccola repubblica adriatica, è il quarto incarico da primo ministro. Subentra a Zeljko Sturanovic, che ha rassegnato le dimissioni per motive di salute. In Italia il suo nome è finito della magistratura di Bari che lo ha iscritto nel registro degli indagati per contrabbando di sigarette.
Francia al lavoro per riforma giustizia Il governo francese vuole semplificare la giustizia, scopo al quale si dedicherà un’apposita commissione. Questa stabilirà i campi in cui i magistrati non dovranno più intervenire: si potrebbe trattare dei divorzi o delle infrazioni stradali o fiscali. Ciò permetterà ai giudici di concentrarsi sui contenziosi più complessi.
Il Guardian attacca Blair IL CAIRO. Di crisi ne hanno affrontate numerose, spesso scaturite da forti dissidi con il governo centrale o tensioni politiche esterne, a ridosso del Regno hashemita di Giordania. Ora, però, sembra che per la Fratellanza musulmana giordana le difficoltà siano maggiori, aggravate dalle recenti pesanti sconfitte alle elezioni, municipali e nazionali, ma non solo. Il pomo della discordia che sta spaccando il movimento islamista ad Amman giunge questa volta direttamente da Gaza, a dimostrazione che le vicende palestinesi hanno riflesso immediato su quelle dell’intera area politica medio orientale. Hamas, infatti, ha deciso di dare vita a una confraternita musulmana palestinese autonoma da quella giordana - fra le cui fila militano molti palestinesi con passaporto giordano - ed ha invitato gli espatriati a confluire in questa nuova entità. Anche perché non intende conferire più ai Fratelli giordani la facoltà di rappresentare quelli palestinesi al di fuori dei Territori. Come dire, si preannuncia un’emorragia di notevoli dimensioni per il movimento islamista, il cui braccio politico in Giordania è il Fronte islamico d’azione (Iaf). Non c’è dubbio che l’aver perso 16 seggi su 22 alle elezioni legislative abbia accelerato la spaccatura del movimento in due correnti, a seconda della maggiore o minore sintonia con le scelte di Hamas. A testimoniare la difficile impasse in cui è incappata la Fratellanza gior-
Il pomo della discordia che spacca il gruppo ad Amman giunge da Gaza, dove è nata una confraternita alternativa dana è lo scioglimento del Consiglio della Shura, l’assemblea che gode del maggior potere decisionale. Secondo gli analisti di stanza nella capitale giordana, i falchi della Fratellanza sarebbero infuriati con la corrente delle colombe per aver voluto partecipare alle elezioni benché queste fossero palesemente truccate a favore del partito di maggioranza. Un massacro anticipato, cui una parte del movimento non avrebbe voluto partecipare. O, almeno, avrebbe preferito scegliere con cura candidati graditi alle basi della confraternita sul territorio. E poi, nelle discussioni interne, sarebbe fondamentale la questione dei rapporti con le autorità: se i toni morbidi e conciliatori utilizzati negli ultimi mesi per rapportarsi con il governo non hanno condotto a elezioni più limpide rispetto al passato, forse bisogna tornare ad un approccio più duro, sostengono i falchi. Già nel 2007, di fronte ai tentativi del governo di indebolire l’influenza politica della Fratellanza, la risposta era stata l’aumento di infiltrazioni di armi ed esplosivi dalla Cisgiordania. Nell’attesa che la
nuova Shura dia un orientamento politico unico al movimento, gli osservatori rilevano la forte richiesta delle masse: meno politica e ritorno al sociale, là dove lo Stato è ritenuto ancora assente. Il modello di ispirazione è quello del Cairo: la Fratellanza musulmana egiziana ha una presenza capillare nel Paese ed è trasversale a settori economici e classi sociali. Con ospedali, studi legali, scuole e attività commerciali crea lavoro e assistenza per fasce di popolazione dimenticate dal governo. Anche se la preoccupazione per le verifiche elettorali è passata, Amman dunque non nasconde le proprie paure e tiene d’occhio la Fratellanza musulmana casalinga. Il Regno degli Hashemiti, infatti, è in equilibrio precario: lo rendono fragile il conflitto iracheno, la faida Hamas-Fatah alle porte di casa, le possibili infiltrazioni di guerriglieri non solo dal confine con l’Iraq, ma anche da quello siriano. Niente da temere, sottolineano gli esperti di movimenti islamisti: la Fratellanza musulmana, nata nel 1928 in Egitto, non è mai riuscita a darsi un coordinamento internazionale unito, né ad avere posizioni condivise rispetto ai grandi temi che riguardano il Medio Oriente. Si tratta di una debolezza congenita, che le impedisce di rappresentare un vero pericolo per i regimi vigenti. Unico punto in comune fra tutte le confraternite, l’ossessione per il segreto, condizione sine qua non per sopravvivere.
Le ambizioni europeiste dell’ex premier britannico Tony Blair (in corsa per diventare il primo presidente dell’Ue) stanno incontrando qualche opposizione nel Vecchio Continente, con la Germania in prima fila per fermare l’ex capo di governo.Alcuni gruppi europeisti hanno già creato un sito web, chiamato ”Stop Blair”, per raccogliere delle firme contro la sua eventuale candidatura, mentre un raggruppamento trasversale nel parlamento di Strasburgo sta organizzando una campagna allo stesso scopo. Il report è del quotidiano britannico Guardian.
Israele: Netanyahu contro Olmert Il leader dell’opposizione israeliana, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato oggi che il premier Ehud Olmert intende dividere Gerusalemme. Secondo Netanyahu, inoltre, se ci sarà un ritiro dai quartieri orientali, la città diventerà «la Mecca del terrore globale». Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad ha invece definito Israele una «entita’ corrotta», un «animale selvaggio» scatenato dalle potenze occidentali per attaccare le nazioni del Medio Oriente.
I palestinesi seguano Pristina Yasser Abed Rabbo, uno dei negoziatori dell’Autorità Nazionale Palestinese, ha dichiarato che l’esempio di dichiarazione di indipendenza unilaterale del Kosovo, dovrebbe essere adottato anche dai palestinesi, poiché il dialogo con Israele sulla creazione di uno Stato indipendente non ha determinato alcun progresso.
America Latina, vertice con Paesi Arabi Due ’sud’ del mondo lontani, ma con interessi comuni, prospettive di investimenti e con la volontà di aumentare i legami commerciali, politici e culturali. Si è aperto a Buenos Aires il vertice dei ministri degli Esteri dell’America del Sud e dei Paesi arabi (Aspa) in vista della prossima conferenza presidenziale che si terrà in Marocco nella seconda metà dell’anno. Al foro partecipano i rappresentanti di 34 nazioni: Arabia Saudita, Algeria, Argentina, Bahrein, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Comore (isole), Gibuti, Ecuador, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Guyana, Iraq, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Marocco, Mauritania, Oman, Palestina, Paraguay, Perù, Qatar, Siria, Somalia, Sudan, Suriname, Tunisia, Uruguay, Venezuela e Yemen.
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speciale educazione
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Il documento Attali si occupa ampiamente del problema istruzione e propone fra l’altro il “buono“ alle famiglie
SCUOLA LA RIVOLUZIONE FRANCESE Ecco la rivoluzione proposta per la scuola francese dal documento Attali. Riportiamo di seguito ampi stralci del programma.
al 6,8 per cento del Pil. Dal 1980, la spesa per l’istruzione superiore ha registrato un aumento del 120 per cento ed oggi si attesta a 9.370? per ciascuno studente.
i sarà crescita sostenuta soltanto se la società sarà in grado di aiutare ciascuno ad individuare gli ambiti in cui può essere più felice e creativo. La crescita, nel lungo periodo, dipende dalle potenzialità dei giovani, dalla fiducia che hanno in loro stessi, dal loro ottimismo, dal loro gusto di creare, dalla loro capacità d’innovare e, infine, dal loro inserimento personale e professionale nella società. I giovani costituiscono il motore delle più grandi imprese di domani e molte delle più recenti imprese industriali e digitali del mondo, per la maggior parte americane, sono state opera di giovani di meno di 25 anni. La crescita dipende anche dalla capacità di non far gravare sui giovani i costi della società. La padronanza dei comportamenti e dei saperi fondamentali, acquisita sin dalla più tenera età, dipende dalla capacità della famiglia, dell’ambiente sociale e degli insegnanti di valorizzare le attitudini intellettuali, scolastiche, sportive o artistiche di ciascuno, di ampliare le modalità di valutazione delle potenzialità dei giovani, di sensibilizzarli rispetto all’importanza della volontà, della resistenza dinanzi all’insuccesso, dell’interrogarsi e del lavoro di squadra.
RISULTATI MOLTO DELUDENTI Nonostante gli sforzi compiuti: • Il tasso di disoccupazione dei giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni è tra i più alti dei Paesi dell’Ocse e, nel 2007, aveva raggiunto quasi il 22 per cento, mentre dal 1980 non è mai sceso al di sotto del 15 per cento; • Il 40 per cento degli alunni che terminano il ciclo di studi primari lo fa con gravi lacune; • Il 17 per cento dei giovani lascia la scuola senza aver ottenuto né il Certificat d’aptitude professionnelle (Cap), né il Brevet d’études professionnelles (Bep), né il diploma di maturità (baccalauréat); • 50.000 all’anno, pari a circa il 6 per cento di una generazione, (una percentuale significativa, quindi) esce dal sistema scolastico prima di aver concluso l’ultima classe della scuola superiore (terminale); • Il 41 per cento degli studenti interrompe gli studi senza aver conseguito un diploma (11 punti in più rispetto alla media Ocse); • Secondo uno studio americano, (Programma internazionale di ricerca sulla lettura scolastica – 2007), nella disciplina della lettura, i francesi sono ventisettesimi su quaranta, dopo gli studenti di Russia, Italia, Germania e Stati Uniti e, rispetto alle indagini precedenti, hanno perso posizioni; • In ambito scientifico, secondo l’Ocse i bambini francesi passano al decimo al diciannovesimo posto. Eppure, i Paesi in testa alla classifica non sono quelli che stanziano le risorse più ingenti
V
UNA SPESA PER L’ISTRUZIONE IN COSTANTE AUMENTO
La Francia destina una parte considerevole e crescente della propria ricchezza all’istruzione: la spesa per l’istruzione è cresciuta di 1,8 punti dal 1980, fino a raggiungere l’attuale valore pari
per ciascun alunno. L’estrazione sociale non è mai stata tanto determinante nella definizione della carriera scolastica e quest’ultima, a sua volta, non ha mai avuto tanta influenza sulla carriera professionale: • Il 52 per cento dei figli di operai consegue il diploma di scuola superiore (baccalauréat), contro l’85 per cento dei figli di alti dirigenti. Meno della metà dei giovani appartenenti alle classi popolari riesce a superare l’esame di maturità liceale, contro l’83 per cento dei figli di alti dirigenti. LE CHIAVI DEL CAMBIAMENTO È giunto il momento di apportare delle modifiche ai metodi d’istruzione, d’orientamento e di promozione sociale. L’interesse per il risultato (vale a dire il successo di tutti gli studenti) deve oggi prevalere sulla semplice necessità di risorse. Il peggioramento dei risultati nella lettura, nelle materie scientifiche e nelle relazioni umane non è un caso. I Paesi che hanno registrato progressi o hanno colmato il divario preesistente hanno, più della Francia, tenuto conto della notevolissima plasticità dell’intelligenza e dell’incessante creazione di nuovi rituali culturali. Hanno tutti puntato su ritmi scolastici fondati sui processi biologici d’apprendimento: vacanze estive più brevi, giornate più brevi e leggere, sport e attività ricreative nel primo pomeriggio… I ritmi scolastici francesi sono caratterizzati da giornate pesanti e programmi mal suddivisi, che rallentano i processi d’apprendimento! OBIETTIVO: fornire tutti i ragazzi dei requisiti necessari per affrontare il mondo.
