QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Oggi il supplemento
MOBY DICK SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA
he di c a n o r c
il Creato
di Ferdinando Adornato
L’ITALIA DI SANREMO Mai come quest’anno i testi delle canzoni sono lo specchio dei nostri tempi. C’è di tutto: pacifisti, gay, antipolitica, licenziamenti e perfino Moro e Berlinguer. Ma in un clima di mediocre banalità, orfani di futuro
Le polemiche sul testamento biologico
Assuntina Morresi Francesco D’Agostino pagina 12 Demetrio Neri
sicilia LOMBARDO RESISTE, FORZA ITALIA E’ NEL CAOS pagina 6
Alfonso Lo Sardo
kosovo LA COLPA SERBA: IL NAZIONALISMO pagina 9
Renzo Foa
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
medioriente
Un Paese senza parole
alle pagine 2, 3, 4
Costringere L’Olp a riconoscere Israele
La nuova sfida di Olmert pagina 10
Daniel Pipes
ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 26
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SABATO 23
FEBBRAIO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
32 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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un Paese
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Il verso più rappresentativi dell’edizione di quest’anno sono di Loredana Berté: «Noi siamo il futuro, con le pezze al culo»
IL RIFLUSSO NEL MEDIOCRE Amore, tristezza, insoddisfazione ma, comunque, tutto “mini” di Angelo Crespi gombriamo subito il campo dagli equivoci. Parlare male di Sanremo è troppo facile. Snobisticamente, come fanno ormai molti intellettuali, varrebbe la pena parlare bene. Convinti di essere davvero controcorrente, ne parleremo malissimo e con massima soddisfazione. Inannzitutto per una nostra malcelata convinzione che la fisiognomica, una scienza più che millenaria, sia ancora utile per capire il mondo, seguendo il pensiero di Leo Longanesi: «non sono le idee che mi speventano, ma le facce che le rappresentano». E guardando la foto di gruppo sanremese, doppia copertina del Tv sorrisi e canzoni in edicola, c’è da rabbrividire. Tutti i cantatori e le cantatrici immortalati nella più scontata posa del “cheeeese” mostrano chiostre di denti ben restaurate da solerti odontotecnici. Ma se le bocche ridono, gli occhi rivelano la falsità del sorriso. Gelidi sguardi di circostanza, gelidi sguardi senza gioia di vecchi che fanno i giovani, e di giovani che cinicamente godono del loro successo, alla faccia dell’Italia in crisi. Che ha ragione Giuliano Ferrara a prendersela con un Paese che non sa più amare, né ridere. La più stralunata, nel misero tentativo di apparire ribelle è Loredana Bertè. Ma non vogliamo infierire. Pippo Baudo nell’angolo sotto la testata sembra colto da emiparesi facciale, le due soubrette a fianco fingono di urlare di felicità. Ma che ci avranno da esser felici, viene da domandarsi. Basterebbe questo per spengere il televisore tutta la settimana prossima. Con un sottile disagio, ci addentriamo invece nei testi delle canzoni, visto che i massmediologi al soldo della tv ci insegnano da anni che la kermesse canora è pur sempre specchio della società. I contenuti, come al solito, sono imbarazzanti senza neppure quell’ironia che potrebbe salvarli. Nella maggior parte dei casi sono espressioni di un io malato, incapace di qualsiasi tensione che non sia centrata su se stesso: le piccole vicende dell’amore, dell’abbandono, la tristezza, l’insoddisfazione, piccoli disagi personali insignificanti che i nostri cantanti vorrebbero da “particulare”innanlzare a universale, con frasi magniloquenti che spesso scadono nel banalismo linguistico. Quando poi si esce dalla casistica tipica del genere lirico «cuore/amore», le cose addirittura peggiorano: l’esordiente Valerio Sanzotta ci scarrella sessanta anni di storia patria con versi tipo «e
S
non fu solo un sogno e non credemmo poco/ mettere il mondo a ferro e fuoco/ mentre un’altra stagione già suonava la campana/ il primo rintocco fu a piazza Fontana» che pur occupandosi degli anni dello stragismo ci fanno rimpiangere perfino la più roboante retorica risorgimentale. Oppure Eugenio Bennato che scodella la solita scontata apologia del “terrone”emigrante canterino. Oppure il rapper Frankie con la sua “rivoluzione”, inno contro i politici, i baroni, il clientelismo, furbescamente a metà tra Grillo e la Casta. O per finire la Tatangelo che nel nome del più irritante politicamente corretto dedica una canzone all’amico gay. E lo dice, roba da non crederci. Ovvio che questa sia l’Italia che non vo-
Non c’è nulla di più kitsch di un buon sentimento espresso male. Ma quando la lingua si corrompe e diventa banale, anche il pensiero muore nel luogo comune. Il Festival rappresenta bene un Paese che non sa più amare né sorridere gliamo, e ci solleva solo pensare che, dati i tempi di programmazione, queste siano le ultime ombre del governo Prodi il quale promise a tutti gli italiani un poco di felicità in più.
Certo, i contenuti di poesie e canzoni sono sempre gli stessi da quattromila anni (amore, dolore, passione…). Non ci aspettavamo novità, ma aggiungiamo che non c’è nulla di più kitsch di un buon sentimento espresso male. Intestardendoci e volendo entrare comunque nel dettaglio e analizzare i testi, dobbiamo chiedere subito scusa a Dante, Petrarca, Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti e Montale. Cioè a tutta quella schiatta di poeti che lungo i secoli hanno affilato lo strumento con il quale pensiamo: la lingua. E quando una lingua si corrompe e diventa banale, anche il pensiero muore nel luogo comune, e la civiltà decade. La sfiga dei nostri cantanti è che dopo la fine del melodico e l’avento del pop-
Sopra, Rita Pavone acclamata a Sanremo nel 1969, quando portò al successo il brano “Zucchero”; in alto, Louis Armstrong nell’edizione del Festival del 1968
rock la musica necessita, per ragioni metriche, di versi tronchi, la cui ultima parola ha l’accento sull’ultima sillaba. E come tutti sanno, in italiano la maggior parte della parole sono piane, con l’acento tonico sulla penultima sillaba. Col poco armamentario delle tronche i versificatori sanremesi, specie nei ritornelli, sono dunque costretti a raffiguare il mondo intero con i soliti “te”,“me”,“perché”, al massimo rifugiandosi nei verbi declinati al futuro. E in questa fuga verso l’ignoto spicca addirittua un cantautore blasonato come Sergio Cammariere che opta per “te”,“me”,“perché”. Il duo Di Tonno-Lola Poce replica con “avrò”,“darò. Il ribelle Grignani con “così”, “me”, “se”, “c’è”. Little Tony spariglia con “dà”,“va”,“qua”, “qui”. L’Aura (scritto proprio così) insiste con “venererà”, “là”, “libertà”, “cullerà”. Il luganese Meneguzzi con “più”, “su”,“tu”. Minghi con “va”,“c’è”,“te”. Fabrizio Moro con “te”, “più”, “me”, “perché”. E via di questo passo, fino a Zarrillo che infila in una sola canzone dodici versi col finale “che” o “me”. A parte questi esempi, la rima, che è l’essenza della poesia antica e della moderna canzonetta, viene bistratta con cinica determinazione dai parolieri, immaginiamo poco inclini allo studio del passato e troppo inclini alle cose più orecchiabili. Cammariere ci seduce con l’inedita rima «fianco/pianto», Cotugno con «perdendo/tormento», Max Gazzé con «vendere il mondo intero/ in cambio del tuo amore vero!» (l’esclamativo, giuriamo, è testuale), Minghi ripiega sul più classico «dolore/cuore». Infine la Bertè ci delizia con «noi siamo il futuro/ con le pezze al culo» che ci sembra lo slogan più convincente dell’imminente campagna elettorale. Per fortuna tra i giovani, gli scanzonati Frank Head regalano l’unica terzina degna di nota: «non sai cos’è successo/ sei chiuso a chiave/ nel limbo del tuo cesso». Definitivo epitaffio di questo Sanremo 2008.
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Radiografia del confronto tra generi
Uomini afasici, donne volitive di Pier Mario Fasanotti sconveniente storcere il naso e dire che le canzonette son boiate e che quest’anno - ora mi sforzo d’essere uno psico-socio-critico musicale - dilaga la citazione, il vezzo di orecchiare parole e note del passato. Il Festival di Sanremo, salvo eccezioni, non è stato mai innovativo. È il rituale della normalità da autobus portato lì e incastrato in perimetri al neon barocco. È pure inutile dar fiato al solito sfiancante quesito se le canzonette sono il vero poetare di oggi oppure no. La risposta c’è già e la ripetiamo a scanso di equivoci: le canzoni di Paolo Conte sono poesie, e poesie più belle di molte che si pubblicano. Quell’istrione geniale di Asti sa inventare situazioni, parole, emozioni. Funambolo della parola, senza il dolciastro del già-detto.
È
Confronto imbarazzante se si prende, per esempio, la scandalosa (ma solo per sé) Loredana Bertè: una montagna di indignazione che riesce a partorire topolini-versi come «noi siamo il futuro con le pezze al culo», oppure «Lucifero sul tetto e i media sotto il letto» (permane il desiderio d’essere sexy bersaglio del gossip, ma ahimè…). Oppure l’immarcescibile Toto Cotugno: «Ci siamo amati e odiati per assurde gelosie…»: vicende tanto millenarie quanto noiose. O Sergio Cammariere: «Cosa non farò per farmi amare…»: e dillo, porca misera, levati sto mattone dal cuore, non basta gridare «tu sola sei l’amore», inventati cose e carne, fai sentire odori, racconta di sottane al vento, è vero che hai una faccia così perbene, ma osa di più sennò quella (se non te la sei inventata) mica t’ascolta. Caro Sergio, fai come Mietta (per fortuna lei c’è a San Remo), la pugliese brunazza tutta sangue che le cose non le manda a dire, ma le gorgheggia in faccia: «Baciami adesso, l’amore è sospeso ma tu baciami adesso». Al Teatro Ariston vien fuori la differenza tra uomini e donne di oggi. I primi esitano. Fabrizio Moro implora: «Non aver paura dei miei cattivi odori», Tricarico se la cava desiderando «una vita tranquilla» (rovesciamento del tormentone di Vasco Rossi, lo spericolato), Gianluca Grignani s’arrende al fatto che «siamo in una slot machine» (confusione da mondo globalizzato, omogeneizzato, eccetera), Max Gazzè mette in musica la sua timidezza: «Posso rivederti già stasera?». Max, e butta via sto telefonino e corri da lei visto che ti dà tanto fastidio che la cornetta sia ostacolo tra te e le sue labbra.
Le donne come Mietta mirano al centro del desiderio. E bum. Ma quanto dovranno faticare nella selva degli esitanti, degli uomini che si nascondono dietro al dolce stil novo ( che novo proprio non è, nuovo era il tormento di Luigi Tenco, semmai). Lola Ponce, che si esibirà in duetto con Giò Di Tonno, è sfrontatamente sincera: «Prendimi sotto la pioggia». Lui risponde educatamente, tanto per non fare il maschio porco: «Stringimi sotto la pioggia, la vita ti darò». Ariel, nella sezione Giovani, fa allusioni: «Voglio un romanzo d’amore». Poi, consapevole della complessità femminile, mette il suo «lui» in guardia: «Non è un gioco entrare nel mio cielo». Insomma, stai attento: «Ti sorprenderai quando io me ne andrò…». Lei comunque ci prova. Guia mette le mani avanti: «Aspettami, che io non vengo». Questo verso è già diventato un tormentone da caserma televisiva, e chi non l’avesse afferrato subito rifletta sull’ambivalenza di quel «non vengo», il tutto aggravato dal «sto troppo male, svengo»: esigenze di rima, certo, ma siamo tra il ribellismo e il languore, che è poi la sintesi della femmina contemporanea, quella con l’ombelico fuori anche quando si gela, il mascara che fa dark lady, la fettuccina del tanga da esibire, e «amore, cazzo, quanto mi manchi» sussurrato al cellulare. Verranno fuori, tra Pippo Baudo e Piero Chiambretti uno spalla dell’altro (ma è una gran finta per noi lettori gonzi, si sa), i temi sociali. Eugenio Bennato porterà la sua Taranta: fatica di emigranti, commistioni tra dialetti e lingue, pure del Madagascar e del Mozambico.
Anna Tatangelo punta sull’amore omosex, l’eterno toto Cotugno sulla gelosia e Tricarico sulla vita tranquilla
Un bel testo: se gli accordi saranno originali, magari vince. E poi c’è un Beppe Grillo versione canzonetta. È Frankie Hihrg mc (tanta complicazione semantica per dire «ad alta energia»). Deve aver letto i giornali: ci mette dentro tutto, dai «furbetti del quartierino» agli «amici degli amici», dalle tangenti dei politici «con cappucci e cornetti sulle fronti». Il suo rap contro il mix mafia-camorra-corruzione va a schiantarsi sul disimpegno malinconico: «Magari mi sbaglio ma vedo tutti allo sbaraglio, meglio darci un taglio….». Applausi del pubblico per una rivoluzione mancata. Anna Tatangelo, la furbona, punta sull’amore omosex. Già vedo una fungaia di microfoni davanti al suo bel viso, lei eroina della libertà, ma che coraggio, l’alfiere della diversità, la Giovanna d’Arco laziale contro la discriminazione. Cara Anna, nobile la tua indignazione, ma credi davvero di vivere in paese islamico?
In alto il figlio di Mogol, Francesco Rapetti; al centro Anna Tatangelo; sopra Little Tony in una foto di qualche anno fa
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In perfetta par condicio una canzone sull’amore tra maschi e una su quello tra donne
Trionfa il banal-correct: vai con le coppie omo! di Roselina Salemi ecnicamente, la notizia non c’è. A Sanremo si canta l’amore, sai la novità. Abbondano metafore consolidate, giochini facili, il «letto che è troppo stretto» di Paolo Meneguzzi, il «baciami adesso e dimmelo spesso» di Mietta (incredibile, la rima è frutto dell’ermetico talento di Pasquale Panella, paroliere di Battisti) e «prova a volarmi nel cuore, voglio un romanzo d’amore» di Ariel. Ci cerchiamo, ci lasciamo e ci disperiamo, non avendo niente di meglio da fare. Ma siccome Gyorgy Lukàcs aveva ragione con la teoria del rispecchiamento (l’arte rispecchia la realtà più della scienza), a leggere i testi chiosati con scrupolo da Sorrisi e Canzoni Tv, dobbiamo convenire che Sanremo rappresenta l’Italia. Sociologicamente, melodicamente, statisticamente. Abbiamo i due figli d’arte (Daniele Battaglia, degno discendente di Dodi, dei Pooh, e Francesco Rapetti, orgoglio di papà Mogol), il ragazzo di liceo che non va benissimo a scuola (Jacopo Troiani, 17 anni), i cinque del Tiburtino partiti dai Coldplay, il militare, la vecchia gloria, la scheggia impazzita. E
T
in questo ripetersi di baci dati e sogni perduti, di sguardi, cieli, colline, rose rosse, sole e profumo di viole, c’è l’amore liquido di Zygmunt Barman, la molto contemporanea incertezza dei sentimenti che rende ansiosi gli uomini e fa
lancia in un monologo che potrebbe stare dentro fenomeni giovanil-cinematografici come Notte prima degli esami uno e due,Tre metri sopra il cielo e simili: «Ciao, sono quello che hai incontrato alla festa, ti ho chiamata solo per sentirti e basta. Posso rivederti già stasera? Ma tu non pensare male adesso: ancora il solito sesso!».
