QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Occidente
La maledizione del Cremlino
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
Andrei Illarionov Enrico Singer Olga Sokolova Victor Zaslavsky
pagina 12
programmi LIMITI E PASSI AVANTI DELLA VELTRONOMICS
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
LA CAMPAGNA DI BERLUSCONI
È fondata solo sul fallimento di Prodi sulla guerra dei sondaggi, sulla fiducia nel suo ritorno e sullo stesso programma di sempre. Ma può bastare a quindici anni dalla sua discesa in campo, in un’Italia molto cambiata?
Caro Cavaliere
non siamo nel ‘94 alle pagine 2, 3, 4
MERCOLEDÌ 27
FEBBRAIO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
34 •
WWW.LIBERAL.IT
e
pagina 7
Natale Forlani
miti
Il dopo Fidel a Cuba
La nostalgia è in Italia pagina 9
Aldo Forbice
cultura DEL NOCE, IL CRITICO DELLE RIVOLUZIONI pagina 20
Renato Cristin
spettacolo LA MUSICA È SEMPRE PIÙ MOBILE Alfredo Marziano
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• CHIUSO
9 771827 881004
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
caro
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Cavaliere
Affronta Veltroni con il minimo sforzo, limitandosi a riproporre se stesso all’elettorato
Ritorno al passato La quinta campagna di Berlusconi di Renzo Foa erlusconi sta facendo una campagna elettorale minima. Forse non l’ha ancora cominciata davvero. Forse si attiene a quel che ha detto e ripetuto più volte, cioé di non averne bisogno, perché la vittoria del Pdl è annunciata da tutti i sondaggi e perché basta evocare il nome di Romano Prodi per battere Veltroni. Così si limita a snocciolare le percentuali scritte nei rapporti che – a quanto si legge sui giornali – riceve ogni mattina, a invocare il «voto utile» e a polemizzare con Casini. Nulla di più. Se è una strategia, c’è un disegno. La sua scommessa sembra quella di presentarsi ancora una volta come il leader su cui puntare, come l’uomo che governerà l’Italia andando incontro alle attese di chi vuole chiudere il più presto possibile la stagione dell’Unione, come il protagonista dell’ennesima alternanza e, nello stesso tempo, del ridisegno del sistema politico italiano: dal bipolarismo militarizzato al bipartitismo virtuoso e mite.
inseguire. Ma non passa giorno senza riempire gi schermi, senza annunciare una candidatura esemplare, senza salire sul pullman, senza un bagno di folla, senza lanciare un messaggio di fiducia al proprio elettorato. È un vero e proprio pressing sull’opinione pubblica. Ancor più sottolineato dal fatto che il suo antagonista continua a dosare i propri messaggi. Ma c’è un altro confronto da fare. Quello con gli altri duelli che il leader del Pdl ha ingaggiato in passato. Le differenze sono sostanziali.
B
È possibile che da un momento all’altro cambi questa strategia e quindi toni e contenuti. Ma al momento segue una rotta tranquilla. Senza lasciarsi troppo influenzare da chi sostiene che la scelta del Pdl, la
Maggio 1994, riunione del Consiglio dei ministri, Berlusconi tra Gianni Letta, Pinuccio Tatarella e Roberto Maroni (sulla destra un giovane Giuliano Ferrara)
Tutto diverso, rispetto a due anni fa quando, pur essendo presidente del Consiglio, si presentò come il leader dell’opposizione, guadagnando terreno metro dopo metro ed espugnando una dopo l’altra le casematte prodiane rottura con l’Udc e la rinuncia all’apparentamento con la Destra hanno messo in forse un epilogo dato per scontato. È un dubbio che non è espresso solo da analisti. Ancora ieri, Antonio Martino metteva in guardia da errori che potrebbero «met-
tere in forse quel risultato elettorale che meriteremmo». Martino non è un passante, è uno dei soci fondatori di Forza Italia e del bipolarismo, è il titolare più accreditato della cultura liberale con cui il centrodestra promette dal 1994 di ridisegna-
re l’Italia. Nonostante queste preoccupazioni, Berlusconi continua per la sua strada. Procede sotto tono. Ovviamente il confronto più immediato è con Walter Veltroni, che invece non si ferma un istante. Lo si capisce, deve
Due anni fa, quando era lui a inseguire, quando spettava a lui il compito di richiamare dall’astensionismo il proprio elettorato e di fargli dimenticare le delusioni di cinque anni di governo, non mancò un appuntamento. Dal momento in cui, a Vicenza, sfidò in un pubblico confronto l’élite del mondo imprenditoriale, non si fermò mai. Espugnò una dopo l’altra le casematte dell’avversario. Pur essendo presidente del Consiglio, si presentò come il leader dell’opposizione, guadagnando terreno metro dopo metro e chiedendo agli italiani di dargli altri cinque anni di tempo per completare l’esperienza di governo. E mancò la vittoria per un soffio, dopo aver proposto
«Nel centrosinistra si è aperto un vuoto che il leader del Pd non può colmare, la partita è chiusa», dice l’ideologo di Forza Italia
Per Baget Bozzo la fine del prodismo basta da sola a far vincere il Pdl di Errico Novi
ROMA. È una campagna elettorale senza analogie con quelle precedenti, per Silvio Berlusconi, e viene da chiedersi che interpretazione ne danno i conoscitori più attenti della vicenda di Forza Italia. Don Gianni Baget Bozzo è uno dei principali ideologi del berlusconismo e suggerisce una visione ottimistica: «I veri problemi sono dall’altra parte, si sono aperti con la fine del prodismo, del cattolicesimo di sinistra bolognese e dossettiano. Il Popolo della libertà deve semplicemente raccogliere un consenso che c’è già». Basta questo a dare certezze all’elettorato moderato? Possibile che il popolo di piazza
San Giovanni sia così vigile da non richiedere sollecitazioni? «Guardi, il punto essenziale è questo: Romano Prodi è stato liquidato, e con lui un’espressione del cattocomunismo che aveva la pretesa di dare forma legittimante a tutta la sinistra storica. Il prodismo è la criminalizzazione dell’avversario politico, nello specifico la rappresentazione di Berlusconi come nemico della democrazia e della legalità. Giudizio che, si badi bene, viene esteso a tutto l’elettorato di centrodestra, presentato in questi anni come l’Italia che non vuole pagare le tasse». Ora però il Pd ha un candidato che conduce la
campagna elettorale con tutti i mezzi disponibili, compreso il giustizialismo. «Innanzitutto alla fine di questa settimana ci saranno i gazebo del Popolo della libertà, che avrà dunque una presenza visibile. E poi bisogna rendersi conto del vuoto enorme che si è aperto dall’altra parte, e che chiude il discorso». Prodi dunque ha lasciato un vuoto. «Improvvisamente il centrosinistra non ha più un linguaggio. Se lo deve inventare. E lo si vede dalla confusione tra cattolici e laici, tra religione e scienza: sono segni dell’affannosa ricerca di un’identità nuova. Veltroni usa anche l’arma del giustizialismo, certo: ma rischia di trasformare Grillo nel nuovo maitreà-penser della sinistra».
caro un’alternativa – molto chiara – tra la scelta della continuità di un’esperienza e l’opzione di un’avventura (come poi è stata quella prodiana). Fu dunque tutto molto diverso da quel che accade oggi. La diversità è ancora più marcata se si pensa alla campagna elettorale del 2001. Berlusconi si presentò come leader di una coalizione omogenea e credibile. Nel «contratto con gli italiani» offrì non una semplice agenda di governo, ma molto di più: l’impegno di una rivoluzione. Era un programma che, se realizzato, avrebbe cominciato davvero a trasformare gli assetti economici e sociali. Nel 2001 non ci fu solo il rilancio dello «spirito del ‘94», ci fu soprattutto la garanzia sull’alleanza destinata a guidare quella rivoluzione. C’era l’aurea del «ritorno» dopo la breve parentesi, traumaticamente chiusa sei anni prima dal combinato disposto dello sciopero generale contro la riforma pensionistica, dello strappo dalla Lega e dell’iniziativa giudiziaria. C’era quindi – e questo fu il tratto dominante della campagna elettorale – l’indicazione di un orizzonte, contrapposto alle resistenze di un fronte tenuto insieme dall’ideologia della demonizzazione dell’avversario e dalle trincee di una sinistra incapace di qualsiasi rinnovamento. In quei mesi, più che dell’appuntamento elettorale, Berlusconi parlò del dopo e dei tanti «cantieri» che avrebbe aperto. Si può dire che era lo statista che chiedeva, per se stesso e la coalizione che guidava, un mandato a lungo termine.
Fu il momento della maturità del «berlusconismo», il «berlusconismo» come capacità di leadership e come tessitura politica, dopo le stagioni della «discesa in campo» e dopo la «traversata del deserto». Un momento ben diverso da quello di oggi, in cui la scommessa sembra essere essenzialmente quella di una conferma della fiducia verso la sua persona, a prescindere da tutto il resto. Un po’ come avvenne nel 1994. Certo allora la credibilità della sua persona era decisiva. Si trattava di riempire il vuoto provocato dall’implosione del vecchio sistema dei partiti, dalla fine del Psi e della Dc, dalle devastazioni di «mani pulite». L’affidamento al leader, nel nome di una «rivoluzione liberale», era determinante per contrastare la «gioiosa macchina da guerra» organizzata dalle sinistre e per raccogliere l’eredità di un centro politico che stava svanendo. C’era da promuovere la novità – Forza Italia, la costituzionalizzazione della destra missina, la salvez-
Cavaliere
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Adolfo Urso non ha dubbi: «Vittoria di fatto acquisita, non c’è bisogno di sparigliare i giochi come nel 2006»
«Silvio gestisce il vantaggio,Walter sa di aver perso» ROMA. Tutto in fondo è già scritto, dice Adolfo Urso. Si può avere una visione tranquillizzante della campagna elettorale, secondo il deputato di An che è anche segretario della fondazione Fare Futuro: «Il Popolo della libertà ha un largo vantaggio, un patrimonio acquisito, e Silvio Berlusconi non è in attesa: semplicemente gestisce questo patrimonio». Eppure questa campagna elettorale non assomiglia per niente a quelle condotte finora dal centrodestra, da Forza Italia in particolare. «È una campagna tranquilla e serena, non è necessario dare un messaggio di rottura. I sondaggi ci danno circa dieci punti di vantaggio, e stavolta Berlusconi non deve sparigliare i giochi come fece nel 2006 a Vicenza. Lì c’era un distacco a nostro sfavore di sei punti, stavolta è Veltroni che ha la salita davanti a sé».
Il candidato del Pd usa la comunicazione con studio scientifico. Lancia messaggi mirati. «Verissimo. È il solo nel centrosinistra che ha una capacità di scegliere i temi e le persone paragonabile a quella di Berlusconi. Lavora bene, ma attenzione: non lo fa con l’obiettivo di vincere le elezioni». Walter ha la determinazione di chi ci crede ancora, a giudicare dai toni della sua campagna. «Sono convinto che punti ad altro: con saggezza e intelligenza vuole affermare il Partito democratico come unica vera alternativa. Prosciuga l’elettorato della sinistra massimalista e si prepara al dopo,
quando sarà il solo interlocutore dell’opposizione». Lei dice dunque che questa tornata elettorale realizza nei fatti l’obiettivo del referendum. Certo il ritmo scelto dal Pdl resta sorprendente. «Ripeto: Berlusconi non aspetta ma gestisce il vantaggio. Se si anticiperà di un anno il referendum elettorale sarà anche merito di Veltroni, che ha una strategia pensata per diventare leader assoluto del centrosinistra. Si rende conto del distacco e soprattutto di quanto sia pesante l’eredità di Prodi. Può prendere il 34 per cento e per lui sarà un gran risultato, ma sa che non può farsi illusioni sulla vittoria, questo è sicuro». E. N.
Berlusconi a Porta a porta con il Contratto con gli italiani za di un’area ex dc, l’ascesa della Lega ad un ruolo di governo – ma c’era soprattutto da garantire l’efficienza di questa novità. Sappiamo come andò a finire e rapidamente. Ma allora la richiesta di un voto di fiducia individuale, sulla persona di Berlusconi, aveva un valore politico preciso: il Cavaliere rappresentava il «nuovo», era l’argine alla sinistra e nello stesso tempo proponeva un ricettario neo-liberale che non aveva mai avuto diritto di cittadinanza. C’è da chiedersi in questo 2008, ormai ad un quindicennio da quel passaggio, quanto possa essere efficace la riproposta di un vecchio schema, appena un po’ aggiornato con la semplificazione del Pdl, sempre centrato sul simbolo del leader e con i
Il «voto contro» non è utilizzato per colpire Veltroni ma per indebolire la concorrenza di Casini programmi un po’ in secondo piano. E con una piccola variazione: lungo l’intero arco del bipolarismo è stata giocata specularmente anche la carta del «voto contro», ora questo mezzo è impiegato non tanto contro l’avversario principale, cioè il Pd, quanto contro il soggetto politico rappresentato dall’ex alleato. Berlusconi, quando dice che votare per Casini equivale a votare per Veltroni, compie un
atto di esorcismo nei confronti della concorrenza moderata, mostra di temere un’erosione, tiene comunque alto il fronte della scommessa bipartitica. E lo si può capire. Ma in una campagna elettorale condotta sotto tono, l’immagine immediata è appunto quella di un ritorno all’argomento del «voto contro». Di un passo indietro, rispetto alle intenzioni di disarmo e di pacificazione dichiarate durante il dialogo a tu per tu sulla riforma elettorale, prima della caduta di Prodi. Anche perché è solo contro l’ex alleato che vengono inaspriti i toni.
Per il resto, la strategia resta quella di limitarsi a raccogliere i frutti del fallimento dell’Unione. Di mostrare sicurezza nei
sondaggi, duellando solo sulle percentuali e non sui programmi e guardando dall’alto la rincorsa veltroniana. Il guerriero del ’94 non sta dando una vera battaglia. Forse anche per questo c’è la sensazione che un risultato, dato per sicuro, sia ora dato per incerto e che, giorno dopo giorno, la stampa esamini al microscopio i tanti scenari resi possibili dal premio di maggioranza regionale al Senato. Di sicuro c’è solo che, per la prima volta dal 1994, all’appuntamento elettorale si stia arrivando senza le consuete asprezze.Tranne quelle tra Berlusconi e Casini. O quelle, che coinvolgono il Pd, sulla «questione cattolica». Almeno finora. E a meno di sorprese da qui al 13 aprile.
L’ITALIA AL VOTO
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lessico e nuvole
E’ Casini il “piccolo diavolo” del Cavaliere di Giancristiano Desiderio
La comunicazione politica sotto esame
I telefoni bianchi della Santanché di Arcangelo Pezza Avevamo lasciato Daniela Santanchè alle prese con cremine e profumini in un delirante sito dentro il quale si poteva compiere una visita virtuale del suo boudoire. E ce la ritroviamo pasionaria alla Dolores Ibárruri, ma della Destra. Come sia avvenuta la mutazione è arduo spiegarlo. All’indirizzo www.danielasantanche.com sembra non rimanere più nulla della precedente vita, spesa dolcemente sui tacchi di Prada tra Briatore e La Russa, in qualche privè di qualche locale alla moda. La reginetta della movida è ora una donna di piglio, che nel manifesto “Santanchè presidente”ci seduce con un “Io credo”, nel popolo italiano, nella forza dei valori, in un futuro migliore. La bella composizione fotografica in bianco e nero è appena sporcata dal loghino de la Destra con la duplice fiamma, a metà tra carabiniere e tedoforo, che ha la grafica non troppo convincente dei tem-
pi andati. Se non fosse per quello potrebbe benissimo essere la pubblicità di un film francese. Oggi dunque la Santanchè è una donna tutta d’un pezzo che, intervistata dall’Annunziata, ha il coraggio di dire: «Se lei mi chiama fascista io le rispondo che allora siamo tutti fascisti». Una frase che non sarebbe dispiaciuta a Elisa Majer Rizzioli, la fondatrice dei Fasci femminili. Ma se scrolliamo il sito, in basso a destra, sotto la dicitura “foto d’autore” ecco ricompare d’improvviso la Santanchè che ricordavamo, più simile a una diva dei “Telefoni bianchi”che a un’eroina delle Massaie Rurali. Lo sguardo trasognato, l’erotismo ammiccante delle calze a rete, i lineamenti marcati che si perdono nel chiaroscuro seppiato, sono quelli di Alida Valli alle prese con Amedeo Nazzari, che in fin dei conti era una sorta di Storace solo con più torace.
Edizione speciale del Tg4. C’è Fede ma conduce Berlusconi. Il Cavaliere parla agli elettori di Casini. Il concetto è semplice: si lasci perdere il voto all’Udc - “piccolo partito” - e si voti il PdL perché è questo l’unico vero voto utile per i moderati che non vogliono di nuovo la sinistra al governo. Fede annuisce, si tocca una volta, due volte, tre volte il nodo della cravatta, tira in fuori collo e petto e con la mimica dice: «Vedete, il Presidente ha mille volte ragione». Può darsi. Ma, in realtà, ciò che si capisce subito è che Casini è l’incubo del Cavaliere. Se, infatti, il voto al PdL è utile e quello all’Udc è inutile perché stare lì a ripeterlo ogni due minuti? Le cose sembra che siano un po’ diverse. I sondaggi, quei benedetti maledetti sondaggi, croce e delizia di Berlusconi, attribuiscono ai centristi un 7 o 8 per cento. Troppo? Può darsi. Ma il 4 o 5 per cento è realistico. E qui c’è il busillis. Storace ha detto: «Non hanno voluto fare l’accordo con noi e con Casini per pareggiare e fare la larghe intese con Veltroni». Troppo arzigogolata. La realtà è più lineare di quanto non si immagini: banali calcoli sbagliati. E così Casini può dire: «Per Silvio sono il diavolo». Esagerato. Il piccolo diavolo, questo sì.
Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la “media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda
Il sondaggio dei sondaggi Pdl+Lega
la media di oggi Eurom. Eurisko Ipr Swg Ipsos Demosk. Crespi 23 febbraio
20 febbraio
19 febbraio
18 febbraio
18 febbraio
18 febbraio
18 febbraio
Udc+Rb
Pd+Idv
Sin-Arc
Destra
Socialisti
44,5
7,2
36,2
7,5
1,9
1,2
46,4 45,4 44,5 42,7 45,6 44,5 43,0
5,7 7,5 8,0 8,0 5,8 8,0 8,0
36,4 39,0 34,5 37,2 37,8 34,5 34,2
7,9 5,8 8,0 8,0 6,5 8,5 8,0
1,2 1,0 3,0 1,7 1,2 2,0 3,3
0,8 0,7 1,5 0,7 1,2 1,5 2,5
La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca e Udeur, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.
di Andrea Mancia Nuovo sondaggio di Euromedia Research relativo alle intenzioni di voto del 22 e 23 febbraio. Si tratta dello stesso sondaggio di cui ha parlato lunedì sera Silvio Berlusconi al Tg4. Non ci sono altri sondaggi disponibili, nel 2008, da parte dell’istituto diretto da Alessandra Ghisleri, dunque non è possibile analizzare gli spostamenti di consenso tra partiti e coalizioni, ma ricordiamo che Euromedia - caso unico tra tutti gli istituti di ricerca italiani - ha ottenuto risultati particolarmente brillanti nel ciclo elettorale del 2006. Per Euromedia, il distacco tra PdL (40,6%), Lega (5,6%) e Mpa (0,2%) nei confronti di Pd+Radicali (32,9%) e Idv (3,5%) è esattamente del 10% (46,4% contro 36,4%). Discreto il risultato della Sinistra Arco-
baleno (7,9%), mentre Udc (3,8%), Rosa bianca (1,2%) e Udeur (0,7%) vanno un po’peggio rispetto ad altri sondaggi recenti, come quelli di Eurisko, Ipr e Swg. Zoppicano anche Destra (1,2%) e Socialisti (0,8%). Il sondaggio di Euromedia, nella nostra tabella, prende il posto di quello di Fn&G del 12 febbraio, che era particolarmente favorevole a PdL e Pd. Per questo motivo, le medie delle due coalizioni maggiori scendono leggermente: 44,5% per il centrodestra e 36,2% per il centrosinistra. Resta immutato il vantaggio del PdL all’8,3%. Cresce invece la media della Sinistra Arcobaleno, che arriva al 7,5% e resta stabile al 7,2% quella di una ipotetica coalizione di centro guidata dall’Udc.
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L’ITALIA AL VOTO
La novità del Centro. Le previsioni dei politologi /2 Giacomo Vaciago
Le riforme liberali in Italia si fanno solo con il Centro Colloquio con Giacomo Vaciago di Riccardo Paradisi
ROMA. Il nostro viaggio intorno al Centro prosegue con il professor Giacomo Vaciago, economista, ordinario di politica economica alla Cattolica di Milano. Vaciago, che nei primi anni Novanta è stato anche sindaco di Piacenza, ha una convinzione, che in Italia le riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno non si faranno mai senza il contributo del centro liberale: «L’alternanza tra destra e sinistra in questo ultimo quindicennio», dice Vaciago, «lo dimostra ampiamente». Professore che cosa determina l’assenza del centro nella politica italiana? Determina un pasticcio. Concettuale prima di tutto. Come si può parlare infatti di destra e sinistra senza che ci sia un centro? Come si fa definire se la Cina è a est o a ovest se non si prende come punto di misurazione un centro? Nei sistemi anglosassoni il Centro non c’è: destra e sinistra lo conquistano di volta in volta. Ma guardi che in Inghilterra il Centro esiste eccome. È occupato dai liberali, Ma non contano nulla però. Non contano perchè il sistema elettorale li penalizza duramente, ma di voti i liberali inglesi ne hanno tanti. E non hanno solo i voti, hanno una grande funzione: quella di determinare nella geografia politica la destra e la sinistra del Paese. A destra i conservatori e a sinistra i laburisti: loro al centro. E poi su questo fatto, come lei dice, che non contano nulla ci andrei piano. I liberali britannici hanno un forte peso culturale, determinano il dibattito, incidono nel mondo
C’è secondo lei uno spazio politico elettorale per un centro di questo tipo oggi in Italia? Certo. Vede a me l’idea che Berlusconi o la sinistra facciano loro le riforme liberali in questo Paese mi fa ridere. Perchè? Ma scusi Berlusconi non si è alleato con An per fare il suo nuovo partito delle Libertà? E An non è stato il partito che ha capeggiato le rivolte dei tassisti a Roma, che ha difeso Fiumicino, che si batte ogni volta per gli aumenti agli statali? La realtà è che la destra italiana è corporativa. E che le riforme liberali non si fanno con chi è corporativo. Non si fanno nemmeno con la sinistra naturalmente. L’alternanza destra-sinistra infatti non risolve i problemi legati alle riforme, perchè manca loro l’apporto della cultura liberale di centro. Quanto si è spostato a destra Berlusconi senza Casini rispetto alla vecchia Cdl? Abbastanza. Certo la presenza di Storace a destra di An riequilibra un po’ le cose, ma non troppo. Di fatto nell’alleanza di Berlusconi ora manca un pezzo di centro. Che risultato avrà il Centro il 13 aprile? Il vero interrogativo è proprio questo. Dipende. Dipende se gli
«Il pasticcio italiano è che Berlusconi si dice liberale stando a destra. I liberali invece dovrebbero essere Pier Ferdinando Casini e la Rosa Bianca
Helmut Kohl ha governato in Germania per 16 anni
delle idee, nella società, negli equilibri politici. Come vede il futuro del Centro italiano? L’Italia è un Paese particolare, con una storia particolare. Da noi, dal 1948 fino alla fine della Prima repubblica il centro è stato occupato da un partito di ispirazione cattolica con tratti anche confessionali. I liberali erano percepiti come una forza di centrodestra, e più oltre c’era una destra fortemente caratterizzzata e percepita in senso neo o post-fascista. Nei Paesi normali invece, con una storia diversa dalla nostra, i liberali stanno al centro, la destra è conservatrice e la sinistra è laburista. Ecco, se questo diventerà mai un Paese normale il centro italiano dovrà essere un Centro liberale. Perchè secondo lei l’Italia è ancora un Paese anomalo? Il pasticico italiano è che Berlusconi si dice liberale stando a destra. I liberali invece dovrebbero essere Bruno Tabacci e Pier Ferdinando Casini che non hanno più nemmeno la necessità storica di tenere in piedi un partito cattolico confessionale. Il centro è stato nel dopoguerra il luogo dove si difendeva il cattolicesimo, ma quella è una fase storica superata. Adesso può nascere un centro di valori liberaldemocratici, d’ispirazione cristiana, che contagi destra e sinistra in termini politici e culturali e che la smetta di giocare all’ago della bilancia, come è avvenuto in questi anni.
italiani faranno finta di essere inglesi e sceglieranno l’offerta politica di Veltroni o Berlusconi oppure resteranno quello che sono, cioè saldamente continentali. Se sarà così, come presumo, faranno scelte più differenziate. Lo scenario che si potrebbe presentare sarà a tre, quattro partiti. Con un Centro abbastanza forte. Fini e poi anche Berlusconi e Veltroni hanno ripetuto a martello nei giorni scorsi la formula del voto utile. Farà breccia questo slogan nelle teste degli italiani? Non credo. Il quadro politico italiano non si lascia semplificare così facilmente. Non si deve trascurare il peso enorme che hanno in questi Paesi i localismi, le famiglie culturali, le tradizioni di appartenenza, persino lo scetticismo. Molta gente in Italia voterà come ha sempre votato. Siamo in Italia, mi ripeto, non negli Stati Uniti. Per questo non capisco per quale motivo non si guardi al modello tedesco per organizzare il nostro sistema politico. Dove c’è il proporzionale. Sì, ma con uno sbarramento alto che riduce lo spettro dell’offerta politica a tre o quattro partiti significativi. Capaci anche, in casi di emergenza, di fare le grandi coalizioni. In Germania ci sono i liberali, i socialisti e i cristiano democratici. Ma Helmut Kohl ha governato 16 anni senza bisogno dei socialisti.
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politica d i a r i o
d e l
g i o r n o
Finocchiaro invita a votare Pd o Pdl «Sì, dico anch’io votate i grandi partiti - ha dichiarato la candidata del Pd in Sicilia, Angela Finocchiaro - Credo che sia positivo per il bene dell’Italia, perché credo nella semplificazione del sistema politico e nelle riforme. Non è possibile avere un sistema che si imballi completamente. Occorre garantire a chi vince di potere governare senza difficoltà per cinque anni e di poter dialogare in una posizione di forza con l’opposizione».
Pd: Bondi (Fi), un partito senz’anima «Il Pd di Veltroni segna un distacco radicale e definitivo con la tradizione del cattolicesimo democratico e liberale e persino con quella socialista e comunista italiana, per diventare semplicemente lo specchio dei tempi, il riflesso di tutte le mode prevalenti nel mondo della comunicazione, la pura contabilità dei diritti e dei desideri; insomma un partito senza valori e senz’anima». Lo ha detto coordinatore nazionale di Forza Italia, Sandro Bondi.
Mastella vuole l’alleanza con Casini
Oggi l’assemblea a Roma, tra valori e posti in lista
Cattolici alla conta nel Pd di Susanna Turco
ROMA. Mentre Massimiliano Cencelli annunciava a Salerno la volontà di scrivere una nuova edizione del suo manuale, e a Roma Paolo Cirino Pomicino prendeva sottobraccio l’ex giovane dc Renzo Lusetti per spiegargli tra le porpore della Camera la funzione essenziale delle correnti nello Scudo Crociato, mentre insomma il mondo democristiano traduceva in gesti quell’aria da prima repubblica che sempre si respira nei giorni in cui si decidono le candidature, proprio allora i teodem Paola Binetti, Luigi Bobba, Emanuela Baio Dossi ed Enzo Carra, salivano al Loft per chiarire che quella coi radicali è una convivenza che si paga a suon di visibilità e di candidature. «Abbiamo chiesto forti e chiare new entry che si riconoscono nei nostri valori, ma anche che chi è già impegnato in Parlamento sia riconfermato con una visibilità nella posizione di lista», ha spiegato poi la Binetti definendo «rassicurante» la risposta del leader del Pd.
«L’Italia diventerebbe l’unico posto in cui c’è un partito laico e un partito cattolico, e questo dobbiamo evitarlo».
Sin dalla mattina, del resto, erano in piena attività le sirene veltroniane che spiegavano come laici e cattolici non solo «possono», ma addirittura «devono» trovarsi nello stesso partito. Lo stesso ex sindaco di Roma si è profuso in ragionamenti in occasione dell’ospitata a Radio anch’io: ricordando che nel programma del Pd sono affrontati temi ”cari”al mondo cattolico, che i radicali «sottoscriveranno il programma», cheFamiglia cristianacritica oggi quel che non
Tutto questo movimento, che pure riguarda la struttura cultural-politica del nuovo partito, va inquadrato essenzialmente all’interno della battaglia interna sulle candidature. L’innesto dei radicali, infatti, ha galvanizzato le varie componenti cattoliche, permettendo loro di recuperare - o almeno di provare a farlo - uno spazio di visibilità superiore a quello nel quale l’aveva relegato l’onnivoro Walter Veltroni. Basterebbe guardare come è cambiato l’atteggiamento
criticò nel 2001, quando Pannella si candidò nelle liste di Forza Italia, Veltroni ha voluto mettere in guardia dall’idea che «laici e cattolici non possano convivere, che coloro che hanno opinioni diverse su temi delicati come quelli che riguardano l’etica, la vita e la morte debbano farsi ognuno il suo partito». «Alla fine questa idea ci porta ad un assetto che non è quello di un Paese moderno», ha spiegato:
Paola Binetti: «A Veltroni abbiamo chiesto forti e chiare new entry, ma anche, per chi è riconfermato, visibilità nella posizione in lista»
di uno come Beppe Fioroni. «Le riunioni della corrente cattolica le faremo qui accanto al Loft, nella chiesa di sant’Anastasia», continuava a ripetere come per scacciare una preoccupazione nel giorno in cui, inaugurando la sede del Pd,Walter Veltroni occupava in pratica tutto lo spazio disponibile. Adesso, quasi trasfigurato da «tutte le guerre in corso», il ministro dell’Istruzione arriva perfino a suggerire nelle interviste il numero di eletti sufficiente per spegnere la fiamma anti-radicale nel cuore del partito.
Il lavorio dei Fioroni e dei Franceschini, del resto, si sposa a meraviglia in questa fase con quello dei teodem. Si incontreranno tutti nel pomeriggio per la convention ”Educare al bene comune” promossa da Fioroni e benedetta dalla tempistica. Non dovrebbe esserci invece Rosy Bindi, che proprio ieri ha espresso tutto il suo dissenso per metodi e ispirazione dell’incontro: «Se c’è un convegno nel quale siamo tutti insieme ma nessuno di noi può parlare e spiegare la propria posizione io, onde evitare di essere accomunata a chi le pensa diversamente da me, preferisco non partecipare», ha detto, criticando il contrapporre (leggi Fioroni) «a nove radicali cento cattolici». Peccato, perché proprio alla convention, Veltroni in persona si farà carico di rassicurare i cattolici circa il loro spazio nel Pd. Annuncio di nuove candidature provenienti da quel mondo, tutt’altro che escluso.
«Siccome provengo da quella che è l’eredità della balena bianca, se qualche balenottero alla fine finisce male, pazienza. Prima o poi il percorso termina per tutti». Sono parole dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella (Udeur). Il segretario dell’Udeur, a proposito di un’eventuale accordo con l’Udc di Casini, ha poi concluso: «io continuo a ritenere che un’alleanza con Casini sia il processo politico più adeguato: trovarsi senza avere finte cautele o discriminazioni rispetto agli altri».
Scontro sulla candidatura di Serra Veltroni candida nelle liste del Pd al Senato l’ex prefetto di Roma Achille Serra. Contrario il Pdl con Maria Burani: «Il prefetto De Sena doveva scoprire il livello politico dell’omicidio Fortugno ed è stato promosso a senatore, mentre l’altro prefetto Achille Serra doveva evidenziare le clientele del sistema sanitario calabrese, governato dal centrosinistra, ed è stato anch’egli promosso senatore. Mi paiono due coincidenze alquanto strane». Contaria anche la Destra con Romagnoli: «Sembra di stare in Colombia».
Bertinotti: «Ingerenza della Chiesa c’è, ma il Pd è inconsistente» «Di fronte alla propensione crescente della Chiesa, in particolare in Italia, ad occuparsi della sfera pubblica e politica è difficile non parlare di ingerenza, ma l’indeterminatezza delle proposte del Pd sul tema dei valori rende ingenerose le critiche della Chiesa». Ha dichiarato Fausto Bertinotti, candidato premier della Sinistra Arcobaleno.
I corpi nel pozzo sono di Ciccio e Tore «Dobbiamo ragionevolmente confermare che si tratta di Ciccio e Tore». Lo ha dichiarato il procuratore capo di Bari, Emilio Marzano, subito dopo aver effettuato il sopralluogo nella cisterna dove, ieri pomeriggio, sono stati scoperti resti mummificati di due bambini. Per il procuratore «alcuni elementi fanno supporre che i due bambini non sono morti subito e che hanno subito una atroce agonia».
Quindici ultras arrestati a Roma Sono in tutto 15 gli arresti eseguiti stamattina nella Capitale da Carabinieri ed agenti della Digos nell’ambito dell’inchiesta su una struttura criminale formata da soggetti di estrema destra e ultras. Tra i fatti addebitati agli arrestati, l’assalto alla caserma di via Guido Reni dell’11 novembre (in questo caso viene contestata l’aggravante della finalità di terrorismo), giorno in cui venne ucciso ad Arezzo il tifoso laziale Gabriele Sandri.
Sanremo. Crollano gli ascolti Nove milioni e mezzo di telespettatori hanno visto la prima parte della serata inaugurale del Festival di Sanremo. Poi, un vero e proprio crollo degli ascolti. La seconda parte è stata seguita da appena 4 milioni e 800mila fan. Questa sera pausa.
politica
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Il programma del Pd si muove verso l’accettazione della flessibilità del lavoro
Molti limiti nella Veltronomics, ma anche qualche passo in avanti di Natale Forlani on la presentazione del programma del Partito democratico cominciano a delinearsi i contenuti della campagna elettorale dei grandi partiti in competizione. La tematica del lavoro, e della tutela dei redditi fissi, sarà uno dei temi più rilevanti del confronto viste le evidenti difficoltà del reddito da lavoro dipendente e dei pensionati nel far fronte ai rincari del costo della vita. Ma anche per la centralità mediatica che la problematica ha assunto con il contribuito di una serie costante di rilevazioni statistiche, in particolare quelle dell’Istat e della Banca d’Italia. Indagini che dimostrano come su vari versanti, perdita del potere di acquisto, crescenti distanze rispetto ai colleghi europei, questi redditi negli anni 2000 abbiano subito penalizzazioni anche nei confronti di altri ceti produttivi. Sull’esigenza di sostenere il reddito da lavoro dipendente, individuale e familiare, si registra una convergenza di proposte nei programmi delle forze politiche. Questa convergenza sulle materie del lavoro, rappresenta già una novità di rilievo rispetto alla campagna elettorale del 2006 quando sulla Legge Biagi e sulle tematiche del lavoro precario la contrapposizione era stata radicale. Se non altro si conviene sull’esistenza del problema e ci si confronta sulla qualità delle terapie, anziché attivare sterili polemiche.
che lo stesso non è sostenibile. Nel settore dei servizi alle persone, ad esempio, la sostenibilità dei costi delle famiglie, che sono il datore di lavoro principale, difficilmente eccede gli otto-novecento euro.
