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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Socrate Salvateci dalla scuola dei mediocri

di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

Giorgio Israel Pier Mario Fasanotti Francesco Lo Dico Alfonso Piscitelli Domenico Sugamiele pagina 12

intervista TIRABOSCHI: «LA VERA PRIORITÀ È ATTUARE LA BIAGI»

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Chávez schiera il suo esercito contro la Colombia di Uribe. Subito, la sinistra italiana si schiera con Chávez. A parole vogliono la Betancourt libera, ma in realtà fiancheggiano i terroristi che l’hanno rapita

polemiche LA MORTE CEREBRALE È DAVVERO MORTE? pagina 7

Roberto de Mattei

america 2008

Tutte le bugie su Ingrid GIOVEDÌ 6 MARZO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

pagina 5

Riccardo Paradisi

NUMERO

Clinton-Obama agli insulti. McCain vede la Casa Bianca Michael Novak Andrea Mancia

pagina 10

dopo Molfetta MA SERVIRÀ LA NUOVA LEGGE SULLA SICUREZZA? pagina 18

Giuliano Cazzola

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alle pagine 2, 3 40 •

WWW.LIBERAL.IT

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9 771827 881004

IN REDAZIONE ALLE ORE

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pagina 2 • 6 marzo 2008

le bugie su

Ingrid

L’ambiguità della sinistra sul sequesto Betancourt. Il coraggio dei colombiani nella lotta alle Farc

La strada per la libertà di Ingrid di Nicola Procaccini n paio di settimane fa negli stadi italiani, all’ingresso delle squadre in campo, i calciatori indossavano delle magliette con la scritta “libertà per Ingrid Betancourt”. Già, libertà, ma da chi, da che cosa e soprattutto, chi è Ingrid Betancourt? La domanda che si saranno posti Totti e compagni, come i tifosi di tutta Italia, appare legittima. Ingrid Betancourt, colombiana di origini francesi, nota per il suo impegno contro la corruzione politica, i cartelli della droga e la devastazione della foresta colombiana fu sequestrata sulla strada per San Vincente, il 23 febbraio del 2002 mentre, in compagnia di un’amica, era impegnata nella campagna elettorale. Ingrid, madre di due ragazzi, Melanie e Lorenzo, è da più di sei anni tenuta in ostaggio da qualche parte nell’inestricabile foresta pluviale. Suo marito, Juan Carlos Lecompte, periodicamente sorvola in aereo la giungla a sud di Bogotà, dove si ritiene sia custodita, lanciando migliaia di foto dei suoi figli. «Spero che almeno una di queste foto capiti in mano ad Ingrid – ha detto Lecompte – non vede i suoi figli da oltre sei anni, sono così cresciuti…».

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Un po’ più complicato è spiegare da chi è stata sequestrata la Betancourt e da chi dipende la sua liberazione perché un incredibile corto circuito ideologico sta deformando la realtà delle cose in Italia e non solo. Esemplare in questo senso è il moltiplicarsi degli appelli rivolti al presidente colombiano Alvaro Uribe, come se dipendesse da lui la liberazione della donna franco-colombiana. Giova ricordare che a sequestrare la Betancourt, e come lei migliaia di persone, sono state le Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane), un’organizzazione terroristica marxista-comunista. La principale fonte di finanziamento delle Farc è sempre stata il narcotraffico; per anni i suoi capi hanno risposto con la favola della «purezza rivoluzionaria» alla definizione di «narcoguerriglia». Rispetto al mercato della droga, negli ultimi tempi, l’industria del sequestro si è dimostrata per le Farc più redditizia e più influente sul piano politi-

Ingrid Betancourt nasce a Bogotá nel 1961. Sua madre, Yolanda Pulecio, è un’ex Miss Colombia. Suo padre, Gabriel, è stato ministro durante la dittatura del generale Gustavo Rojas Pinilla e successivamente un diplomatico di stanza all’ambasciata di Parigi, dove Ingrid è cresciuta. Sposata, ha avuto due figli, Melanie e Lorenzo.Nel 1998 diviene senatrice con il numero più alto di preferenze della nazione. Fonda il Partido Verde Oxígeno. Sfida il narcotraffico colombiano e viene minacciata di morte. Nel 2002 viene rapita dalle Farc.

Suo marito, periodicamente, sorvola in aereo la giungla a sud di Bogotà, dove si ritiene sia custodita, lanciando migliaia di foto dei suoi figli. «Non li vede da oltre sei anni, sono così cresciuti…» co. Per questo Ingrid Betancourt è stata rapita e per questo è divenuta merce di scambio preziosa con le autorità nazionali. «Qui viviamo come dei morti». Sono le parole ritrovate in una sua lettera. «Sto male, non mangio». Le lettere dal carcere di questa donna assomigliano al suo fisico, nella sua ultima foto. Per la liberazione della Betancourt i guerriglieri vogliono il rilascio dei miliziani detenuti nelle carceri colombiane. Il governo di Bogotà, naturalmente, non può accettare la trattativa. Questa elementare realtà oggettiva è stata schiacciata da una verità faziosa che addossa al presidente colombiano Uribe la responsabilità della tragedia di Ingrid e contemporaneamente ammanta di fascino e solidarietà le Farc. Su questa suggestione ideologica si stanno saldando diverse tesi «altromondiste». L’amore per i movimen-

ti rivoluzionari sudamericani, l’odio per gli Stati Uniti d’America che sostengono Uribe, l’idolatria per Hugo Chavez, il dittatore venezuelano che della Colombia ha detto «porta avanti una politica di terrorismo di Stato e si è convertita nell’Israele dell’America latina».

Sono solo alcuni degli ingredienti della zuppa ideologica in cui si sono bagnati diversi editoriali comparsi sui giornali di ieri a commento dell’intervento militare in cui è stato ucciso Reyes il numero 2 delle Farc. «Chavez e Uribe hanno fretta – sostiene il quotidiano Liberazione – il primo di liberare la Betancourt, il secondo di scongiurarne il rilascio». «Uribe la vuole morta - è l’incipit, quasi splatter, de Il Manifesto – Vuole morta Ingrid Betancourt, ma soprattutto vuole che la guerra sopravviva, si

moltiplichi, alimenti il circolo vizioso del sangue». Un lungo corsivo, quello di Roberto Zanini, pieno di livore per Uribe, Bush, l’Europa «codarda», che invoca libertà per Ingrid Betancourt, ma sapete quante volte cita nel commento i suoi sequestratori? Zero. Neanche una parola sulle Farc. Soltanto per la sinistra italiana ed europea le Farc continuano ad essere degli eroici combattenti per la libertà del loro popolo. Libri e giornali ne raccontano le avventure, incontri e convegni si tengono regolarmente nei centri sociali occupati (…e pacifisti!) italiani per esaltarne le gesta. L’On. Katia Bellillo, Comunisti Italiani, nel 2004 ha presentato una mozione al Parlamento italiano sulla vicenda Betancourt, ma nel testo non è contenuta una sola parola di biasimo nei confronti dei sequestratori, anzi, si stigmatizza il comportamento del go-

verno colombiano poiché non tratta con i guerriglieri comunisti e si chiede all’Italia di intervenire perché si giunga ad uno «scambio di prigionieri a fini umanitari». Sul suo blog il deputato di Rifondazione Comunista Ramon Mantovani ostenta attraverso alcune foto amicizia e condivisione con il leader delle Farc Manuel Marulanda. D’altra parte, persino Walter Veltroni che molto si è speso per la liberazione della donna, nei suoi appelli sembra ripetere un copione già visto in Italia: «né con lo Stato né con i terroristi». Ecco cosa ha scritto il leader del Pd in una lettera accorata al Corriere della Sera pochi mesi fa: «Dobbiamo favorire una soluzione umanitaria e negoziata della guerra che tiene prigioniere la Colombia e Ingrid Betancourt, restituendo loro futuro e libertà».

Un mese fa, in Colombia, si è svolta la più grande manifestazione popolare contro la guerriglia delle Farc nella storia della Paese. Nello stesso giorno in molte città di tutto il mondo migliaia di colombiani hanno reclamato la sospensione delle azioni violente contro i civili e la liberazione delle persone sequestrate. Al grido di «Libertà, libertà! Non più Farc, non più sequestri», milioni di persone si sono riversate nelle strade di 40 città colombiane. Nella piazza Bolivar di Bogotà sono state posizionate più di 700 sedie vuote in rappresentazione dei rapiti, alcuni da più di 10 anni in mano alle Farc. A mezzogiorno del 4 febbraio la Colombia si è praticamente paralizzata. Un fatto storico, senza precedenti che ha già avuto significative conseguenze. Tale è stata la portata dell’evento che gli ex-guerriglieri in carcere si sono schierati per la liberazione dei rapiti. L’ex membro delle Farc, Raúl Agudelo Medina, ha dichiarato in un’intervista: «i rivoluzionari degni devono dire pubblicamente che non condividono i metodi atroci del sequestro per giustificare rivendicazioni sociali». Ebbene, questa è la nostra speranza, che prevalga la solidarietà nei confronti dei rapiti rispetto a quella nei confronti dei rapitori. Anche in Italia. Questa, e solo questa, è la strada che può riportare a casa Ingrid Betancourt.


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Ingrid

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Le Farc, una mafia con incassi da 2 milioni di dollari al giorno

Rivoluzione? Macché narcotraffico di Maurizio Stefanini e Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, Farc, nascono ufficialmente nel 1964. Ma il loro antefatto è il 9 aprile 1948, quando l’uccisione del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán scatenò una guerra civile tra liberali e conservatori: la decima dall’indipendenza. Pedro Antonio Marín alias Manuel Marulanda Vélez alias Tirofijo, il numero uno del movimento, sta ininterrottamente in clandestinità da allora. Le Farc furono costituite da quei guerriglieri liberali che nel 1958 rifiutarono la storica riappacificazione coi conservatori, e su cui mise poi il cappello il fino ad allora asfittico Partito comunista. Nel 1990 le Farc rifiutarono l’offerta di pacificazione che riportò nella legalità altri movimenti guerriglieri. Nel frattempo, erano rimaste orfane anche di quell’Unione Sovietica che era stata il loro punto di riferimento. Ma un’importante occasione si apriva col collasso dei Cartelli di Cali e Medellín.

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Eletto per la prima volta nel 2002 é stato riconfermato nel 2006

Álvaro Uribe Vélez il presidente della svolta di Luisa Arezzo er decenni il governo colombiano ha fallito contro i due movimenti marxisti che hanno ucciso, terrorizzato e rapito migliaia di civili e impedito l’emergere di una sana società civile. Il primo, le Farc si sono tarsformate in un impero economico grazie al narcotraffico. Il secondo, le Autodefensas Unidas de Colombia (Auc), nate inizialmente per organizzare una difesa contro lo strapotere delle Farc, si sono “evolute” in una forza paramilitare che ha ciurlato ancor di più il manico nella pentola delle estorsioni, rapimenti e traffico di droga. È in questo contesto che Álvaro Uribe Vélez, 55 anni, è salito alla presidenza della Colombia nel 2002 per il suo primo mandato (il secondo è cominciato nel 2006). Dal suo arrivo, e nonostante le accuse di essere un fantoccio nelle mani di Bush, suo alleato, ha mobilitato la società civile contro i suoi due nemici storici. I narcoguerriglieri delle Farc sono stati decimati e rintuzzati all’interno del Paese e le Auc hanno accettato di sciogliersi patteggiando la loro resa e le loro confessioni con una radicale riduzione delle pene. Un gesto eticamente discutibile, ma dai sicuri effetti in termini di riconciliazione

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nazionale, che gli è valso molte accuse. La prima, quella di essersi circondato di forze paramilitari al governo, tanto da affibbiare al suo esecutivo l’appellativo di “parapolitica”. Uribe non è uno stinco di santo, la sua politica di sicurezza democratica - così la chiama lui non ha impedito che parte dei finanziamenti Usa - si parla di 4,7 milioni di dollari, siano finiti nelle tasche del suo establishment. Ma un punto deve essere chiaro: la Colombia di Uribe aspira a diventare liberale e democratica. E il processo catartico da lui avviato non sarebbe mai stato possibile sotto il generale Videla (Argentina), il generale Pinochet (Cile) o Alberto Fujimori (Perù), tanto per citare tre autocrati che hanno usato il pretesto di un terrorismo a matrice marxista per restare al potere. Last but not least, dal 2002 i tassi di criminalità, inflazione e disocuppazione sono incredibilmente calati, l’economia vive un boom con un totale di investimenti che supera il 28 per cento del Pil e il 60 per cento dei colombiani supporta il suo presidente.

tempo; né bombardato chiese con mortai fai-da-te armati a bombole di gas; né fatto “retate” in chiesa portando via la gente durante la messa; né avvelenato acquedotti; né arruolato ragazzini a forza, mettendo spirali alle femmine per farle usare come oggetto sessuale dai compagni… Ma per una gran parte della sinistra mondiale si tratta invece di un legittimo interlocutore politico: non solo per Chávez, che ha fatto votare dall’assemblea Nazionale di Caracas un suo riconoscimento ufficiale; non solo per movimenti della sinistra radicale europea come Rifondazione comunista o i Comunisti Italiani, che si fanno forti del riconoscimento del cosidetto Forum di San Paolo; ma anche per partiti politici di ispirazione socialdemocratica che fanno parte di quello stesso Forum, sedendovi fianco a fianco con le stesse Farc. Anche qui, qualche ragione c’è. Nel 1982 i militanti delle Farc che provarono a rientrare nella legalità furono sterminati in una serie di attentati; effettivamente fino al 1990 in Colombia lo spazio politico per le forze politiche distinte da quelle tradizionali fu ridotto; effettivamente nella guerra civile colombiana atrocità in quantità sono state commesse anche dalle forze regolari, e ancora di più da bande paramilitari massicciamente usate dai governi per fare il lavoro sporco. Ma le cose vanno avanti e oggi è forte e influente un movimento politico della sinistra legale formato da ex-guerriglieri, sindacalisti e movimenti sociali. Che ha registrato importanti vittorie elettorali, a cui appartiene lo stesso sindaco della capitale, e che considera le Farc più o meno come il Pci considerava le Br.

Sono dei terroristi, ma per la sinistra mondiale, da Chávez a Rifondazione, rimangono dei legittimi interlocutori politici

Riciclandosi come potentissima narcomafia, le Farc sono diventate la prima impresa di Colombia, con incassi per due milioni di dollari al giorno: il 45-50 per cento dalla droga; il 15-20 per cento dalla vacuna, quel che i nostri mafiosi definiscono invece “pizzo”; il 15 per cento dai sequestri di persona (non a caso nei loro negoziati parlano di 40 prigionieri “scambiabili”, compresa la Betancourt, per obiettivi politici, ma non di altre 700 persone e passa, per cui vogliono invece soldi e null’altro); il resto da contrabbando, estrazione clandestina di minerali e riciclaggio nell’economia legale. Stati Uniti e Ue hanno messo le Farc nelle loro liste nere dei gruppi terroristi, e non senza eccellenti ragioni. Chi per difendere il presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez ha definito le Farc «l’equivalente delle Brigate Rosse» si rende infatti colpevole di una gravissima calunnia: verso le Br che non hanno mai né sequestrato minorenni; né usato autobombe; né minato cadaveri per uccidere i soccorritori; né seminato le campagne di mine; né lasciato in libertà ostaggi con collari esplosivi a

Nel 1998 Andrés Pastrana fu eletto su una piattaforma di negoziato con le Farc, e gli stessi Stati Uniti avevano dato il loro avallo. Ma le Farc pretendevano di trattare mentre continuavano a trafficare droga, sequestrare, attaccare i militari e compiere anche crimini particolarmente odiosi. Esaperata, l’opinione pubblica colombiana elesse allora Uribe Vélez, proprio su una piattaforma di fermezza. Ed è la linea che ha infine messo in crisi le Farc, ridotte da 18.000 a 8mila uomini in sei anni. Che con l’uccisione di Reyes ha infine infranto il mito dell’invulnerabilità dei capi guerriglieri.


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Ingrid

Il confronto ai confini della Colombia è a suo svantaggio: perfino sotto il profilo economico

L’autogol militare di Chávez di Maurizio Stefanini i sono asimmetrie considerevoli, ma non possono far prevedere in anticipo il risultato di una guerra. La capacità militare degli Stati Uniti era di molto superiore in Vietnam e tuttavia ne uscirono sconfitti». L’analisi del generale in pensione Alberto Muller Rojas, un militare che è anche vicepresidente del nuovo Partito Socialista Unito del Venezuela creato da Chávez, riecheggia gli slogan ufficiali del regime bolivariano: da molto tempo intento a creare milizie paramilitari in grado di controbattere un’eventuale invasione in termini di “guerra simmetrica”. Però ammette la verità. Chávez ha iniziato in modo unilaterale l’escalation militare con la vicina Colombia: non solo rompendo le relazioni diplomatiche e mandando truppe al confine, ma anche spingendo l’alleato ecuadoriano Rafael Correa a fare altrettanto, dopo che in un primo momento questi aveva accettato le buone ragioni del governo di Bogotá nel blitz con cui è stato eliminato il numero due delle Farc Raúl Reyes. Ma se davvero allo scontro si arrivasse, il suo esercito ne uscirebbe a pezzi, in uno scontro convenzionale. Ciò, anche se sulla carta la situazione della Colombia sembrerebbe delicata. Da una parte ci sono infatti i 2219 Km della frontiera col Venezuela e i 586 del confine con l’Ecuador. Più le le Farc. Più il Nicaragua, che non ha mai riconosciuto la sovranità colombiana su San Andrés e Providencia: due isolette al largo della propria costa, e la cui popolazione per lingua e origine etnica sarebbe piuttosto affine a quella della Giamaica. Con l’appoggio esplicito di Chávez, Daniel Ortega una volta eletto ha subito riattizzato la polemica: prima con un ricorso alla Corte Internazionale dell’Aja, poi facendo catturare un peschereccio in una zona che Colombia considera proprio mare territoriale. Distratto dalla montante questione degli ostaggi e della mediazione di Chávez, il governo di Bogotá aveva preferito lasciar perdere. Da sole, però, le Forze Armate Colombiane hanno effettivi più che doppi di tutti gli altri contendenti messi assieme: 136.000 uomini dell’esercito, su 5 divisioni e 17 brigate di fanteria; 7000 dell’aviazione; 15.000

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della marina, inclusi 10.000 marines; 104.600 della Policia Nazional, polizia militarizzata equivalente ai nostri carabinieri; più 60.700 della riserva.Totale, 323.000. Bisogna poi aggiungere il personale non in divisa che fa gran parte delle attività ausiliarie in altri eserciti svolto anch’esso da militari. Si arriva dunque a 420.000, in gran parte addestrati da istruttori statunitensi, spesso negli Stati Uniti e per di più temprati dalla continua lotta anti-guerriglia. I Il Venezuela, invece, tra esercito, marina, aviazione e Guardia Nazionale non arriva che a 87.500 uomini. Più 100.000 della Riserva Armata e 180.000 della Guardia Territoriale: milizie di regime la cui capacità mi-

elicotteri e aerei antiguerriglia, anche se gli esperti avvertono che i tal modo la fanteria e i marines colombiani acquisiscono una mobilità insidiosa. Chávez grazie ai petrodollari ha ulteriormente aumentato il suo vantaggio nell’armamento pesante, con l’acquisto in Russia di 24 cacciabombardieri Sukhoi, 53 elicotteri, 100.000 kalashnikov e l’ordinazione di tre sottomarini lanciamissili. Per ragioni ideologiche, però, privilegia le milizie popolari: inadatte alla guerra offensiva e incapaci di utilizzare questi sistemi d’arma sofisticati. Appunto, la retorica è quella di un “Vietnam” contro

Il leader millanta un “vietnam andino” ma non ha le forze per sostenerlo. Tant’è che al suo invio di truppe al confine la Colombia non ha risposto litare è per lo meno dubbia. Ma proprio per questa loro storica inferiorità demografica nei confronti della Colombia i militari venezuelani avevano sempre puntato verso un tipo di qualità che il governo di Bogotá ha dovuto invece trascurare: distratto come era dalle più impellenti necessità della controguerriglia. Così, ad esempio, mentre il Venezuela ha 200 carri armati, la Colombia ne è pressochè sprovvista, anche se ha un buon armamento anticarro. E il Venezuela ha anche superiorità aerea e navale, mentre la Colombia si limita a vedette,

un’ipotetica invasione, che però la Colombia non ha la minima intenzione di fare, tant’è che agli invii di truppe al confine non ha neanche risposto. E poi, il Venezuela importa l’80 per cento di tutto quello di cui ha bisogno e il 30 per cento solo dalla Colombia. Il blocco delle frontiere è dunque soprattutto a suo danno. Coi suoi 59.500 uomini l’Ecuador sta ancora peggio. E quanto ai 14.000 uomini del Nicaragua, con le loro 7 dragamine e 8 vedette non potrebbero in realtà neanche sbarcare nelle pure indifendibili San Andrés e Providencia. Restano le Farc, che alla macchia da sessant’anni sono una delle armate clandestine più efficienti del mondo. Ma con la morte di Reyes è stato per la prima volta sfatato il mito dell’invulnerabilità dei membri del loro Segretariato, e negli ultimi anni i loro effettivi si sarebbero ridotti da 18.000 agli 8000 uomini.