Però l’Italia è cambiata e, rappeggiando, diremmo che è arrabbiata. C’è l’Italia che protesta con la Casta. Qualunquista? Populista? La canta Frankie Hi-Nrg Mg, che non è coreano, come si potrebbe supporre, ma torinese, e si chiama Francesco Di Gesù. Recita: «Mettiamo al bando i vertici politici, con tutti i loro complici, amici degli amici di chi ha vuotato i conti: incassano tangenti celandoci le fonti». C’è l’Italia in «missione di pace», rappresentata da Rosario Morisco che canta «Signorsì», altrimenti non potrebbe stare nell’Esercito. E c’è quella degli esuberi, nel Rubacuori dei Tiromancino, ispirata da un dirigente tagliatore di teste: 35 licenziamenti. «L’azienda non si tocca, l’azienda al primo posto e chi non fa più parte è come fosse mor-
Deborda ancora l’Italia che si cerca, si lascia e si dispera non avendo niente di meglio da fare. Ma trova spazio anche il Paese dell’odio per la casta, dei lavoratori precari e delle missioni di pace rimpiangere alle donne i maschi vecchio stile, genere «Mi chiamo Bond». Perciò Toto Cotugno litiga («Sfoghi tutta la tua rabbia/ sei come un falco chiuso in gabbia»), Fabrizio Moro si lamenta perché lei se n’è andata e Max Gazzè si
to/ io questo lo so bene e non mi sfiora il rimorso/ mando tutti a casa e mi tengo stretto il posto». La storia ricorda Volevo solo dormirle addosso, un film del 2004 con Giorgio Pasotti, ambientato nella Milano gelida dell’efficienza. Ma è la prima volta che i tagli all’organico e l’ottimizzazione salgono sul palco dell’Ariston, segno che per qualcuno il mal di lavoro merita di essere cantato quanto il mal d’amore. C’è l’Italia che prote-
La cosa che mi piace di più è il dopofestival ROMA. Il palco dell’Ariston è come il salone di casa, per Iva Zanicchi, anche se dalla sua prima apparizione datata 1965 tante cose sono cambiate. Lei non ha nostalgia, vanta una carriera con milioni di dischi venduti e il primato femminile di tre vittorie a Sanremo. Ma anche cadute, delusioni, e un difficile equilibrio tra vita artistica e privata. Guarderà il Festival, signora Zanicchi? «Ma certo, sono affezionatissima. Artisticamente devo molto a quel palco. Anche se si parla molto di innovazione e sempre meno di musica». Cosa ricorda della sua prima apparizione? «Una esibizione abbastanza
colloquio con Iva Zanicchi di Cristiano Bucchi deludente. Arrivavo a Sanremo dopo il successo con Come ti vorrei, un pezzo blues molto bello. Mi davano tra i favoriti e invece fui giustamente buttata fuori la prima sera. Cantai malissimo. Un vero incubo». Nel ’67 arrivò la sua prima vittoria, ma il brano che la consacrò fu Zingara, due anni dopo. «Quella del ’69 fu un’edizione indimenticabile, c’erano i più grandi del momento: Battisti, i Dik Dik, Milva, Claudio Villa. Cantai insieme a Bobby Solo, quando mi dissero che avevamo vinto non ci credevo». Quest’anno nella sezione giovani c’è Francesco Ra-
petti, figlio del grande Mogol. È difficile lavorare nel mondo della musica quando si ha un cognome così ingombrante? «Ho avuto ospite Francesco a ”Buona Domenica”, è un bravo musicista e un buon cantante. Non credo che si farà condizionare dal cognome». Vi sentite con Mogol? «L’ho frequentato a lungo negli anni Settanta, ha scritto per me diverse canzoni. Ricordo una persona molto piacevole. Poi è diventato un santone e io con i santoni non sono mai andata molto d’accordo». La sua ultima partecipazione risale al 2003.
«Non credo di tornare, il mio tempo è passato. Però potrei occuparmi di altro». Pensa alla conduzione del Festival? «No, sarebbe chiedere troppo. Credo però che potrei fare molto bene un dopofestival anche insieme a Chiambretti. Conosco bene questo mondo, i cantanti, i giornalisti e poi ormai so muovermi bene davanti alle telecamere. La proposta però non mi è mai arrivata». Come mai? «Non lo so. So solo che questo è il Paese dei raccomandati». E lei di raccomandazioni non ne ha mai avute? «Mai e poi mai. Non ho mai na-
scosto la mia simpatia politica verso Silvio Berlusconi ma non ho mai avuto vantaggi». Pippo Baudo è una garanzia per il Festival? «È un grande professionista, ha grande costanza, lo stimo molto: ma c’è un lato del suo carattere che non mi piace». Quale? «Nei momenti difficili Pippo è carino, perfino un po’ mieloso. Quando torna sul ponte di comando si trasforma: non si fa più trovare, non risponde al telefono… Questo a me non piace. Però devo riconoscere che sa fare bene il suo mestiere». Scelga la canzone che meglio rappresenta il Festival. «Non ho dubbi: Nel blu dipinto
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Fra tutti svetta Francesco Rapetti, il figlio di Mogol Il quartetto dei presentatori della 58esima edizione del Festival di Sanremo: tra Pippo Baudo e Piero Chiambretti, la coppia bionda-bruna (in perfetto stile veline di ”Striscia”) formata da Andrea Osvart e Bianca Guaccero. In basso Iva Zanicchi durante una delle sue tre esibizioni vittoriose al Festival, quella del 1974 in cui arrivò prima con Ciao cara, come stai?
sta («Basta!», grida L’Aura) reclamando un mondo migliore, come si conviene all’anniversario del ‘68. E c’è quella multietnica che si fa strada, cantata da Eugenio Bennato. Nel mix ci sono: dialetto napoletano, un pizzico di arabo, lingua malgascia del Madagascar, swahili del Mozambico: «Muesi warire
di blu di Modugno. Ha portato l’Italia in giro per il mondo. Poi ci sono tante damigelle d’onore, e tra queste c’è Zingara». Cosa augura a Sanremo per il futuro? «Ho un sogno irrealizzabile: mi piacerebbe che si tornasse al Festival vecchia maniera. C’è bisogno che gli autori e i discografici che si sono lasciati portar via un evento che era loro tornino ad avere l’ultima parola».
ure, muesi warireja, muesi wala niripachungo»: si può anche imparare come Akuna matata.
Sono piccole variazioni su un tema che conosciamo già. E sì che qualche accenno trasgressivo capita pure, ma sembra concesso dopo averne verificato la compatibilità con il politicamente corretto. Il massimo, in mancanza di fantasie sadomaso e affini, sta nella composizione data per vincitrice, o almeno piazzata, che Anna Tatangelo, dedica all’amico gay Claudio: «Dimmi che male c’è/ se ami un uomo come te/ L’amore non ha sesso il brivido è lo stesso/ o forse un po’ di più». Insomma, un sostanziale «via libera» alla coppia omo (Sanremo è avanti!), perché Claudio «cerca un nuovo fidanzato», visto che l’altro «già da un pezzo l’ha tradito». Per par condicio abbiamo anche la canzone d’amore dedicata da una donna a un’altra donna, ma Valeria Vaglio si affretta a precisare che non è autobiografica. E poteva mancare la mamma? Certo, moderna, una post-sessantottina, che «ha smesso i suoi vestiti a fiori», «piange di nascosto per non farsi compatire» e naturalmente è bellissima perché è Anna, la mamma di Andrea Bonomo, trent’anni, Sagittario. Agli ipercritici ricordiamo con Bennato (Edoardo) che «sono solo canzonette» e con Guccini (Francesco) «che a canzoni non si fan rivoluzioni». In fondo questa è La terra dei cachi.
Solo tra i giovani fa capolino la poesia di Francesco Napoli anremo, pronti… via! Nell’immaginario degli italiani la città rivierasca emerge con più forza in due occasioni: la Milano-Sanremo, una superclassica del ciclismo internazionale, e il Festival della canzone italiana, insostituibile kermesse, anche quest’anno condotta dall’immarcescibile Pippo Baudo, con Piero Chiambretti e la coppia bionda e mora, simil veline, Andrea Osvart e Bianca Guaccero. Quella sulle due ruote dura una giornata, quella su due piedi e un’ugola un po’ di più. E anche quest’anno l’altrettanto immarcescibile settimanale Sorrisi e Canzoni Tv regala ai suoi lettori la raccolta completa di tutti i testi delle canzoni in lizza, categoria campioni e categoria giovani. Ci si può liberare di ogni dubbio sulla loro eventuale poeticità, che non c’è. Va detto che d’altronde le liriche appaiono fatalmente monche, prive come sono della melodia che le accompagnerà. Così come è incontestabile che nel loro dna riportano echi che appartengono all’Italia intera.
S
Se si procede per categorie, allora bisogna riconoscere una migliore qualità dei testi tra le canzoni dei giovani rispetto ai campioni. Il discorso vale senz’altro per Novecento di Valerio Sanzotta, un excursus storico sulla contemporaneità che pur con qualche ingenuità rimica («Era un giorno di maggio, un giorno di lavoro/ il mattino che trovarono Moro») almeno ci prova a consegnare un po’ di spessore tra fin troppe languide parole d’amore. Nella medesima categoria compare «Sì la follia/ ti porta via/ ma dove vai/ Tu non sei mia» del giovane rampollo Francesco Rapetti, figlio d’arte di Mogol. Stando ai testi dei giovani il mito dell’italiano grande amatore pare sia decisamente in declino, soprattutto se in una serenata si volesse regalare alla propria amata parole come quelle di Daniele Battaglia, altro figlio d’arte (di Dodi dei Pooh): «Resti sola dentro me/ prendi a morsi l’anima/ e il respiro ti cercherà». O di Giua, «Inizio ora a capire/ che tu sei/ il corpo del reato/ confuso e complicato» (deve aver visto troppa televisione) o della ribelle Ariel, «Non è un fuoco quel che sento dentro/ Se tu mi dormi accanto». Ecco, bisognerebbe cercare di restare svegli. Ma qualcuno ci prova, a dar voce a temi più scottanti, quelli su cui perfino l’ex governo Prodi ha più volte vacillato: missioni all’estero, per esempio. Ascol-
tate Rosario Morisco, cantante in carriera militare, e il suo Signorsì intessuto sui verbi all’infinito («Respirare/ Mangiare/ Dormire senza sentire le bombe cadere/ Per ricordare/ Cambiare»).Troverete anche le coppie di fatto, con l’amore omosex al femminile cantato da Valeria Vaglio: «E non sarò più io/ a dirti amore mio/ Come sei bella la mattina appena sveglia».
Il tema ricorre anche nella categoria campioni grazie ad Anna Tatangelo che canta, con parole del suo Gigi D’Alessio, l’amore gay tra uomini con un ragionamento sillogico: «Dimmi che male c’è/ Se ami un altro come te/ L’amore non ha sesso/ il brivido è lo stesso». Ora, a parte il rapper Frankie Hi-Nrg Mc che nel suo brano Rivoluzione cerca di leggere a modo suo alcuni malcontenti e malcostumi italici, «In Italia c’è lavoro in qualche punto nero» o, con chiara allusione, «Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette nude sopra lo zerbino» (ecco un altro che ha visto troppa televisione), si fa largo uso per il resto del solito sesso, per dirla con il titolo dell’ironica canzone di Max Gazzè. Certo viene da chiedersi che Italia è questa: sembra tutta intenta alle solite romanticherie, più o meno languide, e pensa solo a quello, alla rima cuore-amore-fiore, ovvio, prima che arrivino pensieri d’altro genere, con Amedeo Minghi che rassicura tutti («Cammina cammina/ Diventi via via più vicina») o il duetto, definirlo surreale è un complimento, di Giò di Tonno e Lola Ponce, leggere per credere: «Ed era cieco il mio destino/ così cieco a quel sorriso/ chi lo ha scansato/ chi tagliò la strada», dice lui, con lei che risponde «C’erano segni/ c’erano segnali/ numeri indecifrabili/ forse nascosti sotto ai mari. Non ci posso credere». Rispetto alla media generale brilla Zampaglione con i suoi Tiromancino: per loro il nostro Paese è fatto anche da un dirigente d’ azienda, dal licenziamento facile, che cinicamente ha «cercato il potere/ rovinando la gente». Nota finale per i Finley. Non per il testo ma per questa manìa di abbreviare, a mo’ di sms, tutto, compreso i nomi di battesimo. La formazione è composta da Ka, Pedro, Dani e Ste. Ma tagliatevi i capelli, urlavano i genitori dei sessantottini. E non i nomi, si può aggiungere.
Vacilla il mito del latin lover italico: la bellezza della donna incute timore al punto da diventare «il corpo del reato»
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politica
Berlusconi non riesce più a controllare lo scompiglio creato da Micciché
La resistenza di Lombardo il caos di Forza Italia di Alfonso Lo Sardo
PALERMO. Lo sguardo è luciferino e di lui tutti, amici e nemici, non possono che ammetterne l’intelligenza politica e l’esperienza. I più maliziosi dicono che è cinico e pronto a tutto ma nessuno prova a dubitare delle sue capacità politiche. Una cosa è certa: oggi Raffaele Lombardo, leader del Movimento per l’autonomia, catanese classe 1950, è corteggiato a destra e al centro. A sinistra no, non ancora, ma domani chissà. È la Dc la sua scuola politica e di incarichi ne ha avuti diversi: deputato all’assemblea regionale siciliana nel 1986 e poi nel 1991, assessore regionale agli Enti locali. Nel 1992 rimane coinvolto in Tangentopoli e per lui la carriera politica si interrompe per riprendere con l’elezione al Parlamento europeo nel 1999 nelle fila del Centro cristiano democratico e con la designazione a vicesindaco di Catania nel 2000 e quella di presidente della provincia di Catania nel 2003. Ma è dell’aprile 2005 la svolta quando con la lista del Movimento per l’autonomia raccoglie complessivamente il 20% circa di voti, una dote preziosa per l’elezione di Umberto Scapagnini a sindaco di Catania. Alle politiche del 2006 si allea con la Lega di Umberto Bossi sancendo il patto per le autonomie. Ma nella sua seconda vita politica la vera rampa di lancio è la Provincia di Catania. Una delle province che oggi molti propongono di abolire perché ritenuti enti pletorici. Lombardo viene eletto presidente della Provincia nel turno elettorale del 2003 raccogliendo il 64,9% dei voti in una coalizione di centrodestra e non è certo un caso se un sondaggio del Sole24Ore lo ha riconosciuto il presidente di Provincia con il più alto indice di gradimento dei cittadini in Italia. Cosa farà da grande Raffaele Lombardo? Lui spera di essere eletto presidente della Regione Sicilia e i presupposti ci sarebbero tutti se non fosse per alcuni problemucci. Uno di questi piccolo piccolo in realtà ma che
sta diventando nelle ultime ore grande grande si chiama Gianfranco Micciché, ex presidente dell’Assemblea regionale siciliana, che, incurante delle indicazioni di Silvio Berlusconi, ma forte dell’appoggio del padre politico e ideologo Marcello Dell’Utri, non solo si è autocandidato ma resiste di fronte alla pressioni che provengono da tutta la compagine del centrodestra siciliano. Un centrodestra che nell’avversione per Gianfranco Micciché e nel giudizio pressoché unanime sulla sua inadeguatezza si ricompatta, a dispetto delle logiche nazionali imposte dal neonato Pdl di Berlusconi e di Fini e che prevederebbero un candidato di Forza Italia per la corsa a palazzo d’Orleans. E molti candidati azzurri an-
Domani don Raffaele annuncerà ufficialmente la sua candidatura. Bocciata ieri quella della Prestigiacomo drebbero pure bene a tutte le forze dell’ex Casa delle Libertà ma di Micciché e dei suoi amici – Stefania Prestigiacomo, Michele Cimino, Giuseppe Fallica, Giulia Adamo – l’Udc siciliana e lo stesso Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo non vogliono nemmeno sentire parlare. Che fare allora? Manca solo un giorno all’appuntamento di Acireale quando di fronte a migliaia di persone don Raffaele ufficializzerà la propria candidatura.
L’Udc di Totò Cuffaro, di Saverio Romano e di Lillo Mannino è con lui e non da ora. Era stato infatti lo stesso segretario regionale Saverio Romano a fare un passo indietro per sostenere Lombardo. Rimane comunque la consapevolezza che la Sicilia rappresenta una linea di demarcazione molto netta tra la vittoria del centrodestra a
livello nazionale e quella regionale dove a sperare in una divaricazione dei rapporti tra le varie anime del centrodestra isolano c’è cotanta Anna Finocchiaro, cavallo di razza pronto a galoppare e a godere tra i due litiganti. Ma sbagliano gli addetti ai lavori se pensano che dietro ai nomi non via siano anche dei programmi.
E quello dell’Mpa è articolato e forte.Vediamone alcuni punti. Su tutti la fiscalità di vantaggio rispetto alla quale il Parlamento europeo si è già espresso in modo favorevole e poi ancora gli interventi sulla Unione europea per la proroga dell’entrata in vigore dell’area di libero scambio euro-mediterranea e per l’individuazione di nuovi strumenti giuridici e finanziari finalizzati al potenziamento delle economie dei Paesi extra comunitari che rientrano nella suddetta area, la realizzazione di infrastrutture capaci di rilanciare lo sviluppo e la crescita economica. Al primo posto dell’agenda politica quindi il Sud e la Sicilia e lo stesso Cavaliere nei suoi incontri con Lombardo non ha nascosto la sua simpatia per il personaggio catanese. Ma dove iniziano le affinità e dove cominciano i calcoli e la convenienza politica?
Berlusconi sa bene che solo un centrodestra, eccezionalmente unito in Sicilia nonostante i nuovi assetti nazionali, può produrre una vittoria, evitando un autogol che si chiamerebbe Anna Finocchiaro. E intanto l’ultima provocazione è quella della candidatura alla presidenza della Regione di Stefania Prestigiacomo, alter ego di Gianfranco Micciché, incapace come quest’ultimo di far convergere sul suo nome altre adesioni che non siano quelle del gruppetto di fedelissimi. Si configura nella peggiore delle ipotesi una spaccatura dentro Forza Italia, un partito che non prevede dissensi interni e voci fuori dal coro. Ma Raffaele resiste, e va per la sua strada. L’Udc è con lui, An vorrebbe esprimersi
apertamente in sui favore ma lo fa a denti stretti. Forza Italia spera nell’umiltà di Micciché e dei suoi epigoni. Ma è più facile che un cammello…..
politica
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d i a r i o
d e l
g i o r n o
Casini: «No all’immunità parlamentare» «Bisogna dire un no chiaro e netto alla reintroduzione dell’immunità parlamentare». Lo ha detto Pier Ferdinando Casini, nel corso di una conferenza stampa tenuta a Lucca. «Berlusconi - continua il presidente dell’Udc - vuole liste pulite ma poi, per se’, vuole una eccezione e chiede di rimettere l’immunità parlamentare».
Fassino blandisce De Mita «Mi auguro che Ciriaco De Mita rimanga con noi - ha dichiarato Piero Fassino - Nessuno lo ha escluso e tutti gli siamo grati per il contributo che ha dato. Tuttavia fa parte del ciclo della vita passare la mano alle nuove generazioni».