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Il primo elemento di discontinuità del programma del Partito democratico rispetto al passato è proprio questo, ed è il frutto dell’esaurimento dell’alleanza con la sinistra radicale. Demarcazione già avvenuta nell’occasione della sottoscrizione dell’intesa su lavoro e Welfare tra governo e parti sociali del 23 luglio 2007 a cui il nuovo programma si ispira per continuità. Le proposte del Partito democratico: introdurre un salario minimo legale per proteggere i redditi bassi e le retribuzioni del lavoro atipico, rafforzare gli incentivi per l’inserimento delle donne ed i livelli di protezio-
ne nei casi di perdita del lavoro, muovono nella direzione di una esplicita accettazione della flessibilità del lavoro compensata con livelli di sicurezza più ampi per i lavoratori disoccupati. La parola flexsecurity, che riassume concettualmente le politiche praticate con successo soprattutto nei paesi nordici e anglosassoni, è assunta senza quelle reticenze e ostilità che hanno caratterizzato l’atteggiamento della sinistra verso il Libro Bianco di Marco Biagi del 2001 che ne auspicava l’introduzione nelle politiche del lavoro italiane. Una seconda area
che fosse possibile ridurre la pressione fiscale solo a fronte della lotta all’evasione fiscale. Cosa che non ha fatto felici i lavoratori dipendenti ed i contribuenti onesti. La copertura dei mancati introiti tramite tagli alla spesa è possibile, dato che i margini di produttività della Pubblica amministrazione offrono spazi abbondanti per ottenere i risparmi necessari allo scopo. Ma le proposte elettorali del Pd presentano anche alcuni limiti. Un primo limite è rappresentato dalla scarsa focalizzazione dei problemi del nostro mercato del lavoro ed in particolare
vare le spese di cura) e non affronta le drammatiche contraddizioni del nostro mercato del lavoro: disoccupazione di lunga durata, anziani che escono precocemente, ritardo nell’ingresso al lavoro dei giovani.Temi sui quali, purtroppo, la retorica sul “precariato”degli ultimi anni ci ha allontanato dalle terapie adottate dagli altri paesi europei che privilegiano e incentivano i rapporti di lavoro, compresi quelli a termine, che favoriscono l’ingresso al lavoro dei soggetti a vario titolo più svantaggiati e, per i giovani, i contratti di apprendistato. Il taglio delle proposte continua a
Il partito di Veltroni si concentra poco su come aumentare il tasso di occupazione in Italia. Un tema sul quale la retorica del “precariato” degli ultimi anni ci ha allontanato dalle terapie adottate in tutta Europa di interventi riguarda gli sgravi fiscali sui redditi da lavoro dipendente e dei pensionati, come anticipazione di un disegno di riduzione delle tasse più generale per tutti i redditi da realizzare entro la legislatura. Anche su questi interventi si sta registrando una relativa convergenza tra le forze politiche che si confrontano nella campagna elettorale. La novità non sta nel “se”ma nel “come”realizzarli e cioè attraverso una riduzione equivalente della spesa pubblica. E non è cosa da poco visto che sino a poco tempo fa circolava, da quelle parti, l’idea
di come produrre un incremento significativo del tasso di occupazione. Non è un limite solo del Pd, la tematica è assente anche nelle proposte di altre parti politiche. Rispetto alle medie europee mancano all’appello tre milioni di posti di lavoro. Il che significa meno opportunità per i giovani, per le donne e per i lavoratori anziani. Su questa parte le proposte del programma sono marginali e si limitano alla conciliazione tra lavoro e famiglia per la donna (incentivare l’assunzione delle donne da parte delle imprese, aumentare gli asili nido, sgra-
concentrarsi sui rimedi di breve periodo, sul «bisogna fare qualcosa» e in questo senso vanno le proposte del salario minimo e degli sgravi fiscali. Personalmente ritengo la novità interessante e degna di essere presa in considerazione dalle parti sociali nell’ambito della riforma del sistema contrattuale. Ma è la bassa produttività del settore dei servizi a comprimere la crescita dei salari. Senza una crescita del prodotto e della produttività il salario minimo rischia di ridurre l’occupazione o di aumentare il lavoro sommerso nella misura
Il salario minimo di mille euro mensili, come proposto dal Pd, deve prevedere misure di sostegno contributive e fiscali da esplicitare con più chiarezza. Il Pd dovrà fare i conti con quello che considero, insieme, il punto di forza e di debolezza di questa forza politica. È indubbio che il Pd rappresenti il partito di riferimento della stragrande maggioranza della dirigenza sindacale di Cgil-Cisl-Uil, ma questo comporterà l’esigenza di uno sforzo di rinnovamento nella qualità della mediazione sociale. La mancata riforma della Pubblica amministrazione e della struttura della contrattazione, e i limiti della flexsecurity italiana, non sono il frutto della insufficienza di risorse, ma delle resistenze degli interessi consolidati. Come del resto ha sottolineato più volte il professor Pietro Ichino chiamato da Veltroni a svolgere un ruolo primario nella rappresentanza del Pd e nelle future elaborazioni del partito in materia di lavoro. Non a caso le proposte più incisive avanzate dal professore negli ultimi tempi, introduzione del contratto unico di tutela con la parziale riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e il rafforzamento dei sistemi e delle autorità di valutazione della Pubblica amministrazione, non sono esplicitamente riprese nel programma. Con l’eccezione dell’introduzione di generici indicatori per valutare l’efficienza degli apparati pubblici. Tuttavia, pur con questi limiti, le proposte del Pd cominciano ad incanalarsi in un percorso che tende culturalmente ad assumere i toni ed i contenuti che caratterizzano le politiche del lavoro delle socialdemocrazie europee. Ed è un bel passo in avanti che anche le altre forze politiche in competizione con il Pd dovrebbero cogliere per aprire una nuova stagione di politiche del lavoro.
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pensieri
n un editoriale di domenica 24 febbraio 2008, lo storico Ernesto Galli Della Loggia si interroga sull’“Identità dei cattolici”e sul ruolo di un ipotetico partito “di” o “dei” cattolici (la differenza è sturzianamente sostanziale) impegnato nell’arena politica italiana. Concordo con la maggior parte degli argomenti affrontati da Galli Della Loggia, in particolar modo sulla scarsa consistenza propositiva dell’esperienza della Democrazia Cristiana nelle ultime sue decadi e sul declino politico-morale della sua classe dirigente; decadenza morale che ha coinciso con la parabola politica di quello stesso partito. Tuttavia, resta un punto da chiarire. L’operazione di Galli Della Loggia sebbene sia storicamente sincera, intellettualmente presterebbe il fianco a qualche obiezione. Sembrerebbe quasi che l’editorialista del Corsera, pur non usando l’arma dell’ironia, disegni i contorni goffi ed imbarazzanti del personaggio oggetto delle sue cure satiriche, ed infine, si compiaccia di quanto l’immagine ridicolizzata calzi a pennello con le ragioni della sua critica. A sparare sulla Croce Rossa sono quasi tutti bravi, resta tuttavia il problema irrisolto se davvero in Italia esista o meno l’opportunità che una parte “di” cattolici impegnati in politica possa rappresentare il più possibile unitariamente interessi, principi e valori “civili”, non settariamente cattolici, ma propriamente laici e liberali, a partire da una prospettiva che non sia il liberalismo dogmatico che sfocia nel consumato laicismo radicale di Pannella ovvero nel sincretismo qualunquistico di Veltroni del Pd e neppure nel populismo becero berlusconiano, brambilliano e fini-mussoli-
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Il dibattito sull’identità politica del Centro
Non è il partito ”dei cattolici” di Flavio Felice niano del Pdl; di chi da quindici anni pretende di incarnare un liberalismo all’amatriciana, condito del più illiberale dei conflitti d’interessi. Ebbene, la presenza dello Scudo Crociato, nel rispetto della tradizione sturziana, vuole incarnare una prospettiva liberale pragmatica, una filosofia dell’uomo che investe le istituzioni politiche, economiche e culturali, che considera il ruolo centrale della persona, della famiglia e della società civile.
Non si tratta di una posizione difensiva contro l’inevitabile sbocco laicista ed assolutistico della modernità (e qui risiede l’efficace caricatura di Galli Della Loggia), ma la consapevolezza, e quindi la proposta, che la modernità possa assumere una prospettiva inedita rispetto alla deriva laicista se le istituzioni democratiche, dell’economia di mercato e pluralistiche maturino e si sviluppino storicamente alla luce dei principi della moderna dottrina sociale della Chiesa. “Democrazia cristiana”, “Economia sociale di mercato”, “Pluralismo culturale”, “Comunità europea” sono soltanto alcune delle esperienze
n quest’inizio di campagna elettorale si sta ancora parlando poco di programmi e molto di alleanze: nuovi accordi si vanno stringendo e vecchi sodalizi si sciolgono. Dopo una lunga Prima Repubblica senza patti pre-elettorali e una breve stagione di bipolarismo, per noi Italiani si tratta di una vera e propria novità. E nel linguaggio della politica sono entrati dei concetti nuovi, come quello di“voto utile”. Con una legge elettorale che non prevede le preferenze, affidando nei fatti ai partiti la scelta dei candidati da eleggere, la nascita di due grandi contenitori, il Pd e il Pdl, in realtà ci porta a parlare di “voto sbagliato”, se non “pericoloso”. Le formazioni di Veltroni e Berlusconi, infatti, diversamente da quanto sostengono i due leader, non sono affatto omogenee e coese e non faranno nessuna corsa solitaria. Il Pd sarà alleato con Idv e il Pdl con la Lega e l’Mpa, mentre all’interno delle liste, che del partito unico hanno solo la facciata, ci saranno anche i rappresentanti di molte formazioni minori e decisamente eterogenee. Sono nate quindi delle vere e proprie coalizioni, anche più instabili di quelle degli anni passati che i due canditati premier non perdono occasione di criticare. Nel Pd, fin dalla nascita lacerato da profonde divisioni su temi importantissimi come quelli etici, sono entrati i radicali, che hanno davvero ben poco in comune con i teodem o con gli alleati giustizia-
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L’INTERVENTO
storico-politiche che la tradizione del popolarismo sturziano hanno offerto all’agenda politica italiana ed europea durante la seconda metà del secolo appena trascorso. Ebbene, in che modo la moderna dottrina sociale della Chiesa si è opposta in modo propositivo e non meramente passivo e difensivo al processo di assolu-
Occorre riformulare in termini comprensibili alla cultura contemporana l’antico appello ai “Liberi e Forti” tizzazione dello stato moderno? Chiaramente in tanti modi, ma ai nostri fini possiamo individuare quattro principi: 1. Il concetto di persona. Il primato della persona rispetto a qualsiasi istituzione sociale, dunque anche rispetto allo Stato. In base a tale principio la persona è titolare di diritti originari che non le derivano dalla legittimazione di nessuna istituzione politica, ma semplicemen-
te dal fatto di essere creata ad immagine e somiglianza di Dio. 2. Il secondo è la famiglia. La persona non è mai un essere isolato, bensì una realtà relazionale che si percepisce nella misura in cui si comunica con gli altri. La famiglia è il primo luogo nel quale si esplicano le potenzialità e anche i diritti. 3. L’insieme delle famiglie e dei corpi intermedi danno vita ad una comunità più ampia che chiameremo società civile e/o nazione. In tale comunità possiamo rinvenire gli elementi che fondano la nozione di “popolo”, che risiedono nella storia comune, nella comune tradizione, nella comune cultura, nella comune lingua e nel comune territorio fisico che in sé rappresenta l’unità di storia, di tradizioni e di cultura che hanno potuto prendere vita ed esprimersi in un dato modo. 4. Il quarto elemento è dato dal principio di sussidiarietà. Se con i primi tre abbiamo indicato i soggetti che costituiscono il baluardo alla potenza onnivora della nozione di Stato assoluto che pretende di diventare nella vita reale totalitario, il quarto elemento descrive il modo in cui tali soggetti dovrebbero relazio-
Pd e Pdl, stessi problemi, stesse soluzioni. Sbagliate
Nelle liste c’è di tutto. Le contraddizioni di oggi esploderanno domani di Paolo Posteraro
listi di Idv. Non va meglio al Pdl, che ha virato decisamente a destra e sotto il cui simbolo convivono Fi, An, la Mussolini, Dini, Rotondi, La Malfa e qualche reduce socialista: storie, idee e posizioni completamente diverse. Praticamente tutte le anime della politica italiana, eccetto i comunisti (ma c’è qualche ex). A tenere uniti questi due blocchi, monolitici all’apparenza ed estremamente fragili nella realtà, è solo il desiderio delle forze più grandi di schiacciare le piccole e la disponibilità di queste a sacrificare ideali e autonomia in cambio di qualche posto in Parlamento. E proprio qui sta la pericolosità del voto dato al Pd o al Pdl: senza le preferenze e con liste che riuniscono tutti, senza una precisa connotazione politica o ideologica, non
narsi. Il principio di sussidiarietà disegna la giusta articolazione tra i soggetti che compongono il variegato corpo sociale, a livello economico, istituzionale, amministrativo e fiscale. Se la persona, la famiglia e la società civile hanno una fondazione ed una legittimazione autonoma dallo Stato, ne consegue che lo Stato deve in primo luogo rispettare e promuovere queste dimensioni, senza alcuna pretesa egemonica. È questa la ragione politico-istituzionale di impronta liberale che giustifica la presenza il più possibile unitaria dei cattolici in politica.
Non si tratta dunque di perorare la causa dello Scudo Crociato come diadema difensore dei sacri valori della Patria, di Dio e della Famiglia. Ha ragione Galli Della Loggia, non ci sono riusciti Moro e Fanfani con il 40% del consenso, figuriamoci oggi! Ad ogni modo, il problema non è quello sollevato dall’amico e stimato editorialista del Corriere, bensì il difficile tentativo di riformulare in termini comprensibili alla cultura contemporanea l’antico appello ai “Liberi e Forti” del 18 gennaio 1919 di Luigi Sturzo. Il prete di Caltagirone non intendeva dar vita ad un partito “dei” cattolici, bensì – più modestamente – intese offrire a quei cattolici interessati al suo progetto “liberalepopolare”, uno strumento partitico “di” cattolici, laicamente inteso, aperto all’apporto proveniente dalla teoria e dalla prassi politica dell’epoca. Questo fu il Partito Popolare, questa avrebbe dovuto essere la Democrazia Cristiana e questa ci auguriamo che sia la prospettiva dei cattolici liberali che hanno rifiutato l’abbraccio di Veltroni e Berlusconi.
si può essere certi di chi si elegge. Un moderato che vota il Pdl, ad esempio, in virtù di accordi segreti e qualche rinuncia, potrebbe contribuire a portare in Parlamento un candidato dell’estrema destra, piazzato in una posizione apparentemente senza speranza. E così il cattolico che vede un teodem in cima alle liste del Pd e il radicale senza possibilità di risultare, dopo le elezioni potrebbe avere qualche brutta sorpresa. Il voto utile, dunque, è il voto sicuro, quello per un partito che difende la sua identità e non accoglie chiunque pur di guadagnare una manciata di voti. Questi enormi monoblocchi, poi, come dei giganti dai piedi d’argilla, rischiano di crollare all’indomani delle elezioni sotto il peso delle loro stesse contraddizioni. Oggi tutti gli assorbiti sono disposti a mettere da parte idee e valori in cambio di una sicura sopravvivenza, ma domani le esigenze saranno altre e, probabilmente, le vie per soddisfarle non passeranno né dal Pd né dal Pdl. L’assenza del proprio simbolo, poi, fa venire meno anche la responsabilità politica: far uscire un intero partito da una coalizione non è una cosa facile, mentre la migrazione di qualche parlamentare da un gruppo a un altro passa molto più inosservata. E Berlusconi e Veltroni potrebbero presto trovarsi a pagare le conseguenze del loro desiderio di fagocitare gli alleati.
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parole
errebbe voglia di esclamare “Finalmente!”, ma lo stesso entusiasmo non lo abbiamo notato nella stampa, soprattutto in quella di sinistra, sull’abbandono di Fidel Castro dal vertice dello Stato di Cuba. Adesso la fine della dittatura di Fidel è stata formalizzata con l’elezione del fratello Raul a presidente, ma i numerosi intellettuali impegnati (a sinistra) che in quasi mezzo secolo hanno applaudito il regime castrista si sono mostrati tiepidi e imbarazzati. Sollecitati dai giornali sono stati reticenti, silenziosi o i più si sono spinti a giudizi generici sulle eredità politiche del Grande Dittatore e del suo contagio nel Venezuela di Chavez, di Morales in Bolivia, di Corea in Ecuador, di Daniel Ortega in Nicaragua, di Lula in Brasile, della Bachelet in Cile e della Kirchner in Argentina. Ci sarebbe molto da discutere su questo “contagio”, tra l’altro molto diverso da paese e paese e con caratteristiche profondamente differenziate.
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A Cuba la popolazione si sta svegliando dall’INCUBO castrista. La nostalgia è in Italia di Aldo Forbice c’è libertà di viaggiare», ma che «la rivoluzione cubana si configura come un tentativo importante di sviluppo autocentrato». Ovviamente sono scontati i giudizi della “Sinistra Arcobaleno”, come quello di Marco Rizzo ( «Fidel lascia, ma le sue idee hanno vinto»), da sempre allineati nella difesa acritica del regime, al punto da somigliare a una grande associazione Italia-Cuba. Più condivisibile l’opinione di Umberto Ranieri (Pd): «In realtà da tempo Fidel rappresentava solo il passato di Cuba. Era meglio se il regime fosse crollato dopo la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Urss». Ora, con la presidenza di Raul Castro, giudicata provvisoria, si dovrà affrontare la difficile transizione verso la democrazia.
