QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
iraq he di c a n o r c di Ferdinando Adornato
Assassinato l’arcivescovo caldeo di Mosul
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
LA POLITICA TRENT’ANNI DOPO ALDO MORO
polemiche
In che lista è?
IL CASO CIARRAPICO SCUOTE ANCHE IL PPE pagina 6
Susanna Turco
poteri BONANNI: «TANTO DA FARE INSIEME CON LA MARCEGAGLIA» pagina 7
Francesco Pacifico
intervista OCCHETTO: «IL VOTO UTILE È CONTRO QUESTO FINTO BIPARTITISMO» pagina 9
Errico Novi
liberali e cattolici come Biondi, Gargani e Iannuzzi. In attesa del Popolo, dove sta la Libertà?
Passione, cultura, amore per il dialogo senso del futuro: queste erano un tempo le doti necessarie per rappresentare l’Italia. Oggi prevalgono due grandi partiti senz’anima…
Carte Charlie Wilson: una sera del 1981 a Roma
Carlo Ripa Di Meana pagina 12 Nicola Procaccini 80314
alle pagine 2, 3, 4 e 5 VENERDÌ 14 MARZO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
pagina 10
Rossella Fabiani
alle pagine 2, 3, 4 e 5 NUMERO
46 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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Per Aldo Moro non ci sarebbe posto nella politica di oggi
Grandi senz’anima Pdl e Pd sono partiti-potere senza identità di Ferdinando Adornato ldo Moro non troverebbe posto nel Parlamento di oggi. Certamente non nel Pdl né nel Pd. Al massimo potrebbe essergli offerto un posto da “professore indipendente”, una sorta di fiore all’occhiello utile a compensare la ben più significativa quantità di candidature assai poco eccellenti. Quel che è certo è che egli non potrebbe in nessun modo aspirare ad alcuna leadership nelle due liste più grandi. Moro è strategia, Moro è valori, Moro è cultura, Moro è senso della storia. Tutte caratteristiche che non appartengono più all’attuale configurazione delle leadership politiche. Oggi, come si sa, la scena è dominata da spot, illusionismi, effetti speciali. Il corpo di Aldo Moro si è spento in un tempo nel quale la politica sapeva, purtroppo, diventare anche tragedia. Ma la sua anima non sopravviverebbe neanche oggi, quando la politica scivola sempre più spesso nella farsa. La nostra è senz’altro una paradossale provocazione. Eppure fotografa in modo incontestabile la realtà di un Paese che, nei trent’anni che ci separano dalla strage di via Fani, ha maturato una sorta di “rottura antropologica” della sua rappresentanza. Un Paese nel quale la qualità della politica è ormai roba d’archivio. Conforta apprendere dai sondaggi che i diciotto-ventenni, quelli che il 13 aprile voteranno per la prima volta, scelgono i partiti che esibiscono un più marcato orientamento etico. Ma non basta a modificare un quadro dominato da una circostanza assai singolare, per non dire inquietante: i due partiti più grandi, il Pdl e il Pd, sono letteralmente “senz’anima”. In altri termini la loro identità politico-culturale è sfuggente, indecifrabile; nella migliore delle ipotesi, è ambigua. Cercheremo di dimostrarlo. Ma anticipiamo subito la tesi finale: possono promuovere una nuova qualità della politica (chiesta a gran voce da tutti gli italiani) partiti che non hanno neanche chiara la loro identità e i loro valori?
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Cominciamo dal Pd di Veltroni. E’ certamente meritorio che il suo nuovo cammino sia iniziato rompendo con la sinistra radicale. E non sbaglia il suo leader ad esaltare
questo “tratto particolare” della sua carta d’identità. Ma non basta, perché a questo modo si esibisce soltanto un’identità“negativa”: non siamo radicali, non siamo antagonisti, non siamo veterocomunisti. Un passo avanti, certo: ma l’identità positiva qual è? Non è per niente chiaro. Il Pd, infatti, non è un partito liberale. Forse si può dire che sia un po’più liberale del cocktail di prima tra Ds e Margherita, ma sarebbe impossibile identificarlo come un partito che affondi le sue radici nei valori del liberalismo. Nessuno dei suoi dirigenti, del resto, accetterebbe tale definizione. Ma il Pd non è neanche un partito di ispirazione cristiana. Forse si può dire che è anche“un po’cristiano”, che evita cioè di apparire un partito anticlericale, ma non si può certo comporne un identikit cristiano o popolare nel senso europeo del termine. Infine: il Pd non è neanche un partito socialista. Anche qui si può forse dire che è “un po’ socialista” e “un po’laicista” (magari un po’ di più di quanto sia liberale e cristiano) ma è nota la fiera resistenza, prima di Prodi e oggi diVeltroni, a certificare l’appartenenza del Pd alla famiglia socialista europea. Sia l’uno che l’altro, coadiuvati da Rutelli, hanno anzi sognato, sarebbe meglio dire vagheggiato, l’improbabile nascita di una nuova “Internazionale democratica”. Ecco allora il cuore del problema: l’aggettivo scelto per definire il partito, il mitico “Democratico”, è abbastanza generico per poter pascolare la propria identità nelle sempre fertili terre dell’ambiguità. Esso acquista senso, e diventa persino suggestivo, solo se consente un forte richiamo all’esperienza politica americana. Ma tralasciando pure di evidenziare le fortissime differenze esistenti tra qualsiasi partito americano e qualsiasi partito europeo, va detto che, oggi, neanche l’evocazione del Partito democratico americano è tale da risolvere con chiarezza il rebus dell’identità. Forse Veltroni pensa all’epoca della sua adolescenza, all’America di John Kennedy (anche se
da ultimo si è accontentato di Lyndon Johnson), e di Luther King, all’America della nuova frontiera. Ma gli Stati Uniti dei Democrats non sono più gli stessi di allora.
Negli anni Ottanta è arrivato Reagan: e ha mutato tutti i paradigmi delle culture politiche mondiali, ivi comprese quelle dei suoi rivali interni. In economia è morto Keynes ed è resuscitato Hayek. Nel rapporto tra morale e politica, l’America dei diritti ha ceduto il passo a quella dei doveri. In politica estera i repubblicani hanno sottratto ai democratici il primato wilsoniano dell’interventismo liberale. Alla fine di questo ciclone ideologico non si sa più bene cosa voglia dire “Democratico”neanche in America, tanto che oggi, in quel partito, la sfida per la Casa Bianca si gioca tra una pragmatica e cinica signora amante del potere, una donna, appunto, senza identità, e un giovane uomo di colore che ha il suo maggiore appeal proprio nell’evocazione kennedyana. Esibendola, Obama può forse convincere un Paese stanco di essere governato da due sole famiglie, i Bush e i Clinton: ma non riuscirà a risolvere la crisi d’identità dei Democrats. Il fatto è che, dopo Reagan, l’America non si governa senza Reagan. (Una riflessione tra parentesi sulle elezioni americane. La kennedyana Camelot dell’integrazione ha fatto figli: e un nero oggi può diventare presidente. Probabilmente se la vedrà con un reduce del Vietnam. Paradossi della storia. Gli Stati Uniti sono sempre capaci di produrre simboli carichi “di valore” e di qualità politica. Noi qui, ai confini dell’Impero, non riusciamo neanche lontanamente a stargli dietro. E’ dunque inutile che cerchiamo di imitarli).
Un po’ liberali un po’ cristiani e magari anche un po’ socialisti. Pdl e Pd sono un po’ di tutto: quindi non sono niente di preciso
Ma veniamo al Pdl. Se Sparta piange Atene non ride. Forza Italia era chiarissimamente un partito liberale. Ma oggi, dopo la precipitosa fusione con An nel Popolo della Libertà, si può dire la stessa cosa? Co-
me è stato già scritto sulle colonne di liberal , ci sono numerosi segni che dicono il contrario. La svolta protezionista e antiglobal del principale esponente liberale di Fi, Giulio Tremonti. La posizione “nazionalista” a difesa dell’italianità di Alitalia presa da Silvio Berlusconi. La candidatura di Loreno Bittarelli, leader della rivolta antiliberale dei tassisti. Infine, la nefasta candidatura di Ciarrapico. Non sono segni da poco soprattutto se si tiene conto del fatto che Berlusconi ha cessato da tempo di evocare la famosa “forza del sogno”della rivoluzione liberale. Si può anche sospendere per ora il giudizio finale, ma l’impressione è che, dopo la nascita del listone con An, il progetto di un partito liberale di massa abbia fatto giganteschi passi indietro. Ma se non è più così chiaramente liberale, può il Pdl definirsi allora un partito d’ispirazione cristiana? Certamente può farlo meglio del Pd e non c’è dubbio che sono tantissimi, al suo interno, i dirigenti e i militanti cattolici o che si ispirano al cristianesimo. Ma la rottura con l’Udc (incomprensibilmente voluta da Berlusconi e Fini) e la definizione scelta dal Cavaliere per il suo partito come “monarchico” nella gestione e “anarchico” nei valori, hanno tolto ai settori cattolico-liberali di Forza Italia la primogenitura e, con essa, qualsiasi forza alla loro bandiera valoriale. Ma c’è di più: può bastare oggi a definire un partito come cristiano il pilatismo di proporre ai propri deputati la cosiddetta“libertà di coscienza”su tutti i temi eticamente sensibili? Finchè sono in discussione divorzi brevi o lunghi, tutto può filare liscio. Ma quando, come oggi capita sempre più spesso, arrivano in Parlamento leggi che riguardano la vita e la morte, l’invadenza della tecnologia sui corpi umani, lo statuto dell’embrione, la possibile alterazione del ciclo naturale dell’esistenza e finanche la clonazione come può un partito cristiano lavarsi le mani con la libertà di coscienza? Si può immaginare una teoria politica che dicesse: «se tu non vuoi uccidere fai pure, ma non togliere a me il diritto di farlo»? Non è un paradosso: è esattamente l’implicita assurda tesi di tante perorazioni laiciste. Sulla vita e sulla morte non c’è libertà
in che di coscienza. Non c’è né per i cristiani né per i liberali. E non ci dovrebbe essere per nessuna persona di buon senso. Eppure è proprio questa la linea scelta prima da Forza Italia (e già contestata tra gli altri da Marcello Pera) e adesso dal Pdl.
La ragione di questa grave ambiguità è chiara. Non è etica, è puramente politica. Il fatto è che tra la corrente cattolica di Forza Italia e quella socialista non si è mai riusciti a trovare una sintesi politico-culturale. Così per non entrare in urto con nessuno si è scelta questa strada di mediazione. Mai sui valori di fondo della vita si può mediare? Lungo questa via anche il Pdl, al pari del Pd, si può definire un partito“un po’cristiano” e “un po’ socialista”. Se si aggiunge che dei suoi due principali leader, il primo, Berlusconi, non ha mai voluto spendere parole chiare sui temi etici e il secondo, Fini, si è schierato nel referendum del 2006 a favore della fecondazione assistita, si ha il quadro di un partito nel quale l’identità cristiana fa capolino solo a corrente alternata a seconda delle circostanze e che appare costretto, anch’esso, a praticare una sorta di“lottizzazione dei valori”tra cattolici e laicisti, nascondendo la propria anima dietro lo scudo della realpolitik. Grandi senz’anima: così appaiono i due colossi elettorali del 13 aprile. Contenitori senza chiari contenuti. Simboli (anzi, marchi come direbbe il Cavaliere) senza identità. Ma come possono definirsi, due macchine politiche la cui fisionomia culturale è così ardua da decifrare e che pure sembrano attirare l’attenzione di milioni di italiani? La politologia non viene in soccorso se non attraverso un’unica possibilità: si tratta di due “partiti-potere” per i quali i valori, la cultura, l’identità, il senso della storia (che Aldo Moro riposi in pace) sono soltanto“funzioni”secondarie dell’obiettivo primario: la conquista delle leve del comando. Due oligarchie rivali (senza più neanche l’appesantimento degli “apparati”) che pretendono dagli elettori carta bianca senza più neanche fare la fatica di presentare loro un chiaro progetto di governo. C’è da dire che, nel 2001 e nel 2006, Berlusconi non era incorso in tale paradosso; ma oggi la fisionomia della sua leadership è cambiata. L’”utilità del voto” (per chi lo riceve, naturalmente) non la sua “bontà”è la colonna sonora dei partiti-potere. La forza dei numeri (sondaggi e voti) non la qualità della politica è il loro passepartout (soprattutto in tv). Le primarie (finte) e i gazebo (manipolabili) non le istituzioni sono il loro habitat.
Immaginiamoci allora cosa potrebbe succedere se questi due partiti-potere senza identità decidessero di stringere tra loro un accordo di potere. Una grande coalizione, che è sempre un ripiego, per non diventare un male ha bisogno di più democrazia, più trasparenza, più qualità della politica, più valori. Cose che oggi, come detto, non circolano. La decadenza della politica, l’opacità e l’ambiguità delle sue identità rischiano, dunque, di aprire un fase ancora più difficile della democrazia italiana. Leggere con intelligenza gli avvenimenti. Questa è diventata, in questi trent’anni, la frase-simbolo del grande statista democristiano. Chi ha a cuore la politica deve seguire, nonostante tutto, il suo consiglio.
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Ma nessuno è ancora riuscito a riprendere il filo del suo discorso
Il politico che capì il futuro di Rocco Buttiglione o conosciuto Aldo Moro nel 1973. Comunione e Liberazione organizzò in quell’anno un grande convegno a Milano, al Palalido. Fu la prima uscita pubblica in grande del movimento di monsignor Luigi Giussani. Moro venne. Era molto interessato a tutto quello che si muoveva nel mondo giovanile e la prima cosa che colpiva era la sua straordinaria capacità di ascolto. Non è vero che durante i colloqui fosse difficile tenerlo sveglio (come ha sostenuto malignamente Henry Kissinger). Semplicemente pensava prima di parlare e soppesava con attenzione ogni parola prima di dirla. Con eguale attenzione soppesava le parole del suo interlocutore per cogliere il nocciolo vivo, l’esigenza autentica espressa da chi gli stava davanti.
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il passato ed il futuro, al confine fra cultura e politica. Pensava infatti che la Dc avesse perso la battaglia sulla cultura e quindi il mondo dei giovani. Intuiva che presto sarebbe venuto un tempo in cui non sarebbe bastato ripetere le vecchie parole d’ordine, le giuste scelte fatte a suo tempo da De Gasperi. Sarebbe stato necessario attingere di nuovo alla fonte degli antichi valori per fare scelte nuove, all’altezza delle sfide dei tempi nuovi. Per queste scelte sentiva inadeguato il partito e per questo guardava con tanto interesse al mondo dei giovani. Poi in un breve volgere di mesi tutto cambiò. Moro guidava una piccola corrente democristiana, certo non era il leader indiscusso e nemmeno per davvero uno degli uomini forti del partito. Quando però il partito davanti alla crisi ebbe bisogno di un pensiero e di una strategia non vi fu nessuno tranne lui che avesse elaborato una idea ed una prospettiva. Allora divenne, improvvisamente e quasi senza averlo cercato il punto di riferimento indiscusso del partito. Cosa era esattamente la strategia di Aldo Moro? È difficile dirlo con
re il superamento delle democrazie occidentali. Avrebbe semplicemente dovuto realizzare la transizione della democrazia italiana verso un modello democratico compiuto. La democrazia italiana era, allora, una democrazia contrattata. I comunisti la avevano accettata a malincuore e solo per metà, come tappa intermedia nel cammino verso il comunismo. Era diffusa nella chiesa comunista il mito della resistenza tradita. La Resistenza era vista come una rivoluzione comunista interrotta a metà e che un giorno sarebbe pur stato necessario completare. Correlativamente la Democrazia cristiana univa un fronte amplio che trovava la sua coesione più sulla necessità di sbarrare il passo alla rivoluzione comunista che sulla affermazione di un insieme di valori condivisi e di una prospettiva di guida per il paese. Andando al governo i comunisti avrebbero dovuto bruciare le loro ambiguità, avrebbero dovuto rinunciare al mito della resistenza tradita a cui si collegavano invece le Brigate Rosse. Nella lotta comune contro il terrorismo si doveva compiere la definitiva democratizzazione (e decomunistizzazione) dei comunisti italiani. Ciò avrebbe avuto naturalmente effetti
Ricordo di un incontro alla prima grande uscita pubblica di Comunione e liberazione e di un lungo dialogo sull’inadeguatezza della Dc, sulle battaglie culturali in cui impegnarsi e sulla definitiva democratizzazione del Pci
Nacque quel giorno una amicizia autentica fra il grande uomo politico democristiano ed il movimento di giovani che era allora Comunione e Liberazione. Di noi diceva che era vero che fossimo integristi, come dicevano i nostri avversari. Aggiungeva però che l’integrismo è una malattia della giovinezza da cui si guarisce sempre troppo presto e che chi non è almeno un po’ integrista da giovane quando è vecchio finisce con l’essere cinico. Nel ’73 Moro si sentiva praticamente emarginato dal partito e non si faceva molte illusioni sulla Democrazia cristiana. Riteneva che avesse una essenziale funzione di difesa di conquiste importanti raggiunte nel passato ma riteneva anche che non avesse più l’energia e la forza per proiettarsi verso i futuro. Per questo lo attirava molto l’idea di una fondazione da costituire per educare alla politica una nuova generazione di cattolici incanalandone le energie per contribuire ad orientare la fase nuova della vita del paese. Per se vedeva, in quel momento, il ruolo di chi media fra
assoluta esattezza ma alcune pietre miliari mi paiono sicure. Moro non era l’uomo del compromesso storico. La strategia del compromesso storico l’aveva elaborata nel corso degli anni Franco Rodano e, sostanzialmente, prevedeva un incontro fra cattolici e comunisti per realizzare in Italia una rivoluzione comunista diversa da quella russa, adatta ad un paese occidentale e che avrebbe potuto fungere da modello per la ripresa del movimento rivoluzionario che si era sostanzialmente esaurito dopo la seconda guerra mondiale. Rodano pensava che la Costituzione italiana segnasse un superamento dei tradizionali sistemi politici occidentali verso una democrazia socialista. Occorreva sviluppare gli elementi di consociativismo già presenti nel nostro sistema per giungere ad una democrazia di tutto il popolo guidata da comunisti e cattolici insieme. Diverso era il pensiero di Moro. Moro credeva che un periodo di governo congiunto di democristiani e comunisti fosse necessario per scongiurare il pericolo della guerra civile che minacciava il nostro paese. Il governo di democristiani e comunisti non avrebbe dovuto durare una epoca storica e neppure segna-
anche sulla Democrazia cristiana, costretta anche essa a cambiare pelle e natura, a trovare una proposta unificante in positivo e, a questo fine, forzata a recuperare le sue radici ideali. Il punto di arrivo sarebbe stata, superata dall’emergenza, non una conferma ed un rafforzamento della anomalia italiana ma un avvicinamento delle forme della lotta politica a quelle degli altri grandi paesi occidentali. Avremmo dovuto avere la fine del consociativismo ed un governo davvero capace di governare ed una opposizione davvero capace di fare l’opposizione.