Franco Giordano attacca Veltroni «Non esiste la sua corsa solitaria, il leader del Pd è assimilabile a Berlusconi - spiega il segretario di Rifondazione Comunista, che aggiunge - è del tutto falsata l’idea di una sfida tra Veltroni e Berlusconi. Ci sono delle differenze ma, soprattutto sui temi di politica economica e sociale l’impianto è lo stesso. Quello che è evidente è la scelta del pd di guardare alla sua destra. Ha rimosso il punto di vista della sinistra».
Veltroni contro Bertinotti
Prove d’intesa al centro (senza Mastella). Veltroni chiude coi radicali
Udc e Rosa più vicine di Susanna Turco
ROMA. È ragionevole prevedere che entro qualche giorno si si arriverà ad un accordo ma, per il momento, il progressivo avvicinamento tra Udc e Rosa bianca non scivola sull’olio. I contatti continuano, ma in superficie affiorano versioni discordanti sullo stato di avanzamento delle trattative, incentrate su candidato premier, nome e simbolo. Da parte uddiccina si fa trapelare che si sta lavorando ad uno schema che vede Pier Ferdinando Casini unico candidato premier con il suo nome sulla scheda insieme al simbolo scudocrociato, senza però più la scritta Udc ma un richiamo nominale al centro come «centro popolare». «Siamo disposti a mettere da parte il nome», fa sapere il capogruppo centrista al Senato Francesco D’Onofrio, specificando però che «ancora nessuna decisione definitiva è presa» e che l’altra ipotesi che c’è allo studio è quella di presentarsi alle elezioni ognuno sotto la propria insegna e avviare dopo l’esito delle urne la fase costituente del nuovo centro.
scrive Bruno Tabacci sul suo blog. Ancora più esplicito Savino Pezzotta: «È chiaro che guardiamo con interesse ed attenzione ad una possibile convergenza, però ci deve essere pari dignità. Sono d’accordo che non si debba fare un pateracchio, ma fino a quando non sarà finita la nostra assemblea non sarò in grado di dire molto di più». Sono infatti due gli elementi che spingono alla prudenza la Rosa bianca: il timore di subire una «annessione» e quello, collegato, di trasformare l’Assemblea fondativa (oggi e domani a Montecatini) nella platea dell’accordo con Casini. È chiaro infatti che se la due giorni dovesse anda-
Ed è proprio su queste indiscrezioni che si interrompe la sintonia che invece domina quando si tratta di dire «no ai pateracchi» e sì allo sforzo di unire il centro. Nel momento in cui si prova a entrare nel merito dell’intesa, infatti, i leader della Rosa bianca frenano bruscamente. «Ho letto di accordi che sarebbero intervenuti. Mi sembra che ci sia troppa fretta»,
re come i suoi dirigenti si augurano, da lunedì il peso specifico della Rosa bianca sarebbe diverso. Da ogni accordo sembra comunque esclusa la presenza di Clemente Mastella, mentre è a buon punto l’intesa con Ciriaco De Mita. «Noi andiamo per la nostra strada, anche a costo di restar da soli», ha detto il leader dell’Udeur a SkyTg24 Pomeriggio, dopo aver
Si lavora sull’ipotesi di Casini candidato premier, con un nuovo nome per il partito. Tabacci: «Troppa fretta, non c’è alcun accordo»
rinnovato il suo appello perché sia colta l’opportunità di una convergenza al centro.
Mentre il Pdl si dibatte sul nodo siciliano, Veltroni annuncia le prime candidature di grido (Veronesi in Lombardia e la lettiana Madia nel Lazio) e soprattutto sembra riuscire nell’impresa di chiudere l’accordo con il partito di Pannella. Secondo quanto trapelato dopo l’incontro di ieri radicali entreranno nelle liste del Pd, con la prospettiva di un gruppo parlamentare. Emma Bonino sarà capolista in una circoscrizione al Nord e ministro di peso in caso di vittoria. Nel loft non si è parlato di nomi, e dunque qualche difficoltà potrebbe arrivare da questo fronte. Un nodo di tensione che però, dopo prudenti mezze frasi di Bettini, Marco Pannella ha contribuito ad allentare. Per un accordo così, ha detto Veltroni ai radicali «bisogna essere convinti. Se vi sentite costretti non se ne fa niente». Così il grande vecchio di via di Torre Argentina nel pomeriggio ha reso nota la sua approvazione per «base e sviluppi dell’intesa con il Pd» e spiegato che ritiene la sua candidatura «sinceramente e gioiosamente non opportuna». Nel fine settimana, gli stati generali del partito dovranno esprimersi sull’intesa. I contrari non mancano ma, si fa notare in ambienti radicali, «dire di no a questo punto ci condannerebbe alla peggiore marginalità».
«Mi chiedo se siamo nel 2008 o nel 1953? Può una persona ragionevole sostenere che se si porta un operaio in lista e, quindi, in Parlamento, poi non puoi candidare anche un imprenditore?». Così, durante la registrazione di TV7, Walter Veltroni, ha replicato a Fausto Bertinotti che, commentando la candidatura di Matteo Colaninno e quella dell’operaio scampato al rogo della Thyssen, Italo Boccuzzi, ha sostenuto che «dei due uno è di troppo».
Giorgia Meloni ancora in pole L’esecutivo romano del Pdl non scioglie la riserva sul nome dello sfidante di Francesco Rutelli al comune di Roma. Atteso per lunedì l’annuncio. «Giorgia Meloni resta fra le migliori candidature che possiamo proporre alla guida del Campidoglio». Ha dichiarato il presidente della federazione romana di An, Gianni Alemanno.
Cicchitto: «Al Pd manca Gasmann» Fabrizio Cicchitto ha dichiarato: «Nel pluripartito, quale si è trasformata la lista denominata Partito democratico, Veltroni fa il bello, i Radicali il brutto e Di Pietro il cattivo. Per il remake di un film va benissimo, diverso è il discorso riguardante la politica di un partito che si era presentato come unico e solo. Invece si tratta di un’armata Brancaleone ma senza Vittorio Gassman”.
Castagnetti: «I Radicali? Un boomerang» «La misura dell’offerta fatta ai radicali non è condivisa da nessuno nel gruppo parlamentare del Pd» - ha dichiarato Pierluigi Castagnetti - anzi l’alleanza sarà un boomerang, con effetti dirompenti non calcolati».
Pd, Veronesi capolista. An all’attacco Il professor Umberto Veronesi sarà capolista del Partito democratico per il Senato in Lombardia. Alfredo Mantovano dichiara: «Prima l’accordo con I Radicali ed ora Veronesi come eventuale ministro della Salute. Si puó immaginare quali decisioni adotterà in tema di droga (libera), di eutanasia (si rileggano i suoi libri in materia), di tutela della vita nascente e di manipolazioni genetiche. Complimenti ai teodem e a chi pensa ancora che nel Pd ci sia spazio per i principi di diritto naturale!».
Nebbia killer sull’autostrada Terribile incidente automobilistico causato dalla nebbia sulla A21. Due delle cinque vittime sarebbero camionisti rumeni rimasti schiacciati nella cabina del loro camion, una terza era passeggero di un furgone. Decine di feriti: grave anche il direttore delle Autostrade Centropadane di Cremona, investito da un’auto mentre si recava sul luogo del tamponamento.
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pensieri
L’INTERVENTO
Le possibili convergenze centriste con Savino Pezzotta e Ciriaco de Mita
Perché non basta dirsi cattolici di Angelo Sanza e ipotesi di convergenza al centro con Savino Pezzotta e con Ciriaco De Mita sono nella logica delle cose, visto che vogliamo non solo semplificare il quadro di riferimento politico, ma anche poter contare. Dovremo riflettere anche noi ed entrare in sintonia con una grossa fetta dell’elettorato che evidentemente vuole che la politica decida e sia di nuovo protagonista, non a rimorchio della magistratura. Tutto è nelle nostre mani, però. Condivido le amare valutazioni di De Mita, all’indomani dell’uscita dal Pd. Sia quelle su di un Veltroni fuori tempo, che lancia un ponte con Berlusconi nel momento meno adatto, sia quella che considera quest’ultimo come privo, ormai da tempo, di una vera strategia politica. Non posso però evitare di fare alcune considerazioni sull’elemento «cattolico» della politica. È vero che la battaglia sui valori è oggi, più che mai, la vera sostanza del confronto. Soprattutto nel Paese. Noi di liberal l’abbiamo capito prima di
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altri, ma dobbiamo anche essere certi che la riproposizione di un partito dei cattolici sarebbe un errore. Le condizioni storiche sono diverse: il Paese è cambiato. Lo strutturalismo che prima era monolitico, oggi si è segmentato in tanti rivoli, è come un cadavere che avvelena
Occorre allargare i confini verso la parte veramente liberale dell’Italia: quella che ha imparato sul campo le regole della meritocrazia, della sussidiarietà e della responsabilità una parte dell’Occidente. È una realtà liquida che si tinge d’anticlericalismo, come d’insofferenza nei confronti di una visione antropocentrica della società. Emerge in forma episodica, ma con una strategia costante che ha invaso da tempo anche il teatro internazionale. Penso alla proposta fatta all’Onu di trasformare il «genere» in una libera scelta. Per queste ragioni il cattolicesimo in politica deve allargare i confini verso la parte veramen-
iamo in campagna elettorale e quindi iniziano a fioccare le ricette per l’economia. Ma, come accade spesso anche in medicina, si rischia di prescrivere tanti farmaci, ognuno dei quali cura un sintomo, perdendo di vista l’intervento risolutivo. Ora, posto che il problema del Paese è in questo momento - sia che lo si guardi da destra che da sinistra - quello dello sviluppo dell’economia, la realtà non cambia. Occorre chiedersi quale sia la chiave che effettivamente apre la porta della ripresa. Occorre dunque ricercare il fattore che spiega il differenziale di crescita fra i Paesi. A parità di livello di benessere e di istruzione degli abitanti, i differenziali di crescita sono giustificati da diversi livelli di produttività. La produttività riguarda tutti: certamente i dipendenti pubblici, per i quali da noi il tema si è posto in toni «drammatici», ma sicuramente anche le imprese, e, a ben vedere, il sistema-paese nel suo complesso. Le imprese, infatti, non possono produrre di più e a costi più bassi, se non si trovano in un contesto favorevole. Anche introducendo le tecniche migliori e i prodotti più innovativi, le imprese non diventano competitive se subiscono il peso di un’organizzazione amministrativa che provoca costi indiretti – ad esempio a
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te liberale dell’Italia. Quella che ha imparato sul campo le regole della meritocrazia, della sussidiarietà e della responsabilità. Ha ragione De Mita quando definisce quello in atto un percorso che muove da un bipolarismo muscolare verso un «bipartitismo senz’anima», e
che la situazione sia molto fluida e ricca di sorprese sono in molti a pronosticarlo. Perché? Fondamentalmente perché l’attuale assetto non risponde pienamente alle esigenze del Paese. Si semplifica, ma non si risolve. Meno sigle certamente, ma la capacità di governo? Le novità non si vedono. C’è un Pdl che si appoggia al castello Fi- An più i circoli della Brambilla, che sembra già la torre di Pisa. La nuova forma partito «legge-
ra» deve appoggiarsi sulle fondazioni che ne sono i pilastri che garantiscono la diversità culturale e il collegamento con la società civile. Senza un forte progetto culturale alla base, i nuovi partiti sono strutture assai fragili, che possono sciogliersi nottetempo, come è già avvenuto. Se la formazione di centro saprà aggregare altre forze vitali del Paese e «leggere» meglio le esigenze degli italiani, allora potremo affermare che la partita delle elezioni sia
Potando le leggi sulle attività economiche
Produttività è la parola-chiave della ripresa di Giuseppe Vegas
causa dell’insufficienza delle infrastrutture e dei trasporti – oppure detta regolamentazioni che ostacolano l’attuazione di una vera realtà di mercato. Ne sono esempi: i limiti ai diritti di proprietà, i limiti al diritto di disporre dei propri beni, le autorizzazioni alle nuove attività economiche, le regolamentazioni formali delle modalità di svolgimento dell’attività delle imprese. Perché non concentrare dunque la ricetta su un’unica medicina, che però può migliorare lo stato di salute complessivo del paziente? Perché quindi non fare
ancora tutta da giocare. Da questa parte, la nostra, l’elaborazione culturale e la tradizione identitaria è costruita sui valori che aggregano e proteggono, per questo chi ha fede è meno soggetto ad essere schiavo di sentimenti come l’invidia, l’accidia o l’allegra irresponsabilità che sembra voler avvolgere un’intera classe dirigente. Essere laico in politica non significa essere ateo e la strada per chi crede è ancora aperta.
del rilancio della produttività il detonatore per rinnovare completamente il sistema economico italiano. Si tratterebbe di una sfida affascinante, a condizione di non considerare il problema solo in una delle sue sfaccettature. Non si tratta solo di correlare gli aumenti salariali agli aumenti di produttività, ma - principalmente - di rimuovere gli ostacoli ad un corretto funzionamento del mercato. Se infatti esistono imprese sussidiate – ancorché in modo indiretto – direttamente a carico dell’erario o a spese di altre imprese, ne deriva che la produttività di queste imprese risulta fortemente diminuita, e cala quindi la loro competitività internazionale. In tal modo si perderanno quote di mercato, si avranno meno risorse a disposizione per gli investimenti e lo sviluppo. Quindi, anziché svilupparsi, il Paese si impoverirà rispetto al suo potenziale di crescita. In conclusione: il primo intervento per la produttività consiste in una robustissima potatura di tutte le leggi, statali e regionali, che regolamentano le attività economiche in tutti i settori. Operazione che troverà certo non poche resistenze, ma che tuttavia resta indispensabile se si vuole mirare ad un reale e concreto sviluppo economico.
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parole
na manifestazione di cieca protesta, ispirata direttamente dal primo ministro Vojislav Kostunica e istigata dal regista Emir Kusturica, ha aperto lo spazio ad incendi e saccheggi dell’ambasciata americana e di altre sedi diplomatiche e commerciali straniere, riproponendo all’Europa e al mondo la «questione serba». Che consiste in una società che, per quanto divisa, non riesce ad arginare o anche solo a frenare un nazionalismo esasperato, incapace di adeguarsi alle condizioni di coesistenza con i propri vicini. È un vero e proprio «buco nero». Un problema che non riguarda solo il sistema delle relazioni internazionali, in particolare lungo il filo dell’asse Belgrado-Mosca, ma in primo luogo la condizione complessiva dei rapporti politici, culturali e anche morali in questo nostro Occidente. Il fatto è che quel nazionalismo – che coinvolge leader, tifoserie e anche intellettuali – appare un problema irrisolvibile ed evoca la questione della «colpa» di una nazione.
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C o s a c o l p i s c e d e l l a minacciosa fiammata di violenza che ha illuminato la notte belgradese? Colpisce in primo luogo il fatto che c’è un angolo dell’Europa dove non valgono le lezioni della storia. Dove non valgono le lezioni della sconfitta. Basti un piccolo promemoria. Nel 1990 Belgrado era la capitale di uno Stato federale, nato con la pace di Parigi dopo la prima guerra mondiale e rifondato nel 1945. Si trattava di un assetto precario, che teneva insieme etnie, religioni e culture diverse e che, dopo la morte di Tito, stentava sempre più nel combinare anche livelli di sviluppo molto differenziati.Via via, come sappiamo, la Jugoslavia ha perso tutti i suoi pezzi. Prima la Slovenia, che ha saputo raggiungere di corsa l’Europa. Poi la Croazia e la Bosnia. E ancora la Macedonia, il Montenegro, fino al Kosovo. Finché è tornata nei piccoli confini della Serbia. Cosa è successo? Che sloveni, croati, bosniaci, macedoni, montenegrini e kosovari sono giunti tutti alla conclusione dell’impossibilità di coesistere con quei serbi che erano governati da Slobodan Milosevic e che a problemi politici sapevano solo rispondere con la devastante semplificazione della guerra. Vorrà pur dire qualcosa questo rifiuto? Così come vorrà pur dire qualcosa il fatto che un forte esercito, una forte polizia e forti unità paramilitari non siano mai riuscite a piegare le fughe indipendentiste. Neanche davanti agli eccessi di realismo delle diplomazie europee o alla neutralità delle Nazioni Unite. Lasciamo stare la conta dei morti, gli effetti della «pulizia etnica» e il ritorno obbligato ad accordi di pace che avevano come requisito essenziale la separazione etnica o, come nel caso della Bosnia, un compromesso inter-etnico. Lasciamo stare la tragedia che l’Europa ha vissuto e il prezzo umanitario pagato. Quel che colpisce è il fatto che la Serbia, negli anni del suo delirio nazionalistico, ha perso tutto: la centralità politica nel contesto jugoslavo (con la cancellazione finale della parola Jugoslavia) e soprattutto le guerre in cui si è impegnata. Si è dovuta ritirare subito dalla Slovenia, dopo
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LA COLPA SERBA
Un nazionalismo incapace di riconoscere la sconfitta di Renzo Foa
Le violenze di Belgrado ripropongono il problema di arginare un’ideologia distruttiva che ha provocato guerre e disastri nel cuore dell’Europa un breve tentativo muscolare. È stata militarmente sconfitta dai croati, nel momento in cui questi sono riusciti ad organizzare un piccolo ma efficiente esercito. Ha perso in Bosnia, dove pure era stata sul punto di impadronirsi del centro di Sarajevo. Ha dovuto infine lasciare il Kosovo. È stata battuta sul terreno che aveva scelto.
