QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Socrate Chi ha paura del numero chiuso?
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
Beniamino Brocca Luca Codignola Paolo Di Caro Luca Galantini
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LA CAMPAGNA DI VELTRONI
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polemiche Pietro Ichino IL RISVEGLIO o Epifani, DEI CRISTIANI la Binetti CAMBIA LA POLITICA o la Bonino, pagina 7 Rocco Buttiglione Di Pietro algeria o il dialogo BOUTEFLIKA TENTA con Berlusconi. IL COLPO GROSSO Un programma pagina 10 Federica Zoja con un po’ di dogmi e un po’ di riformismo. economia E da ultimo IRI LOCALI: ULTIMA FORESTA la castrazione DA PRIVATIZZARE chimica. pagina 18 Alberto Mingardi Bastano colpi d’immagine a sciogliere musica i rebus del Pd?
I tormenti
del giovane Walter alle pagine 2, 3, 4
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Da Sanremo a Hendrix
Il rock del ‘68 pagina 20
Stefano Bianchi
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alle pagine 2, 3, 4
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GIOVEDÌ 28
FEBBRAIO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
35 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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i tormenti
del giovane Walter
La Cgil o Ichino, Binetti o Bonino, Di Pietro o il dialogo con Berlusconi, la castrazione chimica...
Le spine del «nuovo inizio». Veltroni naviga tra le nebbie di Renzo Foa na domanda preliminare: di quanto è in ritardo Walter Veltroni? Naturalmente non nei sondaggi, ma nella costruzione di una «sinistra di governo» capace di misurarsi con gli aggrovigliati problemi di una società complessa? So che è difficile rispondere, intanto perché il Pd è ai suoi primi passi e stenta a trovare un’identità culturale, politica e programmatica. E poi perché il massimo sforzo – per la natura e le attitudini del suo leader – è stato concentrato sull’immagine. Però ci si può provare. E si può continuare a pensare che la rottura con la sinistra antagonista (ora arcobaleno) sia stato solo un atto fondativo, reso obbligatorio dal pantano in cui era finito il governo Prodi e soprattutto dall’immobilismo che ha segnato l’intera stagione del bipolarismo, con il «progressismo», con l’Ulivo e con l’Unione. Prima di dire che Veltroni può davvero essere quello che Bill Clinton significò per i democratici americani o Tony Blair per i laburisti inglesi, bisogna aspettare le scelte che seguiranno al gesto simbolico compiuto con il «correre da soli». Bisogna ancora aspettare, per capire se è svanita la maledizione che accompagna il riformismo italiano o se siamo ancora davanti ad una semplice promessa, all’ennesimo «nuovo inizio», dopo tutti gli altri già consumati, Occhetto nel 1989, Prodi nel 1996, D’Alema nel 1998 e lo stesso I care veltroniano del 2000.
U
torale e dopo la prova del voto, chi prevarrà? Tutti sanno che è un enigma, anche per Veltroni. Il quale non può pensare che dopo una stagione in cui alla Cgil è stato affidato il molteplice compito dell’organizzazione, della mobilitazione e della difesa di un’identità, all’improvviso possa cambiare tutto, possa essere accettato senza colpo ferire da milioni di persone un vero e proprio contrordine. Lo stesso discorso riguarda l’approdo alla «castrazione chimica» per i reati di pedofilia, dopo aver rivolto da sempre le peggiori accuse a chi ne parlava, i leghisti in prima fila. Anche qui c’è un tabù che si infrange, c’è una storia che si ripete e che riguarda i simboli che poi facilmente si trasformano in spine.
E a proposito di spine, è il modo in cui Veltroni sta affrontando la «questione cattolica» esplosa nel suo partito a dirci quanto pesano sia l’indecisione delle scelte sia la convinzione che un comune interesse superiore possa congelare i conflitti e rimandarne l’eventuale soluzione ad un indeterminato futuro. Il
stata detta, perché non poteva essere detta. Perché oggi, se c’è qualcosa di inconciliabile sul terreno dei valori, è la storia recente della Bonino con la nuova dimensione politica della cultura cattolica, anche quella impegnata a sinistra. E nessuno, da quelle parti, si è curato in questi anni di prestare una vera attenzione alle istanze dei teodem (se non Francesco Rutelli quando aprì loro le porte della Margherita).
le grida, anche se Fausto Bertinotti preferisce, secondo il suo carattere, usare toni bassi. Ma non è questo il problema. Il problema nasce dalla trasparente disponibilità a organizzare, senza aspettare nemmeno la conta dei voti, la prospettiva delle «larghe intese». Veltroni l’ha negato di fronte ad un Berlusconi che per alcuni giorni ne aveva parlato in continuazione, giungendo perfino a chiedere il «voto utile» non solo per se stesso ma anche per colui che dovrebbe Sempre a proposito di spine, c’è solo essere un avversario. L’argomento però da aspettare il giorno in cui Antonio Di torna in continuazione a far capolino. Pietro diventerà un problema. Al mo- Anna Finocchiaro non è l’ultima arrivamento, l’Idv è essenzialmente un simbo- ta e quando ripete gli argomenti del Calo offerto all’antipolitica e ad un’area, valiere è difficile pensare che non espriquella girotondina, che negli ultimi set- ma più di un subconoscio. Se non vote anni ha avuto un ruolo nel corso del- gliamo chiamarlo progetto, chiamiamolo pure «via di fula sinistra. Non è ga». Ma lo scenario ancora un peso, c’è tutto. E, attenanche se nel «giozione, a differenza co delle coppie» di quanto è accaduche va per la to in Germania, il maggiore la figuproblema vero conra dell’ex pm di siste nel fatto che in «mani pulite» è Italia le possibili «larghe intese» non sono presentate all’opinione pubblica come un passaggio obbligato per affrontare le grandi contrapposta a questioni su cui il quella di Enzo Paese si è fermato. Carra, che venne Ma appunto solo portato in ceppi come una «via di nel tribunale di uscita». Lungo la liMilano. Ma potrà nea della fretta con diventarlo rapicui a giugno VeltroIl giuslavorista Pietro Ichino, ni è stato caricato damente – stava candidato del Pd del destino del Pd e per esserlo già quando venne lanciata la proposta di dell’improvvisazione con cui Berlusconi una drastica riforma del sistema tv, con ha proposto il Pdl. la falce su Mediaset e sulla Rai – via via che Di Pietro sentirà la necessità di par- I richiami a Obama, l’effetto delle lare ai suoi o anche solo di dire quel che candidature distillate giorno dopo giorpensa. Di raffigurare di nuovo la con- no, i bagni di folla durante i quali Veltrotraddizione fra se stesso e lo spirito mo- ni parla a braccio, a tu per tu con chi derato con cui ambisce a presentarsi il ascolta, sono essenzialmente l’immagiPd. Soprattutto se lo scenario del possi- ne del «nuovo», sono il ricorso alla sugbile futuro politico italiano è quello del- gestione per far dimenticare Romano l’intesa, all’indomani del voto, tra Pd e Prodi, per esorcizzare la storia passata Pdl, tra le due liste (e i due leader) che della sinistra, per rilanciare una «vocacercano ad aprile l’investitura popolare zione maggioritaria» ormai annacquata. È campagna elettorale, condotta con per sancire la «riforma bipartitica». un tono infinitamente più intenso ed alQuesta è probabilmente la vera spi- to di quanto non faccia Berlusconi. È na conficcata nel veltronismo. Sì, posso- anche una strategia con una data di scano creare problemi di consenso le grida denza (il 14 aprile), perché per la prima che dalla Sinistra arcobaleno vengono volta il leader del Pd non riesce a definilanciate sull’indifferenza tra i program- re nè un orizzonte nè un futuro. Riesce mi del Pd e del Pdl e anche sul disegno solo ad annunciare un inizio. Senza cuche li accomuna di cancellare gli altri rarsi del ritardo con cui vi è arrivato nè soggetti politici. Ogni tanto ci sono del- di cosa verrà dopo.
Il Pd sta scontando l’enorme ritardo con cui la sinistra ha deciso di cambiare e non riesce a definire un orizzonte per il dopo 14 aprile (se non le «larghe intese»)
La seconda domanda è: quanto continua a pesare questo ritardo storico sulle scelte che vengono decise nel loft? In questi giorni, chi ha esaminato e giudicato il programma del Pd non ha potuto fare a meno di vedervi un mix di tradizione e di passi in avanti, un cocktail con tutti gli ingredienti graditi ai partecipanti all’impresa. La sapienza di Enrico Morando ha prodotto il meglio possibile. Ma basta? Certo, molti si sono accontentati di sottolineare con il lapis blu i «passi in avanti», dopo una stagione decennale di totale immobilismo. Però, il carattere e le idee delle persone – e soprattutto la forza degli interessi reali – non sono cancellabili con esercizi di bella scrittura. E, allora, ci si può continuare a chiedere come sarà possibile conciliare Pietro Ichino e Guglielmo Epifani, cioè una cultura riformista forte e quell’organico impianto di conservazione sociale che sta dietro la sigla della Cgil. Al momento delle scelte, dopo la costruzione dell’agglomerato elet-
leader del Pd poteva tranquillamente confidare nel fatto che i teodem non avrebbero consumato uno strappo dopo l’assorbimento dei radicali nelle liste. Sarebbe stato nelle regole del gioco. Di sicuro però non si aspettava la reazione di Famiglia Cristiana, di un soggetto esterno. Si è trovato visibilmente impreparato. Qui c’è un difetto che sta nel Dna di una storia politica. Ricordo quando il mite Fassino mobilitò i Ds nella raccolta delle firme per il referendum sulla legge 40 e con grande ingenuità spiegò pubblicamente che ogni cattolico avrebbe potuto condividere quelle proposte abrogative. In questo 2008, quando Veltroni ha aperto in quel modo ai radicali – che sono i radicali appena reduci da battaglie campali su temi etici, quelle che avevano costruito due anni fa l’identità della Rosa nel pugno – probabilmente confidava in un’operazione indolore. In quello che potremmo definire uno strappo consociativo. Ma non ha saputo dire una parola convincente di fronte alle reazioni che ci sono state. Non significa nulla invocare il modello dei democratici americani o ripetere l’auspicio (condivisibile da tutti) che laici e cattolici possono coabitare nella stessa casa. In una vicenda come questa bisognava dire qualcosa di più. E non è
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del giovane Walter
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La campagna elettorale di Veltroni, partito dal loft del Circo Massimo, punta sulla comunicazione e sui rapporti interni con le burocrazie di partito
l carnet Morando è un lavoro «tecnicamente» impegnato, anche se contiene analisi, proposte e contenuti taluni discutibili e altri non condivisibili. Sempre tenendo conto, ovviamente, della relatività dei programmi elettorali. L’agenda del prossimo governo la scriveranno innanzi tutto i problemi che esso dovrà affrontare, molti dei quali sono ancora sconosciuti ai redattori dei programmi. Tutto ciò premesso, che cosa si può dire della Veltroneide? È sicuramente aumentata la qualità rispetto all’esperienza patetica del lunario di 280 pagine (ed oltre) del 2006. E si nota, altresì, un tentativo di cambiare linea politica, tanto che le maggiori critiche verranno sicuramente dalla Cosa Rossa. Ma il trucco c’è e si vede. Innanzi tutto va notato che Walter Veltroni conduce la campagna elettorale del Pd su due piani: quello della comunicazione massmediatica e quello dei rapporti interni con le burocrazie di partito. Nel primo caso spende e spande «nuovismo», negli slogan, nelle candidature, negli atteggiamenti, alla ricerca di «un ‘botto’ al giorno».
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L’altro W.V. è venuto allo scoperto proprio a seguito della presentazione del programma: ed è assai meno riformista del primo. Sembra quasi che, mediante il documento Morando, Veltroni tenti di blindare candidature di immagine riformista. È il caso sicuramente dei confini posti, in materia di lavoro, alla proposta (peraltro contestata e riequilibrata con quella di Paolo Nerozzi) di candidare Pietro Ichino. Nei punti programmatici rimane molto piombo nelle ali, compaiono tracce dei tradizionali «vizi assurdi» della sinistra, anche se non vengono più impudicamente sbandierati come nella «summa» di Prodi. Poi ci sono le accortezze. Si comincia dall’evanescenza della precedente esperienza di governo. Sarebbe lecito aspettarsi (Berlusconi lo ha fatto nel 2006) che una forza di governo chiamata a consultare gli elettori cominci col presentare loro un bilancio della propria attività. Invece no: la parola d’ordine è «dimenticare». Avvolgere Romano Prodi da un velo di oblio, sperando che co-
Il programma del Pd è all’insegna del «ma anche»
Un chilo di dogmi e tre etti di riformismo di Giuliano Cazzola sì facciano anche gli italiani. Pertanto, la mancata analisi di ieri condiziona pure la partenza di oggi. L’economia frena ? L’inflazione cresce? Noi tireremo diritto, dicono al Pd.
di mezze misure. Occorre riconoscere che le Asl non sono in grado di occuparsi di sicurezza del lavoro e promuovere un superInail, incaricato di incorporare tutti i compiti in materia.
Rimangono le promesse all’insegna del «ma anche» crozziano: minore pressione fiscale in conseguenza di minore spesa pubblica, ma quella sociale (che rappresenta più di un quarto del totale) crescerà. In verità sembra esservi un giro di vite sulla contrattazione decentrata nel pubblico impiego (il terreno dei maggiori abusi) che di sicuro non piacerà ai sindacati. Intanto, alla faccia della sburocratizzazione, aumentano le agenzie: una dovrebbe fare la guardia alla Pubblica amministrazione e alla sua sospirata maggior efficienza; l’altra occuparsi di sicurezza del lavoro. Sarebbe un’idea da approfondire se venissero chiariti i rapporti con l’Inail e il Ssn, che nel progetto conserverebbero le loro funzioni. In materia non è più tempo
E le imprese? E la Confindustria che offre uomini e donne alla patria gauchista in pericolo? Si sono rese conto di quello che capiterebbe loro in caso di vittoria elettorale del Pd? A parte i progetti di partecipazione dei lavoratori e le logiche di responsabilità sociale delle imprese (che riecheggiano tematiche europee), il già complicato e oneroso sistema delle relazioni industriali verrebbe ulteriormente appesantito dall’introduzione (in alcuni casi in via sperimentale) di un salario minimo legale. In tutti i Paesi dove esiste, tale istituto prende, in pratica, il posto della contrattazione nazionale; da noi diventerebbe, al contrario, lo zoccolo duro da cui il contratto nazionale prenderebbe ulteriore forza. «Sperimentazione di un compenso minimo legale – è scritto nel
Tanti paletti per lo sviluppo: autorità inutili, maggiori costi per le imprese a sostegno dei lavoratori atipici e dei disoccupati
programma - fissato in via tripartita (parti sociali e governo), per i collaboratori economicamente dipendenti (con l’obiettivo di raggiungere 1000/1100 euro netti mensili). Va verificato con le parti sociali se questo minimo possa essere esteso a quei lavoratori dipendenti che non godono di adeguata protezione da parte della contrattazione collettiva. In tal modo il compenso minimo si configura come rete di protezione di ultima istanza anche nei confronti dei minimi contrattuali». Quanto poi alla detassazione del salario variabile la proposta è indicata nel programma, ma restano vaghi i termini per quanto riguarda le modalità concrete dell’agevolazione. Infine, (ma tanti altri aspetti patiscono il riemergere di una cultura dirigistica) la questione dei precari.
Il centrosinistra è convinto di avere battuto il Polo nel 2006 grazie alla campagna (menzognera) contro il precariato. E quindi non intende mollare questo tema, anche a costo di decretare la «soluzione finale» per questa categoria di lavoratori, già oberati da un carico contributivo eccessivo ed assurdo (a regime, nel 2010, il 26%). La ricetta è la solita: i contratti atipici devono costare di più. «I contratti temporanei – ecco la trovata liquidatoria - dovrebbero essere utilizzati soltanto per prestazioni lavorative veramente a termine, riducendone la durata massima a due anni e imponendo ai datori di lavoro che li utilizzano il pagamento di contributi più elevati per l’assicurazione contro la disoccupazione. Infatti, chi è assunto con contratti a termine ha più probabilità di diventare disoccupato. Il datore di lavoro deve perciò contribuire a coprire questo rischio, più di quanto avvenga con altri contratti. Altrimenti il costo della flessibilità graverà solo sui contribuenti». Da ultima, una pennellata ambientale. Veltroni si è speso molto in materia, ma il programma rimane tinto di verde acceso, di natura politica. Con le sue energie alternative che, a malapena, serviranno a far bollire il latte (quello della quarta settimana, per intenderci).
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A sinistra i teodem Paola Binetti e Luigi Bobba; sopra il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi; in basso Andrea Sarubbi, conduttore della trasmissione televisiva ”A sua immagine”
Facce distese al convegno dei cattolici del Pd, ma sulle liste continua la guerra del bilancino
Il «ma-anche» della laicità (con il lancio del Papa-boy) di Susanna Turco
ROMA. E così, anche i cattolici avranno la loro Marianna Madia. Volto levigato e capello azzimato tipici dell’homo televisivus, Andrea Sarubbi fa il suo ingresso alle 15 e 15 all’assemblea dei cattolici del Pd dove sarà incoronato candidato «di peso», insieme con il filosofo Mauro Ceruti, autore della Carta dei valori. «Ecco un altro esempio da partito di plastica», sussurra un elettore perplesso. Sarubbi è il Papa-boy per eccellenza, avendo nel 2000 presentato la Giornata mondiale della gioventù: in tv conduce la trasmissione A sua immagine, qui veste il ruolo del giovane umile. «Ecco, ecco un volto giovane», esulta in sala la teodem Paola Binetti, mentre lo indica ai fotografi e l’abbraccia a favore di telecamera. L ’ an n u n c i o
d el l a
d op p i a
candidatura è la ciliegina sulla torta del fatto che, se non altro, la questione cattolica apertasi nel Pd all’indomani dell’accordo coi radicali è in via di superamento. Che si sia sulla strada buona verso il riequilibrio, degli ideali ma soprattutto delle
candidature, lo si percepisce nell’aria. Lo si legge sui volti dei teodem, lo si capisce da come l’accoppiata Veltroni-Fioroni avanza tra la folla per conquistarsi quei due posti in prima fila, uno accanto all’altro, e da frasi come quella di Enzo Carra: «Siamo grati a Veltroni così come lui dovrebbe essere grato a noi». «Sembra di stare in un mercato di Gerusalemme di tanti anni fa...», commenta il fotografo Umberto Pizzi, allu-
Veltroni. Perché, in fondo, tutta questa polemica anti-radicale non fa che giovare al suo ruolo di leader del Pd e del «ma-anche». È lui che, dopo aver spalancato la porta ai radicali, può proporsi come elemento di mediazione con i cattolici democratici, distribuendo generose rassicurazioni agli uni, ma qui soprattutto agli altri. Così, dopo che Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio (quello stesso che a giugno so-
Il suo capolavoro è nel concetto di una «laicità eticamente esigente». È questa, spiega Veltroni, «la sintesi a cui il Pd deve tendere» nell’affrontare le questioni etiche, perché «non credo nella contrapposizione tra oscurantisti e laici, ma nella reciproca collaborazione». «Una laicità eticamente esigente? È il ma-anche applicato alla lai-
Annunciata la candidatura di Andrea Sarubbi, conduttore televisivo e presentatore della Giornata della gioventù nel 2000. Correrà anche il filosofo Mauro Ceruti, autore della Carta dei valori dendo alla battaglia per un numero congruo e visibile di cattolici condotta dagli ex popolari e dai teodem in questi giorni. Ma la lotta per le candidature è altrove.