Poi quel giorno Aldo Moro fu rapito. Ricordo che quel mattino mi telefonò Salvatore Azzaro per dirmi: «Moro ti vuole vedere oggi pomeriggio in Via Savoia». Poco dopo arrivò la notizia del rapimento. Molte delle cose che poi sono avvenute sono andate nella direzione immaginata da Moro. I processi politici hanno una loro oggettività. Questi processi politici, però, non sono stati guidati da nessuno e la grande riforma di cui l’Italia ha bisogno ancora non si è compiuta. In realtà nessuno è ancora riuscito a riprendere il filo del discorso che Moro allora andava componendo.
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Breve storia per chi non ricorda la storia
Terribile ’78 l’anno in cui iniziò la Grande Crisi di Arturo Gismondi l 16 gennaio 1978, il terzo governo Andreotti, il primo dei due che guidò di quello che si è convenuto di chiamare il periodo della «solidarietà nazionale», si dimise. Il governo si era costituito nel luglio 1976, dopo le elezioni del 20 giugno vinte assieme a giudizio degli osservatori politici dalla Dc (con il 38,7 per cento dei voti) e dal Pci (con il 34,4). Il governo era un monocolore dc e venne definito «della non sfiducia», una formula inconsueta che doveva, nelle opinioni dei più, avviare la marcia del Pci verso l’area di governo. Presentatosi alla Camera il governo ebbe 258 sì, essenzialmente quelli della Dc, 303 astensioni, quelli del Pci più i socialisti, il Psdi e il Pri, e ci furono 40 voti contro della destra missina.
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La crisi che ne seguì segnò un punto di svolta nella politica di alleanza fra la Dc e il Pci, fu il risultato di un periodo tutt’altro che tranquillo, perché segnato dalla scontentezza dei comunisti e dalle attese degli altri partiti laici per una soluzione chiaramente innaturale, una sorta di galleggiamento su di un Paese che ribolliva di tensioni, di violenze che apparivano, ed erano il prodromo di una rivoluzione irrealizzabile e irrealizzata che andava seminando però il Paese di morti ammazzati, di un terrorismo che presagiva un peggio che appariva prossimo a venire. E che proprio nel corso della crisi esplose con la cattura, e la morte, del segretario della Dc Aldo Moro. Così era trascorso il 1977, un anno annus horribilis nel corso del quali si formò, fuori delle istituzioni e per quel che conta alla sinistra del Pci, un’area estesa dai caratteri di crescente eversione. Fra l’altro, all’inizio dell’anno, il 17 febbraio, il segretario della Cgil fu cacciato
con la violenza dall’Università di Roma e l’evento venne accolto con estremo allarme dalla sinistra di governo. Anche perché le violenze dilagarono nei mesi successivi nel Paese, con una sequella di morti, di feriti, di gambizzati, vittime di elementi ormai passati alla lotta armata e al terrorismo.
La situazione indusse il Pci a reclamare una diversa situazione politica e di governo, auspicata peraltro in qualche modo anche da partiti, il Psi, il Psdi e il Pri, che fino allora avevano solo fatto da corona, più o meno silenziosa, all’alleanza fra i due vincitori delle elezioni politiche. Non mancò neppure chi si fece portatore di un ingresso diretto del Pci, coi suoi ministri, nel governo della Repubblica. Fu Ugo La Malfa che in una intervista a Repubblica, assumendo a pretesto un discorso pronunciato da Berlinguer a Mosca nel corso delle celebra-
quale escluse subito l’eventualità di un ingresso del Pci al governo. Sostenne però la possibilità di un passo avanti, la formazione di un programma nel corso del quale si sarebbero tenute presenti le posizioni dei diversi partiti, ai quali si chiedeva di passare dall’astensione al voto favorevole nei confronti del governo. Questa posizione venne da Moro sostenuta anche nei confronti di Berlinguer. Stando al racconto fatto da un uomo vicino a Moro, il consigliere e amico Tullio Ancora, al segretario del Pci il quale lo invitava a tenere conto della sequela di valentuomini, intellettuali, artisti, persino uomini della borghesia imprenditoriale che avrebbero visto con favore la svolta, ricordò i tanti uomini comuni, di condizione modesta, che non avevano modo di farsi ascoltare dai giornali ma che sarebbero stati decisamente contrari.
A Moro si deve il tentativo
Dopo un lungo braccio di ferro con la Dc sulla composizione del governo, il Pci era incerto se votare o no la fiducia ad Andreotti il 16 marzo del 1978. La strage di via Fani indusse Berlinguer al «sì» zioni del sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre parlò di «una svolta politica nettissima» che giustificava l’ingresso del Pci nel governo. E questo, mentre i sindacati organizzavano a Roma una grande manifestazione popolare chiedendo una «decisa svolta politica». Fu questo ribollire di posizioni che indusse Andreotti, dopo una riunione dei partiti che sostenevano il governo, a concludere che erano venute meno le ragioni dell’alleanza e ad aprire la crisi. Nel corso delle riunioni che ne seguirono fu decisiva la posizione assunta da Aldo Moro, il
di superamento dell’estremo ostacolo posto dal Pci, che a proposito della composizione del governo pose il veto alla presenza nel governo di alcuni ministri. Andreotti si sarebbe anche piegato alla richiesta, Moro fu decisamente avverso, e ricollocò al loro posto nella lista i due esclusi, che erano per la cronaca Donat Cattin e Bisaglia. La Dc, argomentò Moro, si assume la responsabilità di costituire il governo e non può accettare, nelle sue file, elenchi di esclusi, sarebbe un principio pericoloso che non possiamo riconoscere a nessuno. A questo punto, ancora ferme
Aldo Moro con Enrico Berlinguer ad un vertice Dc-Pci. Nelle altre foto: Moro presidente del Consiglio mentre parla alla Camera, Moro con Oscar Luigi Scalfaro e Moro prigioniero delle Brigate Rosse al punto della presenza o meno dei due ministri contestati erano le trattative per la formazione del governo. E non sapremo mai quale sarebbe stata la decisione dei comunisti, che avevano buone ragioni di consentire alla formazione del nuovo governo ma ne avevano anche di contrarie. Non lo sapremo perché la mattina fissata per la riunione del Parlamento e per il voto piombò sul Paese la notizia della cattura di Moro e della uccisione dei cinque uomini della scorta. Il Parlamento, che avrebbe dovuto ascoltare le dichiarazioni programmatiche di Andreotti decise di votare per il governo, che passò alla Camera 545 sì e 30 no, e al Senato con 267 sì e 5 contrari.
Il Paese visse con dolore e con ansia i 55 giorni della prigionia di Moro. Le forze politiche, i partiti e la stessa opinione pubblica si divisero fra il partito della fermezza, che aveva il suo nucleo duro nel Pci, al quale si aggiunse gran parte della Dc, e il partito della trattativa, che aveva come esponente più attivo e deciso Bettino
Craxi, al quale si affiancarono i radicali di Pannella, qualche voce isolata, o incerta dello scudo crociato. La Dc visse eventi penosi, le lettere che Moro faceva pervenire dal luogo ove era custodito, e nelle quali chiedeva di non essere abbandonate, vennero messe in discussione, non si riconobbe in esse l’autore, e fra coloro che sostennero questa tesi vi furono alcuni dei suoi amici più stretti. Quando, il 9 maggio del 1978, il corpo di Moro venne fatto ritrovare a bordo di un’auto fermo in Via Caetani, a cento metri dalla sede del Pci in Via delle Botteghe Oscure e altrettanto distante dalla sede della Dc in Piazza del Gesù, la maggioranza di governo era profondamente divisa e si ricompose solo per il funerale solenne in San Giovanni in Laterano, Al quale non partecipò la famiglia che giudicava non si fosse fatto abbastanza per salvare la vita del loro congiunto. Nella maggioranza che continuava formalmente a sostenere il governo la vicenda di Moro continuò a lungo a costituire motivo di divisione: da una parte si continuava a denunciare
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l’abbandono e il deliberato sacrificio di Moro, dall’altra si stigmatizzavano i tentativo di avviare trattative pericolose per la Repubblica. E al centro di coloro che avevano predicato o che avevano tentato la via della trattativa era la figura di Craxi vista da allora dal Pci e dal gruppo dirigente della Dc come potenzialmente nemico dell’unità nazionale. In effetti, nulla come la predicazione craxiana aveva contribuito a infrangere quell’oggetto fragile che era la solidarietà nazionale. Il Pci di Berlinguer viveva momenti di grande disagio, avvertiva come un vicolo cieco la strada appena confermata dal voto obbligato al nuovo governo di Andreotti. Avvertiva anche nell’uccisione di Moro la scomparsa di una personalità che, pur nella sua fermezza, assicurava una garanzia di credibilità ad un’alleanza precipitata dopo di lui in condizioni di sbandamento. Ciò spiega l’importanza del tutto sproporzionata attribuita al risultato di alcuni turni di elezioni amministrative svoltesi alla fine del mese di maggio nelle quali la
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Dc e il Psi apparivano in ascesa, il Pci per la prima volta dava segni di cedimento. E vennero avvertiti come segni di cedimento democratico i risultati di due referendum indetti dai radicali, uno contro la legge Reale sull’ordine pubblico, un altro sul finanziamento dei partiti, nei quali i voti favorevoli apparvero assai superiori al peso dei promotori. Il fenomeno venne scambiato per un cedimento dell’ordine democratico, un’affermazione di spinte irrazionali di populismo, per ondate di jacquerie e di anarchismo. Ad esplodere, invece, fu una
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cuse, del resto già cadute, di un coinvolgimento del Quirinale, o di ambienti vicini, nel famoso «caso Lockheed». Ma la campagna si nutrì in modo più subdolo, più insistente, di servizi, di voci, di gossip attorno a una conduzione del Palazzo che finiva per coinvolgere col presidente il suo entourage e la famiglia. Al punto di giustificare la richiesta, che trovò d’accordo i vertici del Pci come quelli della Dc, di suggerire a Leone di concludere la sua presidenza sei mesi prima della fine del mandato. Il compito fu assegnato al senatore Paolo Bufali-
ragat, e le minacce lo colpivano in quel che aveva di più caro, la famiglia, i figli. Sui giornali italiani apparve, un giorno della metà di giugno, l’auto presidenziale che usciva dal Quirinale, e dietro il vetro il viso sconvolto di donna Vittoria Leone.
Cominciò a Montecitorio la lunga sequela di votazioni, dietro le quali si muovevano giuochi al solito indecifrabili. Si seppe in seguito, e seppe chi scrive, che il candidato comunista, e di una parte della Dc, era Ugo La Malfa, possibile garanzia di un’alleanza nella quale il Pci cercava una estrema ragione di fiducia. Ancora una volta, però, fu Bettino Craxi a rompere i giuochi. Rifacendosi alla tradizione di una successione al Quirinale fra Dc e socialisti chiese esplicitamente che «questa volta l’eletto deve essere un socialista». Fu la Dc a non avere il coraggio di tentare una strada che avrebbe isolato il Psi schierandola però senza coperture dalla parte del Pci. Fu un sociali-
L’uccisione di Moro destabilizzò il quadro politico e istituzionale. Poco dopo la campagna sul «caso Lockheed» costrinse Giovanni Leone a lasciare il Quirinale crisi al vertice dello Stato non del tutto chiara e mai del tutto chiarita a tanti decenni di distanza. La tempesta nacque sotto forma di una campagna di stampa condotta, peraltro, da gruppi editoriali solitamente vicini alla sinistra, in testa fra tutti quello che Craxi definiva il «partito giornalistico» di Scalfari. Furono dapprima ac-
ni per il Pci, al segretario Zaccagnini per la Dc. Che all’uopo salirono separatamente al Quirinale. Giuseppe Saragat, al quale venne chiesto in seguito come avrebbe reagito se qualcuno avesse rivolto a lui le richieste rivolte a Leone rispose: «Li avrei fatti arrestare dai corazzieri». Leone non aveva l’animo di Sa-
sta, ma non fu Vassalli, come voleva Craxi, o Giolitti. Fu Sandro Pertini, che era il socialista più vicino al Pci e alla Dc, che si dimostrò in grado di assicurare una presidenza di pace fra le forze politiche, ma che non poté continuare una storia ormai conclusa. Nei mesi successivi, il governo Andreotti sopravvisse alle ragioni che ne avevano suggerito la sopravvivenza. Alla prima iniziativa di un qualche rilievo in campo internazionale, l’adesione al Sistema monetario europeo, o Sme, il Pci voterà contro uscendo si fatto dalla maggioranza, e mettendo fine alla politica di solidarietà nazionale, insieme alla strategia di lungo periodo del compromesso storico. Il voto sullo Sme forse fu uno schermo dietro al quale si agitava la tempesta che stava per scatenarsi in seguito alla collocazione dei missili sovietici nell’Europa orientale, puntati sui paesi occidentale. Andreotti, comunque, si dimetterà il 31 gennaio 1979 e così finì l’operazione politica avviata - e indicata come l’avvio di una svolta storica - per portare i comunisti al governo.
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g i o r n o
Casini: «Berlusconi vuole la grande coalizione» «Credo che l’obiettivo a cui sta lavorando Berlusconi sia la grande coalizione. Se fosse una soluzione per i problemi degli italiani e non per i problemi loro, sarebbe positivo. Ma Berlusconi sa che il Pdl è troppo poco credibile e troppo spostato a destra per governare l’Italia. Dopo qualche mese avrebbe milioni di persone in piazza. Per questo vorrebbe fare il governo con Veltroni». Così il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, in un’intervista al settimanale L’Espresso, risponde al giornalista che gli chiede se creda o meno all’ipotesi di grande coalizione dopo il voto di aprile. Secondo Casini. «in Italia la grande coalizione, per essere credibile, non può essere guidata da uno dei contendenti: né Berlusconi né Veltroni». Commentando l’ipotesi di due “papabili” per questo incarico, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi e il presidente uscente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, Casini spiega: «Non mi piace il gossip sui nomi, ma sono due persone che stimo molto».
Ferrara: «Due milioni di voti e 30 deputati»
I leader centristi contro la candidatura di Ciarrapico
Ppe: «No ai fascisti» di Susanna Turco
ROMA. «Nel partito popolare europeo non c’è spazio per i fascisti». Passano i governi, passano le ere, ma l’adagio si conferma anche stavolta: tocca all’Europa inchiodare la provincialissima Italia su quelle contraddizioni che anche da noi si vedono, ma che spesso finiscono per attorcigliarsi in dispute oscure. Così anche ieri, da Bruxelles, i leader del Ppe, con qualche stringata dichiarazione, hanno detto una parola piuttosto definitiva sull’utilità che un personaggio come Giuseppe Ciarrapico sia candidato alle elezioni e soprattutto sull’opportunità che a portarlo in parlamento sia un partito che indica nel Ppe il punto di riferimento della sua azione politica. «Nel Partito popolare europeo non c’è nessuno spazio per i fascisti», è infatti il semplice e duro il commento di Jean-Claude Juncker, premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo, riguardo alla candidatura di Ciarrapico nel Pdl di Berlusconi. «Io non conosco questo signore - ha aggiunto rispondendo alle domande dei giornalisti - e non so se si dichiari davvero fascista. Posso dire che nel Ppe non c’è posto per i fascisti». Parole alle quali hanno fatto eco quelle del presidente del Parlamento europeo Hans Gert Poettering che, pur non commentando direttamente la candidatura dell’imprenditore laziale, ha espresso le sue perplessità: «Non ho intenzione di interferire nella campagna elettorale italiana, posso solo dire che io sono contrario
a ogni forma di estremismo». Reazioni tiepidissime, per non dire di ghiaccio. «La questione - ha spiegato più cautamente il presidente del gruppo dei popolari europei al Parlamento, Joseph Daul - non è all’ordine del giorno del partito. Ora lasciamo passare la campagna elettorale in Italia, poi analizzeremo il problema».
Quel che Berlusconi mostra di considerare un dettaglio, insomma, pare proprio che sia fondamentale per i leader politici europei. Lo sottolineano anche nel Partito democratico, dove per una volta si dismette l’abituale fair play nei confronti di Berlusconi:
Casini: «Questa è solo la punta dell’iceberg». Ronconi: «Berlusconi rischia di costruire un partito che somiglia al Front National di Le Pen» «Evidentemente - ha osservato Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd - non bastano le smentite, le assicurazioni padronali del genere ”ci penso io, Ciarrapico non conterà nulla”. Le dichiarazioni sulla inammissibilità di una forza politica che si gingilli disinvoltamente con la rivendicazione di appartenenza fascista di propri candidati nelle liste, rende chiaro anche ai più distratti osservatori
italiani che la svolta compiuta dal leader del Pdl comporta una rottura profonda con il voto moderato e con la storia condivisa della democrazia italiana».
Le considerazioni svolte dai leader europei a margine del vertice del Ppe di Bruxelles, infatti, indicano una contraddizione che va al di là della singola candidatura, del caso particolare. Insomma: Berlusconi vuole ispirarsi al Ppe, ma nel momento in cui sposta a destra il Pdl mette forse a rischio il suo partito di riferimento, e certamente mette a rischio il proprio. In altre parole: «La vicenda Ciarrapico rappresenta solo la punta di iceberg», ha detto ieri Casini ai colleghi europei: «Il problema della Mussolini è certamente più significativo. La questione è che il Partito popolare europeo non può diventare di estrema destra perché rischia di snaturarsi e di dimezzare i suoi voti in Parlamento». Ancora più esplicito è stato il centrista Maurizio Ronconi: «Berlusconi con il Pdl voleva fare il partito popolare. Ora con Ciarrapico e la Mussolini rischia di trovarsi fuori dal popolari europei. Tutti conoscono l’assoluta insofferenza del Ppe e particolarmente della sezione più importante, quella tedesca, nei confronti del fascismo dei suoi eredi e dei suoi nostalgici. Altro che Ppe - ha concluso - Berlusconi rischia di costruire un partito che assomiglia molto di più a quello di Le Pen». E sarebbe il colmo: per Gianfranco Fini, soprattutto.
«Io parlo di idee, e non leggo questi sondaggi». Cosi il direttore del Foglio, Giuliano Ferrara, a margine di una conferenza stampa convocata per parlare dell’inchiesta genovese su presunti aborti clandestini, commenta il sondaggio pubblicato da Repubblica.it, secondo il quale la sua lista “Aborto, no grazie” si fermerebbe allo 0,8%. Noi invece, aggiunge Ferrara, «avremo due milioni di voti e 30 deputati alla Camera». Grazie ai quali, conclude Ferrara, «porteremo in Parlamento questioni politiche vere».
Tremonti: «Mai più condoni» La stagione dei condoni è finita. Non è più tempo di sanatorie e regolarizzazioni. Ma ovviamente non è nemmeno il momento di introdurre nuove tasse. Per Giulio Tremonti, che i critici hanno descritto come il ministro della finanza creativa e dei condoni, «non ci sono più le condizioni per fare i condoni». L’ex ministro, che Berlusconi ha già indicato come possibile titolare dell’Economia se il Pdl vincerà le elezioni - spiega che il ricorso ai condoni della scorsa legislatura non è stato preso a cuor leggero: «Non l’ho certo fatto volentieri, ma perché costretto dalla dura necessita».