Se proprio si vuole trovare un filo rosso tra i governi di molti paesi dell’America Latina lo si deve ricercare nella più marcata tendenza a perseguire una politica di maggiore autonomia (politica, economica e culturale) dagli Stati Uniti avendo più consapevolezza degli interessi nazionali. Nulla di più, anche perché in tutti i Paesi sopra citati sono in vigore elezioni libere, a differenza dell’isola cubana, dove le consultazioni elettorali si svolgono con un partito unico e sono rigidamente controllate dagli apparati del partito comunista. Sono troppi nel nostro Paese gli intellettuali che soffrono di amnesia e si dimenticano facilmente che Cuba è da mezzo secolo governata da una dittatura, da cui sono fuggiti centinaia di migliaia di profughi, dove le fucilazioni di dissidenti politici sono state diverse migliaia, dove ancora oggi la tortura viene abitualmente utilizzata, dove la pena capitale è in vigore, e in oltre 500 carceri (disumane) si trovano rinchiusi almeno mezzo milione di studenti, donne, intellettuali e contadini accusati o condannati per reati di opinione. Fra questi anche numerosi omosessuali perché il regime non tollera neppure i gay. Fra le opinioni raccolte da l’Unità qualche giorno fa vi era quella del riformista filosofo e sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, secondo cui «l’esperienza cubana ha esaurito la sua spinta progressiva». Ma quando mai, caro Cacciari, Fidel ha rappresentato una “spinta progressiva”? Se si eccettua la primissima fase, seguita alla sconfitta del dittatore Batista, il dittatore Fidel ha finito con l’allinearsi con l’Urss e tutti gli altri regimi comunisti (Cina compresa). E tutto questo non può essere giustificato solo con l’embargo degli Usa. Troppi intellet-
Troppi intellettuali fingono di non accorgersi che l’isola vive in una povertà generalizzata, senza libertà. Ma la speranza, adesso, è viva tuali fingono di non accorgersi che la popolazione dell’isola vive in una povertà generalizzata, senza libertà di stampa, senza libertà politica e di organizzazione sindacale. Anche Mario Capanna, il noto leader sessantottino, afferma che a Cuba certo «non
La grande speranza è rappresentata dall’apertura verso l’esterno e dall’avvio del pluralismo politico, se non di modello occidentale, almeno simile a quello argentino o brasiliano. Bisognerà vedere se Raul e gli altri uomini al vertice del potere a l’Avana (fra cui Lage,vice presidente e Perez Roque, ministro degli Esteri e per 14 anni segretario personale di Fidel) riusciranno a convincere Washington ad attenuare l’embargo in vigore da alcuni decenni. Ma sicuramente la vera svolta avverrà subito dopo le elezioni americane. Il tentativo di riavviare un difficile dialogo potrà avvenire infatti solo col nuovo presidente Usa. Per il momento accontentiamoci dei primi segnali di apertura, come la liberazione di 7 dei 75 dissidenti arrestati nel marzo 2003 e l’annuncio del governo de l’Avana di voler ratificare due convenzioni sui diritti umani delle Nazioni Unite. Giustamente, Amnesty International, ha chiesto formalmente alla nuova dirigenza cubana «che le riforme debbano iniziare con il rilascio incondizionato di tutti i prigionieri di coscienza, la revisione delle sentenze emesse dopo processi iniqui, l’abolizione della pena di morte e l’introduzione di misure che garantiscano il rispetto delle libertà fondamentali e l’indipendenza della magistratura». Vedremo, dunque, se il presidente Raul troverà il coraggio di dare segnali più convincenti sulla strada della democrazia. Appare ormai certo che, privato della figura carismatica di Fidel, il regime non potrà limitarsi a semplici operazioni di cosmesi politica per mantenere ancora a lungo il potere.
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mondo Il premier spagnolo abbandona la “via del dialogo” con i terroristi baschi
BARCELLONA. Se nel valutare l’azione del governo spagnolo in materia di terrorismo si prendesse in esame soltanto l’ultima parte della legislatura, l’impressione sarebbe quella di un esecutivo implacabile nella lotta contro Eta e la sua intelaiatura di connivenze all’interno della società basca. Il mese di febbraio è stato specialmente significativo in questo senso, grazie alla seconda grande operazione effettuata nel giro di pochi mesi contro la cupola di Batasuna - 14 esponenti di primo piano del movimento pro-etarra detenuti per ordine del giudice Garzón - e allo smantellamento del commando autore degli attentati del dicembre 2006 all’aeroporto madrileño di Barajas, ottenuto grazie alla collaborazione della polizia francese. Contemporaneamente il procuratore generale dello stato - che dipende direttamente dal governo - ha avviato le procedure per l’esclusione dalle prossime elezioni generali del 9 marzo delle formazioni politiche dell’estremismo basco, Acción Nacionalista Vasca (Anv) e Partido Comunista de las Tierras Vascas (Pctv), il cui processo di illegalizzazione è ora al vaglio del Tribunale Supremo e le cui attività sono state sospese in via cautelare. Risulta difficile credere che sia in carica lo stesso esecutivo che nei due anni precedenti aveva promosso e mantenuto un intenso negoziato con la banda terrorista nella convinzione che solo la “via del dialogo” avrebbe potuto porre fine a quello che dalla Moncloa e dagli ambienti della izquierda abertzale (la sinistra nazionalista) si continua a definire “il conflitto basco”. Ufficialmente il processo inizia nel marzo 2006 quando Eta dichiara un “cessate-il-fuoco permanente”con un comunicato inviato alla televisione pubblica. In realtà i contatti tra rappresentanti del Partito Socialista e terroristi cominciano molto prima di quella data, addirittura quando la sinistra si trova ancora all’opposizione e durante la piena vigenza del Patto Antiterrorista firmato da Zapatero e Aznar nel dicembre del 2000. L’obiettivo di quell’accordo, voluto proprio dall’attuale premier, era quello di fomentare l’unità tra i due principali partiti nazionali nella lotta contro il terrorismo. Anche se il governo ha sempre negato quegli incontri, è un dato di fatto
Eta: il pugno duro di Zapatero è solo elettorale di Enzo Reale
che l’annuncio di Eta giunge preceduto da una serie di riunioni preparatorie che culminano da un lato nell’autorizzazione formale alla trattativa concessa dal parlamento spagnolo un anno prima del cessate-ilfuoco e dall’altro nelle tre lettere che Eta fa pervenire alla Moncloa per definire i termini del patto: nel rispondere sottoscrivendo un testo nel quale si impegna a «rispettare le deci-
nome della ricerca di una soluzione politica. Quando nel giugno 2006 il giudice GrandeMarlaska, all’epoca sostituto di Garzón alla Audiencia Nacional, ordina la detenzione di uno degli storici fondatori della banda, Julen Madariaga, dal ministero dell’interno si levano inmediatamente voci critiche sull’opportunità dell’operazione: «non aiuta il dialogo», fanno sapere alti responsabili della sicurezza. Eppure i segnali che Eta, nonostante la tregua formale, non ha cessato le sua
tagli di nuovi piani di azione. Sul fronte politico interno intanto il governo deve fare i conti con l’opposizione frontale del Partito Popolare e dell’Associazione Vittime del Terrorismo (Avt) che considerano la trattativa nient’altro che la resa delle istituzioni di fronte al terrore. Si succedono multitudinarie manifestazioni di piazza che chiedono la fine delle concessioni, il ritorno all’azione poliziale e penale e l’illegalizzazione di Anv e Pctv, considerate nient’altro che co-
Operazioni contro Batasuna, esclusione dal voto dei partiti estremisti: eppure si tratta dello stesso governo che nei due anni precedenti aveva promosso e condotto il negoziato (fallito) con una banda di assassini sioni dei cittadini baschi» in cambio di una tregua di cui ha tremendamente bisogno, il governo finisce per riconoscere Eta come interlocutore politico legittimato a negoziare in nome e per conto del popolo basco e per accostare le posizioni di stato e organizzazione terrorista come soggetti paritari nella trattativa. Da quel momento la Spagna entra in una fase di sospensione sostanziale della legalità in
attività sono piuttosto chiari a volerli interpretare correttamente: un furto di trecento pistole in Francia comincia a far traballare le sicurezze di Zapatero sulla effettività del cessate-il fuoco ma resta senza conseguenze; nel frattempo imprenditori baschi denunciano alla polizia che le lettere di estorsione di Eta continuano ad essere recapitate ai loro indirizzi; si scoprono nascondigli nel sud della Francia con i det-
perture di Batasuna. Ma la risposta dell’esecutivo è contundente e, mentre il presidente del governo si spende in elogi per il leader del braccio politico di Eta- Arnado Otegi «è un uomo di pace» dichiara Zapatero -, la destra parlamentare viene accusata di voler sabotare il processo in corso. Poi all’improvviso il brusco risveglio. L’esplosione del 30 dicembre 2006 al terminale 4 dell’aeroporto di Madrid lascia sul
terreno due vittime ecuadoriane e sorprende Zapatero in pieno ottimismo da bilancio di fine anno: «In materia di lotta al terrorismo stiamo meglio dell’anno scorso e peggio del prossimo», annuncia in conferenza stampa poche ore prima dell’attentato. Anche se nei giorni successivi il ministro dell’interno Rubalcaba si incarica di dare per “liquidato” il processo, i contatti informali proseguono lo stesso - nonostante le smentite ufficiali - fino alla definitiva rottura del cessate-il-fuoco, comunicata da Eta all’inizio di giugno.
A questo punto l’orizzonte politico della Moncloa si capovolge e il governo comincia a mettere in pratica tutte quelle misure che aveva considerato controproducenti fino a poco prima. La cronologia è significativa: a quarantotto ore dalla fine della tregua Otegi,“l’uomo di pace”, entra in carcere per apologia del terrorismo; all’inizio di ottobre, dopo diverse operazioni in territorio francese, Garzón ordina la prima delle due grandi retate contro i vertici di Batasuna, decapitando il movimento; a gennaio il governo avvia l’iter di illegalizzazione di Anv e Pctv sulla base di nuove prove che vincolerebbero inequivocabilmente le due formazioni politiche alla stessa Batasuna: messaggi, conti comuni, fatture che finalmente fanno la loro comparsa a un mese dalle elezioni. Una tempistica sospetta la cui attendibilità è smentita da un recente documento consegnato a Garzón da investigatori della polizia nazionale, nel quale si riconosce che gli organi di sicurezza dello stato erano in possesso di riscontri oggettivi che dimostravano il vincolo tra i gruppi dell’estremismo basco addirittura prima delle elezioni autonomiche del 2005 (in cui il Pctv conquistò nove rappresentanti in parlamento) e delle municipali del 2007 (437 assessori di Anv nei comuni dei Paesi Baschi e della Navarra). Ma in quel momento l’ordine era di non agire. «Non chiederò scusa per aver tentato il cammino della pace», ha ribadito Zapatero nel corso di un meeting di campagna elettorale sabato scorso. E’ un dato di fatto però che sul dialogo con i terroristi il premier ha scommesso tutta la propria credibilità e ha fallito senza attenuanti, creando e coltivando un abbaglio collettivo e dimostrando che le istituzioni possono essere ricattate e manipolate a piacimento da un gruppo di assassini. Se non le scuse, qualche spiegazione sarebbe forse opportuna.
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Onu, occupazione come apartheid Il terrorismo palestinese è una «conseguenza inevitabile”»dell’occupazione israeliana. La conclusione, destinata a far discutere, è contenuta nel rapporto commissionato dallo Human rights Council delle Nazioni Unite al sudafricano John Dugard. L’avvocato, divenuto famoso per le campagne contro l’apartheid, avanza anche un paragone tra le discriminazioni operate da Israele e il periodo della segregazione razziale in Sudafrica.
Kosovo, no a divisioni Non si metta in questione l’integrità territoriale del Kosovo. Lo ha detto il premier del neoproclamato stato del Kosovo, Hashim Thaci, ammonendo la Serbia «di smetterla con l’idea di controllare una parte del territorio».
Cameron ridiscute l’aborto
Erdogan non cerca la guerra, ma limita il campo d’azione dei guerriglieri
Terra bruciata intorno al Pkk di Stranamore opo una serie di operazioni di “assaggio” i generali turchi hanno deciso di alzare il livello delle loro operazioni contro le milizie del Pkk e i caposaldi in territorio iracheno. Per la prima volta da quando il parlamento turco ha dato carta bianca ai militari, lo scorso ottobre, si è trattato di una incursione in forze, che ha visto l’impiego di due brigate e unità indipendenti, supportate da artiglieria, elicotteri e aerei da combattimento. In tutto almeno 10 mila uomini, che si sono spinti in profondità, ingaggiando in alcuni casi furiosi scontri con i guerriglieri, i quali sono anche riusciti ad abbattere un elicottero. Non si tratta però di una prova generale di invasione: Tayyip Erdogan, il primo ministro di Ankara, ha onorato la sua cambiale con i militari, che da tempo scalpitavano per braccare gli uomini del Pkk oltreconfine, ma al contempo ha provveduto a tranquillizzare chi di dovere. Washington è stata informata in anteprima e non poteva essere altrimenti, visto che buona parte dell’intelligence che consente alle forze turche di colpire con successo arriva proprio dall’alleato, ma il presidente turco Abdullah Gul ha provveduto anche ad informare e illustrare lo scopo dell’imminente offensiva al suo omologo iracheno, Jalal Talabani. Questo spiega perché le reazioni internazionali sono state improntate alla moderazione: c’è la consapevolezza che presto i soldati turchi rien-
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Iraq e Usa sapevano degli attacchi: per questo le reazioni internazionali all’incursione della Turchia sono state moderate treranno nelle proprie basi. La Turchia per ora non ha nessuna intenzione di impelagarsi in un’occupazione protratta nel tempo di fasce di territorio iracheno, né programma la tanto temuta discesa verso i pozzi petroliferi di Mosul. Al di là delle conseguenze politiche, tecnicamente un’operazione del genere richiederebbe l’impiego di decine di migliaia di soldati, la creazione di un regime di occupazione e la esposizione ad una perenne e feroce guerriglia. Anzi, per qualche mese la Turchia ha sperato che a “risolvere” il problema Pkk in Iraq fossero gli “amici” statunitensi e/o il governo iracheno. Ma i soldati americani in Iraq hanno altro a cui pensare, mentre le forze militari e di sicurezza irachene non sono in grado di aprire un nuovo fronte a nord. Ammesso che ci fosse la volontà politica di compiere questo passo. Visto che l’opzione più comoda non era praticabile, sono iniziate le incursioni oltre confine, i bombardamenti di artiglieria e gli attacchi aerei. Intendiamoci. Le truppe speciali turche operano regolarmente oltreconfine da anni, ma da ottobre a
questi smilzi team si sono affiancati reparti più consistenti, a livello battaglione, con operazioni più intense e investendo obiettivi di una certa importanza. Ora si è arrivati ad una incursione a livello divisionale, che peraltro fa perdere all’attaccante ogni speranza di colpire di sorpresa, visto che i movimenti di uomini e mezzi e la preparazione dell’attacco sono stati segnalati per tempo ai comandanti del Pkk, ma in compenso permette di “tonificare” una zona più ampia, più in profondità e di sostenere lo sforzo più a lungo. Ricorrendo in misura più massiccia alla forza contro il Pkk, che peraltro negli ultimi tempi non ha condotto attentati o attacchi di rilievo, Ankara manda segnali politici e strategici, mentre sul piano militare cerca di ampliare la zona in cui il Pkk non può sperare di trovare rifugio o operare impunemente. Ma come ha sottolineato il Segretario Usa alla Difesa Robert Gates, la Turchia si rende conto che non c’è una soluzione militare al problema rappresentato dalla guerriglia del Pkk, le maniere forti vanno applicate congiuntamente a un percorso politico volto a risolvere in modo soddisfacente le esigenze della minoranza curda in Turchia (e non solo), nonché ad iniziative economiche che consentano di migliorare le condizioni di vita di centinaia di migliaia di curdi. Una lezione che gli Stati Uniti hanno imparato recentemente a proprie spese in Iraq come in Afghanistan.
Il leader conservatore britannico, David Cameron, ha proposto di ridurre il limite legale (di 24 settimane) stabilito per l’aborto, ritenuto «non più accettabile» perché le nuove tecnologie mediche consentono ad alcuni feti di quell’età di sopravvivere anche al di fuori dell’utero.
Germania, post elezioni Assia La soluzione approntata dal presidente dell’Spd, Kurt Beck, per garantire un futuro ”in rosso” all’Assia, non avrebbe potuto essere più cerchiobottista: da un lato il partito conferma la sostanziale ”distanza” dalla Sinistra; dall’altro, dando carta bianca alla candidata Andrea Ypsilanti, Beck apre di fatto uno spiraglio alla possibilità che una coalizione rosso-rossa passi alla guida della ricca regione del Nord-Ovest.
McCain avanti tutta ll candidato repubblicano alla Casa Bianca John McCain ha detto ieri che, per vincere le elezioni presidenziali, deve riuscire a convincere gli statunitensi che l’ampliamento del contingente Usa in Iraq sta funzionando e che il numero delle vittime tra i militari a stelle e strisce continuerà a diminuire. I governatori Democratici degli Stati Usa che potrebbero decidere le presidenziali 2008 vedono in John McCain un avversario formidabile, con una reputazione di indipendenza politica in grado di mettere in seria difficoltà il candidato democratico, chiunque esso sia.
Libano, nulla di fatto Rinviata per la 15esima volta la sessione del Parlamento libanese durante la quale si doveva eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Fallita la missione mediatrice del segretario generale della Lega Araba, Amr Moussa. Il presidente egiziano, Hosni Mubarak, a sua volta, ha accusato senza mezzi termini la Siria di essere responsabile della crisi politica libanese e l’ha invitata a risolvere questo grave problema al fine di garantire il successo del prossimo vertice arabo previsto a fine marzo a Damasco. Nonostante il monito di Mubarak, si sta profilando comunque la minaccia di un boicottaggio del vertice da parte dell’Egitto e dei paesi del Golfo Persico.
Consiglio di Sicurezza contro Teheran I cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania, hanno discusso a Washington una bozza di risoluzione che prevede l’inasprimento delle sanzioni internazionali contro l’Iran, che si ostina a rifiutare la richiesta di mettere fine all’arricchimento dell’uranio e di rispettare le precedenti decisioni internazionali al riguardo. Teheran, a sua volta, ha reagito a queste notizie sollecitando il Consiglio di sicurezza ad astenersi dall’interferire nel suo programma nucleare e a lasciare la questione nelle mani dell’Agenzia per il controllo dell’energia atomica (Aiea).
Kenya, stop ai colloqui L’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, che sta mediando a nome della comunità internazionale in Kenya, ha deciso di sospendere i nogoziati per discutere direttamente con i leader, il presidente Mwai Kibaki (la cui contestata elezione ha scatenato le violenze) e il leader dell’opposizione Raila Odinga. «È importante che gli stessi leader si assumano la responsabilità. Qui non si tratta della sorte di partiti politici o individui ma dell’intera regione». Finora in Kenya, dalla fine dell’anno, ci sono stati almeno 1.500 morti e 600 mila sfollati.
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speciale esteri
Occidente
LA MALED di Enrico Singer era un sole accecante e una folla impazzita quella mattina del 21 agosto 1991 davanti alla “Casa Bianca”di Mosca, il palazzo della Repubblica russa dell’Urss. Boris Eltsin, in piedi sulla torretta di un carro armato, urlava ai soldati spediti in piazza dagli ultimi golpisti rossi di deporre le armi. Era il primo atto di un processo che avrebbe dovuto cambiare la Russia e il mondo. In questi sedici anni e mezzo il mondo è cambiato davvero: pezzi importanti dell’ex impero sovietico - dai Paesi baltici alla Polonia, dalla Bulgaria alla Romania - fanno ormai parte della famiglia allargata dell’Unione europea. E attenzione: il loro approdo non è soltanto l’effetto di un prevedibile cambio di schieramento. Il “bollino di qualità” che la Ue ha riconosciuto ai nuovi Stati membri - nel gergo europeo si chiama “verifica dell’adesione ai principi di Copenhagen” - significa che il rispetto delle regole della democrazia, politica ed economica, la
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denziali del 2 marzo, l’elenco di questi segnali è ormai lungo ed è attraversato da una comune linea che tiene insieme tutto. Dai lampi di guerra fredda, con la denuncia dell’accordo Start sui missili nucleari e con la decisione di far riprendere i voli ai bombardieri strategici, fino alla guerra del petrolio e del gas combattuta da Gazprom per conto del Cremlino.
