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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

NordSud Ritorno al nucleare

e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato

Giancarlo Aquilanti Alessandro D’Amato Gianfranco Polillo pagina 12 Carlo Stagnaro

classi dirigenti GROS-PIETRO: «RIDARE DIGNITÀ A LAVORO E MERITO» pagina 9

Enrico Cisnetto

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

elezioni

LE LISTE DI BERLUSCONI Tutti i problemi Giuseppe Ciarrapico, di Rajoy 74 anni, fascista. e Sarkozy Blindato nel Pdl Gennaro Malgieri dove sono stati pagina 6 Enrico Singer bocciati esponenti liberali e cattolici come mondo Biondi, Gargani e Iannuzzi. QUELLA STATUA DI MAOMETTO In attesa del Popolo, S’HA DA LEVARE dove sta la Libertà?

NERO SHOCKING alle pagine 2, 3, 4 e 5

MARTEDÌ 11 MARZO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

43 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

pagina 10

Daniel Pipes

calcio LA PAROLA A GIGI RIVA: «VINCENTI E QUINDI ANTIPATICI» pagina 21

Cristiano Bucchi

80311

9 771827 881004

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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shocking Nella foto a sinistra, una stretta di mano tra Gianfranco Fini e Giuseppe Ciarrapico, la cui candidatura nelle liste del Pdl è stata decisa da Silvio Berlusconi

Il pericolo dell’improvvisazione di Renzo Foa on c’è grande scandalo nel fatto che Giuseppe Ciarrapico dichiari a Repubblica – come se fosse al bar o in un taxi – di non aver «mai rinnegato» il fascismo. Un’opinione o, se si preferisce, una dichiarazione di fede politica non può di per sè costituire reato. C’è però un grande problema, che si chiama Pdl. Il partito fondato da Silvio Berlusconi un pomeriggio dello scorso novembre dal predellino di un’automobile a Piazza San Babila, rilanciato, all’improvviso, come lista in previsione delle elezioni e definito dal suo stesso fondatore «anarchico» quanto a valori di riferimento, ecco questo partito non poteva che inciampare su un incidente come questo. Se non era un candidato al Senato che, proprio nel giorno dell’investitura, esibiva il suo fascismo, poteva essere qualunque altra cosa. Ogni improvvisazione è esposta ai colpi di vento.

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In questo caso, il colpo di vento ha creato non pochi imbarazzi, in primo luogo fra altri candidati del Pdl. Penso a Fiamma Nierenstein che ha detto di non essere «compatibile con nessuno che dica di non rinnegare il fascismo». Ma penso soprattutto a Gianfranco Fini – che di Ciarrapico è stato un bersaglio polemico – che ha preso le distanze, anche se un po’ diplomaticamente, dicendo: «Fosse dipeso da noi... Non è stata una nostra scelta». Proprio Fini che andò a Gerusalemme a dire che «il fascismo fu il male assoluto». Penso a come si deve sentire Marcello Pera, capolista dell’irruento editore. Infatti, il problema in vicende simili non riguarda la natura o la complessità delle persone con cui si condivide un progetto politico. Le persone sono quelle che sono. Riguarda più precisamente le idee che vengono espresse. E quando si tratta di idee incompatibili con una politica che si dichiara di voler fare, si può verificare un corto circuito. I cui effetti sono amplificati dal sistema mediatico, soprattutto in un clima di competizione elettorale e soprattutto quando ad errore segue errore. Così all’errore dell’intervista a Repubblica è seguito l’errore di Paolo Bonaiuti che, al solo scopo di difendere l’intangibilità dell’impianto berlusconiano, ha derubricato la polemica alla «presunta superiorità morale della sinistra». Il portavoce di Berlusconi non ha capito – o ha fatto finta di non capire – che i confini della questione non sono tracciati dal fuoco di sbarramento che si è subito levato dai bunker del Partito democratico. Che la questione si è aperta perché si è scoperchiata la natura del Pdl, perché ci troviamo di fronte all’ennesimo episodio che contribuisce a definire questa impresa un’«ammucchiata» senza coerenza, senza omogeneità, senza valori comuni di riferimento, aperta a tutto e al contrario di tutto. Con un dubbio: in nome di che viene chiesta fiducia all’elettorato? Ho sempre trovato fastidioso ed ingiusto il metodo, invalso durante la stagione bipolare, di fare gli esami agli avversari. Ho considerato fuori tempo massimo anche gli esami di antifascismo, se non assumendoli nella dimensione più generale dell’antitotalitarismo. Cioè nelle visioni e nelle idee con cui il pensiero (e quindi l’azione politica) ha fatto i conti con il peggio del Novecento, per lasciarselo alle spalle e per contribuire a trasferire il confronto sul mondo di oggi e su quello di domani. Ho sempre pensato che le imprese politiche, a destra come a sinistra, dovesse venir giudicate non per il loro passato, ma concedendo a tutte il massimo del credito quanto a rinnovamento e innovazione. Ho giudicato una conquista per l’intera democrazia italiana il percorso compiuto, da Fiuggi in poi, da Alleanza nazionale. Così come resto convinto del valore dello sforzo attuato da Fausto Bertinotti per costituzionalizzare l’estrema sinistra, anche nell’era new global. L’unica condizione era (ed è) la coerenza e la progressione del percorso, sul piano politico e culturale. Proprio sotto questa angolatura, oggi al Pdl si pone il problema non di glissare sui giudizi dati dal suo candidato numero 11 nel Lazio, ma al contrario di fare i conti con la loro compatibilità con un progetto di cambiamento liberale della società italiana e di completamento della transizione democratica. E con la credibilità complessiva del Popolo delle libertà. Il vero danno provocato all’impresa berlusconiana da Giuseppe Ciarrapico consiste infatti nell’aver evidenziato due parole-chiave che suonano negative: l’ammucchiata e l’improvvisazione. L’ammucchiata è l’immagine e la sostanza di un partito inventato all’improvviso – il progetto del Partito delle libertà era tutt’altro – e destinato a diventare anche un contenitore di ossimori. L’improvvisazione è il modo con cui questo partito si è presentato alle elezioni e con cui ha formato le sue liste. Liste che ospitano certamente molte persone in sintonia con l’altra parola-chiave, cioè libertà, ma il cui ruolo però è ormai oscurato da idee come quelle di Ciarrapico. Legittime in un’area nostalgica o estrema della destra italiana, ma in contraddizione con chi si richiama ai valori del popolarismo e del liberalismo.

Una giornata di Riccardo Paradisi ROMA. Lunedì mattina. Francesco Giro e Mauro Cutrufo portano alla Corte d’Appello di Roma le liste del Pdl per il Senato nella circoscrizione Lazio. Capolista è Marcello Pera, Lamberto Dini è il numero 3, Ciarrapico il numero 11. Il numero 17 è Bittarelli il capo dei tassinari romani. Sembra tutto tranquillo. Certo, c’è quell’intervista rilasciata a Repubblica proprio da Ciarrapico e pubblicata proprio ieri dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari: «Non ho mai rinnegato il fascismo», dice il re delle acque minerali «che mi ha dato gioie e dolori. Con Berlusconi, aggiunge, mi lega un’amicizia è di antica data, e il suo ingegno è davvero raro Sabato al Palalido al Milano ho conosciuto la potenza del suo movimento». Repubblica relega l’intervista a pagina tredici, non sospettano evidentemente che le parole del Ciarra scateneranno un putiferio.

L’intervista a Repubblica scatena un putiferio: Bossi chiede un passo indietro, poi arriva il parziale dietrofront sul fascismo

Ore 10,25. Ad aprire le danze è Alfredo Reichlin, dirigente del Partito democratico che in una nota diffusa dall’ufficio stampa del Pd afferma: ”Silvio Berlusconi ha scelto per le sue liste Ciarrapico, che oggi su ’Repubblica’ rivendica di essere stato e di essere un fascista. A Berlusconi - conclude Reichlin - il compito di spiegare la presenza tra le sue liste di simili personaggi e di dire al Paese quale posto assume, tra i valori del Pdl, la nostra Carta Costituzionale, che nell’antifascismo ha la sua stella polare”. Ore 11,10. Non trascorre nemmeno mezz’ora che di rincalzo arriva anche la censura del ministro delle Telecomunicazioni Paolo Gentiloni, candidato Pd nel Lazio «Un partito che si richiama alla parola liberta’ non puo’ portare in Senato un convinto sostenitore della dittatura fascista». E visto che Ciarrapico non rinnega il fascismo - si chiede Gentiloni- Berlusconi rinneghera’ la candidatura

di Giuseppe Ciarrapico?

Ore 12,08.”Berlusconi ha riempito le sue liste di ogni cosa: prima Fini, la Mussolini e poi Ciarrapico, che si é detto orgoglioso di essere fascista. I moderati faranno fatica ad accettare questo spostamento a destra irreversibile e inarrestabile da parte del Pdl”. Stavolta a infilzare la banderilla sul caso Ciarrapico che monta è il vice segretario del Pd Dario Franceschini. Lidia Menapace, esponente della sinistra arcobaleno, negli stessi minuti dall’arma della critica passa poco moderatamente alla critica delle armi penali: «Non esiste piu’ il reato di apologia di fascismo?». Domanda l’ex partigiana. Ore 12,17. Ormai piove a dirotto su Ciarrapico e Berlusconi che lo ha candidato. Facendosi largo tra un esercito di peones del centrosinistra che esercitano la più rotonda retorica antifascista dirama alle agenzie la sua nota anche Piero Fassino: «Una sconcertante e spudorata apologia del fascismo che toglie ogni alibi e conferma che il PDL altro non è che un partito di destra, con inquietanti pulsioni reazionarie». Dopo Alessandra Mussolini e Massimo Gramazio, adesso Giuseppe Ciarrapico: non si vede proprio - continua Fassino - come questo revival di camicie nere abbia a che fare con quel Partito Popolare Europeo.

Ore 12,33. Il centrodestra resiste fino a mezzogiorno. Si spera a via dell’Umiltà sede di Forza Italia e in via della Scrofa sede di An che la cosa rientri. Ma la cosa non rientra. Anzi ora s’aprono le crepe a destra. Fiamma Nirenstein sbotta: «Non sono certo compatibile con Ciarrapico. Io sono antifascista». La giornalista si sfoga durante la conferenza stampa di presentazione della propria candidatura alla Camera per il Pdl.


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particolare Ore 12,34. A questo punto Gianfranco Fini sente di dover intervenire: «Oggi non parlo io ma le candidate che abbiamo presentato... E, comunque, ho gia’ detto quello che dovevo dire. A suo tempo. Ciarrapico non è una nostra scelta, fosse dipeso da noi…». Ore 13,19. Ma se Gianfranco Fini incassa e si schernisce Paolo Bonaiuti, il portavoce di Silvio Berusconi sente di dover attaccare: «Siamo stufi di loro, di una sinistra che dà giudizi sugli altri. Alla sua presunta superiorità morale non crede più nessuno. È ora che la smettano». Ore 15,36. Adesso interviene Fabrizio Cicchetto. Forse, pensa, Bonaiuti ha esagerato. Una spiegazione va data. «Il nodo politico non puo’ essere oscurato dalla propaganda: Forza Italia e il PdL», dice il vicecoordinatore di Forza Italia, «hanno un chiaro connotato liberale ed antifascista il resto riguarda polemiche di basso profilo e interviste per nulla condivisibili». Ore 15,50. «Vorrei rassicurare gli antifascisti Fini, Cicchitto e Nirenstein: il ’Ciarra’ che avete in lista non è l’adoratore di Mussolini, è quello che ha restituito Repubblica a Scalfari e Caracciolo con la mediazione di Andreotti». È Giuliano Ferrara a intervenire concludendo la sua nota con un «cari amici, non avete di che preoccuparvi».

strumentalmente delle baggianate e parliamo di cose serie». Ore 17,10. Il segretario della Lega Nord, Umberto Bossi, coglie il malumore di larghi settori del centro-destra. «Sarebbe opportuno che Ciarrapico facesse un passo indietro, nell’interesse di tutti». 17,33. Ciarrapico afferma: «Sono stato frainteso: il testo dell’intervista pubblicata oggi sul quotidiano La Repubblica non corrisponde al mio pensiero. Il fascismo appartiene al nostro passato e il giudizio su questo periodo drammatico della nostra storia è bene che sia lasciato agli storici. Per quanto mi riguarda, non ho mai nascosto la mia giovanile adesione ad esso, al pari di tanti illustri italiani, ma al tempo stesso ho sempre espresso la mia netta riprovazione e condanna, qualunque sia stata, per la perdita della democrazia e ancora di più per le discriminazioni razziali. Io e la mia famiglia ci siamo sempre onorati di aver assistito nella latitanza nel 1944 una delle piu’ importanti famiglie israelite in Roma». Ma il Ciarra aggiunge anche: «Di queste polemiche non me ne frega niente a mia candidatura non è in dubbio, è stata depositata ieri. Io vado avanti».

La giornalista Fiamma Nirenstein, candidata con il Pdl: «Sono incompatibile». E il Pd attacca: «I moderati non lo accetteranno»

Ore 16,07. Anche Gaetano Quagliariello, senatore di Forza Italia, cerca di far saltare le contraddizioni a sinistra: «Potrei rispondere che allora Massimo D’Alema mise nel suo governo come sottosegretario Misserville, un fascista in salsa ciociara. Comunque da docente universitario dico che il fascismo è una cosa seria e andrebbe trattato storicamente fuori dalla polemica politica. Il fascismo appartiene al passato e alla nostra storia. Non tirate fuori

Ore 17,37. Arriva la stoccata di Casini: «Con la candidatura di Giuseppe Ciarrapico il Popolo della Libertà dimostra di collocarsi come destra populista. Ho il massimo rispetto per le persone - aggiunge Casini - ma bisogna chiamare le cose col proprio nome e cognome: il Pdl non ha nulla a che fare con il centro moderato che fa riferimento al Ppe lo dimostrano fatti come questa candidatura e come quella della Mussolini”. Ore 19,20. Il leader del Partito Democratico, Walter Veltroni, è lapidario: «Spero che Ciarrapico si sia autocandidato».


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Giuseppe Ciarrapico, 74 anni, un certificato penale lungo quanto la Divina Commedia, orgogliosamente fascista, candidato alle prossime politiche per il Popolo della Libertà di Nicola Procaccini ncensurato, meglio se donna, giovane, ed amante della libertà. Questo è l’identikit del parlamentare perfetto per Silvio Berlusconi, come ha più volte dichiarato il Cavaliere in diverse occasioni pubbliche. Giuseppe Ciarrapico ha 74 anni, un certificato penale lungo quanto la Divina Commedia, è orgogliosamente fascista, ed è candidato nel Popolo della Libertà. Al Senato, in undicesima posizione, quindi sicuramente eletto in caso di vittoria nel Lazio. Non è semplice raccontare la vita, le gesta, il pensiero del “Ciarra”come viene chiamato l’imprenditore ciociaro da quando acquistò la Roma di DinoViola nel 1991 (salvo poi doverla abbandonare in seguito ad una delle sue innumerevoli condanne penali) perchè la sua esistenza sconfina nella leggenda metropolitana e non è semplice descrivere il personaggio con realismo ed obiettività. Tra le certezze, ci sono almeno dieci diverse sentenze passate in giudicato che hanno condannato Ciarrapico ad un numero difficilmente quantificabile di anni di carcere per reati che vanno dalla truffa aggravata e continuata, a quella semplice, abuso d’ufficio e peculato, diffamazione, falso in bilancio (più volte), violazione delle leggi che tutelano i bambini (lavoro minorile), finanziamento illecito ai partiti politici. Ma sono le ultime condanne quelle più pesanti: nel 1998 per bancarotta fraudolenta nella vicenda del Banco Ambrosiano gli vengono comminati 4 anni e sei mesi di carcere, nel 1999 per il crack della Casina Valadier viene condannato a tre anni. Da allora più niente (in realtà pare che sia stato piuttosto male di salute), e per un po’ è sembrato che Ciarrapico avesse cambiato registro, dedicandosi all’editoria locale. Ma verso la fine dell’anno scorso la trasmissione Report di Milena Gabbanelli, lo riporterà al centro di un nuovo scandalo legato ai finanziamenti pubblici ai giornali.

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L’inchiesta giornalistica ha fatto scattare quella giudiziaria ed i magistrati romani lo accusano di aver ricevuto tra il 2002 ed il 2005 il doppio dei contributi editoriali ai quali i suoi 8 giornali avrebbero avuto diritto da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Della vicenda si è parlato molto negli ultimi mesi, ma c’è un aspetto della questione che davvero lascia sbalorditi e che ancora pochi conoscono. Si da il caso che Giuseppe Ciarrapico sia docente universitario presso l’Università del Molise, e che ogni venerdì pomeriggio si rechi nell’aula B della fa-

coltà di Scienze Umane e Sociali per tenere le sue lezioni. Che materia insegna? Economia delle imprese editoriali. Dunque, il prof. Ciarrapico ha ottenuto (?!) la cattedra universitaria nella materia per la quale è indagato per truffa ai danni dello Stato italiano. Ma Giuseppe Ciarrapico non dovrà temere nulla perché accettando la proposta del Pdl di un seggio in Senato avrà l’immunità parlamentare per tutta la durata dell’incarico. Oggi l’imprenditore ciociaro, insieme ai giornali, e a un cumulo di società in liquidazione che ogni due anni cambiano sede da Latina a Frosinone a Reggio Calabria, è proprietario di un paio di cliniche nella capitale, due società di catering, tre finanziarie, e lo storico Bar Rosati in piazza del Popolo. Come editore è stato più volte denunciato dalle associazioni della stampa per condotta irregolare, ma il nostro è famoso anche per un altro aneddoto: pare che per non ascoltare i piccoli azionisti della sua Italfin ’80, quotata in Borsa, fosse solito convocare le assemblee a Pantelleria o in cima al Monte Rosa. Mentre quando era presidente della Roma e i tifosi protestavano, faceva finta di niente. «Fischi? Non ne ho sentiti. Solo contestazioni di gioia».