Rai, sinistra contro il duopolio Tre ore di sit in di fronte a Viale Mazzini per chiedere un’informazione che dia spazio a tutte le forze politiche non limitandosi a riproporre solo «il duopolio della politica» di Pdl e Pd. E per denunciare una «emergenza democratica» che potrebbe «distorcere» il risultato delle elezioni. Questo il senso del presidio organizzato dalla Sinistra Arcobaleno ieri davanti alla sede della Rai
Della Vedova: «Il silenzio di Veltroni su Hamas» «Mentre il ministro degli esteri D’Alema ha deciso di chiudere il suo mandato come l’aveva aperto - ha dichiarato ieri Benedetto Della Vedova, presidente dei Riformatori Liberali e deputato di Forza Italia - del tutto indifferente alla tensione politico-diplomatica innescatasi con Israele, Veltroni continua a tacere. Una cosa è certa e spiega le difficoltà di Veltroni. In questo caso non è possibile stare con Israele “ma anche” con Hamas».
D’Onofrio: «Campagne elettorali distinte Camera-Senato» «Nessuno si illuda di far credere che esista un cosiddetto voto utile: nessun partito può infatti vincere le elezioni politiche in entrambe le Camere sulla base del medesimo voto». Lo sottolinea il capogruppo dell’Udc al Senato, Francesco D’Onofrio, che spiega come «sono infatti due le campagne elettorali: una nazionale per il premio di maggioranza alla Camera dove, tra l’altro, nessun partito avrebbe da solo una maggioranza autosufficiente; l’altra, per la conquista del premio di maggioranza regione per regione al Senato, senza che vi sia alcuna somma nazionale dei voti».
politica
14 marzo 2008 • pagina 7
Bonanni saluta l’elezione della Marcegaglia in Confindustria
«Emma, abbiamo tanto da lavorare» colloquio con Raffaele Bonanni di Francesco Pacifico
ROMA. Di primo acchito a Raffaele Bonanni scappa un «allora saremo più galanti». Poi il segretario generale della Cisl si accorge che la battuta non è delle più azzeccate per commentare la nomina di Emma Marcegaglia a presidente di Confindustria. Ed è lestissimo a chiarire: «Non sono mica maschilista, io. Dico soltanto che c’è sempre da sperare nel pragmatismo delle donne. Eppoi con Emma ho lavorato: sa cosa sono le relazioni industriali e, soprattutto, le aziende». Bonanni, che fa, ancora con la storia della Confindustria troppo attenta alla finanza? A quanto mi risulta la Marcegaglia viene da un’azienda, ci è cresciuta. E la dirige pure. Ha iniziato giovanissima la sua attività in Confindustria, conosce le regole e le responsabilità delle relazioni aziendali. È una seria, non parvenu. Ma non credo che cambierà il nostro rapporto con Confindustria. Che mi sembra buono. Buono? Ma se il vicepresidente Bombassei, con il sindacato, non vuole nemmeno andare a cena. Lo dice a me che mi lamentavo sempre perché queste riunioni, sulla riforma dei contratti per giunta, non si tenevano mai in orari canonici? No, Bombassei, non lo capisco: non lo dirà mai, ma le organizzava lui queste cene per venire incontro a chi non era pronto a una trattativa diretta. Sarà, ma sul modello contrattuale è tutto fermo. Più che fermi, si va a rilento perché il tema è delicato, suscita divisioni in pezzi di sindacato e di Confindustria. Ma non vedo nulla di nuovo: come se è una trattativa del genere non sia un esercizio di pazienza e costanza… Che cosa consiglia alla Marcegaglia? Quanto avevamo suggerito a chi l’ha preceduta: di iniziare da tre punti semplici. Il primo è lo sfoltimento dei contratti, il secondo definire con Confindustria azioni per sensibilizzare l’Istat su quelle voci non considerate appieno come gas, elettricità e acqua. E che oggi fanno sì che il caro vita, uffi-
cialmente al 2,9 per cento, sia inferiore di almeno un punto rispetto alla realtà. Insieme dovremo lavorare a strumenti di misurazione migliori. Il terzo suggerimento? Per sviluppare la contrattazione aziendale bisogna abbattere le tasse sul secondo livello. Semplice, no? Questi erano i punti che avevamo definito. Detto questo, Dio solo lo sa perché siano
Il segretario della Cisl sottolinea: «È cresciuta in azienda, ha una consolidata esperienza di relazioni industriali» esplosi prima Angeletti e poi Bombassei. E dovranno spiegarcelo. Come Epifani dovrà spiegarci cosa lo spinge a fare il gioco delle scatole cinese, allungando i tempi di adozione di un documento unitario sui contratti, redatto da nostri prestigiosi segretari confederali, con la supervisione dei segretari generali. Compreso lui. La sua spiegazione? La verità? C’è scarsa abitudine al realismo. Sono stufo di pensare che debba essere il governo a intervenire se non c’è accordo tra sindacati e gli imprenditori su un problema serio come i salari. Problema riconosciuto da tutti, ma le soluzioni sembrano diverse. Io affermo che in Italia i salari scontano le tasse alte e la scarsità dei servizi. Che sono inefficienti e molto costosi. Ep-
Il neopresidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. A sinistra, il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni poi lo scambio contrattuale non avviene nel livello più virtuoso. Quello aziendale? Appunto. È a
tutti quelli che credono nel progetto. È questo che la gente vuole. Altrimenti chi avrà la forza di intervenire sull’energia che è un extracosto per le aziende del 40 per cento? Oppure chi dice alle 103 università o ai 103 aeroporti sul territorio che sono troppi e vanno razionalizzati? Se poi vogliamo tenerci le lobby che comandano sottobanco… Intanto la Marcegaglia ha annunciato un vicepresidente ad hoc per la sicurezza del lavoro.E lo fa per venire incontro ai lavoratori, come alle aziende che rispettano le norme sulla sicurezza. Ma al nuovo presidente chiedo altre due battaglie. Quali? Dalla Marcegaglia vorrei sentire una parola chiara per mettere al bando tutte quelle imprese che, giocando al massimo ribasso, non rispettano le norme sulla sicurezza, espongono i lavoratori al rischio della morte e procurano un danno alle imprese virtuose, distorcendo le regole della concorrenza. L’altra? Le proporrò una battaglia comune contro lo scempio che permette di trasferire le indennità sulla sicurezza impropriamente nelle casse dello Stato, come è successo ultimamente con 12 miliardi dell’Inail. Un problema che dovrebbe stare a cuore a Confindustria, visto che sono soldi che pagano le imprese.
Il sindacato si attende dai nuovi vertici di viale dell’Astronomia una battaglia comune su salari, sicurezza del lavoro e subappalti questo livello che ci guadagnano l’azienda e il lavoratore. Che si comprende come gestire gli orari e applicare la flessibilità per far funzionare meglio gli impianti, come aumentare la qualità del prodotto, quanto investire in formazione. È per questo che mi scaglio contro non vuole detassare gli straordinari, perché li vede come strumento che toglie occupazione. Tranne la sinistra Arcobaleno, la politica è tutta compatta sul secondo livello. Perché ha seguito il sindacato e le aziende. Ma per rinnovarsi, per dare soluzioni ai problemi, si deve arrivare a una grande coalizione. Berlusconi e Veltroni vanno verso questa direzione? Lo spero, ma devono partecipare
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L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Qualcuno è (ancora) comunista
Il governo non c’è ma è già in crisi di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza Prima di entrare nel vivo della campagna elettorale - sempre che verrà questo momento, poiché i prodromi inducono alla mosceria - vale la pena soffermarsi ancora un attimo sui 173 contrassegni ammessi alle elezioni. Dall’analisi che abbiamo iniziato nella rubrica di ieri, si possono trarre alcuni trend: per esempio, sul comunismo. E’ noto che in Italia abbiamo avuto il più importante Partito comunista dell’Occidente, per numeri e autorevolezza. Ed è altrettanto noto che Walter Veltroni dopo anni di tentennamenti e bolognine abbia compiuto il fatale passo di distanziarsi definitivamente dalla sinistra massimalista che oggi sotto il loghino anodino delll’Arcobaleno oltre ai vari rifondatori mantiene al suo interno forze ancora più reazionarie come quella dei Verdi. Lontani i tempi dell’egemonia trinariciuta, resite in ogni caso,Veltroni permettendo, una mitologia comunista e di sinistra caparbia che si sostanzia anche graficamente in numerosi simboli che troveremo forse sulla scheda: ci sono il “partito dei Comunisti Italiani”, il “Partito della Rifondazione Comunista”, la “Sinistra Critica”, la “Iniziativa Comunista”, il “Partito comunista italiano marxista-leninista”, il “Partito di Alternativa Comunista”, il “Partito Comunista dei Lavoratori”e per finire la “Lista Comunista per il blocco po-
polare”, tutti e otto con la loro bella trionfante falce e martello. Il che potrebbe da un lato significare che la spezzettatura delle varie anime, ha impedito, tra tesi e antitesi, a un qualsiasi leader di trovare una sintesi accettabile. Dall’altro lato che dietro il volto comunque governativo di Fausto Bertinotti e Alfonso Pecoraro Scanio, un magmatico mondo non ha ancora fatto i conti con la storia credendo che le opinioni e le interpretazioni valgono più della realtà. Oppure come scherzava Gaber, qualcuno è comunista perché è nato in Emilia, qualcuno è comunista perché si sente solo, qualcuno è comunista perché ha avuto un’educazione cattolica, qualcuno è comunista perché Berlinguer era una brava persona; qualcuno è comunista perché Andreotti non era una brava persona, qualcuno è comunista perché è ricco, ma ama il popolo, qualcuno è comunista perché è così ateo che ha bisogno di un altro Dio, qualcuno è comunista perché è così affascinato dagli operai che vuole essere uno di loro, qualcuno è comunista perché non ne può più di fare l’operaio, qualcuno è comunista perché vuole l’aumento di stipendio, qualcuno è comunista perché guarda solo Rai3, qualcuno è comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione…
Manca un mese al voto, non c’è un vincitore, non c’è un governo, ma già abbondano i ministri. Mara Carfagna alla Famiglia, Montezemolo alle Attività Produttive, Daniela Santanché all’Economia, Massimo Cacciari ministro per il Nord-est non meglio specificato. Il Walter nega la scelta di Luca Cordero, ma ha nella manica un asso: «No, no, ribadisco che è ancora un po’ presto per fare i nomi dei ministri, anche se qualcuno lo farò prima del voto». Intanto, fioccano già le prime dimissioni. Il filosofo Cacciari chiama in causa anche un’eventuale altissima chiamata: «Io sono disponibile unicamente a finire ‘sto tormento il più rapidamente possibile e tornare a fare il professore. Non sono disponibile a fare il ministro, neanche se me lo chiede Veltroni. Ma neanche se me lo chiede il Padre Eterno». Per un ministro che si è dimesso ecco una ministra che si avanza. «Noi stiamo galoppando», dice Storace, «Berlusconi dovrà ricredersi. Quando vedrà i risultati e comprenderà che la maggioranza l’avrà alla Camera e non al Senato, dovrà venire da noi». A quel punto «vogliamo Santanché ministro dell’Economia». Ma Alessandra già ne chiede le dimissioni: «Mai Santanché ministro perché La Destra non avrà né deputati né senatori». Che record: il governo non c’è ancora, in compenso è già in crisi.
Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda
Il sondaggio dei sondaggi la media di oggi Demosk. Swg Demos Ipsos Crespi Digis Ipr 11 marzo
11 marzo
10 marzo
10 marzo
10 marzo
9 marzo
7 marzo
Pdl+Lega
Centro
Pd+Idv
Sin-Arc
Destra
Socialisti
44,4
6,5
36,9
7,1
2,3 (=)
1,1
(+0,1)
2,5 2,2 1,9 2,1 4,2 1,5 2,0
0,5 1,0 0,9 0,9 2,0 1,0 1,5
(+0,4)
(-0,3)
(+0,3)
(-0,2)
45,0 42,7 45,2 45,3 43,8 45,9 43,5
7,0 5,5 6,0 6,7 7,4 7,0 7,0
36,0 38,2 38,5 37,8 34,8 36,7 36,5
7,1 6,7 6,2 6,0 7,0 7,1 7,5
La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.
di Andrea Mancia Due nuovi sondaggi pubblicati ieri dagli organi di informazione. Il primo è quello di Demos per Repubblica sulle intenzioni di voto del 5-10 marzo. Rispetto all’ultimo sondaggio Demos (20 febbraio), la coalizione guidata da Berlusconi (45,2%) ha una flessione dello 0,2%, mentre quella guidata da Veltroni (38,5%) perde lo 0,5%. In particolare, PdL e Pd scendono rispettivamente dell’1,2% e dell’1,6%. Un calo solo parzialmente compensato dalla crescita di Lega Nord (+1%) e Idv (+0,8%). La distanza tra le due coalizioni passa dal 6,4% al 6,7% a favore del centrodestra. Mentre il Centro scende (-1%), crescono la Sinistra Arcobaleno (+0,4%), la Destra (+0,9%) e i Socialisti (+0,1%). Il secondo sondaggio è quello
realizzato da Ipsos per Ballarò (10 marzo). Rispetto alla scorsa settimana, la coalizione guidata da Berlusconi (45,3%) guadagna lo 0,8%, mentre quella guidata da Veltroni (37,8%) resta stabile. In crescita anche la Sinistra Arcobaleno (+0,5%), mentre il Centro perde lo 0,2%. La Destra guadagna lo 0,3%, mentre i Socialisti accusano una lievissima flessione (0,1%). Nella nostra tabella, i sondaggi Demos e Ipsos prendono il posto di quello di Ipsos e Lorien del 3 e 6 marzo. Nelle medie, il PdL recupera lo 0,4% e il Pd cresce dello 0,3%. Questa leggera polarizzazione dello scenario causa la flessione del Centro (-0,3%), mentre la« Sinistra Arcobaleno recupera lo 0,1%. Stabili Destra e Socialisti.
14 marzo 2008 • pagina 9
L’ITALIA AL VOTO
I saggi della Repubblica. Viaggio tra passato e presente/Achille Occhetto
«Il vero voto utile è contro questo finto bipartitismo» colloquio con Achille Occhetto di Errico Novi l pericolo è sottovalutato ma lo si può ancora scongiurare, dice Achille Occhetto: «Dietro queste elezioni c’è un colpo di mano: la decisione di utilizzare il vecchio sistema di voto come se fosse già passato il referendum. L’accordo tra le due forze maggiori», secondo l’artefice della svolta dal Pci al Pds, «introduce il rischio di un regime oligarchico trasversale. Bisogna incoraggiare tutte le forze contrarie a questa deriva: il vero voto utile a difendere la democrazia sarà quello dato a loro». Il bipolarismo starebbe insomma per risolversi in una palude semi autoritaria. Eppure la Seconda repubblica sembra aver fallito proprio l’obiettivo di semplificare e accelerare le decisioni. «Parto da una impostazione critica diversa, francamente. Nelle democrazie moderne le questioni sono due: la governabilità, certo, ma anche la rappresentanza, la discussione politica dei problemi. Con le decisioni non accompagnate dall’aspetto rappresentativo si arriva a soluzioni sostanzialmente autoritarie. E una rappresentanza senza capacità di prendere decisioni porta a posizioni protestatarie. In questi anni bisognava arrivare a un mix tra le due esigenze, e non ci si è riusciti». Di fatto lei dichiara il fallimento della Seconda Repubblica, la fine di un’illusione. «La Prima Repubblica non è stata sempre come tendiamo a ricordarla. È entrata in crisi, dopo aver funzionato a lungo, quando si è creata una situazione di stallo politico ma soprattutto di dissesto per le finanze pubbliche. A quel punto serviva un elemento di chiarezza che consentisse decisioni più veloci. Ma nemmeno questa direzione è stata seguita con coerenza». Sembrano tornare le condizioni di quindici anni fa: stallo politico e crisi economica. Come si fa a dare al bipolarismo una forma compiuta, se ancora è possibile? Va bene la svolta bipartitica impressa da Berlusconi e Veltroni? «Le svolte positive arrivano se c’è una forte volontà di attuarle. Ora mi pare che le energie siano tutte concentrate per portare alle estreme conseguenze il decisionismo puro. E ripeto: ci vuole una forte resistenza da parte delle formazioni contrarie al duopolio Berlusconi-Veltroni». Ma nell’elettorato la consapevolezza dei rischi di cui lei parla è davvero già diffusa? «Allo stato attuale c’è obiettivamente una corsa forsennata verso la soluzione bipartitica. Il vento improvviso ha spalancato la finestra, ha fatto volare i fogli per aria e cadere le suppellettili… Poi vedrete come andrà: quando si saranno acquietati i colpi d’artiglieria si avvertirà l’esigenza di ripensare seriamente l’assetto politico. Anche perché non credo che dal punto di vista istituzionale la situazione reggerà a lungo. Il prossimo governo nasce su basi malferme». C’è un’analogia forse sottovaluta con il ’94. Quattordici anni fa il bipolarismo è nato all’improvviso, non ci fu il tempo di elaborare le basi su cui impiantare il nuovo schema, e il vizio d’origine ha probabilmente causato l’ingolfamento di questi ultimi anni. Non si rischia anche stavolta di partire col piede sbagliato per troppa
I
fretta, e di trascinarsi difetti che poi emergeranno sul medio termine? «La fretta corrisponde alla fragilità dei contenuti, svela l’impreparazione strategica. Si è deciso di sussumere dentro i due partiti più grandi tutte le aporie che c’erano nelle coalizioni e che sono destinate a saltare fuori più avanti. Anziché due Poli alternativi sono stati allestiti dei circhi barnum». Ma lei ci crede o no nel bipolarismo? «Sono per una prospettiva bipolare ma non per il bipartitismo. E resto dell’idea che si realizzò con la ”carovana”dell’Ulivo prima versione: il senso di quell’iniziativa che ho condotto personalmente è in un processo di osmosi da attuare gradualmente, in modo da fondere le diverse culture politiche». E invece la costruzione del Pd le sembra fragile. «Assolutamente. La prova è nelle affermazioni con cui Veltroni ha spiegato la coesistenza di radicali e teodem. Ha detto una cosa formalmente giusta: un vero partito laico tiene insieme laici e cattolici. È una frase di Gramsci. Solo che la rilettura di Veltroni è una presa in giro: possono coesistere laici e cattolici, non i laicisti con gli integralisti religiosi. Cosa c’è di laico nell’integralismo?». Lei dice che è un’operazione compiuta in modo banalizzante. «Tutto nasce dall’impulso di mettere insieme le forze in poco tempo. Il discorso vale anche per le candidature simbolo: si può anche individuare un imprenditore, ma io immaginerei di trovare nel Pd uno alla Olivetti, e Calearo nel Pdl. Così come è problematico l’accostamento tra Ciarrapico e la Nirenstein. D’altra parte in questi anni governare è sempre stato il fine, non il mezzo per dare un futuro al Paese». Nella Prima Repubblica non era così? «Certe assurdità nelle candidature non si sarebbero mai viste in partiti sorretti da culture solide. Non dico nella Dc, nel Pci o nel Psi, ma nemmeno nel vecchio Pri». E comunque lei è convinto che le fragili basi culturali porteranno a una rapida crisi istituzionale. «La debolezza finirà per emergere quando ci si confronterà con le sfide poste dai terribili problemi strutturali di questo ciclo economico». L’impoverimento della società italiana non rischia di compromettere anche la capacità dell’elettorato di reagire agli errori della politica? «Siamo in una situazione gravissima soprattutto perché abbiamo perso gli anticorpi necessari a superare la recessione. L’etica è finita sotto i piedi e questo ha determinato una perdita di fiducia da parte dei cittadini. Nei momenti drammatici le istituzioni devono chiamare a raccolta il Paese, e in casi del genere l’immagine della politica conta molto. Se è compromessa come in questo momento gli appelli restano inascoltati e il Paese non reagisce». Come ne usciamo, Occhetto? «L’ho detto: con la resistenza delle forze contrarie al bipartitismo. Guai ad astenersi, a costo di votare scheda bianca. Io al seggio ci andrò e voterò scheda rossa, sarà un voto utile. Come quello dato a Casini. L’importante è rispondere al duopolio».
