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ISSN 1827-8817 80318
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
di Ferdinando Adornato
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
IL DALAI LAMA COMBATTE LA SUA BATTAGLIA DI LIBERTÀ NELL’IMBARAZZO DELLA COMUNITA’ INTERNAZIONALE
Da solo Europa e Stati Uniti chiedono la fine della repressione, ma nessuno vuole davvero sfidare la Cina. E l’Onu (ma a che serve?) brilla per il suo silenzio pagine 2, 3, 4 e 5
NordSud Rivoluzione banda larga Mario Derba, Alessandro D’Amato, Maurizio Dècina, Sandro Frova
da pagina 12 MARTEDÌ 18
MARZO
alitalia
musica
CON AIR FRANCE TRAMONTA IL SINDACATO
IL RITORNO DI COHEN “IL SILENZIOSO”
Gianfranco Polillo
a pagina 7
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
Alfredo Marziano
NUMERO
48 •
kosovo
Violenze a Mitrovica. L’Onu lascia a pagina 21
WWW.LIBERAL.IT
Massimo Ciullo
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
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19.30
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Mentre la Cina impone l’ordine in Tibet e rifiuta ogni apertura al dialogo
Dal mondo un fiume di parole l Tibet è solo. C’è una grande emozione di fronte alle immagini fortunosamente giunte da Lhasa e di fronte alle notizie che faticosamente riescono a giungere, fra cui quella diffusa ieri dal Parlamento in esilio a Dharmasala in cui si parla di «centinaia di morti». C’è un crescente orrore di fronte al dispiegamento dell’esercito in tenuta di combattimento, ai rastrellamenti casa per casa, agli ultimatum in cui si chiede l’autodenuncia in cambio dell’impunità. Cresce e diventa più intenso il sentimento di solidarietà attorno ai monaci buddisti e agli abitanti di Lhasa. Ma c’è anche sgomento perché tutti sanno che il governo di Pechino sente di avere le mani libere e sa che nessuno è in grado di sfidare davvero la grande potenza del XXI secolo. Grazie ai rapporti di forza politici, commerciali e militari. Anche quando Condoleezza Rice, per alzare un po’ il tono della polemica, chiede che venga finalmente aperto il dialogo con il Dalai Lama, anche quando subito dopo lo chiede l’Unione europea, tutti sono coscienti che si tratta solo di auspici. E con gli auspici, in casi come questi, non si ottiene nulla. Sul terreno, la Cina continua ad esercita la propria sovranità, secondo i propri metodi. Lo fa grazie alla sua lunga storia imperiale – del resto lo ha sempre fatto – e lo fa grazie alle proprie necessità del momento, che prevedono solo limitate aperture e concessioni, senza mettere in discussione la struttura totalitaria del regime.
I
di Renzo Foa il governo di Pechino ha detto no alla richieavanzata sta, dal Dalai Lama, di inviare osservatori internazionali sul terreno, aggiungendo che è «naturale» impedire ai giornalisti e perfino ai turisti di raggiungere il Tetto del mondo. Dunque, che non arrivi nessuno che possa raccontare e meno che mai una telecamera che possa registrare quel che accade e farlo arrivare all’attenzione di miliardi di persone. Meglio la censura, meglio la rivendicazione della censura come un diritto di avere le mani libere. Senza le immagini delle sparatorie, delle cariche, dei morti e dei feriti. Dove non arriva la Cnn non c’è problema. O, meglio, il problema può essere risolto prima. Il regime nazionalcomunista cinese ha, se non altro, un comportamento coerente. Non ha complessi d’inferiorità nel dichiarare di voler governare «a porte chiuse», come del resto ha sempre fatto e come continua ad avere intenzione di fare, perché nessuno è in grado di imperlo. Viene da chiedersi se davvero lo scandalo di questi giorni sia stato rappresentato dall’Angelus di domenica scorsa di papa Benedetto XVI o se, al contrario, lo scandalo non consista in un mondo che non riesce, nelle situazioni di emergenza, a dotarsi degli strumenti per far rispettare ovunque i diritti dell’uomo. E quando parlo degli strumenti, penso in primo luogo alle istituzioni internazionali, a cominciare proprio dalle Nazioni Unite, che sono paralizzate dai poteri di veto del-
Pechino respinge la richiesta di osservatori internazionali e chiude Lhasa ai giornalisti e perfino ai turisti
Non c’è da stupirsene. Siamo alle solite. I confini della globalizzazione – ormai così labili nell’economia, nella finanza, nello spettacolo – diventano rigidi quando si entra nella sfera della politica. La tutela della sovranità interna, spesso fondata sulla supremazia etnica oltre che su una filosofia del potere, finisce con il fare aggio su tutto il resto. E così la grande sfida dell’internazionalismo umanitario, lanciata dopo il 1989, continua a registrare le proprie sconfitte, una dopo l’altra. Sconfitte grandi e piccole. Ma in ogni modo sconfitte, se ancora ieri
l’antidemocrazia. E allora c’è da dire che se l’Angelus di domenica scorsa a Piazza San Pietro è stato uno scandalo, quel che non succede al Palazzo di Vetro di New York è uno scandalo moltiplicato per cento, se non per mille. Il Tibet è proprio solo. Il Dalai Lama continua a priil vilegiare realismo, continua a non rivendicare l’indipendenza, continua a chiedere solo il rispetto per la religione e la cultura degli abitanti del Tetto del mondo, non invita neppure al boicottaggio dei Giochi olimpici. Conferma un indirizzo politico che lo espone a critiche e contestazioni di gruppi e forze più impazienti, sia nell’emigrazione che nella resistenza interna. Ma va avanti, segue con coerenza la sua linea, perché sa che è meglio non rivendicare l’impossibile e cercare di ottenere il possibile. Che è più utile agire all’interno dei rapporti di forza internazionali che ci sono. Che, altrimenti, imboccherebbe la strada del suicidio politico. È questa ostinazione moderata a rendere la guida spirituale del buddismo tibetano uno dei grandi e positivi protagonisti del nostro tempo. A creare simpatia e consenso. A tessere nel mondo una rete di solidarietà che – per quanto incapace di aiutarlo a conseguire risultati immediati – continua a costituire un investimento per il futuro. Non c’è solo un’ostinazione moderata nei comportamenti. C’è qualcosa di molto di più. C’è la costante sottolineatura della difesa di un diritto alla vita, prima di tutto. C’è – a volerlo spiegare anche un po’ sommariamente – la vita delle persone concepita come identità e cultura. Questa è la nonviolenza. Questa è la rivoluzione che la
guida spirituale del Tibet ha attuato, rendendo straordinario un percorso compiuto in più di mezzo secolo dallo stato di regime teocratico (come quello che era al potere a Lhasa) alla condizione di simbolo di lotta per la libertà. La forza del Dalai Lama è questa. Consiste nella sua credibilità di fronte alla mancanza totale di credito delle autorità cinesi e della loro politica. Mancanza di credito quando lo indicano come il capo di una cricca di ribelli e di guastatori. Quando rifiutano di aprire una qualsiasi forma di dialogo con lui. Quando si illudono di poter riuscire a colonizzare completamente il Tetto del mondo grazie alla loro potenza demografica, al loro nazionalismo, all’irruenza della loro espansione economica e finanziaria. E, infine, quando calcolano che la grande parata celebrativa delle Olimpiadi si terrà comunque e che eventuali danni saranno meno pesanti del vantaggio di esibire il pieno approdo della Cina nel mondo contemporaneo.