Al convegno che si intitola ”Educare al bene comune”, invece, si svolge per lo più una celebrazione. La parola chiave è «sintesi», e il suo gran sacerdote, una volta di più, è Walter
steneva come il Pd rischiasse di diventare un «suicidio» per i cattolici), ha spiegato per benino che il partito del Loft è il non plus ultra per i cattolici di oggi («Ci vuole qualcosa di nuovo e il Pd è tale perché c’è una sintesi nuova da fare»), l’ex sindaco di Roma sgancia sui presenti, stile americano in Vietnam, dosi massicce di veltronismo a fare terra bruciata dei precedenti veleni.
cità!», sghignazzano alcuni ex popolari in platea. Ma Veltroni continua, sul tappeto volante del suo speciale ecumenismo. E ne ha per tutti. Dibattere di temi come vita e famiglia si può: «Ritenerla una ingerenza significa avere una «visione su-
perficiale della politica». Ma, d’altra parte, «ha ragione l’Osservatore romano quando dice che i temi etici non possono essere usati come mezzi per cercare voti». Su questi stessi temi, del resto, la libertà di coscienza «è una risposta non sufficiente, negativa, semplicistica, che fa parte dell’armamentario delle furbizie», così come, in fondo, non c’è «contraddizione tra la difesa della legge 194 e la nostra esigenza di applicarla integralmente». E, infine, un accenno alle candidature: «È inutile usare il bilancino, quanti sono quelli laici e quanti quelli cattolici, perché la nostra visione è un’altra». Chissà se quelli che si stanno dissanguando al tavolo delle trattative saprebbero indicare quale è.
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Cancellata Ancona dal tour: il sindaco è indagato, sarebbe imbarazzante
Un neo sullo show ma lo spettacolo deve continuare di Riccardo Paradisi ggi il pullman di Walter Veltroni avrebbe dovuto fare tappa ad Ancona, roccaforte del centrosinistra nelle Marche da almeno un ventennio e nodo storico della rete di potere Ds nell’Italia centrale. Città che ha sempre fornito alla sinistra italiana esponenti di rilievo e dove l’opposizione di centrodestra non ha mai inciso veramente. Un fortino insomma. Uno di quei posti dove un leader nazionale della sinistra può sentirsi a casa sua. Eppure dall’agenda di Veltroni la tappa nel capoluogo marchigiano è stata cancellata, sostituita dalla visita del leader nella vicina Falconara, comune minore dell’anconetano dove il 13 aprile si voterà anche per il rinnovo dell’amministrazione locale. Dato quest’ultimo che all’entourage del Partito democratico ha fornito almeno una scusa ufficiale per la scelta di Veltroni di evitare Ancona. Ma si tratta di una scusa appunto come per primo ha rivelato Marco Gnocchini un consigliere d’opposizione al Comune. Il motivo vero del salto di Ancona, ora esplicito, è un altro: il candidato premier del Partito democratico ha preferito non parlare nella città dorica per evitarsi l’imbarazzo di un sindaco indagato per corruzione.
O
Si, perchè Fabio Sturani, primo cittadino di Ancona, esponente Ds e poi Pd, già fassiniano e ora in forza al veltronismo vincente, ha ricevuto nelle scorse settimane un avviso di garanzia relativo a una faccenda di compravendita di terreni portuali in cui è coinvolta la società partecipata del comune “Ancona Ambiente”. È un avviso di garanzia, ma allo staff di Veltroni deve essere bastato per convincere il candidato premier a dirottare il pullman del leader sulla vicina Falconara, un
comune chiamato a votare anche per le amministrative. Un’abile mossa? Mica tanto. Per evitarsi un imbarazzo infatti Veltroni si troverà ad affrontarne un altro. Dopo un anno di governo il sindaco Riccardo Recanatini di Falconara – prima Ds, poi Udeur e ora indipendente – ha alzato le braccia in segno di resa dichiarando la bancarotta comunale per l’enorme entità di debiti contratti dalla giunta precedente, anche lei a maggioranza diessina. Risultato: quello di Falconara è oggi un comune commissariato, pesantemente indebitato e sotto attenzione della Corte dei conti. Al netto di tutto non siamo di fronte a un esempio di buona amministrazione. Storie locali si dirà. Casi isolati. Se non fosse che l’Italia è fatta di storie locali e che questi casi, a guardare bene, non son poi così isolati.
700mila euro. All’nchiesta della Corte dei conti relativa a questo caso corre parallela quella della magistratura sul caso Giombini, il costruttore delle Coop umbre indagato per fatturazioni false e accusato da un suo complice di aver pagato tangenti al potere politico locale. A tutto questo sempre nella verde Umbria si aggiungono due recenti inchieste che hanno al centro il traffico di rifiuti speciali e pericolosi tra la Campania e la discarica di Orvieto nel quale sono implicati due ex sindaci Ds.
Questo per dire che l’Italia di mezzo non è solo fondale per olografiche cartoline politiche dalle atmosfere pastello. «Considero le cose della politica spettacolo una storia di ieri: anche in questo vogliamo girare pagina», dichiarava Walter Veltroni qualche giorno fa polemizzando con le scelte nelle candidature del Popolo delle libertà e riferendosi evidentemente all’idea di candidare nelle liste Pdl anche personaggi del grande Fratello. Ma come definire una politica che sfuma dal campo visivo del proprio tour elettorale un sindaco indagato? O che costruisce una scenografia piena di rimandi a un rinascimento moderno di municipalità virtuose e alta qualità della vita che nei fatti si rivela invece solo virtuale? Sublimazione spettacolare di una realtà che presenta invece tutt’altro volto? La società dello
Una campagna elettorale incentrata sulla politica immagine: la realtà, quando è scomoda, viene sfumata
Nell’Italia centrale, cornice eletta dalla strategia di comunicazione veltroniana a paradigma del buon governo e del buon vivere – ricordate i verdi ulivi mossi dal vento del discorso d’esordio di Spello arroccata sulla collina? – di casi come quelli di Ancona e Falconara ce ne sono altri. Il più clamoroso è proprio quello umbro di cui vale la pena ricordare qualche dato visto che è proprio da questa regione che è partita la campagna del Partito democratico. Il comune di Perugia, governato da una giunta di centrosinistra, ha un buco in bilancio di 14 milioni di euro. La giunta perugina aveva dichiarato che il deficit era solo di 3 milioni e
spettacolo, come insegnava già nel lontano 1967 Guy Bebord, non è solo la triste pesca per le liste elettorali dei “volti giovani” trasformati in icone pop dal Grande fratello, è anche la cancellazione dei fatti per l’instaurazione del regno delle immagini, l’abolizione della realtà effettuale con la sua rappresentazione.
Stefano Folli, in un’intervista rilasciata a questo giornale nei giorni scorsi parlava con ironia di compiuto superamento della mentalità marxista da parte della sinistra moderna italiana. «Veltroni vuole far dimenticare di essere stato al governo con Prodi per due anni ed è chiaro che a questo scopo serve una politica giocata sull’immagine, con colpi ad effetto, da qui l’esclusione di De Mita dalle liste. E poi di Visco, Prodi e Amato: un tentativo goffo, quest’ultimo, di distaccarsi da due anni di esecutivo, uno strappo di immagine che però trascura i passaggi storici reali e che configura una mentalità definitivamente post-marxista, addirittura berlusconiana». Un evoluzione? Chissà. Al netto degli errori e degli orrori germinati dal marxismo e dalle sue interpretazioni infatti c’è stato chi, come l’economista Geminello Alvi, si è domandato se nell’Italia dei Grandi fratelli, delle notti bianche, dei ricchi premi e cotillons non sia un po’da rimpiangere quell’adesione alla realtà sociale e alla sua struttura che i vecchi marxisti avevano. E che la nuova sinistra sembra avere definitivamente smarrito.
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politica d i a r i o
d e l
g i o r n o
Rutelli e la Sinistra: patti chiari, amicizia lunga cinque anni Una sintesi che sembra un avvertimento preventivo, un monito: ”Patti chiari e amicizia. Lunghi cinque anni”. Così è intitolato l’accordo stipulato ieri a Roma tra il candidato sindaco Francesco Rutelli e la Sinistra arcobaleno ”per il governo della Capitale dalla primavera 2008 alla primavera 2013”. Alla presentazione sono intervenuti leader nazionali e romani del fronte massimalista. «Anche se il quadro nazionale divergerà», ha detto Rutelli, «sulla base di motivazioni che credo siano fondate in questa stagione politica, ritengo utile per Roma concludere un’intesa leale, chiara e stabile, tra le forze principali di centrosinistra e civiche: Roma può e deve essere guidata da un’amministrazione democratica, riformatrice, innovatrice, sociale, e non dalle destre». L’intesa è sintetizzata in due pagine dattiloscritte che fissano i vari punti: dalla sicurezza all’ambiente, dalla casa alle unioni civili, dal lavoro nero al decentramento.
E nel centrodestra rischia lo stop l’accordo Pdl-Udc per la regione Friuli
Resta il rapporto di 1 a 3 fra An e FI, che però avrà in quota le new entry
Liste a sfondo azzurro di Errico Novi
ROMA. Davanti alla folla dei coordinatori regionali Silvio Berlusconi ieri è stato esplicito: «Subito dopo le elezioni ci saranno i gruppi unificati in Parlamento, quindi lavoreremo a un percorso che porti al partito unico».Vuol dire per chi non lo avesse ancora chiaro in testa che Forza Italia e An non hanno cessato di esistere da un giorno all’altro e che il Popolo della libertà è per ora una grande lista elettorale, non una formazione politica. È chiaro, è inevitabile che tra i due apparati ci siano dunque tensioni sulle candidature. Lo sanno bene i segretari locali che ieri, nella sala del gruppo forzista di Montecitorio, si sono mescolati tra loro fino a formare appunto una folla di quasi cento persone, visto che c’erano anche rappresentati delle forze minori. Berlusconi e Fini hanno spiegato che il programma seguirà il principio del work in progress, suscettibile di rettifiche suggerite dal popolo dei gazebo già in questo fine settimana (sabato e domenica ci saranno 200 camper in giro per gli 8000 comuni del Paese). Dei criteri per la formazione delle liste avevano già discusso in mattinata gli ambasciatori dei due leader: Fabrizio Cicchitto, Denis Verdini ed Elio Vito da una parte, Altero Matteoli e Ignazio La Russa dall’altra. Quindi, subito dopo l’adunata con i coordinatori, ne hanno riparlato in una saletta riservata Berlusconi e Fini, fino all’incontro decisivo in serata a Palazzo Grazioli. Lo stato maggiore di via della Scrofa sa che sarebbe stato bello poter guadagnare qual-
che margine, nei rapporti di forza con gli azzurri; che certo dalla proporzione tra candidati di An e di FI deriverà anche il peso delle rispettive strutture nel futuro partito unico; ma si sono resi anche conto, in Alleanza nazionale, che più di tanto non si poteva forzare la mano. Resta dunque quel rapporto di massima fissato martedì scorso: un candidato finiano ogni tre berlusconiani.
Fino all’ultimo si è negoziato su chi dovrà adottare i leader dei piccoli partiti, da Gianfranco Rotondi e Stefano Caldoro a Lamberto Dini e a Carlo Fatuzzo dei Pensionati. Ma non è nemmeno questa la
Fini privilegerà i quadri del suo partito, Berlusconi integrerà gli eletti forzisti con giovani e rappresentanti delle categorie produttive chiave decisiva dell’accordo. Forza Italia avrà il triplo dei posti nelle liste non solo perché, come spiegava ieri una fonte di An, «i sondaggi parlano chiaro, loro sono al 30 per cento e noi al 12». L’altra ragione fondamentale è che Berlusconi si farà carico più di Fini delle new entry nel listone. Giovani, donne e rappresentanti delle categorie produttive saranno considerati prevalentemente in quota
azzurra. A Fini preme garantire i quadri del suo partito, e dunque i nomi che metterà in campo coincideranno in buona parte con i parlamentari uscenti. Le novità proposte da Via della Scrofa proverranno comunque dalla struttura interna: sarà il caso del capogruppo al Comune di Roma Marco Marsilio e del sindacalista Filippo Saltamartini. Forza Italia a sua volta ricandiderà gli eletti ma a loro aggiungerà giovani provenienti dai Circoli della libertà, dai Circoli del buongoverno o scelti direttamente nella società civile. Berlusconi ci tiene molto e lo ha ribadito ieri mattina dai microfoni di Radio anch’io: «Mi sto battendo affinché il numero di giovani nella nostra lista sia il più elevato possibile». Il patto è chiaro: Fini accetta la proporzione di uno a tre ma in cambio si troverà in squadra forze fresche che Forza Italia si sarà impegnata da sola a individuare.
È meno complicato il quadro in casa dei democratici. Da ieri mattina vice e plenipotenziario di Walter Veltroni, Dario Franceschini e Goffredo Bettini, hanno cominciato a ricevere le rappresentanze regionali del Pd. Si è partiti con il Friuli e con le due regioni rosse per eccellenza, Emilia-Romagna e Toscana. I nomi sottoposti dai coordinatori locali saranno combinati entro lunedì con quelli espressi dal tavolo nazionale. Tra questi ultimi, quello di Massimo D’Alema ha già una collocazione certa: capolista alla Camera in Puglia.
Durante la riunione con i coordinatori regionali di FI e An svolta ieri a Montecitorio, Silvio Berlusconi non è sembrato per nulla contento nell’apprendere che vi è un’intesa per l’appoggio dell’Udc al candidato del Popolo della liberta’ alla presidenza della Regione Friuli, Renzo Tondo, espresso peraltro da Forza Italia. Nel corso dell’incontro qualcuno lo ha informato dell’intesa e il leader del Pdl è sbottato: «Io non sono per niente d’accordo. Chi vi ha detto di farlo?». Ma la contrarietà dell’ex premier era dovuta solo al fatto che nessuno gli aveva esposto il particolare caso, hanno subito spiegato fonti azzurre. Tanto è vero che in serata il coordinatore regionale del Friuli per Alleanza nazionale, Roberto Menia, ha potuto rassicurare tutti: «Berlusconi ha dato il suo via libera, l’iniziale perplessità del Cavaliere era dovuta solo a una mancata comunicazione. Nella riunione ristretta Gianfranco Fini gli ha sottolineato che la legge elettorale del Friuli è quella di una regione a statuto speciale ed è a turno unico».
Berlusconi: ho orrore per Di Pietro «Ci sono dei giudici a Berlino che non hanno permesso di farmi fuori» attraverso l’arma della giustizia. Silvio Berlusconi lo ha detto ieri mattina a Radio anch’io e ha ricordato «di non essere mai stato condannato e di aver fiducia nella magistratura italiana». Ma a un certo punto l’ex premier ha puntato il dito contro la procura di Milano che ha portato avanti «una guerra ad personam». E ha quindi attaccato «il campione delle manette Antonio Di Pietro: io ho orrore di Di Pietro, lo dico alto e forte». Il ministro delle Infrastrutture ha replicato così: «Sono solo contumelie dettate dalla paura per il risultato elettorale. Evidentemente Berlusconi comincia a temere il risultato elettorale se impegna se stesso e quintali di inchiostro dei suoi giornali nella denigrazione dell’avversario, e per il solo fatto che in un’altra vita ho esercitato la funzione di pm facendo il mio dovere».
Regionali siciliane, FI e An si separano Alle Regionali siciliane il Pdl potrebbe presentare due liste con i simboli di Forza Italia e Alleanza nazionale: di questa ipotesi, che viene data per certa da molti dirigenti locali, hanno discusso i coordinatori regionali dei due partiti, Angelino Alfano e Pippo Scalia. Secondo quest’ultimo ai simboli di An e FI, nella scheda per le regionali, potrebbe essere aggiunta la dicitura «Verso il Pdl». La decisione è legata più che a problemi organizzativi, al sistema elettorale: in Sicilia, infatti, è in vigore il proporzionale con lo sbarramento al 5 per cento, che favorisce la presentazione di piu’ liste.
Il senatore Rossi libero dalle catene Il senatore Fernando Rossi è tornato a dormire nel suo letto e non più su un divano della Galleria dei Busti di Palazzo Madama. Infatti dopo due giorni trascorsi in catene, ancorato a un busto di Palazzo Madama, ha vinto la sua battaglia personale. Dal ministro dell’Interno infatti, dice il senatore ferrarese, è arrivata la telefonata in cui si conferma che l’adesione di Franca Rame, senatrice, e dell’eurodeputato Giulietto Chiesa, sono valide per esonerare il suo Movimento politico dei cittadini dalla raccolta delle firme altrimenti necessarie per presentare le liste alle Politiche.
polemiche
28 febbraio 2008 • pagina 7
A proposito delle tesi di Ernesto Galli della Loggia sul ruolo di un partito cattolico
Il risveglio dei cristiani cambia la politica di Rocco Buttiglione rnesto Galli della Loggia rivolge due obiezioni alla insistenza con cui Pier Ferdinando Casini parla della necessaria difesa della identità cristiana del paese. Galli della Loggia osserva in primo luogo che non è la politica a fare l’identità cristiana di un paese. Per molti anni l’Italia ha avuto un partito di governo democraticocristiano e in quegli anni si è svolto un processo massiccio di secolarizzazione e (parziale) scristianizzazione. Su questi processi la politica incide solo marginalmente. La seconda obiezioni è che il tema della identità cristiana è stato portato al centro del dibattito pubblico da studiosi ed intellettuali (uno dei migliori – questo lo dico io – insieme con Ferdinando Adornato è lo stesso Galli della Loggia) laici, cresciuti fuori delle associazioni cristiane, qualche volta non battezzati, se mai liberali piuttosto che democratici cristiani.