È stata battut a anche grazie all’intervento della Nato, decisivo sia per arrivare agli accordi di Dayton sia per impedire un disastro umanitario nella regione a prevalenza dominante albanese. Ma questo, anziché attenuare la dimensione della disfatta, l’ha accentuata. Quale leadership politica è riuscita, nella recente storia del mondo, a mettersi contro l’intera comunità internazionale, senza lasciarsi una via di compromesso o di fuga? Quel che ha fatto Slobodan Milosevic non ha precedenti. Si è trattato del suicidio lento
e progressivo di una nazione, che ha scelto l’isolamento nel nome di un’ideologia nazionalista senza sbocchi. Dicevo prima di una «colpa collettiva». E anche questo rispecchia tristemente la realtà. La società ha cominciato a risvegliarsi nei giorni dei raid aerei della Nato, primavera del 1999. Cioè quasi dieci anni dopo un’esplosione di nichilismo che aveva portato il vicino ad uccidere il vicino, in storie che hanno riempito pagine drammatiche e straordinarie di letteratura, e che aveva raggiunto l’abisso di eccidi di massa, come quello di Srebrenica. Diciamo la verità. L’unico precedente nel Novecento europeo sta nella «colpa» tedesca: l’incapacità di reagire alle furie della difesa dell’identità, la partecipazione morale alla distruzione fisica dell’«altro» fino all’amaro risveglio, avvenuto nella primavera del 1945, ma fra le macerie di quella che era stata la Germania. È questo precedente a collocare la Serbia in una dimensione insostenibile. E insopportabile. Sappiamo, certo, che a Belgrado ci sono linee di divisione. Che non c’è solo il primo minstro Vojislav Kostunica che, come ricordava ieri Enzo Bettiza sulla Stampa, si era opposto all’estradizione di Milosevic e aveva dato una tenace copertura al generale Ratko Mladic, mai consegnato al tribunale
dell’Aja. Non c’è solo quel che sempre Bettiza ha definito «un nuovo Milosevic». Sappiamo che c’è una partita politica aperta, che la società non esprime più un monolite nazionalista.
Sappi amo da tan ti piccoli dettagli che la tendenza alla fuga continua, se è vero che i serbi rimasti in Kosovo preferiscono non essere reintegrati nella madrepatria, quanto restare sotto la tutela della comunità internazionale. Ma è l’immagine della fiammata nazionalista dell’atra sera a dirci che la questione resta aperta, che c’è un male inestirpabile, da non sottovalutare. Eruzioni come queste sono un pericolo. Non per gli assetti internazionali, nonostante il gioco alla «grande potenza» in cui è impegnato il Cremlino, con la sua vocazione egemonica sul mondo slavo-ortodosso. A questa voce, corrisponde un equilibrio delle forze che frena la Russia. Il pericolo è più sottile. Riguarda il modo in cui affrontare manifestazioni di nichilismo come queste. Non è un problema di «ordine pubblico» europeo. È piuttosto un problema morale quello di non accettare il ricatto affermato negli incendi e nei saccheggi di Belgrado. Un ricatto che non viene solo da bande di violenti, ma anche dalle parole di un primo ministro come Kostunica e di un intellettuale come Kusturica.
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mondo
Appello di Pipes contro l’avanzata del sistema giudiziario islamico nelle società occidentali
Facciamo fronte contro la Shari’a o finiremo tutti condannati di Daniel Pipes li occidentali contrari all’applicazione della legge islamica (la Shari‘a) guardano sgomenti al fatto che essa attecchisce con maggior vigore nei loro Paesi - harem sempre più accetti, un leader clericale che approva la legge islamica, un giudice che fa riferimento al Corano, corti musulmane clandestine che impartiscono giustizia. Cosa può essere fatto per fermare l’avanzata di questo sistema giudiziario medievale così profondamente in contraddizione con la vita moderna, che opprime le donne e trasforma i non-musulmani in cittadini di seconda classe? Un primo passo da parte degli occidentali è quello di creare un fronte unito contro la Shari‘a. Di fronte a una pressoché unanime ostilità, gli islamisti si tireranno indietro. Si osservi, ad esempio, il dietrofront compiuto la settimana scorsa dal Council on American-Islamic Relations (Cair) nell’ambito di una disputa inerente i cani guida utilizzati dai non vedenti. Tradizionalmente, i musulmani considerano i cani come animali impuri da evitare, creando così un’avversione che diventa problematica nel momento in cui i titolari di esercizi commerciali o i conducenti dei taxi di fede musulmana negano la
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fruizione dei loro servizi agli occidentali non vedenti accompagnati dai cani guida. Ho raccolto quindici casi del genere sul mio weblog Muslim Taxi Drivers vs. Seeing-Eye Dog: cinque di essi verificatisi negli Stati Uniti (New Orleans, Cincinnati, Milwaukee, Brooksville in Florida, Everett a Washington); quattro in Canada (Vancouver, due episodi a Edmonton, Fort McMurray); tre nel Regno Unito (Cambridge, due episodi a Londra); due in Australia (Melbourne e Sydney); e uno in Norvegia (Oslo). Le notizie riferiscono di tassisti di fede musulmana che si rifiutano scortesemente di far salire a bordo della loro autovettura persone non-vedenti, urlando loro: «Niente cani! Niente cani! Se ne vada»; «Faccia scendere quel cane» e «Niente cani! Niente cani!». I non-vedenti si ritrovano rifiutati, umiliati, abbandonati, offesi o perfino feriti, lasciati a piedi sotto la pioggia, abbandonati in posti sperduti, fatti arrivare in ritardo a un appuntamento oppure costretti a perdere un volo. Inizialmente, le organizzazioni islamiste hanno replicato a questo problema appoggiando i tassisti contrari a far salire a bordo del loro autoveicolo gli animali. La Muslim Association of Canada ha fatto rilevare
come in genere i musulmani considerino immonda la saliva dei cani. In un’occasione, il Cair ha fatto eco a questa asserzione, affermando che «la saliva dei cani invalida la purezza spirituale necessaria per la preghiera». In un’altra occasione, il leader del Cair, Nihad Awad, ha dichiarato che «i mediorientali, in particolar modo (…) sono stati allevati nella fo-
dati o finiscono perfino in galera. Il giudice che ha considerato «del tutto vergognoso» un comportamento tenuto da un tassista ha parlato a nome di molti. Il Cair, rendendosi conto che il suo approccio si era rivelato fallimentare tanto nelle corti di giustizia quanto nei tribunali dell’opinione pubblica, tutto a un tratto, ha mutato posizione. Ad esempio, con un cinico stra-
«È ora di dire basta agli harem, a un leader clericale che approva la legge islamica, ai giudici che fanno riferimento al Corano e alle corti musulmane clandestine» bia dei cani» e ha giustificato un tassista che si è rifiutato di far salire in macchina un cane guida, motivando ciò con il fatto che l’uomo «ha paura dei cani e ha agito in buona fede. Egli ha agito conformemente alle sue convinzioni religiose». Ma se vengono chiamati in causa la polizia e i tribunali, i diritti riconosciuti dalla legge ai nonvedenti, a tutela dei loro bisogni e della loro dignità, quasi sempre hanno la meglio sull’avversione musulmana per i cani. I titolari degli esercizi commerciali o i tassisti di fede musulmana si ritrovano immutabilmente ammoniti, multati, rieducati, diffi-
tagemma, esso ha disposto che 300 tassisti di Minneapolis offrissero corse gratuite ai partecipanti ad una conferenza organizzata dalla Federazione nazionale dei non-vedenti. E per finire, la scorsa settimana, la sezione canadese del Cair ha rilasciato una dichiarazione che esorta i tassisti musulmani a far salire a bordo del loro autoveicolo passeggeri non-vedenti, parafrasando quanto asserito da un membro del consiglio di amministrazione, secondo il quale «l’Islam permette l’uso dei cani da parte dei non-vedenti». La resa del Cair implica un’importante lezione. Se gli oc-
cidentali sono ampiamente d’accordo sulla necessità di ricusare una specifica legge islamica o la tradizione e si coalizzano contro di essa, gli islamisti occidentali dovranno rimettersi alla volontà della maggioranza. I cani guida per non-vedenti rappresentano solo uno degli innumerevoli argomenti di consenso. Altri tendono a coinvolgere le donne: come le questioni dei mariti che percuotono le mogli, il burqa che copre il capo, la mutilazione dei genitali femminili e i delitti “d’onore”. L’unità occidentale può altresì costringere gli islamisti a denunciare le loro posizioni privilegiate in questioni come la schiavitù e i finanziamenti conformi alla Shari ‘a. Contrariamente al mondo musulmano, altre pratiche islamiche non esistono (ancora) in Occidente. Esse annoverano la punizione da infliggere alle donne vittime di stupro, l’utilizzo di bambini negli attentati suicidi e il giustiziare qualcuno accusato di crimini come l’apostasia, l’adulterio, l’avere avuto un figlio adulterino. La solidarietà occidentale può ottenere concessioni anche in questi settori. Se come occidentali rimarremo uniti, la Shari‘a sarà stigmatizzata. Se non lo faremo, finermo con l’essere condannati.
mondo
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La missione EU-Lex votata dall’Europa non gode di legittimità giurdica
In attesa di Ban Ki-Moon
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Solana: congelata ipotesi Serbia nella Ue Le trattative tra Belgrado e Bruxelles per l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea sono congelate finché non avranno termine le violenze nella capitale serba. Lo ha riferito l’Alto rappresentante europeo per la sicurezza e la politica estera, Javier Solana, riferendosi agli attacchi alle rappresentanze diplomatiche, messi in atto da manifestanti nella capitale serba. La Russia, intanto, difende Belgrado e minaccia l’uso della forza armata nel Kosovo se Europa e Stati Uniti non rispetteranno le decisioni dell’Onu.
Cuba domenica al voto Con l’annuncio di tre giorni fa che rinunciava alla presidenza, Fidel Castro ha aperto la strada alla sua successione che sarà sancita con la votazione di domenica prossima. Sembra scontata l’elezione del fratello minore Raul, 76 anni, al quale il “leader maximo” ha consegnato il potere ad interim quando si è ammalato, il 31 luglio 2006. Ma la rosa dei possibili candidati è più ampia: c’è il 56enne Carlos Lage Davila, attuale vicepresidente del Consiglio di Stato e membro del Comitato centrale del partito comunista cubano (Pcc), e Ricardo Alarcon De Quesada, già ambasciatore all’Onu e ministro degli Esteri per oltre 20 anni, prima di diventare presidente dell’Assemblea nazionale nel 1993.
Nuova risoluzione contro l’Iran? Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), Mohammed el-Baradei, ha presentato a Vienna l’ultimo rapporto sul programma nucleare iraniano, una relazione già contestata dai Paesi occidentali. Regno Unito e Francia hanno formalmente presentato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite una risoluzione che chiede una terza serie di sanzioni contro l’Iran, reo di non aver sospeso le operazioni per l’arricchimento dell’uranio.
Pkk sotto attacco turco
di Maria Maggiore
BRUXELLES. «Speriamo che arrivi presto un segnale dal Palazzo di Vetro, altrimenti il nostro passo in avanti in Kosovo rischia di finire in un burrone». La frase sussurrata in un corridoio del Justus Lipsius, sede dei governi Ue, viene da un diplomatico europeo. Dopo i clamori all’annuncio della dichiarazione d’independenza dei kosovari, dopo la benedizione di fatto dell’Unione europea, a Bruxelles, seppur con la formula della «libertà di riconoscimento» del Kosovo da parte di ogni Paese e con i «no» di Cipro, Spagna, Grecia, Bulgaria e Romania, l’Europa adesso trema guardando le immagini dell’assalto all’ambasciata americana e spera che l’ordine rientri al più presto nella regione. Altrimenti il castello di sabbia costruito dai vertici europei rischia di crollare.
fornito la loro disponibilità a partecipare alla missione in Kosovo.
Il problema è che la Risoluzione 1244 che dalla fine della guerra in Kosovo (giugno ’99) gestisce questo protettorato internazionale, non prevede un passaggio agli europei di una missione delle Nazioni Unite. E quindi l’operazione EULex «venduta» come il formale appoggio dell’Europa all’indipendenza del Kosovo, altro non è che un colpo di mano per cercare di accelerare gli eventi. «Agli europei ba-
nel 2006, quando, prima di arrivare a una risoluzione Onu, Kofi Annan venne a Bruxelles a invitare formalmente gli europei a intervenire. Ma per il Kosovo il gesto ancora non arriva e l’operazione europea vacilla in una terra dove l’ordine pubblico può saltare da un momento all’altro. Un incidente o un attentato a EU-Lex farebbe ritirare subito i Paesi contrari, indietreggiare gli indecisi e getterebbe l’Europa nel ridicolo. Inoltre i malumori europei sul riconoscimento del Kosovo, sono solo rimandati, perchè il giorno in cui o la Serbia o il Kosovo saranno pronti a entrare nella Ue, ogni Stato membro dovrà riconoscerli e lì saranno guai. «Speriamo almeno che si eviti lo stesso errore di Cipro, entrata in Europa senza risolvere prima il problema dell’occupazione turca, per cui i ciprioti bloccano qualunque decisione sulla Turchia e Ankara non riconosce la Repubblica di Cipro», aggiunge Missiroli. E i serbi? Il loro risentimento è solo strategia politica o c’è da preoccuparsi? Niente è certo nei Balcani, ma voci diplomatiche assicurano che, una volta calmate le acque, Belgrado sia pronta a risedersi a un tavolo negoziale dove i serbi accetterebbero «di fatto» lo status del Kosovo, a condizione che i serbi-kosovari entrino sotto la protezione delle Nazioni Unite. L’Europa con gli albanesi, l’Onu con i serbi. Sempre che la Russia possa accettarlo.
La Risoluzione 1244 che dalla fine della guerra gestisce il protettorato del Kosovo, non prevede il passaggio agli europei della missione Onu
Il 4 febbraio scorso i 27 hanno dato via libera alla missione civile di 2000 uomini, tra poliziotti, doganieri e giudici, che dovrà assistere le autorità kosovare nella costruzione del nuovo Stato. Sostituendo gradualmente le unità delle Nazioni Unite, sul posto da nove anni. Cipro, occupata dai turchi dal ’74, si è astenuta, ma la sua strategia «costruttiva» (in gergo comunitario) ha permesso all’operazione EU-Lex di decollare con il cappello europeo e una parvenza di unità.Ventisei Paesi membri (tutti, compresi Cipro e la Spagna, tranne Malta) hanno già
sterebbe un invito solenne del Segretario generale dell’Onu, Ban KiMoon, per un intervento in Kosovo, che le cose si metterebbero a posto», spiega Antonio Missiroli, direttore del Centro Politico europeo, uno dei maggiori think thank di Bruxelles. Un gesto che non richiederebbe il voto del Consiglio di Sicurezza, dove il veto della Russia impedirebbe qualunque accordo e che dovrebbe arrivare entro i prossimi due mesi. È questo, infatti, il tempo entro il quale sia le forze EU-Lex dovranno dispiegarsi sul territorio sia le forze Onu dovranno lasciare il campo. Insomma, si rende necessario un sigillo, un cambio di mano ufficiale per rendere “legale” la missione. Come fu per l’intervento in Libano,
Truppe turche sono entrate di notte nel nord dell’Iraq per un’offensiva terrestre contro i ribelli separatisti curdi che vi hanno le basi.Lo ha annunciato un comunicato dell’esercito di Ankara, affermando che sono diecimila i soldati impegnati nell’operazione appoggiata anche dai caccia. L’obiettivo, ormai noto, è quello di sgominare le basi del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che trovano rifugio in nord Iraq e secondo molti anche protezione presso il governo della Regione autonoma curda del Nord Iraq, guidato da Massoud Barzani.
Appello basco: non votare! Gli indipendentisti baschi, travolti da centinaia di arresti e dal veto posto dalla magistratura ai loro rappresentanti a partecipare alle elezioni legislative del 9 marzo, hanno rivolto un appello alla “astensione attiva” dal voto a tutti i cittadini della regione “contro lo stato oppressore” spagnolo. In una dichiarazione fatta a Pamplona, secondo quanto riferisce la stampa basca, un gruppo di eletti della sinistra patriottica ha denunciato «lo stato di emergenza» secondo loro imposto da Madrid, aggiungendo che ciò conferma l’indipendenza come unico obiettivo possibile per il Paese Basco, sull’esempio del Kosovo.
Guerriglia nello Sri Lanka Almeno 92 ribelli tamil e tre militari sono stati uccisi nel nord dello Sri Lanka in combattimenti fra le forze governative e le Tigri per la liberazione dell’Eelam Tamil. Un comunicato del ministero della Difesa ha detto che gli scontri sono iniziati quando le forze governative hanno distrutto due bunker tenuti dalle Tigri, lungo la linea del fronte che separa il mini stato ribelle controllato di fatto dai guerriglieri nel nord dal resto dell’isola. Dall’inizio dell’anno, secondo la stessa fonte, sono morti nei combattimenti quasi quotidiani 1.450 ribelli e 83 militari.
Darfur, Unchr sotto choc L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) si è detto scioccato per il livello di distruzione a Sirba, una delle località della regione sudanese del Darfur colpita all’inizio del mese da attacchi delle forze governo del Sudan.