Già, perché a proposito dei Giochi del prossimo agosto, non c’è solo da tornare a ripetere che si tratta dell’occasione irripetibile, per quanto possa essere difficile, di ficcare il naso nel grande dossier dei diritti umani violati. C’è da aggiungere che da sempre l’appuntamento olimpico (come tanti altri appuntamenti sportivi internazionali) è stato soprattutto uno specchio dei tempi. Non un atto formale e ufficiale, ma una sequenza di giornate e quindi di immagini destinata a lasciare il segno. Oggi, chiedere di rinunciarvi, non equivale solo a chiedere l’impossibile per i grandi interessi che sono in ballo e per il coinvolgimento dell’intero pianeta. Del resto, in passato, nessuna richiesta di boicottaggio (neanche dell’appuntamento di Mosca, dopo l’intervento a Kabul) conseguì il risultato sperato di azzerare un’intera organizzazione. Oggi, chiedere di rinunciarvi significa al contrario chiudere definitivamente la cappa del silenzio. Paradossalmente, i giorni in cui sarà accesa la fiamma a Pechino, saranno gli unici in cui il regime cinese potrà essere considerato prigioniero del mondo. Basta che il mondo, però, lo voglia. Con un scopo: trasformare la solitudine del Tibet in una grande vertenza internazionale.
hanno detto Condoleezza Rice, segretario di Stato Usa «Dobbiamo premere sulla Cina affinché rispetti i diritti fondamentali e universalmente riconosciuti di tutti i suoi cittadini ad esprimere pacificamente le idee politiche e religiose e chiediamo alla Cina di rilasciare i monaci e chiunque altro sia stato imprigionato solo per la pacifica espressione delle proprie idee» Lord Malloch Brown, ministro degli Esteri britannico «Con le Olimpiadi davanti, i cinesi andranno a pagare un terribile costo nei confronti dell’opinione pubblica mondiale, spettatrice di un violento giro di vite contro la dissidenza. (...) E spero fermamente che (le autorità cinesi) prendano a cuore il problema, trovando una via per discuterne a fondo, cominciando in Tibet un dialogo atteso da troppo tempo» Mashiko Komura, ministro degli Esteri giapponese Vorrei conoscere con chiarezza qual’è la situazione e i fatti che l’hanno provocata. (...) Spero che le parti in causa sapranno raggiungere serenamente un accordo, facendo in modo che il conto dei morti e dei feriti non peggiori ulteriormente. Bernard Kouchner, ministro degli Esteri francese «Con l’avvicinarsi dei giochi Olimpici, che devono essere un grande spettacolo di fratellanza, la Francia vorrebbe portare all’attenzione delle autorità cinesi l’importanza del rispetto dei diritti umani» Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco «Dovrà essere fatto tutto il possibile per evitare ogni ulteriore escalation, permettendo una pacifica conclusione del conflitto». Kevin Rudd, primo ministro australiano «I più recenti sviluppi nel Tibet sono allarmanti e esorterò le autorità cinesi a esercitare moderazione». Helen Clark, primo ministro neozelandese «Vogliamo vedere la fine della violenza. Abbiamo da tempo sollecitato la Cina ad impegnarsi in un dialogo significativo con i rappresentanti del popolo tibetano, così come pensiamo questa sia la via migliore per conseguire una soluzione duratura ai problemi nel Tibet» Ban Ki-Moon, segretario generale dell’Onu Non pervenuto
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Per il direttore dell’Osservatore Romano Gian Maria Vian (foto sotto) è bene che la Santa Sede continui a mantenere aperto un dialogo con Pechino
Il direttore dell’Osservatore Romano: «In settimana potrebbe esserci una presa di posizione»
«Il Vaticano non è indifferente si sta muovendo la diplomazia» colloquio con Gian Maria Vian di Riccardo Paradisi ROMA. In Tibet non si spegne il fuoco della rivolta. Malgrado la durissima repressione cinese che ha lasciato sul terreno almeno cento persone (le autorità cinesi continuano a parlare solo di 13 vittime) le manifestazioni di protesta si stanno estendendo a tutto il Paese. «Ho delle sensazioni terribili come quelle dei giorni che precedettero la data del 10 marzo 1959», dichiarava ieri il Dalai Lama ricordando l’ecatombe di mezzo secolo fa seguita all’insurrezione del popolo di Lhasa. L’Occidente tiene il fiato sospeso e sembra smarrito. A far discutere è anche la condotta tenuta finora in Vaticano. Perché il Papa, ci si chiede, non è ancora intervenuto sul Tibet? Sul silenzio del Pontefice abbiamo parlato con Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, giornale della Santa Sede. Direttore perché sul Tibet il Papa non si è pronunciato? Non si è pronunciato fino ad ora. Nei prossimi giorni è possibile che invece questo avvenga. Mercoledì c’è l’udienza generale e un’occasione potrebbe essere quella, ma anche il venerdì santo o la stessa Pasqua potrebbero costituire occasioni favorevoli per un’eventuale intervento di Benedetto XVI.
