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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Carte

Così facile rinunciare al simbolo?

di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

Gianni Baget Bozzo Franco Cardini Roberto de Mattei Angelo Mellone Stelio Solinas

pagina 12

ristagno ALMUNIA GELA L’ITALIA (DI PRODI E VELTRONI) pagina 6

Giuliano Cazzola

relativismo LA DEREGULATION DELLE ADOZIONI pagina 7

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Marco Lora

PROVOCAZIONI Mercato sui seggi dei radicali, in lista figli di papà e soubrette del Grande Fratello. Eppure l’unico scandalo diventa De Mita. Ma se il nuovo è senza qualità…

viva il vecchio! alle pagine 2, 3, 4

VENERDÌ 22

FEBBRAIO

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

31 •

WWW.LIBERAL.IT

e

• CHIUSO

5

germania

La Linke vola nei sondaggi

La rivincita di Lafontaine pagina 10

Katrin Schirner

intervista ARMANDO TROVAJOLI RACCONTA QUANDO SUONAVA IL JAZZ Adriano Mazzoletti

pagina 20 80222

9 771827 881004

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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viva

il vecchio

Tranne qualche eccezione (la Roccella e Ichino) il «nuovo» fa rimpiangere il «vecchio» ualche anno fa il mio vecchio amico Giampiero Mughini scrisse un libro dal titolo Un disastro chiamato Seconda Repubblica che, se non ricordo male, si concludeva lanciando un allarme sulla Terza Repubblica di cui già si preannunciava l’arrivo. Aveva ragione nella saggezza del suo pessimismo, perché continuiamo a vivere in un’imbarazzante condizione: essere sostenuti dalla speranza che le cose migliorino per accorgerci dopo un po’ che non è affatto così. E ce ne accorgiamo da piccoli e grandi fatti. I grandi li conosciamo bene, anche se spesso l’attenzione mediatica li abbandona rapidamente dopo averli segnalati, come la crisi profonda segnalata dalla vicenda della spazzatura in Campania o come il ristagno dell’economia.

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Il vero problema sono i piccoli fatti. Piccolo, in sè, è il tormentone di questi giorni sulle candidature parlamentari, sui nomi che spuntano all’improvviso, sui colpi ad effetto di questo o quel partito allo scopo di raffigurare davanti all’opinione pubblica una spinta al rinnovamento. Al «nuovo». Così Walter Veltroni non ha avuto troppi problemi nell’annunciare la candidatura (e l’elezione) di un gruppo di bei giovani, a cominciare da Matteo Colaninno, i cui cognomi evocano alcune importanti dinastie dei poteri finanziari e industriali. Nello stesso tempo – la risposta immediata in questi casi è necessaria – sull’altro versante sono trapelate intenzioni ad effetto, come quella della Aida Yespica, una delle soubrettes che va per la maggiore nel mondo dello spettacolo. Poco conta il fatto che ci siano state molte smentite, tra cui quella della stessa Yespica. O che sull’arruolamento dei «figli di papà» siano piovute critiche, tra cui quella di Luca Cordero di Montezemolo. Il problema resta quello della visione della politica e del Parlamento che ormai le leadership, in questo caso del Pd e del Pdl, non riescono più a nascondere. La visione cioè di un luogo dove conta essenzialmente l’immagine e non pesano più esperienze, competenze, meriti. Non che non ci siano buoni nuovi candidati. Penso ad esempio ad Eugenia Roccella

Sei intelligente? Fuori dalle liste di Renzo Foa (del Pdl) o a Pietro Ichino (del Pd). Fortunatamente non mancano. Semplicemente non vengono esibiti, perché si pensa probabilmente che alla fine non servano. Che non serva scommettere sulla serietà della politica, che non serva puntare sulla qualità del confronto. All’opposto – il discorso riguarda direttamente il Loft, ma il Pdl certamente inseguirà – a

Colpisce il fatto che i messaggi lanciati dal Pd e ampiamente rappresentati dal sistema mediatico indichino questa decisione – e la scelta dell’ex presidente del Consiglio ed ex segretario della Dc di sbattere la porta – come un momento liberatorio. Colpisce intanto per la mancanza di rispetto verso una figura che ha fatto parte della storia

tuita dalle idee. È già stato detto e va ripetuto che un giovane conformista non può valere di più di un attempato vagabondo nella sfera del pensiero. Il discorso però non è solo di metodo. Qui si tratta di entrare nel merito. E se ci si entra, non si fatica ad accorgersi che anche quella stagione della Prima Repubblica – tra la metà dei Set-

Il Parlamento non è importante solo per le leggi che riesce ad approvare o per determinare la maggioranza di governo, ma per la qualità del messaggio che dovrebbe trasmettere al Paese

Altri tempi: Giovanni Giolitti all’ingresso di Montecitorio e le 39 elette nella prima legislatura repubblicana

simbolo di rinnovamento è stata eletta la decisione di non ricandidare Ciriaco De Mita, esposto alla berlina come l’emblema del «vecchio» da cancellare, come l’uomo di una politica per la quale non c’è più posto. Come un capro espiatorio.

del centrosinistra e che è uno dei remoti fondatori del Pd. Ma colpisce soprattutto perché riappare in modo dominante l’immagine di un conflitto tra «vecchio» e «nuovo» che è ancorata solo agli stereotipi e che prescinde da tutto il resto. Prescinde in primo luogo dalle idee. Resto convinto che in politica l’unica vera linea di confine tra passato da una parte e presente e futuro dall’altra sia costi-

tanta e la fine degli Ottanta – fu nel suo complesso migliore e più carica di risultati, per l’Italia, di quanto non lo sia stata la fase iniziata con il feroce biennio 1992-94. È vero che la dissoluzione del vecchio sistema dei partiti avvenne sull’onda di una convinta partecipazione dell’opinione pubblica. Ma è anche vero che quel che è avvenuto dopo è stato al di sotto delle attese. E lo è stato soprattutto su un punto decisivo: le leadership e il nuovo sistema politico nel suo complesso non hanno prodotto nulla di meglio e di più efficace. Se non nel

quinquennio della Casa delle libertà, tra il 2001 e il 2006, un paio di riforme e una scossa culturale. Il «nuovo» è stato meno utile del «vecchio», se si guarda ad un’Italia che si è fermata e frantumata e che ha definitivamente smarrito lo «spirito repubblicano». Si fa finta di dimenticare che, in questo 2008, il rapporto di fiducia tra la società e la sua rappresentanza non è certo migliore di quello che c’era nel 1991. In altri termini si fa finta di dimenticare che la crisi della politica – cioè della guida di una società – è profonda quanto allora. O forse di più, perché quel che non è stato mantenuto, negli ultimi quindici anni, è essenzialmente la promessa di un rinnovamento. E poi che esempio si dà? Attenzione, le leadership sono obbligate a dare l’esempio. Per come si comportano, per come sanno ascoltare, per quel che sanno indicare, per la trasparenza delle loro azioni, per il rispetto che devono avere delle istituzioni. E, aggiungo, per la qualità della rappresentanza. Il Parlamento non è importante solo per le leggi che riesce ad approvare o per determinare la maggioranza di governo. Il Parlamento è importante proprio per la qualità del messaggio che dovrebbe trasmettere al Paese. Lasciamo stare le aule vuote, impietosamente trasmesse dalle dirette televisive. Lasciamo stare, quando invece sono piene, le urla, gli insulti, i cartelli esibiti o le bottiglie di champagne stappate. Questo può avvenire. È successo sempre, anche in altre forme. E succede non solo in Italia. Il problema è quello che non avviene.

Mi capita spesso di ascoltare, per ragioni di lavoro, i dibattiti parlamentari trasmessi in diretta per radio. Sono anni che non mi imbatto in interventi di qualità. So di non poter rimpiangere le epoche dei grandi duelli – lasciamo stare quell fra Crispi e Zanardelli – che avevano per protagonisti Vittorio Emanuele Orlando o Benedetto Croce o Palmiro Togliatti o Alcide De Gasperi o Aldo Moro o Enrico Berlinguer o Bettino Craxi, quando si riusciva, anche fra asprezze polemiche, a ricevere l’idea di grandi visioni, di grandi proposte, di grandi idee che si confrontavano per il governo dell’Italia. Ma so anche di potermi aspettare qualcosa in più dalle leadership che ci sono adesso. E sopattutto vorrei vivere in un paese in cui non si deve rimpiangere il «vecchio» davanti al «nuovo» che c’è.


viva

il vecchio

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Quello di Veltroni non è solo un errore, è un messaggio controproducente: esclude infatti il precursore dell’incontro tra i cattolici e la sinistra su cui è nato il suo partito

Disonora il padre di Arturo Gismondi alter Veltroni ha esibito il suo potere assoluto facendo concludere la carriera politica nel Partito democratico di Ciriaco De Mita, un uomo che è stato uno dei grandi della prima repubblica, come segretario della Dc e primo ministro. Ma che è stato soprattutto il protagonista – come iniziatore e come autore - di quel lavorìo, che risale a decenni fa e che stabilì il rapporto privilegiato coi comunisti, destinato ad avere nel Partito democratico e nel «compromesso storico bonsai», la definizione è di Ugo Intini, un punto d’arrivo. L’avvio dei rapporti preferenziali con il Pci porta la firma di Ciriaco De Mita. Fu esattamente nell’aprile 1969 che De Mita avviò quella lunga stagione di avvicinamento al Pci. Chi scrive era fra i cronisti politici che, avvertiti dallo staff demitiano del quale era parte attiva un giovanotto della Dc avellinese a nome Clemente Mastella, assistette a un convegno, convocato in un albergo fiorentino dalla corrente dc della «sinistra di Base», della quale Ciriaco era il leader, concluso con la proposta. del «patto costituzionale». Volto, per l’appunto, a una intesa fra i partiti di governo e il Pci, e a nuovi rapporti politici da stabilire fra i partiti che insieme avevano dato vita alla Costituzione dl 1948, e nei quali erano ovviamente i comunisti, con la sola esclusione dei partiti che a quell’evento furono, e che erano poi il Msi e i superstiti gruppi monarchici. Il convegno fu avvincente, affiorò più di un dubbio riguardante il carattere del Pci, i suoi fondamenti storici e ideologici, il suo rapporto reale con una democrazia europea e occidentale. A tutti, in particolare a un esponente non avellinese, e campano come Luigi Granelli, che rappresentava la corrente di Base milanese e lom-

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barda, rispose nelle sue conclusioni De Mita. «C’è stato chi si è chiesto - sostenne De Mita - se il Pci non resterà nelle condizioni di una chiesa chiusa, immutabile nei suoi vincoli ideologici». E a queste obiezioni rispose che non andavano chiesti al Pci «nel momento in cui si proponeva un patto politico e costituzionale un mea culpa, una revisione di principi, ma un confronto fra soggetti paritari volti allo sviluppo della democrazia nel Paese». Insomma, il Pci andava bene così com’è, con la sua storia e i rapporti con l’Urss inclusi. Questa fu la conclusione del convegno e gli effetti furono l’avvio di quella «democrazia conciliare» che rendeva il Pci partecipe delle decisioni politiche principali anche attraverso una riforma dei regolamenti parlamentari elaborata da Giulio Andreotti e Pietro Ingrao. Eravamo nella primavera del 1969, due anni più tardi Enrico Berlinguer lanciava la sua proposta di «compromesso storico», ri-

vittoria del «preambolo» di Carlo Donat Cattin al successivo congresso della Dc che reinseriva di nuovo il Psi mell’area di governo non posero fine ai rapporti col Pci, che continuarono anche durante i governi Craxi degli anni ’80 , perpetuati dalla corrente di base di De Mita.

Il resto, è storia più attuale, la tempesta giudiziaria dei primi anni

’90, l’irruzione sulla scena politica di Silvio Berlusconi, la disfatta del Ppi, succeduto alla Dc nelle elezioni del 1994, l’alleanza fra quel che restava della Dc, che aveva ritenuto di cambiare nome quasiché nel suo passato ci fosse in esso qualcosa di simile alla tragedia comunista. E si avviò il processo di unificazione fra quel che restava del vecchio Pci dopo la trasformazione in Pds e poi in Ds, e quel che restava della sinistra Dc. È la storia del Partito democratico, che nasce da una contraffazione della storia verbale. Si parlò di una unificazione dei riformismi cattolici e comunisti. Niente di vero: ogni militante o capo comunista avrebbe reagito con sdegno all’epiteto di riformista. E quanto ai Dc, i riformisti furono quelli della «sinistra sociale», di origine sindacale, di Donat Cattin fra gli altri, assai lontani dal sinistrismo tutto politico dei demitiani. La storia di questi giorni, l’esclusione di De Mita dalle liste elettorali e il suo abbandono del Pd possono essere vissuti dall’ottimo Ciriaco come una nèmesi, così come vivono l’evento qualche storico e testimone dei tempi vissuto nell’ultimo mezzo secolo.

Fu proprio l’ex segretario della Dc ad avviare la lunga stagione di avvicinamento al Pci che portò al «compromesso storico» volto soprattutto alla Dc che riempì di sé il decennio degli anni ’70 e che intanto portò alla formazione dei governi detti di «solidarietà nazionale» di Andeotti sostenuti dal Pci.

Il periodo della «solidarietà nazionale» non durò molto, ci fu di mezzo il sequestro di Aldo Moro, la divisione che passava dentro il governo fra partito della fermezza, tenuto insieme soprattutto dal Pci, e quello della trattativa animato da Bettino Craxi e al quale aderirono di fatto con i loro dubbi esponenti dc fra i quali Amintore Fanfani e soprattutto il capo dello Stato Giovanni Leone, che pagò questa sua inclinazione con la cacciata dal Quirinale. L’assenza di un «garante» quale Moro e il fallimento della candidatura di Ugo La Malfa a capo dello Stato (fallimento che ebbe a protagonista ancora una volta Craxi) indussero Berlinguer a por fine all’alleanza. Ma il rapporto fra il Pci e una parte della Dc anche dopo la


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viva

il vecchio

Parte il bailamme delle candidature. Caccia ai giovani «a prescindere»

V&B al gran bazar delle liste, tra belle donne e figli(occi) di papà di Errico Novi e Susanna Turco

ROMA. «Vallette, nomi illustri, amiche, amici e figli di». Se non proprio così sconfortanti, come li riassume Pier Ferdinando Casini in tv ieri mattina, non sono nemmeno particolarmente entusiasmanti, i primi nomi che trapelano dagli entourage di Pd e Pdl impegnati nella compilazione delle candidature. Scelte sorprendenti in alcuni casi, ma dopotutto si tratta delle prime indiscrezioni che fatalmente balzano all’attenzione dei media anche più del dovuto. Per quanto riguarda il Popolo delle libertà, c’è una differenza di fondo tra Forza Italia e An che influirà sulla composizione della lista unica: gli azzurri sono meno vincolati al rispetto delle gerarchie interne, degli apparati, della struttura di partito. Ecco perché in queste ore è dal fronte berlusconiano che arriva il maggior numero di nomi nuovi da candidare. Compresi alcuni imprevedibili come quello di Angela Sozio, la ragazza venuta alla ribalta prima con il ”Grande fratello 3” e poi per essere stata sorpresa dai fotografi con Silvio Berlusconi a Villa Certosa. Più di una fonte interna a Forza Italia conferma che la giovane dai capelli rossi sarà inserita nella lista pugliese del Popolo della libertà. Si fanno avanti altre new entry femminili, come la napoletana Francesca De Pascale, animatrice del comitato ”Silvio ci manchi”. Su Aida Yespica invece è arrivata ieri la smentita della diretta interessata: «Non sono neanche cittadina italiana, non mi interessa far parte del vostro Parlamento, neanche con Berlusconi», ha detto la soubrette. Non è detto che basti a placare il malumore tra gli azzurri, alcuni dei quali si sono sfogati con Francesco Cossiga, come l’ex Capo dello Stato ha svelato ieri mattina. Resta il fatto che nel Pdl ci saranno apporti nuovi soprattutto da Forza Italia. Nella lettera inviata ai coordinatori regionali Sandro Bondi chiede di escludere chi ha procedimenti penali ma soprattutto di fare spazio «a donne e giovani», pur senza cancellare i parlamentari

completamente estranee alla politica. Andrà comunque risolta in poco tempo.