E
Vediamo di rispondere a queste obiezioni. Il dialogo con Galli della Loggia è particolarmente importante perché (forse) vogliamo le stesse cose. È certamente vero che della identità culturale e religiosa di un paese non decide (e non deve decidere) la politica. Di questo noi siamo assolutamente consapevoli. Il movimento che noi vogliamo risvegliare o, meglio, al quale vogliamo partecipare da politici, è esattamente di segno opposto. È nelle visceri della società italiana che si sta verificando una inversione di tendenza. C’è una identità cristiana della Nazione che si sta svegliando, che occupa il centro dell’azione sociale e preme verso la politica. Nella grande manifestazione di Piazza San Giovanni a Roma questa realtà ha mobilitato un milione e mezzo di persone per lanciare un messaggio, certo non di partito, però intrinsecamente politico. Noi vogliamo dare, laicamente e senza coinvolgere la responsabilità della gerarchia ecclesiastica, una espressione politica a questa domanda di nuova socialità e di valori veri. Crediamo che la crisi del paese sia prima di tutto una crisi intellettuale e morale, una emergenza educativa (come dice Benedetto XVI) e che le energie per far fronte a quella crisi siano, certo non esclusivamente ma in larga misura, in quella rete di movimenti, diocesi, parrocchie che testimoniano in Italia una fede viva. Senza il massiccio impegno nel sociale di questa realtà di fede viva il paese oggi crollerebbe. Sono loro che alimentano il volontariato, il Terzo settore, eccetera. Trovare forme di impegno politico che
L’Udc vuole dare un’espressione politica alla nuova domanda di socialità e di valori che ha cominciato ad esprimersi in primo luogo dal basso questa realtà possa fare propria significa forse dare una risposta alla crisi della politica in Italia. Certo, ci si potrebbe domandare come mai oggi ci sia in Italia una ripresa di identità cristiana anche se un tema così non si risolve in un articolo di giornale. C’entra quello che i credenti chiamano l’intervento dello Spirito nella storia degli uomini. Movimenti potenti, che mobilitano l’energia di centinaia di migliaia di persone sono nati imprevedibilmente dalle iniziative di persone o piccoli gruppi che non avevano denari, potere culturale o sociale, giornali o televisioni. Penso al Rinnovamento nello Spirito, al Cammino Neocatecumenale, a Comunione e Liberazione, ai Focolari, a S. Egidio, a tanti e tanti altri, parrocchie e comunità di vita cristiana. C’entra, in questo processo, il pontificato di Giovanni Paolo II, il suo carisma. C’entra il crollo del comunismo, che è stato una vera e propria fede alternativa e che dissolvendosi ha messo in libertà grandi energie in cerca di un nuovo orientamento. C’entra il fatto che il ‘68, simbolo del trionfo della secolarizzazione in Italia, è ormai vecchio di quaranta anni ed abbiamo avuto modo di vedere le conseguenze negative della secolarizzazione, la dissoluzione della famiglia senza che sia affiorata nessuna agenzia educativa o sociale capace di sostituirla. C’è infine un ultimo elemento di straordinaria importanza. Il calo delle nascite e la globalizzazione alimentano flussi
immigratori massicci. Siamo costretti a confrontarci con altre identità, talvolta aggressive. Inevitabilmente siamo costretti a domandarci: «E noi chi siamo?». La cultura dominante tende a distruggere (decostruire) tutte le identità producendo un uomo senza identità e senza qualità. Davanti alla sfida è inevitabile tornare a guardare alla identità cristiana. I vecchi valori sono stati dissacrati ma nuovi valori non sono stati proposti. Bisogna tornare a consacrare i vecchi valori.
Quali che siano le ragioni cresce in Italia, e non solo in Italia, una nuova presenza dei cristiani che cerca una espressione politica. Qualcosa del genere è accaduto negli Stati Uniti una trentina di anni fa. Una ricristianizzazione massiccia della cultura americana ha poi portato a trasformazioni di grande portata anche nella politica americana, rendendo centrale, per esempio, il tema dei valori familiari. L’America ha vissuto prima di noi la secolarizzazione e prima di noi ha scoperto anche i limiti della secolarizzazione. È importante dire qualcosa anche sulla seconda obiezione di Galli della Loggia. I temi eticamente sensibili acquistano una nuova rilevanza e centralità nella cultura italiana a causa dell’impegno di alcuni intellettuali di area liberale e di formazione chiaramente non confessionale. Che bisogno c’è dunque di un rinnovato impegno cristiano in politica?
Mi si consenta di rilevare che ogni storia ha la sua preistoria. Cose non molto diverse da quelle che oggi Galli della Loggia e altri intellettuali laici stanno proponendo venivano presentate già trenta anni fa’ nella cultura italiana da Augusto Del Noce (e da Rocco Buttiglione) nella sua polemica antiazionista. Quello che adesso sta avvenendo è la crisi dell’azionismo che è stato il vero fondamentale fattore di provincializzazione della nostra cultura. L’azionismo, teoria del superamento/ inveramento del comunismo in una sintesi superiore, non poteva sopravvivere alla fine del comunismo. È in questa crisi che molti vanno riscoprendo, almeno in parte, le posizioni che furono di Del Noce. Quella crisi porta poi ad una nuova apertura della cultura italiana ad autori ed a correnti diffuse a livello internazionale ma assai poco conosciute in Italia. Penso a K. R. Popper e von Hayek ma anche a M. Novack e R. J. Neuhaus. Questi ultimi, in particolare, hanno teorizzato un nuovo incontro fra pensiero religioso e pensiero liberale, fondato sulla riscoperta di un cristianesimo non integrista e di un liberalismo non ideologico, un cristianesimo che riconosce che la verità può essere scoperta ed affermata solo con il metodo della liberta ed un liberalismo che sappia che la libertà è data per cercare la verità e vivere nella verità. A me sembra che questa possa essere anche la formula di un nuovo pensiero politico capace di aiutare l’Italia ad uscire dalla crisi presente. Istituzioni liberali hanno bisogno di essere sostenute da un insieme di valori sociali diffusi che, storicamente, sono entrati nella storia attraverso il cristianesimo (e l’ebraismo). È difficile che una società liberale possa sopravvivere alla fine di quei valori e del modello antropologico che li sottende. Se comprendiamo questo capiamo anche perché non è pensabile il cammino dell’Udc come un ritorno al passato della Dc. Certo ,nella fedeltà ai valori fondamentali ereditati dal passato, si tratta però di pensare le forme culturali e politiche di un’epoca nuova riconciliando, per esempio, i valori del mercato e quelli della solidarietà all’interno di una visione non statalista, che non ritiene più che lo stato sia l’unico agente della solidarietà. Si tratta di un cammino insieme politico e culturale del quale siamo solo agli inizi. Nel suo svolgimento forse scopriremo che noi ed Ernesto Galli della Loggia siamo meno lontani di quello che una lettura affrettata del suo articolo potrebbe fare supporre.
pagina 8 • 28 febbraio 2008
L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Che soap, i primi piani in penombra!
La chimica e la castrazione della politica di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza Il close up, cioè il primo piano, è la tecnica cinematografica con cui da un paesaggio si passa a un dettaglio cercando di focalizzare l’attenzione del pubblico. Spesso si usa il close up di un volto per rimarcare un’emozione, specie quando la trama fa acqua. Con tale obbiettivo la tecnica è molto diffusa nelle soap televisive, sebbene spesso con risultati opposti a quelli cercati. Nel momento topico della puntata (per esempio davanti alla notizia che la propria moglie in verità è l’amante del proprio padre, nonché sorella gemella della propria madre), il primo piano del mascellone surgelato di Ridge Forrester induceva al comico più che al tragico. Sarà per questo che non convince fino in fondo la pur bella campagna del giovane Walter Veltroni in cui il close up sembra appunto un escamotage per deviare l’attenzione dal resto (e pure gli slogan sono virati al negativo per rimarcare la distanza dal precedente governo Prodi). Non avendo altro da dire, lo spazio viene occupato quasi per intero, specie nella versione verticale, dal faccione in penombra di Walter che sembra non starci proprio in quel ruolo. E se non fosse per il sorriso, nel taglio dell’immagine deciso dal grafico che esclude il celebre cranio dolicocefalo,
Veltroni potrebbe benissimo essere scambiato per Paolo Flores d’Arcais (che invece non ride mai). Come ha scritto il direttore del New Yorker, David Remnic, a proposito di una stupenda mostra fotografica del re del close up, Martin Schoeller: «La celebrità ha molto a che fare con la superficie e la saturazione e le grandi teste spingono queste qualità fino al limite. Conferiscono al volto, all’espressione umana, una nuova dimensione e questa è anche la ragione per cui non riusciamo a smettere di guardarle». Certo, la celebrità ha a che fare con la superficie, spesso con la superficialità che ne è un’estensione qualitativa in negativo. Eppure, le grandi teste non riusciamo a smettere di guardarle.
Va di moda castrare. Castrare è necessario, forse anche giusto. In origine fu il Calderoli: «Castrazione chimica per i pedofili». Ma il leghista è sempre brutto, sporco e cattivo e giù sberle, censure e scomuniche. Il Calderoni fu castrato. Ma oggi che si vota e che i “bipartitici”tendono a copiarsi a vicenda ecco che l’ideona del Calderoli fa breccia a destra e a sinistra. Il primo a rilanciarla è stato Fini, poi è venuto il Walter che ha detto come se fosse la cosa più normale del mondo ciò che solo un paio di settimane fa a sinistra avrebbe generato orrore, sarcasmo e, naturalmente, snobismo. Ecco le parole di Veltroni: «Non ci sono certezze scientifiche sulla castrazione chimica. Ma se la scienza le trovasse non vedo perché non ricorrervi». Già, la scienza. E che dice nostra signora la scienza? Silvio Garattini, farmacologo, sostiene che le prove «mancano» e «non esistono studi a sostegno dell’efficacia». Vincenzo Mirone, urologo, è di avviso contrario: «Scende il testosterone e si annulla la libido». A chi dare ragione? Non esiste una scienza della scienza per sapere cosa dice la scienza? Farebbe comodo a Fini e a Veltroni che in attesa di conoscere la diagnosi castrano la politica.
Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la “media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda
Il sondaggio dei sondaggi Pdl+Lega
la media di oggi Demosk. Crespi Eurom. Digis Eurisko Ipr Swg 26 febbraio
25 febbraio
23 febbraio
20 febbraio
20 febbraio
19 febbraio
18 febbraio
Udc+Rb
Pd+Idv
Sin-Arc
Destra
Socialisti
44,3
7,3
36,7
7,4
2,0
1,0
44,0 44,3 46,4 43,4 45,4 44,5 42,7
7,0 7,5 5,7 7,7 7,5 8,0 8,0
36,5 35,5 36,4 38,3 39,0 34,5 37,2
8,5 7,0 7,9 6,6 5,8 8,0 8,0
2,0 3,6 1,2 1,5 1,0 3,0 1,7
0,5 1,8 0,8 1,3 0,7 1,5 0,7
La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca e Udeur, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.
di Andrea Mancia Due nuovi sondaggi arricchiscono oggi la nostra tabella. Il primo è quello di Crespi Ricerche con dati relativi al 25 febbraio. Rispetto a una settimana fa, per Crespi crescono (dell’1,3%) sia PdL+Lega (44,3%) che Pd+Idv (35,5%). Il vantaggio del centrodestra, dunque, rimane invariato all’8,8%. Flessione, invece, per Sinistra Arcobaleno (-1%) e Udc+Rb (-0,5%) che finiscono rispettivamente al 7 e al 7,5%. Cresce leggermente la Destra (+0,3%), che Crespi già sovrastimava rispetto agli altri istituti di ricerca. I Socialisti, malgrado la fuga dei Radicali verso il Pd, restano onorevolmente vicini al 2%. Il secondo sondaggio - commissionato da Sky Tg24 a Demoskopea - è invece relativo al 26
febbraio. Rispetto alla scorsa settimana, l’istituto di ricerca registra una lieve flessione del PdL (da 40% a 39,5%), mentre restano stabili Lega Nord (4,0%) e Mpa (0,5%). Il vantaggio della coalizione guidata dal PdL (44,0%) si riduce al 7,5% (dal 10% della scorsa settimana) a causa della crescita di un paio di punti del Pd (34,5%), mentre l’Idv resta al 2%. Al di fuori delle due coalizioni maggiori, l’Udc perde qualcosa (dal 7% al 6%), mantengono invece le loro posizioni Rosa bianca (1%), Destra (2%) e Socialisti (0,5%). Alla tabella abbiamo anche aggiunto un sondaggio Digis per Sky Tg24 effettuato il 20 febbraio, i cui dati sono stati diffusi soltanto all’inizio di questa settimana.
L’ITALIA AL VOTO
28 febbraio 2008 • pagina 9 Secondo il professor Gianfranco Pasquino (nella foto in basso), sono le culture politiche che rendono credibili i grandi partiti europei, come i laburisti inglesi di Gordon Brown
La novità del Centro. Le previsioni dei politologi /3 Gianfranco Pasquino
Questo bipolarismo ha fatto fuori le identità Colloquio con Gianfranco Pasquino di Riccardo Paradisi
ROMA. Gianfranco Pasquino, docente di Scienza Politica all’università di Bologna, studia da anni la classe politica italiana. Continuiamo con lui la ricognizione di Liberal sul Centro. Professore, queste sono elezioni politiche dove i maggiori attori della competizione lasciano libero il centro. Lo lasciano in maniera temporanea però. Nel momento in cui si andrà a elezioni ci sarà sicuramente una convergenza di Pd e Pdl al centro. Si tratta di vedere con quale margine di successo. Chi può secondo me però legittimamente ambire a catturare il centro politico è Pier Ferdinando Casini che del resto lo occupa in modo credibile già ora. L’Udc è sempre stato un partito centrista per storia e identità. Gli sarebbe andata meglio con un sistema tedesco, ma tant’è... E il Centro politico tradizionale, Casini, la Cosa bianca che ruolo avranno n questa partita politica? Io penso che Casini abbia ottime possibilità di superare lo sbarramento forse potrebbe avere anche un potere condizionante dopo le elezioni. Non alla Camera ma al Senato anche se il recente accordo di Berlusconi in Sicilia scongiura un pareggio. Se ci sarà comunque un ago della bilancia al Senato questo sarà Casini che avrebbe potere di condizionamento soprattuto verso il centrodestra, perchè in fondo, come ha sempre
detto resta quella la parte che sente più sua. Che idea si è fatto del divorzio tra Casini e Berlusconi? Fini è stato un alleato di Berlusconi più ligio e prudente rispetto a Casini. Il leader dell’Udc mordeva di più il freno. Ma non c’è solo questo. Casini ha più problemi con Bossi di quanti ne abbia Fini
«I laburisti di Gordon Brown, cui qualcuno del Pd si richiama, hanno una storia di socialismo, sindacalismo e nazionalismo alle spalle» il quale è convinto che Berlusconi tenga a bada la Lega. E guardi che tra Bossi e Berlusconi ci sono forti analogie: il populismo, la vena antipolitica. Lei ci crede alle larghe intese dopo il 13 aprile? La grande coalizione? Nemmeno se la vedo. Non è nella mentalità di Berlusconi rinunciare a quote di potere. Per quanto riguarda Veltroni non può permettersi una scelta del genere. Il suo elettorato, come quello berlusconiano, non capirebbe. Eppure negli ultimi due anni c’è
stata una serie di proposte reciproche di grandi intese. Berlusconi nel 2006 aveva perso. Quello di proporre la Grosse Koalition era solo un modo di rientrare in gioco. Nel caso di Veltroni agisce la stessa strumentalità: lui fa parte di un governo che ha fallito il suo progetto poltico. Chiede le larghe intese per prendere tempo, e per dimostrare di essere dialogante, interessato alle sorti del Paese prima che al potere. Pd e Pdl cercheranno di conquistare il centro, ma non sono partiti con identità di centro. In Italia non si esce dalle anomalie. Che ci fa con An, un partito molto vicino a politiche stataliste, un’imprenditore che parla a ogni piè sospinto di liberalismo e liberismo? Ma è un’anomalia anche il Pd che non si capisce se sia socialdemocratico o liberal. Non c’è nulla di simile in Europa. Dal punto di vista della scienza politica che tratti hanno i due nuovi soggetti del bipolarismo italiano? Pd e Pdl non hanno tratti definiti. Sono qualcosa in fieri, il cui esito identitario peraltro resta incerto. Quando Veltroni sente parlare di identità ricorre all’anatema, è ottocentesco per lui chi pone questo problema. Ma sono le culture politiche che rendono credibili i grandi partiti europei. I laburisti, cui qualcuno
nel Pd si richiama, hanno una storia di socialismo, di sindacalismo, di nazionalizzazioni alle spalle. Il Pd ora incassa un accordo solo tattico con la Cgil, ma con questa cultura ha rotto, e non si capisce in cambio di cosa. Beh, Veltroni guarda all’America, come i ragazzi di cui cantava Eros Ramazzotti L’America è una realtà incomparabile con quella italiana. Veltroni e il Pd possono fare la parodia dell’America. E infatti le primarie del Pd sono state in realtà elezioni per eleggere il presidente del partito. E la Pdl? Un’altro ircocervo? Berlusconi si definisce un fusionista di varie culture politiche. E in effetti dentro Forza Italia si trovano socialisti craxiani, post-democristiani ora anche i post-fascisti. Ma stanno insieme con la colla della sua leadership carismatica, non portano a sintesi di culture politiche diverse. A proposito di identità, per quanto ancora la biopolitica potrà stare fuori dal dibattito pubblico italiano? I temi della vita e della morte sono già nel senso comune della gente. È pazzesco non parlare di questo in campagna elettorale. Ma del resto come fanno partiti privi di una cultura politica robusta ad affrontare questi temi? Anche per dividersi ci vuole identità.
pagina 10 • 28 febbraio 2008
mondo
Il presidente Bouteflika incontra un gruppo di tuareg nel Sud del Paese
Dopo mesi di silenzio il presidente torna sulla scena. Con un obiettivo: un terzo mandato nel 2009
«L’Algeria è sicura solo con me» Bouteflika tenta il colpo grosso di Federica Zoja distanza di quattro mesi dall’ultima convocazione del Consiglio dei ministri, è tornato ieri a riunirsi il Gabinetto algerino, nei piani del presidente Abdel Aziz Bouteflika destinato a rilanciare le strategie politiche dell’attuale esecutivo. Fra gli argomenti in agenda, annunciati con enfasi, le riforme del sistema sanitario nazionale e di quello scolastico. Un contorno di spessore per valorizzare, sostengono i maligni, il piatto forte, ovvero la candidatura ad un nuovo mandato presidenziale, il terzo, che avrebbe inizio nella primavera del 2009.Tanto che solo sotto questa luce dovrebbe leggersi l’annuncio di Bouteflika che la quarta tornata del negoziato fra il Fronte Polisario e il governo del Marocco, prevista per il mese prossimo, possa portare a una soluzione politica che sancisca l’autodeterminazione del popolo del Sahara occidentale. È dall’attentato del 6 settembre scorso - che ha provocato la morte di oltre venti persone e il ferimento di un centinaio, nella città di Batna - che il presidente algerino ha scelto un profilo basso, comparendo in pubblico solo se strettamente necessario. Ma
A
sembra venuto il momento di riprendere in mano la situazione, spingendo anche su alcune modifiche costituzionali per rendere possibile il terzo incarico.