C’è una certa prudenza del Vaticano però sul genocidio culturale in atto in Tibet. Guardi, la Santa Sede è tradizionalmente prudente, e poi trovo prematuro aprire una polemica come qualcuno ha già fatto e anticipare conclusioni. Anche perché non è affatto vero che il Vaticano taccia o abbia taciuto sul Tibet. Ci sono i mezzi di comunicazione vaticani che si esprimono: il quotidiano, la radio, la sala stampa. È in atto insomma un’azione da parte vaticana
che. Del resto le polemiche sul silenzio dei Papi non sono nuove. Già nell’aprile del 1939 Mounier si interrogava sul silenzio di Pio XII a proposito dell’aggressione italiana in Albania. Gli ambienti polacchi a Londra poi accusavano la Santa Sede di avere dimenticato la Polonia. Su questo poi si è innestata la propaganda sovietica… Ma oggi sappiamo che quei silenzi non erano tali. Il Vaticano teme anche per la possibilità di rappresaglie sui cristiani in Cina? C’è questo aspetto e ce ne sono
chiararono 200 morti tra cui 100 soldati. Ma i morti erano più di 2mila. Ed erano civili. Certo. È stata una vicenda terribile. Ma ci sono state delle evoluzioni in Cina. È un Paese complesso con una grande storia, meta dei missionari nestoriani nel VII secolo, poi dei gesuiti ai tempi di Matteo Ricci quasi mille anni dopo. Un Paese dove il cristianesimo ha seminato molto. E sul quale il Vaticano ha da diversi decenni uno sguardo molto attento. Un Paese dove i cristiani
«La posta in gioco è molto alta in Tibet. E rispetto al fuoco di paglia delle esternazioni – che possono attirare lodi di superficie e mettere in quiete la coscienza– è molto più efficace mantenere la brace accesa» La Santa sede agisce, ma pondera i modi dell’azione. Lo stesso Dalai Lama di fronte alla proposta di boicottare le Olimpiadi in Cina ha detto che non è opportuna. Le azioni hanno sempre delle conseguenze. È difficile allora valutare e giudicare i silenzi del Papa. Un silenzio operoso dunque. Per esempio contatti diplomatici potrebbero avere effetti più efficaci di prese di posizione pubbli-
altri. Ma il silenzio, ripeto, non deve trarre in inganno. I canali informativi sono sempre aperti anche se io non ho certo il polso della situazione come possono averlo in segreteria di Stato. È anche oggettivamente difficile avere delle informazioni precise: le autorità cinesi parlano di 13 morti, i tibetani di oltre cento vittime. I cinesi si tennero bassi anche sulla contabilità di Piazza Tien An Men: di-
hanno anche molto sofferto. Dopo il 1949 con l’espulsione del nunzio si sono moltiplicate le persecuzioni. Ma ora ci sono molte relazioni ed è bene che continuino. Da parte sua l’Osservatore Romano non ha mai mancato di pubblicare notizie dalla Cina sui religiosi perseguitati con storie di autentico martirio. L’anno scorso Qi Xiaofei, vicedirettore dell’ammini-
strazione statale cinese per gli affari religiosi, ricordava alla Santa Sede le due condizioni per promuovere le relazioni diplomatiche: tagliare i ponti con Taiwan e non interferire negli affari interni della Cina con la scusa della religione. Non ci sono novità particolari in queste dichiarazioni. Fanno un po’ parte di un canovaccio ufficiale. La realtà è che le trattative sono permanenti. Dialogo dunque, intanto però il genocidio del Tibet prosegue indisturbato. Tanto che ambienti buddhisti vicino al Dalai Lama sono critici verso questa politica di assoluta non violenza predicata dal capo spirituale del Tibet. È vero, però è sempre necessario valutare le condizioni in cui ci si trova ad agire. Giova di più trattare. Nel suo estremo appello per la pace, nell’agosto del ’39, Pio XII disse: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». La posta in gioco è molto alta. E rispetto al fuoco di paglia delle esternazioni – che possono attirare lodi di superficie e mettere in quiete la coscienza – è più efficace mantenere la brace accesa.
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Le rivolte buddhiste: Vietnam, India, Bangladesh, Buthan e Birmania
Le guerre dei monaci che hanno infiammato l’Asia di Maurizio Stefanini a scorsa estate fu la rivolta dei monaci birmani contro il regime militare. Che è stata repressa nel sangue, ma che ha più o meno strappato alla Giunta al potere la promessa di un referendum costituzionale entro fine anno e di libere elezioni nel 2010. Anche se non è certo possibile sbilanciarsi troppo su quanto saranno veramente libere. Adesso è il turno dei monaci tibetani a muoversi, per l’indipendenza. E anche contro di loro il governo comunista agisce col pugno di ferro: compromettendo in questo modo ancor più gravemente l’immagine dei prossimi Giochi Olimpici di Pechino. Ma non solo in Birmania e Tibet il buddhismo provoca rivolte per la libertà. Perché è vero che un principio base del buddhismo è l’idea secondo cui il mondo sensibile non è che impermanenza e illusione; ma c’è pure l’altro principio della compassione, che avvicina invece il buddhismo al cristianesimo, e che può dunque alimentare teologie della liberazione altrettanto determinate.