Nel Popolo delle libertà i nomi nuovi arrivano soprattutto da Forza Italia Il Partito democratico per ora è sintonizzato su orfani, vedove e portavoce

uscenti. I vertici di Via dell’Umiltà confidano molto nell’aumento di seggi assicurato dal premio di maggioranza. È questa la riserva che dovrebbe consentire per esempio il via libera in Veneto a Thomas Panto, figlio di Giorgio, l’editore e fondatore di Progetto Nordest morto nel 2006. O ad alcuni nomi proposti dai Circoli del buongoverno di Marcello Dell’Utri, come il finanziere modenese Giampiero Samorì e il

presidente dell’Unione industriali di Catanzaro Giuseppe Speziali. Altre figure emergenti, come Marcello Di Caterina in Campania, proverranno dai Circoli della libertà di Michela Brambilla. An invece seguirà criteri più consolidati nel definire la propria quota del listone. Promuoverà il capogruppo al Comune di Roma Marco Marsilio. Darà spazio a Filippo Saltamartini, leader del Sap, sindacato di polizia vicino al

partito. E potrebbe lanciare giovani come il neoeletto presidente di Azione universitaria Giovanni Donzelli. Via della Scrofa continuerà dunque a tutelare la propria struttura interna. Con l’aggiunta di intellettuali d’area come Alessandro Campi e Angelo Mellone. Mentre per i rappresentanti dell’impresa e delle professioni ci sarà un intesa con gli azzurri. L’equazione non è semplice, anche per il peso delle figure

Il Partito democratico è invece agitato soprattutto dalla valanga «figli di». Dopo che anche il presidente degli industriali Luca Cordero di Montezemolo aveva stigmatizzato la tendenza alla cooptazione spiegando che «non possiamo avere un Paese in cui nelle liste elettorali ci siano tutti i ”figli di”», ieri Walter Veltroni ha decisamente smentito che le liste del Pd siano zeppe di rampolli più o meno autorevoli: «Posso assicurare che tolto Matteo Colaninno che non è solo figlio di, ma è stato il presidente dei giovani industriali, tutti gli altri nomi che ho letto sui giornali sono pure e semplici invenzioni», ha chiarito. Eppure, le prime indiscrezioni sulle candidature del partito veltroniano non sembrano certo improntate a una logica del tutto aliena a quella della cooptazione. E se non si tratta di figli, spesso la mano va a pescare tra i figliocci. Così per esempio nella ventilata ipotesi di far correre la portavoce di Romano Prodi, Sandra Zampa, o quella di Chiara Rinaldini, rappresentante in terra di Rosy Bindi. Ma anche la ventisettenne Marianna Madia, probabile capolista nel Lazio, proviene da quell’Arel dove da sempre è di casa Enrico Letta del quale è stata collaboratrice a Palazzo Chigi. Di lettiana provenienza anche un altro nome che circola, quello dell’assistente Alessandra Mosca. Sempre nel capitolo giovani «a prescindere», come direbbe Totò, c’è un’operatrice di call center che dovrebbe precedere Veltroni in Sicilia. Dalla Calabria, l’indiscrezione che a correre potrebbe essere il ventenne Aldo Pecore, portavoce del movimento anti’ndrangheta dei giovani di Locri. Altri possibili nomi di peso, Rosanna Scoppelliti, figlia del magistrato Antonino assassinato dalla mafia nel 1991; Marco Alessandrini, figlio del giudice Emilio ucciso dal Prima linea nel 1979; Rosetta Neto Falcomatà, vedova del sindaco di Reggio Calabria.


politica

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L’ostinazione personale del leader siciliano di Fi mette a rischio l’unità del centrodestra nell’Isola

Lo strappo di Micciché di Alfonso Lo Sardo

PALERMO. Si fa un bel dire in questi giorni della Sicilia come laboratorio politico italiano, dell’Isola nella quale si elaborano proposte e si consolidano alleanze in grado di anticipare gli assetti politici nazionali. Lo stesso Leonardo Sciascia del resto, ampliandone il significato e sottolineandone la diversità, aveva parlato della Sicilia come metafora e categoria a sé. Di sicuro intanto c’è che a distanza di pochi giorni dalla presentazione delle liste in Sicilia gli accordi per le elezioni regionali e per le politiche - che si terranno in unica battuta il 13 e 14 aprile - sono in alto mare. Sarà che ai siciliani piace rovinarsi la vita o, più probabilmente, che tutto ciò che segue i dettami del conformismo proprio non cala giù ma qui, nella terra di Pirandello e di Gorgia, gli equilibri politici nazionali sono stati messi in discussione. Il Pdl in Sicilia è attraversato da laceranti divisioni. C’è da decidere chi sarà il candidato del centrodestra alla presidenza della Regione ma il centrodestra, almeno formalmente, non c’è più: da una parte Forza Italia e An fanno fatica ad esprimere un proprio candidato e in questo vuoto ha fatto in tempo ad inserirsi Gianfranco Micciché, ex presidente dell’assemblea regionale siciliana, uomo Publitalia e delfino, si fa per dire, di Marcello Dell’utri,

che, incurante delle indicazioni provenienti da palazzo Grazioli, succursale romana di Arcore, continua a proporsi come autorevole candidato di Forza Italia alla presidenza della regione. E poco conta per lui il fatto che la sua candidatura non sia gradita – è un eufemismo questo - a tutta l’Udc siciliana, a tutto l’Mpa di Raffaele Lombardo, a tutta An ed al 95 per cento di Forza Italia. E proprio quando si stava delineando la possibilità che proprio in Sicilia quelle che erano state le divisioni nel centrodestra a li-

mia di Raffaele Lombardo che, da Acireale, domenica prossima, ufficializzerà la propria candidatura, forte del sostegno dell’Udc siciliana di Totò Cuffaro e di Saverio Romano. Una Udc che intende ritagliarsi, come sottolinea il segretario regionale Romano, «un ruolo di proposta politica per i moderati, preoccupata della deriva plebiscitaria e autoritaria che è all’orizzonte e di cui il Pdl sembra essere il principale interprete». Ma i tempi si restringono e lo stesso Lombardo sgombra il campo e giocando d’anticipo co-

È il caso di rischiare di regalare la regione al centrosinistra capeggiato da Anna Finocchiaro, vera portaerei del partito democratico, mandata dal partito a sacrificarsi nella sua terra d’origine e che ora può credere in una rimonta? vello nazionale si ricomponessero nel nome di Raffaele Lombardo, homo novus dell’autonomismo e del riscatto siciliano, ecco che il buon Gianfranco con ostentata sicumera preannuncia la sua corsa a palazzo d’Orleans.

La palla ora passa al Cavaliere che dovrà, presumibilmente col pallottoliere, valutare le eventuali conseguenze di una rottura con il Movimento per l’Autono-

me solo lui e pochi altri sanno fare detta le condizioni dell’accordo con il Pdl. «Se il nostro Movimento potrà rappresentare il centro-sud e le isole - spiega il leader catanese -, se avrà dei riscontri che ci soddisfano nel programma di governo, se si rilancerà lo statuto autonomistico siciliano e sardo, se si darà vita ad una coalizione che abbia un senso allora sarà possibile chiudere l’accordo per l’alleanza e che e’a

portata di mano. In caso contrario la mia candidatura andrà avanti». Una frecciatina Raffaele Lombardo la manda a chi adesso vuole negare qualsiasi interazione o rapporto politico del recente passato con Cuffaro. «Non capisco perché - commenta Lombardo - non voglia l’Udc siciliano chi con l’Udc ha governato e continua a governare». Ebbene sì non lo capisce nessuno. Chi vuole rifarsi una verginità, soltanto politica sia ben chiaro, ha tutto l’interesse a bollare il solidarismo e popolarismo sturziano di cui Totò Cuffaro si è fatto interprete con il denigratorio “cuffarismo”, una sorta di sistema clientelare della peggiore specie, secondo il pensiero di chi ha sostenuto e appoggiato Cuffaro nella sua azione politica e di governo. Ma si sa che in politica gli opportunismi e le debolezze sono all’ordine del giorno, come il cambio repentino di casacca di chi cerca non solo di salire ma anche di attrezzare di ogni confort il carro del vincitore.

Si spacca quindi quello che fu il centrodestra in Sicilia, vero serbatoio di voti e di consensi, e che ciò debba o possa succedere per Gianfranco Micciché per molti è un vero nonsense. «Quante divisioni ha il papa?» chiese il feroce Stalin in modo

sprezzante quando gli fu detto che il Santo Padre ne contestava l’operato. Verrebbe da chiedersi quante divisioni abbia Gianfranco Micciché e se sia il caso di rischiare di regalare la Sicilia al centrosinistra capeggiato da Anna Finocchiaro, vera portaerei del partito democratico, mandata dal partito a sacrificarsi nella sua terra d’origine ed ora incoraggiata dalle spaccature del centrodestra siciliano. Anna Finocchiaro ha già rimarcato le sue differenze dal vecchio modo di fare politica ma per mettersi al sicuro ha già avuto modo di precisare che sia Lombardo sia Micciché rappresentano il vecchio e superato modo di fare politica, in contrasto con la nuova ondata di legalità che attraversa l’isola e in nome di un’antimafia parolaia di cui la sinistra è autorevole interprete. Perché se poi vengono citati gli atti concreti di Cuffaro e del suo governo contro la mafia discariche e pozzi abusivi sequestrati a Cosa Nostra, finanziamenti per la costruzione di caserme e strutture per le forze dell’ordine, sostegno concreto agli imprenditori colpiti dal racket delle estorsioni - si capisce bene non solo l’estraneità di Cuffaro alla mafia ma anche la strumentalizzazione da parte dei suoi nemici politici. Ma questa è, forse, tutta un’altra storia.


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politica d i a r i o

d e l

g i o r n o

Veltroni: subito 12 leggi se vinciamo, i radicali rispetteranno il programma

La previsione di crescita per il 2008 dimezzata allo 0,7 per cento

Almunia gela l’Italia (di Prodi e Veltroni) di Giuliano Cazzola annuncio di Bruxelles, con cui le previsioni di crescita dell’Italia per il 2008 sono state dimezzate (dall’1,4 allo 0,7 per cento), cade nel bel mezzo di una campagna elettorale ancora «in cerca d’autore». E spiazza le bozze dei programmi degli schieramenti in lizza. Poter contare su di un incremento del Pil di qualche decimale avrà delle conseguenze. In primo luogo sulle dimensioni di quel “tesoretto”che in tanti si sono affrettati a spendere prima ancora di averlo incassato. E se il “tesoretto”svanirà non vi saranno risorse adeguate da mettere a disposizione di quel miglioramento dei redditi dei lavoratori, attraverso lo strumento del fisco, che continua ad essere al centro dei programmi elettorali. Fino ad oggi, poi, i conti pubblici sono rimasti in equilibrio (o meglio in uno squilibrio sostenibile) grazie al maggior gettito fiscale. Ma se l’incantesimo dovesse rompersi, il deficit tornerebbe a cavallo del 3% del Pil e l’Italia finirebbe nuovamente nel mirino della Ue che si aspetta ormai dai Paesi membri non già dei bilanci in affanno (i parametri di Maastricht appartengono ormai alla storia dell’Unione) ma prossimi al pareggio. In buona sostanza, sarà bene risintonizzare le proposte delle campagne elettorali con la reale situazione del Paese. Non è questo un assillo della Cosa rossa, che riuscirà a cavarsela col suo elettorato intessendo i fili della demagogia e dell’ideologismo.

L’

Tocca ai due schieramenti che si contendono il governo della nazione esser seri e sottrarsi alla tentazione mediatica (i due leader sono soprattutto dei comunicatori) dell’“idea geniale”capace di sedurre l’opinione pubblica. E’ora di parlare il linguaggio della verità. In partenza, però, è bene mettere in chiaro un punto, anche se Veltroni fa ogni sforzo possibile

per voltare pagina, per prendere le distanze dall’esperienza del Governo Prodi.Tanto che se capitasse a Roma il marziano di Ennio Flaiano si chiederebbe se il Pd non fosse, nella passata legislatura, la principale forza di opposizione. La presa di distanza, metodica, ostinata e un po’truffaldina, di Veltroni ha persino irritato Romano Prodi, tanto da indurlo a prendere carta e penna e a manifestare apertamente il suo disagio. Ma se siamo in questa situazione l’appartenenza ad una maggioranza e a un Governo - che hanno passato la mano a causa di insanabili divisioni interne - non può essere sublimata in un «nuovismo» che presenta i tratti della rimozione se non addirittura dell’amnesia. Gli ex comunisti sono estremamente esperti nella tecnica di “rinascere a nuova vita”, all’insegna del solito scurdammoce ‘o passato, senza nep-

con un surplus di entrate, impreviste ed impensabili. Invece di approfittare dello stellone italico (spettava invero al Governo Berlusconi il merito dell’extragettito) per risanare in maniera strutturale i conti pubblici, si fece la scelta di «redistribuire» le risorse, individuando col bilancino della politica e premiando i settori “amici”. Poi si sono rivisitate le riforme della precedente legislatura (mercato del lavoro e pensioni) senza darsi cura dei maggiori oneri che venivano caricati sui conti pubblici.

Infine, la Finanziaria 2008. Si sarebbero potute imboccare, in alternativa, due strategie: proseguire col risanamento oppure sostenere l’economia in vista delle difficoltà in arrivo. Non si è voluto adottare né l’una né l’altra linea. Così si sono prodotti i seguenti risultati: il deficit previsto per il 2008 sarà più elevato di quello tendenziale; l’ampiezza della manovra è troppo modesta per poter dare impulso allo sviluppo. Una politica né carne né pesce, dunque. Certo, preclusa la via del deficit spending, non restava che la scelta di ridurre la pressione fiscale contenendo in parallelo la spesa corrente. Ma come l’avrebbero messa poi con la sinistra radicale e i sindacati? Ecco dunque un’ultima domanda da rivolgere a Veltroni. Ma se ora è tanto forte la separazione di responsabilità dalla precedente maggioranza e dal suo programma, ciò vorrà pur dire - almeno - che il peso della sinistra radicale era consistente nell’Unione e nella sua iniziativa politica. Ma non era, questa, una critica che l’opposizione della CdL rivolgeva al governo Prodi?

Avevamo di fronte due strategie: proseguire con il risanamento o sostenere l’economia in vista della congiuntura negativa. Abbiamo scelto di non scegliere pure prendersi la briga di un cenno di autocritica. In “braghe di tela“ il Paese è stato messo da Prodi e dai suoi. E Tommaso Padoa Schioppa ha una grossa responsabilità, visto che è stato lui a gestire la politica economica degli ultimi 22 mesi. Nel 2006, appena arrivato a via XX Settembre il supertecnico cominciò ad evocare la situazione del 1992, per sanare la quale impose una manovra di bilancio molto severa, a costo di mortificare persino la ripresa economica, proprio nel momento in cui la congiuntura favorevole gonfiava le vele dell’economia internazionale. Tutto ciò per trovarsi pochi mesi dopo

«Ho dato incarico ai gruppi parlamentari di scrivere 12 proposte di legge che corrispondono alle idee forza dell’assemblea costituente. E che presenteremo nel primo consiglio dei ministri se vinceremo le elezioni». È l’annuncio fatto ieri da Walter Veltroni, che copia un’idea già fatta circolare dall’entourage di Silvio Berlusconi comunicandola forse in modo più efficace. Ieri il leader del Pd ha anche tentato di rassicurare i teodem sull’ingresso in lista dei radicali: «Firmeranno il programma». Marco Pannella non perde ancora la speranza di essere candidato: «A Veltroni ci penso io», assicura a Sergio D’Elia. E dà questa interpretazione sull’intesa ormai raggiunta con i democratici (9 eletti, Bonino ministro e il 10 per cento dei finanziamenti elettorali): «È una base di partenza proposta da loro, che sarà ora necessario trasformare in un vero e proprio accordo politico-elettorale con il segretario Veltroni».

Casini: Udc vuole modernizzare l’Italia «Lavoriamo a un progetto che si può definire di centro ma che io definisco un progetto nuovo di modernizzazione dell’Italia». Pier Ferdinando Casini ha descritto ieri la piattaforma del suo partito e ha rivendicato di parlare «il linguaggio della verità e della responsabilità anche a costo di scelte impopolari». E ha difeso Ciriaco De Mita dopo l’esclusione dell’ex premier dalle liste del Pd: «È una voce scomoda. Aveva denunciato la degenerazione della politica spettacolo che Veltroni ha intrapreso. Altrimenti un’eccezione si sarebbe fatta». Alla domanda su un coinvolgimento di De Mita nell’Udc, Casini ha risposto: «Ci lavorano gli amici del partito».

Il Popolo della libertà torna ai gazebo L’1 e il 2 marzo prossimi si terrà il primo week end di mobilitazione del Popolo della libertà: saranno allestiti 8mila gazebo in tutta Italia per presentare il programma. Si tratterà di 15-20 pagine, con 7-8 di preambolo sulla scia dello slogan ”Rialzati Italia”. L’appuntamento delle piazze sarà trasformato anche in una sorta di consultazione popolare, con questionari da sottoporre ai cittadini.

Missioni all’estero, via libera alla Camera e la Sinistra arcobaleno va subito in pezzi Alla prima verifica la Sinistra arcobaleno è andata in pezzi. E com’è successo nel corso di tutta la legislatura, anche nella appendice andata ieri in scena a Montecitorio sono state le missioni all’estero a provocare le divisioni. La Camera ha approvato il decreto con 340 voti favorevoli, compresi quelli del centrodestra, e 50 contrari, arrivati da Rifondazione e Comunisti italiani, che non sono riusciti a trovare una linea comune con Verdi e Sinistra democratica. Le rappresentanze dei partiti di Pecoraro Scanio e Mussi non hanno partecipato al voto, nonostante il Prc abbia tentato fino all’ultimo una mediazione: Franco Giordano sarebbe stato disposto anche ad assecondare la linea dell’astensione, poi ha dovuto recedere per non farsi scavalcare a sinistra dal Pdci. Sul decreto per le missioni all’estero ora dovrà pronunciarsi il Senato, dove le componenti della Sinistra arcobaleno rischiano di dividersi ancora.

Montezemolo: liste piene di ”figli di” In Italia occorre più merito, anche «nelle liste elettorali sono tutti ”figli di”». Così il presidente di Confindustria Luca di Montezemolo è intervenuto sulle candidature per il voto di aprile. «Serve un Paese che viva meno di cooptazioni e piu’ di merito, anche il capitalismo familiare rischia di diventare una debolezza se affidato a ”figli di” non all’altezza, meglio un figlio in meno in azienda che una gestione incapace», ha detto Montezemolo.

Bertolaso: troppi tagli, lascio Nel decreto milleproroghe passato ieri alla Camera e in attesa di essere convertito anche al Senato è stato previsto un taglio di 48,8 milioni agli stanziamenti per la Protezione civile. E il capo del dipartimento, Guido Bertolaso, ha preannunciato le dimissioni: «La misura è colma, il decreto ci sottrae un terzo dei fondi e io non sono in grado di poter continuare a fare il mio lavoro, potrei a questo punto anche fare altro».


relativismo Annunciata una direttiva vincolante europea che apre ai singoli e alle coppie di fatto

La deregulation delle adozioni di Marco Lora stata rilasciata una dichiarazione, da parte del vice-segretario del consiglio d’Europa,secondo la quale dal prossimo maggio il Consiglio d’Europa darà il via libera alle adozioni da parte di singole persone e di conviventi «coppie eterosessuali non sposate», diventando «obbligatoria» per i paesi aderenti; mentre sarà solo sollecitata, ma non obbligatoria, la possibilità di adottare da parte di coppie formate da persone dello stesso sesso, registrate o meno, secondo le singole normative nazionali.