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speciale bioetica
Creato
BIOETICA E AMBIEN-
Il testamento biologico e i suoi limiti. Quando è possibile dire no ai trattamenti
Il dolore di vivere di Assuntina Morresi
rispetto ai trattamenti medici proposti.
ra Camera e Senato sono dodici i Disegni di Legge depositati durante la legislatura appena conclusa, che in qualche modo riguardano il cosiddetto “Testamento biologico”, espressione comunemente usata per tradurre l’inglese “living will”. Si tratta, in poche parole, di una dichiarazione scritta con cui una persona, in piena libertà e consapevolezza, esprime la sua volontà riguardo ai trattamenti ai quali vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposta nel corso di una malattia, o a seguito di un evento traumatico improvviso. Di tale “dichiarazione anticipata di trattamento” – questa per esempio è l’espressione utilizzata dal Comitato Nazionale di Bioetica per tradurre il “living will” – si dovrebbe tenere in conto nell’eventualità in cui chi l’ha redatta non potesse più esprimere il proprio consenso
Il dibattito bioetico sull’argomento va avanti da molti anni, fra gli addetti ai lavori, ed è arrivato al grande pubblico per via di alcuni casi drammatici che sono stati sotto i riflettori per intere settimane, primo fra tutti quello di Terry Schiavo, la giovane americana in stato persistente vegetativo che fu lasciata morire di fame e di sete contro la volontà dei genitori, che pure se ne volevano prendere cura: i vari gradi della giustizia americana stabilirono che invece andava ascoltato suo marito, il quale chiedeva la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale che tenevano in vita Terry da tanti anni. In Italia un caso analogo è quello di Eluana Englaro, la giovane che si trova nelle stesse condizioni di Terry Schiavo da quindici anni, a seguito di un incidente stradale. Suo padre chiede da anni la
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sospensione della nutrizione artificiale, ed una sentenza recente della Cassazione sembra avergli dato ragione. La letteratura specialistica bioetica, ma anche quella giuridica, è ricca di interventi e contributi in questo senso, e anche i media si sono occupati a lungo dell’argomento, facendo però spesso una gran confusione. Nel caso di Piergiorgio Welby, per esempio, il testamento biologico è stato chiamato in causa spesso, ma sempre a sproposito. Welby era perfettamente capace di intendere e di volere, tanto da essere stato in grado di condurre una vera e propria battaglia politica dal letto in cui era bloccato: nel suo caso la prima richiesta era stata l’eutanasia, alla quale è seguita poi quella della sospensione delle cure. Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica che affronta il problema – e di cui riportiamo alcuni stralci – ha la data del 2003, quando cioè tutti i casi particolari di cui si è parlato
finora non erano scoppiati. Eppure conserva ancora tutta la sua attualità: nella sostanza il documento riconosce l’opportunità di legiferare sulle “dichiarazioni anticipate di trattamento”, purché non sia obbligatorio per tutti redigerle, e purché il medico non sia obbligato a seguirle. Nel documento si afferma con forza però che della volontà del paziente si deve tenere fortemente conto, suggerendo a tale fine una modalità concreta di comportamento: il medico dovrebbe dichiarare per iscritto sia le motivazioni per cui decidesse di seguire le indicazioni del paziente, sia quelle per cui decidesse di non seguirle. Il nodo dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale invece è stato oggetto di un parere successivo, di due anni dopo, redatto all’indomani del caso Terry Schiavo. E mentre il primo dei due documenti quello sulle dichiarazioni anticipate di testamento, ha avuto un pieno consenso all’in-
terno del Cnb, rompendo la tradizionale divisione “laici contro cattolici”, lo stesso non è avvenuto nel secondo parere, quello sull’ idratazione ed alimentazione artificiale: la maggioranza dei membri del Cnb ha dichiarato di non poter considerare la nutrizione artificiale alla stregua di un trattamento medico, e quindi di non ritenere corretto includerlo nelle “cure” di cui si può chiedere anticipatamente la sospensione. In altre parole: nel testamento biologico, secondo la maggioranza del Cnb che ha condiviso questa opinione, non si può chiedere di sospendere alimentazione e idratazione artificiale. Una minoranza fra i membri del Cnb ha espresso invece l’opinione opposta, ed includerebbe anche la nutrizione artificiale fra i trattamenti che si potrebbero sospendere.
Di v e r s e l e p r o b l e m a t i c h e che fanno da sfondo alle questioni inerenti alla fine della vita, e che costituiscono i veri nodi da sciogliere: innanzitutto l’idea di professione medica. Quando un medico viene considerato alla stregua di un professionista che elargisce prestazioni a pagamento – come un architetto o un commerciante, tanto per fare qualche esempio - allora quello medicopaziente si trasforma in un rapporto meramente contrattuale, diventa quindi necessario individuare regole che definiscano i limiti e le caratteristiche di quel rapporto, e di conseguenza legiferare in questo senso. Ma può una professione sanitaria identificarsi in una simile rappresentazione, senza vedersi snaturata? Ne dubitiamo. E se è vero che le nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche rendono in un certo senso più difficile morire, almeno in alcuni casi, è altrettanto vero che l’altra posta in gioco è quella della qualità della vita, e il concetto di autodeterminazione. Chi decide se, in che condizioni e fino a quando una vita vale la pena di essere vissuta? Che cosa significa concretamente l’autodeterminazione?
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Il documento del Comitato Nazionale di Bioetica che trovò l’accordo di laici e cattolici
«L’alleanza medico-malato» Ecco gli stralci più significativi del documento del Comitato di Bioetica, approvato all’unanimità nel 2003, che parla del testamento biologico e ne stabilisce i limiti.
Premessa. Oggetto di questo documento sono le Dichiarazioni anticipate di trattamento, è un tema la cui rilevanza è andata costantemente crescendo negli ultimi anni e che, nella letteratura bioetica nazionale e internazionale, viene per lo più indicato con l’espressione inglese living will, variamente tradotta con differenti espressioni quali: testamento biologico, testamento di vita, direttive anticipate, volontà pre-
siano eventualmente controfirmati da un medico, che garantisca di aver adeguatamente informato il sottoscrittore in merito alle possibili conseguenze delle decisioni da lui assunte nel documento. E’ auspicabile che il sottoscrittore indichi una scadenza temporale per la conferma e/o il rinnovo della sua Dichiarazione, fermo restando il diritto di revocare o parzialmente cambiare le sue disposizioni in qualsiasi momento. E’ inoltre da ritenere che spetti esclusivamente alla decisione di chi compila tali documenti stabilire le modalità della loro conservazione, il numero di copie autentiche da produrre e l’individuazione dei soggetti ai quali affidarli
vie di trattamento ecc. Tali diverse denominazioni fanno riferimento, in una prima approssimazione, a un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato. Di questi documenti si discutono in letteratura le diverse possibili tipologie (alcune delle quali hanno ottenuto in alcuni paesi un riconoscimento giuridico). Per far acquisire rilievo pubblico (anche se non necessariamente legale) a questi documenti viene richiesto che essi siano redatti per iscritto, che non possa sorgere alcun dubbio sulla identità e sulla capacità di chi li sottoscrive, sulla loro autenticità documentale e sulla data della sottoscrizione e che
per la custodia e per la loro eventuale esibizione e utilizzazione. E’ opportuno che il legislatore predisponga, per coloro che lo richiedano, una procedura di deposito e/o registrazione presso un’istituzione pubblica delle dichiarazioni anticipate. Si ritiene altresì opportuno che i sottoscrittori stabiliscano, ove tali documenti vengano poi effettivamente utilizzati nei loro confronti, se il loro contenuto possa essere reso di dominio pubblico. E’ come se, grazie alle dichiarazioni anticipate, il dialogo tra medico e paziente idealmente continuasse anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte. Nell’affermare questo, il CNB intende anche sottolineare, da un lato, che le dichiarazioni anticipate assegnano al medico e al personale sanitario un compito valutativo reso assai complesso dall’impossibilità materiale di interazione col paziente, un compito, tuttavia,
che ne esalta l’autonomia professionale (ma anche la dimensione umanistica); e, dall’altro, che le dichiarazioni anticipate non devono in alcun modo essere intese come una pratica che possa indurre o facilitare logiche di abbandono terapeutico, neppure in modo indiretto: infatti, le indicazioni fornite dal paziente, anche quando espresse (come è in parte inevitabile) in forma generale e standardizzata, non possono mai essere applicate burocraticamente e ottusamente, ma chiedono sempre di essere calate nella realtà specifica del singolo paziente e della sua effettiva situazione clinica. Per concludere sul punto, dunque, si può ben affermare che, pur essendo numerosi e complessi i problemi bioetici sollevati dalle dichiarazioni anticipate, sul piano etico non esistono radicali obiezioni di principio nei loro confronti, anche se differenti possono essere le motivazioni e gli argomenti che le differenti teorie etiche formulano a sostegno delle proprie posizioni. […] A fronte di questo consenso di principio, possono però, come si è appena accennato, essere avanzati vari dubbi e varie riserve in ordine alla struttura e alle modalità di attuazione delle dichiarazioni anticipate, che finiscono per assumere inevitabilmente una rilevante, ma anche differenziata, incidenza etica. Senza pretendere di esaurire l’ampia gamma di problematiche che sono emerse in un dibattito ormai più che trentennale, in questo documento ci si soffermerà su quattro temi la cui analisi appare imprescindibile al fine della introduzione di una prassi accettabile. Questi quattro temi possono essere così riassunti: A) Come evitare il carattere “astratto” delle dichiarazioni anticipate e le inevitabili “ambiguità” dovute al linguaggio con cui vengono formulate, in specie quando il paziente non si faccia assistere, nella loro redazione, da un medico o da altro soggetto dotato di specifica competenza? B) Quali indicazioni operative possono essere contenute in questi documenti? C) Quale affidabilità può riconoscersi a tali documenti? Quale vincolatività devono possedere per il medico dal punto di vista deontologico e giuridico? D) A quali strumenti è opportuno ricorrere per implementare, qualora ciò
appaia desiderabile, le dichiarazioni anticipate? **** 10. Raccomandazioni bioetiche conclusive In sintesi, il CNB ritiene che le dichiarazioni anticipate siano legittime, abbiano cioè valore bioetico, solo quando rispettino i seguenti criteri generali: A. abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale; B. non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza; C. ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si auspica che esse siano compilate con l’assistenza di un medico, che può controfirmarle; D. siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione. Il CNB ritiene altresì opportuno : a) che il legislatore intervenga esplicitamente in materia, anche per attuare le disposizioni della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina e nella prospettiva di una futura normativa biogiuridica di carattere generale relativa alle professioni sanitarie, cui lo stesso CNB potrà fornire il proprio contributo di riflessione; b) che la legge obblighi il medico a prendere in considerazione le dichiarazioni anticipate, escludendone espressamente il carattere vincolante, ma imponendogli, sia che le attui sia che non le attui, di esplicitare formalmente e adeguatamente in cartella clinica le ragioni della sua decisione; c) che le dichiarazioni anticipate possano eventualmente indicare i nominativi di uno o più soggetti fiduciari, da coinvolgere obbligatoriamente, da parte dei medici, nei processi decisionali a carico dei pazienti divenuti incapaci di intendere e di volere; d) che ove le dichiarazioni anticipate contengano informazioni “sensibili” sul piano della privacy, come è ben possibile che avvenga, la legge imponga apposite procedure per la loro conservazione e consultazione.
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Creato «Non siamo i burocrati della vita e della morte» speciale bioetica
colloquio con Francesco D’Agostino di Gabriella Mecucci
trana sorte quella del testamento biologico, già nel 2003 un accordo fra laici e cattolici per fare la legge sembrava a portata di mano. Il comitato di bioetica aveva infatti approvato all’unanimità un documento di indirizzo generale. E invece tutto si è bloccato. Perché? Sull’argomento testamento biologico abbiamo sentito il protagonista di quell’intesa, l’allora presidente del comitato nazionale di Bioetica Francesco D’Agostino, intellettuale cattolico e fine giurista.
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Professore iniziamo con un giudizio più generale, qual è il suo atteggiamento nei confronti del testamento biologico? Qualche sera fa ho visto al cinema un bel film sull’argomento: “La famiglia Savage”. Lo cito perché rappresenta meglio di tanti saggi la natura dei problemi che abbiamo di fronte. La narrazione cinematografica può avvicinare a questi anche un pubblico di non addetti ai lavori E allora parliamo del film.. E’ la storia di un anziano signore americano che alla morte della moglie va fuori di testa. La sua malattia però non è così grave da ottunderlo totalmente: ha anzi ampi spazi di lucidità e alcuni momenti invece in cui non è più completamente autosufficiente. I figli si preoccupano di non lasciarlo da solo e di trovargli una sistemazione in un ospizio. L’anziano signore finisce in un bel recidence – un luogo di gran lunga migliore dei nostri ricoveri – la soluzione sembra essere ottimale. Quando i figli vi conducono il padre, il personale dell’ospizio chiede loro una serie di documenti e fra questi il testamento biologico. Così, insieme al certificato di nascita? Sì. Il testamento biologico è preteso come altri documenti: come l’assicurazione che garantisce il pagamento della retta. Nel film i due figli portano il padre al ristorante e, fra mille imbarazzi, alla fine gli dicono che fra le carte da presentare ce ne deve essere una in cui deve scrivere che cosa vuole che gli facciano, ad esempio, qualora vada in coma. Il dialogo si fa sempre più difficile quando si passa all’illustrazione dettagliata delle opzioni fra le quali il padre deve scegliere.