Hugo Chávez, presidente del Venezuela, ha iniziato l’escalation militare con la Colombia rompendo non solo le relazioni diplomatiche e mandando truppe al confine, ma anche spingendo l’alleato ecuadoriano Rafael Correa a fare altrettanto

Ma è soltanto uno sgarbo agli Stati Uniti di Robert D. Kaplan opo che le milizie colombiane hanno ucciso un leader delle Farc sconfinando in Ecuador, Hugo Chavez ha interrotto i rapporti diplomatici con la Colombia e ammassato le sue truppe ai confini. Ma il dispiego delle truppe da parte del megalomane venezuelano Hugo Chavez non deve essere letto come un affronto ai colombiani, ma all’alleato di questo Paese, gli Stati Uniti. Chavez deve provare un enorme senso di inferiorità, perché Alvaro Uribe Velez rappresenta tutto ciò che lui non è. Diciamolo, handicappato per “taglia”e importanza del Paese, il presidente Uribe è il più impressionante e vincente protagonista del mondo democratico. Calmo e workoholic, è quanto di più lontano ci sia dal demagogo. Se il Pakistan o l’Iraq avessero un Uribe, le loro storie sarebbero diverse e avviate al successo. Negli ultimi cinque anni Uribe ha ridisegnato un’area geografica che era nelle mani dei narcoterroristi. E la Colombia sta lentamente raggiungendo dei traguardi così importanti che presto si aprirà anche al turismo internazionale. Incredibile se si pensa che fino a pochi anni fa il Paese non poteva muovere un dito senza l’assenso delle Farc né tantomeno permettersi di oltrepassare le sue “frontiere”. E il fatto che i terroristi siano stati costretti a trovare riparo nelle “aree protette”dell’Ecuador e del Venezuela, testimonia la volontà con cui la società politica e civile ha stretto il cordone intorno al loro collo. Gli Usa hanno aiutato la costruzione del nuovo Stato colombiano con un programma di aiuti diversificato che include anche l’addestramento militare da parte delle nostre Forze speciali. Le milizie colombiane sono le migliori del Sud America. Che Dio le protegga.

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politica

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Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’università di Modena e allievo di Marco Biagi

o statuto dei lavoratori va modificato totalmente». Silvio Berlusconi torna all’attacco sul fronte riformista con un progetto che vorrebbe creare spazio a un modello di organizzazione del lavoro più flessibile e dinamico. Progetto che nel Paese degli eterni immobilismi, rischia però, senza altre riforme essenziali, soltanto di precarizzarlo ulteriormente il lavoro. Ne abbiamo parlato con Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’università di Modena e allievo del professor Marco Biagi assassinato a Bologna il 19 marzo del 2002 dai terroristi delle Brigate Rosse. Professor Tiraboschi che spazio c’è oggi in Italia per una riforma così vasta? Lo statuto dei lavoratori è del 1970, rispecchia il mondo di ieri, il fordismo, l’industria. Oggi serve una legislazione che rispecchi un mondo del lavoro profondamente trasformato. Lei mi chiede che spazio c’è per questa riforma che ritengo necessaria: finchè durerà questa ostilità del sindacato non molta. La Cisl ha avuto delle aperture. La Cisl pensava a uno statuto dei lavori, era il sindacato che più si era aperto all’idea delle riforme. Oggi però questa disponibilità al dialogo mi sembra interrotta: Raffaele Bonanni è stato molto chiaro nel ribadire che l’articolo 18 non si tocca. Invece è nel Pd che si devono registrare novità interessanti, come il recepimento delle norme per i licenziamenti e del contributo che in questi anni sui temi della riforma del lavoro ha dato uno studioso come Piero Ichino. Sarà interessante vedere come reagirà la Cgil a questa evoluzione del Pd, se emergeranno le contraddizioni interne al sindacato. Detto questo quella dello Statuto dei lavoratori non è la prima riforma in ordine di priorità cui deve mettere mano chi è interessato a cambiare davvero e in senso virtuoso il mondo del lavoro. Qual è la prima priorità? Fare emergere il nero dell’economia sommersa italiana, che è moltissimo. E che da un lato è dovuto all’opportunismo e al ci-

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Tiraboschi: «Lo Statuto dei lavoratori va modificato»

Ma la vera priorità è attuare la Biagi colloquio con Michele Tiraboschi di Riccardo Paradisi nismo di chi fa impresa in modo sbagliato, con la complicità di quei lavoratori interessati a sfruttare il nero come secondo o terzo lavoro, dall’altro al peso di una regolazione e di una tassazione eccessiva che grava sul mondo della produzione. Regolazione eccessiva, ma quello che si sente sempre dopo ogni episodio di incidente sul lavoro è che c’è una regolamentazione carente. La regolamentazione sulla sicurezza nel lavoro esiste ma viene sistematicamente

trazione di malattie professionali. In questi giorni l’economista Tito Boeri è tornato a proporre la flexsecurity, contratto unico e salario minimo per saldare i canali separati del lavoro a tempo indeterminato e di quello a scadenza. Che ne pensa? Mi sembra un discorso vecchissimo. Marco Biagi già nel ’96 parlava della necessità di connettere nei contratti di lavoro tutele e anzianità. Se quel dibattito fosse partito allora oggi saremmo molto

«La vera anomalia italiana è che non esiste nessun raccordo tra formazione e mondo del lavoro. I sindacati sono ostili alle riforme, ma tra Cgil e Pd esploderanno le contraddizioni» violata. Il fatto è che anche questa è una regolamentazione vecchia: parliamo di norme che risalgono agli anni Cinquanta del secolo scorso, che si riferiscono a un mondo che non c’è più. È evidente che sia necessario un aggiornamento del campo normativo. Però vede è difficile far rispettare le regole quando poi, come al solito, non c’è certezza della pena. Che intende dire? Il nostro parlamento poche settimane fa approvando il decreto milleproroghe e prima ancora l’indulto ha consentito a mandare liberi decine di condannati per omicidio colposo in riferimento a reati legati agli infortuni sul lavoro e alla con-

più avanti nella riflessione sulle mutazioni in corso nel mercato arrivando magari ad affrontare quello che è il vero nodo della giurisdizione sul lavoro: il superamento cioè della dicotomia fra lavoro dipendente e lavoro autonomo che intanto ha moltiplicato le sue forme. È questa la frattura che va ricomposta. Lavoro flessibile, lavoro autonomo, lavoro atipico. L’impressione però è che il contesto recepisca poco i cambiamenti in corso. Esempio banale: le banche non concedono mutui tanto facilmente a chi non ha garanzie solide o il posto fisso con busta paga annessa.

Quello che lei dice è verissimo. Ma non si può dire che questa chiusura sia colpa del mercato del lavoro. Negli Stati Uniti le banche danno credito anche a chi non ha il posto fisso, se questo in Italia non avviene o avviene con maggiori difficoltà è perché qui non esiste dinamismo e mobilità e non esistono ammortizzatori sociali. Flessibilità in uscita dal mercato e poca in entrata. Già, peccato che la legge Biagi prevederebbe tutta una serie di contratti dove la formazione è continua, e prevede centri per l’aggiornamento e la riqualificazione. Prevederebbe anche la creazione di uffici di collocamento nelle scuole che garantissero agli studenti un ponte di collegamento con il mondo del lavoro, che li mettesse in sintonia con le esigenze del territorio. Usa molti condizionali. Certo perché la riforma Biagi è in grandissima parte non ancora attuata. Non mi risulta che ci siano scuole che abbiano attivato le funzioni di cui parlavo. La realtà è che tutti gli attori del sistema sono in ritardo le istituzioni, gli enti locali, la scuola, l’università. i sindacati. Le imprese no professore? Confindustria tira spesso le orecchie alla politica ma anche l’impresa investe pochissimo in formazione Anche l’impresa certo. Ma ripeto soprattutto scuola e università. La vera anomalia italiana è che non esiste un raccordo forte tra formazione e mondo del lavoro. La formazione italiana prevede transizioni lunghe e nessuna alternanza continua tra scuola e lavoro come prevederebbe la riforma Biagi. Per questo se non si agisce sulla formazione non si va alla radice dei problemi del Paese. Non è incoraggiante quello che lei dice visto che scuola e università sono i comparti storicamente meno riformabili del sistema italiano. Sono settori riottosi è vero. Ma io sono ottimista e sa perché? Perché sarà inevitabile che gli utenti di scuola e università, le loro famiglie, dovranno pretendere agenzie di formazione che garantiscano loro un futuro.


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politica d i a r i o

d e l

g i o r n o

Bonaiuti: il piano B non esiste «I retroscena apparsi su alcuni quotidiani sono pura fantasia, basata sul nulla: ma quale piano B, ma quale Draghi premier. È pazzesco». Il portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Bonaiuti, ha risposto così alle indiscrezioni sulla soluzione alternativa che il Cavaliere starebbe preparando in caso di pareggio con il Pd. «Siamo di fronte a una disinformazione che va oggettivamente a favore della sinistra e questo è preoccupante. Fortuna che i sondaggi continuano a dare al Pdl un vantaggio di 10 punti», ha detto Bonaiuti un una nota, «anche se la sinistra parla di un recupero. La loro è una tecnica, che capisco e scuso. Il fatto è che la sinistra non riesce a rosicchiare neanche un punto, ma ha la necessità di motivare i suoi elettori... È una vecchia tecnica, che però è presa dai guru americani di una volta, non certo dal nuovo Obama. Anche in questo caso Veltroni alla fine segue le vecchie strade».

Casini: Fini è un replicante

Pannella in sciopero della sete, Parisi contro Calearo: «Se c’è lui...»

Pd, confusione radicale di Susanna Turco

ROMA. «Ricordatevi le notti dei lunghi coltelli, di trattative, di ricatti che hanno sempre accompagnato la composizione delle liste e che stanno vivendo in questo momento gli altri partiti». Parlando così ieri al Loft, Dario Franceschini pareva voler intendere che nel Pd queste cose non succedono più. In realtà, proprio nelle stesse ore, polemiche, proteste e fibrillazioni continuano ad accompagnare la lunga marcia verso la consegna delle liste al Viminale. A due giorni dalla chiusura dei tavoli, e nonostante nel frattempo stiano cominciando a venire fuori le candidature della sinistra arcobaleno, il tormentone continua: molte le critiche su quote rosa, caso siciliano, portavoce e figli di, alle quali i vertici del Loft rispondono sfoderando un orgoglio forse degno di miglior causa.Mentre Arturo Parisi, polemico con la candidatura Calearo, fa sapere di non essere più tanto sicuro di voler correre alle elezioni, e i cristiano sociali precisano che nonostante le correzioni in limine mortis, lo «strappo» per i mancati posti blindati resta. Ad appesantire non di poco la questione, la polemica scatenata dai radicali: ieri, nonostante i segnali provenienti dal loft, Marco Pannella ha iniziato uno sciopero della sete, beccandosi pure i complimenti da parte dell’ex direttore dell’UnitàFurio Colombo. Al centro della querelle, il presunto mancato rispetto dei patti: i posti riservati ai nove

candidati radicali non sarebbero tutti sicuri, argomentano da via di Torre Argentina. Di qui la protesta del leader radicale, che però nel delineare la strategia dei prossimi giorni esclude esplicitamente una rottura definitiva: «Per il momento andiamo avanti, continuiamo ad esporci al giudizio e soprattutto confidiamo nell’aiuto della gente dabbene», dice, «ma ritirarci no. Forse è quello che si vuole ma è un favore che non faremo». Nessun passo indietro dalle liste: nessun problema vero per Veltroni, quindi, soltanto la scocciatura (non da poco) di avere i riflettori dei media puntati su una questione di

Franceschini difende staff e figli di: «È gente che ha fatto la storia della politica» poltrone in piena campagna elettorale. Proprio per questo, il numero uno del Loft ha stigmatizzato assai duramente la protesta del leader radicale: «È giusto fare lo sciopero della sete quando si parla di grandi temi sociali come quello contro la pena della morte,non per un motivo come questo», dice. E sull’intesa aggiunge: «Un accordo politico non può essere scambiato con una specie di tram in cui si prenotano i posti e si viene portati», precisando che «non si possono fare modifiche sulle liste».

Del resto, proprio sulle liste del Pd ieri Dario Franceschini ha intonato un vero e proprio peana per il tasso di «rinnovamento, mai visto prima». Con sprezzo del pericolo, il numero due del Pd si è lanciato dritto dritto nella difesa dei molti addetti stampa e figli di che avranno una poltrona. Mentre l’escluso Peppino Caldarola mandava sul web riflessioni come quella per cui «portaborse e i figli d’arte possono fare, nel prossimo Parlamento, un gruppo parlamentare a parte», Franceschini orgogliosamente rivendicava dunque il ruolo di staff e pargoli: «È gente che ha fatto la storia della politica italiana», ha detto, «ricordiamo persone come Casini che sono state collaboratori di Forlani, Andreotti di De Gasperi, Bonaiuti di Berlusconi, persone che hanno fatto la storia del Paese». Come loro, oggi, ci sono tra gli altri il capo ufficio stampa del Pd, Piero Martino, la capo ufficio stampa di Prodi, Sandra Zampa, il portavoce unico del governo Prodi, Silvio Sircana, e uno dei bracci destri di Veltroni, Walter Verini. Quanto all’illustre progenie, «anche io, D’Alema, Franca Chiaromonte, Mattarella, La Malfa, La Loggia siamo figli di parlamentari». Franceschini ha poi risposto punto su punto alle critiche sulla presenza delle donne («più formale che sostanziale», ha notato persino Rosy Bindi) e sui criteri coi quali si sono compilate le liste siciliane, per molti troppo «calate dall’alto»: «In Sicilia è avvenuto quanto è avvenuto in altre parti», ha detto.

Pier Ferdinando Casini risponde a Gianfranco Fini, che martedì aveva accusato l’ex alleato di non aver mandato avanti la legge sulle polizie locali per dare la preferenza ad una legge sulla fiera di Bologna, ai tempi del suo incarico alla presidenza della Camera. Secca la replica del leader dell’Udc: «Poverino. Si vede che Fini ha scarsa conoscenza dei meccanismi parlamentari. Ma poiché polemizzo con Berlusconi, mi pare inutile polemizzare con i suoi replicanti». Contro Casini si è scagliato ieri anche Padre Sorge: «Per 14 anni ha votato tutte le leggi ad personam di Berlusconi, non può pretendere oggi di rappresentare il nuovo».

L’Aventino di Parisi contro Calearo Arturo Parisi potrebbe decidere di ritirare la propria candidatura per le elezioni politiche. Ha ventilato l’ipotesi dopo aver ascoltato le critiche rivolte da Massimo Calearo al governo Prodi. Alcuni cronisti hanno chiesto ieri al ministro della Difesa se esiste una incompatibilità tra la sua presenza e quella del presidente di Federmeccanica nelle liste del Pd, oppure se stia addirittura pensando di non accettare la proposta di candidatura. Parisi ha risposto così: «Sto riflettendo sul da farsi. Ho posto una domanda, una domanda su una questione per me molto rilevante, direi dirimente». Parisi si riferisce allo sconcerto espresso per aver sentito Calearo «santificare Clemente Mastella, che avrebbe fatto bene al Paese pe aver fermato il governo. Mi chiedo come si possa sostenere una cosa del genere», ha detto il ministro, «e fare nello stesso tempo il capolista del Pd. È evidente che attendo una risposta. Questa risposta ancora non l’ho avuta».

Bordon si ritira e appoggia Rutelli Willer Bordon ritira la sua candidatura da sindaco di Roma e sostiene quella di Francesco Rutelli: la lista Unione democratica per i consumatori appoggerà insieme al Pd, alla Sinistra arcobaleno e all’Idv la corsa del vicepremier verso il Campidoglio. Ad annunciare l’intesa, e il successivo apparentamento, sono stati ieri gli stessi Rutelli e Bordon, affiancati da Bruno De Vita, candidato premier dell’Unione democratica per i consumatori, e dall’ex presidente della Provincia di Roma, Enrico Gasbarra, che ha lavorato nelle scorse ore al raggiungimento dell’accordo. Tra i contenuti dell’intesa, la nascita di un ”Mister consumatori” per la città di Roma, una sorta di autorità” locale per il controllo e il contenimento dei prezzi dei beni e servizi, sulla falsariga del garante ”Mister prezzi” nazionale.

Centrosinistra unito alla Provincia di Roma Il candidato del Partito democratico alla Provincia di Roma Nicola Zingaretti sarà sostenuto anche dalla Sinistra arcobaleno, dall’Italia dei valori e dai Socialisti. L’accordo è stato raggiunto ieri durante l’incontro tra i partiti del centrosinistra per la definizione del programma. Alla riunione mancavano i Radicali. «Sono in corso verifiche tecniche», ha detto Zingaretti, «ma con è possibile raggiungere un’intesa anche con loro». Il programma del centrosinistra per Palazzo Valentini sarà presentato venerdì prossimo al Residence Ripetta della Capitale.


polemiche

6 marzo 2008 • pagina 7

La medicina non è in grado di fissare i momenti iniziali e finali della vita

La morte cerebrale è davvero morte? di Roberto de Mattei a proposta di «moratoria per l’aborto» lanciata da Giuliano Ferrara è assolutamente ragionevole. Ma perché non proporre anche una moratoria per la «morte cerebrale»? Fino agli anni Sessanta, la tradizione giuridica e medica occidentale riteneva che l’accertamento della morte dovesse avvenire mediante il riscontro della definitiva cessazione delle funzioni vitali: la respirazione, la circolazione, l’attività del sistema nervoso. Il 1968 però, oltre alla rivoluzione studentesca, ci regalò una nuova definizione di morte. Nell’agosto del 1968 un comitato ad hoc, istituito dalla Harvard medical school, propose un nuovo criterio di accertamento della morte fondato su di un riscontro strettamente neurologico: la definitiva cessazione delle funzioni del cervello, definito «coma irreversibile».