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fu in Italia Meuccio Ruini. Ma Amdekar per protesta contro le caste aveva pure propugnato il passaggio dei dalit dall’induismo al buddhismo, dandone l’esempio in prima persona poco prima della sua morte, nel 1956, e riportando così il buddhismo in quell’India dove era nato, ma in cui si era estinto da otto secoli. Al censimento del 2008 i neo-buddhisti erano ormai in India oltre otto milioni, ed era tra di loro anche Kanshi Ram: fondatore di quel Bahaujan Samaj Party che è diventato la forza egemone dell’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato indiano. Anche se Primo Ministro, nel 1995, 1997, 2002-03 e dal 2007, è sempre diventata Mayawati Kumari, che dice di voler ora aspirare alla guida di tutta l’India: sua allieva, sua erede politica dopo la sua morte nel 2006, e anch’essa seguace di Amdedkar e praticante i riti neobuddhisti, anche se formalmente non ancora convertita (ma lo stesso Abdedkar si convertì formalmente solo dopo sei anni di studio e approfondimento).
il principio della compassione nella filosofia buddhista alimenta teologie della liberazione fortemente determinate
Un appello del dissidente cinese Wei Jingsheng
Togliete almeno quel poster di Mao di Wei Jingsheng
Bisogna poi ricordare i giapponesi TsuIn Vietnam, ad esempio, sono rimaste nella memoria collettiva le immmagini dei bonzi che si immolavano dandosi fuoco contro l’intervento americano. Meno noto è che Nhat Hanh, il teorico di questo “buddhismo impegnato”, dopo essere stato esiliato dal regime di Van Thieu è rimasto poi all’opposizione all’estero anche dopo la vittoria dei comunisti: intervenendo a favore dei Boat People, e mettendosi alla testa di una Chiesa Buddhista Unificata severamente vietata in patria. Solo nel 2005 e 2007 gli è stato permesso tornare in Vietnam in visita, dopo lunghi negoziati. Che peraltro non hanno affatto posto termine alla dura repressione contro gli adepti alla Chiesa Buddhista Unificata in Vietnam. Un altro alfiere di una teologia della liberazione buddhista fu l’indiano Bhimrao Ramji Ambedkar: un padre della patria che in quanto dalit, o come si dice in Occidente paria, si era posto in forte critica sia del Congresso che degli stessi Nehru e Gandhi, da lui accusati di accettare il sistema delle caste. Per la sua reputazione di giurista profondo e integerrimo lo stesso Congresso lo volle però come presidente del Comitato incaricato di redigere la nuova Costituzione: insomma, l’equivalente di quello che
nesaburo Makiguchi e Josei Toda: fondatori della setta Soka Gakkai, e mandati in galera dal regime di Tokyo durante la Seconda Guerra Mondiale per la loro opposizione. Makiguchi, anzi, morì in detenzione. A loro dice di richiamarsi il partito Komeito, che si considera una specie di “Cdu buddhista”, e che fa parte della coalizione attualmente al governo a Tokyo. Ma accanto a questi movimenti non violenti, non è mancata poi Bangla Desh la rivolta armata degli jumma: popolazione tribale delle cosidette Chittagong Hill Tracs dell’Est, in maggioranza buddhista, anche se con componenti induiste, cristiane e animiste. Il Shanti Bahini, movimento armato costituito nel 1972, combattè per un quarto di secolo contro il governo centrale islamico, prima di arrivare all’accordo di pace che nel 1997 concesse un’ampia autonomia.
Cari amici, tutti voi sapete che nel 1936 i giochi olimpici furono ospitati dal partito nazista in Germania. Il mondo era allora consapevole che i Giochi avrebbero incoraggiato il nazismo, ma nessuno mosse un dito per fermarli. Espresso in cifre, quello che successe dopo, si riassume in 20 milioni di persone innocenti uccise. Ebbene: sapete chi ospiterà le Olimpiadi del 2008? Il partito di Mao Zedong, il partito comunista cinese, lo stesso partito che ha ucciso oltre 80 milioni di innocenti. Oggi, la foto di Mao campeggia ancora sulla Porta della Pace celeste in Piazza Tiananmen. In nome delle Olimpiadi, e affinché la coscienza dell’umanità possa conoscere la pace, vi chiediamo di scrivere al Cio e domandare al governo cinese di mantenere le
promesse fatte a suo tempo per ottenere il benestare ai Giochi del 2008. Tali promesse includono il miglioramento dei diritti umani in Cina, il rilascio dei prigionieri politici e la libertà di parola. Ma c’è di più: noi chiediamo che per i 17 giorni delle Olimpiadi agostane, il poster di Mao Zedong venga levato dalla Porta della Pace celeste e rimpiazzato con i cinque anelli, emblema delle Olimpiadi. Per favore, scrivete a Jacques Rogge, presidente della Commissione olimpica internazionale. Egli è obbligato a fare pressioni sul Governo cinese affinché onori le promesse fatte al momento della candidatura per ospitare i Giochi 2008 e ad incoraggiarli a mostrare la loro buona volontà levando la foto di Mao Zedong.
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La campionessa ricorda il clima che si respirava a Mosca nel 1980
«Non boicottiamo i Giochi» colloquio con Sara Simeoni di Cristiano Bucchi
Dalle Olimpiadi del Messico nel ’68 ai Mondiali di calcio in Argentina
Il grande sport ha sempre aperto una breccia per la democrazia di Italo Cucci o al boicottaggio delle Olimpiadi: colpirebbe solo i più deboli». L’abbiamo detto in tanti – minacciati peraltro di essere travolti da un’ondata di ipocrisia – ma quel che conta l’ha detto lui, il Dalai Lama, oggi evocato da tutti come alfiere della libertà del Tibet contro l’oppressore cinese, ieri transitato in Italia alla chetichella, ignorato dal governo, timoroso di veder danneggiati i suoi affari con la Cina, e dal Vaticano, preoccupato di non complicare ulteriormente le trattative “religiose”in corso. Da decenni il movimento olimpico è minacciato da chi non ha mai saputo coglierne lo spirito e la grande forza innovativa; minacciato soprattutto da quei politici d’ogni colore che non hanno avuto tempo e voglia di acculturarsi, di scoprire quanto la forza che questo antichissimo evento sportivo sprigiona, quanto le Olimpiadi abbiano fatto per la democrazia e la giustizia. Non sono i record sportivi che contano, alla fine, ma quelli sociali. Lo sport più qualificato quando arriva nei Paesi dominati da regimi dispotici inocula il virus della libertà. È successo nell’Argentina di Videla, nel ’78, quando a noi cronisti del pallone fu involontariamente consentito di arrivare in Plaza de Mayo e assistere al quotidiano rito funebre delle Madri Piangenti che ci prendevano per mano e ci chiedevano di trascrivere i messaggi posti sotto le foto dei loro figli e mariti desaparecidos. Allora il mondo seppe in maniera eclatante quel che prima era solo mormorìo di pochi. È successo nella Mosca dell’80, durante l’Olimpiade che, organizzata con l’arroganza di chi credeva di poter sfidare impunemente l’informazione e la comunicazione del mondo libero, aprì l’Unione Sovietica ai giornali, alle radio, alle televisioni. Ai cronisti che si muovevano praticamente liberi, incontravano la gente, scrivevano e telefonavano le loro libere impressioni. Da quell’insolito rito l’Urss non si è più ripresa: glasnost e perestrojka erano in agguato, l’Olimpiade le scatenò.