«Si rischia un regime oligarchico trasversale», dice l’uomo della Bolognina, «sono per Bertinotti ma va bene anche sostenere Casini»
pagina 10 • 14 marzo 2008
mondo
Ancora ignote le cause del decesso ma il prelato era morto da cinque giorni
si conferma la zona più pericolosa per la comunità cristiana, la cui presenza è scesa di un terzo rispetto al 2003. Soltanto nel 2007 sono stati 47 i cristiani uccisi in Iraq, di cui almeno 13 a Mosul: un grande tributo di sangue versato da questa diocesi. Numerosi sono stati gli attacchi a obiettivi cristiani. L’ultima ondata di violenze si è registrata tra il 6 e il 17 gennaio di quest’anno, quando una serie di esplosioni ha colpito prima la chiesa caldea della Vergine Immacolata, poi quella caldea di San Paolo, quasi distrutta. E ancora, l’entrata dell’orfanotrofio gestito dalle suore caldee di al Nour, una chiesa nestoriana e il convento delle suore domenicane di Mosul Jadida.
Assassinato l’arcivescovo caldeo di Mosul di Rossella Fabiani morto l’arcivescovo caldeo di Mosul, mons. Paulo Faraj Rahho, rapito il 29 febbraio scorso dopo la Via Crucis celebrata nella chiesa del Santo Spirito nella parte orientale della città. I rapitori stessi hanno indicato il luogo dove recuperare il corpo del vescovo: un terreno abbandonato fuori città, usato anche come discarica. «Una grande Croce per la nostra Chiesa prima della Pasqua», è stato il commento di mons. Rabban al Qas, vescovo di Arbil. Ancora ignote le cause del decesso, ma secondo l’autopsia fatta all’ospedale di Mousl, il vescovo era morto da cinque giorni. I funerali sono previsti per oggi nella vicina cittadina di Karamles, dove sono stati sepolti l’autista e le due guardie del corpo. Mons. Rahho, 67 anni, riposerà vicino a padre Ragheed, il suo sacerdote e segretario ucciso il 3 giugno 2007 all’uscita dalla messa da un com-
È
mando terrorista. Quattordici giorni di sequestro, tanto è durato il suo martirio, con trattative difficili che da subito avevano preoccupato per la totale assenza di contatti diretti con l’ostaggio. Tra le condizioni poste dai rapitori oltre ad un ingente riscatto nell’ordine dei milioni di dollari, si è parlato anche di forniture di armi e della liberazione di prigionieri arabi nelle carceri curde.
Non è chiaro chi ci sia dietro il rapimento di mons. Rahho, ma quasi sicuramente si tratta di al Qaeda. Il gruppo terrorista si è ricomposto a Mosul e in altre zone della provincia di Ninive dopo essere stato smantellato da Baghdad e Anbar e ora potrebbe avere bisogno di denaro per riorganizzarsi. Roccaforte sunnita nel nord del Paese, Mosul è praticamente sotto il controllo di terroristi e milizie religiose. Solo da poche settimane il governo di Baghdad e le forze
I funerali del religioso si terranno oggi nella cittadina di Karamles
Paulo Farj Rahho, arcivescovo di Mosul. La città si conferma la più pericolosa per la comunità cristiana, la cui presenza è scesa a un terzo rispetto al 2003. Secondo una lista stilata da AsiaNews, per l’anno passato il bilancio delle vittime di azioni violente in Iraq è di 47 morti, di cui almeno 13 solo a Mosul. Foto credit: Padre Amer Youkhanna Usa avevano deciso di lanciare un’operazione militare per “ripulire” la zona. Una situazione di cui la gente soffre indipendentemente dall’appartenenza religiosa. Ma i cristiani vengono messi ancora davanti a scelte ben precise: oltre alla fuga, la conversione all’islam, il pagamento della jizya (la tassa di “compensazione” chiesta dal Corano ai sudditi non-musulmani) o la morte.
Anche il Papa si è detto «profondamente colpito e ad-
dolorato» e si augura che «questo tragico evento richiami ancora una volta e con più forza l’impegno di tutti e in particolare della comunità internazionale per la pacificazione di un Paese così travagliato». Per il rilascio del vescovo si erano espressi numerosi leader musulmani, sunniti e sciiti, in Iraq, Libano e Giordania, che hanno anche condannato il gesto come «contrario all’Islam». Ma questo non è bastato. E con la morte di mons. Rahho la città di Mosul
A nulla è valso l’appello dell’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako: «Non siate indifferenti a questa sofferenza, non lasciateci soli in questa fatica. L’Occidente non si abitui a guardare le violenze in Iraq come “un fatto normale”, ma alzi ancora la voce contro le ingiustizie che affliggono il Paese e mostri solidarietà alla sua popolazione». «In una situazione così critica – aveva aggiunto – non si può rimanere indifferenti nei confronti dei fratelli cristiani. Ci chiediamo dove sia la carità, l’amore, la compassione». «Pregate per noi, condividete la nostra sofferenza, preoccupazione, speranza e aiutateci concretamente a rimanere nella nostra terra e denunciare le nostre ferite. Un segno, una presenza o un gesto ci aiuteranno a testimoniare la nostra fede e fraternità universale». «La vicinanza dei vescovi, dei religiosi e dei fedeli nel mondo – aveva supplicato – ci darà una spinta energica a continuare a sperare nella pace e nella convivenza interreligiosa».
L’omicidio di monsignor Rahho è l’ultimo atto di una persecuzione contro i cristiani iracheni i loro pastori
Un crimine pianificato da chi vuole «solo musulmani» in Iraq Justo Lacunza Balda uccisione di mons. Paolos Faraj Rahho, arcivescovo cattolico dei cattolici caldei a Mosul, è una ulteriore prova del disegno dei terroristi islamici in Iraq. Il paese dei due fiumi deve essere liberato dalle comunità cristiane e deve diventare uno Stato islamico. Con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Perché la jihad dei fondamentalisti islamici va indirizzata contro i cristiani iracheni, cioè contro i cittadini dello stesso paese. Non è solo una dichiarazione di guerra, ma una persecuzione programmata nel nome dell’Islam dai difensori di un Iraq per “solo musulmani”. Gli attacchi, i rapimenti e le estorsioni contro i cristiani sono iniziati poco tempo dopo i primi bombardamenti della capitale irachena. Attentati contro i luoghi di culto, uccisioni di preti e pastori cristiani.Terre, negozi e proprietà dei
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cristiani confiscati e “restituiti”ai musulmani. Cittadini cristiani cacciati dalle loro abitazioni con la forza. Perciò la morte brutale di mons. Rahho non è un fatto isolato, ma una azione pianificata nel tempo e nei minimi dettagli. Per colpire, da una parte, i cattolici caldei uccidendo il loro pastore e dall’altra per attentare contro la Chiesa Cattolica, sfidando con la spada la Sede di Pietro. Infatti, Benedetto XVI si è esposto in prima persona chiedendo la liberazione immediata di mons. Rahho, rapito il 29 febbraio. Il pastore dei caldei cattolici è stato ucciso mentre i cristiani di tutto il mondo si preparano a celebrare la Settimana Santa, cioè la passione, la morte e la risurrezione di Gesù. Ma il crimine di Mosul pone sul tavolo una delle questioni fondamentali dei nostri tempi: la libertà religiosa per le minoranze cristiane nei pae-
si musulmani. Occorre essere molto chiari su questo argomento. Sono gli Stati dei paesi di maggioranza musulmana che devono garantire la libertà religiosa delle minoranze cristiane. La libertà di culto è un diritto umano sancito nella Carta dell’Onu dei Diritti dell’Uomo (1948), calpestato in continuazione davanti all’indifferenza generalizzata. E’ un fatto che con l’atteggiamento antioccidentale, anticristiano e antiebreo del terrorismo islamico le minoranze cristiane nei Paesi islamici vivono nella paura e nell’insicurezza. Algeria, Egitto, Etiopia, Indonesia, Iraq, Libano, Malaysia, Nigeria, Pakistan, Somalia, Sudan, sono alcuni degli Stati dove i cristiani sono stati vittime di atti di discriminazione, di odio e di violenza. Dove sono i paladini musulmani dei diritti umani per difendere la libertà di culto dei loro fratelli cristiani?
mondo
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Le mosse di Mosca in quattro aree del Caucaso che vogliono l’indipendenza
Il conto del Kosovo lo pagherà la Georgia? di Fernando Orlandi
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Il 19 febbraio a Tiraspol, “capitale” della Transdnistria, è stata rilasciata una dichiarazione ufficiale in cui si chiede con urgenza, a seguito di quello del Kossovo, il riconoscimento della propria indipendenza: «si è creato un nuovo modello nella soluzione dei conflitti, basato sul diritto prioritario dei popoli all’autodeterminazione». Anche l’Abkhazia ha fatto sentire la sua voce, mentre Dmitrii Ragozin,
Abkhazia e Ossetia del sud, Nagorno Karabach e Transdnistria si preparano alla secessione sperando nel Cremlino l’uomo politico anti-occidentale che Vladimir Putin significativamente ha nominato quale rappresentante permanente (ambasciatore) della Russia alla Nato, si è affrettato a far sapere che i territori separatisti della Georgia potrebbero secedere se la Nato allacciasse rapporti più stretti con Tbilisi (una minaccia che sarà indubbiamente valutata al prossimo vertice dell’alleanza atlantica, previsto per il 2-4 aprile in Romania).
Prima l’Ossetia del sud e poi l’Abkhazia hanno chiesto alla comunità internazionale il riconoscimento della loro indipendenza. In contemporanea Mosca ha tolto formalmente (di fatto era ben altra faccenda) le sanzioni commerciali che gravavano sull’Abkhazia fin dal 19 gennaio 1996. Il gesto è stato immediatamente percepito a Tbilisi nella sua portata. Il Ministero degli esteri ha diramato una nota in cui si afferma che «questo passo può essere considerato come un tentativo mascherato di violare l’integrità e la sovranità territoriale della Georgia e di incoraggiare il separatismo». La decisione di Mosca è il segnale di una politica di «annessione», ha dichiarato il presidente del Parlamento georgiano Nino Burzhanadze nel corso di un incontro a Bruxelles con la stampa internazionale, facendo osservare la tempistica dell’annun-
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Trattato Ue, la Polonia non firma? La mancata ratifica del nuovo Trattato Ue di Lisbona da parte della Polonia sarebbe “una tragedia” secondo il presidente del Parlamento europeo, Hans Gert Poettering. Lo ha dichiarato arrivando al pre-vertice del Ppe che tradizionalmente precede il Consiglio europeo di Bruxelles che si è aperto ieri. La ratifica polacca del Trattato di Lisbona, approvato faticosamente l’anno scorso superando le resistenze che venivano soprattutto da Varsavia e Londra, è stata messa in discussione dopo la richiesta del capo dell’opposizione, Jaroslaw Kaczynski, di inserire un preambolo in cui si riafferma il primato della Costituzione polacca rispetto al nuovo Trattato comunitario.
Eutanasia, in Francia esplode il caso Sebire Abkhazia, Ossetia del sud e Nagorno Karabach. L’integrità di Georgia, Armenia e Azerbaigian è in gioco. Nel Caucaso il mosaico etnico ideato da Stalin potrebbe esplodere. Con rischi di guerre nella regione da cui nemmeno Mosca sarebbe al riparo
ietro all’etichetta “conflitti congelati”si trovano quattro situazioni critiche, in realtà non del tutto omogenee. Sono conflitti che datano dall’epoca sovietica e tra l’altro permettono alla Federazione Russa una manipolazione ad ampio spettro. I quattro conflitti sono quelli fra azeri e armeni per il Nagorno Karabakh (occupato dagli armeni), l’autoproclamata secessione della Repubblica del Transdnistria in Moldova e le secessioni dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia in Georgia. A seguito del riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo si sono verificati degli sviluppi interessanti. Lo scorso 2 marzo si sono tenute, in violazione delle leggi della Moldavia, le “elezione presidenziali russe” in Transdnistria. Petr Darenko, rappresentante della locale commissione elettorale, ha sostenuto che l’apertura dei seggi nella repubblica separatista, «mostra non solo la volontà delle nostre autorità di rispettare il diritto al voto dei cittadini russi che vivono nei confini della nostra repubblica, ma anche il fatto che la Russa comprende e approva tale iniziativa». A Chisinau, invece, non hanno apprezzato.
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cio: «Lo hanno fatto ieri perché tutti a Mosca sapevano che era in corso una riunione ministeriale Nato, è stato un messaggio non solo per la Georgia, ma anche per la Nato. L’obiettivo principale della Russia è di creare ostacoli al nostro cammino verso la Nato». Commentando la vicenda, il quotidiano russo Kommersant faceva osservare come Mosca abbia giocato sulle sanzioni economiche imposte alla Georgia come metodo di pressione: queste non si sono mai estese ai territori secessionisti.È invece sempre più evidente come questa rimozione formale delle sanzioni abbia una duplice motivazione: da una parte la pressione sempre più decisa esercitata su Tbilisi affinché desista dalle sue aspirazioni di accedere alle istituzioni transatlantiche; dall’altra l’intenzione di coinvolgere l’Abkhazia nell’organizzazione dei giochi invernali di Sochi nel 2014.
L’allarme per questi sviluppi è cresciuto anche a Bruxelles, dove normalmente i tempi di reazione alle vicende post-sovietiche sono assai lenti. Dopo aver riaffermato che l’Unione Europea sostiene in modo fermo l’integrità territoriale della Georgia, il commissario alle relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner ha dichiarato che «c’è una crescente preoccupazione e ansietà che la Russia si stia preparando la strada che porta al riconoscimento dell’Abkhazia». Proprio per questo, Polonia e Svezia hanno chiesto che l’Unione Europea si impegni maggiormente e in modo più attivo per favorire la stabilizzazione della Georgia, in vista delle prossime elezioni parlamentari di maggio.
Interviene l’Eliseo sul caso di Chantal Sebire, la donna di 52 anni affetta da un tumore devastante al volto che si è rivolta alla giustizia per ottenere assistenza medica per un atto di eutanasia. Il presidente Sarkozy ha proposto di richiedere un consulto medico «di professori universitari al massimo livello» e ha chiesto al suo consigliere speciale sulle questioni di ricerca e sanità, professor Arnold Munnich, di mettersi in contatto con la donna. Intanto sia il ministro della Giustizia, Rachida Dati, che il premier francese, Francois Fillon, si sono dimostrati scettici sulla possibiltà che la donna ottenga una risposta affermativa alla sua richiesta, visto che la domanda di eutanasia di Sebire non rientra nel quadro della legge. La normativa in materia, che risale al 2005, contempla in alcuni casi l’eutanasia passiva, il lasciarsi morire con la sospensione del trattamento medico, ma non permette ad un medico di intervenire attivamente per indurre la morte.
Iran, riformisti senza speranze I riformisti iraniani sono ormai rassegnati ad accontentarsi dei pochi seggi del Consiglio consultivo (il Parlamento iraniano) che otterranno nelle elezioni politiche di domani a causa dell’annullamento delle candidature di numerosi loro esponenti. Sembra che alcuni abbiano già deciso di partecipare alle elezioni presidenziali del 2009. Mohsen Armin, il teorico dei Majahidi della rivoluzione islamica, uno dei più affermati partiti riformisti, ha affermato che il successo dei riformisti alle elezioni del 2000 e del 2004 non si ripeterà perché il potere in Iran non consentirà il ripetersi di una simile esperienza.
Cuba/1 Sette calciatori in fuga Sono in fuga dal regime dell’Avana sette giocatori della nazionale di calcio cubana under-23: i calciatori hanno deciso di rimanere negli Stati Uniti facendo perdere le loro tracce. Cinque di loro si sono dileguati, martedi’ scorso, poche ore dopo aver disputato a Tampa, in Florida, una partita contro la selezione statunitensi, nel Torneo Preolimpico di Calcio della Concacaf. E altri due sono spariti poco dopo, abbandonando l’albergo in cui si trovava la squadra.
Cuba/2 In vendita computer e dvd Cuba autorizza la vendita di computer e dvd. Si tratta della prima iniziativa di Raul Castro volta ad alleggerire le restrizioni imposte alla popolazione.
Rivolta del pane in Egitto Non passa un giorno senza che la stampa egiziana dia notizia di qualche morto o ferito fra i cittadini che fanno la coda per ottenere il pane pagato dal governo, che costa una “piastra” al pezzo (meno di un centesimo di dollaro), dopo che la crisi del pane si è fatta sentire in tutte le famiglie egiziane, in seguito all’aumento del prezzo della farina sul mercato internazionale. Le risse alle code per il pane finiscono sempre più spesso in coltellate e colpi di pistola.
L’Uganda sfida l’Aja Il presidente ugandese Yoweni Museveni sfida la Corte penale internazionale annunciando che i ribelli dell’Esercito di resistenza del Signore (Lra) accusati di crimini di guerra verranno processati in patria e non presso l’Alto tribunale dell’Aja. Il leader del movimento di resistenza, Joseph Kony, e altri quattro comandanti della stessa milizia verranno processati da corti ugandesi per stupro, mutilazioni e uccisione di civili.
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speciale approfondimenti
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Carlo Ripa di Meana per liberal racconta l’incontro con il deputato texano protagonista della guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica
CHARLIE WILSON UNA SERA DEL 1981 A ROMA di Carlo Ripa di Meana aro Direttore, confesso che da alcuni anni cerco di non perdermi neppure una sola critica cinematografica di Anselma Dell’Olio. Ma in questi ultimi giorni si è aggiunto un supplemento di riconoscenza. Ho letto quello che Anselma ha scritto su liberal a proposito del film La guerra di Charlie Wilson, e poi l’ho sentita, a notte alta, parlarne nella trasmissione Rai Cinema di Gigi Marzullo. Conclusioni: sono corso a vedere il film. Dopo due giorni sono tornato a rivederlo. Non solo condivido il suo giudizio positivo, ma condivido l’interesse dei tantissimi spettatori che ne hanno fatto un successo anche di cassetta (a Roma è ancora in prima visione in quattro cinema da più di un mese).