Fin qui si sono descritte le gesta del “Ciarra”, ma il suo pensiero in politica non è meno interessante delle sue azioni. Attraverso i suoi quotidiani territoriali, ed attraverso una serie di psudonimi con cui firma i corsivi in prima pagina Ciarrapico ha sempre attaccato violentemente i propri avversari politici ed economici. In Molise attacca da anni il governatore di Forza Italia Michele Iorio fino al punto che il direttore del suo giornale Nuovo Molise, Gianni Tomeo, fu costretto a dimettersi quando ritenne ormai insostenibile la pressione del suo editore, il quale tutti i giorni lo costringeva a criticare violentemente Iorio. La vicenda fu oggetto di interrogazioni parlamentari, una di queste fu presentata dal senatore Claudio Fazzone di Fondi che è un’altra delle vittime predilette di Ciarrapico.Ancora sabato scorso sulla prima pagina di Latina Oggi campeggiava un titolo a nove colonne contro il senatore e celebre fu un editoriale pubblicato il 26 febbraio di un anno fa intitolato: «Procuratore, perché aspettare» nel quale Ciarrapico invocava la galera per Fazzone. Il destino (e la politica) gioca brutti tiri, ed il senatore di Fondi oggi si ritrova immediatamente alle proprie spalle, nella stessa lista del Pdl al Senato, proprio il suo carnefice. Eppure, in

Giuseppe Ciarrapico (a destra) con Carlo de Benedetti e Carlo Caracciolo

IL CIARRA cima alla lista nera del Ciarra non c’è Forza Italia, ma Alleanza Nazionale ed in particolare, Gianfranco Fini, per il quale nutre un odio che travalica la politica. Impossibile tenere il conto degli editoriali vergati e degli insulti rivolti a piene mani contro il presidente di An, basti ricordare che ogni qualvolta Fini mette piede in provincia di Latina, il giornale di Ciarrapico pubblica in prima pagina la sua foto mentre fa (sembra) il saluto romano. Proprio quella foto farà da tappezzeria ai muri di mezza Roma durante la grande manifestazione di An dell’anno scorso.A tal proposito queste furono le sue parole in un lungo editoriale: «Tutta An appare sempre più una banda di poveracci in cerca d’autore. Si stanno affannando di qua e di là per sapere a chi è dovuta l’affissione dei manifesti dell’ardito Fini in propedeutica preparazione della marcia ovvero della marcetta su Roma di oggi 13 ottobre. Sempre più poveracci quando dicono che quello

“Tutta An appare sempre più una banda di poveracci in cerca d’autore„

“Morirò con la camicia nera, non sopporto i rinnegati„ “Sono troppo fascista per assistere a questi bla bla„ “Pinochet? Elegantissimo„

non era un saluto romano ma era un modo di salutare non si sa chi. Insomma, nemmeno il pudore dei propri atti e dei propri gesti passati, presenti e non si sa mai futuri. Insomma, presidente Fini, era o non era lei a fare il saluto romano? Gliene spieghiamo meglio le circostanze? La marcia neofascista da lei guidata da Piazza Esedra a Piazza Venezia. Era in campagna elettorale per le elezioni amministrative di Roma e non era ancora stato miracolato da quel Berlusconi che tanto fastidio oggi le dà. Arrivato a piazza Venezia, come poteva lei resistere al fascino di quel balcone? E così ci scappò il saluto romano di cui trattasi. Dobbiamo dirle, però, che ha un suo samurai invitto. Anche se un po’ bagnato dal latte con lei ha subito solidarizzato l’eroico Alemanno, quello del latte blu, quello di “bevete più latte”, quello della dottoressa Lippiello e quello del signor Bianchi. E allora ecco Alemanno ardito ed invitto farsi fotografare con sguardo


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Gargani contro le liste del Pdl: troppi nomi improvvisati

Speravo in uno scherzo colloquio con Giuseppe Gargani di Susanna Turco

ROMA. È amareggiato per non

PENSIERO truce ma ardito niente popò di meno che nell’atto eroico di strappare uno di quei manifesti iconoclasti. Con queste premesse e di queste promesse dove andrete? Da Piazza Esedra al Colosseo e dal Colosseo, fate attenzione che se imboccate via dell’Impero finite un’altra volta a piazza Venezia».

D’a l t ra p a r te , Fi n i è quasi un’ossessione per Ciarrapico: «Non mi parli di Fini, l´islamico sionista. Non mi posso perdonare di essere stato io a presentarlo ad Almirante. Non ci parlo da anni. Guardi come hanno ridotto Latina: non resta niente del fascismo, non c´è più onore né gloria» ripeteva sconsolato il Ciarra nelle interviste. Salvo recuperare l’ardore perduto con frasi tipo «morirò con la camicia nera, non sopporto i rinnegati». Che poi è il mantra di Ciarrapico che ripete ossessivamente a se stesso da sempre, forse per giustificare il suo sostegno economico e politico alla Dc

quando il potere risiedeva a via del Gesù e non certo a via della Scrofa dove stavano i «camerati». O forse per giustificare la sua recente infatuazione per il Partito democratico di Walter Veltroni. Comunque, molto meglio lui di Fini per il Ciarra: «Glielo dico io: rimarrà da solo, abbronzato, con le sue cravatte tremende, e quei colletti alla grande Gatsby» è il giudizio politico-estetico definitivo di Ciarrapico su Fini. Anche in politica estera le sue idee sono chiarissime, magari un po’datate, parlando con ammirazione di Pinochet lo definì «elegantissimo», stessa attrazione per Francisco Franco, nonostante fosse «piccolino, con quella voce in falsetto». Ciarrapico, grazie al Pdl, varcherà ora trionfalmente la soglia di Palazzo Madama, ma è facile immaginare che non ci vorrà molto per sentirgli dire le stesse parole con cui abbandonò An: «Sono troppo fascista per assistere a questi bla bla».

“Non mi parli di Fini, l´islamico sionista. Non mi posso perdonare di essere stato io a presentarlo ad Almirante. Non ci parlo da anni. Guardi come hanno ridotto Latina: non resta niente del fascismo, non c’è più onore né gloria„

essere stato inserito in lista, ma non tanto da annunciare l’abbandono del Pdl. «Mi candido in astratto per la presidenza della regione Campania», dice. Per conto di quale formazione non è del tutto chiaro, e del resto è anche presto per appurarlo. Per il momento Giuseppe Gargani, che è europarlamentare, si concentra dunque sulla critica dei criteri delle liste per le elezioni di aprile. Di cosa si lamenta, Gargani? Ci sono candidati non utili, improvvisati, per nulla legati al territorio. Ma la rappresentanza deve essere territoriale, altrimenti si crea un rapporto anomalo tra eletti ed elettori. Ma di chi parliamo? I nomi non li ricordo, ma il problema è generale. Qualunque popolazione vuole essere rappresentata da uno che li conosca. Pd e Pdl se ne preoccupano poco. È una tendenza generale, colpa della legge elettorale. Ma le preferenze erano utili, non solo per rendere il cittadino arbitro, ma anche per far sorgere una classe dirigente vera sul territorio. Un fatto di democrazia, insomma. Quando furono abolite, si disse che le preferenze portavano al clientelismo. Anche lasciare che siano i vertici a decidere ogni singolo eletto è una clientela, rovesciata, pur sempre anomala. Lei sembra dire che Berlusconi non si è comportato meglio di Veltroni. Veltroni ha fatto molto peggio. Il Pdl ha candidato Ciarrapico. Che ne pensa? Beh, Ciarrapico è molto caratterizzato per il suo passato, ma io spero che non voglia caratterizzarsi ancora... Che vuol dire? Insomma, se insiste ancora sul suo passato... Sembra proprio che insista, Gargani. Il fascismo non c’è più, quindi

al limite lui gioca a fare il fascista: se tiene conto della sua posizione attuale, non può immaginare altro. A Repubblica sul fascismo ha detto: «Mai rinnegato, mai confuso, mai intorpidita la mente...». Una dichiarazione che mi meraviglia, spero sia fatta in un contesto di ironia. Non sembrava che scherzasse. Beh, allora non va bene. Dando uno sguardo generale alle candidature, che conclusione trae? Nessun partito si è sottratto ai meccanismi di una legge così: bisognava reagire, essere responsabili. In compenso, c’è la rincorsa a mettere limiti di età e di mandato. Altro errore. La Dc poneva criteri concreti, di valutazione caso per caso, non i criteri astratti per cui se sei alto un metro e sessanta non entri in lista. In questa tagliola ci è finito anche lei. E come no, si è stabilito che i deputati europei non possono candidarsi: ma questo non è un criterio, tanto è vero che Brunetta e Mantovani, europarlamentari, sono entrati in lista. Si tratta di due giuste eccezioni, ma è la regola ad essere sbagliata. Ne è proprio sicuro? L’errore di fondo è dimostrato dal fatto che, in tutti i partiti, se ci fossero state preferenze i quattro quinti dei candidati sarebbero stati diversi: perché dovevano prendere voti. È un fatto che denuncio da sempre, non dipende dalla mia esclusione. E adesso che farà? Mi sono candidato in astratto alla presidenza della Regione Campania, in attesa che sia sciolta. Nel frattempo, voglio fare un appello: sarà un’altra sconfitta per Bassolino, se ad aprile noi vinciamo. Noi chi? Beh, insomma: se perde Veltroni.

«Questa dichiarazione di Ciarrapico mi meraviglia e non va per niente bene»


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elezioni

Il Partito popolare spagnolo dopo la seconda sconfitta subita da Zapatero

La poltrona (quella di Rajoy) per due di Enrico Singer e si guarda al risultato delle elezioni politiche spagnole con la lente, inevitabilmente deformata, di un Paese come il nostro che è in piena campagna elettorale, il rischio di confondere personaggi e interpreti è forte. E a leggere i commenti del giorno dopo, ci sono caduti in tanti. Ma José Luis Zapatero non è Walter Veltroni - semmai il confronto sarebbe stato possibile con Romano Prodi qualora si fosse ripresentato per chiedere un nuovo mandato né Mariano Rajoy può essere identificato con la leadership del centrodestra italiano. Per capire che cosa è successo e, soprattutto, che cosa succederà adesso in Spagna, è meglio mettere da parte i confronti e partire dai numeri dei risultati. Il partito socialista ha ottenuto il 43,64 per cento dei voti (un punto in più del 2004) e 169 seggi in Parlamento (cinque in più del 2004). Il partito popolare ha ottenuto il 40,11 per cento dei voti (due punti in più del 2004) e 153 seggi (cinque in più del 2004). A perdere consensi e seggi è stata l’ultrasinistra e tutti i partiti nazionalisti.

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Esperanza Aguirre, presidente della regione autonoma di Madrid, e il sindaco della capitale Alberto Ruiz-Gallardon sono i possibili successori. Rappresentano anime diverse, ma sono entrambi «politici del fare»

Così, se Zapatero esulta e si prepara ad altri quattro anni alla Moncloa, Rajoy si può consolare dicendo - senza mentire - che il Pp «è il partito che più è cresciuto in Spagna». In effetti, da settimane ormai, i sondaggi prevedevano la vittoria elettorale del Psoe con un margine

addirittura superiore a quel 3,53 per cento che le urne hanno decretato domenica e che costringerà Zapatero a cercare, comunque, l’appoggio esterno di qualche altra formazione (probabilmente dei catalani del CiU che hanno 11 seggi) per governare con una maggioranza parlamentare. Ma la rivendicazione di un risultato in recupero non basta a nascondere gli errori commessi. Che molto presto, anzi, il Pp sarà chiamato ad affrontare. A partire proprio da quello della guida del partito: in politica la vecchia regola che definisce umano sbagliare e diabolico perseverare è sempre valida e Rajoy ha già perso per due volte di seguito. In realtà, il primo errore è stato commesso nel 2003 quando, nel momento di maggiore forza del Pp guidato dall’allora premier José Maria Aznar, la vittoria nelle elezioni del 14 marzo 2004 sembrava così scontata che fu scelto come delfino proprio Rajoy. Un grande organizzatore, già ministro della Pubblica amministrazione e dell’Educazione nel primo governo Aznar, nel 1996, che si era poi conquistato il titolo di ”eminenza grigia”della campagna elettorale del 2000 che aveva consegnato il secondo mandato di governo ai popolari.

Tanto che Aznar lo aveva nominato ministro dell’Interno. Più esperienza di apparato che carisma, insomma, per Mariano Rajoy. Ma il vantaggio era tale che soltanto un cataclisma avrebbe potuto togliergli la vittoria. Quel cataclisma furono gli attentati ai treni nella stazione di Atocha: il massacro jiahdista con più di duecento morti alla vigilia del voto. Da quel momento Zapatero e Rajoy hanno seguito due percorsi opposti, ma paralleli. Il giovane socialista mandato al-

lo sbaraglio dal partito che temeva di perdere, ha vinto e in questi quattro anni di governo è cresciuto. Per quella sua aria un po’ timida tutti lo chiamavano ”Bambi”, ma adesso «Bambi è diventato il re della foresta», come ha scritto il Frankfurter Allgemeine Zeitung. Rajoy, invece, doveva vincere senza difficoltà e quando si è trovato a gestire una battaglia di opposizione non è riuscito ad andare oltre quel recupero che oggi rivendica. Ma che non basta. Per lui, galiziano, 53 anni, si avvicina il tempo della resa dei conti e nel partito ci sono già, almeno, due figure che possono contendergli la leadership. Sono Esperanza Aguirre, la presidente della Regione autonoma di Madrid, e Alberto Ruiz-Gallardon, il sindaco della capitale. Per la verità parte del Pp avrebbe già voluto puntare su uno di loro nello scontro con Zapatero. Ma le divisioni interne hanno giocato a favore della linea Rajoy: quella di insistere più sui contenuti - il suo slogan elettorale era «le idee chiare» - che sulla forza della personalità. Pur sapendo che se in campo ci fosse stato un politico del livello di Aznar, la partita avrebbe potuto avere un altro esito. Ma Gallardon e la Aguirre rap-

presentano due anime diverse nel Pp. Il loro unico tratto comune è di essere entrambi dei ”politici del fare”. Come sindaco di Madrid (eletto una prima volta nel 2003 e confermato nel 2007), Alberto Ruiz-Gallardon ha gestito il rinnovamento della capitale con opere anche grandiose - non a caso lo chiamano «il faraone» - come la trasformazione in sotterranea di parte dell’autostrada M30.

Da presidente della Regione autonoma (anche lei eletta nel 2003 e confermata quattro anni dopo), Esperanza Aguirre ha fatto costruire otto nuovi ospedali e 87 scuole. Ma Gallardon è un centrista moderato e la Aguirre è su posizioni più di centrodestra. Lui, cinquant’anni, studi dai gesuiti e una moglie, Maria del Mar Utrera, che è figlia dell’ex ministro di Francisco Franco, José Utrera Molina. Lei, 56 anni, sposata con un Grande di Spagna, Fernando Ramirez de Haro y Valdés, conte di Murillo, è stata anche dal 1999 al 2002 la prima presidente donna del Senato e ha il record delle preferenze elettorali: un milione e mezzo di voti. A meno di soprese è tra questi due leader che si deciderà il futuro del partito popolare. E un ruolo importante lo giocherà, molto probabilmente, anche José Maria Aznar che ha lasciato ogni carica ufficiale nel Pp, ma che conserva intatta la sua influenza sui popolari spagnoli.


elezioni on è stata una catastrofe, ma la sconfitta c’è tutta. Alle municipali francesi il 47,5 per cento ottenuto dalla sinistra al primo turno, la fa respirare e le infonde la fiducia perduta alle elezioni presidenziali del maggio scorso. L’Ump, con il 40 per cento ha di che preoccuparsi, ma non di drammatizzare. C’è sempre il secondo turno, dicono nell’entourage di Sarkozy, tanto per non abbattersi. Ed è vero. Strappata Bordeaux ai socialisti con l’ex-primo ministro Alain Juppé, la destra dovrebbe tentare il colpaccio a Marsiglia, Tolosa, Nizza, Strasburgo: impresa non impossibile, ma certamente difficile. E comunque, se anche l’obiettivo dovesse essere centrato, lascerebbe sul campo mucchietti di macerie a conferma della caduta di Sarkozy nella considerazione popolare. Insomma, domenica scorsa il presidente della“rupture”ha perso al primo appuntamento dopo il trionfo di dieci mesi fa. E la sconfitta, ampiamente annunciata, rivela un distacco tra l’inquilino dell’Eliseo e l’opinione pubblica più profondo di quanto le cifre stesse dicano. Non c’è sintonia tra Sarkozy ed i cittadini oppure questi sono stati fuorviati dalle troppe copertine dei giornali patinati che hanno enfatizzato la vita privata del presidente, il suo eccentrico comportamento, la sua“nudità”che poco si confà all’uomo che ha raccolto l’eredità del Generale e l’ha rilanciata come elemento di unificazione, simbolo del riconoscimento dei francesi nei valori repubblicani? Insomma, Sarkozy è stato sconfitto dalla democrazia mediatica o da quella politica?

N

E’ più che probabile che le smanie sarkoziane abbiano penalizzato la sua politica mettendola in ombra, mentre s’apprestava a varare un primo pacchetto si riforme significative che sono passate in secondo piano, al punto di non essere percepite da buona parte dell’elettorato, perché il tornado della sue “uscite” mondane ha finito per travolgerle. I risultati della Commissione Attali, per dirne una, inevitabilmente affascinano molto meno dei gossip che l’Eliseo fornisce a getto continuo. I francesi che leggono i giornali e guardano la televisione, sanno nulla del piano sulla concorrenza o sullo sviluppo economico, ma tutto (anche quel che non c’è) delle storie del presidente con mogli vecchie e nuove.

L’Ump perde il primo turno delle amministrative

Sarko sconfitto, ma alla sinistra non servirà di Gennaro Malgieri stanzialmente conservatore e certi atteggiamenti, ancorché legittimi, non li gradisce. Un uomo politico può non tenere conto delle sensibilità di chi lo sostiene? Evidentemente no. E’ questo l’errore di Sarkozy le cui politiche, in particolare quelle sulla sicurezza, vengono apprezzate perfino da chi non si riconosce nella destra. Per non parlare della svolta che ha impresso alla politica estera e del programma economico fatto di liberalizzazioni mitigate da un sentimento profondo di solidarietà a tutela delle classi più deboli. Non è dunque in discussione il suo progetto, ma l’atteggiamento personale e privato che ha assunto: i francesi, insomma, non ne possono più delle esternazioni presidenziali, né della sua rutilante vita pubblica. Ed hanno voluto lanciargli un avvertimento. Sarkozy, capace di gesti clamorosi, ma anche di intelligenti ritirate, sembra che abbia compreso la lezione. Si dice che da un po’ stia ascoltando di più i suoi consiglieri. E non sarebbe male se tenesse in debito conto anche il territorio, e non soltanto la nazione: insomma, se investisse sui suoi deputati che si sentono trascurati e non guardasse soltanto, per quanto possa essere generoso ed ambizioso, ai destini del Paese. La Francia è impastata di sogni di grandezza, ma è intessuta anche di particolarismi dei quali un presidente non può non tenere conto. Un suo estimatore, già vicino a Mitterrand, lo storico ed accademico Max Gallo, ha detto, commentando le elezioni, che Sarkozy vuole andare avanti sulla via delle riforme. Nessuno glielo può impedire: finora non ha incontrato opposizioni signifi-

Il passo falso denuncia un pericoloso distacco dall’opinione pubblica, ma i moribondi socialisti sono ancora divisi e senza un leader

E’ così che è cresciuto un forte astensionismo che ha penalizzato Sarkozy ed ha favorito i socialisti, a differenza di quanto accadde nel maggio scorso quando la forte affluenza alle urne fu determinante per la vittoria del leader dell’Ump. L’elettorato del presidente è so-

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cative al riguardo. Si tratta, dunque, soltanto di cambiare atteggiamento, di correggere la propria immagine: non sarà così negligente da perseverare in un errore che gli è già costato parecchio.