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DECISIONE 1 - Migliorare la formazione degli educatori di asilo nido e delle assistantes maternelles1, valorizzarne il diploma ed aumentarne il numero. Un bambino su tre registra sin dai primi mesi difficoltà di sviluppo e vive la scolarizzazione successiva come un trauma, iniziando a presentare disturbi che provocano un’inibizione razionale ed intellettuale, con conseguenti scarse prestazioni. La priorità consiste nel formare le 280.000 assistantes maternelles e tutte le educatrici degli asili nido, perché contribuiscano all’acquisizione da parte del bambino di elementi fondamentali quali il linguaggio. Tale formazione potrà aver luogo in massima parte via internet e potrà essere erogata a partire dal 2009. È, inoltre, necessario raddoppiare da 120 a 240 le ore di formazione delle assistantes maternelles e delle educatrici d’asilo nido, oltre ad aumentarne il numero. DECISIONE 2 z o c c o l o” - Aggiungere allo “z comune di conoscenze il lavoro di gruppo, la lingua inglese, l’informatica e l’economia. La Pubblica Istruzione ha strutturato uno “zoccolo comune di conoscenze” in 7 pilastri: la padronanza della lingua francese, la conoscenza di una lingua straniera viva, la conoscenza degli elementi di base di matematica e la padronanza di una cultura scientifica; il possesso di una cultura umanistica, il possesso delle tecniche d’informazione e comunicazione di base, l’acquisizione di competenze sociali e civiche, la capacità di autonomia e lo spirito d’iniziativa. La padronanza di questa base è verificata alla classe Ce1 (7 anni), alla fine dell’école primarie ed al raggiungimento del brevet (alla fine del collège). Tra le conoscenze di base, non sono annoverati: la capacità di utilizzare internet, la capacità di lavorare in gruppo, la padronanza della lingua inglese, lo sviluppo della creatività e l’apprendimento dell’economia. È necessario introdurre tali insegnamenti, senza appesantire il carico di lavoro scolastico dei ragazzi. Bisogna dare un forte impulso all’apprendimento dell’inglese e all’utilizzo di internet, sin dal primo ciclo di studi. La capacità di utilizzare internet passa attraverso la disponibilità degli strumenti, i quali consentono di privilegiare metodi d’insegnamento che promuovono creatività, analisi critica, sperimentazione e lavoro di gruppo. Consentono anche di agevolare la maturazione di attitudini specifiche (linguistiche, informatiche, artistiche, sportive, creative) allo stesso modo di quelle teoriche e di trasformare ogni insuccesso o bocciatura in un’occasione di apprendimento e non di punizione.
DECISIONE 3 - Prendere le misure necessarie ad evitare la ripetenza nella scuola primaria. La ripetenza non fornisce alcuna soluzione al ritardo degli studenti. Bisogna evitare quanto più possibile la bocciatura. Il ruolo dell’insegnante deve, quindi, essere volto innanzitutto a dare ed ingenerare fiducia. L’ottimismo si acquisisce già da questa età e determina il piacere di lavorare, creare, intraprendere. OBIETTIVO: Fare in modo che tutti gli istituti della scuola primaria e secondaria si impegnino per il successo di tutti gli alunni DECISIONE 4 - Concedere maggiore autonomia agli istituti della scuola primaria e secondaria. Una maggiore autonomia gestionale degli istituti scolastici a partire dalla scuola primaria, consentirebbe di adattare meglio l’insegnamento alle necessità. Deve essere redatto un elenco nazionale di reclutamento: una sorta di “vivaio”, dalla quale possano attingere gli istituti per l’assunzione dei docenti. Tale autonomia consentirebbe, inoltre, motivando il corpo docente, di incoraggiare metodologie innovative adattando la pedagogia ai bisogni specifici degli alunni, mentre l’attuale gestione degli insegnanti, troppo centralizzata e fiscale, preclude loro la possibilità di riappropriarsi delle lezioni.Tale autonomia sarà integrata da strumenti idonei, forniti alle scuole dei quartieri e delle periferie svantaggiati.
DECISIONE 6 - Consentire ai genitori di scegliere liberamente il luogo di scolarizzazione dei figli La “carte scolaire”, che obbliga i ragazzi ad iscriversi nell’istituto di quartiere viene spesso aggirata. Bisogna consentire la scelta completamente libera dell’istituto da parte di genitori e studenti, che potranno tenere conto della valutazione pubblica degli istituti scolastici. In caso di superamento del numero massimo di domande d’iscrizione ad un istituto, vengono fissati criteri di accesso trasparenti, di natura geografica e sociale. A ciascun bambino verranno assegnati dei “diritti alla scuola”, utilizzabili in tutti gli istituti scolastici: tale meccanismo consentirà una vera libertà di scelta, perché ognuno possa fruire, nella propria zona, di scuole governative e private convenzionate. In pratica, lo Stato erogherà alle famiglie una somma di denaro per ciascun alunno. Ogni genitore potrà utilizzarla in un istituto scolastico governativo o privato a sua scelta. La stipula delle convenzioni con gli istituti privati dovrà basarsi su criteri rigorosi di valutazione della natura dell’insegnamento e del rispetto dei valori della Repubblica. I genitori potranno in tal modo godere di una completa libertà di scelta dell’istituto scolastico e beneficeranno della sovvenzione, indipendentemente dalla scelta operata. La Svezia utilizza già questo sistema, che si è dimostrato efficace. D’altro canto, lo sviluppo del tutoring e dell’insegnamento “on-line” deve aiutare a
Il modello Sarkozy e la libertà di scelta dei genitori. Previsti gli stage presso le aziende DECISIONE 5 - Valutazione degli insegnanti in base alla loro capacità di far progredire tutti gli alunni Ogni scuola dovrà essere oggetto di valutazione da parte di un’autorità amministrativa, indipendente dal Ministero, che tenga conto del parere dei fruitori, dei loro risultati e dei progressi registrati a medio termine. I risultati di tale valutazione dovranno essere resi pubblici. La valutazione del corpo docente non può dipendere unicamente dai voti riportati dagli studenti migliori, né dall’analisi degli ispettori. Essa deve basarsi anche su di una valutazione della loro attività pedagogica effettuata dagli stessi allievi, nonché sulla loro capacità di far progredire tutti e sulla considerazione dei risultati scolastici successivi.
colmare il divario gli alunni usciti dall’ultimo anno delle scuole elementari senza ancora padroneggiare le conoscenze di base. OBIETTIVO: Favorire, nel ciclo di studi secondario, la fioritura di tutte le intelligenze DECISIONE 7 - Rifondare l’informazione sull’orientamento sulle carriere e tenere in maggiore considerazione le attitudini non accademiche. Oggi, la scelta degli studi viene operata in larga misura “per esclusione”: spesso i ragazzi si iscrivono quasi alla cieca, senza conoscere l’offerta formativa né gli sbocchi, e senza particolare vocazione. Pertanto, è necessario riformare l’informazione sin dalla penultima classe del collège, perchè gli studenti conosca-
no la varietà dei corsi di studio e dei successivi sbocchi. Inoltre, l’ammissione alla scuola superiore resta basato su criteri puramente accademici senza tenere conto di motivazione, attitudini, creatività, dinamismo, e di doti e condizioni particolari di ciascuno. DECISIONE 8 _ Sviluppare gli stage presso le aziende. Alunni ed insegnanti devono imparare a conoscere meglio il mondo dell’impresa e della ricerca. Ogni studente di collège effettuerà, a partire dalla penultima classe, una settimana di stage a trimestre (anziché da 2 a 5 giorni come avviene attualmente) presso aziende o associazioni in collaborazione con le regioni, i pôles de compétitivité e le camere di commercio. Una delle missioni dei senior che rimangono presso l’associazione o l’impresa sarà l’accoglienza ed il tutoring di questi giovani. Un meccanismo siffatto potrà essere istituito progressivamente in cinque anni, al fine di consentire alle piccole e medie imprese di organizzarsi. DECISIONE 9 _ Bandire concorsi per l’innovazione. I collèges ed i lycées che lo desiderino devono poter entrare in contatto con le università, i centri di ricerca e le imprese per organizzare “concorsi per l’innovazione” cui possano partecipare i loro studenti, volti alla messa a punto di nuovi servizi, prodotti o opere d’arte. Tali concorsi promuovono l’innovazione e, contemporaneamente, il lavoro di gruppo. Alle idee migliori verrà concesso un finanziamento da parte dei partner, per la realizzazione di un prototipo o un esperimento. Dei proventi dell’eventuale commercializzazione dei prodotti usufruiranno gli studenti e gli istituti scolastici. DECISIONE 10 - Istituire, al collège, un servizio civico settimanale. È opportuno iniziare gli studenti al lavoro associativo attraverso l’istituzione, al collège, di “pomeriggi di servizio civico”. Queste mezze giornate prevederanno, ad esempio, attività di assistenza agli anziani soli, ai diversamente abili o ad altre categorie di persone in difficoltà; formazione alla manutenzione dei boschi e alla ristrutturazione degli edifici antichi. Il servizio deve essere diffuso dall’a.s. 2008-2009, per mezza giornata alla settimana, in collaborazione con gli uffici di assistenza sociale comunali e le associazioni che operano nelle zone degli istituti. Ciò presuppone un alleggerimento nei curricula, e una maggiore autonomia ai dirigenti d’istituto nell’organizzazione degli orari.