È compito della filosofia, e non della scienza, indagare la natura di questo principio, ed è dovere del biologo ammetterne l’esistenza, se vuole comprendere la realtà che egli studia. Oggi si pretende invece che il biologo si sostituisca al filosofo, per rispondere sulla natura della vita e della morte, attribuendo al termine anima un significato religioso e non razionale.

L

Il problema era nato all’indomani del primo trapianto di cuore, con cui Chris Barnard, nel dicembre 1967, aveva aperto una nuova era nella storia della medicina. Perché il trapianto avesse possibilità di riuscita, era necessario che il cuore dell’espiantato battesse ancora, ovvero che, secondo i canoni della medicina tradizionale, fosse ancora vivo. L’espianto, in questo caso equivaleva ad un omicidio, sia pure compiuto «a fin di bene». La scienza poneva la morale di fronte a un drammatico quesito: è lecito sopprimere un malato, sia pure condannato a morte, o irreversibilmente leso, per salvare un’altra vita umana, di «qualità» superiore? Di fronte a questo bivio, che avrebbe dovuto imporre un serrato confronto tra opposte teorie morali, l’Università di Harvard si assunse la responsabilità di una «ridefinizione» del concetto di morte che permettesse di aprire la strada ai trapianti, aggirando le secche del dibattito etico. Non c’era bisogno di dichiarare lecita l’uccisione del paziente vivo; era sufficiente dichiararlo clinicamente morto. In seguito al rapporto scientifico di Harvard, la definizione di morte venne cambiata in quasi tutti gli Stati americani e, in seguito, anche nella maggior parte dei Paesi cosiddetti sviluppati. In Italia, la «svolta» fu segnata dalla legge 29 dicembre 1993 n. 578 (Norme per l’accertamento e la certificazione di morte) che all’art. 1 recita: «La morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni del cervello». Divenuto rapidamente uno standard medico-biologico e giuridico, il criterio

Uno studio anatomico di Leonardo da Vinci

Ma, anche accettando le premesse della scienza moderna, se qualsiasi scienziato, anche materialista, attesta che, fin dal momento del concepimento esiste un individuo con una propria identità biologica chiaramente definita, nessuno scienziato, è oggi in grado di dimostrare con certezza che questa individualità biologica cessi con la morte cerebrale. Se la vita presuppone un principio integratore dell’organismo e la morte è la disgregazione dell’individuo, come conseguenza della perdita di questo principio, non si può in alcun modo dimostrare che l’encefalo rappresenti l’organo responsabile dell’integrazione delle diverse parti corporee. Il sistema integratore del corpo non è infatti localizzabile in un singolo organo, sia pure importante, come l’encefalo. Se il sistema circolatorio e respiratorio dell’individuo in coma irreversibile funziona, se, come è accaduto, la donna cerebrolesa può ancora mettere al mondo un figlio, se è necessaria la narcosi per evitare le reazioni inconsce del paziente al trauma all’espianto, vuol dire che il processo di disintegrazione non è in corso e che quell’individuo è presumibilmente vivo. L’individuo irreversibilmente cerebro-leso è probabilmente un uomo che sta morendo, ma un uomo che sta morendo non è ancora morto. C’è un’alta possibilità che quel corpo cerebralmente leso conservi ancora un’anima, e quindi la vita, così come quasi certamente ha un’anima l’embrione nella prima fase dello sviluppo. In entrambi i casi, si deve affermare: in dubio pro vita.

Domande sulla legge del 1993 secondo la quale il decesso si identifica con la fine irreversibile di tutte le funzioni del cervello umano

neurologico per determinare la morte è oggi un requisito fondamentale per rendere possibile il prelievo degli organi da destinare al trapianto. Anche molti bioeticisti cattolici, che condannano con fermezza l’aborto e l’eutanasia, hanno accettato il concetto di morte cerebrale. Essi non ammetterebbero mai la liceità dell’uccisione di una persona umana, ma negano che l’individuo espiantato sia persona umana, perché considerano scientificamente acquisita la definizione di morte cerebrale.

Il caso della morte cerebrale costituisce in realtà un tipico esempio di quella confusione del piano scientifico con quello etico e con quello filosofico a cui spesso giunge la scienza bioetica, anche di parte cattolica. Sul piano scientifico infatti, il clinico o il biologo può solo accertare la vita in atto, o l’avvenuta morte, di un individuo, ma non ha la competenza per definire che cosa è vita e che cosa è morte, a meno di non smettere i panni dello scienziato per indossare quelli del filosofo. La medicina non è in grado di pronunciarsi sull’essenza della vita, né di definirne l’esatto momento iniziale e finale. La vita non è costituita solo dall’agglomerato di forze fisico-chimiche di cui è formato l’organismo, ma anche di un principio di diversa natura, che la tradizione occidentale definisce «anima», capace di regolarne l’attività e di unificarne l’azione.

Roberto de Mattei ha curato la pubblicazione del volume Finis Vitae. La morte cerebrale è ancora vita?, pubblicato in coedizione dal Cnr e da Rubbettino (Soveria Mannelli 2008, pp. 482, ¤ 35.00)

Puntano a restare soli in un vuoto di contenuti

L’inquietante giochino dei gemelli Walter e Silvio di Luca Volonté due gemelli, Walter e Silvio, non hanno firmato la petizione del Forum delle famiglie. Forse non hanno neanche una chiara idea di famiglia. Credo che di fronte a opportunismi del genere sia giusto indignarsi, capisco il disgusto di quegli elettori che pensano di non andare a votare. Il monarca Silvio Berlusconi (lui stesso si definisce così) ha idee talmente confuse sulla vita, la famiglia, la libertà di educazione e la sussidiarietà che preferisce non partire da questi «principi non negoziabili» nell’elaborazione delle sue ricette. Il suo gemello Veltroni invece le idee le ha chiarissime sul metodo e non sul contenuto. Vuole amalgamare Binetti e Bonino, in una maionese impazzita da servire poi agli italiani. L’ipotesi di negoziare le scelte sulla famiglia fa solo ridere. Immaginate di dover trovare una mediazione tra la scienza che afferma la nascita della vita fin dal concepimento e l’ideologia che vorrebbe la selezione dei concepiti ”non adatti”. Che farà Veltroni? Dirà, a seconda dell’opinione prevalente nel Pd, che la vita è sacra dal concepimento ma anche dalla ventitreesima settimana soltanto? Verrebbe da sorridere se la duplice ambiguità dell’anarchia berlusconiana e della mediazione veltroniana non fosse drammatica. Scegliere la Binetti significa portare in Parlamento la Bonino e i radicali. Apprezzare l’amico Mantovano vuol dire far eleggere il suo opposto nella battaglia sulla legge 40, Stefania Prestigiacomo. Sono identici i programmi: ognuno dei due ritiene che l’altro abbia copiato. Certo comune è l’inganno: si adotta una definizione evanescente e si rimanda al dopo. Non c’è solo confusione, c’è una vera e propria tentazione di appropriarsi di tutto e del contrario di tutto, di tutti gli ideali e di tutti i disvalori insieme. E sono sconcertanti le richieste di ”voto congiunto”: o sei per il Pd o per il Pdl, ma non puoi essere per gli altri.

I

Inquietante è poi la mancanza di disponibilità al confronto. Ci si può incontrare, ma solo con i giornalisti e mai in contraddittorio con gli altri candidati premier. Solo monologhi da parte dei due gemelli Walter e Silvio. Una strana idea della democrazia che vorrebbero trasferire Parlamento. Strana al punto da giustificare il sospetto che i due siano già d’accordo su tutto lo scenario prossimo futuro. Vale la pena invece buttarsi nella mischia in difesa della trasparenza e dell’identità. Gli attacchi combinati che ogni giorno Veltroni destina a Bertinotti e Berlusconi a Casini attestano la comune strategia di azzerare i concorrenti, l’uno a sinistra e l’altro al centro dello scacchiere politico.Tra Pd e Pdl nessuno vero scontro, nessuna alternativa, nessun conflitto sui contenuti. Solo botte da orbi riservate a chi difende un’identità e ha un progetto per il Paese. Anche questo ci sprona a impegnarci, abbandonando al loro destino i due paurosi e aggressivi gemelli, pericolosi al punto da voler ridurre la democrazia a un inciucio, opaco e violento. In alto i cuori, al lavoro.


pagina 8 • 6 marzo 2008

L’ITALIA AL VOTO lessico e nuvole

La fattoria degli animali: il falco, l’aquila il cane e l’orsetto di Giancristiano Desiderio

La comunicazione politica sotto esame La domanda viene spontadel tipo, “forti delle nostre nea guardano i manifesti idee, punto e a capo” (dielettorali dell’Udc: perché il mentichiamo il passato, punto? Già, perché il punto. Berlusconi, Fini…). OppuNella comunicazione di re, “forti delle nostre idee, di Arcangelo Pezza questo genere, come tutti i questo è il punto” (mentre buoni copy insegnano, la gli altri partiti difettano di punteggiatura non si usa. Sopperiscono gli “a capo”, e poi il ti- identità riconosciuta). O forse,“forti delle nostre idee, vi basti po, lo stile, le dimensioni del carattere utilizzato.Virgole e am- questo” (non vogliamo diluire i nostri valori per ampliare il mennicoli simili deturpano la linearità del concetto, espresso consenso). Di certo, a guardare il Casini sorridente a fianco di attraverso parole che tendono a diventare simboli (chi ha tem- tre quarti e compulsando i sondaggi in circolazione, la cosa po e fegato, può approfondire il tema spulciando la conferen- certa è che sono più di uno i punti percentuali in più che l’Udc spera di aggiungere al suo bottino. za di Derrida sull’uso delle virgolette). Invece, chissà perché, Casini ha scelto lo slogan «Forti delle Se tutto fila, non si capisce però il già sentito sottoclaim di folnostre Idee.» Che ad esser rigorosi andrebbe letto come «forti liniana memoria, «io c’entro.»; cioè «io c’entro, punto». Questa delle nostre idee punto», visto che il pallino, tra l’altro, è ben vi- seconda puntualizzazione è esagerata. Bastava «io c’entro» sibile, rompe l’allineamento verticale dello slogan, e non può che gioca con «io centro». Perché come diceva il Barnum di Baricco e Casini dovrebbe averlo imparato: «la realtà va a capo certo essere derubricato a svista del grafico. Quel “punto” dunque dovrebbe suggerire qualcosa all’elettore quando non te l’aspetti, se ne frega della punteggiatura».

Casini, punto e a capo

La politica è una grande fattoria degli animali. Ci sono asinelli, cani, uccelli e, tra questi, falchi e aquile. L’ex presidente di Federmeccanica è candidato con il Walter e Bertinotti ha definito Calearo “falco di Confindustria”. Massimo D’Alema ha voluto precisare: “La posizione del Pd non è quella dei falchi di Confindustria perché la posizione del Pd è quella rappresentata dal ministro Damiano”. Più aquila di così si muore. Marco Pannella ieri ha interpretato la parte del cane che non morde: “In un Paese nel quale come sappiamo la legalità è negata, in un Paese che non è democratico, non è uno Stato di diritto, non ci si deve sorprendere se si manca alla parola data o si tenta di farlo”. Allora i radicali vanno via, sbattono la porta del loft democratico? “Ritirarci? No, forse è quello che si vuole ma è un favore che non faremo”. Si continua ad abbaiare. Così quell’orsetto del Walter, l’animale più buonista di tutta la fattoria, ha calato l’asso: “Un accordo politico non può essere scambiato con una specie di tram in cui si prenotano i posti e si viene portati. Ai radicali dico: viviamo insieme la bellezza di una sfida politica con lo stesso entusiasmo”. Prendere o lasciare e poi tutti insieme a vivere la bellezza di una sfida persa.

Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda

Il sondaggio dei sondaggi Pdl+Lega

la media di oggi Demosk. Crespi Digis Ipr Swg Demop. Ipsos 3 marzo

3 marzo

02 marzo

29 febbraio

27 febbraio

27 febbraio

25 febbraio

Pd+Idv

Sin-Arc

Destra

Socialisti

(+0,1)

6,8

(+0,1)

37,0 (=)

7,1

(-0,1)

2,1

0,9

45,0 45,1 45,2 43,0 42,7 45,0 45,9

7,5 6,9 6,9 7,0 7,4 6,0 6,2

36,0 35,0 37,9 36,0 37,2 37,0 39,4

7,1 6,5 6,5 7,5 7,2 8,0 6,2

2,0 4,0 1,3 2,5 1,7 2,0 1,7

0,5 1,5 1,1 1,5 0,6 0,9

44,5

Udc+Rb

(=)

(=)

La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.

di Andrea Mancia Nuovo sondaggio Demoskopea sulle intenzioni di voto relative al 3 marzo. Si tratta del terzo sondaggio consecutivo che, dalla scorsa settimana, registra un avanzamento della coalizione guidata da Berlusconi (+1%) e un arretramento della coalizione guidata da Veltroni (0,5%). Cresce, secondo Demoskopea, anche l’Unione di Centro guidata da Casini (+0,5%), mentre la Sinistra Arcobaleno di Bertinotti (-0,5%) non sembra per ora in grado di frenare l’emorragia di consensi. Stabili la Destra (2%) e i Socialisti (0,5%). Nella nostra tabella, il nuovo sondaggio di Demoskopea prende il posto di quello effettuato il 25 febbraio dallo stesso istituto di ricerca. Le medie, dunque, non cambiano granché, con il PdL e l’Udc che

guadagnano lo 0,1%, mentre la Sinistra Arcobaleno perde altrettanto. Stabili Pd, Destra e Socialisti. Il vantaggio di PdL+Lega nei confronti di Pd+Idv sale al 7,5%. Come ha sottolineato Nicola Piepoli, intervistato da Apcom, bisogna sottolineare che a quaranta giorni dalle elezioni «gli indecisi sono ancora il 25%» dell’elettorato potenziale. Malgrado ciò, spiega Piepoli, il quadro generale «sembra abbastanza delineato: in questa ultima settimana la distanza tra il Pd e il PdL è aumentata sensibilmente e un eventuale sorpasso è sempre più improbabile. La vera incognita resta l’Udc, per la quale dei cambiamenti percettibili sono in atto ma non sono ancora quantificabili».


L’ITALIA AL VOTO a terza puntata del mio viaggio tra i protagonisti dell’economia italiana alla vigilia del round elettorale mi porta a incontrare il presidente di Unioncamere, Andrea Mondello. In realtà è lui che viene a trovare me, nel mio ufficio romano vicino al Quirinale. Lavoriamo a pochi isolati di distanza. Davanti a un caffé si comincia a parlare proprio della Capitale. Del famoso “modello Roma” di cui Mondello, insieme all’ormai ex sindaco Walter Veltroni, è considerato uno dei fondatori. Oggi questo cinquantottenne dall’aria sportiva è il leader delle Camere di Commercio italiane, ma tra i suoi vari incarichi c’è anche la presidenza di quella locale, della Fiera di Roma, oltre alla vicepresidenza di “Musica per Roma”, la holding che gestisce l’Auditorium di Renzo Piano, simbolo stesso della città in “salsa veltroniana”.

L

Partiamo allora proprio dalla rinascita della città. Che secondo Mondello dimostra chiaramente come sia possibile combattere contro il declino. «Il declino è sempre ignobile. Sempre e comunque», mi dice accorato. Soprattutto se crea disuguaglianze. Uno dei temi che più gli stanno a cuore è infatti la disparità geografica, soprattutto la differenza di statura economica all’interno del Paese, che in certe sue parti sembra la Svizzera e in altre la Tunisia, per non dire di peggio. È un’Italia «drammaticamente disomogenea», mi dice, «spaccata in due, con un Centro-Nord che ha tassi di crescita europei e ha saputo interpretare i nuovi assetti del mercato come importanti opportunità. Non è pensabile che la locomotiva nazionale, l’area che tiene testa alle regioni più avanzate d’Europa, debba scontare un deficit competitivo così penalizzante che deriva anche dall’insufficienza infrastrutturale e dall’inefficienza burocratica». D’altra parte dal Mezzogiorno, dicono i dati Unioncamere, continuano ad arrivare «segnali di crisi endemici», con un reddito pro-capite inferiore del 38 per cento alla media nazionale. Mi viene il dubbio che il romanissimo Mondello sotto sotto sia un po’ leghista. Poi invece capisco la sua vera anima: è un ultrà europeista. «Bisogna smettere di ragionare col vecchio schema NordCentro-Sud», mi dice convinto, «bisogna avere uno sguardo non provinciale, confrontarsi con la dimensione europea, e chiedersi perché il nostro Mezzogiorno segua un percorso opposto a quello degli altri Sud d’Europa». Le regioni a sviluppo tardivo, i late comers, stanno crescendo. E allora qual è la ricetta? Secondo Mondello bisogna intervenire sulla formazione, sulla cultura della legalità, sulla sicurezza prima di tutto. Perché sicurezza, legalità e sviluppo – il presidente Unioncamere ne è certo – progrediscono di pari passo. È una visione molto politica: non a caso tanti lo davano come possibile candidato a Roma per il dopo-Veltroni. Lui ha preferito declinare l’invito. Ma quella della res publica è una dimensione

6 marzo 2008 • pagina 9

La classe dirigente. Viaggio tra gli operatori economici/Andrea Mondello

«È ancora lo statalismo il nostro male oscuro» di Enrico Cisnetto

Nella foto grande, da sinistra, Roberto Colaninno e Pier Luigi Bersani. Per Andrea Mondello (nella foto piccola), la stagione delle privatizzazioni in Italia non ha aperto il mercato, ma trasferito al privato i monopoli pubblici

Per il presidente di Unioncamere l’antipolitica nasce da responsabilità oggettive: «Il potere pensa a creare privilegi invece di realizzare le infrastrutture necessarie allo sviluppo» che continua ad appassionarlo. Si dice preoccupato, molto preoccupato del clima di antipolitica che ha permeato il Paese negli ultimi tempi. Mondello vede il punto di partenza proprio nella percezione diffusa di una distanza tra la vita dei cittadini, le loro esigenze, i loro diritti ma anche i loro doveri, e il comportamento del mondo politico, che appare chiuso in se stesso, legato a logiche incomprensibili. E anche qui insiste sul tema delle disuguaglianze, legato all’impressione di una politica che spesso inventa la spesa e costruisce il privilegi. Non a caso una questione che lo appassiona, e lo indigna, è quella delle liberalizzazioni. Lo Stato, mi dice, «è ancora presente in molte aree produttive in cui non dovrebbe trovarsi, e si continuano a generare inefficienze». Non gli piace in particolare com’è stata condotta la vecchia stagione affrettata e raffazzonata delle privatizzazioni, che non ha veramente aperto il mercato, ma ha semplicemente rimosso monopoli ed oligopoli pubblici per crearne di privati. Qui, sostiene, «c’è ancora molto da fare: basti pensare al caso limite delle utilities e

degli enti pubblici locali. Un caso palese in cui lo Stato, attraverso le amministrazioni locali, tende a espandere in maniera significativa il proprio peso e la propria inefficienza nel mondo dell’economia.