È

Nascono domande di diversa natura: il diritto fondamentale di un bambino ad avere «una famiglia» è ancora rispettato? A mio parere, no. Il diritto a crescere in un contesto dove la reciprocità uomo-donna è improntata alla stabilità, è rispettato? No. La certezza, da parte dell’autorità pubblica, sui vincoli e le responsabilità che legano le famiglie, è rispettata? No: oggi possono convivere, domani non registrare la convivenza, posdomani rientrare con l’ex… In una vacuità di legame, lo Stato non riesce a tutelare l’interesse del più debole, che, proprio perché si parla di adozione, è già in partenza svantaggiato (per la morte dei genitori, l’abbandono, o per una precedente grave criticità familiare). Siamo al rovesciamento della prospettiva: non quella di tutelare il minore, offrendogli le migliori possibilità di crescita, ma di fornire dei figli a chi non ne ha (ed evidentemente, non ne può avere). Lo slancio di fecondità e di accoglienza, che nasce da una disponibilità ad accogliere una vita che parte con una marcia in meno, viene capovolto. Secondo la prospettiva annunciata dal comunicato, nascono adozioni, obbligatorie per norma europea, improntate ad un contesto di instabilità (giuridica o affettiva), e con modelli di ri-

ferimento lontani dall’offrire un sereno quadro di crescita affettiva e sociale. Ma si pone pure un’altra questione. Così facendo, l’Europa tende a legiferare e imporsi, nell’opinione pubblica, introducendo norme, su campi afferenti all’autonomia delle nazioni, che vanno pesantemente a interferire sulle leggi nazionali. La nostra Costituzione, che riconosce la famiglia come soggetto che la precede, viene aggirata - non per norma diretta, ma per argomento attinente - imponendo di applicare modelli familiari che tali non sono. L’autonomia del costituente, prima ancora che del legislatore italiano, è rispettata da una tale norma europea «vincolante»? Quasi che il legislatore ci imponga uno scivolamento culturale al ribasso, con la perdita di valori costituzionalmente garantiti, che attingono alle

procità uomo-donna è il paradigma della relazione sociale più ampia, dove la fraternità nasce dal condividere storia, esperienza, cultura, in una stabilità progettuale.

Da qui l’esigenza che politiche reali di adozione siano capaci di promuovere stabilità, pari trattamento e dignità fiscale, previdenziale e lavorativa tra chi fa nascere un figlio e chi lo adotta, in un clima di rispetto e attenzione per legislazioni nazionali che credono nella famiglia, la tutelano, ne incentivano la stabilità garantendo lavoro ai giovani, equità fiscale, accoglienza alla vita. In Italia siamo arrivati alla chiusura degli Istituti per minori, offrendo loro la reale possibilità,

Una decisione che, in Italia, confligge con la legge adottata nel 1991, ma soprattutto con lo spirito e la lettera della Costituzione nostre radici culturali. Al punto che l’Italia «sarà obbligata» a modificare la legislazione sulla adozione, del 1991, che prevede l’adozione solo per coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Con una evidente diminuzione della tutela che il legislatore italiano ha voluto offrire ai bambini. Oppure dovrà essere garantita all’Italia la possibilità di restare autonoma su una legislazione riservata all’autonomia di governo degli stati membri dell’Europa.

M a c ’ è u n a p o s s i b i l e prospettiva diversa, più costruttiva? Sì, dare una famiglia a chi non ce l’ha. Ma famiglia, non formazioni sociali incontrollabili (per definizione) quali sono le convivenze, e improntate ad una instabilità sociale e giuridica. Dare una famiglia, dove la reci-

anche se fra ritardi e qualche incertezza, di essere accolti in famiglia, stiamo rivalutando il ruolo e la funzione dei consultori familiari, in vista di un servizio alla vita nei suoi momenti di maggiore debolezza, abbiamo molte associazioni che fanno formazione – umana, antropologica, anche spirituale – di adeguato livello per famiglie che si rendono disponibili ad adottare. Abbiamo un made in Italy sulle adozioni internazionali esemplare, con gente capace di recuperare le famiglie nei Paesi più disagiati del mondo, per dare loro la possibilità di far cresce i propri figli. Vedo grave che ci venga chiesto di sminuire i nostri cuori e la nostra mente, e la nostra legislazione, per aumentare le fragilità, le confusioni, la incertezza di futuro dei bambini.

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pensieri

L’INTERVENTO

La politica del Pd e del Pdl comprime i cattolici nei due schieramenti

Il diavolo e l’acqua santa di Luca Volontè osa c’entra il desiderio smodato di Francesco Rutelli per un alleanza con i rossi arcobaleno e la bramosia affettuosa di Walter Veltroni verso i radicali di Marco Pannella, con la presenza in lista di Paola Binetti e i teo-con? L’identità evanescente consente di unire gli opposti, il diavolo e l’acqua santa, il sale col pepe, la pasta con la benzina. La stessa evanescenza riguarda il Pdl che unisce l’inconciliabile Eugenia Roccella con la Stefania Prestigiacomo, Gianfranco Fini e Carlo Giovanardi, Daniele Capezzone e Alfredo Mantovano. Si inneggia alla novità e alla mediazione, novità di contenitori sempre più chiaramente eterogenei e mediazione di «principi non

C

negoziabili», quindi non mediabili. Sarebbe da ridere se non fosse da piangere. Dispiace che la cadrega, sì la seggiolina in Parlamento valga più non solo della coerenza personale ma pure dei principi di cui ci si è fatti vanto per molti anni di

L’accordo di Veltroni con i radicali dice che continua il modello di «contenitori politici» sempre più eterogenei, assemblati solo per vincere impegno. Dove sono finiti gli ideali del family day e del referendum? Dove la ragione per cui si rilasciavano interviste, scrivevano articoli, votava secondo coscienza se poi, pur di aver quel posto sicuro si butta in soffitta

ugo Chávez ha festeggiato i suoi nove anni di governo, dicendo che nel febbraio del 1999 «iniziò a cambiare la storia del Venezuela, iniziò una nuova epoca» per il Paese, «che era una colonia dell’impero nordamericano». Si sono vantati grandi risultati sul piano della crescita economica, della lotta alla povertà, «degli investimenti in materia di salute, educazione, alimentazione». E nel contempo sono stati delineati i compiti per il prossimo futuro: «Vincere la burocrazia, la corruzione, migliorare l’efficienza». E come intende fare il dittatore di Caracas per risolvere questi problemi? La notizia è confermata: manda i venezuelani a scuola di marxismo-leninismo. Quattro ore settimanali di lezione di «dottrina socialista» per imprenditori, dirigenti delle imprese pubbliche e private, impiegati dei ministeri e addirittura per i militari. Stiamo assistendo all’iperbole grottesca di un regime dispotico che il suo capo vuole consolidare sul piano ideologico interno e presentare all’esterno come il modello di «socialismo del XXI secolo». Questa operazione di ideologizzazione di massa è degna erede della vecchia propaganda comunista, ma al di là dell’evidente intento pubblicitario, è un passo di temibile portata politica. Chávez vuole sfruttare infatti l’onda anomala di consenso di cui gode anche all’estero, dovuta a un’astuta politica di alleanze strategiche di tipo economicoenergetico fondate sull’odio antiamericano e antioccidentale. I fatti finora accertati sono: il proposito di costituire una forza militare congiunta fra alcuni Stati sudamericani; l’asse petrolifero e ideologico ormai consolidato fra Venezuela e Iran; la costituzione dell’Alba (Alternativa bolivariana per le Americhe), progetto di cooperazione politica, sociale ed economica promosso da Venezuela e Cuba, cui aderiscono Ecuador, Bolivia e Nicaragua, in opposizione all’Alca (Area di libero commercio delle Americhe) voluta dagli Stati Uniti; e infine, fatto forse più inquietante

H

ciò che non è rigettabile. Mediare i «non negoziabili» è come mediare se la vita comincia dal concepimento o meno, giocare con le dita sui giorni che si concedono al neonato per essere definito tale, oppure discutere fino, in base a quali vantag-

gi, una famiglia è tale rispetto ad una piccola famiglia fondata sul matrimonio. Incredibile, cosa non si fa pur di esserci e vincere, alla ricerca del voto in più si raccatta tutto e in suo contrario, esattamente come due anni fa aveva fatto

Romano Prodi. Il grave è che lo stia facendo pure il Pdl, ormai legato a movimenti simmetrici all’avversario gemello. Quindi come dovrebbe comportarsi un elettore cattolico, cristiano o almeno di buon senso che tiene alla vita umana, alla famiglia e alla libertà di educazione? C’è una opzione, c’è un originale presenza di coloro che si ispirano alla dottrina sociale della Chiesa e che seguono la ragione, prendendo sul serio i «non negoziabili», mettendoli al centro delle loro azioni. L’originale è sempre meglio della patacca, le due immense patacche sono pure immense ammucchiate, dove trovi di tutto. Scimmiottano con taluni candidati la coerenza cattolica ma ammiccano

Pro-memoria per il futuro governo

Se Hugo Chávez è una minaccia urge una risposta di Renato Cristin

di tutti, il rafforzamento della cooperazione, anche in ambito militare, con la Cina. In questo maxiscenario da brivido si inserisce il piccolo passo sul terreno dell’indottrinamento, una specie di rivoluzione culturale cinese su scala mignon. Se il tentativo di introdurre la religione islamica in alcune popolazioni indie è, di fatto, velleitario e tutt’al più proiettato sul lunghissimo periodo, l’annunciata campagna di educazione neomarxista può invece dare risultati concreti, anche nell’immediato. Se pensiamo all’influenza che Chávez esercita oggi su gran parte dei paesi latinoamericani, è chiaro che questa ideologizzazione forzata può avere ripercussioni a lunga gittata. L’intero Sudamerica sta diventando infatti un esplosivo laboratorio per sperimentare le nuove forme di comunismo che meglio possono attecchire nell’epoca della globalizzazione, della crisi dei valori occidentali e dell’aggressione islamista, dei nuovi conflitti planetari e delle modificazioni climatiche. Chávez lo ha percepito, ha iniziato ad agire e va giù pesante. In un recente discorso ha affermato testualmente: «Se e quando la proprietà privata si subordinerà al progetto socialista, essa continuerà a esistere. Quella

verso i radicali, abbracciano l’operaismo di sinistra ma sposano le idee liberali. Tutto, come nella coalizione di Prodi, tutti uniti nell’evitare i veri problemi del Paese, pur di vincere. Serietà e coerenza, vale per ragioni opposte e idealità totalmente diverse per Bertinotti, sono merce rara ma possiamo pensare che oggi serva meno serietà o più serietà. Ne serve di più, molto di più di prima e anche queste convulsioni elettoralistiche sono la riprova della sfacciata ipocrisia dei due «gemelli siamesi». L’Udc di Casini al centro e Bertinotti alla sinistra sono le vere alternative al regno del caos elettorale, al bidone esplosivo che preparano Pd e Pdl.

che non lo farà, è condannata progressivamente a sparire». Fatta la tara dal delirio di onnipotenza e dalle implicazioni caricaturali che l’avvolgono, il piano chavista si presenta come il più massiccio progetto pedagogico avviato in Sudamerica dopo le missioni gesuitiche del XVIII secolo. Gli Usa, e con essi tutto l’Occidente, dovrebbero quindi stare ben all’erta, perché anche se oggi questo piano generalizzato di lavaggio del cervello dovesse abortire, l’idea è lanciata. Ci sono ancora spazi per intervenire, perché in molti paesi sudamericani la società civile è pluralistica e culturalmente avanzata, ma occorre un’iniziativa, preferibilmente europea, a vasto raggio. Servono azioni concrete per rafforzare le strutture autenticamente fedeli al liberalismo politico ed economico e, soprattutto, per vaccinare le masse non soltanto contro il virus latinoamericanamente modificato del sovietismo, ma pure contro una sinistra sedicente moderata che si maschera da liberale. Urgono iniziative, anche da parte italiana. Il governo Prodi ne aveva avviata una, ma che ovviamente andava nella direzione inversa, a incentivare cioè proprio gli inquietanti esperimenti della sinistra globale in numerosi e svariati luoghi del Sudamerica. Quell’azione era tutta negativa e per di più è stata l’unica consistente azione italiana degli ultimi decenni. Raccomandazione pressante al governo prossimo venturo: bisogna subito invertire la rotta e, finalmente, intraprendere un ponderato, articolato, massiccio ed efficace programma italiano per l’America Latina. Un «piano Berlusconi» analogo a quello che gli Usa organizzarono per l’Italia dopo la prima guerra mondiale. Se non è per caso che l’America del Sud è definita «latina», e se vogliamo ridare dignità a quell’origine e all’italianità che di quell’origine è l’erede principale, il nostro Paese deve impegnarsi a fondo e dimostrarsi, anche nei confronti del Sudamerica, all’altezza della sua tradizione e del suo nome.


&

parole

se avesse ragione Fiorello? Certo, ha detto quello che ha detto e poi ha corretto (parzialmente) il tiro. Ma cosa ha detto di tanto scandaloso? Una cosa semplice semplice che dovrebbe essere il sale del buongoverno: io ti eleggo e tu amministri. In Campania accade il contrario: io ti eleggo e tu disamministri. Perché, dunque, votare? Massimo D’Alema l’altro giorno a Radio anch’io ha ripetuto il medesimo concetto: «L’emergenza rifiuti? La considero la sconfitta di un’intera classe dirigente». E quando una classe dirigente fallisce va a casa, semplicemente perché ha dimostrato con parole, opere e omissioni di non saper amministrare. In Campania accade il contrario: chi ha fallito si candida. Mezza giunta Bassolino traslocherà da Palazzo Santa Lucia a Montecitorio. Un premio all’inefficienza. La Campania è tuttora una regione che vive in una normale situazione di emergenza. I rifiuti sono tanti, troppi e le discariche, che sono una misura tampone, sono poche, insufficienti. Tutti sanno che il lavoro di Gianni De Gennaro, portato avanti con costanza dal superprefetto superando giorno dopo giorno tanti ostacoli, è solo un pannicello caldo. La Campania è qualcosa di più di una terra senza governo. È l’immagine stessa di un Paese in cui i problemi non sono risolti, bensì portati in discarica.

E

D’Alema, ministro degli Esteri uscente, alla radio ha aggiunto: «C’è una responsabilità condivisa in questa vicenda che rappresenta una sconfitta di tutti noi.Trovo abbastanza meschino che su una storia di questo tipo ci sia il rimbalzo delle responsabilità. La destra presenta la vicenda dei rifiuti come la sconfitta della sinistra. Sarebbe troppo facile dire che la gestione del tema rifiuti in Campania è una gestione governativa, commissariale, quindi del governo centrale. E per cinque anni al governo ci sono stati loro e non hanno risolto nessun problema». Bassolino, già ministro del Lavoro nel primo governo D’Alema (mentre era contemporaneamente sindaco di Napoli), ha le sue grandi responsabilità politiche, istituzionali e amministrative (sulle quali ci sono processi in corso). È un punto fermo. Tuttavia, che la Campania rappresenti «una sconfitta di tutti noi», come dice D’Alema, è indubbio. La tristissima vicenda della Campania è la metafora di un’Italia capovolta in cui la politica agita problemi per prendere voti ma non prende voti per risolvere problemi. Lo sfogo di Fiorello appare così più che legittimo: a che pro votare se il risultato è la Campania? La cronaca delle vicende campane è qualcosa che somiglia più a un dopoguerra che a una normale vita quotidiana di una nazione moderna. Girare in auto da Napoli a Caserta o farsi un giro nell’immenso hinterland che guarda il Vesuvio e si distende su Terra di Lavoro

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Se avesse ragione Fiorello. A che pro votare quando il risultato è la Campania

DEI RIFIUTI? di Giancristiano Desiderio

Il sale del buongoverno dovrebbe essere questo: io ti eleggo e tu amministri. È invece accaduto il contrario significa contemplare montagne di spazzatura di ogni ordine e grado. La spazzatura è talmente parte dell’arredo urbano e delle campagne malate che quando si entra in qualche zona franca si desta la meraviglia. A Svignano c’è tregua, ma fino a quando. Ha riaperto il Cdr di Santa Maria Capua Vetere, ma ha chiuso la discarica di Ferrandelle.

A San Giorgio a Cremano sono state prelevate una cosa come cinquantasette tonnellate di immondizia, mentre a Quarto sono conferite cento tonnellate al giorno per cinque giorni: ma la produzione media giornaliera è di cinquanta tonnellate. Non si fa in tempo a togliere che arriva dell’altra spazzatura. Ma è così ovunque. Solo che «ovunque»

esiste un ciclo industriale di smaltimento dei rifiuti, mentre in Campania si è lontani almeno due anni, se tutto andrà per il meglio, dal poter avere uno straccio di termovalorizzatore. E qui le responsabilità della sinistra, da Roma a Napoli, sono davvero enormi: la diffusione di una falsa cultura ecologista sempre e comunque contraria a un procedimento industriale di smaltimento dei rifiuti ha ridotto la Campania in uno stato di anarchia. Non a caso il nuovo assessore regionale all’Ambiente, Ganapini, nominato da Bassolino è fermamente contrario ai termovalorizzatori. Accade così che un paesino piccolo piccolo, Sant’Arcangelo Trimonte, nel Beneventano, appena 691 abitanti, abbia un record nazionale: ben due discariche. Quando non si sa dove collocare tutta la spazzatura della Campania si ricorre a Sant’Arcangelo Trimonte che in nome della solidarietà e roba avariata del genere deve buttare giù bocconi amari e velenosi: «Approfittano di noi dice il sindaco Aldo Giangregorio - come se l’America dichiarasse guerra allo Stato di San Marino”.

La Campania è una terra malata. A Marigliano hanno fatto dei sondaggi e dal sottosuolo sono usciti bidoni dal contenuto tossico. Nella manifattura tabacchi a San Giovanni a Peduccio dal terreno emerge un liquido nero di petroli e idrocarburi. Ma non si tratta di casi isolati. Nella campagna di Sant’Agata dei Goti hanno fatto delle indagini: anche qui dal sottosuolo sono emersi rifiuti altamente tossici. La Campania è una terra malata. La sua malattia si chiama autoinganno. Si è arrivati al collasso perché la politica ha sistematicamente negato a se stessa la verità sui rifiuti, sulla criminalità, sulla corruzione, sulla sanità, sui conti pubblici, sulla povertà diffusa. L’autoinganno è quanto di più pericoloso: chi inganna se stesso perde ogni contatto non solo con il pubblico e gli elettori, ma con il mondo reale. Si crede di poter condurre una vita autonoma e mettersi in salvo, ma è un grave errore perché il mondo reale, il mondo dei fatti che sono così duri a morire, presto o tardi si vendica e travolge tutto. Speriamo solo che la Campania non sia la punta più avanzata dell’Italia.