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Il responsabile scuola del Pd: «Il buono alle famiglie però non è praticabile»
«I privati capaci sono i benvenuti» a colloquio con Andrea Ranieri di Francesco Lo Dico a vera malattia della scuola italiana è la mancanza di equità e di pari opportunità. Così come accade in Francia, l’istruzione non riesce più a proporsi come un valido canale di mobilità sociale». Il senatore Andrea Ranieri, responsabile del settore scuola per il Pd, individua subito forti analogie fra la situazione della scuola francese e quella italiana. Oltralpe, la Commissione Attali ha deliberato alcuni interventi per contrastare la dispersione scolastica, in preoccupante aumento, e la disoccupazione giovanile. Proprio come in Italia, in ambito formativo non mancano le risorse ma i risultati. La situazione della scuola francese è sovrapponibile a quella italiana? In Italia, come in Francia, l’origine sociale di ogni ragazzo predetermina il suo futuro. Dati alla mano, le famiglie in possesso di un basso grado di istruzione e di scarse risorse economiche, soprattutto al Sud, crescono figli destinati ad abbandonare gli studi, spesso senza raggiungere la laurea. In questo senso è molto indicativo il voto finale ottenuto dai nostri giovani alle scuole medie inferiori: le probabilità che un ragazzo abbia un giudizio ottimo agli esami sono dell’85 per cento per quelli provenienti da ambienti agiati, e scendono al 25 per quelli appartenenti a famiglie deprivate. Un discrimine che continua a riproporsi nel proseguo degli studi, e che la dice lunga sulla vera malattia della scuola italiana: la mancanza di equità e di pari opportunità. Le decisioni della Commissione Attali indicano una via d’uscita nella valutazione, nell’autonomia gestionale degli istituti e nel diritto dei genitori di scegliere la scuola per i loro figli. Può funzionare anche in Italia? Credo di sì. In ragione delle forti differenze sociali, l’autonomia scolastica va rafforzata in funzione di un progetto scolastico che miri all’appropriatezza. Ciascun istituto deve poter investire risorse in base alle emergenze sociali e territoriali che
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emergono in ogni singola realtà locale. Ripeto però che tutto ciò deve avvenire con appropriatezza, altrimenti si corre il rischio che l’autonomia si traduca in una sorta di autoreferenzialità. E per quanto riguarda la valutazione? Anche questo, per molti è un terreno minato. Verifiche periodiche su conoscenze e abilità degli studenti, significano soprattutto controllo sulla qualità dell’offerta formativa, e la possibilità di intervenire per migliorarla e renderla più efficiente. Non si può pensare di rinunciare alle indicazioni che vengono da un organo centrale di valutazione come il nostro Invalsi (Istituto nazionale di valutazione, ndr). Semmai è possibile discutere intorno ai metodi che si applicano alla valutazione, accettando però che si possa procedere per prove ed errori. Nessuno può pretendere un’og-
La vera malattia della nostra istruzione è la mancanza di equità e di pari opportunità gettività assoluta dalla valutazione, ed è bene che su questo punto si mettano da parte dannose strumentalizzazioni. Centrodestra e centrosinistra devono essere disponibili a lavorare insieme, su questo punto. Investire su scuola e sapere vuol dire investire su tempi lunghi. Molto più lunghi di quanto possa dura-
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re una legislatura o una polemica distruttiva. E poi c’è il diritto di scelta. Anche la Commissione Attali promuove il buono scuola per le famiglie. Per migliorare il successo scolastico, bisogna costruire uno spazio pubblico composto di tanti soggetti. Uno spazio plurale che non dia il totale monopolio dell’istruzione allo Stato. Soggetti privati meritevoli, in linea con gli standard nazionali, non sono soltanto ben accetti, ma necessari. Le scuole salesiane, ad esempio, lavorano da sempre a un’offerta formativa, che ha permesso a molte famiglie non agiate di mettere i loro figli nelle condizioni di attingere alla qualità. La sussidiarietà aiuta a diminuire le differenze, ma ad ogni modo credo che il buono scuola non sia una soluzione praticabile. Di fatto si traduce in un catalogo di corsi, piuttosto che in una scelta fra percorsi. C’è però molto altro da fare. Cioè? Bisogna distribuire asili nido, in modo capillare, su tutto il territorio nazionale. Sebbene le scuole d’infanzia abbiano una discreta diffusione su tutta la Penisola, il vero cambio di marcia potrebbe essere rappresentato dagli asili nido. La scienza ha ampiamente dimostrato quanto sia importante che i bimbi si accostino positivamente alla formazione nei primi dieci, dodici mesi di vita. Se vivono bene quest’esperienza, a partire dalla più tenera età, è molto probabile che vadano incontro a una carriera scolastica più fluida ed appagante. E poi un’altra questione importantissima: l’innalzamento dell’obbligo di istruzione. Per tutti? Sì, per tutti ma non uguale per tutti. Ciascuno deve essere messo in grado di scegliere il tipo di percorso formativo più congeniale a sedici anni. Naturalmente dovrà trattarsi di una scelta reversibile, ma sempre e comunque dovremo impegnarci ad assicurare a ciascun tipo di percorso formativo, pari dignità e qualità degli insegnamenti. Il canale professionale non deve essere più considerato un rifugio, ma una seria opportunità di studio, finalizzato alla professione. A proposito, la commissione Attali prevede stage in azienda per i ragazzi fra gli undici e i quindici anni. Legare l’istruzione al saper fare, alle competenze, è una necessità condivisa da tutti i Paesi europei. Non bisogna però farlo a scapito delle conoscenze, o riduzionisticamente, in un’ottica di impresa. Fare stage, per un ragazzo, vuol dire anche misurarsi con il suo territorio e con i suoi diritti di cittadino. Si può fare stage anche facendo visita a un museo.
Dopo Blair e Sarkozy anche noi dobbiamo cambiare
“Larghe intese“ per la riforma di Valentina Aprea e Blair aveva innovato il sistema educativo inglese attraverso il White Paper del 2005, Sarkozy non è stato da meno. La scuola francese sta ricevendo nuove ed interessanti indicazioni per un rinnovamento che si annuncia di grande portata, e lo fa mettendo mano a riforme strutturali, come hanno già fatto altri Stati europei, in risposta alle indicazioni della strategia di Lisbona. E, sia pur con le dovute differenze rispetto alle specificità di ogni Paese, le ricette vincenti per costruire una vera “economia della conoscenza”(obiettivo europeo) rimandano ormai a pochi ma semplici concetti: forte autonomia delle istituzioni scolastiche, sistemi di valutazione, preparazione degli insegnanti e, sul versante degli apprendimenti, modernizzazione e semplificazione dei saperi (conoscenza della lingua madre, dell’inglese e delle nuove tecnologie). Ma quali sono le novità francesi? Una serie di “ambizioni”contenute nel cosiddetto Rapporto Attali, redatto in cinque mesi da 42 esperti (tra i quali gli italiani Monti e Bassanini) e chiamato significativamente “Libération de la croissance française”. Le sue 300 proposte hanno il merito di essere state formulate consensualmente da persone molto diverse per esperienza professionale e convinzioni politiche.Vi si dedica un ampio spazio all’istruzione, prorità non a caso collocata al primo capitolo del Rapporto, comprendendo 3 grandi Obiettivi e 10 Decisioni, tutte condivisibili dal nostro punto di vista. D’altra parte, le ricette francesi, contenute soprattutto nella Decisione 2 (che richiama allo studio dell’inglese, dell’informatica e dell’economia) e nelle Decisioni 7 e 8 (che trattano di differenziazione dei percorsi ed alternanza scuola-lavoro) rimandano ad alcune fondamentali innovazioni introdotte dal Governo Berlusconi e sospese dal Governo Prodi. Merita, poi, una particolare attenzione la “Décision 6”, assai significativa per uno Stato che ha storicamente incarnato il modello burocratico e centralista della scuola. La proposta suggerisce di “assegnare ai genitori una somma in denaro per allievo” perché siano scelte le istituzioni
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governative o private ritenute migliori, dando inizio ad una competitività nel sistema. Tale passo dimostrerebbe una maggiore libertà di giudizio nei confronti dei sindacati della scuola francese, peraltro meglio disposti verso il Governo dopo gli aumenti in termini reali degli stipendi, dovuti alla defiscalizzazione di alcune voci. Quest’impostazione è potuta emergere, anche considerando le performance negative del sistema francese in termini di risultati negli apprendimenti, di crescente ineguaglianza e mancato contenimento degli abbandoni (nonostante le ingenti risorse spese per flessibilizzare il collége). Attali ha alzato lo sguardo ad altri paesi ritrovandosi sulla scia di quanto era stato dibattuto da recenti documenti internazionali (in primo luogo di Ocse e Regno Unito) e accettando di sostenere una prospettiva già condivisa da alcuni degli Stati che presentano le migliori performance (Finlandia, Svezia e Irlanda). In Italia, proposte come quelle del Rapporto Attali, per uno Stato più di guida che di mera gestione, e indicazioni per una riallocazione delle risorse finanziarie partendo dalla libera scelta delle famiglie sono state già avanzate in questa Legislatura. È stata proprio Forza Italia a rilanciarle come priorità nel dibattito politico nazionale, con una precisa, e forse, oggi, si potrebbe aggiungere anche lungimirante, proposta di legge: la n. 2292 (A.C). Dunque, da parte nostra, siamo già pronti a favorire quei processi di riforma che sono in sintonia con le “decisioni” del Rapporto Attali e con i mutamenti degli scenari internazionali. Con l’avanzare delle nuove sfide dovremo intervenire prioritariamente sull’autogoverno delle scuole, sul perfezionamento dei sistemi di valutazione e, prima ancora, su un’efficace preparazione degli insegnanti. Solo se riprenderemo con decisione la strada delle riforme avviate nella XIV Legislatura (2001 – 2006) potremo dare al nostro Paese un sistema educativo competitivo e moderno, ma anche di stampo europeo. Sarebbe auspicabile su questo terreno registrare, anche nel nostro Paese, convergenze al di là degli schieramenti nell’interesse del futuro delle giovani generazioni.