Finora il distacco tra Sarkozy e buona parte dell’opinione pubblica, non si è tradotto in inquietudine sociale. La sinistra non può approfittare della battuta d’arresto perché sa che si tratta di un episodio, forse di una scossa di assestamento. Sarkozy attende il secondo turno per trarre le doverose conclusioni dalle municipali, che se anche dovessero confermare la tendenza negativa, certamente non avranno ripercussioni sul governo del quale molti ministri, non a caso, sono stati eletti ed altri lo saranno quasi sicuramente il 16 marzo. Le riforme, ha sostenuto il primo ministro Fillon, andranno avanti comunque. E Sarkozy il bilancio lo farà alla fine del mandato, nel 2012. Fino ad allora nessuno proverà a bombardare l’Eliseo. Tantomeno i moribondi socialisti privi di un leader, divisi, inquieti e costretti ad attaccarsi a Carla Bruni per tentare di delegittimare il presidente. Né rivoluzionari, né riformisti. Soltanto ombre di una grande storia che non sono capaci di onorare.


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L’ITALIA AL VOTO

La comunicazione politica sotto esame

lessico e nuvole

Quel sigaro (toscano) di Diliberto

E Ciarrapico pubblicherà l’opera omnia di Silvio di Giancristiano Desiderio

di Arcangelo Pezza L’altra sera a Markette pungolato da Piero Chiambretti, un ridanciano Oliviero Toscani ha passato in rassegna i manifesti di tutti i partiti. Da vero esperto,Toscani ha messo in ridicolo i goffi tentativi dei vari copywiter e art-director di essere up-to-date e ironici a tutti i costi. «Mancano perfino gli allineamenti - ha spiegato - e poi i caratteri usati sono ridicoli, in Italia abbiamo avuto Giovanni Battista Bodoni, ecco basterebbe usare appunto un bodoni». Che a noi sembra la definitiva sentenza su una campagna elettorale per ora scialba e deprimente anche dal punto di vista grafico. Manca lo stile e manca un bodoni che per chi non lo sapesse è forse il più elegante carattere tipografico con grazie mai inventato. E se ci fosse bisogno di ulteriore dimostrazione basterebbe guardare le affiches dei Comunisti Italiani che riprendono il claim del “la Sinistra l’Arcobaleno” domandandosi: «Da che parte stai?». Un brutto carattere bastone, mischiato a una sorta di stampatello che mima la scrittura a mano, con alcuni sfondati e grassetti, il tutto in una frecciona romboidale la quale ritaglia in alto a destra lo spazio per un fotomontaggio quanto meno discutibile. In cui si staglia in primo piano su un pavè di bandiere rosse, il povero Oliviero Diliberto.

Diliberto, che ha pure rinunciato al laticlavio, sta fumando un bel toscano, ma è ritratto nella posa un po’ goffa dell’inesperto, quanto di più lontano possibile dallo sprezzante carisma di Castro alle prese col classico Cohiba, icona di riferimento per decenni dei comunisti nostrani. Lasciando Oliviero (Diliberto) Toscano e tornando a Oliviero Toscani, il guru della pubblicità ha sintetizzato il suo pensiero in merito alla grafica che è poi il motto seguito dei migliori che ci lavorano: «Bisogna levare, saper togliere». Ecco, almeno su questo Diliberto ha fatto prima e meglio dei suoi grafici.

La giornata politico-propagandistica di ieri è stata impegnata nel tentativo di rispondere a questa domanda: ma perché Silvio candida Giuseppe Ciarrapico che dice «sono fascista»? Nessuno sembra, al momento, abbia dato la risposta giusta. Ma qualche indizio si può leggere tra le righe delle cose dette dallo scrittore Vincenzo Cerami che a tempo perso si occupa della cultura del Pd del Walter. «Ciarrapico lo conosciamo da tempo e ci domandavamo come mai non stesse ancora con Berlusconi», ha detto Cerami, «non va dimenticato che Ciarrapico, oltre alla scrittura della biografia di Starace, ha pubblicato anni fa come editore l’opera omnia di Mussolini». Ecco il punto: a Silvio ha promesso la pubblicazione della sua opera omnia. Tutto Berlusconi in venti volumi, su carta pregiata e copertina di vera pelle con intarsi oro e argento. Imperdibile. Anche la nipote di Mussolini si è fatta sentire. «Il banditismo politico valdostano non è riuscito a tappare la bocca all’unica voce di libertà e rispetto della persona e dei valori nazionali esistente in regione, per cui Azione Sociale sarà presente alle elezioni politiche» ha detto Alessandra. Si prevede una valanga di voti. Ma è meglio stare attenti alle slavine.

Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda

Il sondaggio dei sondaggi la media di oggi Digis Ipr Lorien Ipsos Swg Demosk. Crespi 9 marzo

7 marzo

6 marzo

3 marzo

3 marzo

3 marzo

3 marzo

Pdl+Lega

Centro

Pd+Idv

Sin-Arc

Destra

Socialisti

44,4 (-0,1)

6,9

(+0,3)

36,5 (=)

7,2

(+0,3)

2,1

(-0,2)

0,9

45,9 43,5 43,0 44,5 44,0 45,0 45,1

7,0 7,0 7,4 6,3 6,7 7,5 6,9

36,7 36,5 36,6 37,8 37,2 36,0 35,0

7,1 7,5 7,9 6,2 7,2 7,1 6,5

1,5 2,0 2,1 1,8 1,7 2,0 4,0

1,0 1,5 1,0 0,7 0,5 1,5

(=)

La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.

di Andrea Mancia Dopo i due sondaggi pubblicati nel corso del weekend (Lorien e Ipsos), che hanno registrato il vantaggio della coalizione guidata da Berlusconi oscillare tra il 6 e il 7%, oggi tocca ai nuovi sondaggi di Ipr Marketing e Digis. Il primo, commissionato da Repubblica, è relativo alle intenzioni di voto del 7 marzo. E comprende anche un dato nazionale sul Senato in cui - in controtendenza rispetto ai risultati del 2006 - il Pd ottiene un risultato sensibilmente migliore rispetto alla Camera. In questa sede, ci occuperemo soltanto dei numeri relativi alla Camera, omogenei con quelli di tutti gli altri sondaggi. In questo caso, il distacco tra le coalizioni guidate da Berlusconi e Veltroni rimane invariato al

7%, rispetto al sondaggio Ipr del 29 febbraio, con PdL+Lega al 43,5% (+0,5%) e Pd+Idv al 36,5% (+0,5%). Stabili la Sinistra Arcobaleno al 7,5% e l’Udc al 7%, mentre la Destra cala leggermente al 2% (-0,5%). Socialisti fermi all’1,5%. Nel nuovo sondaggio Digis per Sky Tg24 sulle intenzioni di voto del 9 marzo, invece, si conferma un trend di risalita per la coalizione di Berlusconi (+0,7%) e si accentua il calo della coalizione di Veltroni (1,2%). Il distacco sale dunque al 9,2%: quasi due punti percentuali in più in una settimana. Nelle altre coalizioni, rimonta leggera della Sinistra Arcobaleno (+0,6%) e leggerissima di Udc+Rb (+0,1%). In lieve crescita anche la Destra (+0,2%) e i Socialisti (+0,3%).


L’ITALIA AL VOTO uova puntata del mio viaggio pre-elettorale tra i protagonisti dell’economia italiana. Incontro Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Atlantia e di Autostrade per l’Italia. Torinese, classe 1942, GrosPietro è uomo d’azienda ma anche di accademia: attualmente insegna Economia alla Luiss di Roma, dove è anche direttore del dipartimento di Scienze economiche e aziendali. Dal 1997 al 1999 ha ricoperto la carica di presidente dell’Iri ed è stato presidente dell’Eni dal novembre del 1999 al maggio 2002. Ma prima che manager, grand commis di stato e uomo di università, Gros-Pietro dice di sentirsi (con un po’ di civetteria) un semplice cittadino. Da “semplice cittadino” mi dice subito che “sente” un Paese in preda alla paura, al timore del futuro. Un sentimento generalizzato di disagio che ci porta a cercare sicurezze, che poi, a livello di sistema paese, diventano rigidità. «L’Italia è immobile dice - e in questo clima di immobilismo continuiamo a perdere posizioni nei confronti di altri partner europei». Gli brucia il recente sorpasso della Spagna, ma anche quello più antico dell’Irlanda, dieci anni fa. Due Paesi che partivano da condizioni molto più svantaggiate della nostra, ma che hanno saputo liberarsi di lacci e lacciuoli inutili, mettendo in moto energie che pure ci sono anche da noi.

N

Gros-Pietro è convinto che il primo passo per rimettersi in carreggiata sia quello di ridare dignità al lavoro, alla crescita e al merito. Partendo dalla scuola e dalla università (considera la fuga di cervelli come una delle iatture più grandi, simbolo stesso del declino, anche in termini puramente economici), sottolinea che un Paese che vede insegnanti e professori sottopagati e maltrattati non può seriamente pensare di stare al passo coi tempi. Ma ridare dignità al lavoro, per questo manager di lungo corso, significa anche superare antichi steccati e contrapposizioni ideologiche. Come quella, ormai assurda, tra chi tifa per la flessibilità ”senza se e senza ma”e la retorica anni Cinquanta del “posto fisso”. Gli sembrano due categorie di pensiero sbagliate, e battute dalla storia. «È chiaro – mi dice – che il precariato non può essere il punto di arrivo di un sistema moderno. Un popolo di precari non è certo la base ideale di una moderna economia di mercato. Quindi è logico aspirare tutti a contratti a tempo indeterminato, ma al tempo stesso è chiaro che il posto a vita non può più essere garantito a nessuno, e non vi è dubbio che la contrattazione debba diventare più flessibile. Le imprese, cioè, vanno incoraggiate ad assumere stabilmente, ma devono anche poter essere slegate da vincoli troppo rigidi, adattando i contratti al tipo di produzione, alla scala di mercato, alla collocazione geografica sul territorio. Per invogliarle, bisogna puntare soprattutto sulla leva fiscale». E sulla parola “fisco”, questo torinese tranquillo si in-

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La classe dirigente. Viaggio tra gli operatori economici/Gian Maria Gros-Pietro

«Bisogna ridare dignità al lavoro e al merito» di Enrico Cisnetto

Gian Maria Gros-Pietro è presidente di Atlantia e di Autostrade per l’Italia, insegna Economia alla Luiss di Roma

«Il precariato non può essere il punto di arrivo di un sistema moderno, ma il posto a vita non non si può garantire a nessuno. La contrattazione deve diventare più flessibile» fervora. «La lotta all’evasione fatta dal Governo Prodi è stata sacrosanta» ,mi dice. «Ma non c’è dubbio che l’extra gettito ricavato deve rientrare nel flusso economico attraverso una diminuzione della pressione fiscale, che è allucinante».

Dunque il presunto “tesoretto” accumulato da Padoa-Schioppa in questi mesi di lotta dura senza paura all’evasione deve ritornare alle imprese, nessun dubbio in proposito. Soprattutto, nessuna redistribuzione a pioggia. Sulle prossime elezioni, Gros-Pietro è ottimista. Il fatto che vi siano due soli grandi partiti lo trova certamente positivo. Anche la presenza di soggetti non allineati come l’Udc è certamente un bene, un fattore di mediazione e di garanzia. Questa volta, ne è convinto, chi guiderà il Paese sa che non può permettersi di azzerare le cose positive iniziate dal precedente. Non ce ne sarebbe il tempo, oltre che la logica. Perché il Paese stavolta è davvero su un piano inclinato

senza via d’uscita. Del declino italiano lui, da accademico, fa una ricostruzione storica. «Non è certo colpa degli ultimi governi», mi dice. «È ormai una caratteristica intrinseca dello sviluppo italiano. Da almeno vent’anni , infatti, il Paese cresce meno degli altri suoi pari europei». Ma si può salvarlo, questo malato, oppure no? Per il professore torinese, questo piano inclinato verso il basso può e deve essere rimesso almeno in orizzontale, e, se possibile, tornare a tendere verso l’alto. Soprattutto puntando sul capitale umano. Inutile, infatti, continuare a battersi in settori a basso costo del lavoro, nei quali la sfida con l’Asia è persa in partenza. Bisogna puntare, invece, sul capitale umano: senza scordarsi che il tessuto imprenditoriale italiano ha limiti dati (una grande potenza industriale con solo però l’1 per cento della popolazione mondiale) e deve necessariamente concentrarsi su produzioni di nicchia. Che non vuol dire “piccolo è bello”, assolutamente. Per nicchia, Gros-Pietro intende collocazio-

ni di eccellenza anche in settori con grandi scale di mercato, e altamente strategici, come l’hi-tech, l’aerospazio, la chimica fine, la diagnostica. «Quando pensiamo al made in Italy dobbiamo andare oltre Giorgio Armani, Barilla e Ferrari. Non ci sono solo la moda e l’alimentare», protesta. Da bravo torinese, non manca di sottolineare la rinascita della “sua” Fiat. Già. Ferrari, Fiat: belle auto – lo provoco – ma se poi non si riesce a camminare perché l’autostrada è bloccata, il cantiere fermo, il raddoppio della bretella non ha l’autorizzazione…

Punto sul vivo, il professore si inalbera. «Da presidente di Federtrasporto, so che quello delle infrastrutture è un problema che non ha colore politico. È un tema fondamentale, che entrambi gli schieramenti stavolta riconoscono come priorità assoluta». E non c’è solo la Tav: c’è la Livorno-Civitavecchia, che è l’unica autostrada non finita tra Roma e Gibilterra. E poi il nodo di Bologna, quello di Genova, la variante di valico, la terrificante Salerno-Reggio Calabria: mi sa che se si parte dalle grandi opere, la strada del prossimo Governo (di qualunque colore esso sia) parte tutta in salita. (www.enricocisnetto.it)


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mondo

Foto grande: Il palazzo di giustizia della Corte d’Appello di New York in una foto antecedente al 1955 mostra la statua di Maometto all’estrema destra; a fianco: lo stesso edificio dopo la rimozione.

Accettare le richieste islamiche è controproducente, anche se arrivano da una diplomazia soft

Quella statua di Maometto s’ha da levare di Daniel Pipes a polizia danese ha recentemente sventato un complotto terroristico volto ad assassinare Kurt Westeragaard, l’artista che ha disegnato la più irriverente delle dodici vignette satiriche su Maometto, spingendo la maggior parte dei quotidiani del suo Paese a ristamparla in segno di solidarietà per lanciare un chiaro segnale agli islamisti, vale a dire che non si sarebbero “azzittiti” davanti alle loro minacce. Un episodio emblematico dell’inefficacia islamica di porre il bavaglio alla libertà di espressione in Occidente quando si parla di Maometto - si pensi ai Versetti Satanici di Salman Rushdie o alla rappresentazione dell’Idomeneo di Mozart da parte della Deutsche Opera. Come dire: se talvolta le minacce di ricorrere alla violenza funzionano, il più delle volte esse generano rabbia e incitano alla resistenza. Una melliflua manovra diplomatica, invece, può conseguire maggiori risultati. Ne sono esempio i due tentativi paralleli, compiuti nel 1955 e nel 1997, diretti a rimuovere le pressoché identiche sculture di Maometto troneggianti nei palazzi di giustizia statunitensi. Nel 1997, il Council on AmericanIslamic Relations (Cair) chiese che parte di un fregio degli anni Trenta che decorava la sala principale della Suprema Corte statunitense di Washington (a lato nella foto), venisse rimosso a causa del

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divieto posto dall’Islam di rappresentare il proprio profeta. L’alto rilievo marmoreo, ad opera di Adolph Weinman, ritrae Maometto come uno dei 18 legislatori storici. Il Profeta tiene il libro del Corano (e questo per i musulmani denota una discordante inesattezza storica) con la mano sinistra e con la destra regge una spada. Il presidente della Corte Suprema, William Rehnquist, si rifiutò di accettare le richieste del Cair, ribattendo che intenzione dell’opera era «solamente rendere un tributo a un’importante figura della storia giuridica senza incarnare alcuna forma di idolatria». Ma concesse che la letteratura giuridica americana menzionasse l’offesa alla sensibilità musulmana provocata dalla rappresentazione del Profeta.Alla sua decisione fecero seguito tumulti e disordini con incidenti e feriti in India.