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mondo

La forte avanzata del partito di estrema sinistra spiazza la politica tedesca basata su quattro partiti

L’incognita Linke arriva ad Amburgo e manda all’aria gli equilibri politici di Katrin Schirner

BERLINO. Domenica prossima ci saranno le elezioni nella regione di Amburgo ed è molto probabile che la “Linke” farà il suo ingresso nel Parlamento del Land. Già dopo le elezioni del mese scorso in Assia e Bassa Sassonia è apparso chiaro che la nuova forza di sinistra è diventata un soggetto stabile del panorama partitico tedesco. Secondo l’ultimo sondaggio a livello federale dell’istituto Forsa pubblicato dal settimanale Stern, il 13 per cento dei tedeschi voterebbe per la Linke, e solo il 9 per cento per gli altri partiti oggi all’opposizione,Verdi e liberali (Fdp). La Linke. movimento formato dall’unione di parte degli ex comunisti della Ddr (la Sed) con una fronda della sinistra socialdemocratica (SPd), era un tempo confinata all’interno del territorio della ex Germania orientale; ora è riuscita a penetrare definitivamente in quella occidentale e gli ultimi avvenimenti legati allo scandalo sull’evasione fiscale di alcuni mega-ricchi tedeschi non hanno fatto che rafforzare la sua popolarità. Questo muta radicalmente il panorama politico tedesco, basato sinora sulla coesistenza di quattro partiti storici. Con cinque partiti infatti, risulta sempre più difficile formare le abituali coalizioni di governo nei singoli parlamenti, quella giallo-nera (formata dai conservatori della Cdu e dai liberali della Fdp) e quella rosso-verde (formata dai socialdemocratici della Spd e dai Verdi). Anche la Grande Coalizione che governa a Berlino è nata per questo motivo: i due gruppi tradizionali non riuscivano da soli ad arrivare alla maggioranza. Una difficoltà, quest’ultima, che si sta registrando anche in Assia. Fino a questo momento tutti i partiti si rifiutano di prendere in considerazione la Linke per formare una coalizione e tale ritrosia non è solo di ordine ideologico. La Linke non ha ancora un programma vero e proprio. La sua unica piattaforma è la protesta strutturata e la polemica continua sulle posizioni de-

gli altri partiti, senza però offrire in cambio alternative. Per il suo Presidente Oskar Lafontaine questa è la strada che dovrebbe garantire il successo alla Linke anche in futuro. Egli ha da ridire anche su consolidate forme di compromesso come nel caso di Berlino, il cui governo regionale è formato da una coalizione tra Spd e Linke. Di qui l’atteggiamento di Lafontaine volto a spingere i propri compagni verso la rottura con la Spd. L’impossibilità di un avvicinamento tra la Linke e i socialdemocratici è causata in gran parte, dunque, anche dalla stessa persona di Lafontaine. Non va dimenticato che egli è stato un tempo presidente della Spd e ministro delle Finanze nel primo governo Schroeder, prima di abbandonare nel 1999 rinunciando a tutti gli incarichi. Negli anni successivi ha scatenato una guerra mediatica personale contro la Spd ed il suo Cancelliere. Ancora oggi sembra voler usare il suo nuovo incarico nel partito per umiliare ed incalzare da sinistra la Spd. Comprensibile quindi che que-

Secondo l’ultimo sondaggio il 13 per cento dei tedeschi voterebbe per Lafontaine e solo il 9 per cento per gli altri partiti all’opposizione st’ultima non si senta tentata a ricercare un’intesa con la Linke, almeno finchè alla sua guida rimane Oskar Lafontaine. L’aspetto personale, tuttavia, non spiega interamente il motivo per il quale i socialdemocratici preferiscono allearsi, almeno per ora, con la Cdu o, al limite, andare all’opposizione. Ad influire pesantemente è anche il comportamento confuso e caotico del ceto politico della Linke nell’ovest della Germania. I “compagni” della Linke sono spesso privi di esperienza politica o parlamentare. Per tanti politici tedeschi dei partiti tradizionali è vissuto come un incubo avere a che fare con gente priva di disciplina e un

programma di partito. A Brema, dove la Linke siede in Parlamento sin da maggio 2007, tutto ciò è chiaramente visibile: conflitti di potere, polemiche su qualsiasi tema politico. La Linke di Brema ha avuto di fatto a che fare solo con se stessa. Tanti membri della Linke, inoltre, sono talmente radicali nelle loro opinioni, da non essere accettabili neanche dal proprio Partito. In Bassa Sassonia la deputata neo-eletta Christel Wegener è stata recentemente esclusa dal gruppo parlamentare. La Wegener, membro del partito comunista Dkp (partito fratello occidentale della vecchia Sed della Ddr) aveva definito in un’intervista televisiva la Stasi (il famigerato servizio segreto della Ddr, responsabile di aver spiato ed arrestato numerosissimi cittadini) «un’organizzazione necessaria».

Ad Amburgo si candida un esponente dalle convinzioni decisamente contrarie alla costituzione tedesca. Si tratta di Olaf Harms, anche lui membro del Dkp, il quale intende aboli-

re la proprietà privata delle aziende e dei terreni ed ha definito come un “modello”la politica di espropri della vecchia Ddr. Nonostante questi problemi i socialdemocratici saranno sempre più pronti a collaborare con la Linke non appena le ostilità personali andranno via via allontanandosi e i vecchi residuati comunisti della Ddr verranno messi in soffitta. Per la Cdu questo significa non potersi più limitare all’opzione giallo-nera (intesa con i liberali). Secondo i sondaggi la Linke potrebbe entrare anche nel parlamento di Amburgo. La Cdu - con il suo leader Ole von Beust - non potrà dunque governare con i liberali del Fdp. Per rimanere al potere potrebbe tentare l’accordo anche con i Verdi. Ciò rappresentarebbe un segnale importante anche in vista delle elezioni federali del 2009 e per questo motivo anche i democratici cristiani della sede centrale del partito a Berlino guardano con attenzione agli avvenimenti di Amburgo di domenica prossima.


mondo

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d i a r i o

d e l

g i o r n o

Musharraf resiste, Sharif attacca Nonostante il duro colpo inflitto al regime del presidente pachistano Pervez Musharraf dalle consultazioni elettorali, le intense trattative per la formazione di un nuovo governo dimostrano che i partiti della vecchia opposizione non hanno i numeri per allontanare definitivamente l’ex generale dal potere. Intanto Nawaz Sharif, il leader di uno dei due partiti dell’opposizione che hanno vinto le elezioni di lunedì, ha detto che il potere del presidente è «illegale e incostituzionale».

A Baghdad per un giorno Il ministro degli Esteri iracheno, Hoshyar Zebari, ha ribadito ieri che la visita del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, avrà luogo nella data prestabilita, cioè il 2 marzo prossimo, durerà un solo giorno e sarà limitata alla capitale Baghdad. E ha smentito che l’ospite iraniano incontrerà esponenti Usa durante la breve sosta, ma che si limiterà soltanto a incontrare la dirigenza irachena.

I voli segreti della Cia

India: è donna, paria, primo ministro dell’Uttar Pradesh e mira a Delhi

Il sogno di Naina di Maurizio Stefanini la prima paria, donna e intoccabile assieme, a essere diventata primo ministro di uno Stato dell’Unione Indiana: il più popoloso, tra l’altro. Il suo nume ispiratore è quel Bhimrao Ramji Ambedkar che fu un padre della Costituzione indiana e che consigliava agli intoccabili di convertirsi al buddhismo per sottrarsi al sistema di discriminazioni dell’induismo. È leader di un partito che ha come simbolo un elefante e che dichiara di richiamarsi al socialismo democratico, ma che è nemicissimo di un altro partito pure socialista democratico che è forte nello stesso Uttar Pradesh,“Regione Settentrionale”, e che ha invece come simbolo una bicicletta. Ed è alleata a livello nazionale al partito del Congresso di Sonia Gandhi, così come si è alleata in passato alla destra del Bharatiya Janata Party (Bjp): tutto, pur di contrapporsi sempre e comunque al partito della bicletta, che sta invece con i comunisti. Ma adesso ha annunciato di voler puntare addirittura al governo nazionale di New Delhi.

È

posto che aveva ottenuto a scuola lo ha poi lasciato a 28 anni per diventare politica professionista, partecipando alla fondazione del Bahujan Samaj Party: il Partito della Maggioranza della Società, rivolto allo strato più basso tra gli intoccabili. Anche i loro rivali storici del Samajawadi Party, il Partito Socialista, sono paria: ma di un livello un po’ più alto. Già tra 1995 e 1997 era riuscita a diventare chief minister dell’Uttar Pradesh, e il colpo le era riuscito di nuovo tra 2002 e 2003: stavolta col sorprendente

programma concepito per includere: cosa tanto più sorprendente, se si pensa che aveva iniziato a fare politica minacciando di colpire le caste alte a colpi di scarpa. Un insulto terribile, per la tradizione indù…. «Gli altri partiti promettono e non mantengono. Noi facciamo quello che diciamo», recita il suo slogan. L’elettorato sembra soddisfato. Così, adesso nella prima intervista rilasciata dopo la vittoria ha detto di stare puntando direttamente alla carica di primo ministro nazionale per il voto dell’anno prossimo. «Il mio obiettivo ultimo è Delhi», ha detto. «C’è un 20-25% di paria nella maggior parte degli Stati, e il loro appoggio basterebbe a darmi il successo». I critici attaccano il suo mostrarsi continuamente ingioiellata di diamanti; il suo riempire l’Uttar Pradesh di statue di grandi intoccabli del passato e anche di sé stessa; e soprattutto una fortuna ufficialmente dichiarata di oltre 13 miliardi di dollari dalla incerta fonte e dalle improbabili origini: si parla di tangenti e mazzette. Ma gli analisti avvertono invece che la sua ricchezza e i suoi diamanti la rendono popolare tra gli intoccabili, almeno quanto la sua età relativamene giovane, in un Paese dove il più dei politici sta tra i 70 e gli 80 anni. La percepiscono come una di loro che ce l’ha fatta.

Naina Kumari ha una fortuna di 13 miliardi di dollari. Il suo slogan è: «Gli altri partiti promettono e disattendono. Noi facciamo quello che diciamo»

È Mayawati Naina Kumari, 52 anni, figlia di un impiegato al ministero delle Telecomunicazioni assunto grazie alle quote riservate per gli intoccabili, e lei stessa con diploma di insegnante e laurea in legge grazie alle stesse quote. Ma il

appoggio del Bjp, che rappresenta le caste superiori. Nel frattempo, dal 2001 aveva preso la testa del partito. Nel maggio 2007 ha spazzato via tutto, appunto come l’elefante del suo simbolo, con 207 seggi su 402 nell’Assemblea di questo Stato che da solo ha 187 milioni di abitanti: più della Russia! Contro 97 del partito della bicicletta, 51 del Bjp e 22 del Congresso, e contro i 67 che aveva in precedenza. È l’unico Stato in India che oggi sia governato da un partito solo, e non dalle solite, pletoriche coalizioni. Strategia vincente, la cosidetta coalizione arcobaleno. Ovvero un’alleanza diretta tra paria e bramini, superando i vecchi patteggiamenti settoriali con l’appello a un

Due voli segreti della Cia, ognuno con a bordo un presunto terrorista da trasportare in un altro Paese, atterrarono nel 2002 per rifornimento a Diego Garcia, la più importante isola del territorio britannico nell’Oceano Indiano, dove si trova un’importante base militare statunitense. Lo ha ammesso il capo del Foreign Office, David Miliband. Forte lo scandalo, ma il primo ministro britannico Gordon Brown ha già fatto sapere che non chiederà la testa di Jack Straw per non aver saputo nulla degli scali. Straw ai tempi era ministro degli Esteri, mentre oggi guida il dicastero della Giustizia.

McCain nega liason con lobbysta Il principale candidato repubblicano il lizza per la Casa Bianca, il senatore dell’Arizona John McCain, ha negato di aver avuto relazioni extra-coniugali con una lobbista di Washington. Lo ha dichiarato lo stesso McCain in risposta ad un articolo pubblicato sul New York Times. «Sono molto dispiaciuto per questo articolo. Non è vero», ha detto McCain in una conferenza stampa a Toledo, Ohio, con la moglie Cindy al suo fianco.

Obama vince primarie all’estero Barack Obama ha vinto le primarie del Partito democratico fra i cittadini statunitensi residenti all’estero conquistando il 65,6% dei voti nelle consultazioni che si sono tenute in 164 paesi di tutto il mondo fra il 5 e il 12 febbraio, contro il 32,7% della sua rivale Hillary Clinton. In palio ci sono sette delegati.

Colloqui fra Cina e Vaticano Con una rara ammissione pubblica, il governo di Pechino ha confermato che ci sono stati colloqui con il Vaticano. Lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri, Liu Jianchao, senza però indicare né quando neé dove siano avvenuti i contatti, né tantomeno chi vi abbia partecipato o a quale livello. In tutto in Cina, ci sono oltre dodici milioni di cattolici: 8 milioni legati alla Chiesa di Roma, costretti a professare la loro fede in clandestinità, 4 milioni che invece fanno riferimento all’Associazione Patriottica cattolica.

Cittadinanza provvisoria Il nuovo sistema proposto dal governo di Londra per la concessione della cittadinanza (earned citizenship) introdurrà un nuovo status di ”cittadino in prova” per gli immigrati che chiedono il passaporto britannico. Il periodo di ”cittadinanza provvisoria” durerà da uno a tre anni e l’esito della prova dipenderà dal grado d’integrazione dell’aspirante cittadino nella comunità britannica.

L’Islam non nega donne al volante Il divieto di guida imposto alle donne non ha niente a che vedere con l’Islam. Ad affermarlo lo sceicco Abdul Mohsen Al Obaikan, membro del Consiglio che raduna le più importanti figure islamiche del regno saudita. La proibizione è il frutto di fatwa promulgate in base a valutazioni personali. «In linea di principio, l’Islam permette alla donne di guidare» e il divieto - ha spiegato lo sceicco - ha più a che fare con le complicazioni sociali che con l’atto di per se».


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speciale approfondimenti

Carte

Cinque risposte a una domanda ch

AN: COSÌ In Carte di questa settimana abbiamo chiesto a cinque noti intellettuali, più o meno vicini idealmente ad Alleanza Nazionale, di esprimere il proprio pensiero sull’iniziativa di Gianfranco Fini di sciogliere il suo partito all’interno del Popolo della libertà. Mentre Riccardo Paradisi è andato a sondare gli umori della ”base”

Mentre Casini ha ripiegato sul passato Dc

Bravo Fini, hai colto la bella novità del Pdl di Gianni Baget Bozzo è un antico problema di rimozione dell’identità che ha accompagnato l’Msi, da Almirante in poi, e che ha avuto la prima svolta al convegno di Fiuggi. Fini comprende che il suo punto di arrivo è il Partito popolare europeo, dove può contare sul supporto di Josè Maria Aznar e di Nicholas Sarkozy. In Alleanza Nazionale vi è un sentimento diverso, perché i suoi dirigenti temono che il cambiamento di figura politica crei problemi nella loro militanza e comporti anche una alterazione nella scelta dei dirigenti. E per questo l’iniziativa di scioglimento viene vista come un trauma. Non è esatto che dei quadri del partito legati alla periferia e alla base vi sia consenso nello sciogliere un partito che ha una lunga storia e una militanza che ha richiesto in vari tempi testimonianze totali, sopportato l’emarginazione e il disprezzo. Vi era nel Msi una tradizione di opposizione eroica al sistema e la sua memoria rimane viva nella base del partito, come mostra il caso della scissione di Francesco Storace che ha assunto come nome la “destra”, per indicare che Fini trasmigra al centro. Non vi è gioia in Alleanza Nazionale per un passaggio che rende il presidente decisore dell’identità del partito e quindi di ciascuno dei suoi dirigenti e militanti che hanno una lunga memoria alle spalle e in cui i giovani trovano un radicamento nella loro identità di opposi-

C’

zione al sistema. Il cambio della figura, l’adesione al Popolo delle libertà non corrisponde né ai loro nomi né ai loro simboli. E’ una scelta imposta non una scelta accettata a cuor leggero perché appare come la propria autocancellazione.

Nell’Udc la decisione di Berlusconi di escludere Casini è stata sentita come una catastrofe. I dirigenti del partito, salvo che in Sicilia con Cuffaro, non hanno base e sono eletti solo in grazia di Berlusconi. L’Udc è, alla base, una corrente di Forza Italia, non ha una forza politica propria. Casini ha un potere personale, anche per il sostegno familiare del gruppo Caltagirone. Anche l’Udc è in gran parte un partito proprietario nella figura del suo leader. Nel nord l’Udc non esiste ed è stato per questo che Casini ha scelto di denunciare la decisione di correre come presidente del Consiglio a Mestre. L’Udc ha così perso ogni possibilità di ottenere, salvo che in Sicilia, il premio di maggioranza alla Camera ed è dubbio che possa riceverlo, salvo che in Sicilia, al Senato. Inoltre non può fondersi con Mastella e con Tabacci perché ciò significherebbe includere l’Udc nel partito democratico, senza però parteciparvi. L’Udc è il partito di un uomo, nonostante Casini dica di aver scelto la libertà da un principio proprietario. Turbamento in An, panico nell’Udc, questo è l’effetto della nascita del Popolo delle libertà.


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he finora nessuno si è posto seriamente. Mentre l’Udc ha difeso il suo simbolo…

FACILE RINUNCIARCI?