Torniamo a bomba, vale a dire all’economia. Tutti i leader che sto sentendo in questi giorni per il mio piccolo viaggio nel Paese reale mi ripetono senza eccezioni che il focus dev’essere acceso su come rilanciare la crescita, su come far ripartire il sistema Paese, spostandolo dal piano inclinato in cui si trova. Mondello non fa eccezione. Forte della sua passata esperienza come vicepresidente nazionale di Confindustria, si associa in particolare all’analisi di chi (e mi metto tra questi) non ha urlato negli ultimi tempi al “piccolo boom”delle piccole imprese italiane, alla leggenda metropolitana secondo cui basterebbero queste a tenere insieme l’intera economia italiana, ma semmai ha denunciato il drammatico problema di crescita di un sistema datato che non è più in grado di sostenere la competizione globa-

le. Il quadro che descrive, grazie anche ai dati della stessa Unioncamere, mostra un tessuto imprenditoriale «formato per oltre il 95 per cento da piccole e piccolissime imprese, che in questi ultimi anni hanno affrontato una vera e propria “selezione darwiniana”. Imprese che hanno mostrato segnali crescenti di sofferenza in termini di produzione, fatturato, occupazione. A trovarsi in maggiore difficoltà sono state, in particolare, le piccole imprese che operano isolate. Una fascia pari a circa il 30 per cento del totale è riuscita, invece, a sviluppare una capacità di operare in rete che, insieme al fattore qualità, si è rivelata vincente e ha consentito di rafforzare l’export e lanciare nuovi prodotti». Per questo, dice Mondello, «serve un serio piano di rilancio, una nuova politica industriale che accompagni lo sviluppo e la “messa in rete” delle piccole imprese». Così come è necessario agire a sostegno delle medie: quelle che, secondo i dati Unioncamere, hanno visto crescere export (+74 per cento) e fatturato (+58 per cento) negli ultimi 10 anni. È su queste, mi dice Mondello, che bisogna puntare per il futuro. Salvo naturalmente il ruolo delle “grandi”, che sole possono rappresentare il ruolo di “testa di ponte”sugli scenari internazionali. (www.enricocisnetto.it)


pagina 10 • 6 marzo 2008

mondo

Texas e Ohio non bastano a Hillary

Una rimonta che non decide l’esito finale di Michael Novak a grande battaglia della notte scorsa alla fine si è decisa a favore di Hillary Clinton. Nonostante l’esito finale della “guerra” sia ancora molto incerto, è possibile sin da ora affermare quattro verità senza temere future smentite.

L

Primo, John McCain, l’eroe di guerra che ha passato anni nelle prigioni di guerra vietnamite, torturato al punto che ancora oggi non riesce a portare il braccio al di sopra della spalla e ha altre parti del suo corpo che risentono delle conseguenze di quei traumi, ha superato la cifra magica - 1191 delegati - necessaria per la nomination alla presidenza degli Stati Uniti. Domani il George Bush lo incontrerà alla Casa Bianca per comunicargli l’entusiastico sostegno alla sua candidatura della presidenza. Secondo, il governatore Mike Huckabee si è cavallerescamente ritirato dalla corsa per la Casa Bianca, congratulandosi con McCain per la battaglia condotta con coraggio. Un atto di notevole civismo da entrambi i concorrenti. Terzo, vincendo le primarie in Rhode Island, Texas e Ohio, Hillary Clinton ha interrotto una lunga serie di sconfitte. Dimostrando, al dunque, di essere in grado di vincere altre primarie. Detto questo, non va affatto dimenticato che Obama ha conquistato il Vermont. Quarto, nonostante le vittorie di Hillary Clinton in Texas, Rhode Island e Ohio, la distanza che la separa da Obama - oltre 100 delegati - è rimasta in piedi. Questo è dovuto alle regole per la nomination democratica che prevedono la distribuzione dei delegati proprorzionale, almeno in parte, al voto popolare, e l’ultimo voto popolare garantisce un risultato che si divide in parti uguali. Inoltre le regole del partito democratico in Texas (in ogni Stato il partito decide in modo differente) richiedono che un terzo dei delegati venga assegnato dai caucus che si riuniscono subito dopo il voto popolare. Il risultato è tale che nonostante la sconfitta - una sorpresa per molti analisti ma non per i lettori di liberal - Obama potrebbe conquistare la maggioranza dei delegati eletti dai caucus. In altre parole, Hillary Clinton può vantarsi di una vittoria a sorpresa solo per quanto riguarda il voto popolare, mentre il senatore Obama può dire di aver incrementato la distanza per quanto riguarda il numero dei delegati.

Il senatore dell’Arizona raggiunge la certezza matematica della nomination

Clinton-Obama agli insulti, Mc Cain vede la Casa Bianca di Andrea Mancia illary Clinton vince in Texas, Ohio e Rhode Island, salvando la sua campagna elettorale a un passo dal baratro. Barack Obama vince soltanto in Vermont e perde, ancora una volta, l’occasione per sferrare il colpo del k.o. nei confronti della ex First Lady. John McCain vince ovunque, costringe Mike Huckabee al ritiro, e si gode lo spettacolo della guerra civile interna al partito democratico. È questo, in estrema sintesi, il quadro che emerge dal mini-Tuesday di ieri nelle primarie americane. Hillary ha vinto con più di 200mila voti di vantaggio in Ohio, smentendo i sondaggi della vigilia che la vedevano quasi alla pari con Obama, ma soprattutto è riuscita ad avere la meglio anche in Texas (nelle primarie, almeno, perché nei caucus il senatore dell’Illinois sembra in leggero vantaggio). Più scontato l’esito del Rhode Island (58-40 per la Clinton) e del Vermont (54-44 per Obama), dove la composizione demografica degli stati spingeva verso un risultato quasi obbligato. Le buone notizie per Hillary non sono poche. Innanzitutto è riuscita a fermare il momentum di Obama, dopo dodici sconfitte consecutive. Poi è riuscita - almeno in Ohio - a conquistare il voto di alcuni segmenti dell’elettorato che fino ad oggi erano stati piuttosto tiepidi nei suoi confronti: i maschi bianchi, i protestanti e i non-iscritti ai sindacati. Infine - e questo è senz’altro il risultato più importante - Hillary ha confermato di essere superiore a Oba-

H

Interrotta la striscia positiva di Barack. Le primarie democratiche rischiano di trascinarsi fino all’estate, ad esclusivo vantaggio del candidato repubblicano ma negli stati più popolosi. E negli swing states che, tradizionalmente, restano in bilico tra democratici e repubblicani fino al giorno delle elezioni. Se, però, in molti erano stati troppo frettolosi nel giudicare impossibile la rimonta di Hillary, sarebbe altrettando sbagliato tornare a considerarla la favorita per la nomination.

Obama ha conquistato abbastanza delegati in Texas e Ohio da consolidare il proprio vantaggio “matematico” in vista della convention di Denver del 25 agosto. Jonathan Alter, di Newsweek, ha calcolato che - anche supponendo che ieri per Hillary sia iniziata una “striscia positiva”in grado di resistere fino all’estate - è molto probabile che Obama riesca a mantenere il proprio vantaggio nel numero dei pledged delegates. Tutto, dunque, continua a ruotare intorno ai “super delegati” espressi dal partito, che ormai da qualche settimana stanno subendo le pressioni disperate dei due candidati. A meno di un clamoroso dream ticket Obama-Clin-

ton (o Clinton-Obama?), insomma, l’ipotesi più probabile è quella di una guerra di trincea, lunga e sanguinosa, che rischia di protrarsi fino alla convention nazionale.

A trarre i maggiori benefici da questo scenario, naturalmente, dovrebbe essere John McCain, che ieri ha vinto largamente in tutti gli stati, superando il “numero magico” di 1191 delegati che gli consentirà di avere la maggioranza assoluta alla convention di settembre e costringendo Mike Huckabee al ritiro. Se Hillary e Obama dovessero continuare a combattersi fino a primavera inoltrata, il senatore dell’Arizona avrebbe almeno tre mesi di vantaggio sui democratici per organizzare e lanciare la propria campagna a livello nazionale. Già adesso, nei sondaggi, McCain si comporta discretamente sia nei facciaa-faccia con la Clinton (meglio) che in quelli con Obama (peggio). Nelle ultime settimane, poi, i due candidati democratici hanno iniziato ad alzare il livello degli attacchi negativi reciproci. Hillary mette in dubbio le capacità di leadership di Obama. Obama accusa il clan Clinton di giocare la carta della razza. Hillary attacca l’integrità di Obama, alimentando i sospetti su un presunto scandalo immobiliare a Chicago. Obama risponde con una serie di pesanti pubblicità anti-Clinton. Un altro paio di mesi così e i repubblicani potrebbero iniziare a sospettare che, tutto sommato, la Casa Bianca non è impossibile da riconquistare.


mondo

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La svolta a sinistra dell’Spd mette in discussione la figura di Beck

Pentapartito alla tedesca di Katrin Schirner

BERLINO. Kurt Beck, presidente dei socialdemocratici tedeschi (Spd), in questi giorni è spesso sulle prime pagine dei media tedeschi. Der Spiegel, importante settimanale di Amburgo, lo raffigura addirittura in compagnia di Marx e Lenin. Prima di quanto si pensasse Beck ha aperto alla possibilità di una collaborazione con il partito della sinistra radicale, la Linke di Oskar Lafontaine. Fino ad ora, infatti, la Spd aveva giurato che con i populisti della Linke non avrebbe nemmeno preso un caffè (anche se nei territori orientali della Germania, l’ex Ddr, le due forze politiche sono coalizzate nei governi locali). Lo stesso Beck si era più volte espresso in questo senso. Ma anche da parte della Linke - composta ad Est da vecchi esponenti comunisti della Ddr e ad Ovest da “ribelli” della Spd - si era più volte negata questa possibilità. Le elezioni in Assia e ad Amburgo sembrano aver completamente cambiato questo scenario. A fine febbraio Beck in una chiacchierata confidenziale con alcuni giornalisti si era lasciato sfuggire dichiarazioni compromettenti. «Si potrebbe immaginare - aveva detto - che la candidata della Spd in Assia, Andrea Ypsilanti, venga sostenuta dalla Linke per l’elezione a primo ministro del Land». In Assia, infatti, la Spd pur alleandosi con i Verdi non avrebbe i numeri per governare. La stessa equazione sarebbe valida anche per una Cdu coalizzata solo con liberali della Fdp. Una coalizione a tre con Spd,Verdi e Fdp, d’altra parte, risulta impossibile per il rifiuto finora opposto dai liberali. Anche l’ipotesi di una grande coalizione tra Spd e Cdu non risulta percorribile vista l’insistenza democristiana a mantenere in carica l’attuale primo ministro Roland Koch, un conservatore che durante la campagna elettorale ha polarizzato molto il quadro politico. “Situazione da Assia” è ormai diventato uno slogan in uso a Berlino per definire le recenti difficoltà tedesche a formare un governo. Ma nel futuro la situazione dell’Assia potrebbe diventare pane quotidiano per Berlino. Per la Germania il nuovo sistema a cinque partiti sarà un vero e proprio banco di prova.

Per questo motivo lo scatto di reni del presidente socialdemocratico non è privo di logica. La Spd deve però chiarire innanzitutto a se stessa quale approccio intende tenere con la Linke. Le modalità lasciate intendere da Beck sono state criticate da tutti.“Violazione della parola data” è stata l’accusa partita dall’interno del suo stesso partito. In Assia la Spd ha ricevuto molte email di protesta dai propri iscritti. Ricordando la piattaforme elettorale del partito si ribadisce che al momento della scelta socialdemocratica, una successiva intesa con la Linke non era presa in nessuna considerazione. È naturale che ora tutti si chiedano se sia il caso di fidarsi della Spd quando sostiene che con la Linke si può forse governare assieme nei Laender ma non a livello federale.

tito vedono in questa strategia più rischi che opportunità. Su tutti i due vice presidenti del partito, il ministro delle Finanze Steinbrueck e quello degli esteri Steinmeier. Entrambi considerano un errore politico vedere nella Linke un partner potenziale. Dopo tutto sia la Spd che la sinistra estrema sono a caccia di voti nello stesso bacino elettorale. Il ministro Steinmeier viene anche visto come alternativa a Beck come futuro candidato alla cancelleria nel 2009. Una scelta che finora nessuno aveva osato mettere in discussione. L’ala destra del partito teme di perdere i consensi moderati. Si tratta di elettori conquistati faticosamente durante il periodo di Schroeder e delle sue riforme. È chiaro che qualora la Spd perdesse questi ceti non riuscirebbe a formare maggioranze di governo neanche con il sostegno della Linke. Senza parlare poi delle potenzialità che si aprirebbero in questo caso ai Verdi, non a caso attualmente corteggiati della Cdu. Ieri infatti si sono svolti ad Amburgo colloqui preliminari tra gli esponenti dei due partiti in vista della formazione del nuovo governo della città-Stato. Il giorno dopo le elezioni, si era fatta strada l’ipotesi di una coalizione neroverde tra la Cdu ed i Verdi. Il leader della Cdu cittadina, Ole von Beust, è ritenuta una personalità disposta al compromesso. Proprio l’uomo che ci vuole per tentare l’esperimento di una inedita coalizione regionale. Sarebbe la prima volta per la Germania. qunto questo scenario possa diventare realtà lo dimostra l’Assia. Anche a Wiesbaden il rigido conservatore Koch aveva fatto la stessa offerta ai verdi. Partecipare all’alleanza tra Cdu e liberali. Dal punto di vista dei democristiani questo sarebbe l’unico modo per impedire un governo della rosso-rosso, Spd e Linke. I Verdi potrebbero diventare ciò che sono stati i liberali della Fdp. Una cerniera tra i due grandi partiti popolari che ha funzionato quarant’anni.Visto il panorama politico tedesco ai verdi potrebbe spettare il ruolo di “ago della bilancia”tra il blocco nero-giallo e quello rosso-rosso. Una cosa è però già chiara. Questa propettiva nasconde in rischio della spaccatura del partito ecologista.

Se la Spd perdesse i ceti moderati non potrebbe formare maggioranze di governo neanche con il sostegno della Linke Se Beck volesse oggi potrebbe farsi eleggere Cancelliere dal Bundestag con i voti della Linke. Lo strumento esiste. La Costituzione tedesca prevede la possibilità della sfiducia costruttiva (ossia le dimissioni di un governo in carica quando vi siano i numeri sufficenti per una maggioranza alternativa). In questo modo nel 1982 Helmut Kohl è diventato Cancelliere. Allora erano stati i liberali ad abbandonare la Spd per schierarsi con la Cdu. Tra i leader socialdemocratici esiste già la tentazione di utilizzare i voti della Linke se il post elezioni 2009 lo permetterà? Questa prospettiva non entusiasma affatto gli elettori socialisti. L’attuale svolta a sinistra ha infatti fatto calare l’intenzione di voto per la Spd. Inoltre spezzoni importanti della dirigenza del par-

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Serbia spaccata sulla Ue È bastato un mese per riportare in auge i pericoli che si temevano in caso di vittoria di Tomislav Nikolic alle elezioni presidenziali serbe. Dove non è riuscito il leader radicale nazionalista, battuto da Boris Tadic il 3 febbraio, è riuscita l’Europa, che con il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di diversi suoi membri e con l’avvio di una missione civile non concordata con Belgrado ha causato in pratica la determinazione di una nuova maggioranza - contraria all’ingresso nell’Ue - nel parlamento serbo. Per sbloccare la situazione Dulic ha ipotizzato la celebrazione di un referendum sull’adesione all’Unione europea. Un’ipotesi che potrebbe anche farsi strada o semplicemente lasciare il passo a elezioni legislative che in qualche modo avrebbero i connotati del referendum. Kostunica si è detto più favorevole a questa seconda ipotesi.

Paura per il film anti-Corano Salgono le tensioni e le preoccupazioni per l’imminente pubblicazione del film anti-Corano del parlamentare olandese Geert Wilders, intitolato Fitna. Wilders, come anticipato da liberal tre settimane fa, insiste che la pellicola verrà resa pubblica in un modo o nell’altro entro il mese in corso, anche se per ora manca una data precisa e sempre più viva si fa la memoria delle proteste anche molto violente per le vignette satiriche su Maometto pubblicate da alcuni giornali danesi nel 2006. E così la Commissione europea corre ai ripari, allertando le proprie rappresentanze in giro per il mondo, mentre la Nato si mostra sempre più preoccupata per l’incolumità dei propri militari, olandesi ma non solo, impegnati in Afghanistan, tanto da parlare di «potenziali effetti incendiari».

Gb, sul Trattato Ue Nick Clegg perde Il neo leader del Partito liberaldemocratico britannico, Nick Clegg, va incontro alla sua prima sconfitta interna. Questo pomeriggio, infatti, un gruppo di deputati liberaldemocratici dissidenti voterà a favore del referendum sul trattato europeo, contravvenendo alle sue istruzioni.Ad essi si uniranno anche 30 parlamentari laboristi favorevoli alla consultazione popolare.

Sanità killer in Iraq Questa è davvero una storia incredibile. Un uomo, Abbas al-Zamalli, vice ministro della Sanità iracheno, è stato arrestato un anno fa dalle truppe Usa e da quelle irachene con l’accusa di essere implicato in diversi omicidi a sfondo religioso a danno di iracheni sunniti. Si dice pure che un suo stretto collaboratore abbia complottato contro il premier sciita in carica. I media iracheni hanno scritto molto su di lui, dicendo ad esempio che egli ha guidato uno dei più famigerati squadroni della morte e che ha ordinato l’eliminazione di numerosi medici e cittadini inermi a Sadr City, il quartiere sciita di Baghdad. Si dice pure che egli abbia pagato la propria milizia con fondi governativi, piazzando dei cecchini sul tetto di un ospedale per assassinare i parenti delle vittime che venivano a recuperare i cadaveri dei loro congiunti. Ma il tribunale lo ha assolto da tutte queste accuse nefande, anche se i giornali iracheni dicono che i testimoni contro il vice ministro sono stati intimiditi e quindi in aula hanno dovuto cambiare la loro versione.

I Windsor in Turchia dopo 36 anni La regina Elisabetta d’Inghilterra e il principe Filippo saranno a maggio in Turchia per una visita ufficiale, la prima in oltre 36 anni. A darne annuncio in una nota e’ stato Buckingham Palace: «La Regina e il duca di Edimburgo saranno in visita di Stato a maggio, su invito del presidente Abdullah Gul». I regnanti britannici erano stati per l’ultima volta in Turchia nell’ottobre del 1971. Nel novembre scorso, di ritorno da un vertice del Commonwealth in Uganda, il principe Carlo e Camilla si erano fermati per cinque giorni in Turchia per una visita culturale.

Kenya, assaliti otto italiani Doveva essere una vacanza rilassante sulla costa kenyota, invece si è trasformata in una brutta avventura. Otto turisti italiani sono stati rapinati subito dopo il loro arrivo nella villa che li ospitava a Malindi. Una gang di sei rapinatori armati di machete, coltelli e klashinkov è entrata nell’abitazione, accanto a quella del deputato di Alleanza Nazionale Maurizio Leo, e ha assalito gli ospiti, tre dei quali sono stati picchiati, feriti e ricoverati per medicazioni nel locale ospedale Saint Peter.


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speciale educazione

Socrate

In un libro di Giorgio Israel la denuncia di un’istruzione che uniforma tutti verso il basso

SALVATECI DALLA SCUOLA DEI MEDIOCRI di Francesco Lo Dico ostiene Giorgio Israel che di fronte a certi cronici malanni, occorrerebbe chiedersi se la mancata guarigione possa dipendere da una diagnosi sbagliata, piuttosto che da un impiego troppo blando dei farmaci prescritti. In modo analogo, raccolti attorno al suo capezzale da più di vent’anni, esperti e professionisti delle riforme, hanno sottoposto la scuola a un accanimento terapeutico infruttuoso. Nessuno di loro si è chiesto cioè se qualche veleno sia stato da loro scambiato per una buona medicina, e noncuranti ne hanno moltiplicato le dosi. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stato il decorso senza fine di una malattia contagiosa, il disastro dell’istruzione pubblica, che ha trascinato con sé migliaia di piccole cavie in quel bislacco esperimento che è stato – e continua a essere – la nostra scuola dell’obbligo.