Di contro, e facendo un passo indietro, nel 1955 ebbe successo una campagna volta a censurare una rappresentazione di Maometto in un altro edificio forense americano: il palazzo di giustizia della Corte d’Appello della città di New York. Costruito nel 1902, l’edificio presentava sulla balaustra del tetto una statua marmorea alta quasi 3 metri, opera dello scultore Charles Albert Lopez, che ritraeva Maometto come uno dei 10 legislatori storici. Anche in questo caso il Profeta teneva un Corano

Le pressioni esercitate dai musulmani sull’Occidente affinché si conformi ai costumi islamici risalgono a tempi non sospetti nella mano sinistra e una scimitarra nella destra. Per quanto le sculture fossero visibili dalla strada, le identità dei legislatori, vista l’altezza dell’edificio, non erano facilmente distinguibili. Solo in seguito ad una opera di ristrutturazione del palazzo, avvenuta nel febbraio 1953, l’opinione pubblica venne a conoscenza dell’identità

delle statue. A quel punto gli ambasciatori dell’Egitto, Indonesia e Pakistan presso le Nazioni Unite chiesero al Dipartimento di Stato americano di esercitare la propria influenza per rimuovere la statua di Maometto piuttosto che restaurarla. Stranamente, il Dipartimento di Stato inviò due dipendenti da Frederick H. Zurmuhlen, assessore ai Lavori pubblici della città di New York, per persuaderlo a soddisfare le richieste degli ambasciatori. Il cancelliere capo George T. Campbell, riferì che la Corte «ricevette anche numerosissime lettere da parte dei musulmani che chiedevano al tribunale di sbarazzarsi della statua». Tutti e sette i giudici d’appello, inoltre, raccomandarono a Zurmuhlen di rimuovere l’opera marmorea. Anche se, come riportato all’epoca da Time, «bisognava ammettere che fosse minimo il pericolo che un gran numero di newyorkesi idolatrasse la statua», gli ambasciatori riuscirono a spuntarla. Così Zurmuhlen fece portar via il blocco marmoreo e lo chiuse in un magazzino di Newark, in New Jersey. Anni dopo, visto che non si sapeva che farne, secondo Time nel 1955 la statua «venne chiusa in una cassa per diversi mesi». La sua ultima collocazione è ignota. A quel punto, piuttosto che sostituire il piedistallo vuoto sul tetto dell’edificio della Corte di giusti-

zia, Zurmuhlen fece spostare le nove rimanenti statue per nascondere lo spazio vuoto, e rimpiazzò Maometto con Zoroastro nel punto dell’angolo ad ovest. A distanza di oltre mezzo secolo, è ancora così.

Rammentare quegli eventi del 1955 suggerisce diversi commenti. Innanzitutto che le pressioni esercitate dai musulmani sull’Occidente affinché esso si conformi ai costumi islamici precedono l’attuale era islamista. In secondo luogo che tali pressioni ebbero successo anche quando erano pochissimi i musulmani nei Paesi occidentali. E per finire, mettere in contrasto i paralleli episodi del 1955 e del 1997 indica che il precedente approccio degli ambasciatori di fare delle rimostranze prudenti - e non delle richieste dispotiche appoggiate da folle inferocite e men che meno da cospirazioni terroristiche - può rivelarsi la strada più efficace. Questa conclusione conferma la mia opinione generale - e la premessa del progetto Islamist Watch - che gli islamisti lavorano silenziosamente in seno al sistema per conseguire più di quanto otterrebbero ricorrendo alla ferocia e alla bellicosità. In definitiva, un islamismo soft presenta dei pericoli altrettanto gravi rispetto a quelli offerti da un islamismo violento.


mondo

11 marzo 2008 • pagina 11

Il dialogo ecumenico tra cattolici e ortodossi russi è ancora lontano

Linea dura di Alessio II verso il Vaticano di Raffaele Cazzola Hofmann ppena pochi giorni fa il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone ha inaugurato la prima chiesa cattolica in Azerbaijan, terra di confine della sfera d’influenza del patriarcato ortodosso di Mosca che rappresenta 120 milioni di fedeli. Eppure - mentre su un altro versante del mondo ortodosso il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I, rafforza il rapporto personale con Benedetto XVI (che la settimana scorsa lo ha perfino ospitato nella Domus Sanctae Marthae, una residenza a pochi passi da San Pietro solitamente destinata ai cardinali di passaggio a Roma) - si stanno moltiplicano i segnali di chiusura della gerarchia russa verso il Vaticano. A spiegare nel concreto quanto il dialogo ecumenico tra cattolici e ortodossi russi sia bloccato e perché negli ultimi anni quella tra Roma e Mosca sia stata una storia di occasioni mancate (a partire dalla ventilata ma mai realizzata visita di Giovanni Paolo II) ci ha pensato un’intervista del vicecapo del dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato, Vsevolod Chaplin, al quotidiano russo Nezavisimaya Gazeta: «Visitare chiese protestanti o cattoliche, presenziare alle funzioni religiose di altre confessioni o

A

pregare di fronte a reliquie venerate da tutti i cristiani sono gesti accettabili. Ma per gli ortodossi è meglio evitare di pregare, in pubblico o in privato, con fedeli di altre confessioni. Quasi tutta la Russia è contraria a queste preghiere in comune». Infine è arrivata una frase ancor più indigesta per chi insiste sulla strada dell’ecumenismo: «Oggi da noi nessuno parla seriamente di una vicina riunificazione». È opportuno puntualizzare che Chaplin ha espressamente parlato di «opinioni personali». Ma la scel-

KOSOVO E NATO

Medvedev-Putin sulla linea dura La prima a sperimentare la nuova Russia a doppio comando è stata Angela Merkel che ha incontrato a Mosca il futuro presidente Dmitrij Medvedev e l’attuale padrone del Cremlino, Vladimir Putin, (il passaggio delle consegne ci sarà il 7 maggio) e che ha subito sperimentato che la cabina di regia è e resterà, comunque, unica. Soprattutto in politica estera perché Medvedev - che si presenta come la faccia ”tecnocrate e liberale” della coppia di potere - si è già allineato a Putin sui due capitoli più delicati: i rapporti con la Nato e l’indipendenza del Kosovo. Il progetto di aprire le porte dell’Alleanza atlantica ad Albania, Croazia e Macedonia nel prossimo summit della Nato che si terrà a Bucarest in aprile, è stato bollato come un altro ”intollerabile” passo dell’espansione militare anti-russa. Altro che superamento de-

ta di rendere noto il suo pensiero tramite un’intervista a uno dei giornali più diffusi della Russia non può lasciare indifferenti sulle implicazioni legate a parole che gettano una nuova luce sul senso della posizione di prudente freddezza sempre manifestata dal patriarca moscovita Alessio II nei confronti della aperture invocate dalla Chiesa cattolica. Forse non è casuale che l’eco delle dichiarazioni dell’esponente ortodosso, stigmatizzate con una certa evidenza da Petrus, il cliccatissimo sito Internet che segue il pontificato di Benedetto XVI, sia giunto a Roma pochi giorni dopo un intervento del Papa sul «primato petrino» nel mondo della cristianità. Perché in definitiva le accuse della gerarchia ortodossa russa sul proselitismo che la Chiesa di Roma condurrebbe in Russia (tramite la comunione con gli uniati e la criticatissima organizzazione del cattolicesimo russo in quattro diocesi guidate da altrettanti arcivescovi) sono l’espressione “politica” della vera diatriba dottrinaria su cui Vaticano e patriarcato moscovita non riescono a interloquire, che è proprio quella del «primato romano». Che secondo le esplicite parole di Benedetto XVI rimane un «ruolo unico nella Chiesa».

d i a r i o

g i o r n o

Elezioni Libano, ennesimo rinvio Lo speaker del parlamento libanese, lo sciita Nabih Berri, ha nuovamente rinviato la sessione per l’elezione del presidente del Libano, che era prevista per oggi. «La sessione è rinviata al 25 marzo», riferisce un comunicato dell’ufficio di Berri. Si tratta del sedicesimo rinvio. Il Libano è senza presidente dal 24 novembre, quando è scaduto il mandato del filosiriano Emile Lahoud.

Kosovo senza treni Per il settimo giorno di fila non circola nessun treno sulla linea Kosovo Polje-Lesak. La scorsa settimana una delegazione dell’Unmik (l’amministrazione Onu del Kosovo) è andata a Belgrado per discutere la situazione che si è venuta a creare, da quando le ferrovie serbe hanno annunciato di aver ripreso il controllo dei 50 chilometri di linea che attraversa il nord del neo-proclamato Stato, ma non è stato trovato alcun accordo. Le ferrovie serbe posseggono in Kosovo 330 chilometri di linea ferroviaria, 33 stazioni, 38 locomotive, 45 vagoni passeggeri e oltre 600 vagoni merci.

L’India blocca marcia pro Tibet La polizia di Dharmsala, nel nord dell’India, ha bloccato diverse centinaia di tibetani in esilio, in marcia verso il Tibet per protestare contro l’occupazione cinese della regione himalayana e lo svolgimento dei prossimi Giochi olimpici a Pechino. La marcia di sei mesi, dall’India al Tibet, è iniziata ieri in coincidenza con l’anniversario della fallita rivolta contro il governo cinese in Tibet, che obbligò il Dalai Lama ad andare in esilio nel 1959.

Fine crisi andina Crisi sempre più lontana tra Venezuela e Colombia. Il ministro degli Esteri venezuelano ha annunciato la ripresa dei rapporti diplomatici con Bogotà, annunciando la «migliore disponibilità per ricevere a Caracas il personale diplomatico che la repubblica sorella vorrà inviare». Con la riapertura delle ambasciate il Venezuela sancisce la risoluzione della controversia.

Braccio di ferro Russia-Nato La Russia si potrebbe ritirare da alcuni accordi se la Nato schiererà lo scudo antimissile vicino ai confini della Federazione. Il rappresentante della Russia presso la Nato, Dimitri Rogozin, ha detto che la questione sarà un argomento all’ordine del prossimo vertice con la Nato a Bucarest di aprile, dove interverrà lo stesso Putin. Famoso per la sua rudezza, Rogozin a proposito dello Scudo ha detto: «perché Paesi Baltici, che sono nel nord dell’Europa, hanno la necessità di costruire una base e dislocare missili anti-balistici per contrastare i missili dall’Iran, che è a Sud? Forse per poterli usare anche contro il territorio russo. Ecco perché non staremo in silenzio».

vi si dirà di Enrico Singer

gli steccati della guerra fredda: l’ingresso di pezzi dell’ex impero sovietico nella Nato è considerato a Mosca l’ennesimo tassello di un nuovo accerchiamento. Così come il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di tutti i più grandi Paesi europei. Medvedev e Putin hanno detto alla Merkel che la Russia «sarà sempre al fianco della Serbia», una frase che appare un aperto appoggio al partito nazionalista serbo di Tomislav Nokolic che è stato battuto un mese fa nelle elezioni presidenziali dal moderato filo-europeo, Boris Tadic, ma che adesso pregusta una possibile rivincita nelle elezioni politiche anticipate che potrebbero esserci già l’11 maggio, proprio pochi giorni dopo il cambio della guardia al Cremlino. La crisi che si è

d e l

aperta a Belgrado nella coalizione di governo - divisa sull’opportunità di continuare le trattative per l’ingresso nella Ue dopo l’affronto sul Kosovo sarà il primo test internazionale per la coppia Medvedev-Putin. E i segnali della vigilia lasciano prevedere un irrigidimento. HOLLYWOOD

Anche gli attori vogliono scioperare Hollywood senza pace. Si è appena concluso lo sciopero degli sceneggiatori, che è durato cento giorni, e già se ne prepara un altro che potrebbe davvero bloccare la grande fabbrica del cinema americano. Sì, perché questa

volta sono gli attori a minacciare lo stop. E se gli sceneggiatori iscritti al sindacato erano 12mila, gli attori dello Screen Actors Guild sono ben 120mila. Un vero esercito che protesta più o meno per le stesse ragioni degli autori: la spartizione dei proventi della distribuzione dei film via internet e dvd che muove un giro di affari vicino a quello delle sale. Gli attori stanno ancora trattando con le majors e si sono dati la scadenza del 30 giugno per decidere se incrociare, o no, le braccia. In percolo ci sono tutte le grandi produzioni previste per l’estate, compresa una nuova serie dedicata al Codice Da Vinci con Tom Hanks e Audrey Tautou. Soltanto nelle prossime settimane si potrà capire se la minaccia di sciopero degli attori prenderà corpo o se sarà ridimensionata. Le grandi case di produzione non hanno ancora fatto la loro offerta e puntano sulle divisioni interne al sindacato che, proprio per le sue dimensioni, ha inevitabilmente molte anime.


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RITORNO AL NUCLEARE

(SENZA LITIGARE CON L'AMBIENTE) di Giancarlo Aquilanti ino a due anni fa in Enel eravamo in pochi ad avere conservato una cultura nucleare. Oggi abbiamo costituito un’area tecnica di 65 ingegneri, prevalentemente dedicati ad attività di progettazione. E a questi vanno aggiunti 2.400 ingegneri e tecnici operativi slovacchi e 1.260 spagnoli. In totale siamo circa 3.700 persone. In Italia continueremo ad assumere per avere circa 50 ingegneri in più nel 2008. Lo faremo attingendo molto dalle università italiane, da Roma a Milano, da Torino a Bologna, da Pisa a Palermo. Perché per noi il nucleare è una fonte indispensabile per raggiungere un mix bilanciato per la produzione di energia, poco costosa, amica dell’ambiente e sempre più sicura.

F

Attualmente nel mondo sono in servizio 439 reattori che producono il 15 per cento dell’elettricità mondiale, di questi 198 sono in Europa e generano il 31 per cento dell’energia elettrica. E la capacità di produzione nucleare è ulteriormente in crescita. Sono molti i Paesi che stanno valutando seriamente il rilancio di questa fonte. Nel Regno Unito, il governo ha recentemente annunciato l’intenzione di massimizzare il contributo di generazione da fonte nucleare nei prossimi 10-15 anni, in modo da portare la quota complessiva di energia elettrica così prodotta oltre l’attuale 19 per cento. In Italia, dove il dibattito sul ritorno a questa tecnologia è sempre più aperto, per il momento la linea prevalente sembra quella di puntare sulla ricerca per la quarta generazio-

ne, un campo nel quale Enel vuole essere presente e in modo significativo. In generale, vogliamo contribuire a ricostituire quella cultura del nucleare che ha visto il nostro Paese all’avanguardia nel mondo. Dal punto di vista operativo, come Enel, stiamo già operando da tempo all’estero: in Slovacchia, Spagna, Francia, Romania e Russia. Il nostro ritorno al nucleare passa per questi Paesi, tra centrali già in essere e accordi per nuovi impianti da costruire. Ultimo in ordine di tempo, ma non certo per importanza strategica, è il progetto al quale stiamo collaborando in Francia. Da pochi mesi è stato aperto un cantiere a Flamanville, in Normandia, per la costruzione di un reattore nucleare di terza generazione (Epr). Un progetto

In Italia la linea prevalente è investire su impianti di quarta generazione della Edf francese, che vede anche la presenza in prima fila di Enel. A Flamanville è già all’opera una task force di nostri ingegneri che parteciperà alla realizzazione e alla gestione dell’impianto accanto ai tecnici di Edf. Con l’accordo firmato con la società elettrica d’Oltralpe, Enel avrà una quota del 12,5 per cento nella centrale in costruzione di Flamanville 3 (e un’opzione sui successivi 5 reattori che verranno costruiti) che ci dà il diritto di ritirare

energia per 600 megawatt già da quest’anno fino ad arrivare a 1.200 nel 2012.

La valenza dell’intesa non si ferma all’ambito commerciale: prevede anche uno scambio di know how e lo sviluppo delle competenze di Enel sulla tecnologia Epr. In tal modo l’azienda è presente nel nucleare con i principali filoni delle tecnologia oggi a disposizione: russa, americana e francese. E i nostri ingegneri saranno im-

pegnati anche nella costruzione di un database di conoscenze anche sui reattori di quarta generazione. Tra la terza generazione e lo sviluppo della quarta passeranno molti anni. La terza generazione è una tecnologia industriale evolutiva a maggiore sicurezza e a più alta produttività energetica, in cui dobbiamo essere presenti. Il programma chiave è proprio quello francese: hanno 14 centrali costruite negli anni Ottanta che, al 2020 avranno compiuto 40 anni di servizio. Per questo, già nel 2004, Edf ha deciso di avviare la costruzione della prima centrale di terza generazione,appunto Flamanville 3, pronta entro il 2012. A quel punto, se l’ente nucleare francese avrà deciso la dismissione

delle 14 centrali più vecchie, Edf sarà in grado di programmare la realizzazione di almeno 5 nuove centrali Epr, disponendo di esperienze e competenze già consolidate. Se poi le ricerche sulla quarta generazione (capace di ridurre il problema delle scorie radioattive, riutilizzandole come combustibile) avranno successo, il piano francese potrebbe anche virare verso soluzioni più avanzate, oggi allo studio nei Centri di ricerca. Ma i primi reattori di questa generazione non entreranno in servizio prima del 2025-2030. Per tornare all’oggi, vorrei sottolineare che grazie alle centrali slovacche e spagnole (quelle di Endesa, di cui abbia-


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MERCATO GLOBALE

Il gigantesco castello di carta di Gianfranco Polillo o chiamano effetto ricchezza. Ed è il grande mistero che ha accompagnato la vita di milioni di americani. Ha fatto crescere i loro redditi. Ha dato loro benessere anche quando non facevano alcunché per ottenerlo. Ha offerto loro una quantità di beni superiori alle effettive potenzialità del sistema produttivo. E garantito una crescita economica che non ha avuto precedenti nella storia più recente. A partire dagli inizi degli anni Novanta, l’avvio di un lungo ciclo positivo metteva definitivamente fine al fantasma di un possibile declino e alle paure che il primato del più forte Paese dell’Occidente potesse essere insidiato dall’emergente Giappone. A guidare quella nuova vita le grandi innovazioni tecnologiche, ma soprattutto la crescita degli aggregati finanziari e creditizi in grado di convogliare verso Wall Street i capitali di mezzo mondo. L’effetto ricchezza è proprio il prodotto di questi fenomeni. Oggi come allora, anche se le difficoltà sono progressivamente aumentate, la principale spinta proviene dai produttori di petrolio e dal manufacturing hub: Cina, India, Far East. Disposti a comprare ogni pacchetto finanziario – buoni del Tesoro o azioni e obbligazioni di grandi e piccole imprese – disponibile sul mercato più grande del mondo. Del resto qual’era l’alternativa? Quegli attivi valutari giganteschi, una volta soddisfatti i bisogni opulenti di una stretta oligarchia, sia politica sia tribale, non potevano rimanere inutilizzati. Gli Stati Uniti, tra l’altro, offrivano loro l’unica alternativa possibile. Ed erano disponibili a pagare il prezzo relativo: una crescita della liquidità interna, che comunque favoriva il rinnovamento tecnologico dell’intero apparato produttivo.

L

mo il 67 per cento), Enel può già contare su un 10 per cento di energia elettrica generata da questa fonte. Con un obiettivo chiaro: riequilibrare il mix di generazione in un’epoca in cui il prezzo del petrolio è alle stelle e, a seguire, aumentano le quotazioni del gas.