la recensione
Autonomia e governance di Domenico Sugamiele Le recenti riforme istituzionali hanno posto le istituzioni pubbliche e gli attori del sistema di istruzione e formazione di fronte a processi di cambiamento che prefigurano modelli di gestione nuovi, soprattutto nella dimensione organizzativa in termini di rete territoriale. Dimensione in cui il mutamento maggiore risulta essere il diverso rapporto tra amministrazione pubblica e cittadini: si sta passando da un programma istituzionale fondato sul governo centralizzato, a una filosofia di “governance” basata su un nuovo rapporto tra controllo centrale e decentramento. Nel nostro Paese, il dibattito sulla riforma del sistema educativo e della sua riorganizzazione risente delle difficoltà di un approccio, anche teorico, al quale non siamo abituati anche perché le problematiche relative all’organizzazione di reti di scuole, tuttora non risolte, fanno parte di un processo in atto, non ancora compiutamente strutturato. In questo contesto, l’autonomia è divenuta un grande “attrattore” retorico delle riforme e delle innovazioni nel mondo scolastico perché rappresenta il punto di rottura del vecchio ordine istituzionale e mette alla prova le prospettive di cambiamento. Il volume, curato da Benadusi e Consoli, traccia un quadro esaustivo delle condizioni e delle conseguenze della riforma della scuola in riferimento alla situazione italiana e internazionale. In particolare, oltre ad affrontare le conseguenze della riforma dell’autonomia sui modelli organizzativi, si prende in considerazione le implicazioni esplicite ed implicite relative al delicato problema delle trasformazioni delle competenze degli insegnanti e dei dirigenti. Il volume fornisce, da un lato, un’analisi relativa a tre nodi centrali del dibattito internazionale sulla scuola: la portata delle politiche scolastiche dell’autonomia; il rapporto tra riforme e competenze degli insegnanti; la leadership scolastica. Dall’altro, viene offerta una riflessione molto interessante sulle politiche scolastiche britanniche e svedesi. Un testo di ricerca, insomma, che fornisce spunti ed elementi per affrontare in forme nuove e non ideologiche i temi della riorganizzazione del sistema educativo. Luciano Benadusi e Francesco Consoli (a cura di), La governance della scuola, Il Mulino, Bologna, 2004
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speciale educazione
Socrate
Un professore ci scrive dopo aver letto il dibattito Bertagna-Israel. Racconta le sue esperienze e denuncia…
Quei somari dei miei studenti di Emilio Spedicato radirei contribuire al dibattito fra Israel e Bertagna sui programmi della matematica, in quanto, laureato in fisica e con un dottorato in matematica ottenuto in Cina (primo per un non cinese), lavoro nel settore della matematica da quasi 40 anni, con una esperienza di 7 anni presso il Cise, centro di ricerche nucleari, di vari anni all’estero (Usa, Uk, Germania etc), autore di circa 300 pubblicazioni (fra cui il generale algoritmo risolutivo del decimo problema di Hilbert lineare) e con una ventina di anni di attività applicativa nel settore energetico. Alcuni mesi fa la rivista Science ha presentato un articolo relativo al durissimo scontro in atto in Usa fra i matematici professionisti, per i quali è fondamentale che gli studenti imparino l’aritmetica e i metodi di calcolo anche manuale e mentale, e i pedagoghi della matematica che insistono di più sugli aspetti concettuali e filosofici. Provenendo da un liceo classico ed avendo anche circa 150 pubblicazioni su temi almeno in parte umanistici, non posso che sostenere il punto di vista dei matematici professionisti, che corrisponde al recupero di quanto si faceva in passato, sino alle recenti disastrose modifiche apportate ai pro-
G
grammi di studio e appoggiate da ministri definire i quali incompetenti è usare un eufemismo. I bambini e i ragazzi devono imparare a memorizzare fatti e regole, finchè
hanno il cervello in grado di farlo; le disquisizioni sugli aspetti più profondi, e in verità solo in parte chiaribili, si lascino a chi farà corsi universitari dove esse siano utili e necessa-
rie. Ci troviamo oggi in una situazione di folle degrado, dove: i miei studenti di dottorato non sanno fare una divisione a mano il senso del quantitativo è scomparso, anche per
gli studenti dei corsi a carattere quantitativo dove insegno; tanto per fare un paio di esempi per i miei studenti Bergamo ha 14.000 abitanti e dista 300 km da New York! un amico che possiede una fabbrica di lampade assume solo operaie straniere perchè non trova una operaia italiana che sappia le tabelline, ed il lavoro richiede di fare velocemente a mente elementari moltiplicazioni che la degenerazione non riguardi solo la matematica ma tutto l’insieme della formazione scolastica è palese dal fatto che al politecnico di Milano alla domanda in che secolo l’uomo sia andato sulla luna le risposte sono variate fra il Quattrocento e l’Ottocento; alle mie domande chi fossero Abramo e Toscanini quasi nessuno sa rispondere! A Hamadan in Iran la locale università ha 9000 studenti di cui 600 di matematica; a Roma 2 gli studenti di matematica erano, un paio di anni fa,….40! Ma ben 70.000 in tutta Roma quelli di scienze delle comunicazioni. L’India laurea quasi mezzo milione di ingegneri all’anno, l’Italia… In Cina e India la maggior parte degli studenti studiano materie scientifiche, in Usa circa il 2 per cento, in Italia… Paghiamo la follia di riforme mal pensate su teorie di filosofi e pedagoghi che escono dal loro campo.
LETTERA DA UN PROFESSORE
IL CONSIGLIO DI CLASSE E I MASSIMI SISTEMI di Giancristiano Desiderio empo di voti, tempo di scrutini, tempo di consigli. E tempo di tromboni che ti vogliono sempre spiegare perché la scuola va a rotoli e cosa bisogna fare per raddrizzarla e tirare su così anche la nostra povera Italia.“Prima di dare la mia valutazione della classe vorrei ricordare a tutti il giudizio dell’Ocse sulla scuola italiana, perché io credo che ci dobbiamo pur confrontare con questa realtà, altrimenti il nostro lavoro non ha alcun senso”. La riunione del consiglio di classe andava avanti secondo consuetudine e l’insegnante-tutor (è il docente che ha “in consegna” la classe e cura i rapporti con le famiglie) aveva segnalato il
T
caso di Gabriella: una ragazza costretta ad andare via di casa per sottrarsi alle violenze paterne. L’utilità del consiglio di classe - se c’è un’utilità - evidenzia in questi casi il suo ruolo: si ascolta, s’interviene, si decide cosa fare nel tentativo di dare una mano a chi ne ha bisogno. Ma l’insegnante quella sera aveva in testa l’Ocse. “Voglio un documento ufficiale, fino a quando non avrò un documento per me non ci sarà alcun caso e non sono disposto a rivedere la valutazione. Noi dobbiamo essere severi, ce lo chiede l’Ocse, dobbiamo recuperare autorevolezza, altrimenti la scuola non ha futuro”. Cose anche condivisi-
bili, ma che in quel momento erano semplicemente fuori luogo e fuori tempo. Accade spesso, quasi sempre: la vita scolastica è fatta di persone, vite, ragazzi, ragazze, allegria, tristezza, occhi, sguardi, silenzi, bisogni che tendono una mano e trovano teorie sulla pedagogia. Gabriella ha un problema serio: il padre è un padrone, non vuole che frequenti un ragazzo, la tratta male fino a pestarla di botte. I docenti si sono resi conto del disagio e hanno trovato un posto alla ragazza in una casa di accoglienza gestita da suore. E’un caso concreto. C’è poco da teorizzare e molto da fare. Gabriella non è un’alunna
modello: ha difficoltà nello studio, in classe è distratta. Soprattutto ha la paura negli occhi. Davanti a casi del genere i criteri di valutazione sono muti. La valutazione, se ce n’è una, è quella che il docente deve saper fare giorno per giorno sviluppando una qualità non comune: entra in classe, spiega una qualsiasi cosa e pur facendo lezione prova a capire cosa pensa e come realmente sta Gabriella. L’educatore, come ben sapeva Nietzsche, è un istrione: deve saper indossare la maschera che serve in quel momento per il suo fine educativo. I massimi sistemi non sono mai serviti a nulla, soprattutto a scuola.
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca
C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
La demagogia elettorale dei Veltroni e dei Giordano colpisce le categorie più deboli
Mille euro ai precari che dividono di più i padri dai figli di Francesco Pasquali l recente sondaggio della SWG sulle tendenze elettorali dei giovani deve aver messo in allarme Walter Veltroni. Uno smacco per chi ha l’ambizione di essere portatore di un messaggio nuovo. Il dato che emerge indica un vantaggio netto del Pdl, che raccoglierebbe in questo bacino elettorale il 45,5 per cento (il 30 Forza Italia). Al contrario, soltanto il 19 per cento dei giovani sarebbe disposto a votare per il Pd. La caccia al consenso giovanile è una delle ragioni principali che da un lato ha spinto l’ex sindaco di Roma a lanciare la demagogica proposta dei “mille euro per i precari”, e dall’altro giustifica il rilancio di Franco Giordano che, come vorrebbe controproposta, estendere i mille euro a tutti, precari e disoccupati.
previdenza complementare. I giovani devono poter lavorare prima, e meglio, attraverso il rilancio dell’apprendistato, di forme di praticantato durante gli ultimi due anni di università, dell’implementazione dei canali di collegamento tra istruzione e mondo del lavoro previsti dalla Biagi (Borsa nazionale del lavoro e uffici di collocamento negli atenei). È auspicabile introdurre un contratto unico a tempo indeterminato per i neoassunti con tutele progressive (Libro Bianco) e l’avvio di sostegni economici robusti che stimolino il reinserimento e di percorsi formativi obbligatori nei periodi di non occupazione. È necessario arrestare il progressivo prelievo fiscale e contributivo introdotto dal governo Prodi. Le politiche del welfare devono mirare a tutelare anche coloro che sono alla ricerca di una prima occupazione. Il nuovo articolo 18 dei giovani consiste nella formazione, intesa come diritto individuale che accompagna il lavoratore durante tutta la sua carriera. Per esempio con un conto corrente per la formazione, un voucher per la formazione con finanziamento individuale del lavoratore.
I
A sinistra la sfida, più che sul lavoro, sembra concentrarsi sull’assistenzialismo tra il salario minimo del Pd e il salario sociale della Cosa Rossa. Ma proprio il lavoro – e in modo particolare l’occupazione giovanile – sarà la buccia di banana per la sinistra. La vicinanza temporale con la precedente campagna elettorale non gioca a suo favore: gli slogan elettorali dell’Unione su precarietà e salari sono ancora impressi nella memoria dei giovani, gli stessi che hanno trovato meno soldi in busta paga da gennaio 2007 a causa degli aumenti contributivi. O che hanno compreso le truffe in tema previdenziale – mal nascoste tra le pagine del Protocollo – dalla clausola del «60 per cento rispetto all’ultima retribuzione» al riscatto della laurea, dalla totalizzazione dei contributi all’assenza di sostegni al reddito. Entro il 2011 le buste paga dei parasubordinati saranno alleggerite del 9 per cento.Insomma, una serie di promesse mancate accompagnate da brutte sorprese spiegano il poco appeal del Pd tra le nuove generazioni. Delusione e senso di tradimento sono i sentimenti con i quali dovranno confrontarsi le due sinistre quando si rivolgono ai giovani. È lecito credere che la boutade lanciata
dalle poltrone di ”Porta a Porta” sarà il cavallo di battaglia del Pd, ma il confronto è già inquinato dalla spregiudicatezza avviata sul tema dei salari. Eppure, più che promesse, ai giovani vanno forniti strumenti per confidare nella meritocrazia, per costruirsi una vita migliore, per riappropriarsi del gusto per la sfida, della certezza che l’avvenire può cessare di essere una minaccia e divenire una promessa. Sui giovani sono caricati tanti fardelli che acuiscono il conflitto generazionale, a causa di scelte politiche miopi e ideologiche come il Protocollo sul welfare. Proprio sul lavoro si consuma la madre di tutte le discriminazioni tra padri e figli. Al posto del contratto a tempo indeterminato, della casa di proprietà,
Meglio rilanciare l’apprendistato e tutte le forme di previdenza complementare per facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro della cassa integrazione e della pensione retributiva, per gli under 35 ci sono contratti flessibili, case in affitto, ridicole integrazioni al reddito e, forse, pensione contributiva. Le ricette della sinistra, al contrario, mirano a contrastare la flessibilità attraverso la leva contributiva e produrrebbero – come ha scritto su queste pagine il professor Giuliano Cazzola – un aumento del lavoro ne-
ro. La proposta di Giordano, inoltre, scoraggerebbe addirittura la ricerca di un lavoro, trasformando il disoccupato in una nuova categoria professionale. Quanti sarebbero disposti a lavorare se ricevessero dallo Stato un assegno mensile di mille euro fino a conseguimento di un contratto a tempo indeterminato? Rifondazione promette una pensione minima fin dalla giovane età, ma finisce per leggere il cambiamento con lenti appannate dall’ideologia. Con le nuove generazioni occorre stipulare un armistizio generazionale, partendo dalla riduzione del dualismo del mercato del lavoro, introducendo nuove tutele legate al lavoratore e non al posto di lavoro, dall’innalzamento dell’età pensionabile e dal decollo della
Un’inversione di rotta deve riguardare anche il futuro pensionistico delle nuove generazioni. Sarebbe opportuno creare un conto corrente previdenziale, destinando tre punti di aliquota della contribuzione per la costituzione di un fondo a capitalizzazione pubblico o privato (opting out) e lasciare al lavoratore la possibilità di scegliere se liberarne volontariamente una parte dell’aliquota obbligatoria. Ma tutto ciò non può prescindere da una rivoluzione del dialogo sociale. Un primo passo sarebbe rispettare il Patto per la Gioventù previsto dalla Commissione europea, così che le realtà giovanili maggiormente rappresentative diventino membri di diritto nei tavoli negoziali su questioni centrali come il lavoro flessibile. Segretario Nazionale Forza Italia Giovani
economia
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d i a r i o
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g i o r n o
Benzina, il governo interverrà sul prezzo Il governo è pronto a intervenire sul prezzo dei carburanti: per ridurli di 1 o 2 centesimi al litro saranno congelate le accise come prevede l’ultima Finanziaria. Ha spiegato il consigliere del Ministro dello Sviluppo Economico, Umberto Carpi: «Stiamo lavorando con le Finanze per varare il decreto attuativo entro fine mese. Ma non potrà dare nell’immediato risultati stratosferici.Anche se tagliare di 1 o 2 centesimi al litro non è poco e ci permette di riallinearci al resto d’Europa». La Cgia di Mestre ha calcolato che l’Erario ha incassato tra il 2006 e il 2007 circa 2 miliardi in più.