Gli osservatori politici del mondo arabo seguono con attenzione gli sviluppi dello scontro fra integralismo islamico e regime militare, di nuovo infiammato nonostante l’invito presidenziale a una riconciliazione
toritari del Nord Africa, retti da presidenti-imperatori in là negli anni ben oltre la sessantina, il pericolo destabilizzazione è dietro l’angolo. E il nemico numero uno in agguato è l’islamismo, locale o alleato con forze esterne, politico o invece armato. Per la rete di Osama Bin Laden, l’Algeria sembra rappresentare al momento un boccone più facilmente digeribile rispetto agli altri, grazie alla presenza sul territo-
Per al Qaeda il Paese è “affiliabile” alla rete grazie alla presenza sul territorio di mujaheddin locali con esperienza e contatti in tutto il Sahel nazionale. Nei mesi di aprile, luglio, settembre e infine dicembre, palazzi del potere, caserme, raduni e comizi sono stati presi di mira dal Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento algerino, una formazione terroristica affiliata ad Al Qaeda che sta “investendo” in Maghreb con crescente potere di fuoco. Un’escalation di cui hanno tenuto conto tutte le principali testate giornalistiche arabe a più riprese, nel 2007. Il motivo è semplice: per tutti i fragili regimi semi-au-
rio di mujaheddin locali con esperienza (dall’annullamento delle elezioni legislative del 1991, ndr) e contatti in tutto il Sahel. Al fianco di Bouteflika,dal 2001 si sono schierati apertamente gli Stati Uniti, nell’ambito della guerra globale al Terrore. L’appoggio di Washington non sembra in discussione, anche se rimangono alcune incognite: l’ingresso prepotente dell’Iran, vistosamente a caccia di relazioni politiche ed economiche proprio fra gli alleati della presiden-
za Bush, lascia perplessi gli esperti di mondo arabo e Medio Oriente. La cooperazione economica tra Algeri e Teheran si è intensificata soprattutto nell’ultimo biennio, con scambio di competenze e tecnologia in campo energetico.
Sul piano commerciale, il rafforzarsi delle relazioni diplomatiche ha già prodotto una crescita del 100 per cento, tra il 2006 e il 2007, degli interscambi. Mentre a breve, secondo quanto dichiarato dall’ambasciatore iraniano a Teheran Hussein Abdi Abyaneh, sarà inaugurata una linea aerea tra le due capitali, coperta dalla compagnia di bandiera Air Iran. Da ultimo, il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad si è recato in visita ufficiale ad Algeri alla fine dello scorso anno. Ma la stabilità della presidenza di Abdel Aziz Bouteflika non riposa - solo - sulle pressioni esercitate da alleati e nemici esterni. È l’equilibrio politico a mostrare evidenti crepe. Spingere sugli emendamenti costituzionali per consegnare al settantenne Bouteflika una terza presidenza potrebbe voler dire perdere alleati
anche all’interno della maggioranza e nel Paese, affatto desideroso di vedere ripristinato un potere dispotico. Sul fronte dell’opposizione, il numero uno del Rcd (Ragruppamento per la cultura e la democrazia, ndr) Said Sadi, si è detto contrario ad un terzo mandato a Bouteflika, auspicando la presenza di osservatori internazionali alle prossime elezioni del 2009. Il contesto economico non aiuta la compagine governativa. Non sembra soddisfare i lavoratori algerini la lettera indirizzata al loro sindacato, il più importante nel Paese, dallo stesso Bouteflika. Cogliendo l’occasione dell’anniversario della sua fondazione e di quello della nazionalizzazione dei giacimenti di petrolio e di gas, il presidente della repubblica ribadisce nella missiva gli sforzi per aumentare gli stipendi e contrastare l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità. A partire dal consiglio dei ministri, sotto gli occhi degli attori politici nazionali ed esteri, il presidente Bouteflika secondo indiscrezioni, malato di cancro dal 2005 - dovrà dare prova di avere ancora il controllo della situazione.
mondo
28 febbraio 2008 • pagina 11
La coppia presidenziale allarga “la base” del Partido Justicialista
L’Argentina peronista plasmata dai Kirchner di Oscar Piovesan
BUENOS AIRES. Dallo storico record di 716 partiti - quasi il doppio del 2001, quando esplose la più grave crisi economica e sociale degli ultimi decenni, sfociata nel que se vayan todos che aprì le caterrate dell’antipolitica, al duopolio in salsa argentina. È la sfida dell’ex presidente Nestor Kirchner. Che, fattosi succedere dalla moglie Cristina Fernandez, vuole riorganizzare ed istituzionalizzare il Partido Justicialista (Pj). Mettendo anche uno zampino nel campo dei tradizionali avversari, la Unión Cívica Radical (Ucr) - via via implosa dall’insipienza dell’ex presidente Fernando della Rua (1999-2001) che, fuggendo in elicottero dalla Rosada, diede la stura a quattro successori (tutti peronisti) in una settimana -, attraverso il vice della consorte, Julio Cobos, uno degli otto governatori Ucr, detti K, perché saltati sul carro del vincitore. Oltre a Cristina con le redini - e che redini! - dell’esecutivo ed un Paese al quinto anno consecutivo di crescita del Pil all’8/9 per cento - boom della soia venduta alla Cina e stimolo dei consumi alla Keynes -, Kirchner ha dalla sua il pragmatismo che, nel 2003, alla Casa Bianca, sintetizzò a Bush assicurandogli, in risposta al suo vanto, «sono di destra ma vado d’accordo con Lula che è di sinistra», «con me non ci sono problemi, sono peronista». Ma non è tutto in discesa. «Il peronismo non è mai stato un partito politico, se lo diventasse sarebbe un’assoluta novità», sostiene il sociologo Ricardo Sidecaro. Fondato da Perón, che ricorse allo Stato per avere dalla sua i grasitas meticci inurbati - di Evita e gli immigrati descamisados, dando loro un posto al sole e facendo inorridire tutti, comunisti filosovietici compresi, dopo la defenestrazione del leader nel 1955, il Pj si trasforma in un “movimento”, in cui settori contrastanti, pur affrontandosi, coincidono nel reclamarne il ritorno. Ottenutolo nel 1973, si scontrano a colpi di morti, in particolare dopo che il General caccia la guerriglia dei Montoneros (di cui Nestor e Cristina sono fiancheggiatori), utilizzata per i suoi fini. Poi, dittatura, sconfitta elettorale nel 1983 da parte del leader dell’Ucr, Raul Alfonsin e decennio di Carlos Menem che s’allea con la destra finanziaria e inginocchia settori popolari e medi, frammentano talmente il Pj da far-
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Israele-Gaza: 7 morti Sale la tensione tra Israele e Striscia di Gaza, controllata da Hamas. Sette miliziani di Hamas sono rimasti uccisi in raid aerei israeliani a Gaza. Lo riferiscono fonti locali. Ieri in mattinata è stato centrato un minivan: il bilancio è di cinque morti e due feriti. Nel primo pomeriggio uccisi altri due miliziani (più due feriti) mentre stavano lanciando razzi.
Venezuela, commando nell’arcivescovado Un commando di uomini, alcuni con il volto coperto, è entrato con la forza nell’edificio dell’arcivescovado di Caracas ordinando ad alcuni impiegati di andarsene. Lo ha riferito la tv venezuelana Globovision. Il commando sarebbe formato da simpatizzanti del presidente Hugo Chavez che vestono magliette rosse, baschi neri e camicie con riferimenti al leader argentino-cubano Ernesto “Che” Guevara. Il portavoce della Conferenza episcopale del Venezuela (Cev) ha confermato che il gruppo è entrato nell’edificio «in modo violento». Dopo aver rigettato le azioni della multinazionale statunitense ExxonMobil che ha fatto congelare risorse finanziarie appartenenti alla compagnia venezuelana Pdvsa, il comunicato chiede che si svolga un referendum popolare contro l’emittente Globovision, ostile al governo di Chavez. La crisi nella sede dell’episcopato avviene mentre il capo dello Stato ed il governo di Caracas sono impegnati nell’operazione di liberazione di quattro ostaggi colombiani.
Revisionismo politico all’inglese
Il presidente argentino Cristina Kirchner con suo marito Nestor, suo predecessore alla Casa Rosada
Sotto l’egida di una formazione “centroprogressista” il Pj apre a tutti, esclusi gli adepti di Menem. E punta alle larghe intese lo finire nelle mani di un giudice dal 2005. Per questo, ora, Kirchner - fallito il sogno di un partito trasversale, con settori di centrosinistra, con cui ha creato il Frente para la Victoria (il cartello elettorale di Cristina) e la Concertación Plural, con i radicali K - volta pagina. Con un panperonismo “centroprogressista”, in cui allinea tutti quelli che ci possono entrare, esclusi gli adepti dello zombie Menem. E poiché, come sottolinea il politologo Joaquin Morales Sola, «nel Pj ci si prostra davanti al potere e ai fondi», la meta non è lontana. Un colpo grosso è stato il ritorno all’ovile del suo ex ministro dell’economia, il peronista Roberto Lavagna. Lo stesso che ha fruttato all’antipolitico Mauricio Macri il governatorato di Buenos Aires. Kirchner ha allettato Lavagna perché la moglie ha pescato i suoi 8,3 milioni di voti quasi solo tra i ceti popolari, mentre l’ex ministro tra quelli medi. E ha imbarcato sulla
sua “arca di Noé”anche il peronista di destra Daniel Scioli, governatore della Provincia di Buenos Aires, per frenare sul nascere le intenzioni dell’opposizione di affiancarlo per le presidenziali del 2011 a Macri. Inoltre prosegue il dialogo con un settore Ucr che vorrebbe reincamerare gli espulsi della Concertación Plural, per far rinascere il partito dalle ceneri. Insomma un bipartititismo con partiti di stile europeo. E pensando a larghe intese. Magari anche con i socialisti: ai quali Nestor avrebbe confidato che pensa di affiliare il “suo”Pj alla loro Internazionale. Altre fonti dicono invece che abbia già ratificato l’appartenenza a quella democristiana. Kirchner, un «animale politico» (Cristina dixit) iperattivo che da decenni governa e procede come uno schiacciasassi, in attesa di farsi proclamare il 18 marzo presidente del neo Pj: nel suo bunker, 300 metri alle spalle della Rosada, riceve ogni giorno politici, sindacalisti e imprenditori. E, con autoritarismo da bastone e carota, con un Pj che, ineditamente, ha due leader che formano «un’affiatata coppia politica ultratrentennale» (una specie di Veltrusconi in famiglia), mentre l’opposizione ne ha solo di “mediatici”, convinto che il trend da vacche grasse non cambierà (l’Argentina produce tutto ciò di cui ha bisogno la Cina), sembra già star gestendo uno scambio di ruoli con la moglie nel 2011.
Il commissario britannico per l’Informazione, Richard Thomas, ha ordinato che il governo pubblichi i verbali relativi alle due sedute del governo di Tony Blair avvenute nel marzo del 2003 in cui venne decisa la partecipazione della Gran Bretagna alla guerra in Iraq: secondo il funzionario, quei documenti serviranno a fare luce sulle «incertezze e le controversie» che circondarono la decisione del Regno Unito di collaborare alla missione Usa, in modo da consentire ai cittadini di conoscere meglio le motivazioni della guerra. Il Consiglio dei ministri, ora, avrà 28 giorni di tempo per ricorrere in appello contro la decisione di Thomas.
Afghanistan, uccisi 2 cooperanti Usa? Cyd Mizell, cooperante statunitense 49enne, e il suo autista rapiti il mese scorso a Kandahar, nel sud dell’Afghanistan, potrebbero essere morti. A riferirlo è il sito della Fondazione per lo sviluppo della vita rurale in Asia (Arldf), per cui la donna e l’uomo lavoravano. «Sebbene non abbiamo conferme sulla loro morte», si legge sul sito, «negli ultimi giorni abbiamo ricevuto informazioni che fanno pensare che i nostri cooperanti siano stati uccisi». Tuttavia, la polizia e il governo provinciale di Kandahar non hanno rilasciato commenti sul caso.
Turchia, no al ritiro immediato La Turchia non intende ritirare le proprie truppe dal nord dell’Iraq fino a che non avranno smantellato le basi dei ribelli curdi. Lo ha detto ai giornalisti uno dei consulenti del primo ministro turco Erdogan dopo una serie di colloqui avuti a Baghdad con i leader iracheni. «Non c’e’ nessun piano di ritiro delle truppe dal nord dell’Iraq fino a che non sarà eliminata la presenza di questa organizzazione terrorista», ha detto il capo degli advisor della politica estera di Ankara, Ahmet Davutoglu, riferendosi al Pkk, il parito dei lavoratori curdi, inserita nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da parte della Unione Europea e degli Stati Uniti.
Cosa vuole Raul Castro? Commento di Rafael Rojas, storico cubano esiliato in Messico. «Il nuovo governo cubano sta seguendo la stessa ideologia di quello precedente, ma dispone di un capo, di uno stile, di un linguaggio e di una razionalità molto diversi. Al neo presidente del Consiglio di Stato cubano, Raul Castro, non interessa lo scontro con gli Stati Uniti, né l’alleanza con il capo di Stato venezuelano, Hugo Chavez, né il proselitismo ossessivo di Cuba in America Latina e nel Terzo Mondo. A Raul interessa invece ricostruire la legittimità storica del socialismo mediante la soddisfazione delle necessità basilari di una cittadinanza desiderosa, e forse timorosa, di cambiamenti».
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speciale università
Socrate
È demagogia parcheggiare migliaia di studenti all’Università senza far nulla perché non selezionati
CHI HA PAURA DEL NUMERO CHIUSO? di Luca Galantini e facoltà a numero chiuso, a cui si accede cioè solamente se si superano i test d’ingresso sono oramai giunte a comprendere un terzo dei corsi di laurea. Questi ultimi, dai 242 corsi che erano nel 2001 hanno raggiunto e superato il migliaio, frutto di una scelta autonoma conferita alle singole università onde garantire superiori e determinati standard qualitativi ai proprio studenti iscritti, evitando così tra gli altri il problema logistico del sovaffollamento delle infrastrutture. In realtà il fallimentare livello del sistema universitario, denunziato trasversalmente da studenti, docenti, istituzioni, e, last but non least, dal mondo del lavoro, evidenzia come qualsiasi ipotesi di intervento su mali che affliggono il sistema universita-
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de e velocissime trasformazioni socio-economiche determinate dal fenomeno della globalizzazione. Da questo breve e cupo affresco del trend generale in cui si troverà ad operare qualsiasi futuro governo, non è tuttavia impossibile individuare e dedurre alcuni punti fermi per un approccio didattico pragmatico alla irrinunciabile opera di riforma del sistema universitario che permetta un aggancio al binario del modello educativo prevalente in Europa. Superare il concetto di eguaglianza welfaristica per garantire l’eguaglianza delle pari opportunità di partenza. Uno dei più funesti lasciti dell’esperienza politica culturale del ’68 è stata l’introduzione di riforme istituzionali improntate al più becero demagogismo, alla faciloneria a buon mercato pur se finalizzata al superamento
I test di ingresso ormai riguardano un terzo dei corsi di laurea italiani rio italiano non possa fare a meno di considerare l’assoluta inidoneità del nostro sistema di formazione alle esigenze organiche, strutturali e funzionali di bene comune nel sistema-Paese. È pacifico che un Paese non in grado di condurre per mano la crescita di un sistema universitario moderno efficiente ed equo non solo crea un grave danno alle generazioni studentesche, ma ancor più lo crea a sé stesso, inispecie in un epoca di profon-
degli steccati di un’università elitaria che discriminasse l’effettiva partecipazione e fruizione di tutte le classi sociali alla formazione superiore ed all’accesso alle leve direttive della società civile. Numerosi leggi, a partire dalla liberalizzazione indiscriminata all’accesso alle facoltà universitarie, proseguendo con provvedimenti come la moltiplicazione ad libitum degli appelli d’esame, la generalizzazione dell’isti-
tuto dei fuori corso, l’abbassamento qualitativo e quantitativo delle discipline oggetto di studio, l’assoluta mancanza del concetto di competitività tra atenei che ha impedito agli stessi di realizzare una scrematura nell’acquisizione dei fondi di ricerca e nel reclutamento dei docenti più qualificati, evidenziano la totale mancanza in larga parte del mondo universitario italiano della consapevolezza di superare lo stantio ammuffito concetto di eguaglianza nella fruizione del sapere, che si basa sulla logica obsoleta e fallimentare, di chiara impronta storicistica materialistica, per cui gli studenti sono eguali se i beni di cui dispongono, non solo economici, ma lo stesso titolo di studio e le opportunità di sviluppo del proprio futuro professionale sono eguali. L’analisi dello sviluppo e della fruizione del sapere nelle società occidentali ci insegna viceversa che questo modello, da archeologia ideologica, di eguaglianza cosiddetta welfaristica in primis non solo non ha garantito la mobilità delle classi sociali e l’effettiva partecipazione delle stesse ai benefici di una più ampia distribuzione del sapere, ma ha soprattutto prodotto un grave gap nello scadimento qualitativo della formazione delle future classi dirigenti. Numero chiuso e competizione tra atenei. Di fronte ad un quadro così preoccupante, in cui le iniziative di governo di una sinistra pasticciona e statalista non si sono discostate di molto dall’inerzia del centrodestra, non può stupire che per realizzare un sistema più giusto, più funzionale, più attuale si debba dar luogo a pro-
Meritocrazia per gli allievi e forte competizione tra atenei: questa la ricetta poste provocatorie, provocatorie perché impopolari e contrarie a luoghi comuni del consociativismo politico, ma certamente improcrastinabili. Come afferma il Premio Nobel Modigliani, il modello tipico dei Paesi anglosassoni, ma oramai adottato anche in area europea, come in Scandinavia, Spagna, Ungheria, Cekia, al modello dell’eguaglianza da Welfare State contrappone il principio dell’eguaglianza delle pari opportunità di partenza, per cui tuti gli studenti, tutti i cittadini debbono essere posti in condizione di partenza eguali nella fruizione dei servizi dello Stato, istruzione in primis, per poi poter sviluppare capabilities, impegno, risultati in modo differenziato ma non per questo assolutamente immorale o iniquo. L’etica delle istituzioni elitarie, per cui si possa accedere alle stesse attraverso la base dei criteri di selezione e merito è assolutamente compatibile con l’accesso libero alla formazione e soprattutto ha il merito di permettere un percorso organico di premio dei più meritevoli, come la stessa Costituzione peraltro sostiene. È demagogia pura permettere che migliaia di studenti universitari siano parcheggiati senza far nulla perché non selezionati fin dal primo anno, perché non assistiti ed indirizzati secondo attitudini e merito verso il loro futuro professionale. Si badi, il problema non è nemmeno fi-
nanziario, perché nei Paesi anglosassoni la pratica di garantire agli studenti meritevoli ma bisognosi l’acceso alle linee del credito e del prestito finanziario tramite banche o fondazioni è la regola, non l’eccezione. In Italia viceversa, il monstrum giuridico dell’autonomia finanziaria delle Università determina che gli atenei facciano di tutto perché la gente non se ne vada, indipendentemente dal livello di rendimento, di compimento del ciclo di studi e di didattica fornita. È chiaro che la selezione e la crescita della formazione universitaria non si ottiene senza l’interazione tra studenti e atenei: la meritocrazia riguarda anche la forte competizione tra atenei che, se negli Usa, in Gran Bretagna, in Svezia è la regola, da noi è per ora è un flatus voci. La competizione tra atenei, nell’acquisizione non solo dei migliori o comunque più preparati docenti, ma anche nel rapporto con imprese e mondo del lavoro attraverso internships costanti è la cartina tornasole che garantisce una effettiva e concreta partecipazione democratica delle giovani leve universitarie nella società civile.