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ROMA. Le olimpiadi di Mosca del 1980 verranno ricordate per il primo grande boicottaggio della storia olimpica.Tutto ebbe inizio il 28 dicembre del 1979 quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan. Pochi giorni dopo il presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, dichiarò la sua volontà di non mandare atleti statunitensi alle Olimpiadi. Il 24 gennaio la Camera americana approvò a stragrande maggioranza il boicottaggio. Alla fine si registrò la defezione di 61 nazioni, compresa la Cina comunista appena riammessa dal Cio. Il governo italiano decise la non partecipazione ai giochi proibendo agli atleti militari di partire, ma il comitato olimpico nazionale ignorò il divieto. Alla fine si trovò un compromesso bizzarro: gli atleti italiani sarebbero andati a Mosca a titolo individuale e senza rappresentare il Paese. Non sarebbe risuonato l’inno nazionale e non sarebbe sfilato il tricolore nella giornata inaugurale. Alla fine dei giochi l’Italia, quinta nella classifica assoluta, fu prima tra i Paesi occidentali con otto medaglie d’oro, tre d’argento e quattro di bronzo. L’allora 27enne Sara Simeoni con 1,97 salì sul gradino più alto del podio. Oggi vive a Verona assieme alla sua famiglia, e si dedica con grande passione alla sua attività di testimonial della Federazione Italiana di Atletica Leggera. Che cosa ricorda delle Olimpiadi di Mosca?Ricordo un grande nervosismo da parte di
tutti gli atleti. Non riuscivo a capire se ci avrebbero portato ai giochi. In particolare io avevo da poco stabilito il record del mondo e c’era la grande occasione delle Olimpiadi per dimostrare il mio valore. Quale era il clima nel villaggio olimpico? Ricordo che a Mosca del boicottaggio se ne parlava poco. Sapevamo di essere lì per gareggiare, e così eravamo concentrati sulle gare. Fu difficile gareggiare in quella situazione? Ero la favorita. Avevo il record del mondo da difendere e gareggiare con questo pensiero non è stato facile. Quella medaglia la consideravo mia. L’inno di Mameli sostituito da quello del comitato olimpico. Le fece effetto?
terrogato sull’assegnazione delle Olimpiadi alla Cina? Possibile che lo si scopra solamente ora, a pochi mesi dall’inizio dei giochi, si parli di morale e di etica. Sono basita. Che cosa dovrebbe fare la comunità internazionale? Dovrebbe essere l’Unione Europea a pronunciarsi con una sola voce. Già questo sarebbe un segnale molto importante. Il fatto che la Cina sia una grande potenza economica può essere una spiegazione sufficiente? Sì. Credo siano l’economia, il potere del denaro e gli investimenti, a decidere tutto. Poi quando fa comodo, ci mettono dentro tutto il resto come ad esempio i diritti dell’uomo. Il regime sovietico era diverso dal regime cinese? A Mosca mi accorsi di un Paese che viveva un realtà molto diversa dalla nostra. Quando andavamo in giro per la città, c’erano dei percorsi obbligati di cui non ci accorgevamo. Non potevamo camminare da soli. Non era una bella sensazione. Seguirà le Olimpiadi? Farò il tifo per Antonietta Di Martino. È una grande atleta e sembra aver imboccato una costanza di risultati che fa ben sperare per i prossimi appuntamenti. Che cosa le può consigliare in vista della gara? Alla Olimpiadi è necessaria molta tranquillità e un grande staff. Alle volte l’aspetto psicologico è più importante di quello fisico.
«Fu una strana sensazione quando invece dell’Inno di Mameli c’era quello del comitato olimpico» Per quanto ci avessero preparati, fu una sensazione molto strana. Vincere e ascoltare il proprio inno credo sia il massimo. A Mosca purtroppo non fu possibile. È d’accordo con chi chiede di boicottare i Giochi olimpici per salvare il Tibet? Se il boicottaggio servisse per salvare il Tibet, tutti gli atleti si schiererebbero a favore. Perchè nessuno cinque anni fa si è in-
È la forza di una gioventù sana di corpo e di mente, felice di ritrovarsi sotto cento bandiere che alla fine sono raccolte dai cinque cerchi. Visitare un villaggio olimpico e mescolarsi ai protagonisti illustri o meschini, ai campionissimi e agli aspiranti, sarebbe esercizio utile per gli inutili – spesso – signori delle Nazioni Unite che, come i politici, s’intrattengono fra simili e ignorano le grandi risorse morali delle giovani generazioni. I Giochi Olimpici hanno creato una storia parallela – non solo di sport ma di civiltà – che andrebbe riletta e meditata, una storia scritta anche semplicemente da gesti memorabili: le vittorie di Jesse Owens nell’Olympiastadion di Berlino monumento al nazismo imperante, costrinsero Adolph Hitler all’apice della gloria – era il 1936 – ad abbandonare infuriato la tribuna d’onore per l’affronto subìto da parte di quel Superuomo Nero. E il pugno nero di Tomaie Smith e John Carlos sul podio di Città del Messico 1968 non annunciò solo l’esplosione del Black Power ma anche l’irrefrenabile anelito di libertà dei neri d’America. Oggi è data la possibilità anche agli atleti e al popolo della Cina di farsi comunque protagonisti davanti al mondo, non solo con le vittorie, che saranno tante, ma con la partecipazione sempre negata fino a quello spiraglio di luce regalato dall’ormai mitica partita di pingpong: era il 1971 quando Clenn Cowan, capitano della squadra americana di tennis tavolo, fu invitato dai giocatori cinesi a una tournèe nel loro Paese: e a Nagoya si realizzò il disegno che Ciu En-Lai aveva confessato a Edgar Snow, il riavvicinamento fra Stati Uniti e Cina, fra due mondi in conflitto di civiltà. Si scrisse, allora, che si erano aperte le porte della Grande Muraglia. L’Olimpiade di Pechino può spalancarle del tutto. Non solo al business ma anche alla vera democrazia.