Il nostro impegno all’estero è a tutto campo. In Slovacchia stiamo lavorando al completamento di altri due gruppi della nostra centrale di Mochovce. Attualmente sono in funzione i gruppi 1 e 2, entro il 2012 lo saranno i gruppi 3 e 4. Su questo progetto Enel sta investendo

Francia, Spagna o Russia: all’estero per recuperare il troppo tempo perduto

molto, per apportare importanti modifiche in modo da incrementare ulteriormente il livello di sicurezza. Stiamo migliorando, in particolare, i sistemi di strumentazione e controllo, il livello di resistenza sismica, la protezione antincendio e la minimizzazione della produzione di residui radioattivi: attività che porteranno Mochovce a livelli equivalenti a quelli delle centrali di terza generazione. Nei nostri piani di sviluppo ci sono anche la Russia e la Romania: nel 2007 abbiamo siglato un Memorandum of Understanding con RosAtom per lo sviluppo del sistema elettrico e di generazione nucleare in Russia e nell’Europa Centro Orientale. RosAtom è proprietaria della tecnologia Vver, già usata negli impianti slovacchi e tra le principali che si contenderanno a livello internazionale il mercato delle nuove realizzazioni. In Romania, è notizia recente, Enel è tra le sei società che investiranno nel raddoppio della produzione elettrica locale, con la costruzione di due nuovi gruppi da 750 megawatt ciascuno nella centrale di Cernavoda. Un impegno importante che ci auguriamo possa essere utile in futuro anche al nostro Paese. Responsabile dell’area tecnica nucleare di Enel

La Borsa fu il primo beneficiario di questa manna inaspettata. L’eccesso di liquidità, fin dall’inizio degli anni Novanta, gonfiò i corsi delle azioni, attirando, grazie alla diffusione di internet e del trading domestico, il grande pubblico. Massaie inchiodate di fronte ai computer, pensionati attirati dal nuovo business, manager rapaci, pronti ad approfittare delle informazioni riservate: la grande illusione dell’arricchimento, senza fatica, era a portata di mano. E per anni i risultati conseguiti ne dimostrarono le possibilità. L’americano medio cessò di risparmiare: bastava il giardinetto di titoli posseduti, che si rivalutava vincendo ogni forza di gravità. Ed il consumo divenne la forza determinate di questa nuova età dell’oro. Poi, all’improvviso, arrivò lo scoppio della bolla speculativa e la fine temporanea della grande illusione. Chi si salvò dal disastro si limitò a cambiare cavallo: non più la Borsa ma gli immobili. I cui prezzi iniziarono una rincorsa altrettanto folle perpetuando quell’effetto ricchezza, che sembrava inarrestabile. Le grandi e piccole banche ci misero del loro per esasperare il fenomeno. Lucrando sulle commissioni – la parte più sostanziosa dei loro bilanci – spinsero i loro clienti ad indebitarsi. Concessero mutui anche a coloro che non sarebbero stati in grado di restituirli. Per poi cartolarizzarli, invadendo il mercato di fondi di investimento, bond, derivati il cui valore effettivo era imponderabile. Alla fine il gigantesco castello di carta è franato. L’effetto ricchezza ha cessato di esercitare le sue funzioni miracolistiche. E le conseguenze si vedono. Ma siamo solo agli inizi. Negli anni passati è stata una leva potente per lo sviluppo. Può divenire piombo per la crisi minacciosa che è all’orizzonte.


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La normativa vigente è vecchia di trent’anni, così la confusione sulle competenze è massima

Regole nuove e più semplici per dare la parola al mercato di Carlo Stagnaro ucleare sì o no? La domanda si trascina come un fiume carsico dal 1987, quando il referendum sospinto dall’orrore di Chernobyl segnò l’inizio della fine, in Italia, di questa tecnologia. La questione è, naturalmente, complessa, e il tono jihadista – dei fondamentalisti dell’ambiente come degli ultrà dell’atomo – non aiuta a scioglierla. Anzi: finché il clima resterà da derby, vi sono poche speranze di aprire un serio dibattito sull’argomento.

N

Il problema è che, in questi vent’anni, è cambiato il mondo. Non soltanto il progresso tecnologico ha consentito miglioramenti in sicurezza ed efficienza. Ma la crescente preoccupazione per i mutamenti climatici – forse spinta da un allarmismo eccessivo – ha acceso l’attenzione per le fonti alternative, tra le quali il nucleare è quella più economica e funzionale. Inoltre, dal punto di vista finanziario gli investimenti nell’atomo si sono fatti sempre più

plici fatti. Primo: tra la fine degli anni Ottanta e oggi è venuto meno il monopolio dell’Enel. Non è più un ente pubblico ma un’azienda quotata in borsa (anche se lo Stato ancora possiede il 30 per cento del capitale sociale), così come il settore

I cospicui investimenti per le centrali necessitano di leggi certe e definitive sostenibili, soprattutto se è possibile costruire economie di scala o creare, come in Finlandia, consorzi d’acquisto che garantiscano il mercato di valle. Possono esserci, sotto questo profilo, problemi in termini di politica della concorrenza, ma non è nulla di insormontabile. In fondo la missione dell’antitrust è garantire il buon funzionamento del mercato, ma non si può prescindere dal fatto che uno specifico mercato, in assenza di forme più o meno pronunciate di integrazione, neppure potrebbe esistere. In ogni caso, il punto di partenza essenziale non per rilanciare il nucleare, ma per creare le condizioni affinché ciò possa avvenire se parrà opportuno, è guardare allo stato delle cose, cioè prendere atto di due sem-

elettrico è stato sostanzialmente liberalizzato. Secondo: le norme che governano il nucleare in Italia, pur con alcune modifiche, sono sostanzialmente le stesse di vent’anni fa. Quindi, se è cambiato il contesto di mercato, la cornice regolatoria è del tutto inadeguata. Ragionare sul nucleare impone anzitutto una riflessione sugli aspetti normativi.

Un governo che voglia affrontare la sfida nucleare, dovrebbe quindi partire da una riforma globale delle norme e degli assetti regolatori. Ciò vuol dire riprendere in mano le leggi che disegnano gli step autorizzativi e riscriverle completamente, introducendo chiarezza e semplicità. Non significa lassismo o sottovalutazione degli aspetti

di sicurezza o gestione delle scorie e della chiusura del ciclo combustibile. Quel che serve è definire degli standard anche molto severi, ma che – agli occhi dei soggetti economici – possano apparire credibili e stabili.

Poiché una centrale nucleare è un giocattolo del costo di qualche miliardo di euro, diciamo da 2 a 4, e poiché un investimento del genere si ripaga in qualche decennio, prima di mettere tanti soldi sul tavolo, un’impresa vuole essere certa che le regole non cambieranno in corso d’opera, o che – a causa di impuntamenti politici o di opposizioni locali più o meno diffuse – i lavori non saranno sospesi. Purtroppo, quello dell’intervento a gamba tesa è un copione troppo frequente, nel nostro Paese, per poter essere ignorato: l’impegno dello Stato contro i voltafaccia deve essere massimo, e possibilmente condiviso da una parte ampia dello spettro politico, ben oltre i confini della maggioranza che uscirà dalle elezioni, quale che essa sia, perché è ragionevole attendersi che nei prossimi dieci o vent’anni gli avversari arriveranno al potere. Questo è necessario, ma non sufficiente. Da un lato, è urgente anche un riordino delle competenze autorizzative e regolatorie sull’atomo. Oggi l’autorità

di sicurezza nucleare è in forza all’Apat, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente: perché? A quale logica risponde questa attribuzione? La risposta è semplice: ancora, si tratta dell’eredità di un’epoca che ormai è finita. Avrebbe senso spostare tutte le competenze regolatorie in senso all’Autorità per l’Energia, in modo da garantire al nucleare un trattamento simmetrico rispetto alle altre fonti e una continuità con la regolazione di settore. Ma neppure questo basta. Poiché l’Italia ha cancellato l’atomo dal suo orizzonte da vent’anni, gli uffici preposti alla regolazione e alla sorveglianza non sono più stati adeguatamente rimpolpati, e il patrimonio di competenze all’interno della pubblica amministrazione continua a impoverirsi man mano che gli esperti raggiungono l’età della pensione. È dunque importante ricostruire tali competenze, in modo che un’azienda interessata possa sapere con quali uffici dovrà confrontarsi e quali linee dovrà seguire. In assenza di questi passi, è velleitario se non cialtrone invocare il rientro dell’Italia nel nucleare. D’altro canto, se anche tutto ciò fosse fatto, la strada sarebbe ancora lunga.

Si deve considerare, infatti, il contesto liberalizzato del mercato, che fa sì che il nucleare non possa essere nucleare di Stato. Sta alle imprese valutare la convenienza relativa di questa fonte, rispetto a quelle tradizionali o alle rinnovabili, e decidere se può valere la pena avviare un iter autorizzativo. È questa l’unica risposta possibile a quanti affermano che l’atomo sarebbe antieconomico: se qualcuno crede che le cose non stiano così, tiri fuori i soldi. Va da sé che il compito di un governo non è decidere se fare o no il nucleare, ma esprimere una posizione politica di massima pro o contro, che coincide con la parte conclusiva dell’autorizzazione. È difficile dire se, poi, qualcuno nella pratica troverà l’Italia come una sede possibile per impianti atomici.Ma è impossibile che ciò accada senza i necessari aggiustamenti.

libri e riviste

duecento anni dalla sua istituzione – e a meno di un anno dalla sua fusione con il London Stock Exchange – Fabio Tamburini descrivi pregi e difetti della Borsa italiana. Soprattutto dà voce ai maggiori protagonisti del sistema finanziario (tra gli altri, Roberto Colaninno, Luca Cordero di Montezemolo, Leonardo Del Vecchio, Mario Draghi, Sergio Marchionne, Corrado Passera, Alessandro Profumo, e Marco Tronchetti Provera) per raccontare il sempre più difficile rapporto tra quotate e mercati, il peso delle banche e delle agenzie di rating, la mutazione dei risparmiatori e i ritardi rispetto agli altri listini di quello che – dopo l’accordo con il Lse – sarà parte della più grande piattaforma europea. Fabio Tamburini Storie di borsa quotidiana Il Sole 24Ore-Pirola editore pagine 242, euro 24

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The HBR LIST Venti idee vincenti per il 2008 Mark Gottfredson, Steve Schaubert, Hernan Saenz Guida alla diagnosi del business per i nuovi leader Noam Wasserman Il dilemma del fondatore Susanna B. Stefani e Piero Trupia Governance per la transizione d’impresa Boris Groysberg Quelle donne brillanti che cambiano azienda con successo Kishore Sengupta, Tarek K. Abdel-Hamid, Luk N. Van Wassenhove La trappola dell’esperienza Gregory C. Unruh Le regole della biosfera Bruno Ermolli Cultura e cambiamento strategico Carlo Strenger e Arie Ruttenberg Il bisogno esistenziale di cambiare a mezz’età I commenti di Alessandro Gilotti, Angelos Papadimitriou, Walter Zocchi, Maria Pierdicchi, Emilio Bartezzaghi, Walter G. Scott, Lodovico Floriani € 13,50

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Anche con grandi stanziamenti su rigassificatori, carbone pulito e rinnovabili non si risolverebbe la dipendenza dal petrolio

Senza alternative (energetiche) all’atomo di Strategicus l Protocollo di Kyoto vincola l’Italia a ridurre entro il 2012 le emissioni di CO2 del 6,5 per cento rispetto alle rilevazioni del 1999. Il pacchetto energia della Ue le impone il ”tris 20+10”: riduzione di gas serra del 20 per cento rispetto al 1990 (o del 30 nel contesto di un accordo internazionale), un aumento del 20 delle rinnovabili e del 20 dell’efficienza energetica.Tutto entro il 2020. A ciò si aggiunge l’obiettivo del 10 per cento per i biocarburanti nei trasporti.

I

Nello sviluppo delle rinnovabili l’Italia, con il suo 5,2 per cento, è in ritardo rispetto all’8,5 della media europea. Dagli attuali 50 miliardi di kilowattora dovremmo passare a 150 miliardi. Impossibile, a meno di ricoprire l’Italia di specchi, chiudere ogni corso d’acqua con dighe e mettere pale dove vi è almeno un alito di vento. E non basterebbe. Per rispettare i parametri comunitari, poi, si dovrebbero sborsare 60 miliardi di euro, ai quali aggiungerne 6,5 miliardi in incentivi all’anno. E anche questo è impossibile. Intanto nel nostro territorio si registra un aumento di CO2 del 13 per cento. E il 2012 è dietro l’angolo. In quest’ottica l’Italia deve dotarsi di un piano energetico nazionale, nel quale evidenziare il migliore mix di fonti energetiche per ridurre la dipendenza dall’estero, aumentare la competitività del nostro Paese e ridurre il costo della bolletta elettrica. Ma in questo processo bisogna essere realisti: le fonti rinnovabili – eolico, fotovoltaico, biocarburanti – coprono meno dello 0,1 per cento della domanda mondiale di energia. Nel 2006, il vento si è attestato allo 0,7, il sole allo 0,03. Con l’idroelettrico, che ha impatti ambientali non trascurabili, si arriva al massimo al

sente, senza inficiare le possibilità delle generazioni future di appagare le proprie esigenze, mantenendo o incrementando il patrimonio naturale, umano, sociale, economico, conoscitivo ed etico di un Paese. E se comporta un grosso esborso iniziale, permette enormi margini di recupero e di guadagno per l’intera collettività nel medio-lungo periodo.

L’Italia pagherà per il mancato rispetto dei vincoli di Kyoto una sanzione complessiva per le eccedenze di emissioni entro il 2012 di oltre 55 miliardi di euro. La sola enunciazione dell’intenzione di costruire 8 reattori Epr da 1.600 megawatt ciascuno, con un costo complessivo di circa 23 miliardi di euro, ridurrebbe tali sanzioni che l’Italia già paga. Un risparmio, superiore a 15 miliardi di euro, con il quale finanziare la costruzione delle centrali nucleari. Il nucleare permette, poi, di ottenere energia in abbondanza a un costo contenuto e a zero emissioni. Per ogni kilowattora prodotto vi è un’emissione trascurabile in atmosfera da 1 a 6 grammi di carbonio. Se ci si fosse affidati a questa tecnologia, negli ultimi 30 anni si sarebbero risparmiate emissioni di CO2 per oltre 7 miliardi di tonnellate. Così - se paragonata a carbone, gas e petrolio - l’energia nucleare rappresenta la soluzione più competitiva, anche senza includere il costo associato alle emissioni di CO2. Il rapporto è 1 a 8. Per ottenere la stessa quantità di energia elettrica, il nucleare è 8 volte più competitivo dell’eolico e del fotovoltaico. Non solo: l’Italia è al primo posto in Europa per gli incentivi a fotovoltaico e a eolico (6,5 miliardi di euro), che sono pagati dai cittadini con la bolletta elettrica. Il nu-

Il nucleare riduce sia i costi industriali sia l’impatto ambientale 2,5. Con la ”bacchetta magica”si potrà arrivare massimo al 5 per cento del totale del consumi energetici nel 2030. È irresponsabile illuderci che queste fonti rappresentino, anche nel medio periodo, la soluzione per la lotta ai cambiamenti climatici e per consentire all’Italia di rispettare i parametri internazionali. La ricerca su eolico e fotovoltaico è importante. La costruzione di rigassificatori altrettanto utile. Ma non basta. Senza il ritorno al nucleare saranno soldi e tempo persi. Il nucleare, poi, è necessario nella transizione verso le rinnovabili, l’idrogeno e le altre fonti di produzione che lo sviluppo scientifico riuscirà a trovare. Soddisfa in sicurezza i bisogni della generazione pre-

cleare non solo non necessita di incentivi, ma la sua competitività ridurrebbe il costo della bolletta.

In termini di costi di produzione, il nucleare è una fonte altamente competitiva. Ciò per la lunga vita dei reattori nucleari, la bassa incidenza del costo del combustibile sul costo del kilowattora, per il fatto che nel costo di generazione sono internalizzate alcune voci (destinate alla salute pubblica, all’ambiente, alle assicurazioni in caso di incidente, etc.) che non sono invece considerate in quello per la generazione di energia elettrica con altri combustibili come, per esempio, il carbone. Inoltre le altri fonti hanno un esborso rilevante per l’acquisto di combustibile, aumentando la dipendenza dall’estero. Mentre la disponibilità del combustibile e la sostenibilità del suo sfruttamento non rappresentano delle criticità. Secondo il World Energy Council, le risorse di uranio sono abbondanti e sufficienti per sviluppare l’energia nucleare per un lungo periodo. La diversificazione geografica dei giacimenti di uranio offre maggiori garanzie di disponibilità, oltre che minori rischi connessi a improvvise crisi geopolitiche e geoeconomiche. Se non bastasse, secondo le attuali stime delle riserve minerarie di uranio, i reattori LWR (ad acqua leggera) hanno riserve per 70 anni. Con i reattori di IV Generazione in fase di ricerca, a cui partecipa anche l’Italia, tale cifra deve essere moltiplicata per 60 (4.200 anni). Con il ciclo uranio-torio la cifra raddoppia a 8.400 anni. Insomma, una disponibilità praticamente illimitata. L’elevato contenuto energetico consente ai Paesi che utilizzano il nucleare di creare agevolmente ade-

guate riserve strategiche di combustibile, svincolandone in tal modo il prezzo sia dalle oscillazioni del mercato sia dagli eventuali rischi internazionali di carattere geopolitico, al contrario dei combustibili fossili tradizionali.

Il combustibile nucleare presenta poi un volume trascurabile rispetto ai combustibili fossili. Per dare un’idea dell’energia in esso contenuta, basti pensare che 1 kg di uranio produce una quantità

Per il mancato rispetto del protocollo Kyoto sanzioni per 55 miliardi di energia paragonabile a quella di circa 22mili chili di carbone, 15.000 di petrolio e 14.000 di GNL. In più, l’energia nucleare produce volumi di rifiuti solidi molto limitati per kilowattora prodotto, dell’ordine di un millesimo rispetto a quelli derivanti da cicli fossili. La valutazione dei “costi esterni”– ovvero la monetizzazione degli impianti sulla salute, sull’ambiente e sulle attività economiche, inclusi di effetti di possibili incidenti, tenendo conto di tutto il ciclo produttivo – mette il nucleare al secondo posto con 0,5, secondo solo all’eolico (0,1) e pari all’idroelettrico, e superiore al fotovoltaico (0,6). Insomma, senza il nucleare l’Italia non andrà da nessuna parte. Serve però un approccio politico condiviso e non ideologico, che riesca ad esaltare tutte le positività della tecnologia. Il che non vuol dire trascurare le fonti rinnovabili, i rigassificatori e altre fonti di produzione di energia ”verde”.