«Sì al testamento ma no alle derive che ci conducono all’eutanasia»
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libri e riviste ata infausta quella dell’11 per settembre, S a l v a t o r e Crisafulli: è il 2003, si schianta contro un furgone con la sua vespa. Si risveglia dopo cinque mesi di coma, ed è un incubo: Salvatore vede, capisce tutto, ma non riesce a muoversi, a comunicare. E’ completamente paralizzato, e tutti lo credono diventato come un vegetale. Il fatello Pietro, che aveva smesso di lavorare per poterlo accudire, era convinto che Salvatore fosse vigile, nonostante il responso medico: “Solo che lui è cosciente. I medici sostengono che questo non è possibile, ma io so che è così. Lui comunica con me muovendo gli occhi, ride quando gli faccio gli scherzi, piange quando gli parlo della sua situazione, oppure quando guarda il calendario e si rende conto di quanti giorni sono passati dal momento dell’incidente. Non si muove, è vero, ma cerca di aprire la bocca e muove gli occhi per dire sì oppure no. Per il resto, le sue condizioni sono identiche a quelle della donna americana di cui tanto si parla in questi giorni.(Terry Schiavo, ndr). Lo so perché sto seguendo con apprensione quel caso, ogni giorno mi collego su Internet, guardo le foto e cerco informazioni che possano esserci utili”. Dopo innumerevoli “viaggi della speranza” e nessun aiuto da parte delle
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L’anziano signore ascolta il tutto con grande turbamento, poi si sdegna e alla fine, profondamente addolorato, dice: qualsiasi cosa mi capiti, staccatemi la spina e lasciatemi morire.. Che cosa la colpisce in modo particolare di questo drammatico racconto? Il testamento biologico che viene descritto dai suoi più convinti sostenitori come un fatto di autonomia dell’individuo che esercita così la libertà di decidere anche per quando non sarà più in condizione di farlo, può trasformarsi in molte occasioni in un fatto burocratico. Piattamente e freddamente burocratico. Questo la spinge ad essere contrario al testamento biologico? No. Come giurista anzi amo la categoria dell’autonomia e ritengo che più si dilata e meglio è. A fronte di questa convinzione astratta, c’è però la realtà. Quando ci troviamo di fronte a situazioni estreme, a vicende umane laceranti, anche se abbiamo paradigmi morali forti, la loro applicazione diventa molto complicata. La storia del film di cui le parlavo testimonia questo. Professore sta facendo un
istituzioni, Pietro però sembra non farcela più, e dichiara pubblicamente che avrebbe “staccato la spina” al fratello, visto che la famiglia era stata lasciata sola ad affrontare l’enorme problema. Il TgCom raccolse l’appello e la storia di Salvatore finì su tutti i giornali. Fu la sua fortuna: grazie anche all’intervento del Ministro della Sanità Francesco Storace Salvatore fu ricoverato nel centro di dell’ospedale neuro-riabilitazione San Donato di Arezzo, e dopo due mesi di cure, uscì dal coma. Con gli occhi sbarrati. La straordinaria storia di Salvatore Crisafulli Crisafulli Pietro, Ferrari Tamara L’Airone Editrice Roma (2006)
I genitori, il fratello, la sorella di Terry parlano di Terry e di se stessi. Chi l’ha amata e ha tanto lottato per la sua vita racconta non solo dei quindici anni trascorsi accanto al suo letto, ma anche la storia di questa donna, la sua infanzia, l’adolescenza, e l’incontro con il marito, Michael Schiavo. Un grande amore, la tensione crescente nel loro rapporto, il drammatico epilogo. Vediamo dall’interno della fami-
passo indietro rispetto al documento del 2003? Quel documento del 2003 l’ho praticamente scritto io. L’ho fatto cercando di ottenere il consenso più vasto e così fu. Non ne rinnego nemmeno una parola. Da allora ad
Francesco D’Agostino
oggi però è cambiato qualcosa: non si percepisce più il carattere tragico dei testamenti biologici e sempre più affiora la dimensione burocratica: sempre più diventa un documento come un altro. C’è una for-
glia cosa succede quando la corte ordina di sospendere la nutrizione artificiale, e sempre insieme alla sua famiglia ci troviamo ad assistere inermi alla morte di Terry, circondati dalla polizia che controlla che nessuno la nutra e la disseti. Che cosa avrebbe fatto ciascuno di noi, se si fosse trovato nelle condizioni della famiglia Schindlers? Sito ufficiale della Terry Schindler Schiavo Foundation: http://www.terrisfight.org/ A Life That Matters: The Legacy of Terri Schiavo - A Lesson for Us All And Mary S c h i n d l e r, Robert Schindler, Suzanne Schindler Vi t a d a m o Suzanne, Suzanne Schindler Vi t a d a m o ( W i t h ) Wa r n e r b o o k s (2006)
a cura di Alfonso Piscitelli
tissima pressione perché divengano una pratica di gestione di fine vita. Spesso sono persone anziane, malate e quindi fragilissime a essere invitate a predisporlo. Un medico carismatico è in condizione di convincerli a fare ciò che vuole. Torniamo al documento del 2003.. Quell’intesa aveva questo di buono: riconosceva il diritto dei pazienti che volevano predeterminarsi a farlo (è uno strumento – secondo i dati statistici – che usano in pochi), ma lasciava al medico l’ultima parola. Il medico aveva il dovere di prendere seriamente in considerazione il testamento biologico, ma era l’ultimo responsabile della sua applicazione o disapplicazione motivata. Così ci sembrava di aver dato una risposta adeguata a tutti coloro che mettono al centro il tema dell’autonomia del paziente (può rifiutare accanimenti terapeutici, trattamenti invasive, terapie straordinarie ndr) senza però umiliare la professionalità dei medici. Rispetto al documento del comitato di bioetica oggi che cosa è successo di nuovo? Innanzitutto – per la verità per il momento non in Italia – comincia a verificarsi che le cliniche sollecita-
no i pazienti a fare il testamento biologico che non è quindi – almeno in alcuni casi – più il frutto di una scelta libera ed autonoma, ma scaturisce da una pressione. In Inghilerra, ad esempio, per un comportamento siffatto di una importante clinica è scoppiato un vero e proprio scandalo. Il testamento biologico, lo ripeto, rischia di divenire una pratica burocratica. A questo va aggiunto il caso in cui non risultano chiaramente espresse le volontà del paziente. Mi scusi, cosa vuol dire.. Di recente la Cassazione nella sentenza sul caso di Eluana Englaro ha accettato purtroppo il principio che la volontà del paziente, anche se non espressa per iscritto, può essere ricostruita attraverso le testimonianze. Siamo passati dalla categoria forte del testamento a quella debolissima, per un giurista, della prova testimoniale. E questo è rischiosissimo. A ciò va aggiunto che nessun medico è in grado di darti la prova scientifica di un coma irreversibile. In estrema sintesi, lei è favorevole al testamento biologico? Sono favorevole a condizione che il testamento biologico non sia altro
che il tentativo di espandere al periodo della vita in cui il malato non è più in grado di autodeterminarsi, le decisioni sanitarie che avrebbe preso se totalmente presente a se stesso. In altre parole: le opzioni terapeutiche nella medicina contemporanea si sono moltiplicate e molte non sono squisitamente tecniche, trovo quindi giusto che il paziente possa essere chiamato a decidere. Sono d’accordo se si tratta di accettare o no certe terapie. Non sono d’accordo invece quando si cerca di piegare il testamento biologico in chiave di eutanasia. E purtroppo questo avviene sempre più spesso: sia in alcune proposte di legge depositate in Parlamento, sia nel dibattito. Durante il caso Welby più volte si è cercato di mettere le due cose sullo stesso piano. Sul piano dei principi un cattolico può accettare il testamento biologico? Nella chiave in cui lo proponeva il documento del 2003 sì.Tanto è vero che i cattolici votarono a favore. Ma questo continuo slittamento che si è voluto produrre verso derive eutanasiche ha creato molta diffidenza e pessimismo fra i cattolici. E non posso dargli torto.
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speciale bioetica
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«Evitiamo che i pregiudizi ideologici blocchino la legge» colloquio con Demetrio Neri di Anna Principe Il professor Demetrio Neri è membro laico del comitato nazionale di bioetica ed è un convinto sostenitore del testamento biologico. Professore, che tipo di legge occorre e con quali limiti? Una legge in queste materie che suscitano nella società civile sempre una qualche controversia dovrebbe essere un provvedimento “leggero”, di principi, che stabilisca un sistema di compatibilità fra visioni del mondo fra loro molto diverse. Ho studiato i diversi disegni di legge presentati in Parlamento è mi sono convinto che un accordo è a portata di mano. Se si esclude un punto per il resto le posizioni sono addirittura sovrapponibili. E qual è questo punto critico? La controversia riguarda l’individuazione dei trattamenti terapeutici ai quali è possibile e lecito rinunciare. Nella proposta presentata dalla senatrice Binetti, ad esempio, si stabilisce un limite netto rispetto all’idratazione e all’alimentazione artificiale. Questo tipo di intervento, cioè, non può essere oggetto di una rinuncia da parte del paziente. Ritengo che sia un errore perché il trattamento in questione non riguarda solo lo stato vegetativo permanente, ma numerose altre situazioni. Se lo escludessimo dal testamento biologico toglieremmo autonomia non solo al paziente ma anche al medico. Quest’ultimo con una legge che proibisse la rinuncia all’idratazione e all’alimentazione artifi-
ciale non avrebbe nessuna possibilità di valutare la specificità del caso – ce ne sono molti e anche molto differenti – e sarebbe vincolato a tenere il paziente in quelle condizioni contro la sua volontà. Perché nonostante la possibilità di arrivare – come lei sostiene – ad una mediazione la legge sul testamento biologico si è arenata? Perché c’è stata un’insufficiente elaborazione e perché sono intervenute posizioni ideologiche a mio parere male argomentate. Eppure noi non possiamo non fare una legge sull’argomento. Il nostro Parlamento infatti ha approvato la Convenzione di Oviedo che all’articolo 9 parla appunto di questo principio. Non avendo però approntato gli strumenti di legge per applicarlo non abbiamo potuto ratificare quel documento che pure abbiamo firmato. Il Comitato nazionale di bioetica inoltre, nel 2003, approvò all’unanimità un documento d’indirizzo che ha fra l’altro assunto una notevole rilevanza anche a livello internazionale: la Germania, ad esempio, l’ha assunto come modello. Questo disegna una strada per arrivare ad una legge sul testamento biologico ragionevole e ben argomentata. Il documento fu possibile perché non esiste alcuna incompatibilità di principio fra il testamento biologico e alcune visioni del mondo fra loro molto diverse. Nulla osta – secondo lei – a che un cattolico possa accettare il testamento
biologico? A livello di principio certamente no. Tanto è vero che considero un bel modello di testamento biologico quello proposto dalla conferenza episcopale tedesca. L’ostacolo quindi non sta in una posizione etica, ma origina nel mondo politico.Torniamo ancora alla materia del contendere e cioè alla possibilità di scrivere nel testamento biologico il proprio rifiuto dell’idratazione e dell’alimentazione artificiale. Sull’argomento si attribuisce alla chiesa cattolica una posizione fortemente negativa perché la sospensione del trattamento in questione prefigurerebbe un caso di vera e propria eutanasia. E non le sembra che sia così? No. Tanto è vero che nel paragrafo 120 della carta degli operatori sanitari, approvata nel ’94 dal Pontificio Consiglio, si legge: “l’alimentazione e l’idratazione – anche artificialmente amministrate – rientrano fra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui. La loro indebita sospensione può avere il significato di vera e propria eutanasia”. E’ chiaro che il testo riconosce il fatto che in alcune situazioni la sospensione non è una vera e propria eutanasia e ciò accade quando il trattamento “risulti gravoso”per il paziente. Nella proposta di legge della senatrice Binetti c’è un accenno alla gravosità della terapia, accenno però che nell’articolato scompare. Ne risulta un testo che non prevede mai la possibilità di rinunciare all’idratazione
e all’alimentazione articiale. Nella legge c’è dunque una componente ideologica più forte che nel documento del Consiglio pontificio. Mi scusi, non le sembra che l’ideologia ci sia anche dall’altra parte? Nella vicenda Welby, ad esempio, non si è usata in modo strumentale la categoria del testamento biologico? Sì, questo può essere accaduto. Mi creda, però, che le resistenze di cui parlavo c’erano già da prima. Del resto, il caso Welby non c’entra nulla col testamento biologico, non è un caso d’incompetenza decisionale. Welby era lucido. Probabilmente però l’esplosione pubblica del dibattito ha radicalizzato le posizioni. Il mio orientamento, per essere chiaro, è questo: il testamento biologico deve essere esteso a tutte le materie sulle quali il paziente presente a se stesso può decidere: in sostanza
su quali trattamenti accetta e quali no. Secondo lei quindi se si va ad un dibattito privo di radicalizzazioni e ideologismi è possibile arrivare ad una compromesso fra laici e cattolici su questo argomento? Il documento del 2003 lo testimonia: è possibile. Per elaborarlo occorsero lunghe e appassionate discussione, ma ci arrivammo. Ricordo con piacere il confronto con monsignor Elio Sgreccia, la sua umanità, la ricchezza delle argomentazioni che portava. I documenti cattolici sui problemi etici sono una miniera d’oro, guai sottovalutarli, io li leggo sempre con grande attenzione. Dobbiamo però uscire dalla contrapposizione fra la bioetica laica e la bioetica cattolica e accettare un dibattito ampio e approfondito riconoscendo dignità alle diverse posizioni.
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca
C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
Si aggravano i ritardi infrastrutturali nel triangolo industriale del Paese
Senza Tav e Malpensa il Nord Ovest si scopre più isolato di Mino Giachino on l’arrivo di Giorgio Merlo, giovane e brillante esponente del Pd con ampie simpatie bipartisan, il porto di Genova ha finalmente una guida. Ma chissà se basterà a far dimenticare la sua chiusura protrattasi decine di giorni per problemi informatici, e che ha dato al mondo del trasporto merci un altro segnale sulla inaffidabilità dell’Italia. La sciagurata gestione della vicenda Alitalia, intanto, danneggia Malpensa. Il Terzo Valico – collegamento ferroviario fondamentale per trasformare Genova nel hub più strategico nel trasporto merci via mare da e per l’Europa centro-meridionale – continua a subire stop & go, con gli ultimi dovuti allo scontro tra i ministri Bianchi e Di Pietro e all’incapacità di Prodi di trovare una sintesi. E lo stesso è capitato per la Tav e il Corridoio 5, altro collegamento ferroviario che dovrebbe unire Paesi che producono il 40 per cento del Pil europeo. Questa, inequivocabile, è la fotografia delle infrastrutture nel Nordovest, nello storico triangolo industriale italiano.
C
Sono stati anni difficili, gli ultimi due, per i quattro nodi fondamentali del Paese, che dovrebbero dar vita nel disegno strategico presentato in Europa dal nostro governo nel 2003 alla
Se si realizzeranno la Tav e il Terzo Valico, se si potenzieranno i porti liguri e non verrà ammazzata Malpensa, l’economia italiana potrà crescere di un punto di Pil in più all’anno. Nascerà una grande area di smistamento e di lavorazione delle merci, che darà grandi opportunità per i servizi informatici e logistici più avanzati. E creerà oltre 300mila nuovi posti di lavoro non solo nei magazzini ma anche in altri settori, compresi quelli formativi.
Nel mondo allargato le reti di comunicazione per persone e per le merci determinano le convenienze economiche e il passaggio dello sviluppo. Di conseguenza il flusso degli investimenti e dei nuovi business non toccherà l’Italia senza il Corridoio 5, che attraverserà la Pianura Padana soltanto se si farà la Tav, e senza il Terzo Valico, che farà incrociare a Novara le merci sbarcate nel porto di Genova con l’asse Lisbona-Kiev, creando nel Nordovest la più grande piattaforma logistica del Sud Europa. E in questo disegno il primo passo è portare avanti la candidatura di Torino per ospitare l’Autority dei Trasporti, sfruttando sia la posizione strategica sia le competenze scientifiche che si trovano nell’area. Finora si è perso fin troppo tempo, soprattutto se
Lo sviluppo del porto di Genova e il passaggio nell’area del Corridio 5 permetterebbero la creazione della più grande area logistica del Sud Europa, in grado di far crescere il Pil italiano dell’1 per cento. Invece c’è il deserto più grande area logistica del Sud Europa. Progetti che quando non sono stati bloccati, sono stati indeboliti. E che dovrebbero unire Liguria, Piemonte e Lombardia in un importante assetto infrastrutturale, che determinerà lo sviluppo economico futuro. In epoca di grandi cambiamenti negli equilibri mondiali star fermo due anni vuol dire molto. Soprattutto si è persa una grande occasione non fare dell’Italia, con Genova e con Trieste, il terminale privilegiato di un’economia che vive sull’enorme flusso di merci prodotte nella nuova fabbrica del mondo (l’Est asiatico). E che vengono trasportate via mare verso l’Europa a ritmi di crescita del 15 per cento l’anno. Su queste problematiche, al di là di qualche isolata consapevolezza, il centrosinistra e Prodi hanno fatto perdere una grande occasione al Paese. E così fa ben sperare che su questo argomento non soltanto Berlusconi ma anche Veltroni abbia idee chiare. Perché per crescere come gli altri partner accelerare i tempi per la realizzazione dell’alta velocità, dotarsi di nuove infrastrutture di trasporto merci, è fondamentale come ridurre la pressione fiscale, il debito, la spesa pubblica e la bolletta energetica.
si guarda ai nostri diretti competitori. La Spagna, che dal disegno delle Grandi reti Ten del 2003 era toccata marginalmente, in pochi mesi si è data un progetto alternativo di alta velocità (Fermed). La Grecia ha usato le Olimpiadi per rilanciarsi in modo definitivo e si è data infrastrutture che in Italia sono bloccate dai veti, impensabili altrove, dei No Tav. Tanto che il rischio di essere scavalcati da questi due Paesi anche nei trasporti e nella logistica è tangibile. La Liguria, il Piemonte e la Lombardia devono essere capaci di determinare, anche con il loro voto, un processo di sviluppo socio economico del Paese, nel quale il futuro si decide anche attraverso i via libera alla Tav e al Terzo Valico o alla salvezza di Malpensa. Ovviamente bisognerà crederci e iniziare a lavorare subito, mettendo assieme le tre Regioni, le Fondazioni bancarie, l’imprenditoria locale e un governo che abbia una sola linea e una sola voce in Val di Susa come a Bruxelles. Perché la stessa recente inaugurazione dell’autostrada Torino-Milano ha dimostrato che se in Nordovest non ci sarà l’integrazione con i corridoi europei, avremo su quella stessa autostrada soltanto più inquinamento e più traffico.
economia
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Mentre il Pil crolla il leader del Pd presenta un piattaforma onerosa
Il programma di Veltroni sposa la spesa pubblica di Gianfranco Polillo l quadro economico è più brutto di quanto si potesse pensare. Da Wall Street, la patria dei mutui subprime, il vento gelido della crisi soffia sulle coste dell’Europa alimentando sfiducia e preoccupazioni. Le nuove stime della Commissione europea non vanno oltre l’1,8 per cento. E speriamo che siano quelle giuste. In uno scenario che più cupo non si può, brilla il caso italiano. «La revisione al ribasso», è scritto, «è particolarmente pronunciata per l’Italia; dove la pesante contrazione della produzione industriale, nell’ultimo trimestre del 2007, così come il più marcato deterioramento del clima di fiducia, peserà sulle prospettive del 2008». Ormai proiettate verso un pallido 0,8 per cento. Che il pessimismo di Confindustria porta a meno della metà. C’è consapevolezza di questo dato nei programmi elettorali dei due principali partiti? Finora silvio Berlusconi è stato il più accorto. Ancora alle prese con il complicato puzzle delle alleanze non ha scoperto le carte e le indicazioni fornite sul programma sono state quante mai caute. I fuochi di artificio cominceranno dopo, quando tutto sarà più chiaro e il pericolo di essere smentito dalla dura realtà meno incombente. Walter Veltroni, invece, ha voluto, forse costretto dalle circostanze, bruciare le tappe con il suo programma in dodici punti, dei quali cui, nei prossimi giorni, po-
I
Tra salario minimo e aiuti a donne e figli i piani del centrosinistra necessitano di 17 miliardi. Si rischia un bilancio? tremmo leggere in dettaglio. E subito sono nate non poche polemiche. Dove troverà i soldi – dai 6 ai 17 miliardi secondo la puntigliosa valutazione del Sole 24Ore – per sostenere le provvidenze che intende elargire a destra e manca? Servono 5 miliardi per garantire la detrazione di 2.500 euro per ciascun figlio (meno, in verità, se non si andrà oltre il terzo anno di età). Altri 3 mi-
liardi per favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro. E ancora 9 per garantire ai precari uno stipendio minimo di 1.000-1.100 euro al mese. Senza considerare, poi, le altre promesse ancora da quantificare: dalla riduzione del prelievo fiscale, all’aumento dei salari per terminare con il progetto di ”social housing”, che suonerà bene, ma che rischia di fare il verso, al pari di ”yes, we can”, a un vecchio film di Alberto Sordi. Le misure, tra di loro, sono intrinsecamente contraddittorie. Vada per le donne, la cui immissione nel mondo del lavoro, sempre che la proposta abbia successo, più che un costo è un investimento: si finanzierà, infatti, con la maggiore ricchezza prodotta. Ma per il resto sono spese, spese e solo spese. E in un momento in cui la prospettiva della ”crescita zero” rischia non soltanto di prosciugare ogni ”tesoretto”, ma di creare un nuovo buco di bilancio. E allora come se ne esce? Nell’unico modo possibile. Con politiche pro-growth, per usare l’inglese tanto di moda. Cioè, con politiche orientate alla crescita e non alla redistribuzione sociale. Che potrà essere attuata soltanto un secondo dopo. Meglio ancora se si riuscirà a garantire l’una e l’altra. Missione tutt’altro che impossibile, se si avrà il coraggio di dire agli italiani che è venuto il momento di rimboccarsi le maniche. E lavorare di più.