Da una parte «il predellino» della Brambilla, dall’altra «la caricatura» di Storace, così finisce la storia della destra

No, è la brutta fine di un nobile partito di Franco Cardini ha fatte Gasparazze – facimmel’anca’ nnuie; jamme, cumbagne – pisciamm’in copp’a’ ffiamme». Era lo slogan cantato, scandito e scritto sui graffiti di quelli dell’ala dura di «Lotta Continua», gli operai del bacino industriale barese, a metà degli Anni Settanta. Ed era logico che se la prendessero con la fiamma tricolore del Msi: la Puglia, terra di Giuseppe Di Vittorio e del sindacalismo rosso di Cerignola, era anche quella della dinastia Caradonna, di Di Marzio, di Araldo di Crollalanza e di Pinuccio Tatarella. la terra degli squadristi agrari, ma anche del fascismo movimentista, animato da una forte vocazione sociale e quindi in grado di far breccia anche tra i portuali e i metallurgici. Una trentina di anni più tardi, Gasparazzo – bella maschera operaia, Cipputi del sud – può

«L’

abbottonarsi pacificamente i pantaloni: i suoi esercizi prostatici non sono più richiesti. la fiamma è stata spenta dal Gran Pompiere in persona, l’uomo che ancora una quindicina d’anni fa parlava del Fascismo per il Duemila; ma che più tardi, passando le acque a Fiuggi insieme con il suo partito e con una buona quantità di ex-Dc e di cattolici o liberaldemocratici alquanto pirofobi, aveva già esercitato una certa diuresi metaforica nel senso proprio auspicato dal proletario terrunciello. Dopo Fiuggi, la fiamma tricolore (in campo solitamente ma non obbligatoriamente nero) del Msi si era ridotta, sui vessilli bianco-azzurri di Alleanza Nazionale (la stessa partitura orizzontale dei colori delle auto della Polizia di Stato: sintomatica coincidenza cromatica), a una fiammella abbastanza timida. Ora, sciolta An – salvo un «contr’ordine, ex-ca-

A Fiuggi An ha risolto l’eredità missina gettando il bambino con l’acqua sporca

merati» che pare a questo punto improbabile – e non si sa se «fusa» o «confluita» nel Popolo delle Libertà, il focherello d’almirantiana memoria (reminiscenza un po’ arditesca, un po’ arieggiante un simbolo militare, un po’ evocante immaginette religiose tipo Sacro Cuore) potrebbe forse venir rivenfoicato dalla coppia Storace-Bontempo, la quale per il momento si è accontentata di un simbolo succedaneo che però, sarà un caso, richiama piuttosto la fiaccola della newyorkesca Statua della Libertà. È un explicit logico, una fine da lungo tempo annunziata. A Fiuggi, An aveva metabolizzato l’eredità missina gettando senza dubbio via l’acqua sporca del bagnetto, l’inerte e un po’ maleolente liquame neofascista; ma, insieme, gli era caduto nel cumulo del materiale da buttare anche il bambino. Peccato: era in fondo un fanciullo gracilino, dalla salute un po’ compromessa, ma non da sopprimere. Era la vocazione sociale del Msi; era il suo senso dello stato e della giustizia; era la sua rivendicazione d’un passato discutibile e magari condannabile, ma vissuto e ricordato in buona fede, con una vo-

La dirigenza del Pdl è una palude. Fini ci fa la figura del grande statista glia di riscatto e d’onore che mirava a valorizzare non tanto la qualità di certe scelte (quella della Rsi, per esempio), quanto la dignità e la pulizia morale di chi aveva intrapreso quella strada ben sapendo ch’era quella della sconfitta; era la sua italianità che in qualche settore d’avanguardia (o magari di nicchia) sembrava voler sublimare il vecchio e provinciale patriottismo italiano in un nuovo patriottismo europeista. Ma tutte queste cose non avevano più diritto di cittadinanza nella nuova compagine politica, nata con la volontà di partecipare al potere e a differenza del Msi piena non di quadri intermedi disposti a restar ghettizzati, bensì di giovani rampanti che già miravano a poltrone, sedie e sgabelli e magari di meno giovani ch’erano stufi di essere per decenni vissuti di briciole e ambivano ormai an-

che loro a una brava fetta di potere, meglio se con un bel po’di arretrati. An ha vissuto quasi più o meno tre lustri di vita ibrida, continuando a strizzar l’occhio ai vecchi «nostalgici», cercando di non perdere le frange estreme ch’erano di solito le meno presentabili, ma talvolta invece le più interessanti e creative, e al tempo stesso aprendosi sempre più alla buona piccola borghesia, al ceto medio «liberale» e «moderato» , a quelli che avevano votato un tempo Dc o magari perfino Psi ma che, se qualche nostalgia per il fascismo potevano cullare, ciò dipendeva soltanto dal fatto che – da quei forcaioli che erano – in esso vedevano (vedono) soltanto la forca, e piaceva (piace) loro, ed era (è) garanzia dell’unico tipo di «or-

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speciale approfondimenti

Carte

segue da pagina 13 dine» ch’essi erano (sono) in grado di concepire. Non certo l’Ordine Nuovo, né in gramsciana, né in veterorautiana accezione. Solo l’ordine per le strade. Non so e non ho mai capito se Fini sia un buono stratega. Sono certo che sia un buon tattico. Ridotta com’era al principio del 2008, An non era più nulla: a parte i vecchi gentiluomini come Mirko Tremaglia. Qualcuno al suo interno continuava sì a perpetuare l’equivoco della «destra sociale», un po’ per tranquillizzare la sua coscienza un po’ per non perdere una qualche percentuale di voti (quanti, ormai? un 2 per cento?); ma, per il resto, non riusciva a dir più nulla che la differenziasse sul serio da Forza Italia. Soprattutto in politica sociale e in politica estera: proprio le due cose che avrebbero potuto differenziarla. Come poi Fini pensi di continuare a conservarsi un elettorato di ceto medio-basso, di piccolissimi borghesi (che non sempre però equivale a borghesi piccoli piccoli), di lavoratori dipendenti, portandoli sotto l’ala di un leader capace solo di far gli interessi anzitutto suoi, e quindi degli imprenditori e della borghesia dei professionisti e dei commercianti, questo non lo so. Però Fini ha sgamato un’altra volta: nel partito unico «liberale» e «moderato», occidentalista atlantista e liberista, a parte Tremonti e pochi altri non ci sono possibili futuri leaders che possano fargli ombra. Casini, che avrebbe potuto, ha scelto un’altra via. Chi rimane? Bondi? Schifani? Cicchitto? La bella sciura Brambilla? Non scherziamo. La dirigenza del centro-destra (a parte appunto Tremonti e qualcun altro, però di secondo piano) è il limbo, la palude, il malinconico cimitero delle mezzefigure con qualche ex-cubista. Fini ci fa la figura dello statista di livello, del papavero alto alto tra i paperetti impaperati. E suoi colonnelli, forse con qualche residua nostalgia, forse con un filo di vergogna, hanno sgamato anche loro. A parte Gasparri e La Russa, in effetti antemarcia della fusione, gli altri non possono che stare al gioco. Quanto ai detriti del vecchio Msi, invecchiati e un pochino incanagliti, chissenefrega: possono essere regalati. Voteranno per il succedaneo tardivo, la Destra, il cui pezzo forte è lo scimmiottar la xenofobia leghista. Una fine comunque un po’ malinconica, un po’ bécera. Il partito che al suo nascere ebbe, se non proprio tra i suoi Padri fondatori, quanto meno tra i suoi estimatori nemmeno tanto occulti Gioacchino Volpe, Antonino Pagliaro ed Ettore Paratore, avrebbe forse meritato di meglio.

Le ideologie sono in coma e destra e sinistra sono solo etichette

Non bado più alle bandiere ora guardo alle azioni di Angelo Mellone ari lettori, mi scuserete se per la prima (e, giuro, unica) volta, mi rivolgerò a voi direttamente in prima persona, senza gli infingimenti di impersonalità che, dato l’argomento, apparirebbero falsi come un paio di Tod’s cinesi. Insomma, faccio parte di quella generazione che s’è trovata allegramente tra i piedi, nel pieno brufoloso (non troppo) dell’adolescenza, il muro di Berlino che crolla e, alla soglia dei vent’anni, il muro della prima Repubblica franato con altrettanta fragorosa e impressionante rapidità, portandosi appresso miti, riti, simboli che avevano fatto cinquant’anni di storia italiana. Giusto, i simboli. Per chi, come me, ha scelto di passare i suoi quindici anni in una sezione dell’Msi, o meglio appresso ai coordinamenti scolastici e alla militanza molto movimentista e molto, splendidamente confusa nel Fronte della gioventù, i simboli erano, se non proprio tutto, quasi tutto. Erano se non pro-

C

prio quasi tutto anche per quelli che non avevano grande confidenza e fiducia con il tradizionalismo e tutte quelle strane formule esoteriche che trasformavano l’idea di decadenza nella certificazione che nulla è possibile fare, per cui stiamocene tra di noi a contemplare i simboli. No, ecco, la fiamma e la fiaccola, soprattutto la fiaccola (e la croce celtica, ma lasciamo stare, entriamo nel metastorico) ma pure la fiamma erano cose serissime, simboli che nel bene e nel male rappresentavano la carta di identità di una comunità politica che, al di fuori del proprio mondo, non è che proprio godesse di grande considerazione e di luccicanti aperture al nuovo. E noi eravamo tutti figli di filastrocche noiose, trite e ritrite nell’umida ripetitività di una federazione di provincia, tipo «chi vuole bene alla mamma vota la Fiamma», sottoprodotti delle canoniche domandine su chi ci porta la luce eccetera eccetera… chincaglierie sloganistiche che,

La fiamma, rappresentava la carta d’identità di una comunità vessata

Ma ogni simbolo ha un inizio e una fine della sua capacità di rappresentazione in mancanza di meglio, ci si ripeteva a mantra quando si voleva perder tempo o prendere in giro l’immancabile vecchietto che occupava orgoglioso la sua sediolina per ricordarsi, o ricordarci, che si stava meglio quando si stava peggio. I simboli, come fare a parlar male dei simboli… Daniel Appriou, nella sua introduzione al volume Les symboles de l’histoire, scrive che «la storia è una successione di simboli e ogni simbolo ha la sua storia», nel senso – presumo – che ogni simbolo, avendo una storia, ha un inizio e una fine della sua capacità di rappresentare qualcosa di più di una macchia di colori, magari la stilizzazione di un concetto, magari l’evocazione di un’idea, magari quella cornice di cemento virtuale eppure armato che un gruppo, un movimento, un partito, pongono a difesa dei confini della propria identità. Questo sono i simboli, potentissimi vettori di passione e identificazione destinati a de-

perire, a essere biodegradabili in uno spazio, quello politico, dove i cicli vitali sono più rapidi che altrove. Quando un simbolo non racconta più, o racconta poco, o racconta di meno, deve essere messo da parte proprio per salvare e salvaguardare quelle idee, quella gente, quelle passioni che dietro un simbolo si nascondono e trovano riparo. Ecco perché, da affezionato quale sono alla forza espressiva e al potere di vincolo dei simboli, sono perlomeno dieci anni che ho smesso di chiedermi se la fiamma, la benedetta fiamma che è stata cantuccio ideale per una delle più importanti culture politiche della prima Repubblica, possa essere messa da parte oppure no, e ho smesso pure di domandarmi se sia giusto, per uno che da destra ha deciso di impegnarsi a vario titolo nella vita pubblica (con l’impegno politico o quello intellettuale, poco cambia in questo caso), assistere alla confluenza della destra


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La base militante di An tradisce angoscia e preoccupazione. Ma prevale la fiducia nel Presidente

Tutti d’accordo, eppure restano i dubbi di Riccardo Paradisi obbiamo digerirlo questo nuovo partito». Giuseppe Imposimato è un camerata di base: a lui la fusione a freddo tra An e Forza Italia non è piaciuta. «Nel metodo più che nel merito», specifica. Come non è piaciuta a quelli che l’hanno preceduto e che lo seguiranno sul palco della sala convegni dell’hotel Universo di Roma, a due passi dalla Stazione Termini. Qui è radunato lo stato maggiore della componente identitaria di Alleanza nazionale: i dirigenti e i militanti della «comunità politica e umana» che discende dalla storica sezione di Colle Oppio, fortino della militanza creativa della destra capitolina. Accanto al palco, ad ascoltare lo sfogo dei militanti, ci sono seduti dietro un tavolo, i dirigenti vecchi e nuovi della componente, i responsabili di comunità come vengono chiamati: Francesco Lollobrigida, Giorgia Meloni, Marco Marsilio, Fabio Rampelli, il capo politico riconosciuto con un passato rautiano di cui è rimasta l’attenzione per le “attività parallele” e la “metapolitica” (altro termine clichè nell’ambiente). «Dobbiamo digerirlo questo nuovo partito», dice dunque Imposimato, «però tra noi possiamo dircelo: ci brucia dover aderire così fideisticamente senza nemmeno sapere dove ci portano». È una dichiarazione di adesione, ma con una riserva mentale grossa come una casa: «Abbiamo avuto un’impressione brutta di fronte al personale di Forza Italia, ci fanno

«D

capire di essere dei fagogitati, ci sopportano». Davide Di Giacomo, capogruppo di An al decimo municipio a Roma, più che indignato è allibito: «Il partito non è stato capace di fare una riunione a livello nazionale per decidere il nostro scioglimento. Ci è stato comunicato e basta. Siamo costretti a spiegare ai nostri posizioni ogni volta diverse». Giuseppe Calendino, XX Municipio: «Sono sconcertato per questa confusione, per la mancanza di comunicazione con il vertice del partito. Faccio appello ai nostri capi comunità». Andrea de Priamo, un altro consigliere di circoscrizione, si affida invece all’ottimismo della volontà: «Anche nel nuovo contenitore sapremo ancora agire il nostro sogno di rivoluzione».

simpatia di Fini: «Il cavaliere è il paradigma dell’uomo di destra». A trarre le conclusioni è Fabio Rampelli. La sintesi è questa: «L’atto fondativo del nuovo soggetto unitario è stato anomalo ma sta a noi determinare il corso delle cose: non dobbiamo chiuderci nella torre d’avorio, ma navigare in mare aperto e misurare i rapporti di forza». L’auspicio è che riunioni come queste se ne possano fare tante altre: «Perchè la nostra gente ha bisogno di parlare e sfogarsi». C’è molta partecipazione e sofferenza dentro quel mondo umano e politico che ancora si chiama An. Peccato che a destra, come lamentava Marco Tarchi, non ci sia un Nanni Moretti capace di raccontarla.

L’intervento più colorito, dominato dalla metafora digestiva, è quello di Antonio Cicchetti, capogruppo di An alla Regione Lazio. «Questa fusione si doveva fare sei mesi fa, dice, avremmo avuto più tempo per digerirla. Ma noi abbiamo lo stomaco forte, abbiamo inghiottito di tutto: Fiuggi, le dichiarazioni sul male assoluto, la rivalutazione del ’68». Applausi. Però aggiunge Cicchetti «solo i paracarri stanno fermi» e «non ci si può affezionare a un simbolo». Ed ecco l’arditissimo parallelo: «Anche Mussolini uscì dall’Avanti per fondare il Popolo d’Italia». Un altro militante, poco dopo Cicchetti, spiega del resto che tra i militanti di An Berlusconi riscuote spesso più

politica italiana in un contenitore partitico più grande. Ho smesso di chiedermi queste due cose perché, francamente, mi sembrano discussioni già superate nel nostro tempo, dopo che le ideologie sono entrate in coma, le vecchie fratture politiche si sono scongelate, destra e sinistra sono divenute etichette appiccicate su contenuti mobili, e le identità si sono rimescolate in quel calderone di straordinarie opportunità e di straordinari rischi che è la nostra società liquida. A qualcuno dei troppi nostalgici che pascolano nel mondo politico, amo ripetere, per il vizio di provocare, ma pure di aprire fronti possibili di ragionamento, che se l’intangibilità dei singoli fosse stato un dogma il Novecento della politica, il secolo delle passioni urticanti e gloriose, non sarebbe nemmeno cominciato. E solitamente mi ritrovo di fronte a un muro di silenzio di obiezioni del tipo: «Sì, vabbé, ma qui perdiamo tutto». Paura, nient’altro che paura di

Da molto tempo ho smesso di domandarmi se fosse giusto rinunciare alla fiamma

Le avanguardie giovanili, il problema dei simboli l’hanno risolto da tempo intrattenere un sano rapporto di confronto con quello che accade nel mondo. L’altro giorno sono stato a tenere una conferenza al Foro 753, un’enclave di gioiosa creatività nel bunker di Boccea, a Roma, l’equivalente da destra di un centro sociale: pub, palestra, sala conferenze, un sacco di ragazzi che spendono parte della loro giornata nella condivisione della passione politica come voglia di fare. Il Foro 753 prima stava dalle parti del Colosseo, e paradosso vuole che, dopo lo sgombero, sia stato il Comune di centrosinistra a trovargli una sede anziché una giunta regionale retta da un Presidente che oggi gira in lungo e in largo l’Italia ad astrologare di difesa delle identità e dei simboli. I ragazzi del Foro 753, età media vent’anni, il problema dei simboli l’hanno risolto da tempo: è la loro azione che è simbolo di ciò in cui credono. Ciò che vale per una piccola comunità operosa a maggior ragione vale per i partiti politici. Il resto sono chiacchiere.


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speciale approfondimenti

l vero problema oggi in Italia e in Europa non è quello di vincere le elezioni, ma di riuscire a governare. E questo non solo quando si ottiene una esigua maggioranza in Parlamento, come è accaduto a Romano Prodi nel 2006, ma anche quando si raggiunge una maggioranza ampia, come è successo nel 2001 e potrà succedere nel 2008 a Silvio Berlusconi. Vincere è facile, perché il voto degli elettori tende sempre a «punire» il governo precedente; governare, dopo la vittoria elettorale, è difficile perché i problemi nazionali e internazionali sono sempre più complessi, i centri decisionali che dovrebbero affrontare questi problemi sempre più deboli e conflittuali; ma soprattutto perché manca alle coalizioni che assumono il potere una visione comune e unitaria del bene pubblico. La causa principale del declino delle forme tradizionali di rappresentanza, come i partiti e i sindacati, non è la loro incapacità di interpretare i sentimenti e i bisogni della gente, ma la

I

Carte

Il celebre saggio di Baumann per spiegare la rivoluzione finiana

Liquidare un partito «solidificare» un’idea di Roberto De Mattei merse in quella stessa atmosfera di pragmatismo e di egoismo che permea l’intera società. La causa principale della crisi delle forme partitiche di rappresentanza non è la loro incapacità di interpretare i sentimenti e i bisogni della gente, ma casomai il fatto di non riuscire ad elevare i bisogni e i sentimenti dei cittadini e dei gruppi, ormai polverizzati in un vortice di interessi e di appartenenze in perpetuo conflitto.