Docente di Diritto Internazionale Università La Sapienza e di Istituzioni Sociali Europee Università del Sacro Cuore
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Quale Riforma
UNA SVOLTA PER GLI ATENEI di Beniamino Brocca re più due uguale a zero», non è solo il titolo di un saggio un po’ abrasivo e un po’ inquietante, curato da Gian Luigi Beccaria, su «La riforma dell’Università da Berlinguer alla Moratti» ma è pure una sentenza per nulla scherzosa, sulla degenerazione del sistema. Nel volume si coglie una denuncia e un annuncio. Si denunciano le numerose amenità contenute nei provvedimenti legislativi varati dal Parlamento il cui impatto devastante, secondo gli autori, si coglierebbe nella patologica burocratizzazione: debiti, crediti, tirocini, moduli, master, stage… propri di una logica aziendalistica. E si annunciano i pericoli della prevalenza di un sapere tecnico e professionalizzante il quale condurrebbe ad un ulteriore appiattimento su un presente fin troppo pervasivo, a scapito di uno spessore culturale e di una coscienza storica quasi assopite. Non è difficile convenire con la tesi di coloro che vedono una società funzionante quando le persone «sono innanzitutto capaci di riflettere sul senso del proprio operare e di conseguenza sui casi della vita, sul destino dell’uomo di oggi e di ieri, sulle scelte fondamentali etiche e politiche». È tutto vero, ma come si spiegano, allora, le indagini dell’Ocse che collocano il nostro sistema di istruzione e di formazione agli
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ultimi posti nella graduatoria delle conoscenze scientifiche e matematiche? Una verifica e una valutazione di questo aspetto ci allontanerebbero assai dal tema oggetto della discussione. Ritornando pertanto, sull’argomento si può, da un lato ammettere un eccesso di pessimismo nel giudizio sul sistema universitario italiano presente in molti cultori della materia e da un altro lato rilevare una acuta miopia nella polemica che si infiamma sul modello del “tre più due”.
Il malessere dell’università non deriva solamente dall’impianto ordinamentale, ma da debolezze, carenze e opacità che vengono da lontano e che si manifestano puntualmente nei momenti cruciali della vita degli atenei. In altri termini, lungo i numerosi tornanti che l’università ha percorso nell’ultima metà del XX secolo si rinvengono delle anomalie accumulatesi nel tempo e che inducono tutti alla riflessione: lo statalismo asfissiante che pensa di codificare ogni mossa; l’asimmetria tra mondo reale e mondo universitario; il misconoscimento del valore della tradizione culturale in nome di un nuovismo, a volte, deleterio; la permanenza di un residuo di egualitarismo che mortifica ogni spiraglio di successo; lo stato di fibrillazione permanente generato da una situazione di perpetuo mutamento. In questo catalogo non sono comprese le irregolarità e le aber-
razioni più recenti e più eclatanti di cui si sono occupate le cronache quotidiane, quali le cattedre gonfiate con il trucco della doppia idoneità; l’addio della programmazione per effetto del panlocalismo per cui diventano difficili le scelte strategiche; la mancanza di risorse finanziarie con bilanci spesso fuori posto; i tassi alti di abbandono che sono il doppio della media dei Paesi industrializzati. Si capisce bene che non basta introdurre il cosiddetto “numero chiuso” per rimettere in corsa la macchina, un po’ fracassata e ferma ai margini della strada. Peraltro si comprendono bene anche le controindicazioni di una simile operazione che dovrebbe “agire” in una realtà determinata da una notevole percentuale di fattori qualitativi. Sembra necessario far proprio un principio proclamato da Mario Draghi nella sua lectio magistralis all’università La Sapienza di Roma, il 9 novembre 2006: «Una efficace politica dell’istruzione deve conciliare l’eccellenza con l’equa diffusione delle opportunità…». Su questa base poggiano alcuni presupposti che possono essere enunciati con dei wellerismi: la lotta per il progresso civile, economico e culturale si vince o si perde nelle aule universitarie; l’università è un corpo vivo che non sopporta trasgressioni avverse al suo ritmo di vita e al suo tempo di assimilazione; il premio al merito nell’università, è la regola d’oro
da praticare in quanto rende proficui l’insegnamento e l’apprendimento; solamente sopra un insieme di valori, vissuti negli atenei, si può costruire un ambiente educativo di istruzione e di formazione; l’ampliamento degli orizzonti dell’autonomia delle università va accompagnato da un rigoroso servizio di valutazione delle prestazioni; è giusto chiedere e dare più risorse economiche, ma è altrettanto giusto esigere e assicurare più efficienza e trasparenza nell’organizzazione universitaria; la professione docente si innesta nel ceppo antico dell’insegnamento rivolto all’apprendimento e si sviluppa nei rami nuovi della qualità pregevole degli atteggiamenti e degli atti; la costituzione di un patto nazionale tra le forze politiche per il potenziamento dell’università, in dimensione europea, è l’opzione dirimente per risolvere i problemi che assillano il sistema.
È nella nobile fatica di una mediazione tra realtà feriale e spinta ideale che occorre evitare interventi sull’università portatori di confusione, di sconforto, di disagio, apprestando invece un clima di serenità, di cooperazione e di responsabilizzazione. Sono, pertanto, da cancellare propositi di azzeramento e di discontinuità con il passato, limitandosi ad apportare alcune rivisitazioni migliorative che affermino la missione assegnata all’università e, quindi, specifichino la sua natura
in quanto incidente sullo stato giuridico dei docenti e sulle condizioni degli studenti; che ripensino, senza stravolgimenti, l’assetto strutturale dell’università, oggi bersaglio di molte critiche; che sostengano il rilancio degli atenei che arrancano nelle zone basse delle graduatorie, rimuovendone le cause; che incentivino la funzione di ricerca che rende eccellente ed efficace il compito della didattica; che elevino il rendimento della docenza mediante la individuazione di canoni che assicurino il successo dell’attività magistrale; che motivino i docenti, con adeguati provvedimenti, ad accrescere la produzione scientifica, a intensificare l’azione di tutoraggio, a presenziare alla vita degli organi collegiali; che regolino la progressione della carriera legandola al superamento di rigorose procedure di verifica, sulla base di indicatori oggettivi; che pongano, infine, rimedio alla contrazione del numero dei neolaureati che fanno il loro ingresso nel mondo del lavoro. Sarebbe estremamente utile aprire su questi temi un dibattito nel Paese e convocare una sessione straordinaria del Parlamento per trattare i problemi dell’università in un confronto aperto e costruttivo finalizzato a trovare punti alti di incontro da codificare in una charta degli atenei.
Responsabile Scuola e Università dell’Udc
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speciale educazione
Socrate
Per cambiare davvero ci vuole una legge semplice
La rivoluzione in tre articoli di Luca Codignola n questa campagna elettorale tutti accennano all’università, ma nessuno sa che cosa dire. Il futuro programma di Silvio Berlusconi sembra andare nella direzione della maggiore autonomia degli atenei e nella logica della libera competizione. Un po’vago, almeno per ora. Pier Ferdinando Casini sembra indicare nel merito la soluzione di tutti i mali, ma anche qui siamo nel generico: chi è che oggi si dice contrario a quella che, con pessimo neologismo burocratese, viene chiamata “premialità”? Il problema non è se premiare, ma come farlo. Quanto a Walter Veltroni, oltre all’ormai ovvia valutazione per merito, il nostro ha per sua sfortuna fatto una proposta concreta: cento nuovi campus entro il 2010.Visto il risultato, forse era meglio che il leader del Partito Democratico stesse zitto e tralasciasse di fare dellistruzione superiore uno dei dodici punti del suo programma. In primo luogo, Veltroni dimentica che una delle poche critiche motivate a Letizia Moratti, ministro della Ricerca e dell’Istruzione Universitaria dell’ultimo governo Berlusconi, era stata quella della proliferazione incontrollata delle sedi universitarie in assenza di risorse. E probabilmente, avendo in testa i
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campus americani che ha visto al cinema, non si rende conto del fatto che campus vuol dire aule, dormitori, palestre, piscine, laboratori, ristoranti e biblioteche, tenute in piedi da uno stuolo di lavoratori precari. E lo vuole fare in tre anni?
La realtà è che nessun leader politico ha voglia di mettere mano a un sistema universitario quale quello italiano che è ormai inguaribile e sul quale nessun compromesso è più possibile. La magica ricetta dell’introduzione del merito si rifà a una mitica età dell’oro pre-Sessantotto in cui l’università non era di massa e si laureavano soltanto i bravi e gli studiosi. In realtà, se qualcosa di buono ci fu nell’analisi sessantottina dell’università, questo fu proprio l’aver provato che la selezione scolastica e universitaria avveniva sulla base della classe sociale di appartenenza, indipendentemente dalle capacità e dall’applicazione del singolo studente. Purtroppo la massificazione dell’università post-sessantottina non ha scalfito (meno che mai in Italia) la natura classista di tale selezione, e anzi, abbassando ai minimi termini la qualità dell’istruzione offerta agli studenti, ha impedito ancor più di prima ai
LETTERA DA UN PROFESSORE
I “DIGITAL NATIVE” SONO ANALFABETI. PURTROPPO di Giancristiano Desiderio professori, tutti i professori, fanno parte della generazione “Gutenberg native”. Gli alunni, tutti gli alunni, fanno parte della generazione “digital native”. La prima generazione è nata, cresciuta e formata con i libri, la televisione, la radio, il cinema. La seconda generazione - i nati dopo il 1985, ma qui il dibattito è aperto e per l’Italia vale, forse, l’anno 1996 - è cresciuta e si sta formando con il computer, Internet, telefonia mobile. Qual è la differenza tra la prima e la seconda generazione? La passività della prima e il protagonismo della seconda. Il “Gutenberg native” per eccellenza è il telespettatore. Il “digital
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native”è il “navigatore”. La incomunicabilità - sempre che ci sia incomunicabilità - tra professori e alunni si deve al fatto che appartengono a “generazioni tecnologiche” diverse, a mondi formativi opposti? Prendo la differenza e la stessa “coppia” di “Gutenberg native” e “digital native” dal libro di Paolo Ferri “La scuola digitale”, edito dalla Bruno Mondadori. L’analisi che l’autore fa delle nuove generazioni e dei loro processi di apprendimento, rappresentazione, conoscenza è a dir poco entusiasta. Il mondo cambia - dice l’autore - è bene che cambi anche la scuola: via le classi, sì agli open-space, avanti con le classi
virtuali. E’ un’idea, magari funziona. Però, voglio avanzare un però. C’è un altra differenza tra i “Gutenberg native”e i “digital native”: i primi sanno leggere, i secondi no. Intendo dire proprio ciò che ho detto: gli alunni delle scuole italiane di secondo grado non sanno leggere. Sanno usare benissimo il telefonino, sono dei draghi con Internet, sono svegli con iPod ma se mettete loro un libro in mano balbettano. I “digital native”sono analfabeti. Nella scuola virtuale del futuro la lettura sarà ancora un valore e uno strumento di crescita, conoscenza e apprendimento o sarà un ferro vecchio da lasciare alle ortiche?
Non è in gioco l’uso o la presenza del computer a scuola, bensì la consapevolezza che la tecnologia può anche modificare la formazione ma non può sostituirsi al rapporto tra maestro (sia concesso usare questa bella parola) e alunno. In fondo, il lavoro del maestro - e quello dei professori - è quello o dovrebbe essere quello di insegnare a“leggere” il mondo per consentire poi ai ragazzi di poter continuare tutte le “letture” che si desiderano. Ma ciò che manca ai“digital native”, per quanto siano attivi e “navigati”, è proprio una capacità di leggere nel “gran libro del mondo”. Purtroppo.
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zioni sociali, così il passaggio dal nostro sistema universitario attuale a quello del futuro richiederà una fase di aggiustamento e di rimodulazione a tutti i livelli. (Non che questo ci spaventi: da anni le università italiane sono impegnate da una parte a sopravvivere all’assenza di risorse, e dall’altra ad adeguarsi continuamente all’imposizione di regolamenti ministeriali il cui essere contraddice lo spirito stesso della tanto sbandierata autonomia universitaria.) Nella fase di transizione, bisognerà dunque insistere su alcuni, pochi elementi che qualificheranno l’intero percorso. Per quanto riguarda gli studenti, prove di ammissione e avvicinamento tendenziale delle rette ai costi reali, ma anche un sistema di borse di studio e di prestiti d’onore rivolto ai più meritevoli, di qualunque provenienza sociale, che identifichi nello studente un adulto autonomo e non un "giovane" eternamente a carico della famiglia di provenienza. Per i docenti, assunzioni o dismissioni sulla base di contratti privatistici che aboliscano la finzione giuridica del concorso. Circa la governance, separazione delle figure del docente e dell’amministratore (per intenderci: chi sceglie di fare il preside esce dal personale docente), e rimodulazione del sistema democratico-assembleare oggi vigente. Sui finanziamenti, accesso combinato a fondi statali, regionali ed europei, in presenza di una politica governativa volta a coinvolgere le fondazioni bancarie e a defiscalizzare donazioni e contributi provenienti dalle imprese e dai privati.
figli delle classi meno abbienti di proporsi come "migliori" e di superare, per loro unico merito, coloro che erano nati in ambienti più fortunati di loro.