Formigoni: Prodi dimentica Malpensa In attesa di capire se si riapriranno le chance di Airone, Roberto Formigoni attacca a testa bassa il governo che «sta facendo gli interessi di Air France». Critiche agli interventi per Malpensa presenti nel Milleproroghe: «La parola moratoria non viene citata. Il decreto oltretutto non tutela i lavoratori, perché prevede ammortizzatori solamente per quelli di Alitalia: dei facchini, dei commercianti e degli altri lavoratori dell’indotto se ne frega».
Mutui, i tasti si assestano a livelli record
Nel 2007 si è registrato un calo nei consumi di sigarette (-1,1 per cento)
Si fuma sempre meno, ma si pagano più tasse di Giuseppe Latour
ROMA. Meno sigarette comprate dagli italiani, ma non per questo minori incassi per l’Erario. Le vendite di tabacco in Italia nel 2007, infatti, hanno visto una diminuzione diffusa: -1,1 per cento. Ma l’aumento dei prezzi ha comunque fatto generare forti entrate per lo Stato. Che ha incassato circa 13 miliardi di euro attraverso iva e accise, con una crescita di 420 milioni sul 2006. E nel 2008 già è partita la caccia a nuove vie per confermare la crescita del gettito, che secondo le stime della legge finanziaria dovrà far incassare almeno 320 milioni in più rispetto al 2007.
A perdere terreno,
Questa diminuzione è dovuta soprattutto dall’ultimo trimestre dell’anno, che ha visto un crollo superiore al 2,5 per cento. Le cause dell’andamento delle vendite sono, soprattutto, due: la generale diminuzione dei fumatori sull’onda lunga delle legge dell’ex ministro Girolamo Sirchia e il rincaro ormai continuo dei prezzi delle sigarette. Negli ultimi cinque anni il costo di un pacchetto da venti è salito vertiginosamente, registrando un aumento di 1,2 euro, con una crescita di circa il 20 per cento. Il governo Prodi, comunque, con la
euro. Ottimismo probabilmente generato dal fatto che, quando queste ipotesi sono state formulate, il mercato sembrava destinato a tenere, salvo poi evidenziare un trend molto negativo in autunno, nell’ultima parte dell’anno. Si tratta, secondo gli esperti, di numeri sovrastimati per almeno 150 milioni di euro.
Per incassare quanto preventivato, comunque, sarà obbligatorio scavare ancora un po’ nelle già martoriate tasche dei fumatori italiani. Ritoccando le accise e, in conseguenza, i prezzi alla vendita. Tendenza già avviata nella prima parte dell’anno con alcuni aumenti ai quali, nel corso del 2008, laddove i risultati dovessero essere non soddisfacenti, potrebbero seguire ulteriori ritocchi (al rialzo) dei prezzi. Facendo però attenzione a non incorrere nei pericoli del modello-Inghilterra. Nel Regno Unito, infatti, il livello delle accise e quindi dei prezzi al consumatore è il più alto d’Europa e, in conseguenza, a partire dai primi anni Novanta, si è sviluppato il mercato nero più florido di tutto il Vecchio Continente, con perdite per l’Erario di circa 4 miliardi di euro all’anno. Un livello di evasione che, in tempi di tesoretti evanescenti, a Palazzo Chigi nessuno può permettersi.
Aumentando i prezzi sulla vendita di tabacco l’Erario ha incassato un surplus di 320 milioni. Tra Iva e accise 13 miliardi. Cifra destinata a salire
considerando tutti i prodotti da tabacco, sono soprattutto le sigarette. Nell’anno passato sono stati venduti circa un milione di chili di sigarette in meno, corrispondenti a 50 milioni di pacchetti da venti. In media, quindi, la popolazione di fumatori italiani, composta da circa 12 milioni di persone, ha fumato quattro pacchetti all’anno in meno. Di segno opposto, invece, il trend degli altri prodotti contenenti tabacco. Le vendite, infatti, sono cresciute di poco, e cioè di circa 210mila chili. In totale, quindi, in Italia sono stati venduti circa 95 milioni di chili di tabacco, con una diminuzione dell’1 per cento del mercato complessivo su base annua.
sua ultima Finanziaria ha continuato a scommettere sulle potenzialità del settore. Sono state, infatti, iscritte nelle previsioni di bilancio per il 2008 maggiori entrate per 320,1 milioni di euro, che dovranno finanziare interventi di riduzione della pressione fiscale per 140 milioni di euro e risarcimenti per i soggetti danneggiati da trasfusioni di sangue infetto con risorse pari ad altri 180 milioni. Stime ancora più ottimistiche, invece, sono contenute nella legge di bilancio che, alla categoria dei Monopoli, prevede entrate addirittura maggiori per circa 470 milioni di
Contenuta flessione per i tassi dei mutui a gennaio. Come ha reso noto l’Abi, si sono attestati al 5,71 per cento, un centesimo in meno rispetto al top segnato a dicembre 2007. Un livello comunque alto, simile al picco registrato dal gennaio 2002. Guardando alle nuove erogazioni, si scopre che il 75 per cento dei contratti è a tasso a tasso fisso o misto. Sempre a inizio 2008 si è segnalato un «lieve aumento del costo medio dei finanziamenti».
Per Bnl boom degli utili: +39,9 per cento Prima risultati concreti della cura francese sulla Banca nazionale del lavoro: ieri l’istituto controllato da Bnp Paribas ha annunciato di aver chiuso il 2007 con un risultato operativo di 572 milioni di euro (con il 100 per cento del private banking Italia), in crescita del 39,9 rispetto al 2006. Il numero uno di Bnp, Baudin Prot, non ha escluso future acquisizioni in Italia, «anche se da voi si sono visti prezzi non compatibili con la nostra disciplina di crescita». Nel medio termine la banca presieduta da Luigi Abete conta di aprire 50 nuovi sportelli sul territorio nazionale.
Rigassificatori, Intesa in campo IntesaSanPaolo è pronta a fare la sua parte per la costruzione di nuovi rigassificatori. «In Italia c’è carenza di questi impianti di rigassificazione e noi», ha spiegato Mario Ciaccia, Ad di Banca Intesa Infrastrutture e Sviluppo, «abbiamo una disponibilità di 800-900 milioni di euro, che potrebbe salire a 1,1 miliardi, per due-tre impianti». Intanto ieri Adriatic LNG (la joint venture fra Edison, ExxonMobil e Qatar Terminal) e gli enti locali del Polesine hanno firmato un accordo per velocizzare la costruzione del rigassificatore che sorgerà al largo di Porto Viro (Rovigo).
Socgen, a Passera non interessa IntesaSanPaolo si tira fuori dalla corsa a Societé Generale: «Non c’è mai stato nulla», dichiarato il consigliere delegato Corrado Passera, «non abbiamo interesse ad aprire nulla né sull’insieme né sulle parti». Prende tempo anche Bnp, la maggiore candidata (anche dall’Eliseo) per comprare la banca francese. Il numero uno Baudoin Prot ha spiegato che allo stadio la situazione è «molto complessa e con conseguenze difficili da valutare».
Salari, Bce in allarme per gli aumenti La Banca centrale europea è da sempre sull’allarme per le ripercussioni che gli aumenti salariali potrebbero avere sull’inflazione. Ma la situazione, per l’Eurotower, ha superato i livelli di guardia dopo aver saputo del rinnovo del contratto dei metalmeccanici tedeschi. Ig Metall ha ottenuto il maggiore aumento da 15 anni a questa parte: +5,2 per cento. La Germania deve fare i conti con un’inflazione al 3,2 per cento, che rischia di salire dopo che a gennaio i prezzi della produzione sono balzati di un +3.
Usa e Tlc frenano Piazza Affari Borsa Nuovi timori di recessione in America e il crollo dei titoli delle telecomunicazioni in Europa spingono le vendite a Piazza Affati. Il Mibtel chiude a -0,74 per cento e lo S&pMib a -0,89. Telecom Italia (-2,69 a 1,736 euro) torna ai livelli della fusione con Olivetti.
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cultura
I sei racconti si avvalgono dell’esperienza diretta dell’autore, arruolatosi nel 1914
La commedia della Grande Guerra secondo Drieu La Rochelle di Giovanni F. Accolla e vicende della Prima Guerra mondiale e il racconto delle esperienze dei suoi partecipanti, hanno probabilmente donato al Secolo scorso le più intense prove letterarie dell’intero arco dei cent’anni. Andando a memoria, nella letteratura di casa nostra penso a Il porto sepolto di Ungaretti, a Il mio Carso di Scipio Slataper, a Kobilek di Ardengo Soffici, a Con me e con gli alpini di Piero Jahier. In Francia certo troneggia il Viaggio al termine di una notte di Louis Ferdinand Céline, ma anche La mano mozza di Blaise Cendrars è un’opera di grande valore e non sono da meno, in merito alla qualità letteraria i sei racconti (di fatto uniti, tesi e coerenti come un romanzo) che compongono La commedia di Charleroi di Pierre Drieu la Rochelle, dati alle stampe dall’editore Fazi (255 pp., 15 euro).Tarda a imporsi, almeno in Italia, il genio di Drieu la Rochelle - affossato da un giudizio morale che sa di sentenza, ma che non ha nulla a che fare con il valore, a causa della sua adesione al governo di Vichy, pagata con il suicidio - eppure Fuoco fatuo (portato al cinema da Louis Malle), Strano viaggio, Racconto segreto, L’uomo pieno di donne, Memorie di Dirke Raspe e perfino ai monumentali Diari, tutte opere tradotte in italiano, sono dei capolavori.