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Per la spesa si paga il 4,8 per cento in più L’Istat conferma che il balzo al 2,9 per cento dell’inflazione a gennaio. Ma spulciando le rilevazioni dell’istituto di statistica quello che spaventa di più è il dato sui cosiddetti prodotti ad alta frequenza d’acquisto. Cioè quelli che vengono comprati praticamente quotidianamente come gli alimentari, i tabacchi o i carburanti. In questo caso l’inflazione è pari al 4,8 per cento, il livello più alto da 11 anni a questa parte. Più in generale gli incrementi tendenziali più elevati si sono registrati nei capitoli trasporti (+5,4 per cento) e alimentari e bevande analcoliche (+4,5).
Alitalia, Prato vede i sindacati Dopo tante richieste, il presidente di Alitalia, Maurizio Prato, è pronto a convocato i sindacati per discutere della vendita ad Air France. Dalla Magliana ieri è partito un fax ai rappresentanti dei lavoratori per un vertice che dovrebbe anticipare le trattative con il numero uno della compagnia francese, Jean-Cyryl Spinetta. Incontro previsto per la prima settimana di marzo. A gennaio la compagnia ha registrato un calo dell’8 per cento nel trasporto passeggeri e del 3,8 in quello merci. Intanto Walter Veltroni ha garantito il suo interessamento per Malpensa.
Il Tesoro nel 2007 Deficit/Pil più basso Stando alle stime della Ue, le prospettive per il prossimo anno non sono delle migliori (Pil al +0,8 per cento), eppure il governo è soddisfatto per l’andamento dei conti pubblici nel 2007. Il Tesoro ieri ha comunicato che, guardando al fabbisogno del settore statale, si può di prefigurare un deficit/Pil potrebbe inferiore al 2,4 per cento.
A2A, scontro tra Milano e Brescia Battesimo agitato per A2A, la multiutility nata dalla fusione tra l’Aem di Milano e la Asm di Brescia. Nel giorno dell’elezione del consiglio di sorveglianza il sindaco di Brescia, Paolo Corsini, ha accusato il consigliere delegato, Giuliano Zuccoli, di «esercizio esercizio monocratico del potere». Zuccoli ha definito l’accusa «ingenerosa e legittima» e ha escluso «l’assenza di un vuoto di potere’ in azienda».
Le opere di George Lilanga sono vere George Lilanga fa ancora discutere. Il 9 marzo 2007 sull’Indipendente fu pubblicata la notizia che più del 90 per cento delle opere esposte a Roma alla mostra di George Lilanga erano false. I curatori della mostra Luca Faccenda e Marco Parri in una nota precisano che «sono stati espressamente autorizzati dallo stesso artista George Lilanga, in vita, ad esprimere per suo conto pareri di autenticità sulle sue opere, e tale diritto è stato recentemente riconosciuto con ordinanza non impugnabile del 6 dicembre 2007 emessa dalla Sezione Specializzata in materia di Proprietà Industriale ed Intellettuale del Tribunale di Milano». I legali di Marco Parri e Luca Faccenda precisano che stanno anche procedendo contro chi ha diffuso queste false notizie che, poi, l’Indipendente ha diffuso.
La Provincia propone un contratto a retribuzione variabile ideato da Treu. Per il quale «è un modello da esportare in tutt’Italia»
Laboratorio Trentino: ricercatori pagati in base ai risultati ottenuti di Giuseppe Latour
ROMA. A Trento la ricerca e il merito dovranno andare di passo. D’ora in avanti i finanziamenti saranno legati alla qualità del lavoro e al raggiungimento di obiettivi. Anche in campo pubblico. La rivoluzione copernicana per il settore parte dalla provincia di Trento e dal suo assessore Gianluca Salvatori. Che ha lanciato un contratto per i ricercatori, che potrebbe fare da modello per il resto del Paese. Dopo aver privatizzato tutti gli enti di ricerca della Provincia, facendoli confluire in un piccolo Cnr fatto da due fondazioni (la Bruno Kessler e la Edmund Mach), da circa sei mesi è stato avviato un piano di conversione dei vecchi contratti pubblici in contratti privati, elaborati da un gruppo di giuslavoristi con a capo l’ex-ministro Tiziano Treu. Al quale sta partico-
larmente a cuore l’esportabilità del modello: «Non si tratta di una cosa trentina, ma di una strada che anche altri possono seguire». Una strada costruita su una stretta correlazione tra merito e retribuzione, concetti sconosciuti al mondo della ricerca italiana, pensati «per aumentarne la produttività». Il contratto collettivo prevede una retribuzione fissa, accompagnata a una parte variabile calcolata sui risultati ottenuti: a giudicarli sarà una commissione indipendente. Forti gli incentivi per le invenzioni, per le quali sono previsti premi. Massima poi la flessibilità degli orari: ai ricercatori è lasciata la possibilità di seguire ricerche proprie mettendosi in aspettativa e di collaborare con altre strutture di ricerca in Italia o all’estero, attraverso spin-off.
Quasi tutti i ricercatori interessati dalla novità hanno accettato il cambio, preferendo passare dal vecchio contratto pubblico al nuovo, privato. Idee innovative, certo, ma non applicabili ovunque. La provincia di Trento, da sola, spende circa 150 milioni di euro in ricerca, che arrivano a 200 se si considera tutto il blocco dell’innovazione. Gode, insomma, di una salute finanziaria e di un’autonomia sconosciute altrove. E proprio per questo potrebbe continuare a fare da laboratorio per l’Italia. «Stiamo pensando di riorganizzare l’università e la scuola, dando spazio alla maggiore retribuzione delle migliori individualità e abbandonando il sistema attuale, che mortifica chi lavora più degli altri», rivela il presidente della Provincia, Lorenzo Dellai.
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cultura
Dal “politically correct” al mito del progresso: una raccolta di saggi curata da Massimo Recalcati
C’è un nuovo totalitarismo nascosto nelle democrazie di Matteo Simonetti na riflessione sull’essenza fuorviante, alienata e miope della modernità. La fonte non è il mondo antagonista e militante dei no global o dei nostalgici del comunismo, né quella intellettualistica postmodernista o del pensiero debole, ma neppure la sempre più flebile voce della ”tradizione”, i cui pensatori di riferimento, ancora attualissimi e potenti, sono purtroppo sempre meno oggetto di un’opera di diffusione e critica. La fonte stavolta è il mondo della psicanalisi, che trasferisce in ambito sociale, politico e linguistico le sue convinzioni sulla natura umana. È per Bollati Boringhieri che una miscellanea di autori che si rifanno a Lacan hanno messo a punto un’interessante e al contempo preoccupante indagine sulla nuova faccia del totalitarismo, o meglio sulla sua prosecuzione in piena età democratica. Si tratta di Forme contemporanee del totalitarismo, a cura di Massimo Recalcati.
U
Nel testo è presente l’idea che la nostra epoca, quindi la nostra vita di cittadini, sia contrassegnata da forme spurie di totalitarismo, in grado di mascherarsi all’interno dei dispositivi della liberaldemocrazia. Sulla scorta di alcune idee di Focault, Lorenzo Bernini sostiene ad esempio che il totalitarismo non sia un momento della modernità, ma una sua verità. Il potere si traveste e diviene controllo, quindi ”biopotere”, condizionamento a priori, chiusura di ogni via indesiderata e dagli sbocchi imprevisti. La sfera politica viene surclassata dall’economia mondialista che si preoccupa della costruzione del perfetto (quindi standardizzato) consumatore attraverso un uso subdolo dell’informazione, del linguaggio, dell’igiene e della sanità, dell’interventismo militare mascherato da polizia internazionale e via dicendo. L’autonomia degli Stati diviene fittizia così come si restringono gli spazi per la volontà del soggetto. A quest’ultimo aspetto fa da ovvio corollario l’esaltazione dell’oggetto di consumo, che si
Ernst Jünger
Carl Schmitt
smarca dalla sua connessione con l’utilizzo per divenire ente a sé stante, semovente, autonomo, proprio come la ”tecnica”in tanta parte della riflessione filosofica contemporanea.
Dal punto di vista del linguaggio, alcuni autori si soffermano a sottolineare come, in politica, la pratica del politically correct, così come l’uso acritico, quasi ipnotico, di alcuni
quindi si nasconde diventando anonimo e irresponsabile, il panorama che si prospetta è non più una dialettica tra dominatori e dominati ma una scientifica gestione che eluda preventivamente ogni conflitto, un’eterna stasi. Un po’ come il corollario terrifico della morte della storia di Fukujama. Sulla stessa rotta di pensiero, si affrontano poi i temi della mercificazione dei rapporti inter-
ragionamento sta nelle sue fondamenta: non Marx, Marcuse Adorno e compagnia ma, insieme ai prevedibili Arendt, Focault, Levinas, Nancy, al Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’io, a Lacan, inaspettatamente compaiono spesso Nietzsche, Schmitt, Heidegger, Jünger. Siamo di fronte all’ennesimo arruolamento forzato dei pensatori della rivoluzione conservatrice e dei capisaldi
Un’interessante (e preoccupante) indagine messa da punto da una miscellanea di autori che si rifanno allo psicanalista francese Jacques Lacan termini come progresso, sviluppo, responsabilità siano strumenti importanti per scongiurare sul nascere il dissenso, indirizzare il consenso su vie stabilite, inaridire e quindi depotenziare l’armamentario ideale dei possibili resistenti. Se il potere si trasforma in controllo, e
personali, della iatrogenesi e della perdita dell’autogestione del corpo, dello strapotere della scienza all’interno dei processi etici, della distruzione delle differenze identitarie dei singoli. Molto interessante ma poco o niente di nuovo, si direbbe allora. Forse, ma la particolarità del
del pensiero di destra? Non si arriva a certi sproloqui su Nietzsche e Heidegger ai quali ci ha abituato Vattimo, ma semplicemente si tratta di una lettura un po’partigiana. Anche se molte tra le idee di fondo espresse nel libro sono tanto condivisibili quanto perturban-
ti e nessuno meglio degli ultimi autori citati ha dato voce alla critica della modernità, quello che balza agli occhi è però è il silenzio sulle ”soluzioni” alla crisi dell’uomo moderno prospettate da tali pensatori.
Se Schmitt si presta a una critica del potere fantasma, è anche vero che con la sua idea di ovvio dispiegamento della forza bisogna fare i conti; se Nietzsche è il liberatore col martello genealogico che fa piazza pulita dei condizionamenti, è però anche chiaro che la sua soluzione estetico-aristocratica è un’importante pars costruens; se Jünger suggerisce di passare al bosco come luogo dell’autodifesa, è altrettanto certo che nelle sue parole aleggia sempre un individualismo eroico e irriducibile che irride ogni piagnisteo sulla cattiveria del potere? Di tale carattere dinamico non resta nulla e, stringendo, dal volume emerge una discreta dose di banalità e buonismo: la denuncia dei centri di accoglienza accostati ai mali del nazismo e del fascismo ne è un esempio. In generale e con alcune eccezioni, serpeggia, dietro alle supposte ragioni della critica del potere, la solita lagna anarcoide di stampo francese che appare chiarissima a chi solo si soffermi sul tipo di linguaggio spesso utilizzato: tra neologismi e ”trattini” alla Heidegger, autoreferenzialità filosofica e stramberie psicanalitiche, spesso si scivola al di sotto della soglia di leggibilità. Alla fine, pur tra le importanti riflessioni sulle derive opprimenti dei regimi democratici, il risultato più evidente è l’ennesima dimostrazione di come tanti concetti che appartengono a una cultura non certo progressista, siano destinati ad appassire o a essere ”mutilati”per la miopia e la disattenzione dei legittimi eredi. D’altronde, il solo pensare che la psicanalisi, con la sua esaltazione della dissezione, possa farsi carico di una lotta seria alla modernità, la quale è innanzitutto morte del tutto, di ogni unità, suona quasi come una bestemmia.
cultura
23 febbraio 2008 • pagina 21
Il regime di Pechino lancia una campagna contro i film horror. E boicotta anche Topolino
Compagno Ghostbuster di Gianfranco de Turris a Repubblica popolare cinese ha paura... della paura e reprime... i cartoni animati. Non è possibile? È possibilissimo in vista delle Olimpiadi dove si deve presentare in forma impeccabile, linda, pulita e moraleggiante. Della ipocrisia politica occidentalista non si dirà mai a sufficienza. L’intransigenza ideologica non si basa su valori assoluti, ma si piega alle contingenze, in genere economiche e/o strategiche. Il caso delle Olimpiadi di Pechino è palmare: perché boicottare quelle di Mosca del 1980 ed invece andare a quelle cinesi del 2008? In precedenza, per motivi “razziali”, si boicottavano spietatamente nello sport nazioni come il Sud Africa e la Rhodesia. Forse la Cina di oggi è più “democratica” e “libera” di questi Stati? Oggi purtroppo il boicottaggio è limitato a organizzazioni ed a singoli, come il regista Steven Spielberg ricordato su queste pagine, ed altri.
L
Che la Repubbblica popolare cinese sia ancora una dittatura che soffochi le libertà personali lo sanno tutti, anche se lo si vuole dimenticare: ogni giorno se ne hanno prove, dai campi di rieducazione/concentramento, i laogai, alla censura su internet, alla repressione del dissenso intellettuale e giornalistico. Esiliati come Henry Wu lo testimoniano quasi quotidianamente. Ma le nazioni occidentali, per motivi commerciali e di partership economica
fanno finta di nulla: la Gran Bretagna laburista ha addirittura proibito i suoi atleti di parlare di politica una volta in Cina... Ma tutto ciò non basta per tranquillizzare i dirigenti di Pechino e così si giunge a quelle decisioni grottesche tipiche di ogni dittatura che teme qualsiasi cosa che possa destabilizzarla. Ad esempio, il film dell’orrore! Eppure, questo tipo di storie, una mescolanza di mito, fantasia, sovrannaturale e realismo, è tipico della letteratura cinese che annovera dei veri classici del genere.
gonsiti «spiriti arrabbiati, fantasmi violenti, mostri, dèmoni». Il fatto che sia prospettata una dimensione altra rispetto alla realtà materiale di ogni giorno sembra essere in fondo il motivo di preoccupazione. L’esistenza di una dimensione ulteriore dove vivono esseri spirituali ancorché mostruosi e demoniaci, sta infatti a dimostrare che la vita non si riduce a quella che vive malamente il cinese di oggi, anche se queste storie si possono considerare «tradizionali» nella sua cultura ed in genere nella cultura estremo orientale. L’orrore, e quindi più in generale il fantastico, si dimostra destabilizzante per un sistema culturale chiuso e compatto che solo in apparenza si è «liberalizzato» in economia, ma non certo nella politica e nella cultura. I mostri, gli spettri, i revenant, le creature incubiche, che non provengono solo dal passato ma sono sovente prodotti dalla stessa tecnologia (Stephen King docet), fanno paura non solo al singolo, ma a quanto pare anche al Potere, perché sono in sostanza i simboli di qualcosa di diverso dal tran-tran quotidiano, che qualcosa d’altro può accadere, non controllabile, non gestibile. Sono pure, in certi casi, simboli di valo-
Con le Olimpiadi alle porte, la dittatura cerca disperatamente di fingersi impeccabile, pulita e moraleggiante. Ma l’Occidente che dice?
Il gusto per le “storie de paura” si è travasato oggi anche nei fumetti e soprattutto nei film prodotti a Taiwan e Hong Kong, in Corea e anche in Giappone. Come riferisce su La Stampa Francesco Sisci, che è direttore dell’Istituto italiano di cultura di Pechino, è in corso un giro di vite per proteggere «la salute psicologica degli adolescenti». Per tal motivo, dopo la campagna contro i film erotici e porno, è iniziata quella contro i film horror. «Bisogna controllare, eliminare gli effetti negativi che questi prodotti hanno sulla società, occorre impedire le pubblicazioni crudeli, violente e di orrore», soprattutto le pellicole di cui sono prota-
ri proibiti: il fantasma, il dèmone, il vampiro sono per così dire “politicamente scorretti”, scardinano il reale per instaurare un altro modo di essere e di vivere, di rapporti e di tensioni, consentono a chi legge o a chi vede di pensare in modo diverso, di avere altre prospettive, di evadere dalla prigione concettuale imposta dal Partito e dalle sue regole. Ecco perché fanno paura ai maggiorenti di Pechino.