Che i leader politici non vogliano affrontare il problema in campagna elettorale è dunque comprensibile. Ma quando i giochi saranno fatti e si troverà di fronte al nodo dell’università, il nuovo governo dovrà scegliere da che parte andare. Una strada è quella seguita finora da tutti i governi precedenti (con la parziale eccezione del recente mandato Moratti), quella del piccolo cabotaggio tra spinte corporative, abitudini inveterate, proclami di principio, normazione selvaggia e riformine inapplicate. I risultati sono da tempo di fronte agli occhi di tutti: i giovani bravi, studenti e studiosi, scappano all’estero; i docenti sono sempre
Via il valore legale della laurea Autonomia generalizzata Abolire il ministero dell’Università meno motivati; la ricerca perde competitività; le nostre università sono il fanalino di coda del mondo occidentale. L’altra strada è quella di una inversione completa di rotta. Così come fecero i rivoluzionari francesi la notte del 4 agosto 1789 quando di punto in bianco abolirono il regime feudale e la venalità delle cariche, così ci piacerebbe che il nuovo governo avesse il coraggio di approvare una legge fatta di tre articoli soltanto: 1. È abolito il valore legale di ogni titolo di studio di livello universitario; 2. Ogni università
organizza autonomamente l’insegnamento, la ricerca, il reclutamento dei docenti, l’ammissione degli studenti, il suo governo e il suo finanziamento; 3. Il Ministero dell’Università e della Ricerca è abolito; le sue competenze passano alle singole università e al Consiglio Nazionale delle Ricerche. Non è un’utopia. Si può fare (come è di moda dire oggi). E comunque vale la pena di cominciare. Siamo peraltro ben consci del fatto che, così come un conto fu abolire su carta il regime feudale e un altro fu creare un nuovo modello di rela-
Il modello che proponiamo, come sarà apparso ovvio, è quello dell’università e della ricerca di stampo anglosassone (ma per molti spetti adottato anche dai paesi del Nord Europa), i cui risultati hanno da tempo provato non tanto la sua superiorità assoluta, quanto soprattutto la sua adattabilità al mutamento delle richieste provenienti dalla società. Ma il favore con cui guardiamo a quel modello ha un’ulteriore motivazione. Chiunque abbia frequentato quelle università sa che il loro cuore pulsante è la biblioteca. Al ritorno in Italia, tutti deprechiamo la disorganizzazione, l’inefficienza e lo spreco rappresentato dai nostri sistemi bibliotecari di ateneo. Eppure quando immaginiamo il futuro dell’università italiana e ci rompiamo la testa a inventare proposte normative di lungo e breve periodo, della biblioteca ci dimentichiamo. Ma come si può raggiungere quel famoso "merito", nello studio e della ricerca, a cui tutti aneliamo e che ci viene proposto come ricetta salvifica dai leader politi-
ci, se poi non rimodelliamo quello strumento fondamentale della conoscenza umana che è il patrimonio librario? Chiariamo bene di che cosa stiamo parlando. Ogni università americana (ma anche canadese, inglese, etc.) ha una biblioteca centrale (a volte c’è una distinzione tra biblioteca umanistica e biblioteca scientifica) dove sono depositati tutti i libri, le riviste e i supporti informatici, e nella quale operano decine se non centinaia di bibliotecari e amministrativi di vario livello. Gli scaffali sono sempre aperti, cioè il libro uno se lo va a prendere per conto suo, magari scoprendone altri di cui non conosceva l’esistenza sistemati a fianco del libro che già ci è noto. Si possono prendere e consultare quanti libri si vogliono. Per evitare errori di collocazione, si proibisce agli utenti di rimettere a posto il libro da sé. Si possono portare a casa, in prestito, una quantità sterminata di pezzi. Gli orari di apertura arrivano alle venti ore al giorno, sabato, domenica, feste comandate ed estate inclusi. Ci sono terminali e fotocopiatrici dappertutto. Non stiamo parlando oltanto delle celebrate Harvard University e University of Toronto, ma di tutte le università, grandi e piccole, famose e sconosciute. C’è bisogno di ricordare che cosa succede da noi? Biblioteche di ateneo, di facoltà, di dipartimento, di istituto, con libri e riviste sparsi dappertutto, in sedi fisicamente distanti tra loro e che hanno orari diversi. Orari di apertura ridicoli, spesso soltanto qualche giorno alla settimana, mai nei fine settimana o nelle vacanze. Limitatissimo numero di libri in prestito. Personale insufficiente. Terminali e fotocopiatrici in numero ridottissimo (quando ci sono). E, spesso, biblioteche cosiddette "universitarie" ma che in realtà dipendono non dall’università presso la quale alloggiano, ma dal Ministero dei Beni Culturali, quindi con enormi difficoltà di integrazione con la rete propriamente universitaria. Certo, in assoluto il patrimonio librario può anche essere potenzialmente di prim’ordine, ma la fruzione di tale patrimonio è ridicolmente bassa. Insomma, se uno vuole fare uno studio di letteratura italiana, è meglio che vada appunto a Harvard o a Toronto, dove ha tutto sottomano e in una settimana fa quello che farebbe a Roma o a Firenze (per non parlare di altre sedi ben meno fortunate) in tre mesi. Ma il tema delle biblioteche meriterebbe un articolo a parte tanto è importante. Come si fa a parlare di riforma universitaria senza parlare di libri?
Docente Università di Genova
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speciale educazione
Socrate
la recensione
La cronica mancanza di strutture rende impossibile l’applicazione di qualsiasi riforma
Lontana dagli studenti dominata dalle “caste” di Paolo Di Caro i salvi chi può. Il cartello, idealmente appeso all’ingresso di ogni Ateneo italiano, è un misto di speranze deluse e aspettative ancora accese, delusioni e promesse. Né meritocratica, né selettiva, la nostra Università somiglia al Paese reale: confusa, furba, sospesa in un limbo fatto di baronaggi e nepotismi, dominata dalle “caste”, distratta e lontana dalla comunità studentesca. Al capezzale della cittadella dell’istruzione si sono avvicendati medici illustri e consulenti con pretese da intellettuali, senza riuscire a cavare il cosiddetto ragno dal buco. Puntiamo i riflettori sul mondo studentesco e scopriamo una realtà nella quale i luoghi comuni fotografano la triste realtà: esamificio sovraffollato, code per la mensa, per gli alloggi, per gli esami, per le lezioni; strutture spesso inadeguate e fatiscenti sono la “regola”, fra riforme introdotte e sperimentazioni infinite. Cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non è cambiato.
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schieramento della Sinistra ufficiale la divaricazione fra“grandi”e“piccoli”è invece nettissima. L’UdU, organizzazione leader degli universitari della rive gauche respinge aprioristicamente l’idea della selezione degli accessi, difesa e promossa dai leader dell’attuale Partito Democratico, giudicandola «irrispettosa del Diritto costituzionale all’istruzione per tutti». Ricorsi, carte bollate, fiumi di inchiostro e di parole. Non siamo nel 1541 e non lo pronuncia Carlo V, ma siamo ancora all’epoca dell’Estad todos caballeros… Le sorprese, però, non mancano neppure sulla sponda Destra.
Giorgia Meloni: «Gli atenei non possono essere solo esamifici» Anche la panacea di tutti i mali, il numero chiuso o programmato, risente dell’atavico vizio italico di trovare l’inganno prima di fare la legge. Andiamo con ordine. Passata l’ordalia “contestataria” degli anni ’60 e ’70, quella del“sei politico” e delle lauree per tutti, la ricerca trasversale di una soluzione al problema del sovraffollamento degli Atenei ha provocato, a destra come a sinistra, una serie infinita di folgorazioni sulla via di Damasco: da Zecchino a Berlinguer, dal “cinese” Mussi fino ai maître a pénser della Sinistra accademica, dal premio nobel per l’Economia Modigliani all’esteta Zecchi tutti insieme appassionatamente hanno sostenuto, per ragioni e con modalità diverse, l’opportunità di limitare gli accessi ai Corsi, per migliorarne la qualità e razionalizzarne il metodo, in una frenesia meritocratica piuttosto tardiva, dopo i guasti del permissivismo assoluto e del “vietato vietare”. È stata davvero la soluzione? L’Università italiana è diventata “sinceramente” meritocratica? Lo chiediamo agli studenti e scopriamo quali oceani separino il dire dal fare. Favorevoli tout court gli studenti di Forza Italia e dell’Udc, così come quelli della galassia “cattolica”, sia di centro destra che di centro sinistra. Nello
Ti aspetti la mannaia giustizialista e il desiderio irrefrenabile di selezionare tutto e scopri invece una posizione più articolata e dubbiosa. La riassume Giovanni Donzelli, leader di Azione Universitaria: «Siamo filosoficamente contrari al numero chiuso, perchè preferiremmo una selezione durante il corso di studi piuttosto che la lotteria dei quiz psico-attitudinali e le domandine di cultura generale. Pragmaticamente, però, ci rendiamo conto che eliminare il numero programmato in una Università carente di strutture, povera di aule studio e laboratori finirebbe con il penalizzare i più svantaggiati». Ecco la chiave del problema. Gli alchimisti delle Riforme e i Torquemada con le parrucche e le toghe, sospesi fra decisioni illuminate e spirito inquisitorio, hanno dimenticato che senza farina è difficile fare il pane, anche se stabilisci gli orari di apertura e chiusura dei forni. La cronica mancanza di strutture adeguate rende impossibile l’applicazione di qualunque riforma e impedisce una
valutazione seria delle carriere universitarie, così il test d’accesso ad alcune facoltà a numero programmato diventa il biglietto vincente della lotteria di capodanno. Primo premio: la Laurea.
L’unica selezione è quella iniziale, poi la meritocrazia va a farsi benedire, insieme ai buoni propositi. Gli studenti rumoreggiano, da Trento a Siracusa, ma mica tanto. L’Italia è fatta così e l’Università non si smentisce: i Ricercatori assunti per diritto divino, le progressioni di carriera frutto di regole misteriose e antiche come il mondo, le raccomandazioni imperanti prima, durante e dopo, scandali per i quiz d’accesso compresi, fra buste aperte, commissioni preconfezionate e “tirare a campare”. Una proposta, che finirà anche nel futuro programma elettorale, la lancia Giorgia Meloni, Vice Presidente della Camera e leader dei giovani di Alleanza nazionale, e si chiama Progetto Campus. «L’Università non può rappresentare semplicemente un esamificio spersonalizzante e scollegato dalla realtà. L’esperienza di altri Paesi, nei quali i Campus universitari diventano un punto di riferimento per la Comunità studentesca e soddisfano pienamente le esigenze abitative, formative e ricreative degli studenti, deve diventare realtà anche in Italia, dove si spendono milioni di euro per Riforme dalla difficile applicazione e non si investe un centesimo per cambiare strutturalmente l’Università italiana». Basterà? Forse. L’unica certezza è che a cambiare dovrà essere prima di tutto la mentalità. Pensate davvero che l’Università nella quale i docenti sono spesso artefici, complici e vittime di un sistema per nulla meritocratico abbia come primo interesse quello di selezionare i propri studenti? Ci pensino i politici, direte. Certo, a patto che abbiano letto La Casta…
Se il sapere è ormai altrove di Domenico Sugamiele ella situazione attuale gli schemi politico-pedagogici che spesso si utilizzano nella discussione sulla riforma della scuola segnano un forte distacco con la natura stessa della società. Lo iato tra la scuola e la realtà giovanile, determinato dal moltiplicarsi delle fonti di informazione e dei luoghi di produzione della conoscenza, è tanto forte da smentire sia le forme pedagogico - organizzative tradizionali sia le forme dedotte da un generico pedagogismo dell’accoglienza. Un processo di cambiamento che, secondo Raffaele Simone, ha modificato profondamente il modo in cui si alimenta il patrimonio del sapere che ci colloca in una “Terza fase”della «storia del conoscere». «Il libro non è più l’emblema unico, e forse neanche il principale, del sapere e della cultura». Una fase in cui ritorna a prevalere l’intelligenza simultanea – la visione per immagini (televisione, computer, ..) - rispetto all’intelligenza sequenziale- quella che usiamo per leggere-. La prima opera su dati simultanei e quindi ignora il tempo; la seconda opera sulla successione degli stimoli e li dispone in linea, analizzandoli e articolandoli. Si tratta del rovesciamento del processo che aveva portato l’uomo dall’intelligenza simultanea (prima fase: parlato e primi segni di scrittura) a quella sequenziale (seconda fase: stampa e diffusione del libro). «Stiamo tornando, cioè, ad una dominanza dell’orecchio e della visione non-alfabetica, e le giovani generazioni sono all’avanguardia di questa migrazione a ritroso». Il testo di Simone offre spunti di riflessione che non possono essere sottovalutati nel processo di riforma anche perchè la crescente asimmetria tra scuola ed extra scuola, intese come fonti formative, e l’evidente contrasto tra la staticità e la lentezza della prima e il dinamismo della seconda pongono problemi nuovi per l’organizzazione della didattica. Parrebbe, infatti, che «la scuola, invece di essere il luogo dove la conoscenza si trasmette e riceve una sua prima elaborazione, sia il rifugio nel quale ci si rinchiude per essere protetti dalla conoscenza, dal suo accrescersi». La conoscenza circola soprattutto nel mondo esterno e, tuttavia, si tratta di una conoscenza labile, di diversa qualità «rispetto a quella che potrebbe conferire la scuola. La conoscenza raffinata rimane chiusa nei luoghi in cui viene formata e protetta». Se la scuola di massa vuole rimanere il luogo dove si crea la conoscenza evoluta e rimanere in una posizione essenziale nel processo educativo deve superare l’attuale stato di passività e prendere coscienza che non solo non è più l’unica agenzia di diffusione del sapere iniziale ma forse neanche la più importante. Raffaele Simone La Terza Fase. Forme di sapere che stiamo perdendo Laterza, Bari, 2002
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
Il conflitto d’interessi degli enti locali nei servizi: committente, fornitore e regolatore a scapito della qualità
All’assalto delle Iri locali, ultima foresta da privatizzare di Alberto Mingardi er quanto ne sappiamo finora, nei due programmi elettorali delle forze maggiori politiche non manca un riferimento alla necessaria liberalizzazione dei servizi pubblici locali. È un bene e anche una sorpresa, perché, nella scorsa legislatura il tentativo giusto del ministro degli Affari regionali, Linda Lanzillotta, non era andato lontano: finendo prima annacquato nel dibattito parlamentare, e poi di necessità passando in cavalleria.
P
Passare dalle parole ai fatti non sarà facile neanche questa volta. La battaglia per la liberalizzazione dei servizi locali (per esempio, del trasporto pubblico locale) è destinata a suscitare una reazione che forse neanche l’articolo 18. Ugo Arrigo (economista dell’università di Milano Bicocca) ha rilevato che i costi del trasporto pubblico locale ammontano a ben 7 centesimi per posto a chilometro offerto: il doppio che nel caso di Ryan Air, e poco meno che in quello di Alitalia. Con la significativa differenza che in questo caso non ci sono aerei né piloti, e pertanto apparentemente i costi dovrebbero essere assai più sotto controllo. Se così non è, significa che le sacche di inefficienza sono tali che effettivamente il cittadino-contribuente-consumatore potrebbe trarre da un’apertura al mercato immensi vantaggi. Così come pure in altri campi. Pensiamo alla privatizza-
zione delle municipalizzate in ambito energetico. È vero che ai Comuni fanno gola i dividendi da poter incassare o la possibilità di spartirsi posti in consiglio d’amministrazione e altri strapuntini di sotto-governo, anzi di sotto-governance. Ma, al netto delle pretese delle camarille, la privatizzazione potrebbe portare due risultati importanti. In primo luogo, si potrebbero recuperare risorse che possono andare a colmare il debito degli stessi enti azionisti, liberando i contribuenti da un fardello che sono destinati a portare avanti nel tempo. In secondo luogo, si otterrebbe la doverosa
tra della “neutralità” dell’Unione europea rispetto alla proprietà, pubblica o privata, come pillola per addolcire la medicina della liberalizzazione. Purtroppo, però, la privatizzazione non può essere un evento separato, o un effetto collaterale, della liberalizzazione. Finché il pubblico interviene direttamente in un settore, che incentivo ha ad accettare le regole di mercato e a farle rispettare con rigore?
Bisognerebbe liberalizzare quando si privatizza (per non cedere al privato una rendita). Ma l’amara verità è che è
Aprire il capitale delle ex municipalizzate permetterebbe ai Comuni di tagliare il debito, aumenterebbe la concorrenza e ridurrebbe i costi impropri. Altrimenti sarà difficile liberalizzare separazione fra fornitore di un servizio, committente e regolatore.
L’opacità a livello locale significa automaticamente il passaggio in secondo piano dell’interesse concreto – ma tanto poco visibile – dei singoli e delle singole famiglie, che inevitabilmente l’ombra dei pretesi diritti del pubblico finisce per sovrastare. Il fatto che Pd e Pdl sembrino d’accordo, sul problema, va preso allora come un dato positivo. Ma con tre caveat. Intanto ai politici piace ripetere il man-
difficile che si liberalizzi, se prima non si è privatizzato. In secondo luogo nessun Comune è un’isola. E sappiamo bene che genere di contrattazioni si stabiliscano fra centro e periferia: sia quando il colore dei governanti è il medesimo sia quando è diverso. Ci teniamo il legittimo dubbio che Pdl e Pd vogliano attirare l’attenzione su un livello di governo più basso, per dire che è lì che bisogna agire (il che è vero), e dunque che sul piano nazionale tutto va bene così com’è (che non è vero). Che credibilità avrebbe, del resto,
un esecutivo che mettesse le mani in pasta nelle municipalizzate, ma fermasse (per esempio) la privatizzazione di Alitalia? O arroccasse le rimanenti grandi imprese pubbliche e para-pubbliche, con l’obiettivo fuori tempo massimo di farne dei campioni nazionali? Ciò che vale a Milano (a Torino, a Bologna) deve valere anche a Roma. Ecco un principio di disarmante semplicità, ma che scardinerebbe di per sé il grosso della nostra politica. Infine non è importante soltanto che si privatizzi, ma anche “a chi”. Soprattutto nel Pdl, la tendenza che pare emergere dalle prime discussioni programmatiche è quella di una chiusura nei confronti della globalizzazione e dello scambio internazionale.
L’apertura è essenziale anche quando si parla di municipalizzate. E non soltanto perché sarebbe un suicidio politico chiedere ai tranvieri di pagare pegno alla liberalizzazione, scontandone i piloti Alitalia. Soprattutto, perché l’esperienza ci impegna che le privatizzazioni sono una grande occasione per imparare da quanti – nel mondo – si sono specializzati e si sono dimostrati efficienti nel fornire un certo servizio. L’ingresso di capitali e imprese estere è un arricchimento per noi tutti e una garanzia per il consumatore. Vediamo di non dimenticarcene, neanche in campagna elettorale.
economia
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Pronta la circolare di Bankitalia sull’organizzazione degli istituti bancari
Draghi mette ordine in governance e stipendi di Alessandro D’Amato
ROMA. Le banche attendono le novità per l’inizio della prossima settimana. Ma forse potrebbero arrivare già domani. Perché è finalmente pronto il testo definitivo del documento di Bankitalia sulla governance degli istituti bancari, compresi quelli che adottano il sistema duale introdotto dalla riforma Vietti, caratterizzato dalla presenza di consiglio di sorveglianza e di uno di gestione. La linea, nonostante le pressioni degli istituti e dell’Abi, è quella ribadita da Mario Draghi al Forex: una decisiva stretta, che toccherà soprattutto i rapporti incrociati nella catena di controllo di Mediobanca-Generali. Il documento è destinato anche agli istituti governati con il “vecchio” sistema monistico, di conseguenza sarà concessa una qualche forma di flessibilità a livello di banche minori. Ma più in generale si ribadirà l’attenzione su controlli e procedure di delibera, con richieste di maggior rigore e trasparenza. E in sede di circolare si prevederà che gli oneri a carico degli istituti minori saranno in ogni caso inferiori. O meglio, proporzionati alla loro dimensione. L’altro punto sul quale il documento si concentrerà saranno i trattamenti economici di manager e dirigenti. E qui, probabilmente qualche polemica nascerà: Bankitalia dirà infatti basta alle forme indisciplinate di aggancio dei trattamenti economici e degli stipendi agli utili e agli altri parametri finanziari o
Palazzo Koch vieterà sovrapposizioni tra consiglio di gestione e organo di sorveglianza e limiterà le maxi remunerazioni borsistici (come per esempio le stock option). Una prassi che nel tempo ha portato disequità nelle remunerazioni, rischi per l’attività deliberativa e, in qualche caso, errori strategici di gestione. Palazzo Koch auspicherà quindi un indirizzo restrittivo, anche se molto
probabilmente questo sarà fondato sulla moral suasion. Sperando che, visto che ha già funzionato in altri casi, dia gli effetti voluti. Ma il punto clou è la netta distinzione tra i ruoli del consiglio di sorveglianza e quello di gestione. Nonostante le pressioni arrivate nel tempo, è confermato che il presidente del primo non potrà assistere alle riunioni dell’altro: una regola che colpirà Bazoli in Intesa come Geronzi in Mediobanca, Fratta Pasini nel Banco Popolare come Trombi in Ubi Banca. La stessa regola varrà per i cda delle controllate e delle partecipate? Questo è il punto sul quale c’è ancora qualche incertezza. Non tanto sul principio, che dovrebbe essere accettato, ma sui paletti da mettere: via Nazionale sarebbe orientata a confermare il “no”alle controllate, e a intendere come “partecipate” quelle con almeno il 10 per cento del capitale e nelle quali la “partecipante” può eleggere gli amministratori. E questo metterebbe fine alle supposte ambizioni che, per qualcuno Geronzi avrebbe coltivato sulla vicepresidenza delle Generali. Però, sul punto i tecnici sono ancora al lavoro perché Draghi vuole che le motivazioni siano dettagliate e inattaccabili da tutti i punti di vista. Una scelta che, secondo Bankitalia, ascolta le istanze del mercato, il quale chiedeva trasparenza nella governance del Leone. Ma che non mancherà di suscitare qualche polemica.