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NordSud

Le maggiori realtà italiane del settore si muovono in attesa delle decisioni della politica

Enel,Edison e Sogin già in pista per produrre l’energia del futuro di Alessandro D’Amato e non fosse per i duri e puri della sinistra Arcobaleno, il consenso per un ritorno al nucleare sarebbe trasversale. E secondo gli esperti – ma a patto che finisca lo scontro ideologico – è possibile recuperare il tempo perso in seguito al referendum abrogativo del 1987. E se gli studiosi si interrogano su tempistiche e modi della politica, non mancano gli interrogativi sulle capacità dell’industria di utilizzare le migliori tecnologie del nucleare civile, di governarle da sola e recuperare il know how necessario per (ri)costituire l’intera filiera. E qualcosa, nelle imprese, già si muove.

S

Soprattutto si dà da fare (più altrove che in casa in propria) l’Enel. L’ex monopolista già oggi gestisce - o arriverà a gestire nei prossimi anni - circa 10.400 megawatt di produzione dal nucleare all’estero. La metà arriva dalle centrali di proprietà della controllata Endesa (Asco 1 e 2, Almaras 1 e 2 e Vadellos 2,) in Spagna. È di pochi giorni fa poi la notizia dell’accordo raggiunto con le autorità rumene per la costruzione del terzo e del quarto reattore della centrale di Cernavoda. Con una quota vicina al 15 per cento, l’azienda farà parte del consorzio con Nuclearelectrica – la locale agenzia nucleare – Iberdrola, Rwe, Electrabel, Cez, Arcelor-Mittal. In Russia è stato stretto un accordo con l’Agenzia per l’Energia Nucleare (RosAtom), per realizzare nuovi impianti, gestire quelli esistenti e rafforzare le reti di trasporto dell’energia. Di un paio d’anni fa è datata l’acquisizione della slovacca Slovesnke Elektrarne, principale impresa del Paese. Il 38 per cento dell’energia erogata dalla SE – quattro reattori da 440 megawatt nel Paese – deriva dallo sfruttamento del nucleare. Sempre a Bratislava, l’Enel si è anche offerta di finanziare la costruzione di due nuovi reattori, mai realizzati per mancanza di fondi. Ma l’obiettivo più strategico rimane la partnership con Edf. Dopo la vicenda Italenergia e le polemiche per il decreto Letta-Marzano, il dialogo con il monopolista francese è decollato. È stato firmato un accordo per partecipare allo sviluppo dei reattori di terza generazione, l’Epr, a Flamanville, con Enel che dovrebbe contribuire alle spese per il 12,5 per cento – pari a un investimento di 375 milioni di euro – in cambio della possibilità di ritirare energia per 600 megawatt all’anno. Che entro il 2012, con la centrale pronta, diventeranno 1.600 totali. In più i due colossi stanno studiando un ulteriore accordo per far gestire, tramite una società mista, all’azienda guidata da Fulvio Conti 5 centrali nucleari in territorio francese. Anche Edison punta a sfruttare il know how dell’azionista Edf, primo produttore al mondo, e quello della svizzera Atel, che ha tre centrali al confine con l’Italia. A spingere per l’atomo è uno dei soci forti, Giuliano Zuccoli il presidente di A2A, che vuole entrare in questo business. Anche perché, si ra-

L’ex monopolista guarda all’estero e l’azienda di Quadrino punta su Edf giona a Foro Bonaparte, se nei prossimi anni il sistema elettrico nazionale dovrà crescere fino a 80mila megawatt di potenza, almeno 10mila dovrebbero essere riservati alla produzione elettronucleare. E con un numero di centrali variabile da quattro a sei, un parco ”minimo” per ottimizzare costi e tempi di realizzazione. Senza contare che nel primo meeting post fusione tra i manager di Aem e Asm, il vicepresidente Edf Gèrald Wolf ha parlato di «strategia nucleare» da perseguire.

Se si arrivasse a una ripresa della produzione, i francesi potrebbero contare su un trittico di nazioni (Italia, Francia, Svizzera) che potrebbero costituire a quel punto il maggior blocco esistente nell’Europa Occidentale. E il think thank Fondazione Energia, di Edison, è già al lavoro per individuare una serie di siti nel Paese che in un prossimo futuro potrebbero essere adatti a collocare impianti. In ogni caso, influirà in modo decisivo su questa partita la querelle sui patti di sindacato di Edison. A2A, dopo aver terminato la fusione, andrà a stringere sul progetto di accorciamento della catena di Delmi, la holding che insieme ai francesi di Edf controlla il gruppo. Fra le ipotesi, un aumento di capitale, un conferimento o un ”acquisto a secco”. Le nuove liste per il cda di Edison dovranno essere pronte per il 30 ottobre. Sogin, la società pubblica guidata da Carlo

Jean, che si occupa del decommissioning – un mercato che a livello mondiale presenta ampi margini di guadagno, visto che il grosso delle centrali ha più di 30 anni – e della gestione delle centrali nucleari in Italia e all’estero, è pronta.

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il suo amministratore delegato Massimo Orlando ha parlato obiettivo non impossibile: «Nell’arricchimento dell’uranio siamo ancora presenti. L’Enea mantiene una partecipazione dell’8,5 per cento in Eurodif, il consorzio che rifornisce le centrali francesi e altre decine di impianti. Nel mercato internazionale ognuno di noi è troppo piccolo per competere adeguatamente: occorre in primo luogo ricomporre le parti della filiera nazionale. E poi realizzare anche alleanze internazionali per governare le migliori tecnologie». Per parte sua, la Sogin sta già lavorando: ha firmato un’intesa quinquennale con l’Ukaea, l’ente inglese leader, finalizzato allo sviluppo di programmi congiunti nei settori del decommissioning, della gestione dei rifiuti nucleari e delle bonifiche ambientali. È previsto lo scambio di know how, lo sviluppo di nuove tecnologie e attività di ricerca, iniziative comuni in questo mercato. Insieme, le due realtà, si sono aggiudicate la gara per il progetto di caratterizzazione e messa in sicurezza delle scorie della centrale nucleare di Aktau in Kazakistan. Da anni, poi, diverse altre imprese italiane lavorano sui mercati esteri: Ansaldo Nucleare per la progettazione e la costruzione, Ansaldo Camozzi per la componentistica. Insomma, le intenzioni ci sono. Ora tocca alla politica.

i convegni PARIGI martedì 11 marzo 2008 Sciences Po, Amphiteatre Jacques Chapsal Hanno il via i lavori del Forum ”Economia e Società Aperta”, organizzato dall’università Bocconi e dal Corriere della Sera. Parteciperanno, per parlare di imprese e mercato unico, Piergaetano Marchetti (presidente Rcs MediaGroup), Emma Bonino (ministro per il Commercio estero), Mario Monti e Ernest Antoine Seilliere (presidente Business Europe). MILANO mercoledì 12 marzo 2008 Palazzo Reale Si apre l’Innovation Forum 2008 ”Orizzonte 2015”, organizzato da Idc. Tra gli altri, sono previsti gli interventi di Giacomo Vaciago, economista e presidente del Forum dell’Innovazione Digitale, del governatore Roberto Fomigoni, del sindaco di Milano Letizia Moratti, del leader di Confcommercio Carlo Sangalli, dell’Ad di IntesaSanPaolo Corrado Passera, di Giulio Tremonti, del presidente di Ferrovie, Innocenzo Cipolletta, e del presidente della Commission pour la Liberation de la Croissance Francaise, Jacques Attali. MILANO giovedì 13 marzo 2008 Università Bocconi L’università Bocconi e Think Tel organizzano il convegno DigItaly sul tema “L’impatto dell’Ict a favore della societa’ italiana e della produttivita”. Sono attesi gli interventi di Franco Frattini, vice presidente della Commissione europea, Mario Derba, Ad di Microsoft, Pier Francesco Guarguaglini, presidente e Ad di Finmeccanica. CERNOBBIO venerdì 14 marzo 2008 Villa d’Este Giornata inaugurale del Forum ”I protagonisti del mercato e gli scenari per gli anni 2000”, organizzato da Confcommercio e dallo Studio Ambrosetti. Sono attesi Silvio Berlusconi, Raffaele Bonanni, Pier Ferdinando Casini, e Walter Veltroni.


Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein

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DELLE IDEE


pagina 18 • 11 marzo 2008

economia Sotto Fabio Cerchiai, presidente dell’Ania, l’associazione che riunisce le compagnie di assicurazione. In basso, il ministro dello Sviluppo, Pier Luigi Bersani

Rc auto, le lenzuolate di Bersani non invertono il trend: l’Adusbef denuncia aumenti fino al 16 per cento

Caropolizza a prova di liberalizzazioni di Alessandro D’Amato

ROMA. Non sono bastate le lenzuolate di Pier Luigi Bersani. E nemmeno la moral suasion di Mister Prezzi. Le tariffe Rc auto continuano a correre, e alle associazioni dei consumatori non resta che protestare ancora a voce più alta. Venerdì scorso il garante dei prezzi, Antonio Lirosi, aveva chiesto all’Ania, l’associazione che riunisce le assicurazioni, di fare sconti agli automobilisti, visti gli aumenti del 2,5 per cento nel 2007 delle tariffe nonostante un risparmio del 10 per cento nel rimborso degli incidenti stradali. Le compagnie avevano preso tempo, dicendo di dover aspettare aprile-maggio per avere i dati definitivi dell’anno scorso. Ma l’Adusbef di Elio Lannutti ha reso noti i risultati di una sua indagine, nella quale si mostrano aumenti ben superiori alla media per alcune categorie, come le due ruote. La situazione più preoccupante si registra a Napoli; che guida la classifica degli aumenti per i più giovani, mettendo a segno quest’anno un incremento fino al 16,3 per cento nel caso di un motociclo. Così la spesa media annua sale a 1.018 euro. E i rincari non risparmiano neanche i più virtuosi: per i 40enni in massimo sconto per un’auto 1.300 a benzina si registrano infatti aumenti medi del 2,8 per cento, con punte che arrivano a sfiorare il 7, mentre a Bari superano il +6 per cento. Rincari a oltre due cifre si registrano anche a Venezia, dove un 18enne alla guida di un ciclomotore ha visto il prezzo dell’Rc auto salire del 10,8 per cento. Nelle province italiane si registra una generalizzata tendenza al rialzo, con un aumento

in media nazionale del +4,2 per cento per i 18enni neoassicurati per un’auto, del 2,8 per i 40enni in massimo sconto, del 5,7 per i giovanissimi alla guida dei motorini. Peggio di tutti i 18enni in sella a una moto: per loro il caropolizza segna un +11,4 per cento.

«In un paese normale, quando le imprese, non rispettando le regole del mercato, si arricchiscono taglieggiando con aumenti tariffari milioni di utenti costretti a contrarre polizze obbligatorie, si procede all’immediato commissariamento e alla loro chiusura coatta per far ripristinare le regole in difesa dei cit-

to sulle polizze auto, del 330 su quelle delle moto».

Non la pensa cosi Enrico Morando, senatore del Partito democratico e uno degli estensori del programma economico di Veltroni: «Il fatto che per qualche tempo i prezzi abbiano avuto un andamento “normale”dopo le lenzuolate di Bersani, fa capire che una qualche efficacia i provvedimenti presi dal centrosinistra al governo l’hanno avuta. Certo, l’applicazione è stata limitata, e magari anche parzialmente inefficace. Ma ricordo che il centrodestra, nei cinque anni al governo, non ha fatto proprio nulla

Morando (Pd) vuole «comportamenti più incisivi da parte dell’Antitrust», Urso (Pdl) annuncia «una vertenza contro banche e assicurazioni», mentre Eufemi (Udc) chiede sgravi per i più virtuosi tadini», protesta Lannutti. E sottolinea che «destra e sinistra chiudono tutte e due gli occhi di fronte al saccheggio continuo e sistematico di 30 milioni di assicurati. La liberalizzazione tariffaria, invece di portare alla annunciata concorrenza, ha fatto arrivare ad aumenti del 160 per cen-

sul tema». Ora però il “risveglio” dei rincari fa capire che bisogna fare di più. «Non attraverso norme nuove e diverse, ma rendendo più incisiva l’attività dell’Antitrust, che deve essere più pronta

nel denunciare i comportamenti collusivi e di cartello delle compagnie. Questa è la strada giusta». Di diversa idea Maurizio Eufemi, senatore Udc e membro della commissione Finanze: «In primo luogo, bisognerebbe premiare chi non fa incidenti: il problema del bonus/malus esiste ancora, ed oltre la 14esima classe gli automobilisti più virtuosi non possono andare. Questo non è giusto: le assicurazione dovrebbero favorire chi non ha mai fatto un incidente. Poi, l’autorità delle assicurazioni deve tenere conto che con tutte le limitazioni al traffico oggi esistenti nelle grandi città, l’utilizzo dell’auto è fortemente scoraggiato. E già questo dovrebbe costituire una motivazione per altri sgravi. In più, è giusto anche favorire chi con la patente ci lavora, come gli autisti, prevedendo assicurazioni sulla patente e tariffe agevolate». Una cosa comunque per lui è certa: «Le lenzuolate di Bersani non hanno portato per nulla maggiore concorrenza nel settore».

Adolfo Urso del Pdl è d’accordo: «Lo dicevamo che i provvedimenti del ministero dello Sviluppo non avrebbero funzionato da calmiere per un mercato come quello delle assicurazioni. E si è puntualmente verificato. Quando torneremo al governo, apriremo una vertenza su banche, assicurazioni e trasporti per importare in questi settori maggiore concorrenza e conseguenti benefici per il consumatore. E avremo particolare attenzione verso le sacche di socialismo reale create in questi anni nei servizi pubblici locali».


economia

11 marzo 2008 • pagina 19

Autostrade, Autogrill o Sintonia: l’Italia è sempre meno strategica

Lo spettro di Prodi spinge i Benetton all’estero di Giuseppe Failla

MILANO. Per una strana coincidenza, perché soltanto di questo si tratta, i Benetton hanno chiuso un’altra importante operazione finanziaria a cavallo fra due legislature. Ieri la controllata Autogrill ha perfezionato l’acquisto dell’altra metà di Aldease e oltre il 100 per cento di World Duty Free Europe. Le operazioni, lanciate dopo l’Opa su Alpha Airports, consentiranno alla società di cambiare definitivamente pelle al gruppo, rendendolo sempre meno dipendente dalla ristorazione autostradale. Al contraio di quanto accaduto con la prospettata integrazione con AutoAbertis, naufragata per la contrarietà del governo Prodi e in particolare di Antonio Di Pietro, questa operazione non dovrebbe incontrare intoppi politici. La natura delle prede conquistate da Autogrill conferma però la propensione esterofila dei Benetton dopo l’incubo vissuto con Di Pietro. La decisione dell’ex pm di non salvare in extremis l’accordo raggiunto dopo una lunga trattativa con i vertici di Atlantia, ha deluso non poco la famiglia di Ponzano Veneto. L’effetto è stato duplice: in primo luogo i Benetton, se era possibile, hanno radicalizzato la propensione della loro nuova creatura Sintonia, che raccoglie le partecipazioni infrastrutturali del gruppo, a guardare all’estero. Da un punto di vista strettamente politico la mossa dipietrista ha allontanato le posizioni dei Benetton, tradizionalmente vicini al centrosinistra, dal Partito Democratico di Walter Veltroni, dopo che questi ha deciso di imbarcare l’Italia dei Valori. Così, qualunque sia il futuro colore dell’esecutivo, il tema del rinnovo delle infrastrutture sarà uno dei primi punti nell’agenda e avere una

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Alitalia: pronta l’offerta di Air France Il consiglio d’amministrazione di Air France-Klm ha autorizzato la compagnia a presentare il 14 marzo una offerta per l’acquisizione di Alitalia. L’offerta sarà soggetta a condizioni sospensive: tra queste l’accordo con i sindacati. Il colosso del trasporto aereo garantisce che la Magliana «resterà una compagnia di bandiera». Nella proposta anche un alleggerimento in Az Service, investimenti sui 3 miliardi di euro in 5-6 anni, aumento di capitale da un miliardo e tagli per circa 1700 dipendenti.

Galateri: Telecom ha molto da dire Il presidente di Telecom, Gabriele Galateri di Genola, prova a tranquillizzare gli investitori dopo la bocciatura al nuovo piano da Piazza Affari. «Il titolo», ha spiegato, «ha ancora molto da dire, ci vuole un po’ di pazienza. Daremo i risultati previsti e magari fare anche meglio.». Galateri ha anche smentito ipotesi di fusione con Mediaset. «Lavoriamo su cose serie», ha detto. Intanto i vertici dell’azienda hanno candidato l’avvocato Bernardino Libonati alla presidenza di TIMedia. L’ex direttore generale, Massimo Castelli, lascia la Direzione Domestic Fixed Services la cui responsabilità viene assunta ad interim da Oscar Cicchetti.

Nuovo record per il petrolio: 107 dollari Non si ferma la tendenza al rialzo sul petrolio. Le speculazioni sul petrolio, complice anche la debolezza del dollaro, hanno fatto segnare il nuovo record per il greggio: 107 dollari al barile.

Wind, Conti sentito in procura

Gilberto Benetton

Il prossimo governo dovrà ricucire con il gruppo di Ponzano, se non vuole perdere un investitore primario per le infrastrutture società lussemburghese ma di anima italiana che ha 10 miliardi di euro da investire in infrastrutture e lo va a fare all’estero, con l’eccezione degli investimenti che dovranno essere effettuati da Gemina, farà male. E segnalerà, ancora di più, la distanza fra il centro del potere politico e il Nord Est, una delle aree più produttive del Paese. Macrocosmo che negli anni di Prodi non ha mancato di far sentire le proprie lamentele. Per quanto riguarda la doppia operazione di Autogrill, i primi commenti a caldo da parte degli analisti sono stati sostanzialmente positivi. Il deal, in sostanza, a fronte di un impegno da oltre un miliardo di

euro, porterà sinergie e benefici commisurati alla spesa. La strategia stand alone di Autogrill, prosegue anche perché, nonostante i Benetton abbiano approntato una holding apposita (Schema34), finora non sono riusciti a trovare il partner ideale per replicare l’esperienza Sintonia anche per Autogrill. A Ponzano Veneto non si cerca un partner finanziario ma industriale. Un socio che apporti non solo denari, che sono il problema minore, ma soprattutto know how e conoscenze in giro per il mondo tali da innescare il volano di nuovi affari. Il partner ideale, secondo i Benetton, è Ssp (Select Service Partner) che opera nei servizi di ristorazione in 28 Paesi, 123 aeroporti e 267 stazioni ferroviarie. La società è controllata da Eqt, gruppo di private equity che fa capo alla famiglia svedese Wallenberg. La quale, però, non ha mai ceduto alle proposte di matrimonio innescando, o meglio accelerando, le strategia solitarie di Autogrill.