Dai misteriosi omicidi di oppositori (come la giornalista Anna Politkovskaya assassinata a Mosca) e di ex spie (come Aleksandr Litvinenko ucciso col polonio a Londra), all’epurazione tra gli oligarchi che erano cresciuti all’ombra di Eltsin e che, ora, il nuovo zar Putin sta sostituendo con i suoi fedelissimi per controllare direttamente l’economia. Fino alle rinnovate tensioni con gli ex Paesi satelliti - dalla Georgia all’Ucraina che Mosca non vuole lasciare al campo di attrazione della Nato. A dimostrazione che, nel già copioso fascicolo delle occasioni mancate, c’è anche quell’accor-
La preoccupazione di Putin è quella di trovare il modo per rinnovare il suo potere salvaguardia dei diritti umani e di quelli politici, anche l’abolizione della pena di morte dal proprio ordinamento giudiziario, sono delle realtà ormai acquisite. Altrettanto non si può dire per la Russia.
Così, proprio il Paese dove tutto era cominciato quel 21 agosto, paradossalmente, è quello che è rimasto più indietro nella marcia verso l’integrazione nel nuovo ordine seguito al crollo del regime comunista. Anzi, è quello in cui si moltiplicano segnali allarmanti di un ritorno indietro. Certo, non alle bandiere rosse con la falce e martello, ma ai metodi e alla sostanza di un potere assoluto che è assai lontano dai principi della democrazia, all’interno, e che, all’esterno, punta a recuperare per la Russia lo status di superpotenza contrapposta agli Stati Uniti e all’Europa. Alla vigilia delle elezioni presi-
do di cooperazione Russia-Nato che fu firmato a Pratica di Mare il 28 maggio del 2002 e che fu presentato allora, con una buona dose d’ingenuità, come l’ingresso di Mosca nell’Alleanza Atlantica che Vladimir Putin, invece, continua a considerare la punta di lancia del nemico che vuole assediarlo e strangolarlo in una logica dei blocchi che molti credevano ormai superata. Allora? C’è da concludere che la Russia non ha fatto alcun passo avanti sul terreno della democrazia interna e che sta addirittura tornando indietro in politica internazionale? Le circostanze non lasciano grande spazio all’ottimismo. Ma devono anche essere interpretate correttamente. Perché c’è una anomalia russa che non va mai dimenticata. È una specie di maledizione che un’osservatrice acuta di questo sterminato mondo, allora sovietico, come
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DIZIONE DEL CREMLINO
Boris Eltsin su un carro armato il 21 agosto 1991 durante il fallito golpe comunista A lato la giornalista Anna Politkovskaya, in basso l’ex spia Aleksandr Litvinenko, entrambi uccisi
Hélène Carrere D’Encausse ha definito le malheur russe: mille anni di storia contrassegnata più dai delitti politici, dalle stragi, le deportazioni e le trame di palazzo che con gli strumenti della democrazia. In realtà dalla Russia di Kiev (la prima forma di Stato nacque proprio nell’attuale capitale dell’Ucraina) al principato di Mosca, dal regno di Ivan il Terribile a Pietro il Grande, dalla rivoluzione d’ottobre allo stalinismo, dalla stagnazione brezneviana al crollo dell’Urss, i russi sono sempre passati da una forma di dittatura a un’altra senza mai attraversare una fase di vita democratica alla quale “fare ritorno”, come è avvenuto per gli altri Paesi dell’ex impero sovietico: quelli che sono già entrati nell’Unione europea e quelli che vorrebbero farlo al più presto.
Lo storico americano di origine russa, Nicholas Riasanovsky, che insegna all’Università di Berkeley, in California, ha scritto una monumentale storia della Russia - poi completata da Sergio Romano con tre nuovi capitoli - che bene spiega il deficit intrinseco di democrazia di un Paese dove la rottura dell’anello dell’assolutismo, zarista prima, comunista poi, è avvenuta soltanto sedici anni e mezzo fa. E non è ancora compiuta. Anzi, dopo l’uscita di scena di Boris Eltsin, ha imboccato una strada che sembra riportarla indietro. Al punto che il
Se la democrazia russa si misurasse a punti, da 1 a 100, oggi saremmo a 35 di riformatore tentativo Mikhail Gorbaciov appare adesso in una luce diversa: se l’ipotesi di democratizzare il sistema comunista era, e rimane, un’illusione e un fallimento storico, è pur vero che la stagione gorbacioviana ha rappresentato la più forte rottura con il passato mei avvenuta in Russia. Oggi, invece, la maggiore preoccupazione di Vladimir Putin è quella di trovare il modo per rinnovare il suo potere anche oltre le elezioni presidenziali della prossima settimana, scadenza del suo secondo (e, in base alla Costituzione, ultimo) mandato. Anche ripercorrendo il metodo squisitamente sovietico che, al di là delle cariche nominali, assicurava le redini dello Stato attraverso il controllo dell’esercito, dei servizi segreti, dell’economia, dell’informazione e del partito. Con l’affermazione di “Russia unita” alle elezioni politiche dello scorso ottobre, Vladimir Putin ha completato anche l’ultimo anello – quello del partito, appunto – che ancora mancava alla sua catena di comando. A questo punto non resta che realizzare il passaggio dei poteri
di Presidente al suo delfino designato Dmitrij Medvedev, ex capo del suo staff ed ex patron di Gazprom, che è destinato a una sicura vittoria. Il loro rapporto, secondo gli osservatori russi, non è un mistero: Medvedev è pronto a governare in suo nome. E, magari, a farsi da parte al momento giusto per aprire la strada a un ritorno anche formale di Putin al Cremino. Se la democrazia in Russia si potesse misurare a punti, fatto cento il massimo, si potrebbe dire che oggi siamo forse a quota 35. Ma per giudicare quanto questo risultato sia deludente o incoraggiante, non bisogna mai dimenticare che è stato ottenuto dal 1991 a oggi partendo con un handicap di oltre mille anni. E che il risultato finale non dipenderà soltanto da zar Putin e dai suoi sudditi: un compito decisivo per far avanzare davvero la democrazia spetta all’Occidente. Quanto più l’Europa e gli Stati Uniti - e le leggi dell’economia mondiale - saranno capaci di integrarla, tanto più la Russia non potrà fare a meno di accelerare il suo cammino. O, almeno, di non tornare ancora indietro.
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speciale esteri ndrei Illarianov è una voce durissima contro il potere di Putin. Ed è una voce che parla con cognizione di causa, avendo ricoperto per cinque anni il ruolo di consigliere capo per l’economia del presidente russo. Nel 2005 si è dimesso dall’incarico protestando contro l’assoluta mancanza di trasparenza e democrazia in seno al governo. Oggi è senior fellow al Cato Institue di Washington, sostiene la dissidenza russa e chiede all’Occidente di alzare i toni verso il Cremlino. Con questa intervista comincia la sua collaborazione con liberal. Illarianov, esiste il putinismo? E se si, quali sono le sue caratteristiche? Esiste. Ed è un mix di nazionalismo e aggressività rivolta, in prima battuta, contro il popolo russo e in seconda contro altri Paesi. Mix vuol dire molte cose… Diciamo che non è da valutare secondo un diapason europeo, ma ha un timbro molto, molto più alto. Meno di una settimana al voto. Putin non si presenterà. La sua dipartita dal Cremlino porrà fine al putinismo? No. Stiamo parlando di un atteggiamento sia politico che filosofico. Un governo che lavora contro il suo popolo, i suoi vicini e altri Paesi nel mondo non può essere attribuito ad una sola persona. È un progetto ideologico di un gruppo di persone, di una corporazione, di un’organizzazione che esiste ed è radicata nel Paese da lungo tempo, quasi un secolo. Corporativismo, ovvero? Oggi il Paese, lo Stato e le persone sono guidate da una particolare corporazione composta da alcuni membri della polizia segreta che esiste - esattamente in questa forma - da almeno 90 anni e governa il potere politico, economico, finanziario e dei media. Sta dicendo che c’è un ritorno alla nomenklatura comunista? È un po’ diverso. È una nomenclatura, ma non comunista; è del Kgb: dei livelli più alti. Queste persone sono molto felici che esista un’economia democratica e un mercato globalizzato dal quale trarre, innanzitutto, profitti altissimi per se stessi. La loro azione non si fer-
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Occidente
Parla l’ex consigliere economico di Putin e invita l’Occidente ad agire
Sono tutti burattini in mano al Kgb Colloquio con Andrei Illarionov di Stephen Sakur
plauso dei governi e dei media occidentali. Nessuno mi avrebbe mai rivolto, in quegli anni, domande come quelle che mi sta ponendo oggi. Semplicemente perché nessuno intravedeva quello che poi si è palesato. Ho partecipato a quelle riforme e ne sono orgoglioso. Lei ha criticato l’Occidente e i Paesi del G7 accusandoli di non aver posto ostacoli alla deriva autoritaria. Cosa avrebbero dovuto fare? I leader del G7 non sollevarono
È un progetto ideologico di una corporazione che esiste ed è radicata nel Paese
Una vecchia immagine che raffigura una parata militare nella Piazza Rossa ma davanti a nulla, nemmeno a delle guerre. E verso di loro non si possono tenere comportamenti standard. Però Medvedev, l’uomo indicato alla successione di Putin, non proviene dalle file del Kgb, ha un’altra storia… È sbagliato credere che un presidente eletto in Russia possa cambiare la storia, la struttura e la politica del governo. Abbiamo molti esempi che lo testimoniano: Stalin è stato per alcuni anni capo del gabinetto dei ministri, ma alla presidenza c’era Kalinin. Dimenticato. E
Un governo che lavora contro il suo popolo non è opera di una persona sola
qualcuno forse si ricorda di Shvernik o Podgornij? Parlando di potere: lei conosce Vladimir Putin benissimo avendo servito nel suo gabinetto dal 2000 al 2005. Medvedev sarà un suo burrattino? Le ho appena risposto: in Russia non conta una sola persona, ma la corporazione, composta almeno da mezzo milione di membri. Tutto ruota attorno a loro e tutte le fila le tengono loro. Hanno un fortissimo senso della disciplina e condividono scopi e progetti per il Paese ed il resto del mondo. Loro detengono il potere. Lei ha servito questa corporazione per 5 anni come consigliere economico di Putin. No. Non ho servito la corporazione, ho servito il mio Paese. Ho lavorato con Putin quando ancora non era affatto chiara
questa commistione fra lui e la corporazione. Nel momento in cui ho compreso che era vigente, ho rassegnato le mie dimissioni. Non teme per la sua vita? È anche ritornato in Russia. Ho partecipato alle marce dell’opposizione e dei dissidenti sia a Mosca che a San Pietroburgo. Siamo stati tutti percossi. Dal 2000 al 2005 lei è stato considerato dai governi occidentali l’interlocutore principe per capire le azioni di Putin. E le sosteneva. Rimpianti? Per essere corretti dovremmo dividere questo periodo in due fasi: la prima va dal 2000 al 2002 e l’altra dal 2003 al 2005. Sono due storie molto diverse. Nella prima Putin e la sua amministrazione hanno attivato riforme economiche, fiscali e di spesa. Azioni che trovavano il
alcuna domanda ai vertici del 2003-2004 e nemmeno dopo. Eclatante l’esempio del vertice 2006 a San Pietroburgo, dove nessuno - ed erano tutti presenti - disse nulla sui diritti umani, sullo stato della democrazia, sulla protezione delle proprietà private delle imprese occidentali presenti in Russia. Silenzio. Che differenza avrebbe fatto? La Gran Bretagna sta mandando un messaggio abbastanza duro a Putin. Ma non sembra avere alcun peso. Abbiamo una diversa percezione della realtà. E comunque si tratta della risposta di un solo Paese, non del G7 e nemmeno dell’Occidente. E inoltre siamo già nel 2008. Se la Gran Bretagna avesse fatto sentire la sua voce nel 1938 agli Accordi di Monaco forse le cose sarebbero state diverse. Invece ha assunto posizioni più dure solo nel 1941. Allo stesso modo, la Gran Bretagna fino a ieri non ha mai detto nulla. Con questo non voglio dire che sia troppo tardi, ma è chiaro che prima di vedere qualche risultato ci vorrà del tempo. E detto questo, non credo che le autorità britanniche siano impegnate in una guerra con la Russia. Una guerra diplomatica è in corso. Resta il fatto che l’Europa in meno di dieci anni acquisterà il 50 per cento del gas e parte del petrolio russo. Senza contare gli investimenti che sta facendo lì. Esatto, niente di diverso dagli anni Trenta, quando Gran Bretagna e Usa facevano affari con la Germania. Eppure la gente in Russia Putin lo sostiene. E vive meglio di prima. Anche la Germania nazista garantiva la piena occupazione. Non dimentichiamolo.
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Ritratto di Dmitrij Medvedev, 42 anni, che dal 2 marzo sarà il nuovo inquilino del Cremlino
Un presidente all’ombra dello Zar di Olga Sokolova ho is Mister Putin? La domanda, alla quale otto anni fa, all’inizio dell’era di zar Vladimir, quattro ministri russi invitati a una conferenza internazionale risposero con un imbarazzato silenzio, non ha ancora trovato una risposta convincente. Ma dal 2 marzo la nuova domanda russa sarà Who is Mister Medvedev? Le elezioni presidenziali di domenica hanno un esito scontato, l’“erede” del Cremlino è stato designato il 10 dicembre scorso e l’interesse si concentra non su chi vincerà nelle urne, ma sull’identikit dell’uomo al quale tra pochi giorni, anzi, ore, verrà affidato il Paese più grande del mondo, proprietario di un arsenale nucleare immenso, di infinite risorse energetiche, di un seggio permanente all’Onu e di un’anima irrequieta di chi non ha ancora trovato il suo posto nel mondo.
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Chi è il piccolo ed elegante giovane, appena 42enne, che diventerà uno degli uomini più potenti del mondo? I commentatori occidentali e gli intellettuali russi, l’hanno già catalogato come “liberale”. In effetti, rispetto agli standard a cui ci ha abituati Putin e molti della sua corte, Dmitrij Medvedev appare come il minore dei mali. È giovane, e non è mai stato comunista. Viene da una famiglia di intellettuali pietroburghesi, un ambiente che negli anni 70-80 era permeato di scetticismo verso il sistema sovietico, una fronda più o meno silenziosa dove l’alternativa di solito veniva cercata in un Occidente ancora nascosto dietro la cortina di ferro. Si è laureato in giurisprudenza in una delle università migliori. Non è un falco del Kgb, e il suo discorso politico finora si è concentrato su argomenti economici e sociali, con particolare attenzione all’incremento della qualità della vita de russi, scuole, abitazioni, sanità, strade. Nell’amministrazione di Putin - di cui è stato braccio destro da 17 anni, dai tempi di Pietroburgo - ha fatto da contrappeso ai “siloviki”più reazionari. E nel corso della campagna elettorale - che difficilmente si può chiamare tale, visto che i media non presentano Medvedev in un contesto di concorrenza con gli altri tre contendenti, ma come “delfino” del presidente - si è permesso di dire parole che la retorica putiniana ultimamente non prevedeva: «La libertà è meglio della non libertà». Una frase che gli ha conquistato se non l’entusiasmo, almeno la speranza di molti russi e anche degli osservatori occidentali. Sono state ascoltate con attenzione le sue proposte di riforme, improntate a una riduzione del peso dello Stato: riduzione dell’onere fiscale, deburocratizzazione, sistema giudiziario indipendente e stampa libera, strumenti necessari a combattere la corruzione. Si è mostrato - sfoderando anche un decente inglese - non ostile all’Occi-
Il futuro presidente russo Dmitrij Medvedev dente, promettendo che la sua Russia vivrà in pace e cooperazione col resto del mondo. «Almeno non promette di puntare i missili sull’Ucraina», sospira una giornalista moscovita che con matita in mano ha scandagliato le ultime esternazioni di Medvedev e di Putin per trarne l’auscpicio che il primo sarà meglio del secondo.
Il sogno del terzo disgelo portato dal terzo presidente russo viene però spezzato dalle poche voci scettiche che ancora si possono esprimere: «Attenzione», avverte Masha Lipman, «anche Putin ha promesso tribunali indipendenti, stampa libera e società civile». È stato Putin a definire il sistema che avrebbe voluto costruire «una società libera di uomini liberi». E se i primi due disgeli, quello di Krusciov e quello di Gorbaciov, si accompagnavano a crisi sistemiche e a un’economia che non reggeva più il peso della dittatura, «sotto i piedi di Medvedev la terra non scotta». Gazprom della quale peraltro è stato presidente pompa dollari nelle casse del Cremlino e il grado di criticismo dei russi non è mai stato così basso. E se Medvedev non ha ancora agitato il pugno verso l’Occiden-
Gli indesiderati sono stati esclusi dalle elezioni
te, è solo perché per ora Putin sottolinea il suo monopolio sulle questioni diplomatico-strategiche. Del resto, il futuro presidente ha passato 17 anni a fianco di quello uscente e immaginarsi che nell’anima sia diverso sarebbe quasi utopico: frasi come «tutti sanno che le ong internazionali servono da copertura per i servizi segreti stranieri» sono uscite dalla sua bocca con la stessa facilità con la quale escono da quella di Putin. Ma anche se avvenissel’impossibile, e nell’animo di un uomo che è stato il fedele esecutore delle politiche putiniane si annida un sincero liberalismo, non potrà manifestarlo. Il grado della sua autonomia da Putin, in un sistema dove l’ex zar diventerà primo ministro e tutte le leve del potere - servizi, petrolio, governatori dipendono da lui è ancora da stabilire, visto che la percentuale che Medvedev dovrebbe ricevere alle elezioni è stata oggetto di dibattito al Cremlino. Non più di quanto ha avuto Putin nel 2004 (71 per cento), non meno di quanto ha avuto il suo partito Russia Unita alla Duma (65 per cento), e i “falchi”hanno insistito per un 60 per cento scarso, rendendolo così un leader debole. Ma ormai, dopo che la campagna elettorale è stata improntata tutta sul parallelismo con Putin - che appare sui manifesti con Medvedev e lo slogan “Vinceremo insieme” - i sondaggi gli promettono il 73 per cento, che però dovrà condividere con il suo patrono. La Russia costruita in otto anni da Putin non chiede il disgelo. «Possiamo aspettarci costumi un po’ più soft», auspica Mikhail Fishman del Newsweek
È giovane e non è mai stato comunista Russia, «i gradi della non libertà possono variare. Le istituzioni della libertà smantellate da Putin non risorgeranno, non è in agenda».