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Io, il deputato del Texas Charlie Wilson, nel film interpretato da Tom Hanks, e la miliardaria texana Joanne Herring, nel film Julia Roberts, li ho incontrati una sera alla fine del 1981 in una magnifica casa a Via XXIV Maggio, a un tiro di schioppo dal Quirinale, nella saletta privata del cinema di Roberto e Mirella Haggiag, nel loro grande appartamento sotto quello ancora più panoramico che allora abitavano a Roma Gianni e Marella Agnelli. Roberto Haggiag mi aveva invitato con Marina, sapendo che dal dicembre del ’79 cercavo, come deputato europeo, dopo
aver lanciato il Comitato internazionale di solidarietà presieduto da Norberto Bobbio, di aiutare la resistenza afghana in Italia e nella Comunità europea. Avevo avuto contatti con il leone della Valle del Panjshir, il tagiko Ahmad Shah Massud, il più vittorioso tra i capi della resistenza, il più colto e laico; il re afghano in esilio a Roma, Grotta rossa, Zahir Shah, con tutti i suoi collaboratori militari, politici e diplomatici; con il Presidente Sayedahmed Gailani, primo consigliere politico in Europa del re; con Sibghtullah
nista, Gulbuddin Hekmatyar. Alla fine della lunga proiezione, dopo essersi slogato il mento in uno sbadiglio di almeno dieci secondi, Roberto Haggiag dice: «Mi pare noiosissimo e realizzato con materiale di repertorio e propaganda. È impossibile usarlo per la causa in Italia. Essendo la causa quella di raccogliere fondi per aiutare la resistenza all’Armata Rossa». La serata fu sterile. Non furono raccolti fondi, non ci furono impegni a distribuire un documentario così crudemente antisovietico.
Non era Tom Hanks ma un tracagnotto con enormi polsini inamidati Mojaddedi, presidente dell’Alleanza islamica dei Mujahiddin e infine con Homayoun Assefy, capo della segreteria diplomatica del re, incaricato di tutte le missioni diplomatiche internazionali e residente a Parigi. Dunque, con il cuore dalla parte non fondamentalista della resistenza interna. Contrapposta all’Hezb-e-Islami, il partito più diffuso e organizzato della resistenza, espressione del radicalismo fondamentalista della rivoluzione islamica, e guidato dall’ingegnere, allora filo-khomei-
A distanza di tanti anni, ripensando con uno spietato esame di coscienza a quanto anche in cose importanti abbiano spazio gli umori, devo riconoscere che forse Wilson non era Tom Hanks ma un tracagnotto con enormi polsini inamidati e gemelli a forma di staffa molto vistosi, e che teneva su le brache con una cintura di serpente a squame con la borchia di un mustang al galoppo, e che, soprattutto, Joanne Herring non era esattamente Julia Roberts, ma neanche la voluttuosa, lucidissima e autoritaria
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La sua vera storia di Nicola Procaccini n pochi sapevano di Charlie Wilson. Per fortuna, il bel film di Mike Nichols gli ha reso giustizia ed ha riportato alla luce la storia dell’uomo che aiutando i guerriglieri mujaheddin in Afghanistan inflisse ai sovietici la più clamorosa sconfitta di tutta la guerra fredda. Una debacle militare, politica ed economica di proporzioni tali che per molti analisti fu propedeutica al disfacimento dell’Impero sovietico, iniziato appena un anno dopo, il 9 novembre del 1989 a Berlino. Charlie Wilson, nato a Trinity in Texas, compirà 75 anni il prossimo 5 giugno, ed è stato recentemente sottoposto ad un trapianto di cuore, ma sta benone. Questa è la sua vera storia. Fu dapprima un poco stimato ufficiale della marina americana ed in seguito un ancor meno stimato deputato al Congresso per il Partito Democratico. Nonostante tutti gli abbiano sempre riconosciuto arguzia ed intraprendenza, il giudizio su Wilson è stato condizionato dalla sua burrascosa e piuttosto libertina vita privata, che in America si sa, è più importante di quella pubblica. La sua attrazione smodata per le donne ed il whisky gli fruttò il soprannome di «Good Time Charlie». Charlie si buttò in politica mentre era ancora regolarmente in servizio. Contravvenendo alle leggi dell’esercito. Era stato conquistato dal fascino di John Fitzgerald Kennedy ed aveva deciso di candidarsi comunque per il seggio
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A sinistra il deputato texano Charlie Wilson, 74 anni A destra l’attore Tom Hanks, 52 anni, che lo ha interpretato nella pellicola di Mike Nichols. Sopra la locandina del film
parlamentare di Austin in Texas. Gli fu impedito dal comando militare di fare la campagna elettorale, ma i suoi parenti ed amici ingaggiarono in nome e per conto suo uno sfrenato «porta a porta» che lo porterà nel 1961 ad appena 27 anni, al congresso degli Stati Uniti d’America. Da allora è stato rieletto ben 11 volte fino a quando, nel 1996, deluso dai democratici, decise di ritirarsi dall’agone politico. Nei suoi trentacinque anni di attività, comunque, Charlie ebbe modo di mettersi parecchio in evidenza. Si batté per l’aborto, per i diritti civili, e per il dittatore Somoza in Nicaragua. Ma la sua impresa più importante fu certamente l’aver sostenuto il popolo afgano nella lotta di liberazione dall’invasore sovietico. Convinse l’allora presidente repubblicano Reagan a stanziare ingenti finanziamenti per il sostegno agli afgani, riuscì a collegare in una fitta rete di interessi reciproci l’Egitto, il Pakistan ed Israele, ed infine si servì della Cia, in particolare dell’astuto agente Gust Avrakotos, per inviare le armi ai mujaheddin e per addestrarli a sconfiggere i sovietici. Il 14 aprile del 1988, l’Unione Sovietica si dichiarava battuta e proclamava l’uscita dall’Afghanistan. Gli afgani inneggiavano i loro eroi Ahmad Shah Massud e Charlie Wilson. Da lì a poco se ne sarebbero andati anche gli americani, purtroppo le loro armi invece no. Ma questa è un’altra storia.
Barbara Hutton, la sgranocchia uomini. Il mito delle miliardarie americane con cui sognavo di sparire un giorno, anche se fatalmente con la brevità di Porfirio Rubirosa, in qualche dintorno di Tangeri verso Huelga. No, la Herring, invece, era una donna con capelli a spirale stretti da una lacca, con al collo una stola di zibellino conclusa, a sua volta, da una dozzina di palline di zibellino perlato per i due lati pendenti. Il contrario dei miei sogni, e mi fecero cadere le calze. Parlai senza incanto con Wilson e la Herring, e mi dissero che loro contavano comunque di ottenere molti fondi dal Congresso per acquistare armi, soprattutto in Medioriente, con una partita di giro che includeva Israele e l’Arabia Saudita, e con l’accordo politico riservato oltre che degli Stati Uniti anche della Gran Bretagna, per farle arrivare ai combattenti quanto prima. Soprattutto missili portatili terra-terra capaci di perforare i carri armati sovietici, e missili portatili terra-cielo per tirar giù i micidiali elicotteri blindati da combattimento Mi24. Quell’incontro fu, però, tutt’altro che sterile per l’azione futura.
Finalmente, a un anno e mezzo dall’invasione, avevo avuto una diretta testimonianza della decisione che maturava nella politica americana: uscire dalla condanna verbale e passare, con una guerra segreta, ad armare i resistenti afghani utilizzando i sistemi d’arma efficaci e di ultimissima generazione
per attaccare i carri, i blindati e gli elicotteri sovietici. Fino alla liberazione di tutto l’Afghanistan. Qualcosa che poi nel 1982 avvenne e durò fino al febbraio del 1989. Quasi dieci anni di occupazione da parte dell’Armata Rossa, progressivamente incalzata e portata al ritiro per le meraviglie dei missili terra-terra Milan, capaci di penetrare le blindature dei carri armati, e i missili terra-aria ultima meraviglia tecnologica dell’armamento, i micidiali Stinger a ricerca di calore che decimarono gli elicotteri da combattimento Mi24 e i temutissimi cacciabombardieri Mig. Ricordo che ci fu una lunga riflessione prima di scegliere gli Stinger poiché, da parte americana, saudita e israeliana, uniti in questa ricerca di armi da consegnare in una gigantesca partita di giro, si voleva fugare l’impressione dei sovietici che si trattasse tecnologia statunitense direttamente consegnata dagli americani ai combattenti afghani.Tant’è che per lungo tempo si pensò di rinunciare agli Stinger e di servirsi invece di un missile terra-aria, anch’esso di buona fabbricazione e ultima tecnologia, il britannico red eye. Ricordo oggi che di questa tecnologia apprezzavo soprattutto il nome letterario dato all’arma, chiamata appunto occhio rosso, alla ricerca del calore dei motori degli aerei e degli elicotteri. Dunque, anche l’Italia, che allo-
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speciale approfondimenti
segue da pagina 13 ra aveva Presidente del Consiglio dei Ministri Giovanni Spadolini, il primo Ministro laico dal dopoguerra, Ministro della difesa il socialista Lelio Lagorio e Ministro degli esteri Emilio Colombo, in qualche modo, attraverso quel contatto, si sentì interpellata su un possibile suo impegno, sia pure riservato, di natura militare. Del resto, poche settimane dopo a Firenze, in un incontro internazionale promosso dal nostro Comitato a Palazzo Vecchio, sot-
lungo tempo a Roma del Sovrano in esilio Zahir Shah considerato, da tutte le Cancellerie del mondo, come il solo possibile garante della operazione non fondamentalista intrapresa. Il nostro lavoro finì per coincidere con quello che il film di Tom Hanks racconta oggi con grande interesse: i contatti con i sauditi, che portavano un fiume di dollari stipati in lucide valige di coccodrillo caricate sugli aerei della Pakistan International Airline-PIA. I sauditi portatori di dollari avevano capelli, sguardi, corpi smilzi che prean-
E come accadde al deputato americano, l’indomani spedì anche noi a visitare i campi profughi nella zona tribale della North West Frontier Province, nell’area tribale del passo Khyber.
L’Italia, insomma, aveva esordito, a dieci mesi dal ponte aereo dell’Armata Rossa sugli aeroporti afghani alla fine del dicembre 1979 per portare con i grandi Andropov le truppe, con un Convegno convocato da Mondoperaio, per decisione del suo direttore Federico Coen. Mondoperaio era la rivista del
L’Italia fu al fianco dei mujahiddin nella loro lotta to la presidenza di Norberto Bobbio, fu adottato all’unanimità dei presenti, 192 partecipanti tra afghani, europei, americani, australiani, un testo politico che così concludeva: «Noi rivolgiamo un appello ai Governi perché riconoscano la resistenza afghana come soggetto internazionale e forniscano ad essa e al popolo afghano ogni possibile aiuto umanitario, specialmente viveri e medicinali, e poi senza esitazioni finanziario e militare».
In qualche modo quanto accadde allora in Italia, e lo affermo con fondamento, fu, insieme al sostegno degli Stati Uniti, l’aiuto cruciale nella guerra segreta Afghanistan versus Unione Sovietica. Un impegno che apparve sin dai primi giorni naturale per la presenza ormai da
nunciavano una eleganza ambigua: dei Fabrizio Corona ante litteram con quel tocco azzimato e insieme sguaiato di chi porta soldi con, in più rispetto al nostro campione italico, dei baffetti alla Adolphe Menjou. Come il deputato Charlie Wilson del Texas, abbiamo anche noi deputati Europei, lord Nicholas Bethell, Gérard Israel ed io, incontrato il 28 gennaio 1983 il Presidente pakistano Generale Zia ul-Haq a Islamabad, che sulle mappe del subcontinente indiano con un’asta di legno ci indicava le vie della spinta sovietica verso i mari caldi che costituiva la sua valutazione strategica dell’occupazione dell’Afghanistan stesso, sottolineando che gli afghani non si aspettavano aspirine dai paesi occidentali, ma cose molto concrete, medicinali ed armi.
Partito Socialista Italiano, che lo organizzò il 25-26 settembre del 1980 a Roma. Parteciparono intellettuali e uomini politici italiani, francesi e spagnoli, e una rappresentanza del Consiglio islamico per la liberazione dell’Afghanistan. Da allora l’Italia si impegnò molto. Dall’Italia non partirono armi, né l’Italia partecipò, per quanto so, a nessuna partita di giro a questo proposito. Però dall’Italia partirono molti soldi, anche molti soldi socialisti, che furono rimessi soprattutto a
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Ahmad Shah Massud e agli ambienti politici e militari legati alla monarchia. Moltissimi medicinali, apparecchi per la chirurgia e per interventi ortopedici e macchine di rianimazione. In particolare di questo si occupò Edoardo Agnelli, con la sua fidanzata del tempo Vera Arrivabene. Edoardo Agnelli mi chiese di poter avere un ruolo, motivato dalla sua particolare sensibilità culturale, maturato nella sua ricerca spirituale e religiosa verso l’islam, la sua religione e la sua fede Sufi, a questo spinto dall’influenza delle musiche di Franco Battiato e, appunto, in questa direzione ci furono molti aiuti ai Mujahiddin.
La stampa italiana, quella scritta, radiofonica e televisiva, diede un generoso contributo, con un grandissimo inviato speciale del Corriere della Sera, Ettore Mo, con Fausto Biloslavo e Mino Damato cui si deve una memorabile diretta satellitare nel gennaio 1983 in mezzo ai colpi dell’artiglieria sovietica sulle postazioni dei Mujahiddin oltre il Khyber Pass, ormai a ridosso della capitale. Mino Damato quella sera stabilì un contatto audio con il Presidente Pertini, che parlò in diretta esprimendo la solidarietà italiana alla resistenza, ormai armata, all’Unione Sovietica. E con il sacrificio della vita di un avventurosissimo e temerario giornalista ticinese, Raffaele Favero, travolto da un carro armato so-
Edoardo Agnelli mi chiese di poter avere un ruolo, motivato dalla sua fede
vietico appena catturato dai Mujahiddin nel Corridoio del Wakhan.Vi fu un impegno di alcuni grandi artisti e scrittori, Alighiero Boetti, Ugo Attardi, Giulio Turcato, Alberto Moravia, Goffredo Parise, e di tanti dissidenti come Carlos Franqui, Arthur London, Rudolph Bahro, Pelikán, Mikhail Voslensky, autore in quegli anni di un memorabile libro pamphlet “Nomenklatura”, guida ai segreti del Potere sovietico. Poi lo svolgimento a Stoccolma del Tribunale Russell, seguito dalla seconda sessione, concluso a Parigi il 20 dicembre 1983 con la condanna dell’Unione Sovietica per l’invasione. In ambedue le sessioni, a nome del Comitato, avevo presentato una documentazione con testimonianza diretta. L’incontro a Washinghton il 10 marzo 1982 con il Presidente Reagan e il capo del Consiglio di sicurezza George Bush Senior con la delegazione del Parlamento Europeo guidata da Egon Klepsch, Presidente del gruppo popolare a Strasburgo, con lo storico inglese lord Nicholas Bethell e con me. Si stabilì, in quella trasferta, una consultazione politica organizzativa permanente con l’Amministrazione Reagan. Nella seconda riunione, quella senza il Presidente Reagan, che si svolse al grande tavolo del National Security Council, presieduta da George Bush Senior, io fui incenerito da una risposta stile Cobra con gli occhiali che Gorge Bush Senior mi saettò dopo una mia domanda non proprio sensibile: «Noi in the European Community vorremmo sapere da Lei,Vicepresidente, dopo aver ascoltato con grandissimo interesse le frasi di appoggio e piena solidarietà per la resistenza afghana, quali saranno i fatti sul terreno per i Mujahiddin». Dopo qualche secondo, a voce bassissima, lenta e chiara, Bush Senior, guardandomi appunto come l’agente Cobra con gli occhiali a specchio, così sillabò: «Verranno i fatti, molti fatti, come capita quando si muovono gli US. Piuttosto, è un vivo augurio di questa nostra amministrazione che dopo tante frasi europee vengano dalla CEE finalmente dei fatti». Ho il ricordo di Norberto Bobbio che a Firenze, a Palazzo Vecchio, così commentò: «Ho letto che Bukovsky, dissidente russo, uscendo dal Parlamento Europeo avrebbe esclamato: “qui la paura dei sovietici si taglia col coltello”. Possibile che siamo giunti a tanto? Non lo voglio e non lo posso credere. Non ricorre subito alla nostra mente nel ripetere queste parole all’Europa dopo Monaco, quando il terrore di Hitler paralizzò lo spirito della resistenza europea? Non lo posso credere,
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è radicalmente mutata, ma anche perché c’è almeno un piccolo popolo, il popolo afghano, che non ha avuto paura. Chi lo avrebbe previsto? Dobbiamo pur confessarlo: allora alla fine del dicembre ’79, quando ci giunsero le prime notizie dell’invasione, fummo tentati, seppure contro le nostre speranze, a pensare a una corsa di carri armati e poi, subito, il silenzio. No! La resistenza afghana ha resistito, continua a resistere, resisterà, e ha dato prova di una fierezza, di un coraggio, di una volontà di indipendenza, di uno spirito di sacrificio da rendere stupefatto e ammirato il mondo intero». Insomma, è una lunga storia che è rimasta quasi ignota. Una lunga storia che ha avuto i suoi instancabili riferimenti in Italia, per esempio Roberto Formigoni, Federico Coen, Carlo Tognoli, Lucio Colletti, Luciano Vasconi e, primissimo tra gli altri, Vincenzo Calò, il grande animatore a Roma del Convento Occupato, Palazzo Rivaldi, tra i Fori e Colle Oppio, sede del Comitato di solidarietà internazionale, dove con Grazia Sanpaolesi e Ezio Gandini si macinava tutto il lavoro, si organizzavano i viaggi, le ricognizioni in Pakistan e nei primi territori dell’Afghanistan. La singolare e preziosa collaborazione del Partito liberale italiano, con Malagodi, Patuelli, Zanone e a conclusione Renato Altissimo, che in Afghanistan entrò in abiti e copricapo locale in una ricognizione diretta. Un’azione, questa italiana, che ottenne la decisione di Karol Wojtyla che nel marzo 1983 ci ricevette nei Palazzi apostolici in udienza speciale, in un incontro con sei Mujahiddin giunti dall’interno dell’Afghanistan per parlare al Pontefice romano. Il Presidente Pertini ricevette al Quirinale il 28 maggio 1981 il nostro Comitato con una delegazione composta da Norberto Bobbio, da Vincenzo Calò, Ezio Gandini e da me.
di un giorno in cui, anche in Italia, si fosse deciso di scrivere delle guerre segrete e delle loro retrovie.