Giuseppe De Rita, ha parlato di «coriandolizzazione della società», per connotare questa

Sarebbe ingenuo incolpare i politici di tutti i mali, cedendo all’«antipolitica» mancanza di una dottrina sociale e di una filosofia della storia. Sarebbe tuttavia ingenuo addossare ai nostri uomini politici la responsabilità di tutti i mali, cedendo alla tentazione demagogica dell’«antipolitica». Le classi dirigenti vivono im-

frammentazione del tessuto sociale che sperimentiamo nella vita quotidiana. Matthew Forde, in una lucida analisi della società britannica, che può essere bene applicata all’Italia di oggi, usa il termine, più appropriato, di «desocializzazione»;

il sociologo Zygmunt Baumann parla a sua volta di una società «liquida», in cui si dissolvono non solo i tradizionali centri di potere, ma ogni forma, anche elementare, di aggregazione sociale. La «vita liquida» di cui scrive Baumann è la vita precaria ed effimera dell’uomo contemporaneo: una vita all’insegna dell’ansia e dell’incertezza, priva di radici e di solidi appigli, inevitabilmente consumistica, perché si vive solo nel presente, immersi nella liquefazione di ogni valore e di ogni istituzione. Tutto ciò che viene liquidato viene consumato o, potremmo dire, tutto ciò che viene consumato, viene liquidato. Dai prodotti alimentari alle vite degli individui, tutto ciò che esiste deve essere oggetto di consumo, deve avere una data di consumo, deve essere smaltito. L’industria di smaltimento dei consumi, secondo Baumann, assume un ruolo determinante nell’ambito dell’economia della vita liquida (La vita liquida, Laterza, Roma 2006, p. IX). Baumann è un sociologo e non è interessato a cogliere le cause profonde di un processo di cui fotografa l’esito simbolico nella discarica. Ma se le discariche sono la significativa espressio-

ne della società liquida in cui viviamo, occorre aggiungere che ciò che esse accolgono è soprattutto la spazzatura culturale e morale delle ideologie del Novecento. Dalla putrefazione di queste ideologie, che pretendevano creare un «uomo nuovo», è sorta, dopo il Sessan-

titi, movimenti, coalizioni e aggregazioni di ogni tipo, a destra e a sinistra dello schieramento. La liquidità è, in fondo, mancanza di identità. L’identità è per sua natura solida, stabile, permanente. La liquidità è materia fluida, in perpetuo movimento, senza punti di coagulo o condensazione. Liquidare una coalizione o un partito è facile, «solidificare» un programma, e su questa base governare, è più difficile. La liquidità è la forma di una politica senza certezze: è l’espressione del relativismo del nostro tempo, forse non l’ultima, perché il passaggio finale è quello dallo stato liquido a quello gassoso, per giungere all’evaporazione definitiva, al trionfo del Nulla. L’unica alternativa alla liquidità che ci consuma, è il ritro-

L’unica alternativa alla liquidità è il ritrovamento della pienezza dell’essere totto, una nuova Rivoluzione, postmoderna, che assume la liquidità a paradigma e nei rifiuti sembra trovare l’espressione del suo nichilismo.

Anche la vita politica italiana, dopo Tangentopoli, si svolge all’insegna della liquidazione. Nulla sembrava più solido e roccioso della Democrazia Cristiana, eppure il primo partito degli italiani venne liquidato con imprevedibile velocità. Con altrettanto velocità, nell’ultimo quindicennio, abbiamo visto la nascita e la liquidazione di par-

vamento della pienezza dell’Essere, in tutte le sue forme, compresa quella politica. La solidità non sta nell’«antipolitica», e neppure nei grandi partiti, nelle lunghe intese, nelle grosse colazioni, ma semmai nella «transpolitica», ovvero in una concezione della società che restituisca alla politica il suo fondamento primario, che è la legge naturale, permanente e immutabile, riassunta da Benedetto XVI nella formula delle «radici cristiane» e dei «valori non negoziabili» della vita sociale.


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Una vittoria confermerà la strada intrapresa, una sconfitta porterà alla riesumazione del partito

La conversione al Pdl è una «scelta» obbligata di Stenio Solinas

Per aver scritto che senza Berlusconi gli aennini erano finiti, fui insultato dal Secolo

possibile che un partito piccolo confluendo e sciogliendosi in un organismo che ne contiene uno più grande lo caratterizzi quanto a indirizzi, scelte, idealità? La logica e la storia dicono di no e quindi è un credo quia absurdum l’idea che Alleanza Nazionale non scompaia nel Popolo delle libertà in quanto ne è l’incarnazione... Più semplicemente, è la constatazione di un rapporto di forza e la fine di un equivoco, quello di un delfinato esterno e competitivo che un giorno avrebbe saputo e potuto ereditare lo scettro del comando. Il delfino si fa luogotenente e si ricomincia dall’interno quello che dall’esterno si era finora dimostrato impossibile. Alleanza Nazionale è probabilmente l’unica forza politica italiana di qualche importanza che ha sempre confuso la tattica con la strategia, elevando la prima al rango della seconda. Da un quindicennio a questa parte si è mossa nella convinzione tattica di un Gianfranco Fini successore di Silvio Berlusconi e ne ha fatto il faro strategico del proprio comportamento. In questa ossessione non ha elaborato un rinnovato e convinto percorso identitario, non si è preoccupata più di tanto di un radicamento sociale, culturale ed economico.

È

subito, manca. Gli scettici diranno che è meglio prima vincere e poi pensare al futuro, che prima pensare al futuro e intanto essere sconfitti... Non hanno torto, ma gli avvenimento politici dal ’94 a oggi non gli danno tuttavia ragione. Vinci ma non governi, governi, ma non convinci, perdi pezzi, vai in minoranza, cambi casacca, sfianchi il Paese, alimenti il malcontento, sei percepito come Casta...

Così, oggi si ritrova con un proprio spezzone fuoriuscito che le fa concorrenza su quel campo della destra che teoricamente avrebbe dovuto essere suo, e con il potente alleato che di quel campo di fatto si appro-

An è l’unica forza politica che ha sempre confuso la tattica con la strategia pria nel momento in cui l’Udc di Pierferdinando Casini si smarca per correre da solo. L’orgoglio di partito di Casini è dovuto al fatto che il suo leader non crede nel bipolarismo: non ci crede per educazione politica

pregressa e per sfiducia negli attuali competitors. Sogna un altro scenario, Casini, nuova legge elettorale, nuovi e/o diversi soggetti, alleanze... La dismissione di partito di Fini è dovuta al suo opposto: senza

Berlusconi è come l’ombra del guerriero del Kagemusha di Akira Kurosawa. È l’imperatore che garantisce la sua identità e/o la sua sostituzione. Senza il bipolarismo torna nell’anonimato di un passato oscuro e di un presente incerto. Sono ambedue scommesse azzardate, ma la prima, nel suo sfilarsi consapevolmente da un’alleanza di tutto rispetto si nutre di una visione strategica della politica prossima ventura che alla seconda, impegnata nella tattica dell’hic et nunc, dell’ora e

La conversione al «partito del predellino» può anche far sorridere, ma per come è messa An si tratta di una «scelta», diciamo così, obbligata. Per carità di patria sorvoliamo pure sul balletto surreale di tutti quei commentatori indipendenti, ma anche organici, per dirla con Walter Veltroni, che avendo seguito entusiasti le intemerate del loro segretario (siamo alle comiche finali, ricordate?) e la sua vibrante passione identitaria, si ritrovano un mese dopo a dover elevare le comiche a nobile prosa e l’identità a variabile dipendente di un più grande progetto.... Ciò che però ne emerge è, a livello intellettuale, un elettroencefalogramma piatto. Un piccolo inciso personale rende meglio ciò che voglio dire. Per aver scritto, in quella occasione, che senza Berlusconi gli aennini non sarebbero andati da nessuna parte, il Secolo d’Italia, per la penna di uno che in prima pagina si firma Conan, mi derubricò da “uno dei protagonisti indiscussi dello sdoganamento della destra culturale italiana“ a giornalista venduto...Attaccavo l’asino dove voleva il padrone, insomma... Conan, si sa, sta per barbaro, ma nel caso in questione si arriva sì e no al liberto, a chi abituato a servire riversa ipocritamente sugli altri il proprio modus vivendi... Miserie, dunque, ma, ecco il pun-

to, che aiutano a capire perché la conversione al «partito del predellino» non abbia visto nessun intellettuale di area e/o esponente alto, medio, basso, della classe dirigente (le eventuali eccezioni, si sa, confermano la regola), non dico scendere dallo stesso, ma almeno non accalcarsi ciecamente per salirvi sopra in qualche modo. In sostanza, An è un partito che da anni ha smesso di pensare e vive la critica come tradimento e/o complotto, prostrato ormai davanti a una leadership che non si cura più nemmeno di nascondere il disprezzo da essa nutrito nei suoi confronti. Padrone e signore assoluto, Fini ne dispone come, quanto e quando vuole. Per certi versi lo considera una zavorra, chiassosa, poco seria, non del tutto presentabile (la gazzarra al Senato, per la verità, non gli dà torto). In passato si è spesso crogiolato con l’idea di farne a meno. Adesso la può mettere in pratica. Naturalmente, come tutte le operazioni di vertice, in un partito che la legge elettorale consegna di fatto impacchettato nelle mani della segreteria (di tutte le segreterie, va da sé), anche questa si avvale di un’arrière pensée di cui solo il responso elettorale permetterà o meno il disvelamento. Una vittoria netta confermerà la strada intrapresa, una vittoria incerta o magari una sconfitta, provocheranno la riesumazione della salma partitica, la sua resurrezione statutaria e simbolica, con nodi di pianto, congressi, mozioni degli affetti e abbracci. Una sorta di Frankenstein della politica, eterodiretto e senz’anima. Se non quella parlamentare. Questa sì immarcescibile. E rotta a tutto.

testo raccolto da Riccardo Paradisi


pagina 18 • 22 febbraio 2008

economia

Bruxelles considererà aiuti di Stato impropri le agevolazioni. Anche Francia e Spagna condannate

La Ue non farà sconti alle Coop: sgravi fiscali in meno per 7 miliardi di Alessandro D’Amato

ROMA. La lettera potrebbe arrivare prima del voto di aprile. E potrebbe diventare una bomba a orologeria sulla campagna elettorale. La Ue ha deciso di dichiarare guerra alle cooperative italiane, e per farlo ha scelto di colpirle sul nervo più scoperto, quello fiscale, che comporta un risparmio vicino ai 7 miliardi di euro. Il commissario europeo alla concorrenza, Neelie Kroes, sta per inviare la tanto annunciata missiva all’Italia – come alla Spagna e alla Francia – che metterà sotto accusa il regime fiscale agevolato non soltanto nella grande distribuzione, ma anche per il settore agricolo e quello bancassicurativo. E imporrà ai Paesi membri di abbandonare il regime di agevolazioni per le coop di grandi dimensioni.

La querelle a Bruxelles era cominciata con l’inchiesta sulle agevolazioni nell’acquisto di carburante fatte avere dalle coop agricole dal governo

spagnolo. Il commissario competente, Marianne Fischer Boel, ha condannato gli sgravi, ma al tempo stesso ha sancito che, in linea generale, agevolazioni simili non sono aiuti di Stato. Ma a questo punto è scesa in campo la Kroes. «Sembrerebbe che il suo gabinetto stia accelerando sul dossier delle cooperative di distribuzione», ha detto il ministro delle Politiche agricole

be quasi fallito il suo scopo: se la Ue difficilmente chiederà di restituire il pregresso, per il futuro esclude un’interpretazione estensiva sulle normative per le agevolazioni fiscali. Infatti il regime di sgravi per il 30 per cento sugli utili non distribuiti ai soci sarà applicato soltanto alle piccole e medie cooperative. In Italia queste agevolazioni garantiscono alla mutualità uno sconto fiscale intorno ai 7 miliardi di euro annui, tenendo conto che i benefici sono incalcolabili per le

le italiana si applica in maniera sostanzialmente orizzontale a tutte le tipologie di imprese cooperative e in tutti i settori: dall’agricoltura al bancario, dalla distribuzione al sociale. L’approccio che sembra seguire la Kroes, ma che potrebbe evolvere, introduce delle distinzioni tra imprese e settori. Per le grandi imprese, secondo le sue intenzioni, l’agevolazione fiscale compatibile verrebbe ridotta mentre

Il provvedimento potrebbe arrivare prima del voto. Garanzie soltanto alle realtà piccole e medie. Un colpo duro per una mutualità già in forte crisi italiano, Paolo De Castro, «e siamo preoccupati dell’effetto a catena nei confronti della politica fiscale applicata alle cooperative, ed in particolare che vengano considerati come aiuti di stato misure che non lo sono, essendo addirittura presenti nelle Costituzioni, come in Italia e in Germania». L’attività di lobbing messa in atto da Prodi e Bersani avreb-

cooperative (come quelle di consumo) che per statuto non ripartiscono utili tra i soci. L’offensiva di Bruxelles arriva in un momento particolare per le Coop. La crescita del fatturato nel 2007, secondo alcune stime preliminari, è stata del 3 per cento. In totale il loro peso è pari al 6-7 per cento del prodotto interno lordo, ovvero circa 85 miliardi di euro in Italia. La legislazione fisca-

sarebbe giustificata quella applicata alla piccole e medie imprese. Per quanto attiene ai settori, la Commissione sembrerebbe riconoscere una specificità alle banche di credito cooperativo – che, così come alle popolari, godono di alte protezioni a Bruxelles – e di conseguenza sarebbe più severa con i giganti della distribuzione.

Le coop tremano . Anche perché l’Italia è reduce da una robusta riforma fiscale del settore, quella effettuata dal governo guidato da Silvio Berlusconi nel 2002-2003, che ha tolto loro una buona parte dei privilegi goduti nei decenni precedenti. E la prospettiva di un ritorno al potere del Cavaliere, forte anche di una richiesta di Bruxelles di agire in questo senso, potrebbe costituire un colpo quasi mortale. Anche perché nel frattempo a livello politico e di rappresentanza la mutualità non è ancora riuscita a costituire una forza unica per la difesa dei propri interessi. A valle qualcosa si muove, ma al vertice la fusione tra coop bianche e rosse è ancora molto lontana. Gli ultimi progetti parlavano di riunire sotto lo stesso tetto di rappresentanza anche AGC e Union Coop. Ma finora non si va oltre le dichiarazioni d’intenti.


economia

22 febbraio 2008 • pagina 19

Perché il sistema del Nord fa quadrato intorno all’aeroporto

Expo, logistica e fiera i business di Malpensa di Giuseppe Failla

MILANO. Il governatore della Lombardia Roberto Formigoni, fra i sostenitori più accesi di una soluzione alternativa ad Air France per Alitalia, ha liquidato la decisione del Tar di non riammettere in gara Carlo Toto con un secco: «I giudici vivono sulla Luna». Nel perimetro economico-finanziario milanese non si usano toni diversi, ma i timori vanno ben oltre le difficoltà di raggiungere New York o Shangai senza dover fare il periplo tra diversi aeroporti. Si teme soprattutto per i business che lo sviluppo di Malpensa potrebbe generare nel quadrante Nord occidentale. A guardare i numeri dello scalo, più dei 27 milioni di passeggeri che l’hanno utilizzato nel 2007, sono i volumi delle merci transitate a scatenare i maggiori appetiti. Attualmente passano da qui soltanto 370mila tonnellate all’anno, un numero esiguo che fa prevedere un mercato in grande sviluppo. Soprattutto se si pensa che Parigi e Monaco impongono tariffe molto alte. Oppure che lo stesso territorio sarà attraversato dai treni dall’alta velocità che collegheranno con più facilità la pianura padana a Barcellona, a Rotterdam o a Kiev. E trasportare queste merci su gomma vuol dire investire e creare parchi per la logistica, che potrebbero sorgere nella stessa Malpensa (dove la Cargo city non è sufficientemente sviluppata) o nel novarese o il piacentino. Da tempo le società di consulenza studiano piani per lo sviluppo di imponenti operazioni immobiliari, così come i signori del mattone (italiani come stranieri) sono sull’attenti, in attesa di sviluppi. Benefici potrebbe averli anche il polo fieristico di Rho-Pero, che con i suoi 35 milioni di visitatori è ancora lontana dai livelli di Francoforte. Da tempo il suo amministratore delegato Claudio Artusi sta studiando un’alleanza con i sistemi vicini (in primis Bologna) per diventare il primo player europeo. Ma come ha ricordato il presidente Michele Perini è difficile crescere senza un proprio aeroporto limitrofo. Perché il business espositivo e quelli immobiliari e della logistica vanno di pari passo. Senza dimenticare che potrebbero fare da volano per concludere la riconversione verso i servizi avanzati di un’area fino a venti anni industria-

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Un 2007 record per il gruppo Benetton Gli strascichi della mancata fusione tra Autostrade e AutoAbertis sembrano lontani: il gruppo ha chiuso il 2007 con ricavi consolidati in crescita del 9,1 per cento a 2.085 milioni, un risultato operativo di 243 milioni (+35 per cento), un ebitda di 337 milioni (+27,6) e un risultato netto di 145 milioni (+16). Per il 2008 per cui stima un incremento dell’utile netto superiore al 7 per cento. Ponzano Veneto ha registrato un trend di sviluppo sia nei mercati maturi sia in quelli emergenti. Al riguardo in futuro si guarderà soprattutto ai mercati di India, Turchia, Europa dell’Est Europa, Messico e Cina.

Montezemolo: avanti sui contratti Il presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, esprime apprezzamento per la ripresa del confronto con i sindacati sulla riforma dei contratti «L’importante è andare avanti. Sono contento», ha detto Montezemolo, «l’importante è che si vada avanti, perché questo è l’interesse delle imprese e dei lavoratori». Non sembrano invece superati i distinguo nella Cgil.

Wi-Max, si ritirano Mediaset e Fastweb La gara per le nuove frequenze internet perde Mediaset e Fastweb. Elettronica industriale, proprietaria della rete di trasporto e diffusione del segnale del Biscione, era finora risultata in testa in molte delle aste per i lotti. Molti osservatori ipotizzano che una rinuncia di Mediaset nelle telecomunicazioni potrebbe fare da preludio per un eventuale avvicinamento a Telecom Italia. Altri invece erano rimasti sorpresi dalla discesa in campo di Mediaset, ipotizzando una valorizzazione degli impianti di trasmissione per trasformarsi in una Tower Company. Fastweb invece avrebbe considerato le condizioni di business poco interessanti e le frequenze messa a disposizioni troppo deboli per le sue piattaforme.

Moretti: Fs? Una questione nazionale «Le Ferrovie devono diventare in Italia una questione nazionale come lo sono in Francia, Germania e Spagna». L’amministratore delegato delle Ferrovie, Mauro Moretti, lancia nuovi allarmi sulla maggiore azienda di trasporto su ferro del Paese. Ieri presentando il ”Treno verde 2008” e annunciando un osservatorio sulla qualità dei servizi, è tornato a chiedere maggiore attenzione al settore sul fronte degli investimenti.

Accordo tra Poste e Protezione Civile Protezione Civile e Poste Italiane insieme per affrontare le situazioni di emergenza e i grandi eventi che si svolgono in Italia. Il capo Dipartimento Guido Bertolaso e l’Ad di Poste Italiane Massimo Sarmi hanno firmato ieri un protocollo d’intesa ad hoc. Si prevede che Poste metta a disposizione la propria infrastruttura fisica e hi-tech in grado di raggiungere qualsiasi angolo del Paese per realizzare un contact center specializzato nella gestione delle situazioni critiche.