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politica d i a r i o
d e l
g i o r n o
Casini incontra il Terzo Settore Il candidato premier per l’Unione di Centro Pier Ferdinando Casini ha incontrato ieri insieme a Luisa Capitanio Santolini una delegazione del Forum del Terzo Settore. Le rappresentanti del Forum del Terzo Settore Maria Guidotti e Vilma Mazzocco hanno presentato il documento “Impegnati per l’Italia” elaborato per le elezioni politiche ed hanno sottolineato: «Il terzo settore lavora sui valori forti della responsabilità collettiva e della comunità. I corpi intermedi rivestono un ruolo fondamentale di coesione sociale e di progettualità civica». «Riteniamo essenziale - ha risposto Casini - che il Forum del Terzo settore abbia pieno riconoscimento come parte sociale e che sia presente nei passaggi sostanziali dell’iter legislativo e del processo governativo. Ci impegnamo sin d’ora affinché la piena sintonia di oggi sui valori e proposte trovi sostanza in un rapporto che cresca progressivamente».
Liste estero: dappertutto Pdl, Pd e Udc Le liste per le circoscrizioni estero di Camera e Senato hanno passato l’esame anche della Commissione centrale elettorale presso la Corte di Cassazione e sono definitive. Pdl, Pd e Udc sono gli unici partiti ad avere presentato il simbolo nelle quattro circoscrizioni della Camera e nelle quattro circoscrizioni del Senato.
Veltroni promette più pensioni, Berlusconi si autosmentisce
I déjà-vu di Pd e Pdl di Susanna Turco
ROMA. «Non l’ho mai detto, è la solita strumentalizzazione frutto del tradizionale vizio stalinista». Pare l’eco di un ricordo lontano, eppure è cronaca di ieri, una cronaca che - mentre nel campo avverso si sentono slogan del genere più pensioni per tutti - dice molto sullo stato di salute delle forze in campo nell’attuale campagna elettorale. Dopo aver detto al Forum di Confcommercio a Cernobbio che «una volta vinte le elezioni ci toccherà mettere mano ancora alle pensioni ripristinando la Maroni, con tanto di scalone, e magari non basterà neanche» ed essere arrivato a prevedere la necessità di «assumere decisioni non saranno accettate pacificamente da tutti i cittadini», Silvio Berlusconi fa un mezzo passo indietro e si corregge, per placare la marea montante delle critiche. «Ho detto che il problema principale delle pensioni è quello di mantenere intatto il potere d’acquisto dei pensionati», spiega in una nota: «So bene che i sistemi pensionistici non si cambiano da un anno all’altro, tanto meno senza una consultazione sociale». Quindi figurarsi. Una correzione che naturalmente non sopisce né le polemiche politiche né gli allarmi dei sindacati. Fra gli altri, il ministro del Lavoro Cesare Damiano definisce quelle del Cavaliere «affermazioni pericolose, intempestive e dannose» e spiega che
«non c’è alcun bisogno di modificare la legge» e che «i conti dell’Inps sono notevolmente migliorati». Ma è da Roberto Maroni, autore della legge di riforma delle pensioni nella scorsa legislatura, che arriva l’altolà più pesante. Per l’ex ministro del Welfare, infatti, non è affatto il caso di toccare lo scalone. «Per carità, meglio non toccare nulla, anzi propongo che il prossimo governo si impegni a lasciare le cose come stanno per tutta la legislatura, in altre parole una moratoria di cinque anni», perché «ai lavoratori la politica deve una
Pier Ferdinando Casini: «Alle marce avanti e indietro del Cavaliere sono abituato», ma «se questa è la premessa del buon governo, auguri» cosa: la garanzia di stare tranquilli, dopo tanti anni di tira e molla». Secondo l’esponente leghista «l’unico cambiamento che si puó fare è aumentare le minime, e dare incentivi per tenere al lavoro chi potrebbe andare in pensione». Ma sull’età pensionabile «bisogna restare a cio che è stato deciso con le modifiche alla mia riforma, nulla puó essere cambiato al di fuori delle regole seguite dal governo Prodi».
Sconfessato dai suoi alleati, costretto ad autosmentirsi e pronto ad accusare i giornalisti «stalinisti», Berlusconi rinverdisce così un copione che si pensava (sperava?) destinato a sbiadire. Commenta Pier Ferdinando Casini: «Io alle marce avanti e indietro di Berlusconi sono abituato», ma «se questa è la premessa del buon governo, auguri». Già, auguri. Anche perché, sul fronte opposto al Pdl, durante i suoi comizi in giro per l’Italia Walter Veltroni ha sfoderato un paio di proposte che paiono fare il verso a una precisa tendenza della Seconda Repubblica. Parlando ad Alessandria, infatti, il candidato premier del Partito democratico annuncia che è in preparazione una proposta per aumentare le pensioni: «Sarà una proposta che partirà dalla necessità di avere un intervento straordinario» perché, spiega citando il Corriere di Milano, «è socialmente e moralmente inaccettabile per un paese come il nostro che ci sia la fila davanti al ’compro oro’ perché gli anziani non ce la fanno». Più pensioni per tutti, quindi. Ma, anche, meno soldi ai parlamentari. «Non possiamo più stare in un Paese con gli stipendi più bassi e le retribuzioni dei parlamentari più alte del resto d’Europa - dice Veltroni a Novara -. Dobbiamo unificarle agli altri Paesi europei». Un giochino da niente, come si è già visto.