S

Lungi dall’essere una noiosa anamnesi di date, documenti e interventi che a vario titolo hanno accelerato il collasso, Chi sono i nemici della scienza?, ultimo lavoro del professor Giorgio Israel, si segnala come un’analisi originale e impietosa di alcune tra le più grandi e troppo spesso taciute aberrazioni ideologiche che hanno tramutato la scuola in una creatura, acefala e deforme, che oggi rappresenta fedelmente quella stessa fallimentare pervicacia che l’ha alimentata a dispetto dei risultati. Un’ostinata battaglia, continuamente perduta e rilanciata, che ha ridotto la cultura, scientifica e non, e il mo-

do di trasmetterla, a una baggiana kermesse carnevalesca infarcita di lustrini hi-tech e ciancie salottiere ispirate all’ infotainment. Come in un carnevale bachtiniano, mentre la maschera di Democrito ride nei wine bar scientifici e nella didattica liberatutti, la scuola e il sapere sono da tempo i grotteschi prosceni degli opposti. In nome di una risibile ideologia antiautoritaria, che ha mutato l’autorevolezza in

zeppo di sovrastutture, abbia smarrito i suoi pilastri: la trasmissione del sapere e la formazione dell’individuo sulla scorta del patrimonio comune di conoscenze. Private dei loro specifici contenuti, storia e geografia hanno perduto i loro crismi disciplinari – la fascinazione del racconto e la curiosità dell’altrove che tanta presa avevano e hanno su un bambino – per essere disciolte in complicate fumiste-

Un egualitarismo populista penalizza i migliori con risultati catastrofici permissivismo sfrenato, è accaduto anzitutto che ai maestri sia stato fatto fermo divieto di insegnare, e men che meno di educare ai principi minimi del merito e della responsabilità. Agli insegnanti è oggi concesso,in nome di un discutibile principio che pone lo studente al centro del sistema, in teoria, e lo trasforma in un cliente bizzoso alle prese con un qualunque prodotto, di fatto, la facoltà di stimolare l’autopprendimento secondo coordinate preconfezionate. Guai al protervo maestrino di Vigevano che si curi di insegnare a tenere in mano la penna come si deve. I bimbi di oggi, nel refrain pedagoghese in voga, sono capaci di farlo perché abituati a manipolare il pongo. Un piccolo esempio, posto simbolicamente da Israel, di come il sistema educativo,

rie metodologiche come la nozione di temporalità, di spazialità e di altre assortite chincaglierie.

Capriola inversa e parallela per la matematica, che legata mani e piedi, e rovesciata su stessa, è ripartita dalla concretezza del far di conto, e viene ammannita con un singolare senso di horror vacui per tutto ciò che di astratto e di più peculiare presenta nella sua natura. L’ossessione per la praticità e la spasmodica ricerca di un americano, troppo americano problem solving, ha occultato una semplice verità: il saper fare, senza sapere, non crea uomini ma mestieri. La deriva sempre più tecnocratica verso le competenze, non è pero qui da noi l’epicentro del sisma, ma solo una delle crepe attraverso cui è proceduto il

dissesto. Si è voluto infatti, in forza di un egualitarismo nobile negli intenti, e scellerato negli esiti, livellare verso il basso l’apprendimento, affinché nessun allievo restasse indietro. Una classica eterogenesi dei fini che, attraverso i sei rossi e l’abolizione malcelata degli esami di riparazione, premia la mediocrità, incoraggia il minimo sforzo, e danneggia i più meritevoli in un’ottica che vorrebbe elidere le differenze di classe, e che invece le rende ancora più dirimenti. Correlativo, per niente oggettivo, di questo egualitarismo populista, è la docimologia, riverita scienza della valutazione che si arroga il diritto di monitorare l’attività didattica e i risultati dell’apprendimento, offrendo una copertura dogmatica, e iperscientista, alle trappole dell’égalité in salsa quantitativa. Una metadisciplina giustizialista che assomma in sé, le magnifiche sorti e progressive di un pedagogismo esasperato, tutto proteso a garantire che tra i banchi non si insegni ma ci si limiti ad imparare, che le conquiste socioculturali non avvengano tramite lunghi lavorii e sudate carte,ma che escano belle e pronte dai distributori dell’apprendimento. Ridurre gli insegnanti a ponyexpress di competenze, e i saperi in supplì precotti, ha per-

messo che l’allievo avesse sempre ragione. E che, almeno a scuola, non imparasse mai niente. Niente di buono che valga la pena di leggere, o di continuare a studiare poi, lontano dai banchi.

Nell’era dell’autonomia delle miserie, e della socializzazione del successo e dell’appeal aziendalistico, le scuole non possono che scimmiottare le dinamiche d’impresa, e negarsi alla propria missione educativa, del tutto estranea all’idea del profitto. Naturalmente in nome dell’eguaglianza, e dello share, che hanno prodotto i disastri più evidenti nell’attuale panorama scientifico. Una storia, fitta di mistificazioni e contraddizioni, per la quale rimandiamo alla lettura del libro di Israel. Una voce, quella dell’ordinario di Matematica presso La Sapienza di Roma, fuori dal coro e dalle conventicole politiche, che ha il coraggio di descrivere ciò che tutti fingono di non vedere. Torturata da pinze e martelletti di ogni genere, la cultura è ormai il cadavre exquis che la modernità insolentisce, limitandosi a vellicarne l’epidermide a titolo ludico, e lasciandone morire frattanto i fluidi vitali, che tanta parte hanno avuto, nel nutrire i piccoli e i grandi uomini di ogni tempo.


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L’importanza di “fare le aste“ ebbo confessarlo: alla mia non più verde età ho finalmente compreso l’importanza di fare le «aste» nella prima elementare. «Fare le aste» – cioè passare giorni e giorni a tracciare segmenti su pagine e pagine di quaderno – evoca qualcosa che ormai è ignoto ai più. Ho letto di recente un articolo su una rivista pedagogica in cui si spiegava che questa noiosissima attività era resa necessaria mezzo secolo fa dal fatto che i bambini arrivavano in prima elementare senza saper tenere né la matita né la penna in mano; mentre oggi… oggi, tranne gli alunni con «particolari difficoltà», tutti i bambini scarabocchiano fin da piccoli, disegnano qua e là, manipolano la plastilina, e quindi arrivano a scuola senza quei problemi che imponevano la pratica delle aste. La supponente ignoranza e la stupidità che sta dietro l’idea secondo cui scarabocchiare o addirittura manipolare la plastilina costituirebbero una premessa alla scrittura salta agli occhi di per sé; ma ne ho compresa appieno la portata soltanto quando ho visto un bambino di sei anni tentare di scrivere le lettere dell’alfa-

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beto. Doveva scrivere una «m» e procedeva prima disegnando da sinistra a destra un primo dosso e poi accostandogli sulla destra un secondo dosso tracciato da destra verso sinistra. Inutile dire che teneva la matita come una zappa. Come ti hanno insegnato a scrivere la «m» a scuola? La maestra l’ha scritta alla lavagna e ci ha detto di copiare.

Ha detto di «copiare»… Come se si trattasse di riprodurre un disegno e non di tracciare un segno alfabetico. Come se lo scopo finale non fosse quello di imparare a scrivere da sinistra verso destra (almeno nel nostro alfabeto)con fluidità e continuità,e quindi tracciare ogni segno in modo tale da poterlo poi concatenare con altri segni che tutti insieme dovranno comporre una parola. Per la nostra maestra, come per il nostro pedagogista beota,scrivere è la stessa cosa che disegnare, scarabocchiare o manipolare oggetti. Naturalmente,e in perfetta coerenza con questa «visione»,nessuno si era sognato di insegnare al bambino come tenere la matita in mano. La maggior parte dei maestri non circola tra i banchi controllando come scri-

vono i bambini, correggendoli attivamente, magari guidando loro la mano. Già, perché si tratterebbe di un atteggiamento impositivo e repressivo della spontaneità. Dal momento in cui ho avuto l’esperienza di cui sopra sono caduto in preda a una mania molesta,e cioè di andare a vedere come tengono la penna in mano tutti i bambini o i ragazzi che mi capitano a tiro, figli di amici, studenti di ogni età. Il risultato è sconvolgente: pochissimi impugnano la penna in modo corretto. […] Cosa insegnano queste vicende? Che troppi pedagogisti – soprattutto quelli che hanno il potere di imporre le modalità dell’insegnamento – e troppi maestri influenzati o condizionati da costoro non sanno più neanche da lontano che cosa sia scrivere. Non sanno che scrivere è qualcosa di concettualmente e praticamente diverso da qualsiasi altra forma di manualità, e non sono neppure più in grado di capire la differenza tra scarabocchiare e scrivere.[...] Sarebbe come dire che chi corre sui prati acquisisce gli elementi per fare atletica leggera.[...]Una prestazione tecnica efficace può richiedere comportamenti contrari a quelli sponta-

nei. Pigiare a caso i tasti di un pianoforte non serve ad apprendere a suonare: al contrario,può determinare posizioni sbagliate e difetti irrimediabili,perché le mani debbono essere tenute sulla tastiera in un modo ben preciso, che è inizialmente costrittivo e faticoso ma è l’unico che consente precisione, velocità e controllo completo della pressione dei tasti. Una persona che impugni un violino in modo spontaneo e «naturale», ovvero sorreggendolo con la mano sinistra, non potrà mai e poi mai riuscire a suonarlo in modo decente. Allo stesso modo, afferrare a caso una matita non serve a nulla per imparare a scrivere, può anzi avere come effetto il contrarre difetti difficili da rimuovere.

Questo è un piccolo ma illuminante spaccato della scuola di oggi. Essa è caduta in mano a persone che non sanno più che la calligrafia è una tecnica, anzi una tecnica sapiente e sofisticata perfezionata nei secoli, e non è un’imposizione repressiva. Forse non lo sanno, oppure non lo vogliono sapere in nome di una ridicola ideologia antiautoritaria e del principio secondo cui la scuo-

la deve ridursi a un insieme di processi di autoapprendimento. [...]Poi dovrebbero spiegare la contraddizione per cui, per quanto riguarda la scrittura, le cose stanno diversamente, e perché mai qui dovrebbe regnare l’anarchia. Parrebbe che basti imbrattare un foglio o intrugliare con il pongo per essere pronti a scrivere meglio dei nostri sottosviluppati padri o antenati. E invece – guarda un po’ – quei trogloditi scrivevano assai meglio di noi e dei nostri figli. E perché mai? Ma è chiaro: perché facevano le aste! Pagine e pagine di aste noiose, fastidiose e utilissime; tanto quanto è noioso, faticoso, utile, imprescindibile l’apprendimento di qualsiasi tecnica. Oltretutto, l’apprendimento delle aste – come l’apprendimento metodico e coscienzioso di ogni tecnica – era qualcosa di profondamente democratico. Ammesso – e per nulla concesso – che i bambini di un tempo fossero meno dotati di quelli di oggi, l’insegnamento della tecnica di scrittura basato su procedure metodiche e generali forniva a tutti una capacità di base che livellava le differenze creando una condizione comune di base per lo sviluppo delle capacità personali; in altri termini, livellava le differenze legate alle diverse condizioni sociali e culturali.Insomma, si trattava di un efficace modo di combattere le «differenze di classe».

Oggi la situazione si è rovesciata. Il bambino che torna a casa disegnando le lettere anziché scriverle e impugnando la penna come una zappa, supererà questo ostacolo se troverà una famiglia dotata degli adeguati strumenti culturali, del tempo, della pazienza e del coraggio di non farsi frenare dal timore di apparire come «repressiva» di fronte a una scuola divertente e corriva. Al contrario, i figli delle famiglie meno dotate continueranno a zappare scarabocchi. A fronte di questo disastro, invece di cercare di capire come far avanzare tutti in modo più efficace e veloce, si risponde ragionando a testa in giù. Siccome la scuola non deve abbandonare nessuno e quindi deve avere a cuore soprattutto i meno dotati, il livello dovrà essere abbassato in funzione di una prospettiva egualitaria la quale, per una classica eterogenesi dei fini, produrrà una disparità crescente: le famiglie più dotate offriranno ai loro figli le opportunità per correre velocemente senza ancorarsi al procedere elefantiaco e inefficace della scuola, mentre gli altri affonderanno sempre di più nella palude. Tratto da libro di Giorgio Israel Chi sono i nemici della scienza? Edizioni Lindau


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speciale educazione

Socrate

La divulgazione scientifica è ormai ridotta a una qualità deplorevole

La scienza ridotta a gioco e tecnica i si ripete come un ritornello che la via giusta per diffondere la cultura scientifica consiste nel propagare un’immagine accattivante, divertente e utile della scienza, vicina alla vita di tutti i giorni, piena di riferimenti pratici e immagini giocose,anziché l’immagine severa della scienza «pura». Come quei cattivi medici che,in presenza di una febbre ribelle al farmaco che hanno propinato,invece di riesaminare la diagnosi, raddoppiano,triplicano o quadruplicano la dose del medesimo farmaco,ci si illude che la soluzione consista in un diluvio di discorsi sulla scienza che insistano sui suoi aspetti pratici e ludici. Occorrerebbe invece chiedersi se le difficoltà non dipendano da una diagnosi sbagliata e da cattive medicine. Dovremmo riflettere a fondo su quale tipo di cultura scientifica stiamo diffondendo e sull’immagine della scienza che stiamo trasmettendo; chiederci se tale immagine sia corretta e interessante; avere maggior fiducia nell’intelligenza degli altri e sospettare che talora le idee interessanti sono più attraenti e gratificanti di quelle utili e che la demagogia del divertimento, del gioco e della festa è stucchevole e lascia con un sentimento di vuoto. A nostro avviso,stiamo diffondendo un’immagine della scienza che incoraggia a interessarsi alle applicazioni e alla tecnologia,mentre scoraggia coloro che sono interessati alla scienza

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come impresa conoscitiva. Chi nutre già propensioni per le applicazioni viene ulteriormente spinto a coltivarle, mentre gli altri,di fronte a un’immagine della scienza costretta entro gli schemi tecnoscientifici più angusti, preferiscono dirigersi verso altri lidi in cui sopravvive l’idea di cultura e non si vive soltanto di tecnologia. Stiamo sistematicamente distruggendo ogni visio-

più dura (e discutibile) della filosofia occidentale, e cioè la pretesa di costruire non tanto una metafisica (il che è perfettamente legittimo) quanto un’ontologia,ovvero una «scienza dell’essere». La «cultura» e la divulgazione scientifica che ci vengono propinate quotidianamente, più che spiegare scoperte «positive» della scienza,appaiono tutte protese a propugnare un’ontolo-

aggiunge una terza componente che la rende ancor più esplosiva: si tratta del disastro dell’istruzione scientifica nelle scuole di ogni ordine e grado e nell’università. Tutti riconoscono – magari a bassa voce per non urtare la suscettibilità delle confraternite politiche di appartenenza – che la riforma che ha introdotto nelle università le lauree triennali e il sistema dei crediti ha

Spesso nella scuola l’insegnamento di queste materie costruisce un’ontogenesi materialista ne umanistica della scienza e quindi non abbiamo ragione di lamentarci se l’interesse per la scienza deperisce a vista d’occhio. Ma – si dirà – è falso che nei giornali, nelle riviste e nei libri di divulgazione non si parli di questioni concettuali o «filosofiche » legate alla scienza. Ciò è innegabile, purché si precisi di quali questioni si parla e in che modo. L’aspetto più bizzarro e contraddittorio delle concezioni positivistiche e neopositivistiche della scienza è stato ed è di combattere la filosofia come una forma di riflessione che si limita a porre problemi, spesso intrinsecamente insolubili,senza rispondere mai a nessuna domanda, e poi di recuperare la tendenza

gia materialista. Sembra che parlare delle nuove acquisizioni della scienza sia soltanto un pretesto per «dimostrare» che tutto è materiale,che tutto si riduce a neuroni, geni o particelle elementari. Se a questo si aggiunge che gran parte della divulgazione scientifica è di una qualità a dir poco deplorevole – come conseguenza dell’ossessione per le applicazioni pratiche e tecnologiche,che conduce alla presentazione dei risultati scientifici teorici in forme che raggiungono livelli sconcertanti di ignoranza e di trivialità – si ottiene una miscela esplosiva: un florilegio di cattiva filosofia gabellata come scienza e vestita di panni tecnologici. Ma alla miscela si

prodotto un frazionamento in corsi e corsucci, sempre più brevi e sempre più focalizzati su temi ultraspecifici o ridotti a fornire un’insignificante spolverata di nozioni generali. Nei corsi di laurea di matematica ormai la maggior parte dei teoremi viene propinata senza dimostrazioni: non c’è tempo e non si deve troppo pretendere dagli studenti. Una simile scelta poteva avere qualche giustificazione se praticata con moderazione, ma essa ha raggiunto ormai livelli tali da creare una situazione grottesca: un matematico digiuno di dimostrazioni è l’equivalente di un meccanico che non abbia mai smontato e rimontato un motore. La finta autonomia delle uni-

versità ha posto al centro la preoccupazione di farsi pubblicità, magari con attività pseudoculturali,come la proiezione di film estivi o i «wine bar scientifici»: ormai nelle università si fa meno cultura che in qualsiasi altro luogo del paese. La crisi delle scuole secondarie è in parte di natura diversa e si riconduce a due fattori: l’immissione massiccia di personale insegnante scarsamente preparato – il grande problema dell’insegnamento della matematica nelle scuole secondarie è che esso viene svolto per lo più da insegnanti privi di preparazione disciplinare specifica – e lo smantellamento sistematico di programmi che, sebbene antiquati, avevano una loro coerenza e una provata utilità, a profitto di approcci sperimentali dilettanteschi e persino deliranti. La causa principale è da ricollegarsi al prevalere di gruppi di pedagogisti che, per ragioni politiche e ideologiche, sono riusciti a imporsi come una casta di superspecialisti, titolari di una «metadisciplina» consacrata alla determinazione dei contenuti di tutte le altre discipline. La questione scolastica è fondamentale e, se è corretta la frase di Szent-György posta a epigrafe – «il futuro sarà come sono le scuole oggi».

Tratto da libro di Giorgio Israel Chi sono i nemici della scienza? Edizioni Lindau

LETTERA DA UN PROFESSORE

I CORSI DI RECUPERO: TUONÒ MA NON PIOVVE di Alfonso Piscitelli anto tuonò che alla fine ... non piovve. Dopo mesi passati a predicare il ritorno alla severità e al merito nelle valutazioni, dopo aver lasciato intuire il riporistino degli esami di preparazione il ministro Fioroni conclude l’esperienza prodiana di governo della scuola istituendo l’ennesimo “corso di recupero”. La nuova normativa prevede corsi di recupero“in itinere” dopo le valutazioni quadrimestrali e istituisce corsi di recuperi ad agosto... per gli alunni che hanno conseguito insufficienze a fine anno. Va così in soffitta la vecchia invenzione di Berlinguer: i “debiti scola-

T

stici”: procedura del tutto formale che prevedeva la estinzione delle insufficienze riportate a fine anno con una serie di verifiche da effettuare nel primo quadrimestre dell’anno successivo. In pratica una sorta di condono annuale delle insufficienze. Ora si inserisce la novità: il recupero ad agosto. Immaginiamo i vantaggi dello studiare in classe in agosto: con alunni “demotivati” e docenti altrettanto “entusiasti”. Immaginiamo anche la conseguenza nelle valutazioni di fine anno: pur di non imbarcarsi in attività agostane minimamente retribuite i prof alzeranno i 4 e 5 automatica-

mente a 6! Ma potrà anche capitare che qualche ragazzo con più di una insufficienza sia direttamente bocciato... Il moltiplicarsi dei corsi di recupero esprime una ipertrofia della concezione scolastica di sinistra: la sinistra concepisce la scuola come una mamma totalitaria che per ogni carenza istituisce un “corso” e ritiene che la“frequenza”a queste esercitazioni che si protraggono per ore e ore basti a sostituire il merito, l’impegno e il senso di responsabilità individuali, il valore dello studio da casa che negli ultimi anni è stato trascurato. Con le conseguenze che si vedono...