Lo scalo si trova in una posizione strategica per i flussi commerciali tra i mercati europei e quelli del Far east le. C’è anche chi ha calcolato che questo processo possa fare aumentare di un punto e mezzo di Pil la ricchezza del territorio. E il primo passo di questo percorso è ottenere per Milano l’organizzazione dell’Expo 2015. Per tutti questi motivi è necessario salvare Malpensa.

Se non bastasse, c’è poi una motivazione di sistema a spingere i Marco Tronchetti Provera o le Diana Bracco a minacciare sfaceli. In questa vicenda si intravede l’ennesimo atto di ostracismo del centro-

sinistra nei confronti del Nord. La parte più produttiva del Paese si sente sotto rappresentata a Roma e non basteranno certamente gli spiccioli del Milleproroghe per far recuperare consensi oltre il Rubicone a Walter Veltroni. Ma si vuole anche mandare un messaggio a un futuro governo di centrodestra: gli si chiede garanzie per i lavoratori dello scalo (sono a rischio 1.200 posti) e pieno appoggio per ottenere da Air France una moratoria sui voli, indispensabile al presidente di Sea, Giuseppe Bonomi, per trovare nuovi vettori da far decollare da Malpensa. Intanto a Milano circola un’altra ipotesi, che si intreccia con le voci di grande coalizione tra Berlusconi e Veltroni.Tra i papabili per il ministero dell’Economia c’è Corrado Passera. E una volta al governo sono in molti a dubitare che il banchiere firmi la cessione di Alitalia ad Airone.

Ubs, Marchionne vicepresidente Sergio Marchionne è stato nominato vice presidente non esecutivo del consiglio di amministrazione di UBS. Lo rende noto l’istituto che annuncia l’indicazione da sottoporre all’assemblea dei soci di rieleggere chairman Marcel Ospel. Inoltre il board proporrà la riduzione del mandato del consiglio di amministrazione da tre a un anno. La banca svizzera inoltre indica la rielezione dei membri del board Peter Voser e Larry Weinbach. Dal 24 aprile prossimo la presidenza di UBS sarà composta da Ospel, Marchionne e da Stephan Haeringer come vice presidente esecutivo. Il manager di origini abruzzesi ha spiegato che non c’è incompatibilità tra questo incarico e quello in Fiat.

Il mercato si rifugia nei metalli In prospettiva dei nuovi tagli della Fed, e alla ricerca di beni rifugio, il mercato torna a investire sui metalli. L’oro ieri ha raggiunto a New York un nuovo massimo a 940,10 dollari l’oncia. Record anche per il platino (2.182 dollari a oncia).

Segno positivo a Piazza Affari Piazza Affari chiude in positivo (+0,18 per cento) dopo le perdite degli giorni scorsi. I nuovi allarmi arrivati dall’America hanno frenato una giornata dedicata alle ricoperture. Bene Tenaris (+4,79 per cento) e Telecom (+0,81).


spettacolo

pagina 20 • 22 febbraio 2008

I suoi 90 anni e la sua ultima raccolta: parla il grande musicista italiano

Quando il maestro

ARMANDO TROVAJOLI suonava il jazz di Adriano Mazzoletti i è molto scritto su Armando Trovajoli in questi ultimi mesi. L’aver raggiunto l’età di novant’anni in splendida forma, comporre, esibirsi al piano accompagnato da un’orchestra sinfonica, come è successo per il suo compleanno, nel corso della serata all’Auditorium di Roma, non è da tutti. Si è molto scritto e detto dicevamo. Però pochi si sono ricordati dei suoi importanti trascorsi jazzistici. Si è parlato delle centinaia di colonne sonore da lui composte, delle musiche per straordinarie commedie musicali e delle sue canzoni che hanno fatto e continuano a fare il giro del mondo. Pochi o nessuno invece hanno raccontato del Trovajoli pianista di jazz. Storia per certi versi inedita.

S

vo né carne né pesce. Il jazz mi aveva dato tante soddisfazioni, però mi resi conto che mi mancava qualche cosa. E allora, con dolore di tutti, perché eravamo affiatati e guadagnavamo molto bene, dissi ai ragazzi: “Scusatemi, vado via, mi metto a studiare”. Avevo preso questa decisone anche per via di un incontro che ebbi a Napoli con Franco Mannino. Era venuto per eseguire il Concer-

to per pianoforte e Orchestra di Ciaikovskij. Dopo il concerto andai a salutarlo e gli espressi la mia ammirazione. Lui disse: “Perché non ti metti a studiare? Hai grandi qualità”. Così tornato a Roma, per tre anni son stato chiuso dentro a una stanza a studiare, anche se qualche volta andavo a suonare all’Arlecchino o in qualche locale, come al Bel Sito a Monte Mario, dove mi incontravo con gli amici di un tempo». La curiosità è tanta. Armando non si fa pregare e comincia a ricordare: «Mio pa-

Un disco pubblicato recentemente dalla piccola etichetta discografica Riviera Jazz Records con sue incisioni del 1950 in trio e con una orchestra d’archi dimostrano, dopo oltre mezzo secolo, le sue eccezionali doti di strumentista, di interprete dal gusto ineccepibile con un’inventiva ricchissima e raffinata, quasi delicata, che ne fecero, fra il 1937 e il 1950, uno dei migliori pianisti europei di jazz. Dopo aver partecipato, unico rappresentante per l’Italia, al prestigioso Salon du Jazz di Parigi, ed essere stato accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, nel 1951 scomparve per tre anni dal mondo del jazz, per riaffacciarsi dopo tre anni, quando ormai era diventato assieme al fraterno amico Piero Piccioni uno dei migliori autori di musiche da film. Nessuno però gli ha mai chiesto le ragioni del suo ritiro. «Un giorno - racconta Trovajoli - realizzai che non era più il caso di continuare. Non mi senti-

mio padre era ammalato - mi ritrovai in Galleria Colonna a Roma per trovare un ingaggio. A quell’epoca, era il 1933, sapevo molto bene cosa fosse il jazz. Già sei anni prima ero stato colpito dai dischi di Armstrong, di Ellington, di Fletcher Henderson. Mi ricordo che quando sentivo The Mooche di Ellington, e avevo poco più di dieci anni, mi venivano le lacrime agli occhi. Poi avevo una dote naturale per l’improvvisazione. Avevo il senso dell’armonia, certo ancora senza uno stile, perché sarebbe stato impossibile. E così cominciai. Sostituii Edoardo Radicchi, che era un pianista di jazz e che fu uno dei miei maestri. Battei tutti i locali di Roma: Pichetti a via del Bufalo, poi a via Velletri, il Dopolavoro dei Ferrovieri in via Marsala. Una sera a via Velletri venne a trovarci Radicchi e i miei colleghi mi dissero: “Armando fai sentire cosa sai fare!”. E io suonai un brano che avevo sentito da un disco dei Chocolate Dandies, Once Upon a Time con un Teddy Wilson meraviglioso che per molto tempo fu il mio pianista favorito.

«In Grecia, durante la guerra, formai un’orchestra che trasmetteva da Radio Atene per le truppe italiane» dre era violinista professionista. Suonava nelle orchestre del cinema muto, faceva il Caffè Concerto, era ingaggiato in orchestrine a corda per i thè danzanti e a quattro anni mi mise in mano il mio primo violino. Mi insegnò la musica e io mi son trovato a leggere le note prima ancora di conoscere l’alfabeto. A sei anni però mi mise di fronte a una scelta, se continuare con il violino o prendere un altro strumento. Decisi di cambiare perché il violino non mi piaceva, anzi mi annoiava e cominciai a studiare il piano. Lo studiai fino a sedici anni, poi per ragioni economiche -

«Poi andai a Milano, era il 1935, e suonai con l’orchestra di Carlo Minari, un violinista sanremese molto famoso all’epoca e lì ebbi la fortuna di conoscere la tromba Gaetano Gimelli che da buon genovese aveva amici sulle navi che gli portavano non solo i dischi, ma anche le riviste - Down Beat, Metronome - e molte partiture. Gaetano mi segnalava anche le incisioni più interessanti che erano state pubblicate negli Stati Uniti. Io riuscivo a procurarmele e così la mia cultura jazzistica aumentava. Nell’inverno 1936-1937 fui ingaggiato per entrare in un’or-

chestra che suonava all’Hotel Excelsior di Roma e mi trovai con Armando Pagni di Genova, un batterista eccellente, con il sassofonista Bios Vercelloni che guardavo come fosse un dio, con Alfio Grasso. Rimasi folgorato da questo musicista assolutamente geniale! Le sue improvvisazioni con la chitarra e con il violino erano le cose più belle che ebbi occasione di ascoltare in quegli anni. Uno stile assolutamente personale e


spettacolo

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no mai potuto ascoltare direttamente i grandi maestri americani, come invece succedeva in Francia dove Armstrong, Coleman Hawkins o Benny Carter erano rimasti a lungo, avevano perfettamente assimilato il linguaggio jazzistico solo attraverso l’ascolto dei dischi. Capacità e musicalità enormi e grande passione! Trovajoli ricorda il suo ingaggio a Forte dei Marmi: «Veniva la più bella gente del mondo. Spesso anche i figli di Mussolini, Edda, Bruno e Vittorio. Ricordo che Edda mi diceva: “A casa nostra piace molto il jazz, anche a mio padre, però siamo costretti a limitarci un pò”». Una sera giunse un giornalista del Melody Maker. Qualche settimana dopo scrisse che in Italia aveva ascoltato un ragazzo che suonava il pianoforte bene quanto Teddy Wilson. Venne la guerra e Trovajoli si trovò in Grecia: «Ad Atene il generale Geloso mi pregò di formare un’orchestra che doveva trasmettere da Radio Atene in un programma per le truppe italiane. Non solo, dovevo anche andare a suonare spesso nella villa del generale a intrattenere gli ospiti. Chiesi allora di far venire alcuni musicisti che sapevo a Patrasso: la tromba Pino Moschini, un sax tenore di Trieste, il contrabbassista toscano Fausto Turchini e il chitarrista, ufficiale dei granatieri, Alvaro Pieri. Insomma formammo un buon gruppo che suonava solo jazz. Alla terza trasmissione l’auditorium di Radio Atene era gremito di ragazzi che impazzivano per la nostra musica».

a casa di uno o dell’altro. Fra i più assidui vi era Piero Piccioni. All’arrivo degli alleati formai subito un sestetto nello stile di Benny Goodman. Suonammo a Radio Roma riattivata dal Pwb (Psycoplogical Warfare Branch). In seguito a Napoli. Di giorno al Giardino

ravigliati delle nostre qualità». Di quel sestetto non esistono testimonianze registrate, solo quanto riferito dai musicisti che ricordano l’alto livello del gruppo che, con l’Orchestra 013 di Piero Morgan, pseudonimo che Piero Piccioni aveva dovuto adottare per evitare rappresaglie contro la famiglia che si trovava nella Toscana non ancora liberata, fu il migliore che il jazz romano potesse offrire in quel momento. Furono cinque anni di solo jazz, che sfociarono nelle incisioni ripubblicate recentemente. La Rai lo volle per la trasmissione Musica per i vostri sogni. Il suo pianoforte, sostenuto da un’orchestra d’archi di quattordici elementi, con arrangiamenti in parte dovuti anche a Piero Piccioni, decretarono un grande successo a quel programma. Poi l’abbandono di cui si è parlato. Cinque anni dopo, Giulio Razzi, direttore dei programmi di RadioRai, convinse Trovajoli ad accettare la direzione dell’orchestra che fino all’estate 1956 era stata diretta da Angelini. L’organico venne rinnovato inserendo i migliori musicisti italiani di jazz di quel periodo, Oscar Valdambrini, Gianni Basso, Gilberto Cuppini. Iniziò una programmazioni di Concerti Jazz prima da Torino successivamente dalla Sala A di Via Asiago a Roma. La presenza del pubblico conferiva a quei concerti, registrati il giorno prima della messa in onda, le caratteristiche tipiche di un concerto «dal vivo».

«In Rai Musica per i vostri sogni ebbe un grandissimo successo: concerti dal vivo con gli arrangiamenti di Piero Piccioni»

soprattutto profondamente jazzistico. A Roma spesso venivamo invitati dopo la chiusura del locale, in case principesche dove suonavamo solo jazz fino alle sei o alle sette del mattino. Era straordinario, non tanto per i mucchi di soldi che ci davano, quanto per il fatto che fra noi e loro c’era una grande sintonia musicale. Poi con Alfio entrai a far parte di un complesso per la Capannina di Forte dei Marmi. Fu in quell’occasione che co-

nobbi suo fratello Rocco. Un genio sia al violino che alla chitarra. Con noi c’era Pete Corona, anche lui ottimo sassofonista, un po’ pazzo. Si era gettato da un ponte, sconvolto dal crollo di Wall Street, dove aveva perduto tutto. Si salvò, ma rimase psicologicamente scosso».

Il mondo italiano del jazz in quel finire degli anni Trenta, era affascinante. Musicisti, quelli italiani, che non aveva-

L’8 settembre 1943, Trovajoli era già a Roma. Una provvidenziale licenza lo aveva allontano dalla Grecia e dalle rappresaglie dei tedeschi. Gettò, come molti, l’uniforme alle ortiche e riuscì, entrando all’Eiar nell’Orchestra di Piero Rizza, uno dei pionieri del jazz italiano già dagli anni Venti, a evitare il trasferimento coatto in Germania. In quell’orchestra suonava anche Nunzio Rotondo, un ragazzo di diciannove anni che divenne in seguito una delle stelle del jazz italiano. Quando l’Eiar si trasferì, armi e bagagli, a Milano, Trovajoli e altri rimasero a Roma. «Durante l’occupazione nazista racconta Armando - ci radunavamo di nascosto a suonare

degli Aranci per gli americani, la sera in un club per gli ufficiali inglesi. Abbiamo partecipato anche a qualche spettacolo al Teatro delle Palme, sempre per gli alleati, che rimanevano me-

Di quella straordinaria

Nella pagina a fianco: Teddy Reno al Festival di Sanremo del 1953 con Armando Trovajoli e il maestro Cinico Angelini che fu sostituito dallo stesso Trovajoli alla direzione dell’Orchestra della Rai alla fine dell’estate 1956

stagione esiste un buon numero di incisioni Trovajoli Jazz Piano, Softly e l’eccellente The Beat Generation, realizzato da quella che è stata la migliore orchestra italiana di jazz. Dopo quelle ultime splendide incisioni Armando Trovajoli abbandonò il jazz per dedicarsi con grande successo alla musica per colonne sonore e alla composizione di commedie musicali che gli diedero fama e onori. Il jazz scomparve o quasi dalla sua vita musicale. Riappariva solo in occasioni private quando con il suo amico Piccioni, si sedeva al piano per improvvisare a quattro mani, «musiche straordinarie, travolgenti, jazzisticamente splendide, perfette» ricorda Leone Piccioni, fratello di Piero, che ebbe modo di assistere innumerevoli volte a quegli incontri.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Per le accise ci deve essere il controllo dello Stato? Il prezzo della benzina dovrebbe essere determinato soltanto dal mercato No, non è giusto. Anche il prezzo della benzina, e di tutti i carburanti in genere, dovrebbe essere ” completamente ” determinato dal libero mercato. Dico completamente perchè nella realta’ ben 25 centesimi + Iva sono costituiti dalle cosiddette accise, tasse insomma, introdotte dal governo, anzi dai governi di ogni colore (iniziò Mussolini per finanziare la guerra in Abissinia), per finanziare interventi vari - in genere in occasione di calamità naturali - che però sono rimaste, inamovibili, anche a obiettivo realizzato. Quando si dice governo ladro! E a proposito di governo ladro, ora il nostro ministro Bersani pensa che forse sarebbe il caso di tagliare un po’ le accise. Sì di 1 o 2 centesimi.

Filippo Del Giudice - Varese

Lo scopo per le quali furono introdotte è già stato raggiunto Secondo uno studio condotto dal Corriere della Sera, ogni centesimo di aumento sulla benzina, comporta per lo Stato un maggiore introito di 20 milioni di euro al mese, quindi 240 milioni l’anno. Certo che non è giusto che lo Stato governi le accise sui carburanti. Ma come illuderci che esso possa rinunciare a introiti così consistenti?Indubbiamente lo Stato dovrebbe essere per definizione etico, cioè equo. Quindi ogni ” Accisa accesa” dovrebbe scomparire non appena raggiunto lo scopo per cui fu introdotta. Ebbene delle undiciaccise che gravano su ogni litro di benzina (complessivamente per circa 30 centesimi ), quali dovrebbero restate ancora in vigore? Nessuna.

Giuseppe Mazzoni - Pescara

Continuiamo a pagare per degli interventi che sono falliti Il vertiginoso aumento del prezzo dei carburanti è dovuto all’aumento altrettanto vertiginoso del prezzo al barile del petrolio. Navigando in internet e nella mia ormai anziana memoria, ho scoperto che ben 30 centesimi, Iva inclusa, dell’1,4 del costo alla pompa della benzina verde sono dovuti alle famigerate accise che, dal 1935 in poi, i nostri governanti hanno introdotto per finanziare interventi straordinari a fronte di particolari eventi. Ma quali sono stati questi eventi che le hanno determinate? Vediamole nel dettaglio: 1935 guerra di Abissinia. Il colonialismo è certamente da condannare e sicuramente costò agli italiani più di quanto ne ricavarono. Ma a quei tempi il posto al sole era di moda e comunque Benito Mussolini ottenne quel che aveva voluto. Ma poi a parte la crisi di Suez del 1956, abbiamo un lungo elenco di calamità naturali che, se giustificano al momento la nascita dell’accisa, condannano inesorabilmente i nostri governanti. Il disastro del Vajont, l’alluvione di Firenze, il terremoto del Belice, il terremoto del Friuli, il terremoto dell’Irpinia e le svariate missioni militari. Tutti interventi falliti, per i quali tra l’altro c’è stato il necessario e inevitabile intervento della magistratura e senza contare che sono ancora in piedi problemi legati alla ricostruzione del terremoto del Belice (1968) e di quello dell’Irpinia (1980). Ma le accise sono rimaste tutte. E gravano pesantemente per un quinto circa sul prezzo attuale della benzina e soprattutto sulle tasche dei poveri italiani che devono fare i conti con il pieno.

Cladio Pucci - Roma

LA DOMANDA DI DOMANI

Gli indagati possono essere ricandidati?

”Chi parla di voti inutìli è totalitario ed in malafede, i voti inutìli possono essere utili se servono ad eleggere qualcuno e questo qualcuno di cui sopra sono io”. (On. Antonio Latrippa - da ”Gli onorevoli”).