Le racconto la mia guerra «Negli anni del Parlamento europeo mi impegnai a fondo per l’Afghanistan. Era la prima volta che l’Armata Rossa e la politica imperiale sovietica si trovavano impantanate in una guerra senza riuscire a risolverla nonostante i ripetuti colpi di stato. L’Urss si scontrava con una resistenza popolare diffusa, fanatica, in parte monarchica e in parte fondamentalista. A Roma, dopo il Convegno “La sinistra per l’Afghanistan” organizzato dalla rivista “Mondoperaio”, nel novembre 1980 organizzammo il «Comitato internazionale di solidarietà con la Resistenza afghana». Norberto Bobbio era il presidente e io il suo vice. Cercammo di preparare gli aiuti raccogliendo denaro, organizzando contatti politici in tut-
smo islamico a quelle monarchiche. Nel maggio di quell’anno ci recammo a Stoccolma per denunciare al Tribunale permanente dei popoli, il famoso Tribunale Russel, le atrocità dell’invasione. Per tre anni Calò e io percorremmo in lungo e largo tutta l’Europa cercando di richiamare sulla questione Afghanistan l’attenzione dei governi, dell’informazione e dell’opinione pubblica. Ma l’Europa (anzi tutto il mondo occidentale) non voleva saperne. Intorno al nostro lavoro constatavamo un generale disinteresse. Bobbio teneva duro: ci chiedeva solo di verificare bene la fondatezza delle notizie che diffondevamo con i nostri bollettini. Lo ammirai molto in quei quattro anni, perché sapevo delle pressioni crescenti che subiva, a sinistra, dal Pci. C’era in molti una tenace rimozione della vicenda afghana, anche perché in fondo si pensava che l’Unione Sovietica rappresentasse, dopo il khomeini-
Anch’io ho combattuto la mia guerra afghana Caro Direttore, al di là del personaggio Charlie Wilson, sarebbe bello scrivere un libro sull’affaire afghano in Italia? Magari edito proprio da Liberal. Le sottopongo il possibile canovaccio di un primo capitolo già tratteggiato anni fa e poi lasciato lì incompleto. In attesa
to il mondo. Dal dicembre 1980 al febbraio 1981, insieme a Vincenzo Calò e Carlo Cristofori, partimmo per il Pakistan e l’Afghanistan. A Peshawar incrociammo il giornalista Mino Damato in missione Rai TV. Incontrammo tutta la resistenza afghana, dalle frange del terrori-
smo in Iran, un freno al fondamentalismo islamico nelle regioni dell’Asia Centrale. I sovietici avevano divulgato questa tesi sostenendo di agire in nome e per conto dei valori occidentali. Personalmente condividevo invece l’analisi del politologo francese Gérard Chaliand, il
quale, insieme a geografi e altri politologi europei, riteneva che quella afghana fosse una via antica dell’espansionismo russo verso i mari caldi, verso il subcontinente indiano.
Pensai, comunque, che fosse doveroso cercare in qualche modo di coinvolgere anche la istituzione alla quale appartenevo: il Parlamento europeo. Fu così che insieme al capogruppo del Partito popolare europeo, il democristiano tedesco Egon Klepsch, al conservatore e storico inglese lord Nicholas Bethell e al giurista gollista Gérard Israel, partimmo come delegazione ufficiale del Parlamento di Strasburgo per Wa-
the ground, per la resistenza afghana?». E lui, che aveva introdotto l’incontro esprimendo il rammarico per il silenzio europeo sulla escalation della guerra, ci guardò a lungo negli occhi, uno dopo l’altro, poi sibilò, con la bocca stretta in una smorfia e piegata da una parte: «Gli Stati Uniti continueranno a fare quello che stanno facendo da anni, on the ground. E voi potrete dire agli europei, che non fanno, che quello che fanno gli Stati Uniti è proprio molto, molto». Rientrato a Roma, chiesti agli Afghani rifugiati in Italia di poter incontrare il re in esilio Zahir Shah, deposto da un colpo di stato nove anni prima
I sovietici sostenevano di agire in nome e per conto dei valori occidentali
A destra Joanne Herring, amica di Charlie e sostenitrice della guerra in Afghanistan A sinistra Julia Roberts che la interpreta nel film shinghton. Venimmo ricevuti il 10 marzo 1982 dal presidente Ronald Reagan, nel corso di una cerimonia; poi, per un incontro di lavoro al Consiglio nazionale per la Sicurezza, ci incontrammo con il vice presidente americano, George Bush. A Bush domandammo: «Cosa faranno gli Stati Uniti, al di là delle solidarietà verbali per la proclamazione del 21 marzo come Afghanistan day e al di là del lavorio diplomatico, di concreto e di utile sul terreno, on
mentre era in visita privata al nostro paese. Il suo aiutante di campo, il generale Wali, mi scortò fino a una villa a due piani a Grotta Rossa, nella periferia nord-est di Roma. Zahir Shah aveva un portamento regale: alto, molto magro, in doppio petto grigio tagliato da un grande sarto, un inglese perfetto alternato spesso a lunghi periodi in francese e italiano, egualmente impeccabili. Il re in esilio era molto informato. Parlava seduto su una poltrona impero, accanto a un tavolo tutto occupato da fotografie di potenti della terra con parole di dedica e pesanti cornici in argento. Mi spiegò che era impegnato come semplice cittadino nella lotta per l’indipendenza nazionale. Compresi, insomma, che pressato da sovietici e americani Zahir Shah aveva deciso di starsene tranquillo, limitandosi a generiche e innocue dichiarazioni patriottiche. Non ne avevo prove certe, ma ero convinto che i servizi sovietici controllassero i miei spostamenti. Varie volte erano usciti sulla stampa sovietica dei reportage che parlavano di avventurieri, spioni e mestatori che, con l’appoggio della Cina, dell’Iran, degli Emirati arabi, degli americani e degli esuli, contribuivano alle operazioni di banditismo contro l’Afghanistan democratico. Varie volte il mio nome era apparso, insieme a quello di lord Nicholas Bethell e di un paio di senatori americani, nella lista dei reprobi. Il via alla campagna di stampa l’aveva dato il 10 marzo 1981 il giornale del governo sovietico, “le Izvestia”, con un ar-
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speciale approfondimenti segue da pagina 15 ticolo minaccioso intitolato «Il mestiere di Carlo Ripa di Meana». i servizi sovietici mi ritenevano pericoloso per via dello strettissimo contatto con i dissidenti cecoslovacchi di Pelikán, per il precedente alla “Biennale del Dissenso”, e perché ero molto attivo anche in un movimento collegato ai dissidenti sovietici.
Dal 1980 al 1984 andai otto volte in Afghanistan: tre volte in delegazione, cinque volte da solo. Ognuno di questi viaggi durava circa due settimane. Portavamo piccoli carichi: apparecchi radio e materiale sanitario. Tornavamo con le richieste della resistenza afghana anche di armi, richieste che segnalavamo ai comitati afghani in Europa, i quali a loro volta li giravano ai servizi segreti americani e inglesi e ai paesi arabi; i mujahiddin chiedevano soprattutto missili terraaria a ricerca di calore, in particolare gli Stinger americani che riuscivano a colpire i motori e i rotori degli elicotteri blindati sovietici Mi24, indistruttibili e micidiali signori della guerra afghana. In uno di quei viaggi, prima alla base di Quetta nel Belucistan pakistano, poi nei campi della resistenza a Peshawar (capitale della North West Frontier Province del Pakistan), mi capitò di scortare due carichi di missili terra-aria di fabbricazione americana e britannica provenienti dall’Arabia Saudita, tra i quali i precisissimi red eye che, lanciati ver-
Carte
stan ma per tutto il mondo democratico. Gli passarono una grande mappa dell’Asia meridionale. Quindi, con un gesto teatrale, il generale Zia appoggiò una maschera trasparente di plastica rossa scontornata, secondo un profilo irregolare, sulla grande carta geografica: «Questa è oggi la misura della penetrazione della Russia sovietica verso sud, verso l’Oceano Indiano». Erano anni pericolosi. I sovietici non scherzavano, l’Urss non pagava solo il sabato. Nel caso del generale Zia ul-Haq pagò nel cielo di Bahawalpur quattro anni dopo, il 17 agosto 1988, facendo esplodere l’aereo. Per andare in Afghanistan non partivo mai da Roma. Considero l’Italia un paese dove tutti parlano e quindi prendevo delle precauzioni. Partivo sempre da Londra. Prenotavo su varie partenze con falsi nomi, sempre spezzando il mio cognome, unico vantaggio, del resto, di un cognome lungo. Andavo a Londra anche perché, avendo terrore dell’aereo, potevo prendere un volo della British Airways diretto verso Rawalpindi-Islamabad. Si entrava in Afghanistan dalla frontiera di nord-ovest, dove c’è il massiccio del Khyber Pass, porta obbligata per gli altipiani afghani. A Peshawar si cambiavano gli abiti e si incontravano tutti i comandi militari e i capi politici della resistenza afghana, sempre in lotta feroce e interminabile fra loro. Quindi, con delle camionette, si saliva verso il Passo. Poi era la volta dei cavallini, con cui ci si inoltrava nel territorio afghano. Gli
A sinistra Norberto Bobbio, presidente del Comitato Internazionale di Solidarietà all’Afghanistan In basso Ahmad Shah Massud, eroe afghano nella guerra di liberazione, detto il Leone del Panshir
attraversando il Punjab e poi lungo il fiume Indo tagliando deserti interminabili, dentro un convoglio dove il letto assomigliava alla panca di un commissariato di polizia italiano anni Cinquanta: senza cuscino, con coperte fetide di lana grigiastra e cessi col buco e senza acqua. Una cella. Il treno si fermava continuamente, e c’era un ufficiale, plasmato sull’immagine delle accademie britanniche, che con una canna-frustino sollevava la serranda di legno pro-
capelli, e li vedevi con queste criniere fluenti e rosse. Le donne erano tra le più coperte che avessi mai visto: avevano una specie di cappuccio molto pesante, la burka. Non era il velo dal quale spuntano gli occhi, era uno scafandro plissettato di raso e seta intrecciato con dei cordoncini ritorti di seta dinanzi al viso, non si vedeva nulla. Da lontano, quando erano ferme, sembravano i pollici giganteschi dello scultore César, si intuiva soltanto che sotto c’era un corpo. Per me il loro mistero e i loro colori – oro, amaranto e verde – erano molto eccitanti. Non le si poteva guardare e nemmeno fotografare, i codici ci comportamento erano rigidi:
Faceva paura arrivare a Karachi con le compagnie aeree del Pakistan Faceva paura arrivare a Karachi con le compagnie aeree del Pakistan. Ricordo che nell’unico volo che feci con la Pakistan Airway, all’improvviso vidi il fumo uscire da uno dei reattori mentre gli oblò si bombavano e facevano strani rumori. Chiamai lo steward, il quale mi rispose che la fusoliera era sì molto vecchia ma che non mi preoccupassi perché i motori
Per vincere bisognava abbattere gli elicotteri so un elicottero, lo tiravano giù a colpo sicuro; poi con due successive carovane, li consegnammo oltre la frontiera. Il presidente pakistano, il generale Zia ul-Haq, nella notte del 30 gennaio 1984 ricevette per tre ore la nostra delegazione nei palazzi presidenziali di Islamabad. Lord Nicholas Bethell, nel suo libro Spies and other secrets (1994), inizia: «Carlo Ripa, Gérard Israel e io volammo in Pakistan per conto Lord del Parlamento…». Bethell riporta poi le parole del generale Zia: “Noi siamo il paese in prima linea, la diga contro il nuovo espansionismo sovietico”. Il presidente pakistano aggiunse che i Mujahiddin non si battevano solo per l’Afghani-
abiti che indossavamo erano grandi cappe di tessuto caldo, dei gilet di lana e dei berretti di lana per la testa. Il vero problema della resistenza afghana non erano gli aerei che non riuscivano a manovrare nelle gole strette dell’Hindu Kush: erano i grandi elicotteri sovietici corazzati Mi24 che si tuffavano dentro quelle gole individuando e attaccando qualunque obiettivo. Gli equilibri militari cominciarono a modificarsi quando arrivarono i primi missili terra-aria americani e inglesi. Il mondo afghano era terribilmente duro e affascinante. Facce molto solenni, volti antichi indoeuropei, ariani, sumeri, mongoli. Gli uomini si tingevano con l’henné la barba e i
si trattava di una società tribale, islamica, con una crescente accentuazione fondamentalista.
Nei mesi che passai a Peshawar, in attesa di salire verso il Khyber Pass e poi raggiungere Jalalabad, la mia crapula la sera consisteva nel bere in albergo una birra, che in quanto straniero non musulmano avevo il diritto di avere a condizione che la consumassi da solo in una apposita stanza che mi aprivano per la bisogna. Questi miei viaggi erano segnati da una assoluta castità. In privato, gli anni dell’Afghanistan sono stati il passaggio da un incessante libertinaggio a una missione politica militare. Anche i ritorni erano terribili.
erano ottimi: «Sir, you see, the frame is old. But the plane is strong because the engines are excellent. Don’t worry, sir!». Dietro di me c’era un arabo con scarpe di coccodrillo e una valigetta ventiquattrore di lucertola che apriva di tanto in tanto, zeppa di dollari. Una volta, pur di eludere gli aerei di quella compagnia, presi il treno da Peshawar a Karachi. Un viaggio che durò tre giorni,
ducendo un rumore assordante per vedere ogni volta chi c’era dentro. Un viaggio infernale, durante il quale mi capitò più volte di pensare che non sarei sopravvissuto. Continuai a occuparmi dell’Afghanistan anche da commissario europeo. L’Unione Sovietica nel 1988-89 si ritirò, e la Comunità Europea cominciò a mandare degli aiuti umanitari. Ma io non andai più in Afghanistan.
Accadde un episodio, sempre legato alla questione afghana, che segnò un nuovo scontro nei miei rapporti con la parte rampante del Partito socialista di quegli anni. Per un convegno internazionale organizzato nel 1982 a Firenze dal nostro Comitato internazionale, chiesi ai socialisti fiorentini, che erano al governo in Provincia e al Comune, di stanziare contributi nei bilanci delle due amministrazioni. Ricevetti assicurazione che la Giunta provinciale di Firenze avrebbe ospitato gli interventi e stanziato, per l’organizzazione del Convegno, quindici milioni. Il Convegno si svolse con la partecipazione di delegazioni afghane, decine di comitati europei, e Norberto Bobbio aprì i lavori. Il tesoriere della Federazione socialista di Firenze confermò lo stanziamento dell’Amministrazione provinciale, ma mi comunicò che, una volta ritirato il contributo, cinque milioni li avrei dovuti versare al Partito: volevano la tangente sulla resistenza afghana.”
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca
C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
L’immissione di liquidità potrebbe avere effetti devastanti
Jean-Claude Trichet iù che dissetare i mercati, come ha scritto Il Sole 24 ore, il nuovo intervento delle Banche centrali rischia di inondarli. Questa volta la nuova immissione di liquidità sarà, nel complesso, di circa 250 miliardi di dollari. Nel dettaglio l’operazione, battezzata “Term Securities Lending Facility”, prevede la possibilità di uno scambio di titoli: obbligazioni del Tesoro americano contro bond legati ai mutui a garanzia della facility. Dovranno trattarsi di titoli aventi la tripla A da parte delle agenzie di rating. In apparenza una garanzia, nella realtà molto meno. Di fronte ad una borsa che ha l’andamento di un cavallo imbizzarrito, dove perdere è più facile che guadagnare, le agenzie di rating hanno assunto un atteggiamento più che collusivo. Giudizi blandi, riscontri superficiali, tolleranza ben al di sopra del livello di guardia. Il tutto motivato dall’esigenza di non aggravare la crisi e da una difficoltà oggettiva. Calcolare esattamente la dimensione della crisi finanziaria è ancora impossibile. Meglio quindi chiudere un occhio e non andare troppo per il sottile. Il risultato è un’incertezza montante che spinge tutti a tirare i remi in barca e lasciare il cerino della crisi nelle mani delle Autorità monetarie. Che, così facendo, rischiano tuttavia di realizzare il più grande salvataggio bancario che la storia di questo dopoguerra ricordi.
P
Il primo problema è capire la dimensione del default. Cifre certe non ve ne sono. Esistono stime e supposizioni che, benché da prendere con le molle, indica-
Una bolla minaccia gli interventi delle Banche centrali di Gianfranco Polillo no tuttavia il lato oscuro della vicenda. Nel meeting dell’Us monetary policy forum, analisti indipendenti parlano di perdite per 400 miliardi di dollari. Comporteranno per la banche esigenze di ricapitalizzazione immediata per 200, ed una stretta creditizia nei confronti di imprese e proprietari di abitazioni di oltre 900 miliardi. Ancora più inquietanti le proiezioni a medio termine. L’impatto sul potenziale di crescita degli Stati Uniti, sempre secondo le previsioni, dovrebbe essere pari, per un certo numero di anni, all’1,3 per cento del Pil. È difficile esprimere un giudizio su queste previsioni. Più facile prendere atto delle tendenze di mercato. Nelle principali borse le quotazioni dei titoli bancari sono orami al loro minimo storico. Il price – earning – il rapporto tra valore del titolo e capitalizzazione degli utili – che rappresenta la bussola per l’investimento a medio termine è estremamente favorevole, ma nessuno compra. Il timore è quello che le perdite siano ben
maggiori di quelle certificate e di conseguenza il price – earning effettivo sia ancora più basso. La borsa, pertanto, riprenderà solo quando riterrà che si sia toccato il fondo del barile. Per lo stesso motivo il mercato interbancario è fermo. I prestiti tra banche sono congelati per gli stessi motivi ed i maggiori rischi impliciti nei relativi finanziamenti. La Fed, con il suo intervento, ha cercato di rompere questa spirale. Ma lo ha fatto facendo ricadere su di sé il rischio dell’insolvenza. Le altre banche centrali, che hanno accompagnato la manovra, si sono dimostrate solidali. Hanno supportato le scelte della Fed, ottenendo in cambio quelle aperture di credito, in dollari, necessarie per finanziare i propri istituti di credito coinvolti nel grande crac. Circostanza questa che spiega, in particolare, lo zelo della Banca centrale inglese. Che riverserà sul mercato ben 10 miliardi di sterline: il doppio se valutati in dollari. Evidentemente brucia ancora il caso della
È impossibile calcolare le dimensioni della crisi finanziaria. Nelle borse le quotazioni dei titoli bancari sono ormai al minimo storico
Ben Bernanke Northern Rock, che il governo di sua Maestà britannica è stato costretto recentemente a nazionalizzare. Del resto, a dar credito alla voci, le perdite finora accertate delle prime 12 banche mondiali ammonterebbero a ben 62 miliardi di dollari. Insomma, la crisi è particolarmente acuta e venirne fuori sarà tutt’altro che facile.