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la recensione

Qualità e uguaglianza di Domenico Sugamiele paradigmi della qualità e dell’uguaglianza dell’istruzione hanno interessato in modo progressivo le indagini sociologiche in campo internazionale. Si tratta di aspetti che si sono sviluppati parallelamente all’espansione della scolarizzazione e, tuttavia, appaiono incapaci di descrivere i rischi indotti sui sistemi educativi dalle profonde trasformazioni sociali. Ci troviamo di fronte a rischi di sfaldamento dell’istituzione scolastica come istituzione deputata per eccellenza alla produzione del sapere. La società della conoscenza mette in gioco i vecchi modelli di acquisizione del sapere: si moltiplicano le tecniche di diffusione delle informazioni e diventa discriminante saper padroneggiare i codici comunicativi per accedere alla conoscenza. Problemi che creano nuove disuguaglianze e inducono problemi di iniquità dei sistemi di istruzione. Disuguaglianze che nel nostro Paese si registrano, in maniera sempre più consistente soprattutto rispetto alle condizioni esterne alla scuola (l’origine sociale degli studenti e la localizzazione geografica delle scuole). Dalle indagini Ocse – Pisa è emerso, in tutta la sua drammaticità, il livello di disuguaglianza territoriale negli apprendimenti dei quindicenni tra le regioni del Mezzogiorno e quelle del Nord. Il testo curato da Bottani e Benadusi affronta questi temi rinnovando le analisi sull’eguaglianza delle opportunità di istruzione, comparando politiche diverse a livello europeo e individuando un insieme di indicatori capaci di fornire il grado di equità dei sistemi scolastici. Dal testo emerge che l’equità dell’istruzione in Italia è carente rispetto agli altri Paesi europei. Il sistema scolastico italiano non ha corretto, infatti, l’iniqua distribuzione delle opportunità educative a causa di un «lassismo» che appare il frutto di una errata concezione sessantottina che intende l’eguaglianza non come «eguali opportunità» ma come «eguali risultati»: l’eguaglianza scambiata per uniformità. La ricerca, presentata nei saggi del testo, offre interessanti spunti di riflessione per affrontare i processi di cambiamento del sistema di istruzione con nuovi paradigmi.

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Norberto Bottani e Luciano Benadusi (a cura di) Uguaglianza e equità nella scuola Erickson, Trento, 2006


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speciale educazione

Socrate

A confronto il modello d’istruzione di De Amicis e quello dello scrittore francese

Franti e quel somaro di Daniel Pennac di Pier Mario Fasanotti libri invecchiano, si sa. Ma essendo appoggiati sull’epoca in cui sono stati scritti, vale la pena considerarli alla stregua di una cronaca dei tempi andati. E magari verificare quanto rimane oggi, quanto può essere usato come termine di paragone. De Amicis (ricorre quest’anno il centenario della sua morte) pubblicò “Cuore”il 15 ottobre 188. Fu subito best seller: 40 edizioni entro l’anno, un milione di copie fino al 1923. La critica non è mai stata indulgente con il socialisteggiante De Amicis, definito da Benedetto Croce “manzoniano e borghese”. La cultura fascista lo emarginò non considerando il suo capolavoro adatto a formare le coscienze dei giovani: troppe lacrime in quel libro. Successivamente dette fastidio quel suo “galateo culturale e sociale ad uso dei giovinetti delle famiglie borghesi” ( e ci risiamo con la borghesia), impregnato, come scrisse un critico, di “concezioni filistee”. Curioso fare un calcolo, a proposito delle svenevolezza prosaica di De Amicis: il termine “cuore” compare per circa duemila volte. Ma attenzione, c’è un’attenuante ottocentesca: Carducci nelle sue poesie nomina “sole” 235 volte. In questi giorni è uscito l’ultimo libro di Daniel

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Famiglia e insegnanti in due libri scritti a 150 anni di distanza Pennac, “Diario di scuola” (Feltrinelli, 241 pagine, 16 euro). Inevitabile accostare, per il tema trattato, i due autori e quel che scrivono. Senza però organizzare una gara letteraria o stilistica, ma solo per individuare differenze storiche, culturali e pedagogiche. Pennac parla del “somaro”, ossia di se stesso ragazzo in quanto asino lo fu davvero. Una gran fatica ad apprendere, a farsi accettare e ad accettare il suo moderato ribellismo, tre anni in collegio, poi la laurea, poi l’insegnamento e quindi il trovarsi “dall’altra parte”senza dimenticare il tormento di essere considerato “difficile”.

Sia in “Cuore” sia in “Diario di scuola”grande ruolo è riservato alle madri. Quelle di De Amicis sono spettinate e doloranti, a volte in ginocchio dinanzi al Direttore (con l’iniziale maiuscola, ovviamente) della scuola. La mamma del famoso Franti, diventato archetipo del lazzarone malvagio, si presenta a scuola (siamo a Torino) con pose tardoromantiche: “Affannata, coi capelli grigi arruffati, tutta fradicia di neve, spingendo avanti il figliuolo che è stato sospeso dalla scuola per otto giorni”. E piange, e implora il Direttore di riammettere in classe la disgrazia della famiglia. Il dirigente scolastico, come si direbbe oggi, fa il magnanimo. Ma non si interroga sulle cause del disagio di Franti, condannato da De Amicis e dalla società di allora a perseguire nella sua carriera di “cattivo”. Il peggio deve ancora venire: Franti torna al suo banco e il Direttore “gli disse con un accento da far tremare:”Tu uccidi tua madre’”. L’autore conclude così il capitolo straziante: “Tutti si voltarono a guardare Franti. E quell’infame sorrise”. Manzoniano certo (ricordiamo il “sì”della“sventurata”monaca di Monza), ma peggio di un giudice che commina l’ergastolo. Il cattivo di De Amicis è lombrosianamente cattivo. La società dell’Italia post-unitaria aveva uno stampo militaresco: noi e gli altri, gli amici e i nemici. La psicologia, se pure c’era, non poteva fare altro che scompaginare comode classificazioni.

Pennac parla di sua madre in modo accorato, tenero ma anche severo: “Il fatto è che io andavo male a scuola e da questo lei non si è mai ripresa”. Infatti, anche molti anni dopo rivolge al figlio scrittore di successo una domanda che riassume tristezza e diffidenza: “Che cosa fai nella vita?”. Il ragazzo Pennac capiva poco. “La prerogativa dei somari” scrive il francese “è raccontarsi ininterrottamente la storia della loro somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai, non vale neanche la pena provarci, tanto lo so che vado male, ve l’avevo detto, la scuola non fa per me”. Dalla madre l’ossessione di “diventare”, mai la tranquillità di essere. Pennac-insegnante non l’ha dimenticato:”La mia priorità fu alleviare la paura dei miei allievi peggiori per far saltare quel chiavistello, affinché il sapere avesse una possibilità di passare”. Il chiavistello è un muro che pare altissimo tra sé e le materie scolastiche, ma non solo. Il maestro torinese Perboni insegna e basta, non è un comunicatore della sua materiacosa che ha “salvato” Pennac dal binomio ignoranza-angoscia- e se riesce a guardare l’animo- pardon: il cuore- dei suoi alunni, lo fa con lo strumento sentimentale, perché è tutto sommato un buon uomo.

Se i padri di De Amicis fanno i gendarmi, della famiglia e della società, quello di Pennac è morbido, usa l’ironia, riduce le distanze, se anche punisce sdrammatizza e non si fa mai plotone di esecuzione. Nei due romanzi, scritti a 150 anni di distanza, le famiglie “entrano”in classe, tutti i ragazzi hanno nella cartella o nello zaino i problemi genitoriali, psicologici o economici. La madre del “buono”Garrone muore.“Ieri mattina, appena entrato nella scuola, il maestro ci disse:’Al povero Garrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo…vi prego, ragazzi, rispettate il terribile dolore che gli strazia l’anima….”. Meno male, un coinvolgimento scatta. Pennac parla della piccola Jocelyne che è in lacrime perché i genitori “ci hanno messo vent’anni a capire di essere male assortiti”. Divorzio in vista? No, le cose si complicano perché quei “coniugi di lungo corso” ci hanno ripensato. Risultato: un inferno domestico. In classe si deve parlare di Montesquieu, ma il professor Pennac chiede se qualcuno ha una barzelletta da raccontare. La storiella divertente vien fuori e anche Jocelyne ride: “Non c’è nulla di più stagno del magone per fare da barriera al sapere”. Il prof. Dice poi alla ragazzina che in un romanzo di Henry James (“Che cosa sapeva Maisie”) c’è la storia di un conflitto coniugale. Jocelyne leggerà quelle pagine:“Sa, prof, i miei si rinfacciano le stesse cose…”). Letteratura come medicina, le grandi pagine dei classici a insegnare che noi non siamo unici, nel dolore o nella gioia. Il sapere fatto vita: ecco il chiavistello che si apre. Quando ci si riesce, ovviamente. Quando si ha la fortuna, non così frequente, di avere un Pennac sulla cattedra.


ASSEMBLEA NAZIONALE Roma 8 marzo 2008 • ore 10,30 Teatro Valle • via del Teatro Valle 21

i circoli liberal con liberali e cristiani PER RICOSTRUIRE

L’ITALIA

Ferdinando

ADORNATO CASINI Pier Ferdinando

introduce

Angelo Sanza


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economia

A Molfetta 4 operai e il titolare di una ditta di manutenzione di cisterne sono morti per il mancato rispetto delle regole di sicurezza

I limiti del testo sulla sicurezza del lavoro che Damiano porta oggi in Consiglio dei ministri

L’ultimo errore del governo di Giuliano Cazzola ggi il Consiglio dei ministri varerà presumibilmente gli schemi dei decreti legislativi sulla sicurezza, che diventeranno ben presto legge, anche con il contributo dell’opposizione. L’impatto con l’opinione pubblica di una sequela interminabile di eventi mortali gravi è troppo forte per non indurre un bisogno di «fare», di provvedere in qualche modo a rispondere a una situazione ritenuta intollerabile. Così nessuno ricorda, in tali circostanze, che in Italia il numero degli infortuni (anche di quelli con esito mortale) è più basso della media europea e di quella di Francia e Germania. O che da noi è in vigore una legislazione sulla materia che sulla carta è tra le migliori anche per quanto riguarda gli strumenti di prevenzione e di intervento.

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Così nel Belpaese, quando non si è in grado di venire a capo di un problema, ci si affida alle virtù taumaturgiche di una nuova legge. Ma le nuove norme sulla sicurezza, che il governo si appresta a varare, sono fondate in prevalenza sull’inasprimento delle sanzioni e animate da uno spirito punitivo e pregiudiziale nei confronti delle imprese. Caricate di una responsabilità presunta, che creerà solo nuovi vincoli alla loro vita quotidiana. La Confindustria ha denunciato troppo tardi questi pericoli. Quando ormai la politica ha deciso di tranquillizzare l’opinione pubblica, promettendo, al solito,

Di difficile applicazione la normativa studiata dall’esecutivo: aggrava gli oneri delle imprese e incentra la prevenzione sulla minaccia di sanzioni.All’avanguardia le regole attuali la norma-pietra filosofale, anche se rischia di trovar posto tra le tante «gride» predicatorie e inapplicate. Nessuno sarà mai in grado di assicurare che 4,5 milioni di aziende siano presidiate e sanzionate in continuazione da ispettori. La minaccia di multe sempre più severe e l’affidamento della questione sicurezza ai servizi ispettivi, saranno sicuramente un deterrente più efficace per garantire delle condizioni di lavoro più affidabili. Ma tutti avvertiamo che è necessario fare qualche cosa di più e di

l’emergenza vittime. Dall’inizio dell’anno a oggi tante sono state le persone che hanno perso la vita sui luoghi di lavoro. Il numero degli infortuni è arrivato a quota 185.762. In 4.644 casi si sono registrate invalidità.

185

mesi. È il tempo minimo necessario alle famiglie delle vittime per vedersi riconoscere un indennizzo, che è pari al 50 per cento dell’ultimo stipendio, aumentato del 20 per cento per ogni figlio minorenne. Ma in alcuni casi sono passati anche 5 anni.

5

meglio, per costruire una cultura della sicurezza nella vita quotidiana delle aziende.

Ci sono comportamenti distorti e radicati da rimuovere. Che cosa può aver indotto i lavoratori di Molfetta e il loro titolare a sottovalutare quella situazione concreta di pericolo e a non prendere alcuna precauzione per non intossicarsi tra i miasmi dell’autocisterna? Come si potranno evitare, in futuro, siffatte disgrazie se non impartendo le medesime disposizioni (uso di maschere e imbragatura, innanzitutto) che invece sono state ignorate e disattese? Forse il lavoro è diventato frenetico e i ritmi sono tanto ossessivi da indurre a «tirar via». Ma non può essere il «vincolo esterno» della vigilanza e dell’attività ispettiva a sistemare le cose. Sarebbe indispensabile e urgente, invece, mobilitare le forze sociali in un impegno diretto e quotidiano (ben oltre gli scioperi e le manifestazioni di protesta) a partire dall’effettiva operatività di quella «leva» che il legislatore volle introdurre nella legge 626 del 1994: il responsabile della sicurezza in ogni azienda con precisi compiti di verifica, denuncia e intervento.

Vi sono segnali importanti di collaborazione tra istituzioni e parti sociali. La regione Lombardia, prima in Italia, ha promosso insieme con una trentina di associazioni datoriali e sindacali (oltre a tutti i soggetti pubblici competenti) un’intesa rivolta non soltanto a prevenire e a contrastare gli eventi, ma anche a porsi l’obiettivo di una riduzione del 15 per cento del numero degli infortuni (del 10 le morti bianche) nel proprio territorio. Per tali finalità, da conseguire attraverso l’impegno di tutti i protagonisti della vita economica e sociale, è pronto un apposito piano (2008-2010) proposto e finanziato dalla Regione con 35 milioni di euro.

A livello nazionale Confindustria e Cgil, Cisl e Uil hanno raggiunto un accordo per un’azione comune (finanziata con 12 milioni di euro dal bilancio di Fondimpresa) nel campo della formazione delle aziende sulla sicurezza. È un percorso non facile né breve, ma scorciatoie non ne esistono. Occorre poi riordinare le competenze istituzionali. Immaginare un SuperInail: costituire un «polo della sicurezza», imperniato appunto sull’Inail (in cui incorporare gli enti preposti ad analoghe funzioni) al quale affidare – sottraendoli al Servizio sanitario nazionale e alle Asl che non hanno sufficiente vocazione e mezzi per occuparsene – anche i compiti di prevenzione e di controllo per quanto riguarda la sicurezza del lavoro.


economia

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Pessime previsioni per il settore, che già registra i primi scricciolii in America

Anno 2008, precipita il trasporto aereo di Giuseppe Latour

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Record del greggio: verso i 104 dollari Non si ferma la corsa del petrolio, il cui prezzo vola verso record storico, a un soffio da quota 104 dollari: ieri, infatti, a New York il Light crude è avanzato di 4,44 dollari a 103,96 dollari. alla base della nuova fiammata il calo a sorpresa delle scorte settimanali di greggio statunitensi e la decisione dell’Opec di lasciare invariata la produzione, non raccogliendo l’invito del presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, a incrementare l’output.

Alitalia: Prato vede i sindacati Oggi Maurizio Prato incontrerà i sindacati per illustrare lo stato dell’arte delle trattative tra Alitalia e Ai France. Intanto scatena polemiche l’uscita di Silvio Berlusconi, che auspica una cordata nazionale per salvare la compagnia di bandiera. Se i sindacati chiedono di separare ragioni industriali e momento elettorale, Walter Veltroni replica al candidato del Pdl che per Alitalia è stata fatta una gara che ha portato alla scelta di un pretendente e deve essere dunque «il mercato a fare la grandezza dell’azienda». Ma questo non esclude che «la compagnia rimanga con le basi nel nostro Paese».

Enel entra nel nucleare romeno Nuova operazione dell’Enel nel campo del nucleare. L’ex monopolista italiano è tra le sei società che realizzeranno il progetto di raddoppio della produzione elettrica nucleare in Romania. Il gruppo italiano realizzerà due gruppi aggiuntivi, da 750 mw ciascuno, nell’impianto di Cernavoda. Il valore complessivo del progetto – e che vuole portare al 36 per cento la quota di energia prodotta in Romania attraverso l’atomo – è di 2,2 miliardi di euro. Oltre a Enel dovrebbero farne parte la spagnola Iberdrola, la tedesca Rwe, la belga Electrabel, la ceca Cez e la franco canadese Acelor-Mittal.

Telecom presenta i conti 2007

ROMA. Allacciarsi le cinture, perché il 2008 si annuncia come l’annus horribilis del trasporto aereo. A pesare sul settore soprattutto tre fattori: l’aumento del prezzo del petrolio, il calo generalizzato dei consumi e la stretta del credito, che dà alle compagnie minori disponibilità di fondi per gli investimenti. E per l’Italia, già in difficoltà a causa delle travagliate vicende della compagnia di bandiera, la crisi si annuncia ancora peggiore. Il mercato del trasporto aereo nel 2007 ha complessivamente generato utili per 5,6 miliardi di dollari. Un bilancio positivo, probabilmente oltre le aspettative degli stessi addetti ai lavori. Sul settore iniziano, però, ad addensarsi nubi fittissime. Lo spiega Giovanni Bisignani, amministratore delegato della Iata: «Il principale problema è il rincaro del prezzo del carburante. Le previsioni parlavano di 78 dollari al barile». Una stima prudente, visto che nel 2008 «più realisticamente andremo incontro a una media di 88 dollari al barile e l’aumento di un solo dollaro determina costi maggiori per 1,4 miliardi di dollari». Tradotto: 14 miliardi di oneri non previsti per i vettori. Un carico pesante, anche perché nei bilanci delle compagnie il carburante pesa per circa il 30 per cento del totale. E un aumento incontrollato di questa voce potrebbe generare conseguenze difficilmente gestibili. A questo, sempre secondo Bisignani, bisognerà aggiungere l’on-

Bisignani (Iata): «Peseranno il caro petrolio, il calo dei consumi e la stretta del credito». Ripercussioni per Alitalia da lunga della crisi dei subprime, devastante negli Usa, ma che ormai sta coinvolgendo anche l’Europa. Parlando del traffico, «a dicembre si è registrato un calo del 3 per cento. Dato che attesta la difficoltà della situazione visto che dicembre è un mese di viaggi e di spostamenti. A gennaio poi si è avuta una crescita del 4,3 negli Usa, molto sotto la media, e pari a zero in Europa».