Meloni, al via il tir “acchiappasogni” Un tir di tredici metri girerà in tutta Italia per sostenere la campagna elettorale del Pdl. E’ questa l’iniziativa dei giovani di Alleanza nazionale, presentata oggi da Giorgia Meloni, vicepresidente della Camera e presidente di Azione giovani. Il truck acchiappasogni parte oggi per la “rivolta dei bamboccioni”. All’interno del tir coloratissimo è allestito anche un circuito interno di riprese (tipo videobox) che consentirà ai giovani di lasciare i propri videomessaggi. «Vogliamo immaginare finalmente - spiega Meloni - una politica che possa dare risposte concrete ad una generazione che è stata ingannata soprattutto dal centrosinistra, che negli ultimi anni ha rubato loro il futuro pensando di poterli ripagare con la droga libera e con i concerti gratuiti. Noi, invece, vogliamo risposte serie sui temi del precariato, della scuola, della casa, della formazione e dell’Università».
Lubich, oggi l’ultimo abbraccio L’ultimo abbraccio a “mamma’ Chiara”, la fondatrice del Movimento dei Focolari: oggi pomeriggio, alla Basilica di San Paolo fuori le Mura,è attesa una grande folla che giungerà da tutta Italia e anche dall’estero per rendere l’estremo saluto alla Lubich, scomparsa venerdì notte all’età di 88 anni. La Questura di Roma ha fatto sapere di essere pronta a ricevere oltre 20mila fedeli. E i numeri, infatti, fanno pensare a una grande celebrazione: oltre 100 i religiosi, tra cardinali, vescovi e sacerdoti, che concelebreranno insieme a Bertone. La camera ardente, allestita al centro Mariapoli a Rocca di Papa, resterà aperta fino alle 10 della mattina. Il trasporto funebre partirà dopo le 11 e l’arrivo alla Basilica di San Paolo fuori le Mura (scelta perché ritenuta la Basilica più ecumenica) è previsto intorno alle 13.45.
All’estero il tour di Veltroni Dopo la partenza a Lugano, continua il tour del pullman europeo del Pd tra gli italiani all’estero. Nel suo percorso il pullman ospiterà i candidati locali del Pd e incontrerà le comunità italiane residenti in Europa. L’itinerario ha già toccato Basilea (Svizzera) e Monaco di Baviera (Germani) e proseguirà con Zurigo.
Cesa: «Voto utile? Arrogante» «Chiedere un voto utile è una vile dimostrazione d’arroganza e noi non abbiamo alcun interesse ad alimentare questa polemica, come abbiamo già affermato più volte». In questi termini il segretario nazionale dell’Udc, Lorenzo Cesa, replica ad Alessandra Mussolini e a Raffaele Fitto. «Ciò che sosteniamo da tempo - continua Cesa - è che dopo il voto esploderanno le contraddizioni presenti sia nel Pdl che nel Pd, che sono due coalizioni mascherate da partiti, e si verrà a creare una situazione di grave ingovernabilità».
poteri
18 marzo 2008 • pagina 7
In alto, il presidente di Air France, Jean Cyrill Spinetta. In basso, il numero uno di Alitalia, Maurizio Prato
Con l’acquisto di Air France finisce un’epoca di cogestione tra Stato e sigle all’insegna delle prebende facili
Alitalia,il mesto tramonto del sindacato di Gianfranco Polillo nni e anni di temporeggiamenti e discussioni astratte. Furbizie sparse a piene mani, come quelle messe in atto dai dipendenti con i finti certificati di malattia. Forme di sciopero che sciopero non erano. E poi i soldi inutilmente spesi del contribuente italiano, al ritmo di un miliardo all’anno. E ancora non è finita, perché ocorreranno altri 300 milioni per garantire che alla fine l’accordo Alitalia-Air France Klm vada in porto, apparentemente con un prestito, su cui la Ue è già in allarme. Senza contare le richieste della Sea, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, che chiede altri 1,2 miliardi d’indennizzo per l’abbandono di Malpensa. Pietra quest’ultima che rischia di far saltare un accordo non ancora concluso. A meno che il Governo non lo risolvi in anticipo con un decreto legge. E poi gli appannaggi milionari a un top manager che entrava ed usciva dal consiglio d’amministrazione della compagnia come fosse l’atrio di un grande albergo.
A
Com’era inevitabile, il momento della verità è arrivato: è per il sindacato è la fine di un’era. Un’era all’insegna della cogestione tra rappresentanti dei lavori e partecipazioni statali, che è andata ben oltre preben-
de tipiche del sottobosco italiano. Sì, perché alla Magliana il sindacato contava nel definire le strategie quanto l’azionista pubblico. E ora si tratta di prendere o lasciare. Se si prende, resta il barlume di una possibile e lontana ripresa. Se si lascia, c’è il fallimento, libri in tribunale e asta dei beni per soddisfare i creditori. Un patrimonio non solo materiale, ma di esperienze e lavoro, gettato al vento, ridotto in cenere a futura memoria di quello che andava fatto, e che nessuno ha osato fare. Era inevitabile che, in queste condizioni, Air France giocasse duro. Una serie di condizioni
seggeri (il 10 per cento, al 2011) alla scomparsa dei servizi cargo (2010) al ridimensionamento della flotta che si ridurrà a 137 veicoli. E poi la grande incognita degli esuberi: ufficialmente sono 1.600, ma calcoli più realistici portano questa cifra a quota 6.500 considerando la riorganizzazione delle attività di terra, il taglio della cargo e delle rotte antieconomiche. Di suo Air France ci mette un investimento complessivo, valutato non senza qualche contraddizione, di 1,7 miliardi da qui al 2010. Investimento esclusivamente per il futuro. Il prezzo di acquisto, tenendo conto
quando la sola partecipazione di Alitalia in Air France ne vale 140: 9,9 centesimi per azione. Solo a Natale – ma allora il petrolio non era alle stelle – era disposta a pagarne 35. Venerdì scorso, poi, il titolo ha chiuso a 0,534 euro. Insomma, se non sarà una svendita, poco ci manca. Il che risolleva l’antico interrogativo: come si è potuti giungere a tanto?