L’amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, è stato ascoltato dai pm Giuseppe Cascini e Rocco Sabelli, che indagano sulla compravendita della compagnia telefonica Wind da parte dell’imprenditore egiziano Sawiris. Il manager, che è indagato per corruzione e si è presentato sua sponte, ha dichiarato alla fine dell’interrogatorio di aver «ribadito agli inquirenti di non aver mai ricevuto, direttamente o indirettamente, in Italia o all’estero, alcun pagamento o utilità di qualsiasi genere e a qualunque titolo».

Riparte la produzione industriale A gennaio fiammata per la produzione industria (+0,5 per cento rispetto a un anno fa e +1,3% rispetto a dicembre) dopo uno stallo di tre mesi. Lo ha comunicato l’Istat, secondo la quale il rimbalzo è stato determinato dal buon andamento dei beni di consumo e del comparto della meccanica.

Contratti, la Uil abbandona le trattative La Uil è pronta a far saltare il tavolo sulla riforma del modello contrattuale. La confederazione guidata da Luigi Angeletti lamenta che la Confindustria non ha accolto le richieste dei sindacati e la mancanza di una piattaforma unica dei confederali. «Al di là del merito delle questioni», ha spiegato il segretario confederale della Uil, Paolo Pirani, «il metodo non coglie le nostre rivendicazioni». Dalla Cgil, Nicoletta Rocchi: «Ci sono le condizioni per iniziare una trattativa». Stessa per Giorgio Santini (Cisl): «Finita la fase tecnica, parte la fase politica. Noi siamo pronti».

Ancora un calo in Borsa: -1,26 per cento Terza seduta negativa, quella di ieri, per Piazza Affari: -1,26 per cento. Vendite su Fiat (-4,12 per cento) e Banco Popolare (-3,91).


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cultura Ricordo degli incontri con il rifondatore dell’ermeneutica

hi ha conosciuto Hans-Georg Gadamer non potrà mai dimenticare la passione dialogica che lo animava, la sua innata cordialità, la sua colloquialità spontanea. Maestro di conversazione oltre che di riflessione teoretica, il fondatore dell’ermeneutica filosofica era l’esempio vivente del dialogo come strumento del pensiero e, perfino, come forma di esistenza. Affabile e al tempo stesso austero, la prima volta che lo incontrai, nel 1984, mi ricevette nel suo studio all’Università di Heidelberg, intrattenendosi a conversare per oltre un’ora. Da più di dieci anni ormai professore emerito, gli impegni didattici gli avevano lasciato maggiore tempo libero, che dedicava alla scrittura, alle conferenze che lo portavano in tutto il mondo, e all’allora iniziale proposito di raccogliere i suoi numerosissimi scritti in un’edizione complessiva delle sue opere. In quel periodo aveva appena dato alle stampe la raccolta di saggi intitolata Heideggers Wege e parlammo della necessità di tradurla al più presto in italiano, per contribuire sia a consolidare la presenza di Gadamer in Italia, sia a rafforzare un’interpretazione equanime del pensiero di Heidegger in un periodo in cui stava tornando di moda attaccarlo per il suo effimero coinvolgimento con il nazionalsocialismo, anziché confrontarsi seriamente con i concetti e le prospettive della sua filosofia. La traduzione venne messa in cantiere poco dopo, grazie all’editore Marietti e alla sensibilità di Gerardo Cunico e del direttore Ernesto Franco, e uscì nel 1987, con il titolo I sentieri di Heidegger.

C

L’attenzione, la generosità e la competenza linguistica con cui Gadamer seguì e controllò l’intero lavoro, fin anche la mia introduzione all’edizione italiana, restano per me un modello di interazione fra autore e traduttore e, soprattutto, un ricordo indelebile della disponibilità con la quale Gadamer lavorava e si relazionava con gli altri. Memorabile fu per me la presentazione che di quella traduzione si fece, nel 1987, presso la sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, con Gerardo Marotta padrone di casa,Vincenzo Vitello maestro di cerimonia e Gadamer entusiasta come un esordiente. All’Istituto di Napoli Gadamer era fin dai primi anni Ottanta uno degli ospiti d’onore; teneva ogni anno a febbraio un seminario, al quale faceva seguire una decina di giorni di riposo a Capri ospite dell’avvocato Marotta. Le sue lezioni napoletane sono un capitolo esemplare dell’efficacia del dialogo nell’insegnamento della filosofia. In seguito, rimanemmo in contatto, con incontri, lettere e telefonate; Gadamer continuò a seguire le mie ricerche e mi aiutò nella stesura del libro su Heidegger e Leibniz, di cui controllò via via le parti dattiloscritte, soccorrendomi in alcuni passi piuttosto complessi dal punto di vista interpretativo, al punto che risultò quasi naturale che egli scrivesse, cosa per lui inconsueta, una prefazione al volume, che uscì nel 1990. La morte di Gadamer, il 13 marzo del

Gadamer il filosofo del dialogo di Renato Cristin

Hans-Georg Gadamer negli anni della vecchiaia 2002, chiuse un capitolo fondamentale della filosofia del Novecento, ma al tempo stesso accrebbe l’interesse e le ricerche su un pensatore che seppe unire in forma armonica teoresi e saggezza. L’ultimo suo libro tradotto in italiano presenta i colloqui che egli ebbe nel 2001 con Silvio Vietta, germanista e ami-

ranza a Ernst Jünger. Attraversò due guerre mondiali, vide le illusioni, le tragedie e le grandi trasformazioni del Novecento e ne conobbe le ideologie, i fanatismi e i totalitarismi. Fu ostile al nazionalsocialismo senza diventarne un avversario militante, ma dopo l’attentato del 20 luglio fu perso-

Conservatore nel campo della cultura e dei valori etici, guardava con fiducia al progresso scientifico ma denunciava i rischi della “sbornia tecnologica” contemporanea co di famiglia, sul rapporto fra ermeneutica e modernità, su Heidegger e sul futuro della filosofia (A colloquio. Frammenti di memoria di un grande saggio, Marietti Editore). Gadamer fu uno dei grandi testimoni del nostro tempo, paragonabile per longevità e per lungimi-

nalmente coinvolto quando la sua assistente Käte Lekebusch, che nel 1950 divenne sua moglie, fu processata per propaganda anti-regime. Si scontrò poi con il regime comunista della Ddr. Dopo la fine della guerra si trovava nella parte orientale della Germania, a Li-

psia, dove dal 1939 assunse la cattedra che era stata di Arnold Gehlen e dove nel gennaio del 1946 divenne rettore, carica che mantenne soltanto fino all’ottobre dell’anno successivo, quando fuggì per recarsi prima a Francoforte e poi, dal 1949, a Heidelberg come successore di Karl Jaspers.

La sua innata riflessività e la sua lunga esistenza gli dischiusero l’orizzonte della saggezza, il cui esercizio era per lui uno dei compiti fondamentali della filosofia. Trasformò l’ermeneutica da arte dell’interpretazione dei testi a metodo di comprensione del mondo. Risolse il paradosso della circolarità del comprendere con la logica della domanda e della risposta. Rinnovò l’antica pratica del dialogo con le nuove acquisizioni della filosofia contemporanea, partendo dalla dirompente forza del pensiero di Heidegger. Affermò e rivelò la potenza creatrice del dialogo: «Ciò che caratterizza il colloquio è che qui la lingua completa, nella domanda e nella risposta, quella comunicazione del significato la cui elaborazione è il compito dell’ermeneutica». Ermeneutica e dialogica sono una coppia concettuale e operativa indissolubile, finalizzata alla comprensione del senso. Perfino nell’ermeneutica testuale, l’interprete è un interlocutore, che interroga il testo scritto ricevendo risposte. In questo senso, la dialogica supererebbe la dialettica, perché non solo produce conoscenza ma esprime anche l’intima essenza dell’essere umano: l’uomo è un essere razionale e dialogico. Zoon logon echon, dice Aristotele, ma come ricorda Gadamer, fu Heidegger che per la prima volta, all’inizio degli anni Venti, mostrò come la parola aristotelica logos non significasse ragione bensì linguaggio. E in Hölderlin il linguaggio diventa dialogo: «il colloquio che noi siamo». Il mondo è dunque intrinsecamente ermeneutico perché è linguaggio ovvero, secondo la celebre proposizione di Gadamer: «l’essere, che può venir compreso, è linguaggio». E per assolvere al compito di comprendere il mondo nella sua totalità, «la filosofia deve ridestare incessantemente la forza originaria e creativa del linguaggio». Conservatore nel campo della cultura e dei valori etici, guardava con fiducia al progresso scientifico ma denunciava i rischi connessi con l’autonomizzarsi delle scienze. L’attuale “sbornia tecnologica” lo preoccupava al pari dello smarrimento del senso nella coscienza degli uomini. La sua difesa filosofica della tradizione implicava anche la salvaguardia della tradizione come strumento di preservazione dell’umanità: «la salvezza viene da noi stessi, dalla nostra lingua e dalla nostra capacità di pensare, ma anche dalla grande tradizione in cui ci troviamo». Perciò, in un testo del 1999 potè dichiarare: «ho fiducia nella forza creatrice della nostra cultura. Il futuro dipende dalle origini» (La filosofia nella crisi del moderno, Edizioni Herrenhaus).


calcio

11 marzo 2008 • pagina 21

Il mondo del pallone visto da Gigi Riva. Uno che lo conosce bene

«Vincenti, perciò antipatici» colloquio con Gigi Riva di Cristiano Bucchi

ROMA. Un campionato bellis-

tutti.

simo, imbevuto di antipatia. Il calcio come metafora della vita, dove simpatia e bravura raramente si accompagnano. Nel calcio, orfano di Gianni Agnelli, di Peppino Prisco e di Franco Scoglio, sono ormai pochi quelli rimasti “due spanne” sopra agli altri. Giampiero Boniperti è ormai fuori, Dino Zoff si è fatto accuratamente da parte...e allora chi è rimasto? Sicuramente non Roberto Mancini che qualche mese fa festeggiando lo scudetto dell’Inter disse: «È una vittoria meritata, da cucire al petto con orgoglio perché è il giusto premio degli onesti». Una caduta di stile che ha iscritto Mancio nell’elenco degli antipatici. E poi ci sono quelli che non hanno mai fatto della simpatia un punto di forza, ma ci hanno fatto innamorare per quel distacco genuino. È il caso di Gigi Riva: lui l’indimendicabile bomber della nazionale italiana, che si guadagnò con merito dalla penna di Gianni Brera l’appellativo di “Rombo di Tuono”. La fede al suo Cagliari lo ha reso una bandiera, la sua serietà e la sua professionalità, un esempio per tutti i giovani. Altri tempi in cui nel calcio valeva ancora la poesia del gesto tecnico di un campione, e in cui le tv avevano un ruolo marginale.

Perchè nel calcio a differenza che negli altri sport, è difficile se non impossibile vincere e essere benvoluti? Il calcio oggi in Italia maschera i problemi del nostro Paese.Tutti si identificano nel gioco del calcio, anche perché tutti in un modo o nell’altro hanno dato quattro calci a un pallone. Poi c’è un problema legato alla televisione che impone in qualsiasi momento della giornata un abbondante dose di pallone. È questo insieme di elementi

Lei non ha mai fatto della simpatia un punto di forza, eppure resta uno dei calciatori più amati. Qual è il segreto? Non c’è nessun segreto. Il mio era un calcio fatto di ironia, di rabbia e di umanità. Mi verrebbe da dire che era un mondo adulto, e se si sbagliava lo si faceva da professionisti. Quei tempi e certi protagonisti non torneranno più perchè il castello è cresciuto e le fondamenta sono sempre bugie. Il suo carattere non le ha mai creato problemi in nazionale? Ciascuno ha le sue reazioni istintive e caratteriali, ma ogni gruppo ha le sue regole. E poi c’è il rispetto dei compagni di squadra: senza dimenticare che in Nazionale non esiste un leader, lo sono

«Bisognerebbe cambiare la mentalità dei tifosi e far capire loro che esiste anche la sconfittà»

che spesso rende il clima negli stadi incandescente. Negli altri sport spesso ci troviamo a fare il tifo per colori diversi dai nostri, penso al rubgy, all’atletica, al ciclismo. Perché? Non c’è un perchè. Il tifo può anche andare di pari passo con il mondo dello sport. La giusta rivaltà ci deve essere, ma non è detto che si esprima in tutte le discipline allo stesso modo. Nel rugby c’è il terzo tempo che adesso il calcio ha copiato. La verità è che bisognerebbe cambiare la mentalità dei tifosi e fare capire che nello sport c’è anche la sconfitta. Lei ha conosciuto un po’ tutti i protagonisti del calcio. Che cosa sarebbe utile recuperare? Prima c’era la passione e la voglia di finanziare la squadra della propria città. Anche i presidenti avevano un attaccamento molto forte alla maglia. C’era soprattutto la voglia di fare bene rispettando però gli avversari. Oggi invece c’è solo business. In Champions

Due momenti della vita di Gigi Riva e la nazionale: sopra in allenamento con Valcareggi e Domenghini; sotto, nel ruolo di team manager, con il capitano Fabio Cannavaro league l’Inter affronterà il Liverpool. Gran parte dei tifosi italiani tiferà per gli inglesi. Sorpreso? Assolutamente no. Fa parte della rivalità che esiste tra le squadre, e poi non trovo che Roberto Mancini sia una persona antipatica. Certo a volte è molto secco nelle risposte, ma io preferisco una persona coerente che si comporta sempre allo stesso modo, rispetto a chi si comporta simpaticamente davanti alle telecamere, ma non lo è per niente. Gigi Riva è da diverso tempo il team manager della nazionale. Come sono cambiati gli azzurri rispetto a quando giocava lei? Questa nazionale oltre a essere simpatica è anche vincente. Il mondiale ha dato la convinzione di essere forti.Io con la nazionale ho conquistato il secondo posto ai mondiali in Messico, questi ragazzi sono riusciti a vincere in Germania battendo i padroni di casa. Tra il primo e il secondo posto c’è un vero e proprio abisso. Come si definirebbe: simpatico, distaccato, brusco? Il mio carattere non è mai stato un problema. Non mi sono mai preoccupato di quello che pensavano gli altri. Cerco sempre di essere me stesso, di vivere

una vita che sia serena dentro. Questo per me è molto importante. Qual è stato il personaggio che più degli altri l’ha sorpresa in fatto di intelligenza e professionalità? Ricordo su tutti Angelo Moratti, il papà di Massimo. Era un personaggio semplice, in grado di parlare con tutti allo stesso modo. Era attento agli altri. Questo lo rendeva unico. Ma nel calcio serve essere educati e simpatici? Credo che dobbiamo proporci per quello che siamo, altrimenti diventa una recita. Uno deve dare quello che è, senza dimenticare che per avere rispetto bisogna dare rispetto. Lei ha giocato contro Pelè, ma ha conosciuto bene anche Maradona. A chi darebbe la medaglia d’oro? Maradona è stato il più grande di tutti. Quello che gli ho visto fare in campo non lo dimenticherò mai. Come se non bastasse era anche simpatico con il pubblico? Aveva un personalità fortissima, e poi difendeva sempre la squadra, la città. Senza dimenticare che a Napoli ha dato due scudetti e con l’Argentina nel 1986 ha vinto un mondiale da solo. Con questi numeri si diventa simpatici per forza.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Figli di, mogli di: posti certi in Parlamento? SÌ E IN QUESTO MODO LA CASTA ACQUISISCE I DIRITTI DI SUCCESSIONE E DI ”ACCUMULAZIONE” Sembra proprio di sì. Si vedano i casi di Matteo Colaninno, la figlia dell’ex ministro Cardinale, la moglie di Fassino, la moglie di Bassolino eccettera. E dire che tutti i leader politici avevano più volte affermato che avrebbero combattuto i privilegi della casta. Alla faccia! Ora la casta, oltre ai vecchi privilegi, ne ha acquisito un altro e ancora più prezioso: in alcuni casi il diritto di successione (la figlia di Cardinale), in altri quello di ”accumulazione”(le varie mogli di...). Dato curioso è che i casi appena citati si stanno tutti verificando nella lista del centrosinistra, di quel cartello cioè che si è sempre definito ”il paladino della moralità”. Bella moralità, bella faccia tosta.

Alessio Migliore - Padova

NON BASTA CANDIDARE UN OPERAIO DELLA THYSSEN PER FAR ELEGGERE I FAMILIARI L’arroganza della classe politica italiana è arrivata a livelli di assoluta insopportabilità. Dopo averci dato una legge elettorale autoritaria, che non ci concede neppure l’illusione di scegliere il candidato da eleggere, questa classe politica ha

LA DOMANDA DI DOMANI

Liste elettorali, siete soddisfatti delle candidature? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

l’impudenza di imporci i figli, le mogli, e magari le amanti, degli appartenenti alla casta, sempre più famelica, sempre più privilegiata, sempre più potente. Poi magari ci sbatte in faccia un operaio della Thyssen per farci credere di avere a cuore i problemi di chi soffre la sindrome della terza settimana (non più la quarta). Ma nelle posizioni che contano, anzi, che garantiscono l’elezione, troviamo la moglie di Fassino, il figlio di Colaninno, la figlia di Cossutta e perfino la moglie dell’inquisito Bassolino. Così si vuole combattere l’antipolitica?

Graziano Viola - Firenze

SE I FIGLI O LE MOGLI DEI POLITICI SONO CAPACI, PERCHÉ EVITARE CHE ARRIVINO IN PARLAMENTO? No, non credo proprio che il motivo sia quello di avere posti assicurati in Parlamento. O meglio, può anche darsi che ci si voglia assicurare uno scranno in famiglia, ma se le mogli, le figlie o i parenti sono comunque capaci di dire e fare qualcosa in politica, perché scandalizzarsi o tentare di impedire le candidature? Mettiamoli alla prova.

Candida Salvati - Roma

SARÀ FORSE PURA COINCIDENZA, MA QUESTO NEPOTISMO C’È SOLO A SINISTRA Sarà pura coincidenza, o frutto di una logica che mi sfugge, il fatto che questo tipo di nepostismo è peculiare solo della sinistra? Già in passato ci fu il caso Togliatti-Iotti ed ora i casi si sono moltiplicati per una sorta di diritto familiare, che però trova asilo solo a sinistra. Insomma: Armando Cossutta e figlia Maura (Pdci), Bassolino e moglie (Pd), Fassino e moglie (Pd), Cardinale e figlia (Pd), Mastella e moglie (Udeur). Perché solo a sinistra? Pura passione politica che quelli di sinistra riescono a trasmettere ai propri familiari più di quanto riescano a fare quelli di destra? Ovvero attaccamento forsennato ai privilegi che la casta di sinistra apprezza più della casta di destra? Cordialmente.