L
Perché La Rochelle è senza ombra di dubbio un autore singolare, capace di articolare un mondo interiore complesso e caratterizzato da una sensualità poliforme e scandalosa, attraverso una scrittura densa, a volte epigrammatica, altre volte liquida, sensuale ed evocativa. Lo spiega un Arnaldo Cola-
santi davvero ispirato nella prefazione ai racconti quando lo differenzia dall’autore del Viaggio al termine della notte: «In Cèline – scrive Colasanti – tutto sommato il mondo esiste ancora, anche se chiuso nel bivio inutile di menzogna e di morte. Per Drieu non c’è bivio, non c’è passato, né presente, solo l’allungarsi delle parole e
de La commedia di Charleroi si avvalgono dell’esperienza diretta del loro autore arruolatosi nel 1914 senza, a quanto pare, le istanze e le spinte nazionalistiche dei suoi coetanei, ma per misurare sé stesso con il suo tempo. E i racconti divengono una requisitoria contro la modernità, un panegirico triste (e per certi versi rassegnato) sul valore, o meglio sulle potenzialità sovversive del singolo che
La Commedia di Charleroi di Drieu La Rochelle è stato pubblicato dall’editore Fazi (255 pagine, 15 euro)
Lo scrittore è noto per il suo atteggiamento esistenziale, per le scelte politiche scorrette, piuttosto che per la sua produzione letteraria delle cose verso il futuro (che sappiamo significare una cosa ben precisa, il suicidio)». Drieu la Rochelle è infatti uno scrittore più noto per il suo atteggiamento esistenziale, per le sue scelte politiche scorrette, per incarnare - in una parola - come pochi altri intellettuali della sua epoca, l’homme engagè, piuttosto che per la complessità della sua opera letteraria. Accostabili per valore testimoniale a Good-bye to all that di Robert Graves e In Stahlgewittern di Ernst Jünger, i racconti
una società dedita al mito del progresso e sorda allo sviluppo degli individui nega.
Ed ecco, tra le tante, c’è una pagina esemplare che vale la pena riportare per intendere il cuore della disfatta personale e complessiva dell’esperienza bellica per La Rochelle: «Non ci siamo incontrati. Non ci si incontra mai. O raramente. In ogni caso, non in questa guerra. E fu là, in quel momento, che
avvenne il fallimento della Guerra in questa guerra. Gli uomini non si sono alzati nel mezzo della guerra – almeno non tutti insieme. Non l’hanno superata, scavalcata, o meglio non l’hanno spinta fino in fondo. Non hanno gettato le loro armi – quella ferraglia scientifica e perversa. Non si sono incontrati, scontrati, slanciati, stretti l’uno con l’altro. Gli uomini non sono stati umani. Hanno sopportato di essere
inumani. Non hanno voluto superare questa guerra per raggiungere la guerra eterna, la guerra umana. L’hanno mancata come una rivoluzione. Da questa guerra sono stati vinti. E questa guerra è cattiva perché ha vinto gli uomini. Questa guerra moderna, questa guerra di ferro e non di muscoli. Questa guerra di scienza e non di arte. Questa guerra di industria e di commercio. Questa guerra di uffici. Questa guerra di giornali. Questa guerra di generali e non di capi. Questa guerra. Questa guerra di ministri, di capi sindacali, di imperatori, di socialisti, di democratici, di monarchici, di industriali e di banchieri, di vegliardi, di donne e di ragazzetti. Questa guerra di ferro e gas. Questa guerra fatta da tutti meno che da quelli che la facevano. Questa guerra di civiltà avanzata. (…) Se gli uomini non hanno saputo vincere la guerra è perché c’è qualcosa di marcio oggi nell’aria. Bisogna che l’uomo impari a dominare la macchina che l’ha surclassato in questa guerra – e che ora lo sta surclassando nella pace».
Oltre la bellezza della prosa, tali riflessioni di La Rochelle potrebbero costituire un manifesto contro la guerra, contro ogni guerra, davvero alternativo rispetto al pacifismo appeso alle finestre oggi tanto in voga: la guerra è nefasta per gli uomini perché ruba loro l’umanità, li sottrae alla singola coscienza, alla loro nullità così come alla loro grandezza. Non è abbastanza?
spettacolo
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Tre immagini molto suggestive della messa in scena al Teatro delle Muse di Ancona delle Novità del giorno con la Filarmonica Marchigiana, diretta da Bruno Bartoletti
In scena al Teatro delle Muse di Ancona ”Le novità del giorno”, nella versione originale e scandalosa
Quando Hindemith fece infuriare Hitler di Jacopo Pellegrini arra la leggenda che all’aprirsi del sipario sull’atto II di Neues von Tage (Novità del giorno), nel vedere una graziosa donnina prendere il bagno in una tinozza, nuda o a nudità composta, Adolf Hitler e il di lui degno sodale Joseph Goebbels abbandonassero offesi e sdegnati i loro seggi alla Krolloper di Berlino. Giurandola per sempre al giovane, ma di già celebrato autore della musica, Paul Hindemith (1895-1963). Correva l’anno 1929; un lustro più tardi, per l’esattezza il 6 dicembre 1934, Herr Goebbels avrebbe rammentato «donne nude sulla scena circondate dalle dissonanze stonate di un incompetente musicale»: vale a dire, una promozione d’ufficio nelle fila della Entartete Kunst, l’arte degenerata.
N
Oggetto di queste righe è il debutto italiano delle Novità nella prima versione, quella dello scandalo (una seconda, mitigata, seguì nel ’54), ad opera del benemerito e coraggioso Teatro delle Muse in Ancona (lo spettacolo migrerà il prossimo agosto al Festival di Macerata). Senonché, prima di raccontarvi senso e portata dell’impresa, non so resistere alla tentazione d’istituire un parallelo tra l’anatema scagliato contro Hindemith dalle camicie brune e le recenti polemiche intorno alla Fiera del libro per l’invito rivolto a Israele. Tenuto conto del ben diverso clima storico, sentir proclamare la condanna di un’iniziativa culturale in base all’ideologia – col credo politico o, meglio, il passaporto, al posto di argomenti concernenti ‘razza’ e religione – evoca fantasmi sinistri. Ora, non ch’io concepisca la cultura come un oggetto avulso dal contesto circostante; né sono propenso a trattare le critiche verso Israele alla stregua di antisemitismo militante, ci mancherebbe. Però, mi domando, che fine ha fatto l’antico adagio ”io non la penso come te, ma mi farei ammazzare
per consentirti di esprimere liberamente la tua opinione”?
Leggere le tesi dei contrari all’invito, tutte basate su principi politici ben poco inclini al confronto con l’altro da sé (che non significa, ovvio, nemico, ma solo qualcuno che la pensa in maniera diversa), è sconfortante.Tanto più, in un caso come il presente, di scrittori spesso in aperta polemica cogli atti del proprio Paese. Sono banalità, me ne rendo conto; eppure, chissà che non giovi tornare a ripetersele. Ma de hoc satis. Gebrauchsmusik, Lehrstück, Zeitoper, Brettl: parole tutte impronunciabili, e tutte legate all’«opera allegra in tre parti» fornita a Hindemith da tal Marcellus Schiffer, nota stella del cabaret berlinese (Brettl, appunto), gli umori aspri e
inappropriati riflessi metallici) si trova immersa nella vasca di un hotel (è il punto che avrebbe scatenato le ire del Führer in pectore), Hermann entra nel bagno e le fa una dichiarazione d’amore in piena regola. Colti in flagrante da un’amica e dal personale dell’albergo, lo scandalo esplode su tutti i giornali. Finalmente Eduard, rilasciato colla condizionale, può divorziare senza problemi, quando gli si presentano sei impresari pronti a finanziare uno spettacolo nel quale gli sposi interpretino le proprie vicende matrimoniali. Nella Parte III, a forza d’inscenare i loro litigi, i due si avvedono di essersi «così bene abituati l’una all’altro» da voler restare insieme; ma gli spettatori non lo ammettono: «Mai. La vostra impronta è fissa. Non siete più due umani. Siete l’ultima noti-
L’anatema lanciato nel 1929 da Goebbels contro il musicista e la sua opera ricorda le polemiche recenti sulla Fiera del libro di Torino per l’invito rivolto a Israele graffianti del quale inclinavano a una satira feroce della società. Purtroppo per il musicista e per noi, il libretto veicola i suoi intenti polemici per mezzo d’una storiella vana e d’un intreccio non meno scioccherello: due sposi decisi a divorziare prendono a nolo un vagheggino (recita l’elenco dei personaggi: il bel Signor Hermann, tenore: Jon Ketilsson, che bello non è e la mia sera per di più affetto da un abbassamento totale di voce), affinché amoreggi per finta colla moglie in un luogo pubblico e offra al marito (baritono: Wolfgang Holzmair) il destro per intentarle causa. Quest’ultimo però, s’ingelosisce per davvero, scaraventa una Venere antica (siamo in un museo) addosso al presunto amante della consorte e viene tratto in arresto (fine Parte I). Mentre Laura (soprano: Gun-Brit Barkmin, voce forte e dai non
zia» (cito dalla spigliatissima traduzione italiana di Franco Serpa, compresa nel programma di sala).
Reificazione dei sentimenti; invadenza dell’opinione pubblica, manipolata a sua volta dai mezzi di comunicazione; peso opprimente della burocrazia; teatralizzazione e conseguente sfruttamento mediatico dei casi personali; crisi della morale privata e dei principi fondanti la società. La mira di Schiffer è alta: si muove nell’ambito della Zeitoper, l’opera d’attualità, che a tema contemporaneo associa il riferimento a tecnologie moderne (in questo caso, telefono e macchina da scrivere) e un taglio scenico per quadri brevi, in un rapido susseguirsi d’ambientazioni diverse, che risente della rivista e del cinema. Non solo: sulla scia del neonato ‘teatro epico’, non man-
ca la ‘morale della storia’ (affidata, non a caso, al coro), l’ammaestramento alle folle, come in quel Lehrstück (opera didattica) creato nello stesso ’29 a Baden Baden dalla coppia Brecht-Hindemith. Tenuto conto di tutto ciò, impossibile nascondersi la pochezza del risultato.