Almeno finora non ci siamo riusciti e c’è da dubitare che le misure prese saranno risolutive. Il dato di cui non si tiene conto è che non esiste una crisi generale di liquidità, che è anzi addirittura eccessiva. Bensì specifica riguardante il solo sistema finanziario. In altri termini, si spara nel mucchio, nella speranza di colpire il bersaglio. Senza tener conto degli effetti collaterali. Ed essi sono quelli tipici di ogni tracimazione. I maggiori volumi non sono canalizzati ma convogliati nei settori contigui. Non tanto nelle borse che soffrono della stessa astenia da sfiducia; quanto nei mercati delle materie prime e dei prodotti alimentari, che sono gli unici settori a tirare nella congiuntura internazionale. Con quali conseguenze? Quelle di alimentare una nuova “bolla speculativa”, dopo quella delle borse e degli immobili; ma con effetti più devastanti. L’aumento dei prezzi che è ad essa collegata incide, infatti, sui bisogni primari della gente, mettendo a dura prova le loro condizioni di vita. Ed ecco allora che la crisi finanziaria può degenerare, trasformandosi in una crisi sociale di ben più vaste proporzioni.
economia
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Il sindacato rischia di perdere la sua identità
La Uil schiacciata tra Cgil e Cisl di Vincenzo Bacarani
ROMA. Proprio in questi giorni la Uil festeggia i 58 anni di età e proprio in questi giorni sta facendo i conti con discussioni, dibattiti e movimenti interni che denunciano un certo senso di smarrimento. E che rischiano di metterla con le spalle al muro, spiazzandola rispetto alle due sorelle maggiori, Cgil e Cisl. Il riferimento al quadro politico nazionale – che ha da sempre la identifica come organizzazione a vocazione laica e socialdemocratica – sta cambiando. Gli stessi iscritti, più di due milioni di cui oltre ottocentomila pensionati, appaiono incerti di fronte a diverse correnti di pensiero che animano l’organizzazione (si va dal centro alla sinistra moderata). E così appare sempre più lontano quel 5 marzo del 1950, quando nella capitale 253 delegati provenienti da ogni parte d’Italia parteciparono alla costituzione dell’Unione italiana del lavoro. Nata da una costola della Cgil per dare rappresentanza ai lavoratori di idee non comuniste, ma laiche e socialdemocratiche, l’organizzazione nel corso di quarant’anni ha potuto contare su solidi punti di riferimento ideologici e parlamentari: dal Partito socialista unitario di Giuseppe Romita al Partito socialdemocratico di Giuseppe Saragat, dal Partito repubblicano di Ugo La Malfa fino all’edizione Psi targata Bettino Craxi. E dunque si trattava di un sindacato profondamente laico con vocazione europea e riformista.
Ma i tempi sono velocemente e inaspettatamente cambiati. La Uil sta ora rischiando di perdere la propria identità essendo stata scavalcata sul riformismo dalla Cgil (anch’essa peraltro divisa al suo interno tra varie anime) e sul centrismo dalla Cisl, la cui ispirazione cattolica è stata nello stesso tempo un punto di debolezza e un punto di forza. Ora lo scenario è profondamente cambiato: se da un lato il segretario generale, Luigi Angeletti, cerca di acquisire una posizione autonoma nella sostanza
(nei confronti della Cgil) e nella forma (nei confronti della Cisl di Raffaele Bonanni), dall’altra si assiste a una grande confusione.
A dare segnali di una tendenza ai cambiamenti è stata per prima l’organizzazione dei metalmeccanici, la Uilm. Nell’autunno scorso, in occasione del referendum dei lavoratori sul protocollo del welfare, il segretario nazionale Antonino Regazzi aveva dato ai propri iscritti libertà di scelta. Una posizione che aveva messo in imbarazzo il segretario generale Angeletti - uno dei più convinti assertori dell’accordo con il governo Prodi - e che sembrava quasi far da sponda a quella della Fiom che consigliava di votare no. Dopo qualche giorno, tuttavia, la Uilm
tanti categorie spingono verso il centro mettendo in difficoltà la gestione di un sindacato in cerca di un’identità ben definita. «La nostra identità è invece ben precisa - rivendica con orgoglio il segretario Uilm, Antonino Regazzi ed è quella di un sindacato autonomo, slegato dai partiti e dagli schieramenti».
Il rischio di uno schiacciamento tra Cgil e Cisl non è - secondo il leader Uilm - concreto: «Lo scenario è cambiato, ai lavoratori non interessa l’appartenenza politica. Dopo il 13 aprile ci sarà un nuovo governo. Qualunque esso sia, per noi non fa differenza. Ci confronteremo senza pregiudizi». Ma la Uil non si trova in una situazione delicata? ”Al contrario - ribatte Regazzi da questa situazione la Uil ha tutto da guadagnare e nulla da perdere”. Ora la sfida è la riforma contrattuale. Di fronte alle ennesime perdite di tempo della Cgil, il vicepresidente di Confindustria, Alberto Bombassei, fa sapere che i tempi stanno per scadere: «Senza riforma contrattuale - dice - salta anche l’accordo del ’93». La Uil, così come la Cisl, si trova di fronte a un nuovo bivio da cui potrebbe dipendere il suo futuro: aspettare che la Cgil risolva i suoi problemi interni o decidere in maniera autonoma.
Luigi Angeletti tenta di conquistare una posizione autonoma, ma tra i suoi iscritti c’è molta confusione: i metalmeccanici rappresentano l’ala sinistra, mentre altre categorie spingono verso il centro fece marcia indietro invitando i propri tesserati a dire sì all’accordo. Ma se i metalmeccanici Uil rappresentano l’”ala sinistra” dell’organizzazione (e la vittoria dello scorso anno delle Rsu alla Fiat di Melfi non è un caso isolato), altre impor-
Luigi Angeletti, segretario generale della Uil
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Oro da record a mille dollari Nuovo record assoluto per il prezzo dell’oro che ieri ha toccato ufficialmente i mille dollari. L’ oro con consegna aprile è attualmente scambiato a 998,5 dollari. Nuovo record storico anche per il petrolio che sempre ieri a New York ha toccato quota 110,69 dollari al barile. A Londra il Brent, petrolio di riferimento europeo, ha raggiunto un nuovo picco a 106,79.
Conti: «Su Endesa nessuna tensione» L’amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, ha fatto chiarezza su Endesa. «Nessuna tensione - datto - tra Enel ed Acciona sulla gestione di Endesa per la quale, tra l’altro, c’è ’’fiducia’’ nell’operato del suo amministratore delegato, Rafael Miranda». E sulla mancata approvazione del piano di Endesa ha precisato: «Attendiamo l’approvazione delle operazioni su Endesa e di quelle sulle rinnovabili. Per questo ci sembra corretto che il Cda di Endesa non abbia ancora approvato il piano».
Più 5 per cento per la spesa Il carovita schizza al 5 per cento con il dato generale dell’inflazione a febbraio al 2,9 per cento. Lo ha comunicato l’Istat che ha individuato nel paniere su cui calcola l’inflazione tre classi di prodotti: ad alta frequenza di acquisto, a media e a bassa frequenza. Lo scorso mese per i cosiddetti beni ad alta frequenza l’incremento rispetto a gennaio è stato dello 0,3 per cento e ha portato al 5 per cento l’aumento su base annua.
Alitalia, sabato Cda su Air France La Consob ha chiesto all’Alitalia di chiarire le notizie relative a un prestito straordinario. La compagnia specifica che «gli aspetti legati a un prestito straordinario erano stati ’’meramente considerati’’ nella riunione del Cda del 7 marzo scorso, mentre nella riunione di ieri non hanno formato oggetto di ulteriori approfondimenti». L’Alitalia conferma che sabato ci sarà una nuova riunione del Cda «al fine di apprezzare gli esiti della trattativa in esclusiva svolta con Air France-KLM. In tale sede saranno nuovamente considerate le esigenze finanziarie di breve termine della Società anche in nesso con le determinazioni per la definizione della citata trattativa. In relazione a ciò, la Società, tramite il suo presidente, Maurizio Prato, ha avviato contatti con l’azionista ministero del Tesoro per acquisirne gli orientamenti’’.
Ue, nel 2015 accise uguali per i carburanti Per scoraggiare il ”turismo del pieno” e proteggere l’ambiente, tutelare il gettito fiscale degli Stati membri e garantire una concorrenza equa nel settore dell’autotrasporto, il Parlamento europeo ha accolto la proposta di aumentare le accise minime sul gasolio fino al livello di quelle imposte alla benzina senza piombo. Ma ha anche chiesto che questo avvenga tre anni più tardi, progressivamente, e si oppone a ogni ulteriore aumento delle accise. Il differenziale delle accise applicate ai carburanti - spiega una nota dell’ufficio stampa dell’Assemblea di Strasburgo - può favorire la crescita dei ’’costi ambientali.
Galateri: «Su Telecom la Borsa sta rinsavendo» «La Borsa sta dando qualche segno di rinsavimento» lo ha detto il presidente di Telecom, Gabriele Galateri di Genola commentando positivamente il rimbalzo del titolo Telecom che ieri mattina ha recuperato oltre il 5 per cento dopo aver perso nei giorni scorsi poco meno del 20 per cento. Galateri si è detto fiducioso sul fatto che il titolo possa ancora recuperare «e riprendere i valori corretti. Bisogna avere pazienza - ha aggiunto -. Il mercato ha le sue evoluzioni e i suoi umori. Ma per quanto riguarda il nostro titolo - ha sottolineato Galateri - dobbiamo guardare alla solidità’ del piano industriale che non si realizza in un giorno, ma ci sono tutte le premesse perché nel tempo anche la Borsa riconosca il valore corretto della Telecom».
Negli Usa è boom di pignoramenti di case L’effetto dei mutui subprime si fa sentire pesantemente. Dal febbraio 2007 al mese scorso i pignoramenti di case negli Stati Uniti, secondo i dati diffusi dalla Realty Trac, registrano un boom del 60 per cento. A febbraio i pignoramenti evidenziano una flessione del 4 per cento rispetto a gennaio.
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cultura
Parla Flemming Rose, l’editore del giornale che pubblicò le vignette su Maometto
«Nessuna fatwa potrà cancellare la libertà di parola» colloquio con Flemming Rose di Riccardo Paradisi lemming Rose – occhi azzurri, tratti essenziali, eloquio pacato – è un noto giornalista danese. Noto in Europa e nel mondo, suo malgrado, soprattutto per essere l’editore del Jyllands-Posten il quotidiano di Kopenagen che nel settembre del 2006 pubblicò delle vignette satiriche che avevano come oggetto l’Islam e Maometto. Rose e il suo giornale, dopo la pubblicazione delle vignette, vennero investiti da un uragano senza precedenti. Un onda d’urto violentissima durata mesi. Dall’Arabia Saudita al Kuwait fino al Qatar, al Barhein e agli Emirati Arabi Uniti, per settimane partono contro Copenaghen richieste di scuse ufficiali da piazze minacciose. I prodotti danesi vengono boicottati in molti Paesi del Medio oriente che minacciano di ritirare i loro ambasciatori da Kopenaghen. Miliziani di Al Fatah arrivano a presidiare la sede dell’Unione europea a Gaza chiedendo che la Danimarca chieda scusa e minacciando di vietare l’ingresso nei Territori ai cittadini di danesi. Un incubo. Che non è mai finito. A metà dello scorso febbraio infatti alcune persone sono state arrestate ad Århus in Danimarca, accusate di preparare un attentato ai danni di Kurt Westergaard autore della più controversa tra le vignette pubblicate nel 2005 dai giornali danesi. Flemming Rose ieri era ospite alla conferenza internazionale che si è tenuta all’Università europea di Roma dal titolo ”Crisi di identità: la civiltà europea può sopravvivere?” organizzata dalla European Freedom Alliance insieme alla Fondazione Lepanto presieduta da Roberto De Mattei. Liberal lo ha intervistato. Rose, qual è ora la situazione in Danimarca a più di due anni dalla pubblicazione di quelle vignette?
F
Non è migliore a quella che c’è nel resto d’Europa anche se esiste una maggiore coscienza del pericolo dell’integralismo islamico. Finalmente, visto che sono almeno dieci anni che questa minaccia è visibile e presente. Ci sono stati altri episodi in Danimarca prima di quello delle vignette pubblicate dal suo giornale? Nel 1989 un’artista aveva dipinto un’immagine di Gesù in maniera provocatoria. Ci fu qualche polemica. Quando ad essere ritratta con lo stesso spirito ironico e provocatorio è stata la religione islamica la reazione è stata durissima. Con il consueto corredo di minacce di morte. Purtroppo nell’indifferenza generale. Eppure lei ha detto che ora in Danimarca c’è più
A destra le ”vignette sataniche”. Accanto Flemming Rose, il responsabile del JyllandsPosten, il quotidiano danese che le ha pubblicate
Ha aperto gli occhi leggendo il Posten? No. È che dopo una recente manifestazione islamista a Kopenaghen ha ricevuto delle minacce di morte. Ecco, è accaduto che ha percepito il pericolo. E ha pubblicamente
libertà di parola, che dimentica quale sia stato il prezzo che si è pagato per avere questa libertà, né quanto sia ora alto il rischio di perderla. Prodi e la sua parte politica dovrebbero parlare di più delle minacce che subisce dall’Islam radicale chi osa dire ciò che per i fondamentalisti non si deve dire. Lo sa Prodi che ci sono musei che in Europa stanno censurando se stessi, rimuovendo opere che solo lontanamente possono offendere l’Islam per paura di ritorsioni e attentati? Ecco si preoccupi di queste cose. Come giudica le politiche danesi per regolamentare l’immigrazione? Ritengo sia una buona legge quella che non permette il ricongiungimento famigliare finchè lo sposo e la sposa non abbiano 24 anni. Questo per evitare i matrimoni forzati. L’opposizione in Danimarca non è d’accordo ma la regola funziona, la percentuale di matrimoni forzati è scesa del 69 per cento. In Norvegia c’è una legge simile e funziona anche lì I Paese scandinavi hanno una legislazione evoluta e moderna sull’immigrazione. In Svezia è molto diverso, non
«Ricordo che Romano Prodi criticò duramente il Jyllands-Posten. Penso sia un politico che non capisce il valore della libertà di parola, nè quanto sia alto ora il rischio di perderla. Ragionava come lui anche il capo del Partito socialista danese Willy Søndahl. Poi i fondamentalisti lo hanno minacciato di morte. Ora sembra aver cambiato idea» coscienza del pericolo fondamentalista. A questo avete contribuito anche voi con la vostra battaglia credo. Deve essere una soddisfazione malgrado i rischi che avete corso e che correte tuttora. Io parlavo di una maggiore coscienza tra la gente comune. Tra gli intellettuali e i politici è diverso. Basti dire che il presidente del partito socialista danese Willy Sondahl nel febbraio 2006 accusò il JyllandPosten di aver voluto ridicolizzare una minoranza del Paese. Un accusa grave e gratuita. Senonchè anche Sondahl ultimamente sembra avere maturato posizioni diverse. Che cosa gli è accaduto?
ammesso che questo pericolo esiste. Il Partito socialista dopo le sue dichiarazioni è subito aumentato nel gradimento popolare. Lei lo sa che anche il nostro ex presidente del Consiglio Romano Prodi criticò duramente il suo giornale per la pubblicazione delle vignette? Me lo ricordo benissimo. Sia pace su di lui… Lo dice in senso islamico? Voi come dite? Forse buon pro gli faccia se ho capito il senso, ma non importa. Che ne pensa comunque di quella presa di posizione di Prodi? Penso che Prodi è un politico che non capisce il valore della
si vuole nemmeno sentir parlare delle legge sui 24 anni. In Svezia del resto ci sono molti che pensano che la Danimarca sia un Paese xenofobo. È un Paese dove il politically correct è molto forte la Svezia. Esistono anche i musulmani moderati grazie a Dio. Che ruolo hanno secondo lei? Possono incidere in questa partita contro il fondamentalismo? Direi che hanno ruolo decisivo, strategico. Quando era ancora in piedi il muro di Berlino e il mondo era diviso dalla guerra fredda e dalla cortina di ferro sono stato corrispondente in Unione sovietica dove ero in contatto con molti dissidenti. Li ho conosciuti bene e ho capito che nella sconfitta dell’Urss hanno avuto un ruolo fondamentale. Fino al 1975, l’anno dell’atto di Helsinky, si riconoscevano due declinazioni della libertà: quella occidentale, che contemplava le libertà di parola, di religione e di intrapresa economica e quella sovietica dove, si diceva, erano garantiti i diritti sociali, l’eguaglianza economica. Questa divisione era accettata in Occidente. Furono i dissidenti a dire no: che quella sovietica non era libertà. Che la sola vera libertà era quella che non negava il diritto di parola e di pensiero. I dissidenti musulmani oggi hanno lo stesso compito.
cultura
14 marzo 2008 • pagina 21
Un libro ripercorre la storia del genere epistolare: dal papiro all’email
Cara lettera, così ti scrivo... di Pier Mario Fasanotti ice Lucio Dalla in una sua canzone: «Caro amico ti scrivo…». Il testo è contenuto in un album del 2002. Il cantautore ovviamente non specifica - non ne ha bisogno - il modo di scrivere. Oggi ci si chiede: una mail, un sms o una «vecchia» lettera? Sì, perché le lettere d’una volta, quelle scritte a mano o a macchina, sono diventate rare. Ce le manda la banca, il Fisco, l’Enel. Sono per il 99 per cento fatture o comunicazioni ufficiali (e fastidiose). Ma nella nostra casella condominiale è rarissimo trovare la lettera dell’amico, della moglie (o marito) o di un’amante. C’è il cellulare, c’è il computer. Ecco che è interessante, visto il de profundis per la tradizione epistolare classica, ripercorrere la storia delle lettere. Lo fa Armando Petrucci, docente e studioso di Paleografia, nel libro intitolato appunto Scrivere lettere (Laterza, 226 pagine, 20 euro). «Lesis scrive questa lettera a Xenocle e a sua madre perché in nessun modo dimentichino che egli sta morendo nella fonderia, ma che vadano dai padroni e trovino qualcosa di meglio per lui. Io sono in balia di un uomo totalmente malvagio; io perisco sotto la sua frusta, sono schiavizzato e maltrattato sempre di più, sempre di più». L’accorata missiva, una delle più antiche testimonianze della tradizione epistolare, è del V secolo, ed è scritta da un greco. Questa e
D
tante altre sono state rinvenute durante campagne di scavo in diverse parti dell’Europa. Si tratta di testi brevi, con linee allineate su una delle due facce della lamina di piombo, con l’indicazione del destinatario al centro dell’altra. Diversi rispetto alla tradizione millenaria del vicino Oriente, regioni in cui si scriveva su tavolette di argilla fresca. La tradizione di scrivere sul piombo, per poi arrotolarlo, ha un’origine magica: nel mondo greco-romano si usavano appunto le tabellae defixionum, ossia richieste di intervento rivolte ai defunti o alle divinità infernali per l’esaudimento di certi voti. Le lamine venivano arrotolate per essere facilmente «imbucate» nelle tombe. Erano suppliche o epistole invocative. Chi le scriveva, con la tecnica dello «sgraffio»? Il mittente se sapeva l’alfabeto, oppure il «delegato di scrittura», una persona cui dettare i pensieri.