Il caso dei cartoon della Disney ha invece un paravento protezionistico: l’organismo cinese addetto alla censura dei media visivi ha proibito Topolino, Paperino & C. in televisione dalle 17 alle 21 allo scopo di «creare un ambiente favorevole per l’industria dei cartoni animati cinesi» dovendosi rispettare un rapporto di 7 a 3 tra cartoni nazionali e cartoni stranieri. In realtà questa decisione si inserisce nella campagna moralizzatrice del governo anche per il contenuto della trasmissioni radio e tv secondo le indicazioni del presidente Hu Jintao in vista delle Olimpiandi. Non solo deve scomparire tutto quel che è «volgare», ma anche - come si è visto - tutto quel che ha a che fare con magia e sovrannaturale (unica eccezione... Harry Potter!). Insomma, ogni cosa per i dirigenti di Pechino deve riflettere una «immagine armoniosa della società». Il che vuol dire, un ritorno a Confucio condito però in salsa marxista...
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Gli indagati possono essere ricandidati? Il giustizialismo si oppone a qualunque prospettiva liberale Il vetusto giustizialismo dipietrista che serpeggia di questi tempi, vorrebbe impedirlo a tutti i costi; tuttavia, perché mai un indagato non dovrebbe poter essere ricandidato in una lista elettorale? Dal momento che non v’è (ancora) una condanna, l’imputato è da ritenersi, di fatto, ”non colpevole” per Costituzione. Credo, inoltre, che sia altrettanto corretto ”rivalutare” un condannato a tutti gli effetti, sia dal punto di vista sociale che politico. Occorre però che il soggetto in questione, abbia scontato la pena conseguente alla sua condanna definitiva. Dopo aver ottemperato a questo ”dovere”, perché mai non dovrebbe avere la possibilità di essere eletto in Parlamento? Il giustizialismo si oppone a qualunque prospettiva liberale e, francamente, è pure anacronistico.
Matteo Pazzaglia - Prato
Non facciamo demagogia, facile populismo alla Beppe Grillo Per la legge italiana colpevoli si è solo a sentenza definitiva. Pertanto l’indagato è innocente e quindi resta titolare di tutti i suoi diritti, compreso quello di essere eletto in Parlamento. E’ solo becero giustizialismo quello di escludere dalle candidature gli indagati. Inoltre si concede alla Magistratura un ulteriore potere. Sarà sufficiente infatti un avviso di garanzia, più o meno motivato, per estromettere dalla vita politica un personaggio scomodo o comunque di orientamento politico diverso. Tanto la Magistratura non risponde a nessuno. Certo, i partiti prima di ricandidare un personaggio devono soppesare la sua caratura morale, e quindi evitare di proporre un nome che non dia garanzia di rettitudine. Ma per piacere non facciamo demagogia, facile populismo alla Beppe Grillo. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità.
Occorre ripulire la politica italiana con volti giovani e senza avvisi di garanzia Assolutamente no. E’ vero che per legge si è innocenti fino a sentenza definitiva, ma perché mai continuare a candidare individui che portano addosso anche solo l’ombra di un reato (grave o meno che sia)? Bene dicono Di Pietro e Grillo. Male invece Sandro Bondi, che vieta le candidature a chi è indagato ma esclude dal provvedimento coloro che sono in attesa di un possibile processo per reati politici. L’Italia ha da troppo tempo ormai perso credibilità. Soprattutto all’estero. C’è bisogno di ”ripulire” la politica italiana e restituirla alla serietà di un tempo. Per questo, non solo non bisognerebbe ricandidare gli indagati, ma decidere finalmente di puntare su volti giovani. O comunque nuovi.
Dovrebbe essere l’indagato stesso a rifiutare per primo la sua candidatura In linea di principio ricandidare un personaggio indagato non è corretto. E’ vero, indagato non è sinonimo di colpevole, però... Dovrebbe essere lo stesso indagato a rifiutare la candidatura, ma noi tutti sappiamo bene che essere parlamentare vuole anche dire, almeno per qualche anno, evitare il giudizio. Ben venga quindi questa prassi di evitare che entrino in Parlamento persone la cui limpidezza morale è messa in dubbio dalla Magistratura. Mi chiedo, tuttavia, se questa nostra Magistratura, dalle sentenze spesso strane, così politicizzata, così esibizionista, dia veramente sufficiente garanzia di imparzialità. Grazie e buon lavoro.
Gaia Miani - Roma
Marco De Santis - Modena
Silvia Romiti - Ancona
LA DOMANDA DI DOMANI
Caro-prezzi, di chi le responsabilità?
Esercizio di fantapolitica: la vittoria della Cosa rossa Esercizio di fantapolitica: squadra di governo in caso di vittoria della Cosa rossa-Sd. Premier: Bertinotti. Vicepremier: Francescato. Sdoppiamento degli esteri; ovvero, ministro per i rapporti terreni: Mussi; ministro per i rapporti ultraterreni (con i famosi angeli eco-compatibili): Francescato. Ministro per la pace nel mondo (ex Difesa): Palermi. Ministro per l’aiuto ai migranti: Giordano. Ministro per l’ambiente, l’agricoltura e lo sviluppo (non per la crescita per carità): Pecoraro Scanio. Ministro per la pace sociale (ex Interni): Diliberto (con scrivania originale di Mao e consulenza speciale della salma di Lenin). Esercizio finito. Ma che paura...
Massimo Bassetti
Qualcuno salvi Alitalia dal poco serio Romano Prodi Prodi continua a cercare di affossare l’italia: già decaduto dal governo, ha detto che avrebbe comunque, prima delle nuove elezioni, venduta la Alitalia ad Air France. Se non fosse che il direttore generale di quest’ultima, Pierre Henri Gourgeon, che è persona seria, ha detto che farà un eventuale accordo solo con il nuovo governo.
I PRATICANTI AVVOCATI E LA DISCIPLINA NORMATIVA Siamo in una fase della storia politica e sociale in cui è in atto un cambio radicale della concezione del ruolo dei liberi professionisti. Il decreto Bersani sulle liberalizzazioni è per molti aspetti interessante, almeno per l’associazione Nazionale dei Praticanti Avvocati. I neo-laureati in legge presso le Università Italiane che continuano la specializzazione professionale, con il biennio della pratica forense, sono vilipesi e non tutelati. Si pensi che un praticante avvocato, raramente percepisce dallo studio in cui svolge la pratica forense, una benché minima forma di remunerazione. Sarebbe dunque opportuno, destinare parte delle risorse disponibili presso la cassa forense, alla creazione di un’assicurazione obbligatoria dei singoli studi o dei rispettivi consigli degli ordini forensi, cui il praticante è iscritto per vedere tutelati i suoi diritti in caso di malattia o danni permanenti alla salute. Siamo dunque in un paese, in cui il paradosso è che coloro i quali si avviano all’esercizio di una professione che tuteli i di-
Vittorio Baccelli Lucca
Francesca La Marca Roma
Sostituire l’Udc con Ferrara è una follia Premetto che ho dato la mia adesione al Pdl e che questa formazione la voterò comunque. Premesso questo, sembra quasi che si cerchi di allontanare dal voto il sottoscritto. Mi chiarisco: la presenza di Pera nella lista, certamente non m’invoglia, ma quasi mi respinge. Si parla poi sulla stampa locale di volti nuovi: Dinelli e Ravenni. E
dai circoli liberal
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a questo punto non so se mettermi a piangere o a ridere. A livello nazionale poi, Berlusconi s’è levato di torno Casini. Ma se si volesse sostituire l’Udc con Ferrara, saremmo proprio alla follia!!! In pochi giorni Ferrara è riuscito ad inimicarsi buona parte dei laici e la totalità delle donne italiane (forse con l’eccezione di qualche suora). Se poi mi guardo alle spalle e considero gli eletti nella lucchesia nella passata (grazie al cielo!) legislatura, devo togliermi qualche sassolino dalle scarpe. Corretto, mi dicono, Baldini; ma personalmente avendo letto tutti i suoi interventi apparsi sulla stampa, devo riconoscere che Nedo Poli è sempre stato corretto, onesto e puntuale nei confronti dei suoi elettori e della ex Cdl. L’invito dunque che rivolgo a Poli è quello di candidarsi nel nuovo Pdl.
ritti altrui, non vedano tutelati i propri. Nell’attuale dibattito politico legislativo, non c’è ombra di tali idee o proposte, e questo a discapito di un paese, che dice di investire nella risorsa dei giovani e delle nuove generazioni, queste forme di palesi distrazioni, impoveriscono il sistema economico Italiano, privo delle giuste tutele e dei giusti contrappesi. Incentivare politiche di tutele anche nei confronti di chi entra in un nuovo mondo professionale, è la vera sfida, così pure dicasi il prevedere obbligatoriamente dei salari minimi di ingresso, ad una determinata professione. Sono questi i temi reali e veri che la politica, quella seria, dovrebbe dibattere, ed invece tutto questo è allo stato utopia, un limite della stessa classe dirigente che spesso continua ad amministrare, ben attenta a tutelare le proprie esigenze e i vantaggi sociali acquisiti negli anni, un atteggiamento giustificabile da un punto di vista ontologico, ma non altrettanto giustificabile da un punto di vista Istituzionale. Spesso, le riforme radicali o presunte tali, nel nostro paese vengono concepite come mera distribuzione di potere sociale, date
Di Pietro e Prodi hanno sfasciato il Paese Di Pietro ha detto che nel caso in cui diventasse ministro del governo Veltroni per prima cosa toglierebbe due reti a Mediaset e altrettante alla Rai. Insieme a Prodi e compagni ha ridotto l’Italia a pezzi. E’ dunque questa la priorità per sanare il Paese?
Silvia Sambo - Milano
con questa o quella riforma, ed invece le vere riforme dovrebbero incentivare l’economia, aumentando le tutele, per costruire un paese sempre più competitivo. Lo stesso dicasi dell’esame di abilitazione alla professione, divenuto mastodontico per il numero dei partecipanti, lo Stato riconosce al candidato tramite il valore Legale della Laurea una qualifica determinata, e poi lo stesso Stato sottopone il dottore X, ad una presunta prova abilitante, che altro non è che un limite legale all’accesso ad una determinata professione, un paradosso; non sarebbe meglio rendere più ferreo l’esame finale della discussione della tesi, e aumentare da due a cinque anni la pratica forense, dando un’abilitazione a discutere determinate cause con un tetto prestabilito, per poi conseguire l’abilitazione piena? I consigli degli ordini dovrebbero diventare laboratori di proposte, vista la carenza di propositività della classe dirigente presente in Parlamento. Luigi Ruberto
CLUB LIBERAL MONTI DAUNI
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Appartengo a te a dispetto di me Vieni, Sophie, che io possa torturare il tuo cuore ingiusto al fine che io, da parte mia, possa essere spietato nei tuoi confronti. Perché ti dovrei risparmiare, visto che tu mi derubi della ragione, dell’onore, e della vita? Perché dovrei permetterti di passare in pace i giorni che tu a me rendi insopportabili! Ah, saresti stata molto meno crudele se avessi infilato una spada nel mio cuore, invece del dardo fatale, che mi uccide. Quando ti degnasti di essere mia, ero più di un uomo; da quando mi hai allontanato, sono il più piccolo dei mortali. Ho perso tutto: ragione, consapevolezza, coraggio. Ah, Sophie, per il tuo onore, ti domando di rendermi me stesso. Non sono io una tua proprietà? Non hai preso tu possesso di me? Questo non lo puoi negare, e siccome io appartengo a te a dispetto di me e di te, lascia almeno che io meriti di essere tuo. Jean-Jacques Rousseau a Sophie d’Houdetot
Il derby Fini-Rutelli sarebbe un’ottima partita Credo che, dopotutto, ”FiniRutelli” potrebbe essere un bel derby di ritorno 15 anni dopo. Basterebbe aver un po’ di coraggio per dimostrare amore per Roma, e sopratutto una buona dose di volontà di vittoria. Hanno ragione tutti i dirigenti della Destra, secondo i quali “visto che nel Pdl si gioca ormai a mercante in fiera sulle candidature espresse dai partiti di centro contro Rutelli, la sfida tra Gianfranco Fini e il ministro potrebbe essere una soluzione”. Soprattutto considerando il fatto che l’unico a poter davvero vincere contro Rutelli sarebbe proprio il leader di Alleanza nazionale.
Antonella Ferri - Roma
Modifichiamo l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori La modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori è una proposta di buon senso che andrebbe adottata da entrambe le due coalizioni principali. Difatti se si vogliono far godere le persone della globalizzazione ed ancor di
e di cronach di Ferdinando Adornato
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più della stabilità monetaria derivante dal far parte dell’Uem è necessario introdurre elementi di flessibilità e mobilità e, cosa essenziale in Italia, è moralmente inaccettabile far pagare i costi dell’evoluzione mondiale naturale ai soli lavoratori atipici. O peggio, come succederebbe se si abolisse la legge Biagi, ad una massa enormemente crescente di disoccupati.
Lettera firmata
A Roma Rutelli stringe accordi antidemocratici Ha ragione il gruppo di Alleanza nazionale in Campidoglio: a Roma la campagna elettorale della sinistra inizia
con una vergognosa apologia di un dittatore. I manifesti del Pdci, che da qualche mattina campeggiano nella città e propongono a simbolo il dittatore Fidel Castro, sono il segno evidente che la sinistra radicale ha dismesso falce e martello ma non un’ignobile ideologia. Ancor più grave è che Rutelli stia trattando e cercando di stringere accordi per la corsa al Campidoglio proprio con chi inneggia a un dittatore e propone a modello una società dove c’è il partito unico comunista; con chi continua senza vergogna a fare apologia di una delle più becere dittature, tanto da sbandierarlo anche nei propri manifesti elettorali. Segno evidente che la tanto gridata “novità” del Pd è solamente una maschera. Pertanto Rutelli abbia il coraggio di dire ai romani con “chi” intende allearsi, e che vuole, pur di riappropriarsi della carica a sindaco, consegnare la città di Roma a chi è palesemente e dichiaratamente antidemocratico. Grazie e buon lavoro a tutta la redazione.
Camilla Salici - Roma
PUNTURE Si pensa alle vacanze scolastiche estive più brevi e a quelle pasquali più lunghe per rilanciare il turismo. Si sa, ormai la scuola è all’ultima spiaggia.
Giancristiano Desiderio
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Volete riuscire nelle cose d’intelligenza? Il mezzo infallibile è pensarci sempre. J-H FABRE
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il meglio di MA QUANTE DIVISIONI HA PANNELLA? Ma quanti voti spostano, oggi, i radicali? E soprattutto, in che direzione rispetto alla coalizione in cui si trovano: attrattiva o repulsiva? Quanti elettori indecisi voteranno per il Pd veltroniano per effetto dell’accordo con le truppe pannellate? E quanti voteranno altrove proprio a causa della presenza in lista dei radicali? (…) Gli ultimi sondaggi accreditano i radicali di circa l’1 per cento delle intenzioni di voto. Quali vantaggi può trarre il Pd dalla presenza in lista dei radicali? Si può ipotizzare che Veltroni abbia deciso di acquisire altri voti per far pendere dalla propria parte la bilancia della vittoria al Senato in alcune regioni contese. (…) Ma se i radicali “valgono” effettivamente l’1 per cento dei voti, saremmo legittimati a giungere alla conclusione che Veltroni predica bene e razzola male, cioè che sta facendo un’operazione di pura aggregazione, non realmente dissimile dal coalition building elettorale unionista nella legislatura appena conclusa. Dei costi per il Pd abbiamo detto: rischio di aumento della conflittualità intra-partitica, abbandono dell’intenzione di voto da parte di chi considera impossibile votare per un partito che ha in lista esponenti radicali. Ma altre domande si pongono: perché Veltroni accetta singoli esponenti e non il contrassegno radicale, come invece fatto per l’Italia dei Valori di Di Pietro? Qui la risposta ufficiale l’ha fornita lo stesso leader del Pd: perché Idv è destinata a sciogliersi e a confluire nel Pd, dopo le elezioni, mentre i radicali non
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hanno alcuna intenzione del genere. Ma allora, così stando le cose, perché associare in partecipazione e candidare nelle proprie liste quello che appare un corpo estraneo? (…) Rinunciando al proprio simbolo, i radicali si sono inoltre consegnati al Pd, dal quale otterranno la retrocessione dei rimborsi elettorali percepiti per i propri parlamentari. Siamo certi che l’accordo verrà contrattualizzato, magari presso un notaio, come accaduto anni addietro con Silvio Berlusconi, ma ciò non elimina il dato di fatto: i radicali saranno costantemente sotto la spada di Damocle di interruzione o rallentamento dell’ossigeno finanziario da parte del Pd. Se per i radicali, perennemente sull’orlo del dissesto (…), è comunque preferibile puntare a sopravvivere, resta senza risposta il quesito: quale è l’utilità di questo accordo per Veltroni? Forse aver evitato l’abituale frastuono vittimistico in cui a Torre Argentina sono da sempre insuperati maestri, e la sua più che probabile mediatizzazione. Ma la strada è ancora lunga: mentre mancano ancora i dettagli sulle aree di convergenza programmatica (…) i radicali già invocano a gran voce (o almeno danno questa impressione) l’inserimento nelle liste di Pannella e D’Elia, mentre Veltroni già puntualizza che per numero di mandati parlamentari e condanne penali “ci sono delle regole”. Quale che sia la motivazione razionale del Pd, l’operazione appare comunque un’involuzione sulla strada del presunto nuovismo veltroniano.
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