Il compositore reagisce a queste sollecitazioni ponendo la massima distanza possibile tra materia narrativa e commento sonoro: il concetto di musica d’uso (Gebrauchsmusik), antiespressiva e antisoggettiva, antiromantica e antiespressionista, unito al brechtiano ”effetto di straniamento”. Bruno Bartoletti, agile vegliardo, al podio per 1 ora e 40’ senza intervallo, esalta con passo deciso l’inesausta motoricità del tessuto orchestrale, mentre la Filarmonica Marchigiana, a ranghi ridotti, si fa in quattro per riprodurre lo svariare continuo di metri e ritmi, i rapporti intervallari aspri e pungenti. Manca, a tratti, la necessaria trasparenza, non l’ardimento. Nel canto primeggiano gli echi delle Cantate bachiane, coi vocalizzi introdotti per stravolgere e negare il valore semantico di un testo che, a giudizio di un critico ostile quanto acuto, «non oltrepassa mai il pettegolezzo quotidiano». L’artigianato magistrale di Hindemith non si discute (l’episodio sostenuto dai due pianoforti soli, l’intricato contrappunto del concertato posto in coda al Quadro V – scoglio insormontabile per il volonteroso Coro Bellini), il suo umorismo teutonico, fitto di citazioni e parodie (il falso duetto d’amore straussian-wagneriano), di ammicchi jazz o canzonettistici, forse sì. Non contribuisce a ”sgrassarlo” l’allestimento firmato Pier Luigi Pizzi, impeccabilmente algido nel quadro scenico (meno eleganti i costumi, stavolta), sospeso tra rivista e pochade nei movimenti, ivi inclusi i superflui, ed errati, ammicchi alle svastiche prossime future.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO
L’Europa dovrebbe essere unita sul Kosovo? È un pericoloso precedente che potrebbe portare a vere e proprie guerre civili Mi sento in dovere di schierarmi a favore di quegli Stati che non riconosceranno l’indipendenza del Kosovo. Ritengo infatti che la Serbia abbia il sacrosanto diritto e dovere di opporsi alla nascita del nuovo stato balcanico, illegittimo in quanto provincia autonoma della Serbia stessa. Mi chiedo... se mai fosse successa una cosa analoga ad uno di quegli Stati che tanto si sono affrettati a riconoscere l’autonomia del Kosovo, avrebbero accettato così di buon grado? La tanto solerte Francia riconoscerebbe una Corsica autonoma ed indipendente? E per quale motivo si considera Bossi un burlone quando propone lo Stato Padano? Se avesse i numeri... perché no? Il fatto è che la crescita demografica dell’ex minoranza albanese del Kosovo a scapito dei Serbi ha creato un pericoloso precedente che, se si ripeterà in altri scenari, potrà portare a delle gravi lotte interne o a vere e proprie guerre civili (così come è gia avvenuto nello stesso Kosovo). Non credo, infatti, che se un giorno qualcuno in Italia scoprisse che, per una scriteriata politica dell’accoglienza o dell’integrazione coatta, la Puglia (tanto per fare un esempio) fosse diventata albanese o musulmana al 51 per cento farebbe a gara per riconoscerle l’indipendenza.Tanto meno deve fare la Serbia con il Kosovo.
Giulio Sabatoni
Speriamo che i Paesi più forti della Ue facciano da traino per gli altri Sarebbe sicuramente auspicabile che l’Unione europea riuscisse ad assumere, nella delicata questione del Kosovo, una posizione unitaria. Ma non sembra proprio che sia questo l’orientamento visto che, almeno ad oggi, una dozzina di Paesi dell’Unione
europea non ha voluto riconoscere l’indipendenza unilateralmente dichiarata. Certo se già quando l’Unione europea era composta da 12 Paesi non mancavano i litigi, figurarsi ora che siamo vicini a 30! Per fortuna i Paesi più forti dellUnione europea - Gran Bretagna,Germania,Francia e Italia - sono d’accordo e probabilmente riusciranno a fungere da traino nei confronti delle Nazioni recalcitranti.C’è bisogno di un Complesso compatto e forte per fronteggiare l’irritazionr della Russia che sta minacciando il ritorno alla guerra fredda. Dio ce ne scampi.
Sergio Lomellina - Trapani
È legittimo dichiarare unilaterarmente la propria indipendenza? Certo, c’e’ da augurasi che alla fine l’Europa riesca ad arrivare ad una posizione unitaria nella questione dell’indipendenza del Kosovo. Il nodo però rimane un altro. È corretto dal punto di vista del diritto internazionale che una Provincia possa dichiarare unilateralmente la propria indipendenza o nel caso siamo di fronte ad un atto di secessione? La Russia sostiene che se l’Unione europea vuole una missione in Kosovo, deve rispettare la risoluzione ONU 1244 per cui è necessario l’ok delle Nazioni Unite. Non ho la competenza per sostenere quale posizione sia quella giusta, però ricordo che - nei miei ormai lontani studi di Giurisprudenza - il diritto internazionale permetteva che lo stato di fatto desse ai vari Paesi il diritto di riconoscere o no la nascita di una nuova Nazione comunque nata. D’altra parte è illusorio pensare che una Unione europea così composita possa raggiungere l’unanimità nel riconoscere o no il Kosovo indipendente.
Camillo Leonardi - Roma
LA DOMANDA DI DOMANI
Lo Stato dovrebbe controllare le accise sulla benzina?
L’Iran e la moratoria contro la pena di morte
Caro benzina. A pagare sempre gli stessi
Caro direttore, leggo da un quotidiano on line che, solo nella giornata di ieri, sono state ben dieci le esecuzioni capitali in Iran. In poco più di un mese le condanne a morte eseguite per impiccagione nella pubblica piazza di Teheran sono state già cinquanta. L’agenzia filo-governativa Fars, piuttosto attendibile, rivela che l’anno scorso sono state trecento, dunque si prevede che nel 2008 il numero delle esecuzioni sarà circa il doppio. Vale la pena ricordare che i reati per i quali è prevista la pena di morte in Iran vanno dalla rapina semplice all’omicidio, dalla rapina a mano armata al traffico di droga, dalla violenza carnale all’apostasia, dall’adulterio alla «sodomia». Ora, a parte il fatto che per ogni condanna capitale negli Stati Uniti si scatena un finimondo di proteste, si spengono i Colossei, etc.. mentre per le centinaia che si comminano in Iran e le migliaia che vengono eseguite in Cina non si trova mai un cane che se nei interessi. Ma quello che più mi smuove a scrivere questo sfogo è il ricordo della ridicola celebrazione della vittoria italiana all’Onu sulla famosa moratoria contro la pena di morte. Conservo con fastidio nella mia memoria l’immagine dei pianti di gioia della Bonino, la gloriosa supponenza delle dichiarazioni di D’Alema, l’irritante bofonchiare di Romano Prodi a Porta a Porta, e la «pacata» stupidità di Veltroni. Insomma, adesso sappiamo qual’è la portata storica della vittoria italiana alle Nazioni Unite: un aumento spaventoso delle condanne a morte nel mondo. Splendida vittoria.
Caro Direttore, continua a salire il prezzo della benzina e contemporaneamente sale il valore dell’euro sui mercati internazionali. Sinceramente, faccio fatica a capire perchè se l’euro sale non scende il costo del carburante. Crollano le esportazioni? E’ colpa dell’euro pesante. Sale l’inflazione? E’ colpa dell’euro pesante. Ma se la nostra moneta continua ad appesantirsi allora dovrebbe scendere il prezzo delle materie prime, quello dei biglietti aerei internazionali, il prezzo della benzina etc... Ed invece no. Perchè? Non sarà che lo Stato Italiano riesce a pagare il carrozzone pubblico solo grazie alle tasse sul carburante e sui trasporti pubblici?
Prof. Claudio Corbucci Pavia
dai circoli liberal
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
PROVIAMO A RAGIONARE Nell’articolo apparso ieri a pagina 9 del nostro giornale, il presidente Adornato spiega chiaramente il perchÈ della scelta dell’Udc e come essa non sia ”terzista”. Siccome prima degli altri ha teorizzato il bipartitismo in Italia, la scelta attuale non puÚ rappresentare un ripiego bensÏ la continuazione da una prospettiva diversa del partito unico dei moderati italiani. Adornato parla di Davide contro Golia ma non nel senso dell’impossibile. Il senso Ë quello compiuto di una scommessa seria, ponderata e lungimirante da cui partire per il partito dei moderati centrista e cristiano e non certamente una semplice forza di interposizione tra il partito democratico e il partito del Popolo della libert‡. L’idea della proposta politica rimane quella dei contenuti sui temi di interesse nazionale come su quelli eticamente sensibili a differenza di ciÚ che fanno Berlusconi, Fini e Veltroni, i quali alla pari cercano di raggiungere l’elettore pi˘ attraverso lo slogan e me-
no tramite i progetti. Il grande partito dei moderati non Ë una riedizione dell’unit‡ politica dei cattolici sul modello della Dc, bensÏ un’aggregazione nuova nella forma e nei contenuti. Esso piuttosto Ë l’incontro liberale tra laici e cattolici con una propria e naturale collocazione che un grande partito moderato e di centro puÚ avere in Europa che Ë quella del partito popolare europeo. Su questo punto non puÚ che non evidenziarsi quanto Ë sotto gli occhi di tutti e cioË il Partito democratico proiettato verso il socialismo europeo e quello del Popolo della libert‡ sempre pi˘ spostato verso destra, il che colloca di diritto l’Udc e la nuova proposta politica come unico e solo soggetto garante e tutore dei valori e della tradizione popolare ed europea. Dunque si profila una doppia strategia: da una parte chi come Berlusconi e Fini guardano all’oggi all’opportunit‡ della imminente campagna elettorale e dall’altra chi come Casini sfida il futuro ed apre una nuova fase dei moderati e del centrodestra italiano. In fondo la differenza vera e reale Ë in
Felice Palombi Roccaraso
La spazzatura è ancora lì. Come i responsabili dell’emergenza Caro Direttore, si parla tanto di emergenza rifiuti, ma la monnezza è ancora tutta lì. Non si riescono atrovare delle soluzioni e i responsabili Bassolino e la Iervolino in testa non si dimettono. Per quanto tempo ancora dobbiamo sopportare questa situazione assurda?
gran parte in questo concetto che ancor prima De Gasperi aveva sintetizzato, ricordando che la differenza tra un politico e uno statista sta nel fatto che il primo pensa alle elezioni e il secondo alle generazioni future. Vincenzo Inverso SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog giornali, le radio, tutti i mass media ci propinano ogni giorno queste valanghe di numeri. E le segreterie dei partiti le usano per fare campagna elettorale. Prima era Berlusconi, adesso ci si mette anche Veltroni, che sembra voler copiare in tutto e per tutto il leader della CdL. Non si potrebbe, dico io, sospendere la pubblicazione dei sondaggi, non solo nelle due settimane immediatamente precedenti al voto, ma per tutta la campagna elettorale? Ci guadagneremmo noi cittadini, ci guadagnerebbe la chiarezza della campagna, ci guadagnerebbero tutti. E’ solo una modesta proposta: che ne pensa?