Giacomo Leopardi usava toni familiari, Pier Paolo Pasolini nei testi spediti univa elementi storici e biografici In Grecia non erano rari i messaggi su coccio (ostraca). Concisi come gli sms di oggi. «Thamneus lascia la sega sotto la soglia della porta del giardino», «Ragazzo, reca ancora nuovi divani a Phalanthos», «Eumelis, vieni al più presto che puoi». L’uso della corrispondenza, prima in Grecia e nell’impero romano poi, era frequente. Cicerone parla di multitudo litterarum. Qualcuno scriveva così tanto da riempire un volumen, ossia un rotolo composto da più fogli di papiro fra loro incollati: insomma, una lettera a forma di libro. A Roma correvano tutto il giorno quelli che oggi si chiamerebbero pony. Si usavano vari materiali: piombo, ceramica, tavolette di legno, fogli di papiro e più tardi pergamena. Le lettere papiracee del mondo antico venivano piegate più volte («complicare» in latino indica questa operazione). All’esterno l’indiriz-
zo. Il tutto era «fermato» con un sigillo. Con il cristianesimo, cambia la modalità dello scrivere. Ogni lettera iniziava con un segno di croce. Ma anche lo stesso contenuto era influenzato dal nuovo credo: c’erano riferimenti continui alla comunità religiosa, alla venerazione del Dio unico, citazioni tratte dal Vecchio e dal Nuovo Testamento. Nell’alto Medievo l’attività epistolare subisce un calo notevole, parimenti al grado di alfabetizzazione (molto basso). Gregorio Magno, Papa dal 590 al 604, ci ha lasciato un ricco epistolario. Lettere di sua mano o della cancelleria apostolica. In ogni caso il suo modello retorico e formale fu lungamente seguito. Si assiste in questo periodo all’uso di un unico foglio di pergamena per ciascuna lettera, senza la data. E cala molto il nume-
ro delle donne che scrivono, rispetto all’età classica. Alla vigilia del XI secolo c’è la crescita demografica unitamente alla ripresa economica: tornano le lettere, ancora scritte in latino. Il clero intellettuale usa la posta per dibattere e propagandare temi religiosi e filosofici. Verso il Duecento, come osserva l’autore del libro, «l’Europa reimpara a scriversi», dopo secoli di astinenza. E compaiono i primi vernacolari: francese (lingua che si affiancherà poi al latino), inglese, spagnolo, italiano. Una delle più antiche lettere scritte nel nostro idioma è di un certo Guiduccio, di San Giminiano: 19 righe al padre notaio. Poi ci sono gli scritti a carattere mercantile che, per la loro concisione, assomigliano alle odierne comunicazioni telefoniche. Tra
A sinistra lo ”scriba seduto” dell’Antico Regno (III millennio a. C.); in alto il rotolo del XIII secolo con la cronologia di papi e imperatori. Il testo è arricchito da disegni con scene dell’Antico e Nuovo Testamento
le donne scriventi sono molte le suore. Per esempio Caterina da Siena, ardente di fuoco mistico e politico. Comunque la percentuale femminile dipende dal tipo di educazione. Saranno però le donne, in seguito, a intingere la penna nei sentimenti, rendendo le lettere meno formali e barocche e zeppe di descrizioni di malattie, di patemi d’animo e di sospiri d’amore per il coniuge lontano.
Se il Cinquecento viene ricordato come il secolo della stampa, è anche vero che è segnato da un’enorme crescita della scrittura, pubblica e privata. La popolazione era oltretutto più mobile. L’Italia, per la sua tradizione stampatoria (a Venezia soprattutto) e per il tasso di intellettualità raggiunge un indiscusso primato. E così fino all’Ottocento. Giacomo Leopardi si lamenta di due cose: mancanza di carta e disservizio postale. Le sue lettere sono scritte in un corsivo nettamente inclinato sulla destra. Sua sorella Paolina prediligeva fogli di diversi colori. Le cose cominciano a cambiare con l’invenzione del telegrafo e della cartolina postale e di quella illustrata. L’Inghilterra introduce (1838) il francobollo, si ricorre spesso a inchiostri colorati, si usa sempre più spesso il pennino d’acciaio. All’inizio del Novecento è Marcel Proust a scompigliare le modalità epistolari: inclina le righe, non rispetta gli spazi interlineari, le sue parole sono legate l’una all’altra: «decomposizione del tessuto grafico», in linea col suo temperamento affabulatorio. Più recentemente sono in molti ad affidare agli epistolari novità intellettuali. Pier Paolo Pasolini, per esempio, anche con le sue lettere testimonia la sua originale e prepotente entrata nel mondo culturale del dopoguerra. Immettendo nei testi spediti una forte vena di autobiografismo. Ora prevalgono le mail. Se possano sopravvivere nessuno può dirlo: tutto è volatile, facilmente distruggibile e quindi anche dimenticabile.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Quali ministri vorreste nel nuovo governo? COMUNQUE VADA, IL NUOVO ESECUTIVO APRA UNA FASE COSTITUENTE PER LE RIFORME
IL GOVERNO IDEALE? CON FORMIGONI, LETTA, ALEMANNO, TREMONTI E BRAMBILLA
Quello che mi auguro è che il prossimo governo, possibilmente guidato da Silvio Berlusconi, apra una vera fase costituente per le riforme. Per favorire questo disegno sarebbe utile coinvolgere nelle posizioni istituzionali e di governo anche esponenti delle ”opposizioni costruttive” presenti nel futuro Parlamento, come il Pd e l’Udc. Ad esempio una personalità come Amato potrebbero ricoprire un importante incarico di governo. Stesso discorso per il senatore Udc D’Onofrio, che sarebbe peraltro anche un ottimo presidente dell’Assemblea di Palazzo Madama.Venendo al centrodestra, proporre nomi è più difficile, dal momento che tante sono le persone di qualità e bisognerà tener conto degli equilibri interni al Pdl. Fini è il naturale vicepremier e ministro degli Esteri, a meno che gli fosse destinata la presidenza della Camera. Nella squadra di governo ben figurerebbero in posizioni chiave Roberto Formigoni (magari a capo di un superministero del Wellfare?) e Franco Frattini. Un ruolo incisivo, magari di Portavoce, lo affiderei anche al sempre arguto ed efficace Fabrizio Cicchitto.
Il mio governo ideale potrebbe essere formato in questo modo: il presidente del Consiglio lo farei fare a Formigoni, è pacato ma allo stesso tempo deciso. Il ministro dell’Economia lo affiderei nuovamente a Tremonti perché credo che saprebbe come bloccare la frana. Gianni Letta, che è un mediatore perfetto, lo vedrei bene come ministro degli Esteri, mentre Fini, che è concreto e farebbe applicare davvero la sua legge con Bossi, lo metterei agli Interni. Il ministero della Difesa a Casini e quello del Lavoro di nuovo a Maroni, riprenderebbe da dove ha lasciato. Come ministro di Giustizia riconfermerei Castelli, lo merita. All’Istruzione potrebbe esercitarsi Amato e all’Ambiente Matteoli, visto che lo ha già fatto bene. Bersani, che mi sembra equilibrato, lo piazzerei al ministero della Salute. A quello delle Politiche agricole Rosy Bindi. Alle Infrastrutture dovrebbe andare Alemanno, alle Comunicazioni Michela Vittoria Brambilla (è il suo posto), mentre ai Beni culturali Adornato, uomo colto e illuminato.
Matteo Prandi
LA DOMANDA DI DOMANI
Dopo il flop del 2006, vi fidate ancora dei sondaggi? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Sergio Bassi - Pisa
CON VISCO PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, DI PIETRO ALL’ISTRUZIONE E BASSOLINO ALL’AMBIENTE Governo tutto da ridere. Presidente del Consiglio: Visco, detassazione per tutti. Ministro dell’Economia: Padoa-Schioppa, nulla da aggiungere a quanto ha fatto. Ministro degli Esteri: Pecoraro Scanio, per esportare altrove i rifiuti di Napoli. Minitro degli Interni: Caruso, ordine assicurato. Ministro della Difesa: Diliberto, per assicurare l’adesione Nato. Ministro del Lavoro: Cento, con quella faccia... Ministro della Giustizia: Borrelli, manette per tutti. Ministro dell’Istruzione: Di Pietro, per grammatica e sintassi. Ministro dell’Ambiente: Bassolino, produrrebbe i rifiuti per Pecoraro Scanio. Ministro della Salute: Fassino, ha il phisique du role. Ministro dell’Agricoltura: sempre Di Pietro, non si sa mai dovesse saltare l’Istruzione. Ministro delle Comunicazioni: Pannella, finalmente smetterà di dire che la tivù non gli dà spazio. Ministro dei Beni culturali: Cusumano, no comment.
PARCHI EOLICI, NUOVE POLITICHE DI SVILUPPO Sono oramai innumerevoli i parchi eolici presenti in quasi tutti i comuni montani. È necessario che quelli dei Monti Dauni inizino ad essere protagonisti circa gli investimenti per le piccole e medie imprese. È necessario creare le condizioni per costruire un utile territoriale condiviso, partendo dalle aree montane con l’eolico e arrivando alle aree pianeggianti con il fotovoltaico. Che gli operatori istituzionali integrino le economie delle varie province. L’Appennino Italiano infatti viene ”crocifisso” quotidianamente; ingenti sono le risorse che gli impianti eolici producono; e nessun progetto territoriale di sviluppo comune e condiviso viene perseguito dalle istituzioni preposte. Le società raccolgono un’ingente mole di utili, lasciando ai privati, che mettono a disposizione i suoli su cui realizzano gli impianti, pochi spiccioli che non superano i diecimila euro annui per macchina da due megawat, mentre ognuna di esse produce all’incirca dai settecentomila al milione di euro. È necessario costruire un
SU LA MASCHERA Alcuni studenti di una scuola primaria di Hong Kong attendono i controlli medici protetti da una mascherina a causa dello scoppio, in questi giorni, di una gravissima epidemia influenzale ENNESIMO DURO RINCARO, RENDEZ-VOUS FISSO IN ITALIA Quando si dice la rassegnazione. Purtroppo, infatti, dobbiamo nuovamente prepararci all’ennesimo, durissimo rincaro, ormai divenuto un appuntamento fisso per tutti gli italiani. Il caro-petrolio spinge verso l’alto le bollette del gas e della luce, mentre le tariffe, hanno annunciato, subiranno l’ennesima impennata, andando a toccare quota +3,9% per l’elettricità, +4,1% per il gas e chissà poi cos’altro. Il risultato, scontato tanto quanto opprimente? Una maggiore spesa di oltre cinquantasette euro su base annua. I problemi però non si esauriscono qui, visto che, conseguentemente, anche tutti gli altri generi lieviteran-
dai circoli liberal Bruno Tarchi - Firenze
eolico programmato sull’intero territorio nazionale. È opportuno riscrivere le regole, quintuplicare le risorse che vanno elargite ai privatiagricoltori, che possono integrare il reddito agricolo e contribuire alla nuova politica energetica, e far fronte alla crisi del settore agricolo. Così come sarebbe opportuno trovare delle giuste politiche che indennizzino il territorio e gli enti locali in maniera indiretta con delle convenzioni etiche. A oggi non c’è nessuna ricaduta sia in termini occupazionali sia in termini di sgravi per le imposte comunali, nell’interesse dei cittadini. È necessario che tutti i comuni pongano in essere una politica territoriale univoca, con politiche che siano condivise e regole uguali in aree vocate ad insediamenti eolici o fotovoltaici. Che i sindaci delle Municipalità, in cui ricadono tali insediamenti, costruiscano delle politiche territoriali univoche, con azioni mirate per lo sviluppo. Lo sviluppo, quello vero si crea dal basso, senza il dirigismo di nessuno, il vento è l’ennesima risorsa che si potrebbe ancora sfruttare e indirizzare nel giusto modo. Sono necessarie le giuste volontà. Dopo anni,
no, come è naturale che sia. Dato che tra pochissime settimane si andrà a votare, mi domando: quale che sia l’esito, riuscirà il nuovo governo a frenare gli aumenti continui e forsennati che hanno messo in ginocchio il Paese e gli italiani? Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle vostre pagine. Distinti saluti.
Alessandro Meneguzzi Ostia (Roma)
ZAGARDO NON ZACCARDO Per uno spiacevole errore l’articolo apparso ieri nel supplemento Socrate dal titolo “La famiglia non è un minore da tutelare” portava la firma di Giacomo Zaccardo, anziché quella di Giacomo Zagardo. Ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.
si continua a perseverare con politiche singole e campanilistiche, si continua a sbagliare pur avendo gli strumenti per fare delle risorse dell’Appennino Italiano una ricchezza. Il Mezzogiorno può decollare, basta rompere il silenzio e costruire veri progetti d’impresa con le nostre risorse e la nostra buona volontà. Il vento c’è, facciamolo soffiare nella direzione giusta. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 28 MARZO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog sione, l’emendamento in cui espressamente si richiede che vengano escluse dall’esenzione della Tari le parrocchie. Il Pd spieghi ora al mondo cattolico e moderato che grazie alla sua votazione le istituzioni parrocchiali, che svolgono un’importante azione sociale, si troveranno nella condizione forzata di pagare anche la tassa sui rifiuti. È la dimostrazione che il Pd a parole dice di voler dialogare con il mondo cattolico, ma nei fatti lo umilia continuamente.
Sempre ho negli occhi quella strada col sole Dino, provo qualcosa di tanto forte che non so come lo reggerò. Sei tu che mi squassi cosi? Che cosa m’hai messo nelle vene? E sempre ho negli occhi quella strada col sole, il primo mattino, le fonti dove m’hai fatto bere, la terra che si mescolava ai nostri baci, quell’abbraccio profondo della luce. Dove sei, che mi sento cosi strappata a me stessa? Mi chiami, o m’hai dimenticata? Oh ti voglio ti voglio, non ti lascerò ad altri, non sarò d’altri, per la mia vita ti voglio e per la mia morte, Dino, dopo questo non si può esser più nulla, oh, sapere che anche tu lo senti, che rantoli anche tu cosi. Mi aspetti, dimmi, mi aspetti, vero? Saremo soli sulla terra. Bruceremo. Hai visto che siamo vergini, che qualcosa non ci fu mai strappato? Per noi. Più a fondo ci mescoleremo allo spazio, prendimi, tiemmi, io non ti lascio, bruceremo. Dimmi che mi manca cosi il respiro perché mi chiami, perché mi vuoi.
Fabrizio Sonnino - Roma
È POSSIBILE SCORDARSI UNA DONNA IN CARCERE?
Sibilla Aleramo a Dino Campana
NON VOLETE CIARRAPICO? PARIFICATE FASCISTI E COMUNISTI
IL PD DI VELTRONI UMILIA IL MONDO CATTOLICO
Le polemiche sulla candidatura di Ciarrapico hanno una sola matrice: è un fascista. Ciò che stupisce è che gli autori della cagnara non sono i compassati soci del club ”vogliamoci bene”ma comunisti ed ex comunisti, a parte Casini. La soluzione per non avere casi Ciarrapico in Italia sarebbe semplice, ma non la si vuole: rendere pari ai fascisti i comunisti. Alle loro spalle hanno lo stesso Dna: morti, persecuzioni politiche, prevaricazioni sulle opposizioni, in una parola sono due ideologie dittatoriali. Finché si farà un distinguo, avremo le mani legate per combatterle entrambe ed estirparle dalla radice. Domando: è più grave rifarsi al fascismo o osannare la dittatura di Castro? Essere nella politica occidentale e avere rapporti diplomatici con la dittatura cinese o con dittatori sudamericani? Non dire queste cose è volere deliberatamente far sopravvivere argomenti sul fascismo: esso è la linfa dell’opposizione! Dopo sessant’anni è semplicemente ridicolo, ma è così.
La maggioranza di centrosinistra del I Municipio chiede di far pagare la tassa sui rifiuti anche alle parrocchie. Ho saputo che è stato approvato un emendamento presentato dal capogruppo dei Radicali, che senza scrupolo alcuno va a penalizzare le parrocchie. Alleanza nazionale aveva già da tempo sollevato forti dubbi circa la proposta di deliberazione comunale che riguarda la Tari, votando tra l’altro in maniera contraria. Due giorni fa il Pd, in sede di consiglio municipale, ha dimostrato di essere “ostaggio”dell’anticlericalismo dei Radicali e della Sinistra arcobaleno, facendo passare, attraverso il voto di asten-
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
Una donna è stata dimenticata per quattro giorni in una cella di tribunale in Arkansas, senza acqua e senza cibo. Adriana TorresFlores, 38 anni, era stata convocata giovedì scorso in tribunale per rispondere dell’accusa di avere venduto alcuni dvd ”pirata” in un mercatino locale. Il giudice aveva disposto il trasferimento nel carcere di contea in attesa del processo. Ma la guardia del tribunale che aveva rinchiuso la donna si era dimenticato di lei. Mi chiedo: è possibile che accadano cose del genere?
Camilla Lumi - Milano
PUNTURE Il Walter nelle visite a domicilio agli elettori porta sempre un vassoio di pastorelle alle padrone di casa. Il Walter ha sempre le mani in pasta.
Giancristiano Desiderio
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I libri hanno gli stessi nemici degli uomini: il fuoco, l’umido, le bestie, il tempo e il loro stesso contenuto PAUL VALÉRY
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di I SETTE MALI DEL PAESE (E LA LORO UNICA CAUSA) (…) 1. la limitatezza della scala cooperativa: se cooperiamo solo con chi conosciamo e di cui ci fidiamo la scala della cooperazione non può che essere molto ridotta (da qui il successo dell’istituzione famiglia, la diffusione della piccola impresa, il proliferare storico dei micro partiti e, sull’altro versante, l’insufficiente presenza e insufficiente performance di tutto ciò che normalmente dovrebbe esser grande, dall’impresa privata operante in settori ad elevate economie (di scala o d’altro tipo) alle organizzazioni pubbliche; 2. la svalutazione delle regole e del loro ruolo: è la cooperazione tra estranei ad aver bisogno di regole mentre la cooperazione tra affini può essere gestita attraverso accordi volta per volta; 3. la diffusione capillare della raccomandazione: essa è infatti l’indispensabile strumento passepartout attraverso il quale un soggetto può passare dalla condizione di estraneo alla condizione di beneficiario di uno schema di cooperazione; 4. il quarto fenomeno è il riflesso del terzo e consiste nella svalutazione del criterio del merito: un estraneo bravo non potrà mai essere preferito ad un mediocre ma fedele appartenente al gruppo; 5. l’immobilismo sociale: per effetto della svalutazione del criterio del merito l’ascesa sociale attraverso l’impegno individuale è problematica o impossibile e allo stesso modo la discesa
sociale in caso di demerito; 6. la gerontocrazia: i giovani talenti individuali, per loro natura non organizzati, sono stoppati dagli anziani, non perché anziani ma perchè già membri di schemi di cooperazione chiusi e coesi (questo vale particolarmente nel settore pubblico e nei settori produttivi non esposti alla concorrenza). 7. una grave sottoperformance/inefficienza delle organizzazioni che si traduce in sottoperformance del sistema paese: qualsiasi produzione pubblica in Italia ha costi unitari superiori di almeno il 50% rispetto al banchmark internazionale; il nostro paese, inoltre, ha il debito pubblico più elevato d’Europa, in assoluto e in rapporto al Pil, la crescita economica più ridotta, una strisciante infelicità dei cittadini e una crescente difficoltà per moltissime famiglie ad arrivare a fine mese con le spese. Si diceva una volta dei cittadini d’oltre Manica: un inglese, un gentleman; due inglesi, un club; tre inglesi, una colonia. Dovremmo invece dire di noi stessi: un italiano, un genio; due italiani, un conflitto; tre italiani, un fallimento. Figuriamoci se gli italiani in gioco sono una decina (i partiti della disciolta maggioranza), una trentina (i ministri del governo uscente), un centinaio (i suoi membri complessivi) o un migliaio (i nostri parlamentari), estranei tra di loro, per formazione, ideologia, interessi e del tutto incapaci a cooperare.
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