MORTI BIANCHE, VOGLIAMO UN ALTRO TESTO UNICO E` di tutti i giorni la consapevolezza che anche senza il clamore dei media, si rinnova il lutto per incidenti mortali sul posto di lavoro. Esistono incidenti che pur non arrivando a togliere la vita al lavoratore provocano lesioni gravissime. Quando questi coinvolgono più persone si creano momenti di forte sensibilità collettiva ai quali, il mondo politico, cerca di dare risposte. Molti chiedono a gran voce leggi e pene più severe, dimenticando o peggio, non sapendo, che la legislazione italiana si occupa di sicurezza sul lavoro ancora prima della Repubblica e che una tra le migliori leggi in materia sia il DPR 547 del 1955, che individua il fattore di pericolo e indica con dovizia tecnica, quali accorgimenti adottare per proteggere il lavoratore. Altra legge epocale è costituita dal Decreto Legislativo 626/94 che se da una parte inasprisce la pena ponendola nel campo del penale, dall’altra crea una produzione cartacea tale da distogliere l’attenzione al problema per dirottarla sulla presenza del documento che descrive il pro-

IL GATTO DELLE ONDE Il surfista peruviano Domingo Pianezzi, solito cavalcare le onde di San Bartolo, a Lima, portando con sé la gattina Nicolasa: ”Lei più di me ha un’innata passione per questo sport” FINI HA RAGIONE: MCCAIN PUÒ VINCERE L’Unità riporta una frase che avrebbe detto Fini: ”Non credo che l’America sia pronta alla presidenza di un nero, un afro-americano. Con lui McCain può sovvertire il pronostico”. Come ha commentato il quotidiano? ”Quando l’istinto non si controlla”. E questo sarebbe il glorioso giornale di sinistra fondato da Gramsci? Ritengo invece che la considerazione di Fini sia più che normale: secondo l’Unità dubitare che gli Usa vogliano tranquillamente un presidente nero significa razzismo? Invece di accogliere in Italia, senza alcun criterio, centinaia di migliaia di clandestini senza poter dare loro una casa, un lavoro, un’assistenza cos’è, la festa dell’arcobaleno? Ridurre interi quartieri al totale de-

dai circoli liberal Fulvio Fiore - Napoli

blema stesso.Visto il proliferare di varie leggi e decreti, ci si pone il problema di creare un Testo Unico per rendere più semplice il recepimento delle normative. L’ultima nata, la 123 dell’agosto 2007, è figlia della sola ondata emozionale seguita ad alcuni incidenti mortali amplificati da tutti i mezzi d’informazione. Non solo non individua nessuna criticità degli ambienti di lavoro, non individua neppure soluzioni. Questa legge evidenzia ciò che non dovrebbe essere fatto, ossia come sia assurdo creare un’unica zona di allarme per le varie tipologie di lavori. Credo che ci sia bisogno di creare un Testo Unico che rafforzi aspetti più specifici prendendo come riferimento proprio il Decreto 547/1955. Lo scorso 6 marzo il peggior governo della storia repubblicana vara un Testo Unico sulla sicurezza del lavoro che prende spunto proprio dalla più inutile delle leggi, la 123/2007, ed inasprisce le sanzioni senza fare chiarezza sulle regole. La vera tutela alla salute e alla sicurezza passa dalla consapevolezza di ciò che si compie con il coinvolgimento consapevole. Il denaro speso nelle migliaia di ore nella formazione po-

grado cos’è, far sentire i poveri meno a disagio? Non vorremmo i Caruso e i Luxuria, ma un gruppo di vertice di sinistra li impone e noi ce li teniamo! E tutti vissero felici e contenti.

L. C. Guerrieri - Teramo

PERCHÉ NON PORTARE MASTELLA ALLA GUIDA DELLA CAMPANIA? Considerato che il presidente Berlusconi doveva aver preso impegni con Clemente Mastella, che in pratica ha determinato la caduta del governo Prodi, e visto che tutto sommato non è il peggiore, pur essendo l’unico vero democristiano rimasto in Italia, perché non ripagarlo con la candidatura a presidente della Campania, non appena ”o re da monnezza” Bassolino si sarà dimesso? O ci saranno le elezioni?

Urbano Mancini - Spoleto

trebbe essere speso in una formazione più specifica al lavoro svolto, con aspetti più tecnici che legali. Lo sviluppo della cultura alla sicurezza dovrebbe essere coordinato dalle Regioni, in quanto Istituzioni legislative con profonda conoscenza del territorio. E` necessario puntare su una vera prevenzione che nasce dalla conoscenza oltre che dalla consapevolezza del problema. Ezio Lorenzetti CIRCOLO LIBERAL DEL CANAVESE

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 28 MARZO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog svolto nel prossimo futuro dai numerosi Think-tank e pensatoi che già arricchiscono la proposta politico-culturale dell’area moderata (come ad esempio Liberal, Farefuturo, Europa Civiltà, Magna Charta, Paneuropa) e che da tempo sono impegnati nel costruire spazi aperti di confronto e dialogo, anche al di là della stessa schematica e per certi versi inattuale dialettica tra destra, centro e sinistra.

Una risonanza che respira e molto più Tu, amato cielo, mi hai scritto delle lettere così belle. Io lo dico sempre: gli scrittori non dovrebbero scrivere lettere. Gli altri ci riescono meglio.“Risonanza che respira” , quando mai mi sarebbe venuto in mente? E il resto! Tu puoi dire a una persona che l’ami, io non lo faccio mai completamente. Com’è bello se mi dici che sei tranquilla e felice anche da sola! Era proprio quello che volevo! Non dovrebbe renderti inquieta e infelice, qualunque gigolo può riuscirci. Dovrebbe completarti meravigliosamente, renderti luminosa e più bella di quanto tu sia mai stata, raggiante, si deve vedere a chilometri di distanza che vivi e sai che un altro vive immutabilmente sicuro e soltanto per te. Non sei soltanto tu una respirante risonanza (ah, maledizione, l’avessi trovata io questa espressione!), lo sono anch’io. Uno specchio concavo che cattura la tua luce, la accumula e corroborato da essa la riflette ardente su di te. Erich Maria Remarque a Marlene Dietrich

LA STRADA VERSO IL PPE UNISCA LE FORZE POLITICHE L’Europa rischia di essere la grande assente di questa campagna elettorale, anche dal punto di vista della collocazione dei partiti. Se il Pd è un ”apolide”nella politica europea, come ha ricordato Silvio Berlusconi, la rottura tra il Pdl e l’Udc può ostacolare negativamente quel progetto della ”sezione italiana del Ppe”che appare come l’orizzonte politico e programmatico più convincente per i democratici cristiani, i moderati e i liberali italiani. Un orizzonte comunque rafforzato dalla saggia e importante scelta strategica di Gianfranco Fini e di An, partito ormai accreditato nella famiglia dei popolari e conservatori europei. Il lavoro del presidente Fini, in questo senso, non deve essere banalizzato e va anzi rispettato per la sua coerente e coraggiosa lungimiranza, da Fiuggi in avanti. Personalmente, mi auguro davvero che il percorso verso il Ppe italiano possa ancora offrire un momento di unità e collaborazione tra le forze politiche che si riconoscono nei valori di dignità umana, di libertà e di solidarietà propri del popolarismo e della tradizione cristiana e

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

Matteo Prandi

LA SINISTRA È AFFETTA DAL ”ROSSO DA FUMETTO”

umanistica del Continente europeo; e mi riferisco ovviamente al Pdl e all’Unione di centro, soggetti politici oggi divisi dalla competizione elettorale. Il concorso al progetto del Ppe italiano da parte del presidente Casini e degli amici democratico-cristiani dell’Unione di centro deve essere concepito, da questo punto di vista, più come una necessità di ragionevolezza politica che come un semplice auspicio, al di là delle difficoltà personali della situazione presente. L’ho già detto: è naturale e razionale che Berlusconi e Casini tornino a parlarsi e riscoprano le ragioni di un’alleanza, nel segno della comune appartenenza al Ppe. Un ruolo importante potrà anche essere

Il compagno Oliviero Diliberto lascerà il suo posto ad un operaio alle prossime elezioni e il falco industrialista e liberista Massimo Calearo sarà il rappresentante del Pd al Nord. Tormentati dal dubbio, ci chiediamo: ha ragione chi dice che la sinistra sia soggetta ad una forte mutazione che determina la perdita di continuità con i caratteri della tradizione, o chi ritiene che ormai si tratti soltanto di un ”rosso da fumetto”? Grato dell’attenzione. Cordialmente saluto.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

PUNTURE Bassolino non esclude di ricandidarsi come sindaco di Napoli. Pare che abbia detto: “C’è bisogno di pulizia”.

Giancristiano Desiderio

Pensare prima di parlare è il motto della critica; parlare prima di pensare, il motto della creazione E. M. FOSTER

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di L’ETA SPARA, ZAPATERO VINCE Sarà dietrologia, sarà che Zapatero proprio non riusciamo a digerirlo, ma questa è la seconda volta che il Mister Bean spagnolo vince le elezioni in seguito a un attentato. La prima volta quattro anni fa, quando grazie all’attentato più sanguinoso e vigliacco che la bella Spagna ricordi, il premier uscente, l’ottimo e rimpiantissimo Aznar, fu battuto in extremis dal socialista Zapatero. In quel caso l’attentato fu di matrice islamica, come i processi tutt’ora in corso hanno certificato, ma in un primo momento l’esecutivo in mano al Partito Popolare imputò la strage all’Eta. Errore che costò la sconfitta. L’altro giorno invece, quando le cose sembravano ancora molto in bilico (anche se ad onor del vero i sondaggi davano comunque avanti il Psoe), ecco che la mano assassina del’Eta sparge il sangue di Isaias Cassasco, consigliere comunale ovviamente socialista. Lungi da noi abbassarci a pensare che Zapatero abbia armato la mano dei terroristi (anche se la sua politica del “dialogo” ci è parsa quanto di più simile al collaborazionismo possa esistere). Ma vista anche l’ingloriosa gaffe televisiva nel fuorionda di settimana scorsa, come può non insinuarsi il dubbio che Zapatero non abbia in qualche modo tirato un sospiro di solievo? Provate a guardare i dati dell’affluenza alle urne e capirete. Maggiore è l’affluenza, maggiore è la possibilità di vittoria del Psoe. E questo a prescindere dal fatto che i Popolari in Spagna non sono riusciti in otto anni a creare un’alternativa credibile al governo di chi ha equipara-

to gli uomini alle scimmie, e reso realtà i peggiori incubi del relativismo (aborto totalmente sregolato, riforma della scuola, matrimoni e adozioni gay…). O tempora, o mores!

Il Falco falcodestro.altervista.org

SINISTRISMI EUROPEI Zapatero ha vinto il secondo mandato: l’opposizione non ha saputo unirsi per scalzarlo, economicamente non se la passano così male, e questo è un buon motivo per lasciare le cose come stanno. Però c’è una grossa differenza che nessuno ha notato: l’altra volta contro Aznar, con la stazione di Atocha ancora insanguinata, il Psoe sparò a palle incatenate sul presunto depistaggio da parte del governo e li fece passare per maldestri se non peggio. Oggi con l’omicidio di un uomo ha ottenuto “l’unità nazionale”. Ma non è tutto qui il succo: adesso ovviamente verrà preso a modello, soprattutto a casa nostra, da affiancare al già sdrucito ”Yes we can”, ma i leader sinistrotti europei, gli “espertoni” di questioni internazionali, alla D’Alema, si dovrebbero fare due domandine: come mai se basta un omicidio a serrare i ranghi contro il terrorismo, verso Israele non bastano 9.000 missili lanciati dalla striscia di Gaza, nei due anni dal ritiro delle truppe? Come mai se al seguito della strage nella scuola ebraica di Gerusalemme e la gente festante di Hamas per le strade, quella specie di ministro degli Esteri ha ancora il coraggio di sostenere che con Hamas bisogna dialogare?

Gabbiano Urlante gabbianourlante.splinder.com

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Un saggio di Viola e De Majo racconta fughe e alienazioni di un Paese ormai finto

UN NON-LUOGO chiamato Italia di Riccardo Paradisi è sempre qualcuno sul terrazzo del parcheggio di via Sant’Antonio, nel centro di Perugia, a ridosso della valle su cui si tuffa la città. Qui pattuglie di curiosi guardano e fotografano coi cellulari un villino recintato, coi sigilli ai cancelli. Vogliono anche loro un’immagine della ”Casa degli orrori” come ormai è stata battezzata l’abitazione dove Meredith Kercher è stata assassinata a coltellate lo scorso ottobre. Una meta obbligata per il turismo noir: un luogo cult riprodotto migliaia di volte sulle tv e i giornali di tutto il mondo per mesi. La ”Casa degli orrori” non ha fatto in tempo a entrare nell’elenco dei luoghi raccontati da Cristiano di Majo e Fabio Viola nel loro Italia 2 (Minimum Fax) un reportage intelligente e acido da un Paese, il nostro, che vive ormai nella sua autorappresentazione – orrorifica o rasscicurante poco importa – e che sembra avere smarrito la differenza tra il sogno e la realtà. Dalla villetta di Cogne al casale del Mulino Bianco, dal festival di Sanremo ai gadget e ai gigantismi di San Giuovanni Rotondo, dai pellegrinaggi nostalgici nella Predappio di Mussolini a Roma e Venezia (ormai fondali scenografici per l’occhio del turista) l’Italia che esce dal libro di De Majo e Viola fa insieme ridere e piangere: come le feste di carnevale diverte e deprime perché racconta un Paese che si sta trasformando nella sua esibita parodia, che si sta trasferendo in massa nelle mille riproduzioni che la società dello spettacolo è capace di produrre. Un Paese che alla storia o alla cronaca preferisce la fiction.

C’

Il Mulino Bianco ora è un agriturismo che sfrutta l’alone di fama regalatagli dallo spot di Tornatore: l’80 per cento di chi vi soggiorna sono italiani in cerca del paradiso perduto dove la famiglia del mulino consumava serafica colazioni mattutine. Erano gli anni Novanta quando lo spot impazzava, gli anni in cui la sinistra borghese, accantonati i sogni rivoluzionari, scopre l’esotismo finto laburista degli agriturismi e estatica comincia ad aggirarsi nei week end per i paesini agresti dell’Italia centrale a farsi stregare da una cassapanca o da una bottiglia d’olio, quello buono. Ma se nel mondo inventato dal Mulino Bianco il ritorno alla natura «è ciò che si immagina sarebbe un paradiso terrestre con gli elettodomestici a cosa approdano invece Anna Maria Franzoni e Stefano Lorenzi quando decidono di vivere nella natura di Cogne?». La casetta di Cogne è archetipo e prolegomeno ad ogni futura casa dell’orrore italiano. È il buco nero che ha inghiottito la Cogne di una volta che ora, come dicono Viola e De Majo, non esiste più, sostitui-

Dalla villetta di Cogne al Mulino Bianco, dai nuovi miracoli italiani del cavaliere alle notti bianche di Walter Veltroni la Penisola sembra diventata una fabbrica di illusioni. La realtà è stata divorata dalla rappresentazione ta e riprodotta dalla sua rappresentazione. Ma se la vera Cogne scompare altrove, non poco lontano ma come in una dimensione parallela appare Damanhur, comunità new age sorta per opera di Oberto Airaudi nella zona del canavese. a pochi chilometri da Ivrea. Una specie di città stato dove i mille abitanti battono moneta, si chiamano con nomi di animali e cognomi di piante, si salutano dicendo ”con te”e si aspettano moltissimo dagli Ufo. I turisti che soprattutto dalle provincia del nord vanno a visitare Damanhur, attratti dal tempio scavato in una montagna, non restano indifferenti al magnetismo del luogo: tanto che alcuni di loro hanno deciso di restarci scegliendo lo spazio parallelo a quello più ordinario delle loro vite. Ma il second life style italiano prevede anche viaggi nel tempo oltre che nello spazio. E basta recarsi a Predappio, come hanno fatto De Majo e Viola, piccolo comune del forlivese e paese natale di Benito Mussolini, il cui corpo qui riposa, per vedere come anche la nostalgia trovi la realtà sognata. Predappio, amministrata da giunte di sinistra con spiccato senso per gli affari, è il parco a tema di un fascismo da dopolavoro, inoffensivo ed esibizionista che del fascismo vero è solo la citazione caricaturale e grottesca. Qui il camerata in vacanza dalla storia trova negozi di souvenir della più spinta fascisteria, ristoranti a prezzi buoni e

Sangiovese generoso. Del resto lo si è detto, l’Italia della storia non sa più che farsene. Il suo destino sembra la fiction. Ma l’Italia non è Predappio, né Damanhur, né Cogne, né il Mulino bianco. Non è un parco a tema della nostalgia politica, della new age, del turismo candido o noir! Potrebbe obiettare qualcuno. Ma ne siamo sicuri? Prendamo Venezia per esempio, la città lagunare ormai è un set cinematografico ad uso di turisti che fotografano turisti che a loro volta fotografano piccioni e monumenti restaurati. Non è più una città. O almeno non è più una città pensata per chi la abita. Roma, da parte sua, è qualcosa d’ancora peggiore se possibile. E non solo per le notti bianche o per il fatto che il centro storico sia diventato un non-luogo di cartapesta punteggiato di porchettari ma perchè come ricordano i nostri reporter l’amministrazione di centrosinistra che governa da quindici anni questa città non è in grado di produrre un piano per la casa, per gli studenti, per i giovani lavoratori. In compenso si è inventata negli ultimi anni qualche decina di nuovi festival.

Chissà se gli italiani saranno ridotti a un popolo di cuochi, camerieri, guide turistiche e restauratori ma se l’alternativa è tra Milano due e le notti bianche tra il miracolo italiano di Berlusconi e il sogno degli anni Sessanta di Veltroni c’è da temerlo seriamente. E quel giorno ci sentiremo tutti come Cristiano De Majo nella sala stampa del festival di Sanremo «ironici e sarcastici su tutto quello che passa davanti ai nostri occhi e sfiora il nostro udito, mercanteggiando dosi di cinismo ma con la sensazione di essere molto soli».


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