Medvedev viene eletto in non elezioni, dove gli indesiderati non arrivano nemmeno a candidarsi, altro che gli intrighi, i finanziamenti illeciti e le tecnologie di “spin nero” dei tempi di Eltsin, che temeva di perdere contro i comunisti negli anni ’90. «Non c’è nemmeno più bisogno di intimidire i russi, sono pronti ad agire in questo contesto senza costrizione», continua Fishman: «Abolire la censura? Ma non c’è domanda di notizie vere e analisi serie. Abolire la pressione sui tribunali? In mancanza di una giustizia vera gli ordini dall’alto verranno sostituiti dalle mazzette. Far tornare il pluralismo? Il sistema politico considera il dibattito segno di crisi e debolezza». E anche l’eventuale svolta nella politica estera dovrà scontrarsi con quel 52 per cento di russi (due anni fa erano il 40 per cento) che ritengono probabile un attacco militare contro la Russia. Anche se avvenisse il miracolo dello zar buono, sogno eterno dell’intellighenzia russa, i suoi desideri si scontrerebbero con una realtà che non vuole cambiamenti climatici.
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speciale esteri
Occidente
Puntare su sanzioni e tentativi di isolamento non serve. La democrazia cresce con l’esempio
L’Europa dialoghi con il Cremlino Colloquio con Victor Zaslavsky di Francesco Maria Cannatà ccorre riconoscere che Putin ha rafforzato il centralismo statale russo e consolidato la politica del Paese. A lungo ho creduto che avrebbe ceduto alle pressioni del suo entourage. È importante che non lo abbia fatto. Per la crescita delle democrazie in transizione il mantenimento delle regole del gioco è fondamentale. Huntington ha dimostrato che proprio in questi momenti serve mantenere legge e ordine. In un giudizio che Putin non condividerebbe, Brezinsky ha scritto che gli ricorda il primo Mussolini. Una persona vicina alla presidenza federale ha detto a Sebag Montefiore che Putin vede nel miscuglio di umanitarismo, riformismo e autocrazia presenti in Potëmkin, nobile, politico e militare russo del ’700, un modello di governo. Un’idea interessante». È così che Victor Zaslavsky, docente di Sociologia politica alla Luiss-Guido Carli di Roma e autore di numerose opere sulla Russia sovietica, descrive il leader del Cremlino. Lo scorso anno Medvedev a Davos e Putin a Monaco hanno tenuto due discorsi differenti. Il primo ha affermato che alla Russia serve una nuova perestroika, Putin ha negato la necessità dell’apertura. Nei prossimi quattro anni i due viaggeranno in direzioni opposte?
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L’attuale responsabile di Gazprom diventa presidente federale. Il capo del governo in carica dirigerà Gazprom. Il presidente uscente sarà il nuovo premier. Si può dire che tutto cambia tranne la sostanza. Il prossimo presidente è un tecnocrate liberale. Medvedev presentando una Russia stabile che si appresta ad entrare nel mercato dei Paesi liberal-capitalisti rassicura gli investitori stranieri. Parla all’Occidente. Putin da capo dello Stato fa la somma dei successi per il pubblico interno. Ma nella futura politica interna russa non vi saranno fratture. Per la prima volta dal 1998 in Russia l’inflazione reale, 12 per cento, è stata superiore a quella programmata, 8,5 per cento. Mosca ritiene che la ricetta ai problemi macroeconomici del Paese sia attrarre capitali esteri. Non occorrerebbe invece r5afforzare il sistema di ricerca e sviluppo legato all’università? Difficile pensare che in Russia non vi sia mano d’opera qualificata. Il sistema dell’istruzione prima sovietico ed ora russo è forte. Gli effetti delle riforme importanti si vedono solo dopo anni, ma i politici vogliono risultati subito. Il vero problema dell’economia è che la ricerca russa era legata al complesso militare industriale. Un settore ora ridimensionato. Molti cervelli sono
libri e riviste
a vittoria di Hamas in quelle elezioni è nata nella colpa. La colpa dei Paesi europei, in qualche misura e anche degli Stati Uniti, che si sono tappati le orecchie, per non sentire gli avvertimenti israeliani», sono le parole di Ehud Gol, già ambasciatore dello Stato d’Israele a Roma, arrivato all’indomani dell’attacco alle torri Gemelle. Franco nelle posizioni che esprime, come nei giudizi che non ha mancato di far conoscere al pubblico italiano con interventi sulla stampa, di cui questo libro è una raccolta. Ha sempre difeso il suo Paese superando il proverbiale timore che ogni diplomatico nutre nei confronti dei media. La sincerità del suo approccio lo ha sempre salvato nelle situazioni più difficili. Difendere l’immagine d’Israele in
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«Putin ha rafforzato il centralismo russo e consolidato lo Stato» andati via. Putin ha rafforzato lo Stato riducendo l’estensione delle istituzioni democratiche e ciò si riflette sullo sviluppo. Per il Cremlino lo Stato va rafforzato in ogni campo. Ma vi sono settori, l’economia soprattutto, che non lo sopportano. Ecco il nodo dello sviluppo russo. Recentemente un editoriale della Frankfurter Allgemeine Zeitung definiva i rapporti tra Russia e Occidente molto freddi…
Europa e in Italia non è facile, perché il pregiudizio ideologico come le partigianerie politiche sono riuscite a coniare un’aporia, come l’essere a favore del popolo ebraico, ma contro lo Stato d’Israele. Gol non ha mai avuto paura di affrontare «la tigre del fanatismo» in Palestina o una stampa aggressiva. In queste pagine lo racconta in alcune delle sue più brillanti analisi, una maniera per onorare i sessant’anni che lo Stato d’Israele festeggia quest’anno. «Una libertà conquistata a un prezzo molto pesante, con la vita di migliaia di giovani». Ehud Gol Da Gerusalemme a Roma Mondadori, pagine 236, euro 19,50
I rapporti cambiano. La Russia è stata ed è un Paese europeo, i suoi contributi letterari e musicali lo dimostrano. Gli ultimi avvenimenti, l’indipendenza del Kosovo riconosciuta da quasi tutta l’Europa, hanno però irritato Mosca. Ora potrebbe esserci una risposta simmetrica. Alla Serbia dimezzata potrebbe corrispondere la Georgia amputata. Se domani Ossezia del sud e Abkhazia chiedessero di far parte della federazione russa, come si direbbe
asse del male di George W. Bush o gli «avamposti della tirannia» di Condoleezza Rice hanno dato la connotazione più conosciuta alla reinterpretazione del“nemico” nel Ventunesimo secolo. Da al Qaeda ai Rogue States Maurizio Stefanini nel libro analizza i leader di questi regimi e movimenti: dall’emiro Mullah Omar allo sceicco Sayed Hassan Nasrallah; dall’ultimo dittatore europeo, Aleksandr Lukashenko, a quello africano, Robert Mugabe, ai leader di Hamas e del regime del Sudan. Fino a chi nell’asse del male s’inserisce di sua spontanea volontà, come il leader venezuelano Hugo Chavez. Uomini del male e conflitti sul punto di riesplodere, sono lo scenario in cui si muove il libro, che siano i tagliatori di mani di Garang o i kamikaze del jihad la costante è unica: in loro è prevalso il lato oscuro dell’essere. Maurizio Stefanini I Nomi del Male Boroli editore, pagine 187, euro 14
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no? Nel caso del Kosovo, evitando la separazione consensuale e puntando su una impazienza incomprensibile, la sensibilità russa è stata trascurata. Malashenko ha dichiarato che l’Ue deve far sentire la Russia un Paese europeo. È d’accordo? Certamente. Come ha scritto Sharansky bisogna osservare la politica estera russa ma anche quanto avviene dentro la federazione. Ma puntare su sanzioni e tentativi di isolamento non servirà. Per le riforme democratiche serve il coinvolgimento. Oggi la cultura politica dominate in Russia è favorevole a Putin. Venerdì è iniziato il summit dei Paesi della Csi. Sulla Vremja il vicepremier georgiano, Baramidze, ha detto che l’ingresso di Tbilisi nella Nato è prossimo. Kagan ha scritto che in caso di tensioni tra Russia e il suo «estero prossimo» l’Ue non saprebbe come reagire. Le pressioni russe possono arrivare fino a un certo punto e l’Europa dispone di mezzi adeguati. Lo stesso argomento era stato usato con i Paesi baltici, ma Mosca ha capito che non poteva superare una determinata soglia. Questa svolta alla fine ha favorito lo sviluppo democratico della Russia. Lo stesso accadrà se Ucraina e Georgia dovessero entrare nella Nato. La Russia non può fare pressioni e non ne farà.
e Gaulle ammoniva che l’antisemitismo non sarebbe stato sconfitto con la caduta del nazismo, per cui la vigilanza avrebbe dovuto essere mantenuta in perpetuo. Sarkozy ha proposto che si studi l’Olocausto nelle scuole e per questo è stato accusato d’imporre un intollerabile carico di colpe ai dei semplici ragazzini. L’articolo del mensile di area conservatrice (nato nel 1967) analizza l’importanza dell’interiorizzazione della storia. Insomma De Gaulle/Sarkò, mutatis mutandi, per la salvezza del popolo ebraico e del futuro della Francia. Roger Kaplan The Best Since De Gaulle The American Spectator 19 February 2008
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a cura di Pierre Chiartano
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
Prima riforma per uno dei settori fondamentali del Paese: liberarsi dal giogo della politica
Cultura del merito nella pubblica amministrazione di Gabriele Mastragostino no dei punti all’ordine del giorno del prossimo governo nazionale, almeno secondo le intenzioni espresse dai due maggiori schieramenti politici, riguarderà la necessità di modernizzare la pubblica amministrazione, attraverso interventi tesi a snellire l’organizzazione, introdurre nuove tecnologie, digitalizzare i processi, ridurre gli sprechi, migliorare l’offerta al cittadino.
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Il raggiungimento di tali obiettivi è ormai imprescindibile per recuperare credibilità e competitività a livello internazionale, ma presuppone che il circuito decisionale politica/amministrazione, fondato sulla distinzione tra attività di indirizzo politico e controllo, riservata agli organi di governo, e attività di gestione, spettante ai dirigenti pubblici, possa funzionare correttamente. Invece, contrariamente a tale impostazione, delineata dal legislatore proprio per promuovere autonomia gestionale, managerialità e responsabilizzazione della dirigenza pubblica, si è progressivamente prodotto un vero e proprio asservimento dell’amministrazione alla sfera politica, tramite una gestione clientelare delle nomine dei dirigenti e una verifica inadeguata delle professionalità e dei risultati dell’attività amministrativa. Nell’intento di controllare maggiormente gli apparati amministrativi, si è consolidata, infatti, la tendenza degli organi di governo a privilegiare, nell’attribuzione degli incarichi di direzione degli uffici, la fiducia politica nei confronti del dirigente, piuttosto che le sue specifiche attitudini, competenze e professionalità. Ciò ha evidentemente aumentato il tasso di politicizzazione della categoria, in quanto, l’affiliazione politica è diventata un elemento imprescindibile per aspirare agli incarichi di maggiore importanza e, di conseguenza, si è prodotto un forte condizionamento dell’attività di gestione, con il rischio sempre maggiore di decisioni “politicizzate”, distanti da logiche manageriali, e perciò inadatte a risolvere i problemi e le complessità della pubblica amministrazione.
La temporaneità dell’incarico (da tre a cinque anni), inoltre, anziché favorire la verifica dei risultati raggiunti rispetto agli obiettivi periodicamente programmati, ha accentuato la dipendenza della carriera dirigenziale dalle decisioni politiche, ponendo la dirigenza in uno stato di “precarietà condizionante”. Peraltro, pur volendo salvaguardare il carattere essenzialmente fiduciario delle nomine apicali, va precisato che la fiducia riposta dagli organi politici in un determinato soggetto deve essere intesa – prendendo in prestito il chiarimento del Consiglio di Stato – «non come affinità di idee personali o politica, o generica compatibilità o simpatia, ma deve consistere nella ricerca di dati obiettivi, con riferimento alla probabilità di svolgimento ottimale di mansioni pubbliche per un periodo di tempo indipendente dalle vicende governative». L’erronea applicazione del criterio fiduciario favorisce l’introduzione di logiche clientelari nelle nomine, portando al rischio di una lottizzazione selvaggia di intere strutture, nelle quali, dunque, ciascun incarico è espressione di questo o di quel partito, di questa o di quella “corrente”, di questo o di quel gruppo di potere. Queste distorsioni stanno peraltro fortemente danneggiando il ruolo e l’immagine della dirigenza pubblica e la sua stessa legittimazione presso i cittadini, con conseguente grave peggioramento dei meccanismi concorrenziali e della qualità delle prestazioni offerte. Purtroppo, lo status quo è difficile da scardinare in quanto gli organi politici, spesso condizionati dalla propria instabilità, e dediti perciò a politiche di “piccolo cabotaggio”, tramite il controllo delle nomine, si assicurano la fedeltà della dirigenza e notevoli incursioni sul terreno gestionale, garantendosi così anche l’immediata soddisfazione di molti interessi di soggetti e gruppi politicamente, sindacalmente o economicamente collegati. Questo sistema di particolari convenienze è purtroppo anche il terreno più fertile su cui possano attecchire varie forme di corruzione.
Le nomine pagano un’erronea applicazione del criterio fiduciario. C’è questo alla base delle logiche clientelari e della crisi imperante
Peraltro, nelle pubbliche amministrazioni, gli strumenti che possano impedire tali distorsioni non funzionano affatto. Non esistono quasi mai graduatorie o “griglie” professionali e attitudinali oggettive e trasparenti.In ogni caso non sono previsti criteri di valutazione comparativa tra i diversi dirigenti in relazione al posto da ricoprire. In molti casi non sono neanche individuati percorsi attitudinali e professionali che distinguano i dirigenti sulla base delle diverse esperienze e delle diverse abilità.
Per impedire forme di cooptazione dei dirigenti, è invece quantomeno necessaria, in ogni pubblica amministrazione, l’adozione di specifici criteri preventivi da applicare nell’attribuzione di tutti gli incarichi – criteri che possano consentire una oggettiva e trasparente differenziazione tra le attitudini, le capacità e le professionalità dei dirigenti appartenenti al medesimo ruolo. Resta ovviamente imprescindibile l’esigenza di realizzare una seria ed effettiva verifica dei risultati dell’attività dirigenziale. Anche in tal caso, invece, i sistemi di programmazione e controllo, adottati dalle pubbliche amministrazioni, pur analoghi al settore privato, non riescono a costituire un adeguato parametro di valutazione, in quanto, di frequente, sono gli stessi obiettivi a non essere corrispondenti a reali esigenze amministrative o non essere sufficientemente specificati e quantificati. In altri casi, l’eventuale mancato raggiungimento dei risultati è riconducibile alla mancanza di risorse, a inefficienze del sistema o alla “complessità ambientale”, e non a insuffi-
cienze professionali. Infine, gli stessi uffici deputati al controllo interno, istituiti per legge in ogni Amministrazione, non sono dotati di sufficiente autonomia per poter formulare giudizi imparziali e la loro attività si esaurisce spesso in un mero controllo burocratico e formale.
In conclusione, una maggiore cultura della legalità, del merito e dei risultati, unita all’abbandono di logiche clientelari, basterebbe a garantire la separazione tra politica e amministrazione, riportando il sistema vigente a standard accettabili di efficienza/efficacia ed imparzialità. Certamente, il primo passo spetta alla politica che deve formulare programmi di medio/lungo periodo, certi e trasparenti, senza farsi condizionare da situazioni di instabilità governativa e dalla conseguente esigenza di presentare in breve tempo all’opinione pubblica i risultati conseguiti, ancorché scarsi o non conformi agli obiettivi programmati. L’attività di gestione deve invece essere affidata interamente ai dirigenti, scelti di regola per concorso pubblico, allocati a capo degli uffici, secondo criteri attitudinali, di competenza e professionalità, e valutati, infine, solo per i risultati conseguiti, sulla base di proprie scelte autonome, con le garanzia di una verifica oggettiva e trasparente degli uffici di controllo. Tutte queste operazioni vanno necessariamente realizzate: la modernizzazione della pubblica amministrazione non può più attendere ed ha bisogno di politiche lungimiranti e di un’amministrazione autonoma e competente, non debole e asservita.
economia
27 febbraio 2008 • pagina 19
La Ue impedisce l’uso del marchio Parmesan ma assolve la Germania
Falsi al supermercato, business da 52 miliardi di Giuseppe Latour
ROMA. La Corte di giustizia europea ha sancito che soltanto il Parmigiano può essere venduto come Parmesan. Ma per la stessa Corte ha precisato che i Paesi stranieri non sono tenuti a tutelare i marchi Dop nostrani. E così c’è poco da festeggiare per il made in Italy alimentare, che per colpa delle contraffazioni perde ogni anno 52,6 miliardi di euro. La sentenza arrivata ieri dal Lussemburgo con una mano dà (pochissimo) alla nostra industria e con l’altra toglie (molto, molto di più).Tanto che già sugli scaffali dei supermercati stranieri si stanno affollando, in sostituzione del Parmesan ormai fuorilegge, il “Pamesello”, il “Pasgrasan” e il “Rapisan” a minare la vita di un prodotto che dà lavoro a 20mila dipendenti e che vale 800 milioni di euro all’origine e circa 1,5 miliardi al consumo. E bisognerebbe chiedere ai giudici comunitari come farà l’Italia a tutelarsi contro le imitazioni, visto che si sancisce un paradosso evidente: uno Stato membro non è tenuto ad adottare d’ufficio i provvedimenti necessari per sanzionare sul suo territorio le violazioni dei Dop provenienti da un altro Stato membro. In altre parole, nessuno può costringere la Germania a fare gli interessi dell’Italia in casa propria.
zioni genetiche di prodotti sulla carta provenienti da Calabria, Campania, Toscana. Se per incanto si fermassero le contraffazioni, i numeri dell’export italiano del settore esploderebbero: «Le esportazioni dell’Italia si attestano a circa 16,7 miliardi di euro», stimano dalla Coldiretti, «Considerando il mercato della contraffazione (circa 52 miliardi di euro), le esportazioni di prodotti agroalimentari del made in Italy potrebbero quadruplicare se venisse inferto uno stop alla contraffazione alimentare internazionale». Di fatto, la sentenza della Corte stabilisce, da un lato, che non si possono legare le mani ai Paesi membri: non infatti hanno obblighi di tutela verso prodotti non propri; dall’altro che da oggi in poi sarà praticamente impossibile qualsiasi forma di intervento efficace. Per Confagricoltura, quindi, quanto affermato a livello europeo «equivale a dire che saranno i produttori a pagare non solo i controlli interni per il rispetto del disciplinare, ma anche quelli fatti nei Paesi esteri». Un prezzo indubbiamente troppo alto da pagare per vincere una battaglia in difesa dei nostri prodotti tipici che appare persa in partenza. In sostanza, mani libere e lunga vita ai futuri produttori di Pamesello.