Michele Forino Genova

Chiudiamo i giornali Senza i finanziamenti pubblici molti giornali chiuderebbero all’istante. Perchè? Perchè non li legge nessuno e senza vendere un certo numero di copie non avrebbero i soldi per pagare giornalisti e costi vari. E perchè non li legge nessuno quei giornali? Qui le cose sono due: o gli italiani sono ignoranti e non leggono oppure agli italiani non piace leggere quei giornali e preferiscono altro. Entrambe le risposte sono vere. Del resto una certa soglia di ignoranza è strutturale in ogni società, purtroppo, ma c’è anche una grossa fetta di cittadini che di leggere i giornali non ha nè tempo nè soldi, e un’altra che si infoma con vie alternative e più dinamiche come internet. Costi minori e ti scrivi tu il tuo giornale quotidiano. Un giornale, sulla rete, senza confini e senza editori e quindi libero per definizione. Ed è proprio questo il punto. Tra quelli che il giornale lo leggerebbero volentieri, ci sono molti che hanno smesso di bersi le minestre riscaldate dalle caste giornalistiche compiacenti con il pote-

dai circoli liberal

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ROMA, ORA O MAI PIU’ Nel grande baillame intorno alle elezioni politiche, con quello che comporta sul piano dei difficili rapporti tra i componenti della vecchia Casa della Libertà, ci si dimentica che il centro destra affronta anche una ulteriore e difficile campagna elettorale: quella delle amministrative a Roma. Dopo decenni di egemonia della sinistra, prima con Rutelli dopo con Veltroni dobbiamo evitare di concedere al primo il bis, ulteriore sciagura per il popolo romano. Pensate un attimo a quale scenario ci troveremmo all’indomani del 14 aprile se non riuscissimo a trovare la quadra per presentare un centrodestra credibile. Una città che passerebbe da un effimero creativo ad un effimero senza nessuna fantasia che lascerebbe la endemica critica situazione di una città, sì festaiola, ma piena di problemi reali non risolti. La staffetta Rutelli-Veltroni-Rutelli rappresenterebbe il colpo di grazia all’idea di fare di Roma una capitale Europea, e per credere basti pensare a quanto tempo sul piano della modernizzazione della città si è perso.

Nel correre dietro all’effimero si è lasciata Roma ad una edilizia selvaggia con scarsa propensione ad adeguarla dei servizi necessari con il risultato di aggiungere caos al caos anche in quelle poche zone della città che fino a qualche anno fa potevano rappresentare delle oasi felici . Come non parlare poi del lassismo sul piano della sicurezza per cui ormai Roma, come Rio de Janeiro, ha le sue «favelas», un sistema di integrazione pari ad un paese africano e offre alla popolazione scarse possibilità di sentirsi a casa propria. A tutto ciò l’unica vera risposa che si può dare è proporre alla città un possibile governo di centro destra che possa mettere al centro del proprio programma un vero e proprio risanamento a 360 gradi, cominciando ad affrontare a rendere vivibile la città a chi stabilmente ci vive e ci lavora. Un governo credibile deve consentire al cittadino di uscire di casa, raggiungere il posto di lavoro nel minor tempo possibile, stare tranquillo di poter lasciare i propri figli in una scuola normale, e vivere la città come cosa propria e non come ospite in casa. Ai partiti tradizionalmente vici-

re. E cioè quella mano invisibile che smussa le notizie scomode ed esalta quelle comode, che depenna lo sgradevole e strumentalizza l’insulso. Quel giornalismo che ha la pretesa di farti la fotografia della giornata, ma in realtà ti offre un disegno distorto e fazioso al servizio di chi ha alle spalle. Una situazione ancora più paradossale se si pensa che molti giornali sopravvivono solo grazie ai soldi pubblici. E invece di svolgere un servizio di pubblica utilità, lo svolgono a favore di quella o di questa lobby sposando di volta in volta le cause che gli vengono dettate. Situazione che la politica tiene in equilibro dando un pò di soldi a tutti, una rara oasi bipartisan. La giustificazione istituzionale alla pioggia di milioni che genera solo un immenso spreco di carta (già, c’è pure il danno ambientale), è quella che i giornali sono una realtà culturale che arricchisce la società. In realtà ad arrichirsi sono solo la casta di giornalisti baroni e gli inceneritori. Quanto all’arricchimento culturale i cittadini guardano da tempo altrove e soprattutto sul web, dove i giornali appaiono come la protesi anacronistica del tempo che fu. Chissà, forse è solo questione di tempo e basterà il tanto auspicato ricambio generazionale (almeno doppio) per archiviare anche questo residuo del passato. O forse sarebbe meglio accelerare i tempi perchè in ballo c’è uno dei pilastri della democrazia moderna: un’informazione libera. Oggi non è infatti una banalità sostenere che i cittadini hanno diritto di conoscere la verità senza che qualcuno di permetta di filtrarla a proprio piacimento. Lo stiamo vedendo in maniera spudorata in questo inizio di campagna elettorale. Togliere i finanziamenti pubblici ai giornali e fare in modo che si compia il loro decesso naturale è dunque una lotta di libertà. Una lotta che va combattuta al più presto.

Tommaso Merlo

ni al centro destra che in questi anni hanno potuto esercitare il solo diritto di opposizione si chiede di candidare alla guida della città una persona seria, responsabile che viva la città e ne avverte i problemi e poco ci importa che sia nota, anche a Roma deve finire l’era della politica telegenica e incominciare l’era dell’impegno nella concretezza e nella serietà. Alberto Caciolo COORDINATORE REGIONALE LIBERAL LAZIO

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Sei una Cenerentola Primavera 1797 Non ti amo più; al contrario, ti detesto. Sei una disgraziata, realmente perversa, realmente stupida, una vera e propria Cenerentola. Non mi scrivi mai, non ami tuo marito; tu sai il piacere che le tue lettere gli procurano eppure non riesci nemmeno a buttar giù in un attimo una mezza dozzina di righe. Che cosa fate tutto il giorno, Signora? Che tipo di affari così vitali vi privano del tempo per scrivere al vostro fedele amante? Quale pensiero può essere così invadente da mettere da parte l’amore, l’amore tenero e costante che gli avevate promesso? Chi può essere questo meraviglioso nuovo amante che vi porta via ogni momento, decide della vostra giornata e vi impedisce di dedicare la vostra attenzione a vostro marito? Attenta Giuseppina; una bella notte le porte saranno distrutte e là io saro. In verità, amor mio, sono preoccupato di non avere tue notizie, scrivimi immediatamente una lettera di quattro pagine con quelle deliziose parole che riempiono il mio cuore di emozione e di gioia. Spero di tenerti tra la braccia quanto prima, quando spargerò su di te milioni di baci, brucianti come il sole dell’equatore. Napoleone a Giuseppina Beauharnais

Amici di liberal, basta con il falso libero mercato Caro direttore, il libero mercato sarebbe certo un bene per tutti e sono convinto creerebbe molte opportunità di lavoro e di progresso sociale. Il fatto è che rimane un modello ideale del tutto privo di riscontri con la realtà. Specie in Italia, dove in linea con l’ormai bulimica presenza delle grandi industrie in qualunque settore, (vedi alla voce America con le scuole elementari sponsorizzate da marchi di bevande, e lezioni sulle suole di famose scarpe da ginnastica) si è ormai affermata un’autentica didattura che censura qualunque tipo di riforma o intervento migliorativo. Anche in Italia, vigono cartelli e interessi corporativi che nulla hanno a che vedere con la libera concorrenza. Anche in Italia, non esiste un libero mercato, ma un mercato liberticida, che non crea occupazione, ma è semplicemente interessato all’occupabilità. Le imprese delocalizzano, si avval-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

gono di manodopera infantile nel terzo mondo, e annichiliscono sempre più il mercato del lavoro. Lasciando solo una vaga idea di lavoro nel terziario, dove impera la vendita al dettaglio e posti di lavoro malpagati. E ora che il centrodestra, o il centro, ristudi la situazione e faccia una politica del lavoro più incisiva. Che realizzi il solito ritornello, per cui l’economia che avanza è un vantaggio per tutti. Al momento è solo un vantaggio per le aziende. Per arrivare a quello che Monteze-

molo guadgna in un anno, un operaio dovrebbe lavorare trecento anni di fila, dati alla mano. Mi auguro che il vostro giornale si faccia promotore di una nuova cultura liberale, che faccia il bene di questo Paese.

Filippo Tonetto

Di Pietro mi hai deluso Gentile direttore, nel silenzio generale dei grandi giornali, in modo inspiegabile, si è glissato sulla vicenda di Antonio Di Pietro. L’ex pm ha messo a ferro e fuoco Mediaset e continua a mostrarsi come il grande paladino della pulizia morale e della politica leale. Ovviamente solo in pubblico, perchè in privato sembra assomigliare a Mastella molto di più di quanto non faccia credere. Anche lui ha fatto pressioni al giornale dell’Italia dei Valori, affinchè fosse concesso il praticantato a sua figlia. Piccolo particolare, la sua delfina non risulta aver mai fatto un solo giorno di lavoro in redazione. Complimenti per l’originalità, se proprio i politici devono continuare a deluderci, sarebbe auspicabile ci sorprendessero con un pò di fantasia.

Lucio Annichiarico Matera

PUNTURE Caro direttore, Martina Mondadori era data per canditata nel Pd, ma con una letterina al direttore del Corriere ha smentito: «Non è mia intenzione entrare in politica». Errata corrige.

Giancristiano Desiderio

Un programma politico non si inventa, si vive DON LUIGI STURZO

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

il meglio di

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

Viva Charlie Brown L’adorabile perdente volta pagina. Dopo decenni di sconfitte, vittima preferita di Lucy, femminista in cartoon che umilia e prende per i fondelli l’eterno indeciso, è arrivato il riscatto. Per eterogenesi dei fini, sono stati i pubblicitari a decretare la rivincita del «paperino» disegnato da Charles Schultz. Nell’ultimo spot pubblicitario della Coca-Cola viene ingaggiata una “lotta” fra pupazzoni gonfi d’aria per la conquista del santo Graal: una bottiglia di soda. (...) Alla fine è lui, l’antieroe dei Peanuts, ormai alto nel cielo, ad afferare il premio: it’s mine. È mia! Così intere generazioni di simpatici perdenti potranno sentire che il vento, almeno una volta nella vita gira dal lato meno puzzolente della strada. Che tante piccole o grandi angherie, cui sono quotidianamente sottoposti, possono avere il loro “modesto” riscatto. In pollici, su di uno schermo tv, per mano di un prezzolatissimo spot. Ecchisenefrega! Benvenga anzi, il riscatto sarà venato da un dato certo, granitico e incontrovertibile: «adorabili perdenti» non siete soli nel mondo, perché se diventate un mercato per un bene di largo consumo, vuol dire che siete un esercito, tantissimi, una moltitudine pronta a far sentire la sua voce, pronta a decidere che quella palla che Lucy sta tenendo per voi, carica di rischi – sapete che la toglierà all’ultimo momento e per voi non ci sarà che la polvere del terreno da mangiare – piena di incognite, va calciata. È la voglia di provarci per il gusto di farlo. Tanto sapete come va a finire. Otto anni e mezzo, terza elementare, Piperita Patty, Schroeder, Snoopy, Marcie e soprattutto Linus che lo

Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza

critica sempre, ma gli vuole bene, sono alcuni dei personaggi che popolano il mondo a due dimensioni delle strisce di Schultz. L’albero «cannibale» che gli divora gli aquiloni è la rappresentazioni delle nostre paure. La paura di potercela fare, trova un tranquillo rifugio alle nostre ansie nella scusa, nel feticcio che giustifica la sconfitta e, in fondo, ci riconcilia col mondo, con le Lucy che abbiamo intorno e che popolano la nostra poco eroica vita. Qualcuno l’ha perfino paragonata a Hillary Clinton. Ma la Clinton ha un fratello che si ciuccia il dito? Tutto in Charlie Brown è fatto per empatizzare, perfino la greca sulla maglietta o il luogo del “misfatto” quotidiano. La Waterloo che ci aspetta dietro l’angolo, dopo la lettura mattutina del giornale, il caffé la bar o più modestamente versato dalla moka di casa. È il monte di lancio del diamante. Il baseball è il “calcetto” dei ragazzi americani e quel monte dove il lanciatore dialoga a gesti e sguardi col ricevitore, è la porta quando devi battere un rigore. È come i nostri campetti improvvisati agli incroci delle strade, dietro il capannone fra ciuffi d’erba, pozzanghere e polvere col sudore che cola dalla fronte e inzuppa la maglietta. È lì che ci misuriamo, forse non comprendendo che la sottile e inafferrabile linea che divide la sconfitta dalla vittoria, è semplicemente la voglia di crederci. Per questo il ragazzino delle strisce di Peanuts, interviene ancora, ci vuole aiutare, perché ci ha insegnato anche un’altra lezione: non arrendersi mai… Aaugh!

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


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I BLOG di Federica Zoja

IL CAIRO. Cresce il mondo dei diari su internet nel mondo arabo. Fra le ultime novità in rete il Katib blogs service (Il servizio dei diari dello scrittore), un’opportunità per scrittori, giornalisti, attivisti politici e giovani arabi in genere di sviluppare liberamente blog personali, ovvero diari su internet in cui riportare esperienze, opinioni e notizie di cui vengono a conoscenza. L’iniziativa è lanciata dall’organizzazione non governativa Rete araba per l’informazione sui diritti umani, con base al Cairo, con l’obiettivo di permettere alla società civile araba «di scrivere ciò che vede, al di là delle consuete restrizioni sulla libertà di espressione nel mondo arabo», come riportato in una nota diffusa dalla stessa ong. Il servizio, sviluppato a partire dall’estate del 2005 da volontari in tutto il mondo arabo e inaugurato ufficialmente una settimana fa, è gratuito, non prevede inserzioni pubblicitarie né controlli o censure sui contenuti che saranno messi in rete dai bloggers. Chiunque potrà registrare il proprio diario con il dominio nome dell’autore katib.org e scegliere di scrivere in arabo o inglese. Sono in molti a scommettere che non si faranno attendere i tentativi delle autorità di arginare la piattaforma Katib, come fatto fino ad ora con i singoli blogs degli attivisti politici, molti dei quali attualmente in carcere in Egitto, Siria e Tunisia, solo per citare alcuni casi. Ma gli scrittori e giornalisti non professionisti non si fanno scoraggiare e per un blog chiuso ne sorgono altri come funghi. Trattano di attualità nel senso più ampio: sport, cultura, famiglia, amore, scuola, viaggi e tanto altro. Il pericolo, per i regimi autoritari o semi-autoritari della regione, non è rappresentato tanto o solo dai contenuti, ma ancor di più dalla modalità libera e senza freni con cui vengono espressi. Una modalità che, di per sé, è già un gesto politico per chi teme di perdere il controllo sui cittadini. Fra i rapporti recenti che analizzano il fenomeno diari online, uno dei più interessanti è quello di George Weyman - esperto di media arabi, con formazione a Oxford - per Arab Media Society, sito web della Scuola di giornalismo elettronico dell’Università americana del Cairo. Weymen si occupa di: «Il blogging personale in Egitto: spinge i limiti sociali o li rafforza?» Il taglio dato dal ricercatore è originale proprio perché non si fissa solo sulle produzioni politiche, ma allarga il campo d’osservazione a quelle sociali.

I blog personali, scrive Weyman, «emersi in Egitto e in tutto il mondo arabo negli ultimi anni, offro-

cambieranno

L’ISLAM? Senza precedenti è il ruolo dei diari su web per le giovani donne, che possono permettersi così di attaccare stereotipi e contraddizioni delle società patriarcali di appartenenza, magari nascondendosi dietro pseudonimi suggestivi. I più frequenti e scontati in Egitto sono quelli che attingono alla tradizione faraonica, come Grande Faraone, Nefertiti e Cleopatra.

Weyman segue l’evoluzione di Due paia d’occhi (Two pairs of eyes), scritto a quattro mani da Maat e Nephthys, giovani donne egiziane dalle idee femministe e liberali, come dimostra una delle riflessioni lanciate dalle autrici: «Perché tutti sono ossessionati dal matrimonio?» Ma i diari personali come questo non sono così rivoluzionari da spingersi fino a rigettare del tutto le strutture sociali vigenti, quanto piuttosto a proporre di riformularle, compatibilmente con il tessuto religioso di appartenenza. E forse, proprio queste idee sono più insidiose: perché nessun lettore, capitato anche per caso sul blog, lo chiuderà di scatto, ferito nelle proprie convinzioni. I diari online lasciano spazio

Si diffondono su internet, in Medioriente, diari scritti in arabo, inglese o anglo-arabo, la nuova lingua della borghesia, alla ricerca di un’identità non imposta dall’alto e di un’informazione libera. Tutto è partito dal Cairo, grazie alla Rete egiziana per i diritti umani no una visione senza precedenti della vita sociale dei giovani di mentalità “globale”della regione. Ma l’interesse prevalente dei ricercatori occidentali fino ad oggi si è concentrato sui blog politici, anche se molti diari in rete non possono essere definiti politici nel vero senso della parola».

al dibattito, e chi può resistere alla tentazione di dire ciò che pensa? Esprimersi, questo è il desiderio delle giovani generazioni arabe della media borghesia, «cresciute a televisione satellitare», scrive Weyman, il mezzo “esplosivo” degli anni ’90 in Medio Oriente.Ed ecco, allora, che come le ragazze “terribili”di Due paia d’occhi, fioriscono oggi i bloggers sociali, molti dei quali confluiscono nelle piattaforme Omraneya.net, Arabist.net, Baheyya.blogspot.net, e nelle sezioni arabe di Global Voices Online. I diari sono scritti in arabo, inglese o anglo-arabo, la nuova lingua con cui si esprime gran parte della borghesia in Egitto e nei paesi limitrofi, alla ricerca di una identità scelta e non imposta dall’alto.

Nel proprio saggio, Weyman arriva alla conclusione che in Egitto i blogs personali sono utilizzati per esplorare e talvolta sfidare i valori sociali acquisiti. «La domanda - scrive il ricercatore dell’Università americana del Cairo - è se queste conversazioni in rete abbiano oppure no un potere di trasformazione nel mondo reale». Quello che si chiedono le autorità egiziane e non. Evidentemente se lo augurano gli inventori della piattaforma Katib blogs service, che sperano di offrire qualche garanzia in più - con una ong di peso alle spalle - ai giovani scrittori arabi. Un grande ombrello sulla testa in caso di pioggia torrenziale.


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