La propensione a viaggiare, in altre parole, sta iniziando a calare. Un’analisi sulla quale non concorda Oliviero Baccelli, esperto del settore del trasporto aereo e professore alla Bocconi: «La domanda è molto eterogenea e non cambia allo stesso modo su tutte le direttrici». Se tratte “mature” come quelle transatlantiche e quelle intraeuropee subiranno una probabile flessione perché hanno già raggiunto uno sviluppo al limite, lo stesso non accadrà in quelle zone dove il traffico è molto più vivace e non ancora al suo picco, come l’Africa e l’Europa orientale. Senza parlare di Cina e India. Per Baccelli inciderà molto di più il credit crunch: «Con l’aumento del

costo del capitale si ridurranno gli investimenti e senza investimenti la vita delle compagnie aeree sarà molto più difficile». La scarsità di denaro potrebbe colpire più l’offerta che la domanda.

Problemi destinati a travolgere tutto il settore, con qualche eccezioni: le pochissime compagnie con alta capacità di generare capitale e con flotta giovane. La prima caratteristica ha consentito di usare il denaro flottante per stipulare costosissime polizze contro le oscillazioni del prezzo del carburante. La seconda allevierà il peso del rinnovamento della flotta, costo sul quale alcuni grossi player non potranno più lesinare. Gli unici al riparo dalle intemperie, probabilmente, saranno lowcost come Ryanair e Southwest. Cosa accadrà, invece, all’Italia e ai circa 7 miliardi di euro di fatturato annuo delle sue compagnie? Anche in questo caso c’è da fare i conti con la crisi. Parlando di Alitalia, l’età media della sua flotta è molto alta e questo la costringerà ad affrontare costi elevati sia per il rinnovamento sia per il carburante delle macchine con le quali oggi vola (e che consumano in media il 20 per cento in più di un aereo nuovo). Sulle altre compagnie nazionali potrebbe pesare molto la carenza di capitali. Un problema che riguarda sia Eurofly sia Airone. Resta solo qualche speranza sul lato della domanda che, a differenza di altri Paesi, in molte zone non è completamente sviluppata.

Due giorni decisiva per il futuro di Telecom. Oggi il Cda esaminerà i conti del 2007, domani l’amministratore delegato, Franco Bernabè, presenterà le future linee strategiche. Il mercato si si attende in media un margine operativo lordo di 12,4 miliardi (13 nel 2006), su ricavi pari a circa a 31,3 miliardi di euro. L’utile dovrebbe ammontare a circa 2,4 miliardi (3 nel 2006). Molto interesse anche sul taglio dei dividendi, che rispetto alla gestione Tronchetti potrebbe calare anche di due terzi, e sulla rimodulazione del business. Ieri il titolo ha guadagnato il 3,32 per cento.

Gas, pace fatta tra Russia e Ucraina Scongiurata una nuova crisi tra Russia e Ucraina: ieri Gazprom ha completamente ristabilito il flusso normale di fornitura di gas verso l’Ucraina. A sbloccare l’impasse una telefonata tra il presidente uscente russo, Vladimir Putin, e il suo omologo ucraino, Viktor Iouchtchenko. La compagnia Naftogaz si è impegnata a pagare i debiti pregressi con Gazprom, anche se potrebbero cambiare lo schema e le condizioni di fornitura.

Yahoo! stringe con Aol? Yahoo! intensifica i rapporti con Aol per trovare un cavaliere bianco e respingere le mire di Microsoft. Alla base dell’accordo ci sarebbe l’ingresso del motore di ricerca nella divisione internet della Warner. Già si ipotizzano sinergie per un miliardo di dollari. Intanto, con l’avvicinarsi dell’assemblea dei soci, crescono gli azionisti di Yahoo! pronti ad accettare l’offerta di Bill Gates.

Abi: ok alle decisioni di Draghi sul duale Il presidente dell’Abi, Corrado Faissola, promuove le nuove disposizioni di Bankitalia sul sistama duale. «La separatezza del consiglio di gestione e del consiglio di sorveglianza», nota, «è uno dei cardini delle norme che disciplinano il modello duale. Credo che su questo non ci sia nulla da eccepire». Faissola si promette di fare «una più approfondita lettura» del documento. «Ma la prima impressione è stata comunque di un documento molto bene strutturato».

Piazza Affari inverte il trend Giornata di rimbalzi (+2,44 per cento il S&P/Mib) a Piazza Affari, anche se non appare finito il trend ribassista di medio termine. Bene Fiat (+3,83 per cento) dopo le stime sulle vendita in America e Pirelli (+4,8) per l’approssimarsi del riacquisto di Pirelli Tyre.


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cultura

e leggi razziali del 1938 furono soprattutto dettate da una cinica scelta del regime fascista di ingraziarsi l’alleato tedesco. Fin dall’inizio del Novecento, infatti, le comunità israelitiche erano quasi del tutto integrate in Italia e l’antisemitismo era limitato a frange minoritarie del mondo cattolico. Alcuni esponenti delle comunità ricoprivano cariche importanti nella politica e nell’esercito: nel 1902, fra i 350 senatori nominati dal re, figuravano sei ebrei (nel 1920 diventeranno addirittura 19); nel 1906 il barone Sidney Sonnino, ebreo convertito al protestantesimo, fu nominato presidente del Consiglio, dopo essere stato ministro delle Finanze e degli Esteri; nel 1910 un altro ebreo, Luigi Luzzati, questa volta non convertito, ricoprì la carica di primo ministro, dopo essere stato anch’egli ministro delle Finanze. Il sociologo Leopoldo Franchetti era un senatore conservatore per molti anni, prima di suicidarsi dopo la sconfitta italiana di Caporetto. Salvatore Barzilai, giornalista irredentista di Trieste, venne eletto deputato per otto mandati e, dopo la Grande Guerra, fece parte della delegazione italiana alla conferenza per la pace a Versailles. Ernesto Nathan, ebreo e massone, fu sindaco di Roma dal 1907 al 1913. Giuseppe Ottolenghi, primo ebreo a rivestire il grado di generale nel 1888, diventò istruttore del futuro Vittorio Emanuele III e nel 1902 venne nominato senatore e ministro della Guerra. È significativo anche il contributo ebraico al primo conflitto mondiale: l’Italia aveva cinquanta generali ebrei; uno di questi, Emanuele Pugliese, fu il più decorato dell’esercito; un altro, il generale Roberto Segre, ideò le difese sul Piave.

la scuola marittima di Civitavecchia, da cui - per inciso - uscirono futuri ufficiali della marina israeliana). Il governo italiano entrò a causa della guerra in Africa orientale a contatto con i trentamila Falascia abissini, comunità di colore di religione ebraica vissuta per secoli in assoluto isolamento. Mussolini favorì questo gruppo tanto che i capi Falascia prestarono giuramento di fedeltà. Gli appartenenti alla comunità vennero messi in contatto con gli ebrei italiani ma, contemporaneamente, il regime iniziò una legislazione di contenimento del meticciato, che si rivelerà poi apripista ai concetti della superiorità della razza ariana. Anche in questo caso a far fede fu la politica del doppio binario. Il sempre maggior avvicinamento di fascisti e nazisti fece comunque peggiorare la situazione, anche se a febbraio del 1938 Mussolini smentiva che esistesse una qualunque forma di antisemitismo in Italia.

L

L’avvento del fascismo non mise in crisi l’integrazione degli ebrei in Italia. Nella famosa riunione del 23 marzo1919, fra i 119 fondatori del fascismo c’erano anche cinque ebrei e fu uno di loro (Cesare Goldman) a procurare la sala all’associazione industriali dove Mussolini tenne a battesimo il movimento. Tra i «martiri fascisti» degli scontri fra il 1919 e il 1922, figurano tre ebrei: Duilio Sinigaglia, Gino Bolaffi e Bruno Mondolfo. Più di 230 ebrei parteciparono alla Marcia su Roma nell’ottobre del 1922; a quella data gli iscritti al partito fascista o a quello nazionalista (che poi nel 1923 si fondarono) erano ben 746. A Fiume con D’Annunzio c’erano degli ebrei, fra cui Aldo Finzi che divenne poi sottosegretario agli interni di Mussolini e membro del Gran Consiglio (allontanato dal regime, morirà poi alle Fosse Ardeatine), mentre Dante Almansi ricoprì addirittura sotto il fascismo la carica di vice capo della polizia. Guido Jung fu eletto deputato fascista e venne nominato ministro delle Finanze dal 1932 al 1935. Maurizio Rava fu vicegovernatore della Libia, governatore della Somalia e generale della milizia fascista.Tanti altri ebrei, pur occupando posti di minore importanza, contribuirono all’affermazione del fascismo, come il commendator Elio Jona, finanziatore de Il Popolo d’Italia, e come gli industriali lombardi di origine ebraica che, per paura del comunismo, sostennero finanziariamente il movimento. Nei primi anni Venti per il fascismo il problema ebraico non esisteva. Anzi

Come la comunità ebraica italiana, completamente assimilata, si trovò discriminata

Improvvisamente, le leggi razziali di Stefano Riggi Mussolini – quando ciò corrispondeva ai suoi fini politici – non mancò di corteggiare le comunità israelitiche, come testimoniano le sue parole sul Popolo d’Italia del 1920: «In Italia non si fa assolutamente nessuna differenza fra ebrei e non ebrei, in tutti i campi, dalla religione, alla politica, alle armi, all’economia... la nuova Sionne, gli ebrei italiani, l’hanno qui, in questa nostra adorabile terra». Solo dopo il ‘38, molti zelanti gerarchi italiani filo-nazisti, per far piacere a Hi-

sfruttare dai partiti antisemiti esteri ai loro fini il fascino che il fascismo esercita nel mondo». Nel 1930, l’anno dopo il Concordato col Vaticano, il duce fece approvare la Legge Falco sulle Comunità israelitiche italiane, accolta molto favorevolmente dagli ebrei italiani.

Nel 1933, dopo la progressiva affermazione registrata in Germania dal nazismo, su alcuni giornali fascisti apparvero i primi segni di un chiaro antisemitismo. Fu l’inizio di una campagna anti-

Fu colpita un’élite che aveva dato presidenti del Consiglio e che dava docenti universitari e alti quadri dell’amministrazione, dell’industria e delle Forze armate tler, spulciarono alcuni vecchi discorsi di Mussolini, con qualche frase che si poteva interpretare razzista. Nel novembre del ’23 Mussolini, dopo aver ricevuto il rabbino di Roma Angelo Sacerdoti, fece diramare un comunicato ufficiale in cui si leggeva: «S.E. ha dichiarato formalmente che il governo e il fascismo italiano non hanno mai inteso di fare e non fanno una politica antisemita, e che anzi deplora che si voglia

semita che veniva portata avanti dai giornali controllati dal regime. Sui giornali, intanto, facevano la loro comparsa sempre più frequentemente articoli antisemiti. Nel medesimo periodo, Galeazzo Ciano ordinava che ai funzionari ebrei della Farnesina fosse vietato trattare con la Germania. Mussolini teneva i piedi in due staffe, in attesa dello sviluppo degli eventi (giungendo a consentire la nascita della sezione ebraica del-

Adolf Hitler nel maggio del 1938 si recò in visita a Roma. Nello stesso periodo giunsero in Italia esperti tedeschi con il compito di istruire i fascisti italiani sulla scienza della razza: il risultato fu che il 15 luglio 1938 veniva pubblicato il «Manifesto della razza» firmato da noti professori fra cui Nicola Pende. Galeazzo Ciano riporta nel suo diario per la giornata del 14 luglio 1938: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui». Quanto sopra apparve il 15 luglio 1938 come articolo anonimo nella prima pagina del giornale citato sotto il titolo: «Il fascismo e i problemi della razza». L’estate del 1938 venne solertemente utilizzata da tutta la stampa italiana legale per la pubblicazione di articoli diffamatori ed infamanti verso gli ebrei, in modo da preparare l’opinione pubblica. A settembre venne emanata la prima legge razziale secondo la quale tutti gli ebrei italiani venivano banditi della vita pubblica. Persino la frequentazione delle scuole pubbliche venne vietata ai giovani appartenenti a famiglie ebraiche. Fra i fascisti, l’unico che si oppose fu Italo Balbo. L’obbligo di registrazione presso le questure fu in seguito particolarmente utile per l’organizzazione delle retate da parte dei nazisti e delle milizie durante il periodo di Salò. Vennero assoggettate alla persecuzione circa cinquantunomila persone (quarantaseimila ebrei e circa quattromilacinquecento persone non esattamente classificate come aderenti all’ebraismo). In un anno, dei circa diecimila ebrei stranieri presenti in Italia, 6.480 furono costretti a lasciare il paese; 96 professori universitari, 133 assistenti universitari, 279 presidi e professori di scuola media, un centinaio di maestri elementari, duecento liberi docenti, duecento studenti universitari, mille studenti delle medie e quattromilaquattrocento delle elementari vennero scacciati dalle scuole pubbliche del Regno. Inoltre quattrocento dipendenti pubblici, cinquecento dipendenti di aziende private, centocinquanta militari e duemilacinquecento professionisti, persero il posto di lavoro.


musica

6 marzo 2008 • pagina 21

Davide Van De Sfroos, al secolo Davide Bernasconi, con il suo ultimo disco è in vetta alle classifiche

Signore e signori, ecco a voi il rock laghée di Alfredo Marziano l glocal, il “locale” che diventa “globale”, è uno dei principi cardine del nuovo ordine socioeconomico mondiale. Dubitiamo fortemente che Davide Van De Sfroos, al secolo Davide Bernasconi, vi si sia ispirato in qualche modo, eppure per lui le cose stanno proprio così: senza rinunciare al suo laghée, il dialetto tremezzino che si parla dalle sue parti, restando fedele alle sue storie di “paese, di disperati e di contrabbando” ambientate tra i monti dell’alta Valtellina e le rive del lago di Como, è assurto un po’ per volta a fama nazionale. A Sanremo c’è stato, sì, ma solo

I

lampadina in testa, dopo una giovinezza vissuta tra una mazurca e un pezzo dei Ramones. Con Creuza de ma, il suo capolavoro dialettale, il grande genovese ha aperto una porta. L’ostinazione e l’insistenza del Bernasconi hanno fatto il resto, travolgendo ostacoli linguistici e barriere regionali. Forse perché la gente s’è accor-

tel e che una volta, mica son balle, ha persino aperto la portiera a Sofia Loren. Ti spiega la fatica dei pescatori lacustri e dei minatori di Frontale che picchiano (Pica!, appunto) la roccia.Ti racconta le sbruffonate al bar o al circolo di bocce tra un bicchiere di vino e una partita a briscola. La

Il cantautore che utilizza il dialetto tremezzino si esibirà il 19 aprile al DatchForum di Assago. Scrive anche libri divertenti e surreali per ritirare due premi Tenco, il massimo riconoscimento per chi fa canzone d’autore. E quasi in silenzio, ma inesorabilmente, i suoi fan lo hanno trascinato in cima alle classifiche di vendita (il nuovo album Pica! ha esordito al quarto posto, meglio della riedizione di Thriller di Michael Jackson), e ora è addirittura arrivato il momento di occupare la più grande arena al coperto d’Italia, il DatchForum di Assago alle porte di Milano (succederà il 19 aprile prossimo).

Mica male, per un quarantaduenne con la zazzera imbiancata che fino a pochi anni fa veniva considerato un’attrazione da festa di piazza, uno Springsteen o un De André lariano che parla una lingua cifrata e predica ai convertiti. Proprio il grande Fabrizio, l’artista più ammirato, gli ha acceso una

ta che quel che canta lui è cronaca vera sublimata in autentica poesia, che i suoi personaggi lunari e sbandati “da bar, da piazza e da riva” appartengono un po’a tutta la provincia italiana, quella di cui giornali e tv si ricordano solo per i delitti della porta accanto o quando c’è da scrivere il pezzo di colore. Scatta l’identificazione, e concerto dopo concerto s’ingrossa la piccola folla di cowboy nostrani, i cauboi, che si muovono con lui seguendo l’esempio di Marina e del Baffo, i pionieri della prima ora che oggi gestiscono con amorevole cura il suo attivissimo fan club. Non c’è da stupirsene. Davide, monzese di nascita, ma lariano per formazione, dna e costituzione, è un pifferaio magico, un affabulatore, un gran cantastorie che sa come tenerti al lazo. Ti fa provare compassione per l’umile facchino che sgobba al Grand Ho-

Van De Sfroos nel dialetto lariano significa van di frodo e le sue storie sono ambientate tra i monti dell’alta Valtellina e le rive del lago di Como

cocciutaggine del costruttore di motoscafi che non ne vuol sapere di lasciare il legno per la plastica, e le disavventure dei contrabbandieri che van de sfroos, van di frodo, oltre il confine con il Canton Ticino.

Ha confidenza con la parola, col romanzo e con la poesia (e infatti pubblica anche libri divertenti e surreali: l’ultimo, Il mio nome è Herbert Fanucci, è uscito per Bompiani nel 2005), ama l’epica americana e i classici del cinema (“Le mie canzoni”, ha spiegato al sito Internet Rockol, “sono cortometraggi a cui devo solo trovare la giusta colonna sonora”). Già, l’America: in Pica! la si respira a pieni polmoni, accanto ai violini, alle fisarmoniche e ai balli sull’aia ci sono i banjo e sognanti steel guitar , il cajun dei francofoni della Louisiana e una toccante ballata, New Orleans, sulle devastazioni dell’uragano Katrina che il Davide ha scritto di

getto dopo un viaggio nella città del Mardi Gras per partecipare a un festival nel Quartiere Francese.

Perché alla fine è autentica world music, musica del mondo, quella del Van De Sfroos e della sua band, gente che non ha bisogno di discografici e consiglieri per sapere cosa e come fare: punk folk come lo facevano quegli sciamannati dei Pogues, i ritmi caraibici e gitani, il country & western, il reggae di Bob Marley, il rock blues come Dio comanda. Ci stanno a pennello anche se canti di innamorati clandestini che si baciano sotto il ponte di Azzano e di tenerezze sotto una Loena de picch, una luna di picche (“Ti amo anche se c’hai il culo come un frigo/ti amo anche se non te lo dirò mai”). Di quel tipo di Lenno che si crede Alain Delon o del Cimino che si butta in acqua e riemerge mezzo nudo (come un cinghiale in tanga, come un lupo con le Superga) per sfuggire ai finanzieri. Stanze di vita quotidiana, per dirla alla Guccini, anche se il troppo vino rosso o i riflessi dell’acqua a volte giocano brutti scherzi, e confondono la realtà con la leggenda. Perché anche il lago di Como, mica solo il Loch Ness, c’ha il suo Lariosauro, un mostro acquatico accucciato sui fondali. E anche Mezzegro e dintorni hanno le loro streghe e fattucchiere, i loro sciamani e Cavalieri senza Morte. C’è tutto un mondo magico e arcano, dentro e intorno a quello specchio d’acqua. Come nel Mississippi e a New Orleans, ché in fondo la Louisiana, dice il Davide, “assomiglia molto a casa mia”.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Gli imprenditori possono fare politica con la sinistra? LE AZIENDE CHE SANNO MUOVERSI NELLA BUROCRAZIA SONO SEMPRE LE STESSE Benché rischi di passare per il solito liberale, credo che gli imprenditori onesti che si schierano con la sinistra siano poi gli stessi che fanno ”vivere” la propria azienda sulle spalle della politica, ossia dello Stato. La parte che produce ricchezza infatti è notoriamente contro a quello che Gianfranco Miglio ha sempre denunciato come parassitismo, eppure in Italia le aziende che sanno muoversi all’interno della burocrazia dei palazzi del potere sono sempre le stesse, forse colluse con qualche politicante! In tal modo si ammmazza definitivamente la piccola e media impresa che non potrà mai accedere a questi incredibili aiuti di Stato scomparendo nell’arco di poco tempo, e lasciando che pochi politici guidino le sorti di in commercio di Stato, livellato, controllato e liberticida.