Il made in Italy agroalimentare è vittima ovunque di imitazioni: dal Chianti californiano alla fontina svedese. Mancano tutele sovranazionali Un vero peccato. Dal momento che i “tarocchi” italiani producono ogni anno un volume d’affari pari a circa la metà del fatturato complessivo dell’alimentare nazionale “originale”: 52,6 miliardi di euro per i falsi e circa 100 miliardi per il mercato ufficiale. Con punte inquietanti: negli Usa non sono autentici una bottiglia di vino su due e nove formaggi italiani su dieci. Nascono così gli orrori che tolgono mercato ai nostri prodotti Doc e Dop. Parliamo del Chianti californiano, della fontina svedese, della ricotta australiana e di altre muta-
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Tps: serve più rigore per la spesa Nuovo allarme da Tommaso Padoa-Schioppa sulle finanze pubbliche. In una circolare inviata a tutte le amministrazioni dello Stato lo scorso 5 febbraio il ministro dell’Economia, infatti, scrive che è «necessario verificare la copertura finanziaria di tutti gli oneri inderogabili ed incomprimibili necessari ad assicurare la continuità del servizio». Per aggiungere: «Una particolare attenzione meritano tutte quelle spese non facilmente ed immediatamente comprimibili che garantiscono il funzionamento delle Amministrazioni (fitti passivi, canoni, utenze, ecc). Per le suddette spese è possibile la formazione di ”debiti pregressi”».
Bilanci record per Terna Chiude il 2007 con risultati superiori alle aspettative Terna. La società che gestisce la rete elettrica registra ricavi consolidati superiori a 1,340 miliardi di euro, in aumento di oltre il 5 per cento rispetto al 2006, mentre l’Ebit (risultato operativo) sale a oltre 720 milioni, con un incremento superiore al 10 per cento rispetto all’anno precedente. L’amministratore delegato, Flavio Cattaneo, si dice «ottimista per il futuro». Il Cda della società spiega che «la crescita dei ricavi riflette le dinamiche tariffarie e l’ampliamento del perimetro di attività, che hanno più che compensato le componenti straordinarie presenti nel 2006».
Eolico, l’Enel investe in America Svolta per Enel nell’eolico. Il gruppo guidato da Fulvio Conti, attraverso la controllata Enel North America Inc., ha completato un parco eolico da 101 Megawatt in Kansas. «Compiamo», ha spiegato l’Ad, «un nuovo importante passo avanti nel nostro piano sulle fonti rinnovabili per dare un contributo alla lotta al cambiamento climatico globale». Gli impianti possono produrre fino a 250 MW.
Plebiscito per la Marcegaglia Si prevede un’elezione plebiscitaria, forse il 95 per cento dei consensi, per Emma Marcegaglia come prossimo leader di Confindustria. «Per la futura presidenza abbiamo registrato un consenso pressoche’ plebiscitario sul suo nome», hanno affermano in una nota i tre saggi, Luigi Attanasio, Antonio Bulgheroni e Enzo Giustino, incaricati delle consultazioni in vista delle elezioni. Intanto Federica Guidi e Cleto Sagripanti hanno ufficializzato le loro candidature per la presidenza di Confindustria giovani e presentato le rispettive squadre.
Arcuri (SI) contro il Milleproroghe Domenico Arcuri, amministratore delegato di dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa (già Sviluppo Italia) si scaglia contro il Milleproroghe. «Se il Senato approvasse il decreto, si produrrebbe un grave danno al patrimonio e al conto economico dell’Agenzia». alla base delle proteste di Arcuri il trasferimento di 150 milioni di euro dall’Agenzia all’Isa (Istituto per lo Sviluppo Agroalimentare) e da questa a Buonitalia.
Dopo tante minacce le agenzie non bocciano la solvibilità delle compagnie che riassicurano i bond. Le banche scansano perdite da 250 miliardi di dollari
Rating benevoli alle monolines per evitare nuovi casi Subprime di Alessandro D’Amato
ROMA. E la montagna partorì il topolino. Dopo le ripetute minacce di downgrading, Standard & Poor’s ha scelto la via più morbida per intervenire sul rating delle monolines, le compagnie che riassicurano i bond. Le decisioni prese hanno riguardato Financial Assurance, retrocessa ad A-, FGIC, riportata ad A, e Mbia, Ambac e Cifg: queste ultime tre erano le più a rischio, sia per il volume di obbligazioni sia per le implicazioni di natura finanziaria che una svalutazione avrebbe portato con sé. Ebbene, tutte e tre le monolines hanno avuto la tripla A – il massimo giudizio possibile – anche se creditwatch e outlook sono passati o rimasti in negativo. E per Mbia il giudizio positivo è arrivato sì in seguito ai 2,6 miliardi di dollari di risorse addizionali che la
società è riuscita a reperire, e alla cancellazione del dividendo per rafforzare il patrimonio, ma anche ben sapendo che nel 2007 tenne nascosta un esposizione pari a 38 miliardi di dollari nelle collateralizated debt obligation (CDO), i famigerati titoli-salsiccia. Ma la scelta, anche se torna a intaccare la credibilità delle agenzie di rating, è stata accolta bene da Wall Street. Il motivo è semplice: negli ultimi anni le monolines hanno investito in una serie di veicoli di finanza strutturata simili, se non uguali, a quelli di cui garantivano la solvibilità. Un sistema che garantiva sé stesso attraverso sé stesso. E che regge un giro di emissioni che ammonta oggi a duemila miliardi di dollari. Ma soprattutto, un suo ridimensionamento – dovuto alla perdita del rating massimo – porterebbe
a cascate anche il downgrading dei titoli assicurati, obbligando le banche che li hanno in portafoglio a dover iscrivere a bilancio la perdita. Già Citigroup e Merrill Lynch hanno dovuto svalutare per 4 miliardi, e secondo alcuni calcoli un tasso d’insolvenza dell’1,25 per cento porterebbe a perdite di 250 miliardi. Un potenziale ulteriore disastro. Ecco perché il mercato ha salutato con piacere sia l’intervento di Warren Buffett sia la scelta di S&P (diversa da quella della più severa Fitch). Ma l’allarme è tutt’altro che rientrato, e lo testimonia il fatto che già ieri su blog e siti di informazione economica si ironizzava sulla scelta dell’International Securitisation Report di conferire ad Ambac il titolo di Monoline of the Year.
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cultura
A trent’anni da ”Il suicidio della rivoluzione” anche la sinistra ne riconosce la lungimiranza
Del Noce, l’uomo che smascherò le ideologie sessantottine di Renato Cristin el febbraio di trent’anni fa Augusto Del Noce pubblicava un libro che oggi possiamo senz’altro definire epocale, per la densità filosofica, la lungimiranza politica e per il coraggio civile che esprimeva (Augusto Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Aragno Editore). Dopo aver doppiato, l’anno scorso, il trentennale del movimento studentesco del ’77 e, quest’anno, i quarant’anni di quello del ’68, e dopo aver dunque non solo frapposto un’opportuna distanza storica con quegli anni, ma pure sviluppato un’adeguata critica degli inganni ideologici sottostanti alle idee dei movimenti ad essi legati, sì è molto più in grado di far riconoscere all’opinione pubblica ciò che gli estimatori del pensiero di Del Noce ben sapevano, e cioè la congruità della sua posizione filosoficopolitica con le esigenze della situazione storico-sociale di fine Novecento. Oggi infatti la sua diagnosi e la sua critica di quelle sciagurate ideologie sono ampiamente diffuse e accettate, perfino in una non esigua parte della sinistra moderata italiana.
Aderirvi, scriveva Del Noce, costituiva ”una sorta di obbligazione morale”, e coloro che se ne discostavano venivano banditi ed emarginati, considerati pericolosi sotto il profilo politico e infetti sotto quello etico, perché chi non condivideva la tesi del fascismo come malattia morale non poteva essere moralmente sano. Uno dei grandi ammutoliti fu Renzo De Felice, censurato intellettualmente e osteggiato professionalmente, le cui tesi vengono invece analizzate e valorizzate da Del Noce, che in questo libro affronta anche il
Un’approvazione apprezzabile, ma tardiva, come dimostrato dalla freddezza con cui il suo libro fu accolto dalla corporazione dei filosofi e degli intellettuali. Ciò che doveva essere imbavagliato era, soprattutto, l’interpretazione che Del Noce forniva della storia politica e culturale italiana del Novecento. Gli anni di piombo, l’infame teoria dell’equidistanza fra brigatismo terrorista e istituzioni, la preoccupazione del Pci di accreditarsi come forza di governo senza perdere la sua vocazione alla lotta, tutto ciò contribuiva a escludere qualsiasi tentativo di fare chiarezza sul passato e di reinterpretare la storia modificando lo schema che vedeva nella Resistenza il punto eticamente sommo di un percorso di liberazione più ampio che avrebbe dovuto diventare più concreto anche sotto il profilo istituzionale.
Sulle orme di Renzo De Felice (a destra), Augusto Del Noce (sopra) ebbe il coraggio di indagare il vero significato del Ventennio, i fondamenti storici e le implicazioni socio-culturali
N
storia, senza sentirsi sradicati dalla storia intera”. Se, quindi, la storiografia, la filosofia e la cultura italiana del dopoguerra hanno evitato di approfondire e di far comprendere il vero significato del fascismo, i suoi fondamenti teorici e le sue implicazioni socioculturali, ciò che si è prodotto è un vacuum nella coscienza civile, una sorta di rimozione forzata di un intero capitolo della storia italiana, espunto in quanto tale e presentato invece come una devianza recalcitrante dal tracciato evolutivo di liberazione dell’uomo dalla schiavit˘ del capitale e dei suoi strumenti teorici e istituzionali. Sradicati dunque, secondo Del Noce, sono coloro che, oggi (egli scrive-
dibattito culturale degli anni di piombo. Le tossine del ’68, diffuse e trapiantate in molte correnti teorico-politiche, agivano un decennio dopo e agiscono ancor oggi in varie forme, soprattutto nel campo dei valori spirituali. Con schiettezza Del Noce registrava: ”il clima in cui ci troviamo non Ë quello della liberazione, ma del caos assiologico”, a cui si può contrapporre un insieme di valori e di finalità soltanto se si riesce ad acquisire una piena coscienza ermeneutica della storia italiana del XX secolo.
La sua tesi è che in Italia il comunismo e il fascismo ebbero una medesima origine, in senso filosofico, e che Gentile e Gramsci rappresentarono le figure esemplari in cui essa si in-
do più creare una nuova sintesi e nemmeno una propria antitesi, si estingue in quanto forma realizzata: ”l’inveramento del marxismo” coincide con il ”nichilismo radicale”. Come si vede, si trattava di una tesi difficile da accettare per l’ortodossia culturale italiana.
E altrettanto controcorrente era la tesi secondo cui il fascismo italiano ”non può venir assimilato né ai movimenti conservatori-tradizionalisti, né a quello reazionario-mitico che ha avuto nel nazismo il suo modello insuperabile”: esso ”fu invece il tentativo fallito, idealmente prima che storicamente, di una rivoluzione postcomunista”. Questa esegesi ”transpolitica” del fascismo, che riprende le tesi di De Felice e di Noventa, anziché leggere il fascismo come anticultura vede in esso una forte ossatura culturale, e lo intende come un ”errore della cultura”, come cioè una proiezione, organizzata sotto il profilo sociale e statuale, delle avanguardie primonovecentesche, del marxismo idealisticamente modificato e dell’attualismo di Gentile. Ciò significa che quando, sia da parte fascista sia da quella comunista, si postula l’identità di filosofia e politica, non ci si può sottrarre, in quanto individui, al peso delle responsabilità legate al modo in cui le idee vengono tradotte nella prassi. Questa originale e audace interpretazione della storia della cultura italiana del Novecento mostra il processo di decomposizione dell’idea di rivoluzione e, con ciò, evidenzia come rappresenti una sorta di ”microcosmo in cui leggere in vitro la forma che il possibile tramonto mondiale della civiltà dovrebbe assumere”. In termini tanto inquietanti quanto accorati, Del Noce ci avverte che il suicidio della rivoluzione può trascinare con sé l’intero mondo, e proprio perciò bisogna impedire che i suoi veleni intossichino le opinioni pubbliche e, soprattutto, le menti delle giovani generazioni.
«In senso filosofico, comunismo e fascismo ebbero la stessa origine, ma culminarono in due esiti uguali ed opposti: furono rivoluzioni autodistruttive segnate dal nichilismo e dal totalitarismo»
pensiero di Giacomo Noventa, un altro caso esemplare di escluso per soffocamento, di voce di verità silenziata dalla cupola culturale italiana.
Del Noce ritiene che nella nostra epoca l’interpretazione della storia contemporanea sia ”il vero banco di prova delle filosofie”. La validità di un pensiero filosofico può cioè essere determinata in base al suo grado di comprensione della contemporaneità: la filosofia è, hegelianamente, il proprio tempo appreso col pensiero. Ma comprendere la storia significa indagarla senza riduzionismi e senza strumentalismi: ”non si può lasciare alcun ’vuoto’ nella
va negli anni ’70, ma in parte anche nei decenni successivi fino ai giorni nostri), cercano di modificare violentemente le strutture sociali del loro tempo, senza averlo ben compreso e senza aver colmato quell’antico vuoto: ”che altro sono se non i soggetti passivi di questo vuoto, che altro esprimono se non questo sradicamento, i ribelli dell’ultimo ventennio, i contestatori di qualsiasi specie?”Così, con questa tesi e con queste parole egli entrava nel
carnò. Il giovane Gentile vide nella ”filosofia della prassi” di stampo marxiano, emendata dagli elementi materialistici, la possibilità di concretizzare un idealismo basato sull’atto. Secondo Del Noce quella posizione si è ”storicamente realizzata nelle due opposte forme possibili”: ”la rivoluzione-restaurazione (fascismo)” e ”la rivoluzione come scissione totale (comunismo)”. La medesima origine, che rivendicava lo spirito della modernità contro l’asfissia della tradizione, produsse per entrambe le forme di una progressiva autodistruzione. Il ”suicidio” di questi due filoni rivoluzionari consiste nell’azione combinata di totalitarismo e nichilismo. Quando ”il totalitarismo rivoluzionario si converte nel nichilismo al potere” si ha la massima espressione del negativo che, non poten-
spettacolo
27 febbraio 2008 • pagina 21
”My Humps” dei Black Eyed Peas (a sinistra) è in Usa stata scaricata due milioni di volte; Timbaland (foto in basso) ha pronto un album per i clienti dell’azienda americana di telefonia; sotto Checco Zalone diventato famoso con ”Siamo una squadra fortissimi...”
I due miliardi e mezzo di telefonini e i 120 milioni di iPod sono ormai il futuro dell’industria discografica
La musica è sempre più mobile di Alfredo Marziano aranno le imprese telefoniche a creare il nuovo Michael Jackson e la nuova Madonna”. Parola di Will.i.am, leader del gruppo hip hop Black Eyed Peas e produttore di grido che ora s’è buttato anche in politica, confezionando un videoclip zeppo di star del cinema e della musica per caldeggiare la candidatura di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti. Può dirlo a ragion veduta, lui: uno dei maggiori successi della sua band, My Humps, è stato scaricato oltre due milioni di volte sui cellulari americani.“L’industria discografica, per gli artisti, è come una vecchia nonna”, ha sibilato impietosamente dal palco del Mobile World Congress di Barcellona, rivolto a una platea di addetti ai lavori ovviamente deliziata dalle sue parole.“E i talenti di domani devono fare affari con sua nipote”. La telefonia mobile, appunto.
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Non è l’unico a pensarla così. Un altro guru della nuova scena musicale “black”, Timothy Z. Mosley in arte Timbaland (il suo nome è in calce ai dischi di Nelly Furtado, Bjork e Justin Timberlake, prossimamente sul nuovo album della signora Ciccone in Ritchie), si è già spinto al punto di concepire un intero album in funzione della fruizione via cellulare: messosi d’accordo con la “telecom” americana Verizon Wireless, si è impegnato a registrare canzoni in esclusiva
per i clienti dell’azienda, al ritmo di una al mese, sulla base della considerazione che “se i cd non si trovano dappertutto, i telefonini invece sì”.
Anche il suo ragionamento non fa una grinza, perché se è vero che la musica diventa ogni giorno più “mobile” non è detto che il futuro sia tutto dell’iPod, status symbol e distintivo di riconoscimento di una nuova generazione di ascoltatori. Parlano le nude cifre: del gioiellino hi-tech di casa Apple, un successo d’immagine prima ancora che commerciale, sono stati finora venduti nel mondo circa 120 milioni di esemplari; mentre a fine 2007 i telefonini in circolazione nel mondo erano due miliardi e mezzo, con tassi mostruosi di crescita in paesi emergenti, sovraffollati e affamati di tecnologia come la Cina e l’India, mentre in
gliaia di canzoni. Nokia, con la nuova gamma serie N, e Sony Ericsson, che per l’occasione ha rispolverato una sigla mitica degli anni Ottanta, il Walkman, lo sanno bene, e già pensano a come chiudere contratti con gli artisti più popolari del pianeta facendo a meno della mediazione delle case disco-
Le suonerie sono un ricordo, oggi sui cellulari si ascoltano interi brani dei Black Eyed Peas, di Timbaland, mentre Checco Zalone è tra più ascoltati in Italia Giappone già oggi il 91 per cento della musica consumata dal pubblico passa sulle reti senza fili della telefonia cellulare. Con i nuovi modelli 3G che consentono la trasmissione veloce e senza intoppi di informazioni audio e video, il cellulare diventa un vero “music phone”, un telefonino musicale di buone prestazioni audio e in grado di archiviare in memoria decine di mi-
grafiche tradizionali: magari offrendogli una percentuale su ogni apparecchio venduto in cambio di canzoni e contenuti esclusivi.