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Mps-AntonVeneta, i dubbi dell’Antitrust Dopo i dubbi del mercato sul prezzo e sulla solvibilità del merger, ora Giuseppe Mussari deve far approvare l’acquisto di AntonVeneta anche dall’Antitrust. L’authority ha avviato un’istruttoria perché, si legge in una nota, «l’operazione è suscettibile di determinare la creazione o il rafforzamento di una posizione dominante su diversi mercati relativi al settore della raccolta bancaria, degli impieghi, della distribuzione di fondi comuni di investimento». Si temono trust anche nella distribuzione di prodotti assicurativi vita, «tale da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza».
Inps: in frenata le pensioni di anzianità Tendenze sempre più sostenibili nelle dinamiche pensionistiche. Il presidente dell’Inps, Giampaolo Sassi, ha fatto sapere che «nel 2007 le pensioni di anzianità sono risultate in frenata molto più rispetto alle nostre previsioni». Buone notizie anche per l’anno in corso. «Prevediamo», ha aggiunto Sassi, «che il trend sarà confermato anche nel 2008». Intanto il presidente della Covip, Luigi Scimia, si è detto soddisfatto del livello di adesione ai fondi pensione: «Alla fine del 2007», ha spiegato, «il numero complessivo degli iscritti alle forme pensionistiche complementari supera il 4,5 milioni con un aumento di oltre 1.400.000 unità, pari al 43 per cento rispetto al corrispondente dato di fine 2006».
Generali si difende: nel 2007 utili record Generali ha chiuso il 2007 con utile netto superiore al target previsto dei 2,8 miliardi di euro. Lo ha annunciato l’amministratore delegato del Leone, Giovanni Perissinotto. «Visti i risultati non credo che ci saranno molti azionisti non soddisfatti». Un riferimento alle voci di una terza lettera di lamentele da parte di investitori istituzionali, dopo quelle di Algebris e di Franklin Templeton.
Bce: timori per prezzi materie prime Bce in allarme per l’agflation. «L’aumento del costo delle commodities, in primo luogo di petrolio e grano», ha fatto sapere il membro del board Lorenzo Bini Smaghi, «è motivo di grossa preoccupazione». Un timore dovuto al fatto che gli aumenti «riflettono la scarsità di risorse con cui ci dobbiamo confrontare. Il problema del potere di acquisto ce l’hanno tutti in Europa, ma anche negli Stati Uniti e negli altri Paesi industrializzati».
Con il caropetrolio stangata da 920 euro Ripercussioni per le famiglie italiane a causa del caro-petrolio.Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato aumenti per 920 euro su base annua tra costi diretti e indiretti. «Complessivamente l’aumento inflativo», rilevano le associazioni, «si attesterebbe al 3,1 per cento». Per le associazioni servono calmieri.
Rush finale a Piazza Affari Con uno sprint finale Piazza Affari ha chiuso in aumento dello 0,11 per cento. Fra le blue chip brillano Luxottica (+2,5 per cento) Terna (+2,3), A2A (+2,2), Fiat (+2,1) e Stm (+2).
La politica di Mugabe ha impoverito la Nazione ma non ha frenato le speculazioni sul listino locale, unica leva contro la svalutazione
Zimbabwe,Paese allo sfascio dove la Borsa galoppa più dell’inflazione di Maurizio Stefanini C’è un Paese che ha il record mondiale di inflazione: il 100.000 per cento a gennaio. C’è un Paese che ha il record mondiale di crescita della Borsa: del 322.111 per cento nel corso del 2007. La sorpresa: si tratta dello stesso Paese. Proprio lo Zimbabwe, dove alle elezioni del prossimo 29 marzo malgrado i suoi 84 anni – dei quali 28 passati al potere – cerca un’ulteriore conferma Robert Mugabe: un padre della patria poi trasformatosi in affossatore. E Mugabe rischia pure di riuscirci: brogli e autoritarismo a parte, contro di lui c’è opposizione spaccata tra il sindacalista Morgan Tsvangirai e l’ex ministro delle Finanze Simba Makoni. Malgrado l’economia peggio gestita del mondo, mal-
grado la disoccupazione all’80 per cento, malgrado le minacce alla proprietà straniera e ”bianca”in generale, malgrado il pane letteralmente sparito dai negozi, la Zimbabwe Stock Exchange dal 2000 continua però a andare avanti a gonfie vele. Cioè, proprio dall’anno in cui il presidente-satrapo annunciò quel progetto di riforma agraria che ha sfasciato il sistema produttivo. Le ragioni del paradosso? Una è che ormai comprare subito azioni è diventato l’unico modo per salvaguardare un minimo di valore a banconote, che altrimenti si svalutano letteralmente in mano di minuto in minuto, e per spendere le quali non c’è d’altronde quasi più merce da acquistare. Gli economisti, anzi,
rilevano che si tratta di un ragionamento perfettamente razionale, dal momento che la velocità di deprezzamento dei titoli è soltanto la metà rispetto a quella della moneta. Ma un’altra spiegazione è che la stessa inflazione record permette di comprare a prezzi stracciati asset di un Paese che comunque rimane potenzialmente ricchissimo: oro, cromo, amianto, platino e carbone ci sono ancora; la diga sul fiume Zambesi continua a rifornire di elettricità mezza Africa australe. Nella ragionevole speranza che quando la natura avrà tolto di mezzo l’attempato demagogo al potere, anche l’agricoltura tornerà a esportare mais in tutta la regione, frutta a Londra e tabacco in tutto il mondo.
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musica
A Sanremo debuttava Pippo Baudo, mentre John Lennon scriveva Revolution
Il rock del ’68 tra il potere dei fiori e quello del sesso di Stefano Bianchi entre (viva Dio!) sta per calare il sipario sull’ennesimo, superfluo Barnum sanremese, proviamo a ragionare sul Sessantotto in musica. Cosa ascoltavamo quarant’anni fa? Dischi che vale ancora la pena di acquistare. Nelle roccaforti musicali d’America e d’Inghilterra, il 1968 declinato al rock è un anno di creative vibrazioni sonore. Possenti e visionarie. Ma è un anno, al tempo stesso, non sempre facile da decifrare. L’ambiziosa «missione» di gruppi e solisti è dare un seguito alla straordinaria esperienza che, nel bene e nel male, aveva scandito la Summer of Love incoraggiata dal movimento hippie e «benedetta» nel ’67 dall’inno All You Need Is Love, cantato dai Beatles in mondovisione tv. Nella West Coast, area di San Francisco, i Jefferson Airplane diventano in quell’anno i messaggeri della protesta e del rinnovamento, mentre i Grateful Dead elaborano col romanziere Ken Kesey gli acid test, iniziazioni al consumo dell’Lsd da replicare in concerto come happening collettivi. In più, allestiscono la loro Comune (luogo di culto per i seguaci) al 710 di Ashbury Street. A New York, i Fugs liberano la psichedelìa intesa come fusione di musica e poesia, mentre i Velvet Underground sponsorizzati dallo stratega della Pop Art, Andy Warhol, sviscerano con furore decadente la vita grama dei bassifondi.
sce nello Human Be-In del gennaio ’67 al Golden Gate Park di San Francisco e nel Monterey Festival di giugno. «Musica, Amore e Fiori», scrive qualcuno sopra uno striscione sospeso da un lato all’altro del palco. Tre parole, che il 6 ottobre di quell’anno vengono idealmente
La risposta britannica all’acid rock statunitense, la forniscono i Pink Floyd con le loro dilatate improvvisazioni strumentali corredate da luci stroboscopiche. Il rock, più che mai svincolato da schemi precostituiti, espande le coscienze con l’utilizzo della scienza e della tecnologia. Tutto quel raggrumarsi di sogni e utopie, conflui-
cancellate quando gli hippie celebrano il loro «funerale» a San Francisco. Motivo della protesta: l’ingordigia dei massmedia e del business discografico, rei di avere ucciso la fantasia del movimento. Difficile dare un seguito a tutto ciò. Raccogliere il testimone di un ‘67 che aveva prodotto un’impressionante sequenza di dischi capolavoro: da
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Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Beatles), a Between The Buttons (Rolling Stones), passando per The Piper At The Gates Of Dawn (Pink Floyd), Are You Experienced? (Jimi Hendrix) e Surrealistic Pillow (Jefferson Airplane). L’America che entra nel ’68, viene subito marchiata dal successo di due inni generazionali che sostanzialmente riprendono il pensiero della Summer of Love: On The Road Again, galoppata blues dei Canned Heat; e Born To Be Wild degli Steppenwolf, succo della colonna sonora del film Easy Rider. I Jefferson Airplane, dopo Somebody To Love, fronteggiano l’amore libero con Triad, canzone scritta da David Crosby e inserita in Crown Of Creation. I californiani Iron Butterfly, con la suite In-A-Gadda-Da-Vida (storpiatura di In the garden of Eden), descrivono le visioni di chi assume acido lisergico. Quei musicisti che il Flower Power aveva gratificato con la celebrità, approcciano il ’68 in punta di piedi. Con circospezione. Ma dovranno arrendersi al conflitto in Vietnam come priorità della protesta giovanile; alle uccisioni di Martin Luther King e di Robert Kennedy; alle manifestazioni alla convention dei Democratici, a Chicago. Transiteranno dall’utopica fase della pace e dell’amore, al crudo realismo della lotta. Alcuni vinceranno, altri perderanno. In ogni caso, suoneranno tutta un’altra musica.
Mick Jagger con i Rolling Stones e Jim Morrison con i Doors interpretano le creative vibrazioni di quegli anni
Nel febbraio del ’68, reduci dal «Sergente Pepe», i Beatles atterrano in India per un soggiorno al centro di meditazione trascendentale del Maharishi Mahesh Yogi, a Rishikesh. Ma la febbrile ricerca di spiritualità si rivela un flop: il Maharishi è un cinico affarista. Quell’esperienza, tuttavia, è alla base del boom creativo del White Al-
bum, antitesi pessimista e senza ideali di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Chiave di lettura «politica» del disco è il brano Revolution, composto da John Lennon traendo spunto dai disordini studenteschi del maggio parigino che raggiunsero il culmine in seguito alla decisione di de Gaulle di sciogliere l’Assemblea Nazionale francese. Ciò, curiosamente, succede nella sera in cui i Beatles mettono nero su bianco la canzone. Nel frattempo, solidali coi colleghi di Nanterre e della Sorbona, gli studenti britannici occupano le università proclamando lo «stato di anarchia». I più politicizzati, all’uscita di Revolution, incolpano Lennon di aver espresso toni troppo rassicuranti e arrendevoli. Versi come «Dici che vuoi
una rivoluzione/Bene, sai/Tutti vogliamo cambiare il mondo/Ma quando parli di distruzione/Non sai che puoi considerarmi fuori?/Non sai che andrà tutto a posto?», vengono interpretati dalla nuova sinistra americana e dagli esponenti della controcultura come l’urlo di un borghese intimorito, deciso a chiamarsi fuori da qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. John Lennon, di fatto, aveva già sposato la causa pacifista. E in seguito, reagendo alle provocazioni di Black Dwarf (l’organo di stampa del comitato per la solidarietà al Vietnam) dichiarerà: «Sapete cosa c’è di sbagliato nel mondo? La gente. E allora volete distruggerla? Finché non cambieremo il nostro modo di pensare, non c’è alcuna possibilità. Ditemi una rivo-
musica
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LA TOP TEN 1) The Beatles - White Album 2) The Rolling Stones Beggars Banquet 3) Jimi Hendrix Electric Ladyland 4) The Doors Waiting For The Sun 5) Bob Dylan John Wesley Harding 6) Jefferson Airplane Crown Of Creation 7) Frank Zappa & The Mothers of Invention We’re Only In It For The Money 8) Canned Heat Boogie With Canned Heat 9) Iron Butterfly In-A-Gadda-Da-Vida 10) Steppenwolf Steppenwolf
A sinistra Jimi Hendrix Sopra, dall’alto, i Pink Floyd, i Jefferson Airplane e un’immagine del concerto a Woodstock A destra la copertina di Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band dei Beatles
luzione che ha avuto successo. Cos’ha rovinato il comunismo, il cristianesimo, il capitalismo, il buddismo? Le menti bacate. Nient’altro».
Anche i Rolling Stones attraversano il ’68 indecisi se sguainare o meno la spada della protesta. Mick Jagger, che si era recato in pellegrinaggio dal Maharishi Yogi più per farsi notare che per ritrovarsi dal punto di vista spirituale, aveva battuto coi suoi compagni la strada psichedelica con risultati sconfortanti: Their Satanic Majesties Request era un pasticcio. Come lo sgangherato inno alla stagione dei fiori, furbescamente intitolato We Love You.Viceversa, l’album Beggars Banquet, con quella copertina che raffigura la parete di un ga-
binetto pubblico ricoperta di scritte oscene, soddisfa le esigenze della gioventù britannica. Che, mal sopportando la psichedelìa, ricerca le ruvide radici del blues quasi a voler ritrovare l’autenticità di quello spirito ribelle che il Flower Power aveva per molti versi tramortito. Jagger, lungo il ’68, mostra attitudini rivoluzionarie dichiarandosi contrario alla proprietà privata e partecipando a una dimostrazione contro la guerra in Vietnam organizzata dalla sinistra a Londra, in Grosvenor Square. I risultati (seppur rimanga il dubbio sull’autenticità «barricadera» del cantante) non si fanno attendere: Beggars Banquet mette in scena una forte spinta eversiva a partire da Street Fighting Man («Ehi, penso che sia arrivato il momento per una rivoluzione/Ma dove vivo la regola del gioco è una soluzione di compromesso». E ancora: «Cosa può fare un povero ragazzo/Se non cantare in una banda di rock’n’roll/Perché nella sonnacchiosa Londra/Non c’è assolutamente posto per un combattente di strada»), per poi proseguire con Jig-saw Puzzle fra donne anziane che danno alle fiamme la pensione, vagabondi che divorano sandwich al mentolo e la Regina d’Inghilterra che incita la polizia a caricare i dimostranti; Factory Girl, ritratto neorealista di un’operaia senza il becco d’un quattrino; Salt Of The Earth, inno alla «gente che lavora duro»; Sympathy For The Devil, luciferina epopea di rivolte sociopolitiche. We want the world and we want it now!
Questo perentorio slogan generazionale, appartiene di diritto a Jim Morrison, ribelle estremo che l’America vuole a ogni costo annientare. Il ’68? Per il Re Lucertola che comanda i Doors, è un anno da bruciare in fretta e furia: contrapponendo al «potere dei fiori» l’oltraggioso «potere del sesso». Purtroppo, però, il long playing Waiting For The Sun (titolo metaforico, che allude all’attesa della rivoluzione) non produce l’impatto dirompente di Strange Days, il disco di Light My Fire, The End, When The Music’s Over… Morrison, novello Rimbaud, si sforza col nuovo repertorio di dare voce alle tensioni politiche. I suoni ci sono, eccome. I testi, al contrario, non riescono a sintonizzarsi al contemporaneo. The Unknown Soldier, ad esempio, sgonfia il pacifismo riducendolo a luogo comune («Questa dannata guerra finirà/Quando saremo
troppo vecchi per goderci la pace/Il milite ignoto/Vaga fra le righe del telegiornale/I bambini tirano le cuoia a 26 pollici/Sul video sono vivi, abortiti, vivi, morti/Un proiettile perfora l’elmetto/Ed è l’ultimo rintocco per il milite ignoto/L’ultimo
schianto per il milite ignoto»), mentre Five To One, con la presunzione d’essere un inno di rivolta, snocciola ovvietà come «Loro sono armati/Ma noi abbiamo i numeri dalla nostra parte/Vinceremo, sì. Abbiamo già in mano il controllo della situazione». E non manca, in Summer’s Almost Gone, l’addio in stile romanzo rosa alla stagione dei fiori: «L’estate sfuma via/Esala gli ultimi sospiri/Batte gli ultimi rintocchi/L’estate è quasi finita/ Dove ci rifugeremo/ Quando l’estate sarà svanita?». I Doors proseguiranno, zoppicando. Jim Morrison si ridurrà a farneticante prigioniero di droghe e alcol. Fino a trovare la morte, nel ’71, in un appartamento del Marais, a Parigi.
Jimi Hendrix, invece, sapeva come ghermire al cuore e allo stomaco il pubblico. Utilizzando la chitarra elettrica come macchina del suono, boato, orchestra. Parodia della voce umana, perfino. Ne estraeva l’istinto animale, il sesso, la provocazione; ma anche un’inebriante dolcezza, il misticismo, la desolazione. Il ’68 lo inonda di successo. E lui, la bandiera della nuova generazione, vuole farsi mito assoluto, sovrannaturale. Incide il doppio disco Electric Ladyland, tornando con Voodoo Chile all’amato blues e rivisitando a modo suo All Along The Watchtower, incisa nello stesso anno da Bob Dylan e inserita in John Wesley Harding, l’album della svolta religiosa che il cantautore definì «il primo disco di rock biblico». Arriverà poi il ’69 della partecipa-
zione di Hendrix a Woodstock, con l’esecuzione estremista dell’inno a stelle e strisce (Star Spangled Banner): e le sue dita ultraveloci, sulle corde, produrranno il fragore dei bombardamenti aerei sul Vietnam. «Basta una serie di note. Il resto è improvvisazione», dirà Jimi prima di morire nel ’71 a Londra, per un’overdose di barbiturici.