Alberto Moioli

UN IMPRENDITORE CON UNA VISIONE MODERNA E POLITICA HA NEL PD UNA STRADA OBBLIGATA Se quella rappresentata ieri dal Corriere della Sera in modo sintetico nella vignetta è l’impostazione li-

LA DOMANDA DI DOMANI

Ce la farà Hillary a rimontare su Obama? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

beral-economica del Pdl, credo che un imprenditore con una visione moderna e desideroso di impegnarsi in politica abbia praticamente nel Pd una strada obbligata. Distinti saluti.

Nello Rinaldi Vattaro (Tn)

I PROBLEMI ARRIVERANNO AL MOMENTO DI LEGIFERARE In una lista di sinistra, di sinistra vera, non vedo come possano candidarsi degli imprenditori seri. Ma in una sinistra ”ma anche”, come è il Pd, credo proprio di sì, possono candidarsi tutti. E infatti così è avvenuto. Il problema però verrà al momento di legiferare, quando interessi oggettivamente contrapposti verranno a scontrarsi, e allora il ”ma anche” andrà necessariamente a produrre immobilismo. Lo stesso immobilismo che ha travolto il governo Prodi che, comprendendo i Mastella e i Di Pietro da una parte e dall’altra i Diliberto, i Giordano (Pecoraro Scanio non ha mai contato nulla) del ”ma anche”, è stato il primo vero campione. In poche parole: se vincesse Veltroni aspettiamoci le stesse risse che hanno straziato l’Unione e l’Italia intera.

Susi Melis - Nuoro

PERCHÉ NON DOVREBBERO ESSERE COMPATIBILI LE CANDIDATURE DI ALCUNI VALIDI IMPRENDITORI? Il Pd di Veltroni vuole essere riformista e interclassista. Quindi perché non dovrebbero essere compatibili con lo spirito di quel partito le candidature di alcuni imprenditori? Ha ragione Bertinotti quando dice che un imprenditore non potrebbe candidarsi nella Sinistra Arcobaleno. Questo però parla ancora di lotta di classe. Giordano e, ancor di più Diliberto e Rizzo, si professano ancora comunisti ortodossi tanto da auspicare la dittatura del proletariato. A malincuore hanno accettato l’abiura alla falce e martello. Tutto ciò nel Pd non esiste. E’ vero che i due terzi di questo nuovo partito sono rappresentati da ex comunisti, ma ve lo immaginate voi Veltroni a parlare di lotta di classe alzando il pugno chiuso e magari con il fazzoletto rosso al collo?

LA SOVRANITA’ CLIENTELARE DEI POLITICI CON INCARICHI DI GOVERNO Vorrei riportare una mia lettera, quale osservazione critica, che alla presenza del sindaco di Casarano, Venuti, ho personalmente consegnato al ministro Vannino Chiti a conclusione della cerimonia per il 60° anniversario della Costituzione, che si è tenuta a Casarano nella sala del Cinema Manzoni. ”Onorevole ministro, La Sua visita in Città per le celebrazioni del 60° anniversario della Costituzione Italiana costituisce un’autorevole presenza che gratifica l’intera comunità. Colgo l’occasione per sottoporle una proposta che nasce da una notizia di stampa apparsa sui giornali locali: la crisi del Tac salentino sarà affrontata a Roma dal ministero del Lavoro per trovare nuove opportunità di rilancio.Tenuto conto che l’Art.3 della Costituzione recita che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”; che nella fase delle dimissioni del presidente del Consiglio in carica, in assenza di disposizioni costituzionali si fa riferimento ad una consuetudine costituzionale secondo la qua-

IL RIPOSO DEL GUERRIERO L’orsetto polare Flocks cede al meritato riposo dopo aver giocato per ore con gli altri cuccioli all’interno del giardino zoologico di Norimberga.

IN POLITICA C’È BISOGNO DI VOLTI GIOVANI E DI DONNE Ho l’impressione che quella di oggi sia la campagna elettorale più noiosa degli ultimi anni. Sarà che siamo ancora tutti freschi della crisi di governo, ma noto in giro un (quasi) totale disinteresse nei confronti dei dibattiti e dei ”botta e risposta”dei nostri politici. Inoltre, trovo Berlusconi troppo poco acceso rispetto alle precedenti campagne elettorali, così come vedo un Veltroni dimesso e sotto tono rispetto a quello che invece potevamo aspettarci da chi, come lui, avrebbe dovuto apparire come nuova forza in grado di rompere tutti gli schemi e ricostruire le macerie provocate dal predecessore Prodi. L’idea è dunque quella di un confronto a distanza e dispersivo, incapace di

dai circoli liberal Anna Lario - Pisa

le: il Presidente del Consiglio in carica gia dimettendosi davanti al presidente della Repubblica, che accetta le dimissioni con riserva, il presidente uscente rimane in carica per gli atti di ordinaria amministrazione”; che per quanto sopra si deduce che, tra una legislatura e l’altra, per lo scioglimento anticipato del Parlamento, un governo sfiduciato e dimissionario può assolvere solo alle funzioni ordinarie sarebbe gradito sapere: con quali poteri il ministro Bersani può sottoscrivere impegni e rilasciare garanzie per il comparto del Tac Salentino? Il caso specifico rientra tra le funzioni ordinarie o straordinarie? Forse è più opportuno pensare che, in concomitanza della già avviata campagna elettorale, si debba considerare lecito ogni tentativo di strumentalizzare dell’ormai annosa crisi del manifatturiero che certamente, dal punto di vista clientelare, avrebbe sortito meno consensi se si fosse affrontata, in tempi non sospetti e col governo nel pieno delle sue funzioni? La sovranità clientelare appartiene sempre ed in ogni momento ai politici con incarichi di governo, che la esercitano senza tener

riaccendere l’interesse dei cittadini, che ancora probabilmente non si rendono conto dell’importanza di un appuntamento elettorale come questo. Da un lato temo una scarsa affluenza alle urne, stavolta anche da parte dell’elettorato di centrosinistra, e dall’altro poca capacità di sostenere una macchina in panne come è l’Italia di adesso. Viste le forze in campo di Pdl e Pd, sarà affatto facile governare e durare. Soprattutto se, come sembra, saranno pochi i giovani e le donne candidate nelle diverse liste. Penso invece che sia proprio attraverso di loro che passi il vento nuovo del rinnovamento politico, sociale ed economico. Naturalmente sotto la guida sicura di uomini d’esperienza, intelletto e cultura.

Amelia Giuliani - Potenza

conto delle forme e dei limiti della Costituzione. Quanto meno sarà sancito solennemente che il “Popolo Italiano” non ha più alcuna Sovranità Popolare! W l’Italia - W la Costituzione Italiana”. Francesco De Vita

ISCRITTO UDC - CASARANO SIMPATIZANTE FONDAZIONE LIBERAL

APPUNTAMENTI ROMA - SABATO 8 MARZO 2008 ”LIBERALI E CRISTIANI PER RICOSTRUIRE L’ITALIA” Ore 11, presso il Teatro Valle, in via del Teatro Valle 21 (piazza Navona) Assemblea nazionale dei Circoli Liberal. Interverranno Pier Ferdinando CASINI, Ferdinando ADORNATO, Angelo SANZA


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog CHI PREVARRÀ IN POLITICA, CONFINDUSTRIA O SINDACATI?

Calmati, vivi, spera e niente più Oggi c’è il sole, ma io me ne sto in casa. Continui a scrivere, mia amata, che la tua coscienza ti rimorde perché vivi a Mosca e non con me qui a Yalta. Bene, cosa possiamo farci, mia cara? Se tu stessi con me a Yalta tutto l’inverno, la tua vita sarebbe rovinata e io sentirei le fitte del rimorso, il che difficilmente migliorerebbe le cose tra di noi. Non mi considero scavalcato né penso di aver subito un torto per un milione di ragioni, al contrario, mi sembra che tutto proceda bene, o nel modo in cui dovrebbe andare, tesoro, non sconcertarmi con il tuo rimorso. In marzo ricominceremo a vivere felici e non sentiremo la solitudine che proviamo ora. Calmati, mia amata, non essere agitata, vivi e spera. Spera e niente più. Adesso lavoro; probabilmente non ti scriverò ogni giorno. Perdonami. Andiamo all’estero. Andiamo! Anton Cechov a Olga Knipper

PERCHÉ NON SI PARLA PIÙ DEL G8 DI GENOVA? Come mai la scorsa settimana sono stati arrestati 16 ultras della scena romana biancoceleste, sulla base di intercettazioni telefoniche iniziate a giugno dello scorso anno? Sicuramente molti meritavano Regina Coeli o Rebibbia, ma perché non hanno effettuato gli arresti a tempo debito? Non è che forse si voleva distogliere l’attenzione proprio nel momento in cui stavano emergendo nuovi elementi legati a ciò che le forze dell’ordine fecero durante il famoso G8 di Genova?

Carlo Viola - Milano

A ROMA NON SI RISPETTANO LE ASSEGNAZIONI DELLE CASE Nelle assegnazioni di locali comunali di Roma continuano a regnare l’illegalità e la confusione, e l’occupazione dei locali di via Pisino 5 e 24, nel VI municipio, ne è l’ennesima dimostrazione. Ancora una volta, infatti, non vengono rispettate le norme relative all’assegnazione di locali pubblici: il civico 5 risulta essere occupato da un comitato di quartiere, mentre il locale al civico 24 è divenuta fissa dimora di un gruppo di immigrati che hanno trovato re-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

sidenza. Noi cittadini chiediamo alle autorità preposte un intervento immediato per il ripristino della legalità e per provvedere ad una regolare e trasparente assegnazione, che metta tutti nelle stesse condizioni di accesso ai locali pubblici. L’assessorato al Patrimonio del Comune aveva detto che tali locali avevano una destinazione per il “Municipio Roma 6” per attività culturali istituzionali. Invece, le attività che ad oggi vengono svolte nei due locali non risultano essere di carattere istituzionale e confermano, così, la situazione di confusione relativa alle assegnazioni dei locali comunali. Grazie per l’attenzione, saluti.

C’è sinistra e sinistra. C’è Veltroni e c’è Bertinotti (con Diliberto e compagnia). Ma c’è anche la Confindustria e ci sono anche i Sindacati. Veltroni cerca la sintesi di questi interessi che indubbiamente sono in contrapposizione. E anche se detta contrapposizione, negli ultimi anni è stata più apparente che reale, è questo il vero pericolo che incombe su un governo presieduto da Veltroni. Chi prevarrà, la Confindustria o il Sindacato? La Confindustria ha addirittura elaborato un programma di governo, i Sindacati hanno enormemente dilatato la loro sfera di influenza e molto spesso hanno condizionato l’azione dei governi. Riuscirà il grande mediatore a comporre i più che probabili conflitti tra gli interessi degli imprenditori e quelli dei lavoratori? Prodi ha tentato, ma ha ricevuto schiaffoni a ripetizione. Cordialmente ringrazio, distinti saluti.

Luigi Mangiante - Como

PUNTURE Berlusconi critica Veltroni per i candidati-bikini. Ah, se il Cavaliere avesse candidato la bella Aida avrebbe potuto rispondere con il candidato-topless.

Giancristiano Desiderio

Flavio Neri - Roma

Non so se uno corregge i suoi difetti, ma certo si disgusta delle sue qualità, specie quando le ritrova negli altri JULES RENARD

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di HILLARY RISORGE MA PER OBAMA NULLA È PERDUTO Mentre in Texas si sta ancora contando e risultati discordanti (primarie per Hillary, caucus per Obama) potrebbe giocare in favore del secondo, quel che è certo è che per la Clinton la vittoria in Ohio (+12%) è una vera e propria boccata d’ossigeno. Hillary si è aggiudicata anche il Rhode Island (+18%) mentre il Vermont è andato ad Obama con un bel +20%. Ciò che maggiormente preoccupa Obama non è tanto il risultato in sé che, al contrario, lascia quasi inalterato il distacco nel numero dei delegati; il problema sembra invece essere la sosta patita dal suo momentum e un paio di circostanze poco chiare, come l’avvio del processo al finanziatore Rezko, che hanno leggermente mutato l’occhio benevolo riservatogli dalla stampa. Ci sono però, al tempo stesso, numerose ragioni per essere ottimisti e credere ancora nel cambiamento che solo Obama riuscirebbe a portare. (…) La Clinton, per quanto abbia vinto negli Stati più grandi, è un candidato polarizzante che avrebbe certamente meno possibilità di vincere contro McCain. I sondaggi dicono infatti che Obama batterebbe il repubblicano con un +4.2% mentre Hillary subirebbe un distacco di circa 2 punti percentuali. Impossibile non tenerne conto, soprattutto per i superdelegati. (…) E’ vero che Obama ha nuovamente fallito il colpo del KO permettendo alla Clinton di risorgere, ma è altrettanto vero che Hillary non è mai riuscita a costruire un vero e proprio momentum né ad

apparire come il candidato ”inevitabile”, cosa che invece è riuscita ad Obama in più di un’occasione.

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LA PROMESSA Prodi aveva promesso che avrebbe risolto il problema dei rifiuti napoletani in venti giorni. Ora che è passato più di un mese da allora, vediamo come stanno le cose. Ce le racconta Repubblica: «Non andremo alle urne, nessuno merita la nostra preferenza, guardate cosa hanno combinato, questa era la terra più bella del mondo...». Lo dicono con livore nella città, tornata a essere invasa da montagne di rifiuti dopo una breve tregua. Piramidi di spazzatura dalla periferia al suo salotto. Da Scampia a via Toledo. Lo ripetono quasi con rassegnazione nella provincia, mai liberata dall’incubo della spazzatura. A due mesi dalla grande crisi che ha precipitato Napoli all’inferno la situazione è, se possibile, ancor più grave. L’allarmante novità, rispetto a poche settimane fa e che, ormai, anche la city è allo stremo. Neppure i Palazzi delle istituzioni sono risparmiati. «I miracoli sono esauriti, San Gianni De Gennaro non ce la fa più», commenta Antonio Capuani, pensionato, mentre dà le spalle agli uffici della prefettura in piazza Carolina, dove la spazzatura è tracimata dai cassonetti ed è sparsa a terra. Il presidente del Partito democratico non mantiene le promesse. Chissà come le manterrà il segretario.

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PAGINAVENTIQUATTRO Dieci anni fa moriva la grande scrittrice un libro ne propone un ritratto inedito

La zingara infedele assorta in un sogno ANNA MARIA ORTESE di Francesco Napoli n episodio di giusto vent’anni fa. Tradotto in Francia con straordinario successo il suo romanzo L’iguana dal celebre editore Gallimard, Anna Maria Ortese concede un’intervista a Le Monde. Un’inviata del prestigioso giornale arriva nella casa di Rapallo ma la scrittrice si è già pentita ed esordisce dicendo: «Non ho più niente da dire». Ma com’era Anna Maria Ortese? «Io sono una persona antipatica. Sono aliena, sono impresentabile», e questo a sua detta, mentre Vittorini la fotografò definendola «una zingara assorta in un sogno» per poi pubblicarle nei suoi «Gettoni» einaudiani Il mare non bagna Napoli nel 1953. I nomi autentici dei personaggi che animano il racconto lì compreso Il silenzio della ragione scateneranno una polemica lunga e accesa con i suoi amici di un tempo e il suo addio alla città adottiva e anche gli am-

U

indusse a scrivere alcune poesie che, come racconta, decise di inviare nel 1933 «a una rivista di letteratura che vedevo spesso nell’edicola nei pressi di casa mia». Si trattava dell’Italia letteraria diretta da Corrado Pavolini e con Massimo Bontempelli tra i grandi ispiratori. E fu proprio quest’ultimo con Valentino Bompiani a giocare con la Ortese la carta della «fanciulla prodigio», lanciandola nell’agone letterario. Ma lei non sapeva starci, non sapeva legare con i benpensanti del tempo. Solo con Paola Masino - spregiudicata antesignana del femminismo e figura intellettuale ingiustamente obliata -, amante scandalosa proprio del già maritato Bontempelli, formò un sodalizio autentico e forte. Il suo isolamento e la sua irraggiungibilità celano una vita fatta di relazioni culturali ma anche sentimentali tormentate, di stretti e imprevedibili rapporti con scrittori, intellettuali, politici di primo piano, uomini di spettacolo e carissimi amici sconosciuti. Una vita avventurosa, dominata dal demone della fuga e del silenzio. Una vita dunque certo randagia ma all’insegna della letteratura, costellata da più di venti volumi - con i massimi riconoscimenti come il Viareggio (Il mare non bagna Napoli, 1953), lo Strega (Poveri e semplici, 1967) e un premio Campiello alla carriera nel 1997 - e un’attività giornalistica instancabile, anche per necessità economica dovendo ben presto provvedere a se stessa, che gli valse un Premio Saint-Vincent. Ma pur con questi allori, la sua fama stenta a decollare, complice una critica ottusa, all’epoca ammaliata da pesi letterari più leggeri, incapace di un giudizio quantomeno sereno su romanzi come L’Iguana (1965) e Il porto di Toledo (1975). Gli editori invece intuirono da subito le qualità della Ortese che nonostante que-

Adelia Battista grazie a un fitto epistolario avuto con la scrittrice ne ha ricostruito, in modo originale, la complessa personalità bienti dell’intellighenzia legati all’allora Partito comunista videro nella prosa della Ortese una feroce critica nei loro confronti.

Eppure proprio a Napoli, sul finire degli anni Venti, Anna Maria matura una vocazione letteraria straordinaria e forse unica. Gli studi per lei si sviluppano in maniera irregolare: abbandona la scuola per sostituirla con letture voraci e lunghe passeggiate per quella città che ispirò gran parte del suo Il porto di Toledo poi pubblicato solo nel 1975. La precoce scomparsa di un amatissimo fratello, Emanuele, la

sto apprezzamento non seppe con loro tenere rapporti duraturi. Si impegnava con uno, ma intanto contrattava di nascosto con un altro. Si possono così leggere nella sua bibliografia tutti i nomi più importanti: Bompiani, Einaudi, Laterza, Mondadori, Vallecchi, Rizzoli, Adelphi. Con ammirevole pazienza gli editori aspettavano le opere promesse, desideravano vedere nuovi dattiloscritti che la Ortese con altrettanto ammirevole infedeltà faceva finire sulla scrivania di un altro. Il successo pieno le arride solo nel 1993, con Il cardillo innamorato, grande bestseller che onora tardivamente una figura forse tutt’ora poco nota e studiata rispetto al valore dell’opera.

Oggi un altro editore, Minimum fax, a dieci anni dalla morte ha avuto la pazienza di attendere Anna Maria Ortese. Lo ha fatto aspettando che scaturisse da un altro sodalizio, nato per una tesi universitaria, un ritratto profondo e delicato in Ortese segreta di Adelia Battista a giorni in libreria. Grazie alle molte lettere scambiate durante il lavoro universitario e un rapporto via via più personale e intimo, Adelia Battista ha perlustrato con attenzione nelle pieghe ancora in ombra della personalità della Ortese, ha rivisto angolature e prospettive per fornirne una visione tutta sua, originale e poggiata su documentazione inedita. Ovviamente c’è la donna Ortese, schiva e geniale, la letterata Ortese, sempre in urto con il mondo intero, ma in particolare c’è la storia, a tratti drammatica e a tratti commovente, di una lunga amicizia tra una donna che ha lasciato un segno indelebile nella cultura e nell’immaginazione di noi tutti e un’altra donna che adesso, finalmente, ne dà testimonianza. Così, forse, si potrà controbattere quell’amara constatazione della grande autrice italiana che lapidariamente scrisse di sé: «Anna Maria Ortese non sa cosa ha voluto, né chi è».


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