Chi l’avrebbe detto, solo dieci anni fa, quando proprio la finlandese Nokia inventò la prima suoneria preimpostata per telefonini, quella cantilena un po’ stucchevole che prendeva a prestito quattro battute dalla Gran Vals del compositore e strumentista classico spagnolo Francisco Tárrega. La prima star della musica sui cellulari, otto anni dopo, non fu un cantante in carne ed ossa, ma un pupazzo, una “rana pazza” in ca-
schetto e occhialoni da motociclista che diventò il tormentone dell’estate 2005. Si chiamava, appunto, Crazy Frog e gracidava imitando il rombo di una motocicletta sulle note di un vecchio successo dance anni Ottanta, la Axel F resa famosa dalla colonna sonora di Un poliziotto a Beverly Hills. Fu il primo esempio di prodotto “musicale” nato su internet e telefonino per diventare poi un clamoroso successo discografico, capace di scalzare dalla testa delle classifiche inglesi U2 e Coldplay.
Oggi che al posto delle rozze suonerie di un tempo sui telefonini trillano frammenti di brani originali (truetones o mastertones; ma ci sono anche le “risponderie”, che intrattengono in attesa di una risposta chi ha composto il nostro numero) e si ascoltano i “full track downloads”, intere canzoni uguali a quelle che si scaricano da internet, la musica “mobile” è una realtà, una modalità distratta e vorace di consumo che anche in Italia regala un’opportunità insperata a chi fatica ad affermarsi attraverso i canali di promozione tradizionali. Il comico Checco Zalone che diventa famoso con un inno scanzonato alla nazionale di calcio, Siamo una squadra fortissimi…I Dio della Love che gli rispondono brutali con una A me del calcio…(“non me ne frega un c…”) a ritmo di surf, e quel tipo, tal Deboscio, che con la sua Frangetta techno pop sbeffeggia tic e stereotipi delle ragazzine milanesi. Con buona pace di Will.i,am, Madonna e Michael Jackson sono ancora parecchio lontani, per tacere di Bob Dylan e di Fabrizio De André. Ma magari ha ragione lui, le vie del wireless sono infinite. Sennò c’è sempre un’alternativa: teniamoci stretti i nostri dischi, i nostri cd e mp3, e il cellulare usiamolo solo per telefonare.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO
Zapatero conquisterà il secondo mandato? Se in Spagna ci fossero le larghe intese si farebbe il bene del Paese come in Germania Non ho mai nutrito simpatia per Zapatero. Ma devo dire che oggi la Spagna è diversa. Più moderna, funzionale, accattivante. E senza più l’ombra di una chiesa che opprimeva un intero stato e i suoi cittadini. Forse però il premier di Madrid ha un po’esagerato su alcuni temi come la clonazione e l’affido alle coppie gay di bambini. Ora la Spagna dovrà decidere cosa fare. Se continuare sulla scia della modernizzazione e di un europeismo lontano dagli Stati Uniti. Oppure tornare indietro a posizioni conservatrici. Forse la cosa migliore sarebbe un pareggio, una grande coalizione. Si eviterebbero gli estremi e si farebbe il bene della Spagna, come sta succedendo in Germania con l’ottima Merkel.
Alessio Campani - Bari
Se vincesse non cambierebbe nulla: i cittadini avrebbero gli stessi problemi di sempre Come in Italia, così in Spagna. Non è importante chi vincerà. Tanto purtroppo sarà sempre la stessa cosa. I candidati si batteranno su programmi simili, rimbambiranno il popolino con grandi idee e poi cambierà tutto perché tutto rimanga uguale. E il giorno dopo si ricomincerà da capo, con i soliti problemi dei cittadini e la solita distanza della politica dai problemi concreti.
Angelina Foschi - Napoli
In caso di vittoria dei popolari ci sarebbe una importante sterzata a destra Quando Zapatero ha vinto, la Spagna ha cambiato schieramento europeo. E se da una parte il buon Luis è stato importante per il suo ”europeismo”, dall’altra ha spaccato lo schieramento degli amici di Washington che combattono contro il terrorismo.
Anzi, la prima cosa che ha fatto è stato scappare dall’Iraq facendo una figuraccia internazionale. Con i suoi militari che si vergognavano di ammainare la bandiera nazionale. In caso di vittoria dei popolari ci sarebbe una nuova sterzata verso il centrodestra a livello comunitario. Forse farebbe bene anche noi.
Carlo Mei - Roma
Zapatero torni a casa per il bene di spagnoli ed europei Zapatero non deve vincere. Clonazione, esperimenti sugli embrioni, affidamento dei minori alle coppie omosessuali, marginalizzazione del ruolo della Chiesa. Questo signore socialista, che da noi sarebbe un radicale estremista amico di Pannella e Bonino, ha rovinato la cattolica Spagna e ha fatto politica solo per una esigua minoranza di cittadini. Si è allontanato dagli Stati Uniti e si è arruolato nella politica di quegli stati europei nullafacenti che non combattono il terrorismo internazionale se non da posizioni di terza e quarta fila. Che Zapatero torni a casa con tutto il suo schieramento, per il bene degli spagnoli e degli europei.
Sandro Romiti - Milano
Non abbiamo bisogno di lui, ma del ritorno di principi e valori Decisamente Zapatero non mi è mai piaciuto.Troppo progressista e anticlericale. A parte il fatto che deve la sua elezione a vili attentati terroristici in cui persero la vite persone innocenti, la sua politica si quasi sempre basata sulla caccia al consenso omosessuale e antivaticanista. In un’epoca come questa, che subisce continui attacchi ai valori, c’è bisogno che gente come Zapatero si ritiri.
Sarina Minzi - Pisa
LA DOMANDA DI DOMANI
Sicurezza stradale, quali i provvedimenti più urgenti?
A sinistra la cultura rimane quella di sempre A sinistra, anche con Veltroni, la cultura rimane quella di sempre: ”Chiusa anche quando predica il dialogo, arrogante anche quando è gentile, resistente ai fatti anche quando è colta”. Cordialmente.
FARE IMPRESA AL SUD FRA SOGNO E REALTÀ L’Italia arranca e il sud è fanalino di coda in una competizione nazionale, europea e mondiale che lo vede protagonista. Sarebbe necessario attuare programmi di investimenti per il mezzogiorno, mirati e costruiti su misura, per il territorio cui sono destinati. Se è vero com’è vero che molti finanziamenti europei,negli anni scorsi, non sono stati sfruttati, è altresì vero che molti progetti europei non permettevano l’accesso a comuni ed enti territoriali meridionali, perché mal si conciliano con le istanze e le vocazioni che in quel territorio vi sono. Manca una reale sinergia fra quello che dovrebbe esser fatto e quello che qualcuno vorrebbe che si facesse, manca un vero collante fra il mondo della impresa ed il sistema legislativo nazionale prima ed europeo dopo. In tutto questo quadro,in tanti anni, poco è stato fatto a livello legislativo, magari inasprendo le pene per chi commette reati, nei confronti di chi esercita un’attività economica e dunque di utilità sociale. Sarebbe dunque opportuno e necessario au-
Lettera firmata
Nicola Currò
Caro Casini, sei l’unico davvero autorevole e sincero Il Presidente Casini ha deciso di spendere tutto il capitale politico a disposizione. Certo, siamo di fronte ad una scommessa, ma essere dotati di capitale politico e non spenderlo è come non averlo. Il nostro scommettitore, poi, è l’unico uomo politico che ha la volontà, la popolarità e, quindi, l’autorevolezza per dire chiaramente agli italiani che i loro soldi, prima che per migliorare i servizi, serviranno per pagare i debiti. La sincerità paga sempre. Si accettano scommesse. Cordiali saluti.
Michele Forino Genova
I politici sono responsabili degli incidenti sulle strade Dirigenze aziendali vengono perseguite dalla Magistratura, per omicidio colposo o addirittura volontario, a seguito di morti bianche sul lavoro. Si può usare lo stesso peso verso i politicanti che non hanno adeguatamente incrementato e ammodernato la rete stradale. Per il vertiginoso aumento del traffico, la rete stradale italiana è sovraffollata: già nel 2004 si contavano 72,7 veicoli per km (The Economist, Il mondo in cifre, Internazionale, p. 71). Oltre a velocità eccessiva, alcol, droga, distrazione, imprudenza, inesperienza – e, in genere, violazioni del codice stradale – il sovraffollamento
dai circoli liberal
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delle nostre vie (talvolta insufficienti, insicure, superate, vere e proprie “strade della morte”) concausa incidenti, feriti, decessi e stragi.
mentare le pene per chi commette reati nei confronti di chi esercita un attività economica, ridurre le imposte sulle imprese nel mezzogiorno d’Italia nei loro primi vent’anni di attività, costruire delle reti legislative calzanti il territorio nelle quali le stesse devono essere utilizzate, perché la nostra è una Nazione divisa in due grandi macroregioni, Nord e Sud. E all’interno delle stesse vi sono altre numerose differenze, sia come poli di eccellenza e sia di gap economici ed infrastrutturali. Lasciare soli coloro che tentano di dare voce e testimonianza ad un sud sfregiato è un’ennesima beffa, costruire dei percorsi legislativi utili è un dovere, attuare politiche mirate è una necessità. Tutto questo potrebbe diventare realtà se solo chi governa, i grandi comuni metropolitani, le province, le regioni, riuscissero a costruire un forte patto etico e sociale con la comunità e l’elettorato tutto. Per fare questo però dovrebbero mutare gli atteggiamenti faziosi delle singole parti, mutare le sensibilità reali e presunte degli eletti, mutare le posizioni a volte distratte di chi dovrebbe esser preposto al controllo. E’ in-
Come può la Lega Nord farsi portavoce dei cittadini? Come può un partito come la Lega Nord prendersi carico di un problema serio come quello di Malpensa, se non riesce nemmeno ad occuparsi dei “suoi” cassintegrati? Perché l’onorevole Bossi, insieme ai suoi “luogotenenti”, non hanno fatto nulla per difendere i loro lavoratori, che da anni, ogni giorno, lavoravano per loro? Perché non hanno “alzato la voce”, per “sgridare” i loro giovani rampolli di partito, che dopo essersi insediati nel Cda, portando con sé i soliti ”amici”, hanno incominciato a “dividersi la torta” dei finanziamenti pubblici? Perché non hanno “imbracciato le armi”, come dicono loro, per difendere tutti i loro collaboratori (ora sostituiti dai tanto amati extracomunitari) dai licenziamenti? Come può un partito che in casa propria si comporta così poter farsi portavoce di una questione così seria? E’ soltanto propaganda elettorale? (lo spero).
Lettera anonima
somma una alchimia di elementi che dovrebbero rientrare in un più ampio e condiviso processo culturale bipolare, che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che ricoprono attività di pubblica amministrazione senza distinzione di colori politici nella manifestazione delle volontà da attuare nel perseguire un reale processo di sviluppo. Luigi Ruberto
CLUB LIBERAL MONTI DAUNI
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 28 MARZO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Vi prenderò come unica amante Vi scongiuro con tutto il mio cuore di lasciarmi conoscere appieno le vostre intenzioni sul nostro amore; la necessità mi costringe a pietire da voi una risposta, essendo stato colpito da più di un anno dal dardo dell’amore, e non sapendo se ho fallito oppure ho trovato un posto nel vostro cuore e nei vostri affetti, il che mi ha certamente trattenuto per un periodo dal chiamarvi mia amante, dal momento che se Voi mi amate solo di un amore comune questo termine non vi si addice, visto che rappresenta una posizione eccezionale; ma se vi piace assolvere al dovere di una vera, leale amante e amica, e darvi anima e corpo a me, vi prometto che non solo il nome vi sarà dovuto, ma anche che vi prenderò come mia unica amante, allontanando tutte le altre salvo voi stessa dal mio cuore e dalla mia mente. Non vado oltre per paura di annoiarvi. Scritto dalla mano di colui che vorrebbe rimanere il vostro. Enrico VIII ad Anna Bolena
A scuola poco studio e troppe gite dispendiose La cultura basilare è scritta. La scuola è, o dovrebbe essere, la casa degli studiosi. L’esercito d’insegnanti, allievi, pedagogisti di Stato, burocrati scolastici e personale non docente dovrebbe partorire una gran quantità di sapere. L’amore per la lettura e lo studio dovrebbe favorire l’acquisto di libri e d’altra “carta stampata”; ma in Italia si leggono 134 quotidiani per mille abitanti, solo un quarto dei 546 del Giappone (Il mondo in cifre 2008, Internazionale, Fusi orari, p. 94). Aziende editoriali famose hanno chiuso o sono state incorporate in altre. Si fanno false economie sui libri, anche col commercio dell’usato e/o fotocopie, eventualmente illegali; mentre i testi scolastici dovrebbero essere considerati “sacri” e conservati a vita, per memoria e conoscenza. Preparazioni scadenti e sgrammaticature si riscontrano pure in prove scritte di laureati, candidati in pubblici concorsi. E’ duro studiare e frequentare le lezioni: vi sono le deroghe dei “ponti”, settimane bianche, elezioni, autogestioni, scio-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
peri di personale e d’alunni, sabati festivi, nonché vacanze natalizie, pasquali, estive (favorite dall’abolizione degli esami autunnali di riparazione), di carnevale, ecc. Gaudeamus igitur, iuvenes dum sumus: godiamo dunque, finché siamo giovani. Il divertimento coatto, come “la nevrosi, è di moda, chi non l’ha ripudiato sarà” (Adriano Celentano, “Un albero di trenta piani”). Anche la gita scolastica, furbescamente ribattezzata “viaggio d’istruzione”, può apparire un nobile pretesto per eludere l’obbligo dello studio. In Italia la crescita è ferma, c’è il carovita e pure i prezzi degli alimentari sono
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elevati (malgrado gli agricoltori incassino miserie). Molte famiglie “stentano ad arrivare a fine mese”. Eppure la gita è “cultura” irrinunciabile: numerose scuole vogliono che tutti gli alunni vi partecipino e danno un contributo a quelli di famiglia povera. La gita scolastica è un dovere, un must, un’iniziativa “sociale” e prioritaria. I giovani devono socializzare, intruppati in comitive; quasi fossero derelitti scolari di fine ottocento (che non hanno mai visto un tramonto sul mare, una cattedrale, un quadro, e non sono mai usciti dal loro vicolo, né dal cortile dietro casa). Un tempo le gite si limitavano per lo più all’escursione giornaliera; ma oggigiorno si punta maggiormente su viaggi di più giorni e pernottamenti nelle città italiane (costo medio di 196 euro per alunno) e capitali europee - 332 euro per alunno, fino a 500-600 - (Gazzettino 23.02.2008). Le gite spostano ogni anno circa 4,5 milioni di persone (fra docenti e studenti), per un fatturato turistico di circa un miliardo d’euro. “Italia stracciona e spendacciona!” (Sergio Ricossa).
Gianfranco Nìbale
PUNTURE Il pullman di Veltroni è stato multato. Il vigile ha intimato lo stop a Roma all’altezza della Bocca della Verità. Violazione del codice etico.
Giancristiano Desiderio
La moda è l’autoritratto di una società e l’oroscopo che essa fa del suo destino ENNIO FLAIANO
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
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Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LA PALUDE E IL MARE L’acquitrino e l’acqua. Immagini liquide per esprimere due volti opposti dell’Italia 2008 accomunati da un’incertezza senza via d’uscita. L’esordio della campagna elettorale ha gettato sassi nelle acque reflue dello stagno politico, dove i partiti strisciano alla ricerca dell’alleanza giusta, del compromesso che garantisca il sorriso a tutti o quanto meno non faccia arrabbiare qualcuno. Equilibrismo negoziale per non sentirsi sbattere la porta in faccia e vedere decurtata la dote elettorale. I voti o la vita, come dicono oggi i banditi che derubano i partiti delle loro ricchezze elettorali. Piccole manovre da palude. Tanti schizzi, pochi passi. Fuori, nel mare aperto della vita, scorrono impetuose le paure che praticano un buco più stretto sulla cinghia degli italiani. Mangiare costa, lavorare non paga abbastanza, la pensione è un idolo volato via e anche le apparenti certezze, come la legge sull’aborto, su cui tanti italiani si erano appoggiati come fossero comodi posa braccio ora improvvisamente crollano. Il 14 aprile il mare aperto può riversarsi su questa palude travolgendo i suoi rospi e spazzando via il suo limaccioso fondale. Potrà sopravvivere solo la politica pronta a navigare nel mare aperto della vita, senza i salvagente dei privilegi di casta e senza scialuppe di salvataggio per alzare i tacchi quando arriva la tempesta. I tanti piccoli naviganti che vivono per mare hanno imparato a galleggiare, a nuotare, e qualche volta anche a camminare sulle acque. Le prossime elezioni dovranno essere una selezione naturale – altrimenti
anche il mare si ridurrà ad una sterminata palude.
Joyce joyce.ilcannocchiale.it
IL TORMENTO SENZA L’ESTASI Perchè Sanremo è Sanremo. Il tormentone baudesco continua a frantumare le italiche balle, e quelle di chi, grazie all’eurovisione, si sintonizza sul festival. Ho lasciato la tv accesa a rumoreggiare solitaria, mentre mi muovevo per casa. Ho colto un paio di battute di Chiambretti, una delle quali mi ha strappato qualcosa che assomigliava ad una risata. Nel porgere al direttore d’orchestra di turno un mazzo di fiori, ha detto: ”Li metta sulla tomba”. Zoomata sulle personalità in prima fila, e già mi è venuto un rigurgito di acidità, perchè Del Noce e Giletti insieme sono molto, molto più di quanto un essere umano normale possa reggere. Il vecchio pappagallo impagliato fa ancora il cicisbeo con la bionda vallettona ungherese, laureata in lingua a letteratura italiane ma colf sul permesso di soggiorno. Scene viste e riviste, parole trite e ritrite. Una seccatura ciclopica, un diserbante naturale. E le canzoni, poi... (…) Ha ragione Ed Kemper, quando dice che detesta lo spreco di denaro pubblico per finanziare questa...robaccia (lui ha detto diversamente). E siamo solo all’inizio, eh? Domani è prevista la presentazione della valletta bruna, una bellona pugliese, e cantanti che nemmeno so chi siano. E, francamente, non mi interessa. Così, tanto per gradire, preferirei vivere.
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