Il nostro amore può durare senza sacrifici 6 luglio, di mattina Mio angelo, mio tutto, mio io. Solo poche parole per oggi e addirittura a matita (con la tua) - Non sarò sicuro del mio alloggio sino a domani; che inutile perdita di tempo è tutto ciò! - Perché quest’angoscia profonda, quando parla la necessità - il nostro amore può forse durare senza sacrifici, senza che ciascuno di noi pretenda tutto dall’altro; puoi tu mutare il fatto che tu non sei tutta mia, io non sono tutto tuo? Oh, Dio!, rivolgi il tuo sguardo alla bella Natura e dà pace al tuo animo per ciò che deve essere - L’amore esige tutto e ben a ragione, così è di me per te, di te per me - Ma tu dimentichi così facilmente che io debbo vivere per me e per te. Se fossimo completamente uniti, tu sentiresti questa dolorosa necessità, tanto poco quanto la sento io - Il viaggio è stato orribile. Sono arrivato qui soltanto ieri mattina alle quattro. Siccome c’erano pochi cavalli, la diligenza ha scelto un altro itinerario; ma che strada orribile! Alla penultima stazione mi hanno sconsigliato di viaggiare di notte, hanno cercato di ispirarmi paura d’un bosco ma ciò non è servito ad altro che a spronarmi - e ho avuto torto”. Ludwig van Beethoven a una donna sconosciuta
Non è troppo presto per i sondaggi? Caro direttore, vedo che nelle ultime settimane tutti i mezzi d’informazione si affannano per commissionare a vari istituti di ricerca sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani. Gli stessi mezzi d’informazione, poi, “sparano” con grande evidenza i risultati di questi sondaggi: “mezzo punto su, mezzo punto giù, crollo verticale, rimonta fenomenale...”. Ma non le sembra, caro direttore, che si stia facendo un gran rumore per nulla? A leggere con attenzione di dati di questi sondaggi (a proposito, perché le pubblicazioni avvengono sempre in modo frammentario e impreciso?), per esempio, si scopre che quasi un terzo degli italiani sono ancora “indecisi”. Ora, io non so se questi potenziali elettori siano delusi dalla sinistra, delusi dalla sinistra o incerti
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
Pasquale Lesmi Napoli
Perché in Sicilia sì e in Italia no? Va bene che la Sicilia gode di uno statuto speciale di autonomia, ma perché in Italia il centrodestra non può strutturarsi seguendo il modello siciliano, presentandosi uniti ma con il rispetto delle singole identità dei partiti? Cosa hanno i siciliani in più di noi poveri abitanti della terraferma? Un Lombardo in più?
Sebastiano Somma Como
sul centro. Quello che immagino, però, è che un sondaggio con un così alto numero di indecisi non ha alcuna rilevanza statistica. Se, per ipotesi, la grande maggioranza di questi italiani si orientasse, nelle ultime settimane prima del voto, verso destra o sinistra (o centro), tutti i numeri che ci hanno propinato finora non varrebbero nulla. Anzi, meno di nulla. Eppure i giornali, i tele-
PUNTURE Caro direttore, Cuba è stata castrata.
Giancristiano Desiderio
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Nulla ispira a un uomo tanti sospetti quanto il fatto di saper poco SIR FRANCIS BACON
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
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Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di George W. H. Bush endorses McCain È arrivato il papà. Arriverà presto anche il figlio. Ora la nomination del partito Repubblicano per la corsa alla presidenza degli Stati Uniti d’America è definitivamente chiusa. E’ inoltre il segnale che la “grande famiglia” del Gop appoggerà McCain anche alla convention di Settembre. Importante rispetto al voto di Novembre e rispetto soprattutto le preoccupazioni di astensionismo dalle urne da parte dell’elettorato più ribelle alla candidatura di McCain. Il vecchio John ha comunque ancora tutto il tempo per potere convincere fino in fondo la ”base” e senza bisogno di aiuti e di pressioni esterne. «Non sono venuto qui per dirvi che cosa fare - ha detto Bush dal Houston Hobby Airport in Texas Ora è solo giunto per me il momento di aiutare ”Johnny”, nel suo sforzo per cominciare a costruire l’ampia base di coalizione che ci vorrà per far si che i nostri valori conservatori possano quest’autunno, nuovamente, varcare le soglie della Casa Bianca. Il suo carattere è stato forgiato nel crogiuolo della guerra. Il suo impegno per l’America va al di là di ogni possibile dubbio, ma soprattutto egli ha i valori e l’esperienza per guidare la nostra nazione verso il futuro, rispetto al momento storico che stiamo vivendo». «L’approvazione del Presidente George Bush mi onora - ha detto McCain - e credo che sarà determinante nel processo dell’unificazione del nostro partito. Presidente Bush, posso assicurarle che farò tutto il possibile per ricambiare il vostro sostegno e sono certo che non avrete rimpianti di alcun genere». Il Senatore dell’Arizona è intanto già all’opera e si sta organizzando dal punto di vista nazionale, oltre
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alle prossime primarie, con un occhio di riguardo all’election day di Novembre, per sfruttare al meglio anche l’appoggio di Bush senior rispetto alla raccolta fondi che sarà, per forza di cose, determinante. Si starebbero anche già studiando delle possibili strategie da utilizzare sia contro Obama sia contro Hillary Clinton. Ovviamente bisognerà attendere il verdetto delle primarie Democratiche. Il punto basilare per McCain è solo uno: fare in modo che il candidato democratico in nomination non possa utilizzare la guerra in Iraq come spauracchio di un terzo mandato “alla George Bush”. I sondaggi americani, nonostante i progressi a Baghdad, parlano chiaro: il 50% degli americani non ha ancora digerito la guerra contro Saddam Hussein. Proprio domenica scorsa McCain avrebbe dichiarato in un comizio la sua linea critica verso l’approccio alla guerra da parte dell’amministrazione Bush, spronando da sempre un invio di truppe maggiori, rivelatasi poi strategia vincente. Questo sarà il punto centrale per McCain che, dovrà essere talmente bravo, da farsi percepire dai conservatori come un continuatore delle politiche della vecchia amministrazione e, da tutti gli altri, come l’uomo del possibile cambiamento. Le sue posizioni su riscaldamento globale (una delle poche cose che non condivido del suo pogramma) e sul tema dell’immigrazione dovranno essere ”digerite”, ma potrebbero essere la carta vincente,non solo con il bacino degli Indipendenti, ma soprattutto presso un elettorato democratico più moderato che alla fine potrebbe puntare sull’esperienza e la sostanza del Senatore.
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PAGINAVENTIQUATTRO
L’ossessione del PLAGIO di Angelo Crespi altra sera a Ballarò Michela Vittoria Brambilla ha accusato Walter Veltroni di aver copiato il programma del Popolo della Libertà (si veda per esempio il taglio dell’Ici). Serafica, Angela Finocchiaro non ha battuto ciglio, sostenendo che le misure da addottare sono quelle, destra e sinistra adieu. Così, è stata messa una pietra tombale su un argomento che a ben vedere molti già pensavano di usare strumentalmente in campagna elettorale. Il Giornale lo stesso giorno aveva perfino comparato i programmi elettorali di Pd con quelli della Cdl 2006. Dalla solerte sinossi si evinceva che l’uno è la velina dell’altro, intendendo per “velina”il sottile foglio che ai tempi duceschi fungeva da carta carbone.
L’
Eppure, qualche piccolo appunto andrebbe fatto, visto che negli Usa la contestuale campagna elettorale procede a suon di accuse di plagio. Hillary, in vistosa difficoltà, ha criticato il rivale Obama, reo di aver mutuato una serie di slogan e di formule retoriche da altri politici democratici. Certo che di fronte al motto di Obama, “Yes we can” (peraltro ricalcato pari pari da Veltroni), la Clinton non ha saputo far meglio che rispondere con un furbesco “Yes we will”. Ed è difficile comprendere lo spreco cerebrale di spin doctor, speech writer, e king maker. Ovvio che il plagio in politica, sia un peccatuccio. In Italia non si contano le scopiazzature, da quella celeberrima in cui l’astro nascente di Forza Italia, Mauro Pili, allora governatore della Sardegna venne pizzicato mentre ri-
proponeva per la sua regione il programma di Roberto Formigoni per la Lombardia (se non erriamo, citando a memoria, fu sgamato quando fece riferimento alle “11 province”). Ovvio pure che il plagio nel giornalismo sia la regola, specie nell’epoca del ctrl+c–ctrl+v, cioè del copia e incolla dalla Rete, metodo attraverso il quale chiunque può inventarsi esperto di qualsiasi materia, compreso il moto spiraliforme dei fotoni. Della qual cosa già si lamentava sul finire dell’Ottocento, ben prima del computer, il Carlo Dossi de le “Note azzurre” (pubblicate postume): “Lo stile del giornalismo odierno è «forbice e colla dei giornali»”. Vizietto sublimato da quei colleghi che arrivano a plagiare se stessi, riciclando da anni lo stesso pezzo spesso per lo stesso giornale. Ovvio infine che in letteratura il plagio sia un’arte. Bisogna aspettare Emanuel Kant per una sistematizzazione filosofica del copyright in opposizione alla “editoria pirata”, poiché fin dai tempi antichi la nozione di autore era alquanto labile e le opere tra copiature, ricopiature, e busillis, erano difficilmente attribuibili. E poi c’era pure la questione di capire la
genuamente che l’Ortis sembra un calco del Werther, che perfino Leopardi non ha inventato la locuzione “passero solitario” ma, udite udite, l’avrebbe copiata da un madrigale (“vago passaro solitario”) di un oscuro medico letterato del Seicento, tal Francesco Antonio de Virgiliis.
Nessuno oserebbe oggi intentare una causa per plagio a Leopardi, e neppure Tolstoj se l’è sentita di chiamare in giudizio la Mazzucco, cosa che invece è successa al Nobel Josè Cela, sul cui capo, pur morto nel 2002, pende addirittura un processo. E’ di questi giorni la notizia che un irreprensibile giudice della Corte costituzionale spagnola ha ordinato di verificare la fondatezza o meno delle accuse mosse allo scrittore, colpevole di aver preso trame e parole da un collega meno famoso. In sintesi, Veltroni o non Veltroni, secondo noi anche in politica vale l’aforisma: “Quando rubi da un autore è plagio, quando rubi da tanti è ricerca”.
Breve ed esaustiva storia dell’arte di rubare le parole e le idee altrui da Seneca a Veltroni, passando per Kant differenza tra possedere una cosa e possederne l’uso. Come ironizzava Seneca nel “De beneficiis”, il libraio Doro chiamava suoi i libri di Cicerone, appunto perché li aveva acquistati. Così è certamente arte Dante che copia la discesa negli inferi di Virgilio che a sua volta la mutua da Omero, sempre che un Omero sia esistito. Oppure il buon Gabriele D’Annunzio che traeva interi versi dal dizionario del Tommaseo. D’altronde, scrisse Eliot, “i poeti immaturi imitano; i poeti maturi rubano”. Talvolta le “ruberie” hanno l’onore della cronaca. Nel 2006 scoppiò il caso Melania Mazzucco il cui romanzo “Vita” fu sottoposto ad analisi testuale da una acribiosa ricercatrice la quale si accorse che alcuni passi erano testuali riproduzioni di “Guerra e Pace” di Tolstoj. Il bello è che la Mazzucco (supponiamo con grande disdoro di Tolstoj, se l’avesse saputo) aveva vinto col tomo a quatro mani il premio Strega e sulla questione si era difesa maledicendo gli “scherzi della memoria” (memoria strabiliante). Mario Baudino, dotto elzevirista della Stampa, si applicò sul tema e ci deliziò con una infinita antologia di plagiatori, da Erasmo a Salgari. Aggiungiamo noi in-
N.B. Avendo rubato da tanti, crediamo che l’articolo riportato qui sopra sia da considerare “ricerca” e non plagio.