È inutile sprecare troppo tempo con la politica. Perché la rivolta studentesca finirà presto nell’oblìo, e il futuro apparterrà alla rivoluzione sessuale. Parola di freak, cioè di Frank Zappa. La cui lucida eccentricità si concretizza in una «musica totale» che parte dal rock per poi abbracciare jazz, canzone usa-e-getta, rumore puro, blues, folk. Materializzando l’ideale «colonna sonora» della satira e della provocazione. Nel ’68, a Berlino, Zappa effettua un concerto con la sua band, le Mothers of Invention (da una frase di Platone: «La necessità è la madre dell’invenzione»). Il pubblico, inferocito, lo taccia di qualunquismo politico. Lui proclama che «per fregare il sistema basta rivoltarlo». D’altronde, il ’68 «zappiano» è incastonato prima di tutto nella copertina dell’album We’re Only In It For The Money, che mette in mostra lui e i suoi musicisti dentro sguaiati abiti femminili, con la scritta Mothers composta con frutta e ortaggi. La velenosa parodia, in sintesi, del venerato Sgt. Pepper «beatlesiano». E la musica? Acida. Insolente. Scomoda. Un pugno in faccia ai figli dei fiori. A quei falsi hippy smidollati che Zappa prende per i fondelli nel brano Flower Punk: «Hey Punk, dove stai andando/Con quel distintivo sulla maglietta?/Beh, sto andando a un love-in/a sedermi e suonare i miei bongo/Nell’immondizia/Hey Punk, dove stai andando/Con quelle perline intorno al collo?/Sto andando da uno psichiatra/Perché possa aiutarmi/A essere un nevrotico». We’re Only In It For The Money, elettroshock destinato a un ’68 già sufficientemente scosso da terremoti sociopolitici, fu a suo modo il caustico elogio funebre di un’intera epoca. Dopodiché, si volterà pagina: nel ’69 del Woodstock Festival e del concerto di Altamont, organizzato dai Rolling Stones e macchiato col sangue di un diciottenne nero accoltellato dagli Hell’s Angels. Lo slogan Peace & Love non avrà davvero più senso. E il rock si ritroverà impaurito, dopo la scomparsa ravvicinata delle sue icone: Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison… Eppure, nonostante tutto, saprà risorgere dalle sue ceneri.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog LA DOMANDA DEL GIORNO
Sicurezza stradale, quali i provvedimenti urgenti? Siamo malati di sindrome compulsiva, non risolveremo nulla con pene più forti Mi scopro almeno una volta al giorno vinto dalla tentazione di attraversare un incrocio con il semaforo rosso. Perché ho fretta, ho fretta come ogni cittadino moderno assuefatto alla schiavitù di non perdere tempo, anzi di guadagnarne. Siamo gli abitanti di un pianeta malato di sindrome compulsiva, abbiamo perduto il piacere della calma e della lentezza, virtù degli uomini, e non degli automi che siamo diventati. Il problema non si risolverà per legge, non basteranno divieti e pene più forti. E’ un piccolo grande dramma culturale e per superarlo dovremmo mettere in discussione troppe certezze. Una delle quali è la presunzione di essere migliori rispetto a chi ci ha preceduto.
Giuliano Quadrelli Arezzo
Il problema è che ci stiamo abituando alla macelleria di giovani e giovanissimi La questione della sicurezza stradale pesa sulle anime degli indifferenti come una guerra guerreggiata. Basta guardare le cifre: ogni settimana l’inferno si porta via giovani e giovanissimi e noi ci stiamo quasi abituando a questa macelleria. Il problema non ha soluzioni tecniche. Ridurre per legge la velocità delle automobili non impedirà agli ubriachi di guidarle e agli assonnati di sbandare sulla carreggiata. La politica può fare qualcosa? Forse sì, potrebbe militarizzare le strade opponendo un controllo capillare alle infrazioni quotidiane. Ma quanto costerebbe?
Ogni innocente morto è una privazione sanguinaria inflitta alla comunità nazionale Per risolvere il problema della sicurezza bisognerebbe multare con ferocia le ditte della grande distribuzione, che impongono ai guidatori dei Tir turni massacranti e del tutto fuori legge, obbligandoli a correre nelle autostrade come pazzi senza riposo. E poi occorre punire con severità drastica ogni infrazione. E infine minacciare che lo Stato si costiuisca parte civile nei processi di risarcimento per le vittime della strada. Ogni innocente morto rappresenta una privazione sanguinaria inflitta alla comunità nazionale. Cordialmente.
Berlusconi e Casini si distinguono per lo stile Il circuito politico si è fatto più grande e gli elettori più disincantati. Candidati premier e partiti crescono ogni giorno, mentre le differenze appaiono sempre più piccole. Di ciascuno sentiamo dire che ha le carte in regola per essere il vero leader.Tra i principi e i programmi troviamo tante analogie e forti corrispondenze. Pochi gli ostacoli politici alle alleanze, molti i dissapori e le antipatie personali. Ad esempio, Berlusconi e Casini si distinguono per stile, prestanza e portamento. Insomma, cose che non s’inventano al momento. Per candidarsi e vincere le elezioni basterà questo? Grato dell’attenzione. Saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
Gennaro De Laurentis Napoli
Torniamo a insegnare educazione civica, siamo vittime della nostra ignoranza Credo sia del tutto inutile almanaccare sulla sicurezza stradale in un Paese che ha smesso di insegnare l’educazione civica ai propri studenti. C’è indubbiamente una quota di vittime dovute a circostanze fatali, ma chiunque circoli nelle strade italiane con una automobile, assoste a scene di degrado perfino morale. Siamo vittime della nostra diseducazione, abbiamo perduto il contatto con l’autorità e il rispetto della cosa pubblica. Nelle nostre scuole si studia a memoria il Novecento, si educano i ragazzi al senso di colpa per i misfatti dei padri, ma nessuno più si prende cura di dare un senso civico ai giovani. E la sciatteria di noi meno giovani raddoppia la nostra responsabilità.
Maurizio Reggiani Milano
Camillo Leonardi - Roma
LA DOMANDA DI DOMANI
La lotta all’evasione sta dando i primi risultati?
Udc, Rosa bianca, Ferrara: finalmente un vero Centro Sono un vostro lettore da poco tempo, ma mi sono subito affezionato al quotidiano, così vicino alla sensibilità cattolica e liberale. Queste elezioni sono per me molto critiche, non so infatti chi votare. Una cosa è certa: non voterò per quei partiti che fanno del laicismo la loro bandiera o per quelli che solo da poco, e in vista delle elezioni, vorrebbero pretendere di farsi portavoce dei cattolici e dei loro valori. Voterò insomma un partito che già in ”tempi non sospetti” ha difeso i valori cristiani e della vita. Infatti sto seguendo con grande interesse i movimenti che si stanno verificando al centro (Udc, Rosa
dai circoli liberal
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
CONTROCORRENTE? Sì, PERO’ SUL SERIO Il mio amico Carlo Bongioanni mi perdonerà questo titolo scherzoso che vuole giocare con l’articolo da lui scitto e pubblicato su Liberal dello scorso 26 febbraio. Prendo spunto dal ragionamento di Carlo, per cercare di fare chiarezza spazzando via alcuni luoghi comuni che devono essere superati. Sono assolutamente contrario ad argomentazioni quali il “voto utile”che trovo profondamente illiberali ed antidemocratiche. Infatti se il 50% dell’elettorato decidesse (e me lo auguro) di votare Udc, quale sarebbe il voto inutile? Quello dato a tutti gli altri Partiti. Come si può dare per scontato l’esito di unavotazione che si svolga con regole democratiche? Inoltre ritengo dannosa qualsiasi semplificazione eccessiva del panorama partitico; perché quando ciò si è verificato ci siamo ritrovati in piena dittatura. Inutile ripercorrere oggi il percorso che ci ha portato a “correre” da soli. Sicuramente vi è anche un gesto di identificazione con un simbolo che a tutt’oggi esprime i nostri Valori, che in quanto tali,
sono irinunciabili! E’ vero, il nostro simbolo è ancora lo Scudo Crociato con la scritta “Libertas” , ma non riteniamo irrinunciabile la rappresentazione grafica, bensì ciò che rappresenta. Credo che il riconoscersi, anche da laico, nei Valori Cristiani costituisca per prima cosa la consapevolezza dell’identità occidentale che si completa con la cultura greca, dalla quale discende l’idea della democrazia, e l’organizzazione legislativa romana. Da qui discendono le risposte politiche che un Partito serio deve dare, recuperando quella capacità di decidere anche quando non si seguono le vie “facili” per ottenere posti e falsi consensi. Nessuno vuole riproporre la Dc; fu un grande Partito che ha fatto la storia d’Italia, in un momento drammatico, e che ci ha accompagnato per molti anni, trasformando le macerie in case e fabbriche, traghettandoci da Paese sconfitto a potenza economica mondiale. Siamo orgogliosi di affermare che in quel Partito ci sono le nostre radici, politiche e culturali, ma ciononostante non vogliamo riproporre un Partito che ormai appartiene al passato. Credo che il percorso che oggi
bianca, Ferrara), finalmente svincolato dalla destra e dalla sinistra. Spero che tali movimenti possano trovare un punto di incontro e presentarsi uniti alle elezioni. E credo sia la speranza di tanti cattolici che non si sentono rappresentati pienamente né dal Partito della Libertà né dal Partito democratico. Grazie per l’attenzione.
Giovanni De Lellis
Continuo a rimpiangere il Sanremo di tanto tempo fa Sono davvero stufa di Sanremo. Riguardo spesso online alcuni vecchi documentari del festival della musica italiana, riscopro Gigliola Cinquetti, Nilla Pizzi, Achille Togliani, Gino Latilla, Claudio Villa. Mi rendo conto che erano altri tempi, altre ”canzonette”. Ma quanta dolcezza, quanto amore e soprattutto quale profonda interpretazione dei brani. Oggi cosa abbiamo invece? Improvvisazione nella migliore delle ipotesi, politica spicciola nella peggiore. Per non parlare della superfavorita Anna Tatangelo, che assieme a Gigi D’Alessio ha voluto puntare su una canzone a mio avviso discutibilissima sull’amore omosessuale. Rimpiango ”Rose rosse”, ”Campanaro”, ”Serenata serena” o ”La casa bianca”. Quelli sì, come direbbe Gigliola, che ”eran giorni”. Grazie.
Antonella Savelli Roma
Non capisco il Cavaliere, perché litiga con tutti? Non capisco più Silvio Berlusconi. Prima litiga con Fini, poi fa pace con Fini. Prima avvicina Storace, poi litiga con Storace. Prima propone larghe intese, poi esclude le larghe intese e dichiara di ”correre solo per vincere”. Voterò Casini. Più per esclusione che per condivisione. Ma mi sembra davvero l’unico coerente in questo triste scenario politico. Cordialmente.
Graziano Piro - Cagliari
stiamo percorrendo ci ponga nella posizione corretta per creare quella base necessaria allo sviluppo di un grande forza moderata che sia alternativa sia alla sinistra che alla destra, per dare continuità al percorso iniziato anni addietro e che non si concluderà mai, perché il progresso deve essere concepito non per chi vive il presente ma per chi vivrà il futuro. Ezio Lorenzetti CLUB LIBERAL DEL CANAVESE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 28 MARZO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog ”Il mio destino riposa con te” Mia carissima Teresa, tu non capirai queste parole inglesi, e altri non le capiranno, ecco la ragione per cui non le ho scarabocchiate in italiano. Ma riconoscerai la calligrafia di colui che ti amò appassionatamente, e capirai che, su un libro che era tuo, poteva solo pensare all’amore. In questa parola, bellissima in tutte le lingue, ma soprattutto nella tua - Amor mio - è compresa la mia esistenza qui e dopo. Io sento che esisto qui, e sento che esisterò dopo, per quale scopo lo deciderai tu; il mio destino riposa con te, e tu sei una donna di diciotto anni, che ha lasciato il convento due anni fa. Desidererei che fossi rimasta lì, con tutto il mio cuore, o, almeno, che non ti avessi incontrata nel tuo stato di donna sposata. Ma per questo è troppo tardi. Io ti amo e tu mi ami o almeno, così dici, e agisci come se mi amassi. Pensa a me qualche volta, quando le Alpi e l’oceano ci divideranno, ma non sarà cosi a meno che tu non voglia. Lord Byron a Teresa Guiccioli
Il centrodestra è debole senza il peso dell’Udc Francamente non mi aspettavo questa rottura e mi auguravo un armistizio, almeno tempotaneo, tra l’Udc e il Pdl. Ritenevo possibile e auspicabile una convergenza dei centristi nella lista del Pdl per le elezioni politiche. Sono quindi un po’ dispiaciuto e disorientato, avendo grande stima e simpatia sia per Berlusconi sia per Casini. Il rischio, doloroso, è che si crei una stagione di insulti e di veleni tra forze alternative alla sinistra, appartenenti alla comune casa europea del Ppe. Anni fa ero pure iscritto al Ccd- Democratici di centro, e a quel tempo tra Berlusconi e Casini splendeva il sereno... quanta acqua sotto i ponti! Ho l’impressione che si sia persa una grande opportunità e mi piacerebbe invitare ancora Berlusconi e Casini a ritrovare lo spirito di un tempo. Ma la campagna elettorale è ormai iniziata. Non mi rimane che attendere i prossimi eventi, con il timore che la fuoriuscita dell’Udc possa indebolire il ruolo e l’influenza dei democratici-cristiani all’interno del centrodestra.
Ecco perché ci chiamano bamboccioni Ho letto su Internet una cosa davvero assurda, e cioè che il Comune di Roma prevede delle agevolazioni per le imprese costituite da cittadini immigrati, quando la situazione lavorativa di tanti giovani italiani è alquanto critica. Non sarebbe più normale (come giustamente ha commentato in una nota alla stampa Alleanza nazionale), prima di garantire l’occupazione a chi proviene da paesi stranieri, pensare ai nostri connazionali, che per trovare una situazione lavorativa stabile spesso sono costretti a trasferirsi altrove, lontano dagli affetti e dalla loro patria? Si prova molta rabbia
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di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
Andrea Mori - Roma
PUNTURE A Sanremo c’è Simon Le Bon. Silvio Berlusconi è candidto premier per la quinta volta. Duran Duran. Giancristiano Desiderio
Anche se la poesia ha un significato, potrebbe essere sconsigliato approfondirlo A.E. HOUSMAN
Matteo Prandi
e di cronach
a pensare che i giovani possano essere definiti impropriamente “bamboccioni” proprio da alcuni esponenti del centrosinistra, che non fanno molto per sostenerli, ironizzando per giunta sul fatto che vivono nella casa paterna fino ad età avanzata perché impossibilitati a mantenersi da soli e costruirsi una famiglia a causa della precarietà lavorativa e del caro alloggi. Nulla in contrario ai sostegni agli immigrati, ma non si può penalizzare chi è nato e cresciuto a Roma favorendo chi viene da fuori. Ritengo che politiche del genere rappresentino una forma di razzismo al contrario. Sono tanti i giovani italiani che hanno bisogno di sussidi per investire nell’imprenditoria, ovviando così alla carenza di posti nel lavoro dipendente. E’ a loro che il Comune dovrebbe dare, in primis, risposte concrete. E’ a loro che dovrebbe garantire la precedenza dal punto di vista dei fondi, del lavoro, degli alloggi e dei posti nelle scuole, occupate oramai in prevalenza da stranieri che hanno finito per scalzare i nostri figli, mettendo in ginocchio e in difficoltà tante famiglie italiane finite in lista d’attesa e costrette a pagare strutture private.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di IL PDL FRENA SULL’ANTI-STATALISMO? ECCO PERCHE’ Al contrario di quello del Partito Democratico, il programma del Popolo delle Libertà ancora non è stato ufficialmente presentato, ma certamente in molti si è fatta avanti la sensazione che alcuni temi strettamente liberali non saranno presentati con la forza attesa. Una campagna elettorale un po’ col freno a mano tirato, insomma. Questo sembra vero in particolare su punti legati all’attacco allo statalismo, all’assistenzialismo anti-meritocratico, alle spese per l’apparato burocratico e per l’infinito esercito di dipendenti statali legati alle innumerevoli amministrazioni locali. Oggi lancio una provocazione. Pare che i sondaggi diano il PdL saldamente e largamente in testa al Nord, mentre i voti del Sud Italia (Sicilia esclusa) potrebbero rappresentare un terreno di maggiore contesa politica. Mi chiedo se la fusione di FI con AN e la conseguente diluizione del programma anti-statalista e liberista del primo non siano una conseguenza diretta di questa situazione. Per dirla brutalmente, non è che Berlusconi strizza l’occhio allo statalismo assistenzialista caro alla destra sociale per raggranellare qualche voto in più nel serbatoio del meridione? Se così fosse, questa potrebbe rivelarsi un grosso errore strategico e un superficiale tradimento dell’anima liberale del Popolo delle Libertà. Ditemi voi.
HILLARY-OBAMA THE GHOST OF CLINTON PAST Non è stato il solito idillio, al contrario. Hillary all’attacco, agguerrita e aggressiva. Obama rassicurante e conciliatorio, come al solito. Tutti e due determinati ad avere la meglio sull’auditorio. Hillary Clinton ha giocato il tutto per tutto ieri sera, accusando la stampa di essere parziale, ha attaccato l’aversario sulla politica interna, sulle sue capacità di guidare il mondo libero. Ma nonostante la retorica secca ed efficace era in ritirata, costretta a difendere non solo le sue posizioni ondivaghe ma l’operato di otto anni di amministrazione Clinton, costellata di policy questions. Otto anni che le hanno dato la possibilità di concorrere oggi e di spiazzare qualsiasi altro concorrente ancora prima di cominciare la corsa alla Casa Bianca. Il fantasma di Bill Clinton ha imperversato in questa campagna elettorale, le sue accuse, le sue irruente affermazioni, le sue interviste tv, i suoi libri buonisti, i suoi paternalistici attestati di solidarietà al candidato-moglie. E tutto questo non ha rafforzato Hillary ma si è ritorto contro di lei, che ancora una volta, a telecamere accese ha dovuto divincolarsi dal suo benfattore-aguzzino, colui che le ha dato tutto e le ha tolto tutto, lasciandola ancora una volta sola a reggere tutto il peso della sua pesante eredità.
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