La storia di Alitalia rischia di divenire la metafora della società italiana. Problemi da tempo individuati, ma fatti marcire a causa di responsabilità diffuse. Impossibilità di decidere per via dei mille vincoli che para-
I rappresentanti dei lavoratori non hanno scelta: accettare il piano tutto lacrime e sangue dei transalpini (e sperare di salvare la compagnia) oppure candidarla al fallimento. La partita degli esuberi e degli ultimi aiuti pubblici sospensive punteggiano la proposta di accordo, ratificata dal management dell’azienda; ma ancora da sottoporre al vaglio della politica. Se non venissero accolte nella loro sostanza – forse un margine risicato di trattativa c’è – sarebbe la fine. Si va dalla riduzione del numero dei pas-
della complessità dell’operazione (un’Ops sul capitale azionario), sarà di 138 milioni,
lizzano ogni azione. Scarica barile tra i soggetti interessati alle vicenda – management, organizzazioni sindacali, forze politiche – più preoccupati a coprirsi reciprocamente che ad affondare il bisturi per scongiurare la cancrena. La situazione è andata avanti così per anni. I rapporti con Air France iniziarono nel 2002, con la comune appartenenza all’alleanza SkyTeam e uno scambio azionario, pari al
2 per cento del capitale. Da allora non è stato fatto alcunché per arrestare una deriva che avrebbe, inevitabilmente, portato alla crisi. Non si è deciso su Malpensa, sulle perdite che lo scalo comportava o sulla razionalizzazione del sistema aeroportuale, la cui frammentazione è all’origine di quella crisi. L’Alta velocità, che pure rappresenta una delle possibili soluzioni alla proliferazione degli aeroporti, specie nel nord, ha subito i ritardi che tutti conosciamo. I sindacali, invece di prendere il toro per le corna e contrattare con il governo un’adeguata politica di ammortizzatori sociali, hanno cercato di difendere l’indifendibile. Finchè il generale inverno ha rimesso a posto le cose, facendo emergere la crisi in tutta la sua portata. Che fare adesso? Difficile trovare alternative. Il cerino è rimasto nelle mani dei sindacati. Al loro consenso preventivo sul piano industriale Air France condiziona il rispetto di un accordo che, nonostante tutto, rischia addirittura di fallire. Non resta che sperare di salvare il salvabile. Ma almeno che questa vicenda serva da lezione, costringendo tutti – forze politiche e sociali – a sfilare la testa dalla sabbia e guardare in faccia la dura realtà dell’arte di governo.
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L’ITALIA AL VOTO La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Pdl: siamo al 65% (forse)
Bobo e Boselli saranno presto monaci
di Arcangelo Pezza I partiti italiani non sembra siano ancora molto interessati alla comunicazione Internet. Tolti i siti istituzionali, c’è poca roba in giro. E se si esclude qualche tentativo velleitario, per esempio il blog di Alfonso Pecoraro Scanio o la Second Life di Antonio Di Pietro, tutto rimane nel solco della tradizione. Così che la lotta on line tra Pd e Pdl appare all’insegna dell’inciucio, più che della competizione. Epperò scorgendo alcune analisi dettagliate (per esempio quella ottima su www.spindoc.it, una vera miniera per l’informazione politica) ci si accorge che il Partito Democratico vince a mani basse, almeno in fatto di accessi. Entrando nel sito di sinistra (www.partitodemocratico.it) ci si accorge infatti del tentativo di coinvolgere l’elettorato attraverso sistemi di multimedialità (forum, video, social network…). Mentre il sito del Pdl e più povero e si limita a proporre materiali e informazioni sulla campagna politica. Anche il sondaggio che è l’unica possibilità di feed back è una domanda alquanto retorica («Secondo te, il Pd di Walter Veltroni ha copiato in gran parte il programma di
Silvio Berlusconi e della Casa delle Libertà?»), a cui il popolaristidellalibertà non può che rispondere “sì”, e che non aggiunge nessuna ulteriore conoscenza del proprio elettore. Secondo le stime fatte usando il sistema di rilevamento Alexa (pur non preciso al 100 per cento), il portale del Pd, linkato da tutti i siti della sinistra, ha accessi più che doppi di quello del portale de Pdl che sconta il fatto di non essere linkato né dal sito di Alleanza Nazionale né da quello di Forza Italia che paradossalmente continua ad aver più contatti del sito del nuovo rassemblement. Sarà che il Pd è ormai considerato un partito, mentre An e Forza Italia ancora non hanno trovato l’accordo per fondersi e preferiscono mantenere anche in Rete distinte le proprie identità. Da sottolineare nel sito del centrodestra un linkino dal titolo trionfalistico: «Il nostro sondaggio: Pdl al 65%». Peccato che quando si clicca, forse segno dell’eccesso di entusiasmo, compaia il desolante avviso «Impossibile trovare la pagina».
di Giancristiano Desiderio Il Dalai Lama e il dramma del Tibet entrano nella campagna elettorale. Era inevitabile. Nella sede del Dharamsala circondata da migliaia di fedeli in preghiera il Dalai Lama ha detto ciò che tutto il mondo ha ascoltato facendo finta di non capire: «Questo è un genocidio culturale». Bobo Craxi ha visto delle somiglianze tra la tragica situazione tibetana e il destino dei socialisti: «In Italia è in atto un genocidio culturale contro i socialisti: Pd e Pdl non vogliono interloquire, neppure in campagna elettorale. Se continua così siamo come in Tibet». Che stranezza: Bobo e Boselli non prenderanno i voti ma si accingono a diventare monaci. Il candidato del partito socialista ha fatto questa sua storica dichiarazione a Rainews24: non si sa se qualcuno gli ha fatto notare l’assoluta mancanza di senso del ridicolo che, come si sa, è cosa sempre buona e giusta che un politico conservi in assenza del senso dello Stato. Rosy Bindi, anche lei a volte perde il senso del ridicolo: «Per Prodi dovremmo fare un applauso in tutte le piazze italiane, perché per due volte ha trovato un Paese con i conti pubblici in dissesto e per due volte lo ha riconsegnato con i conti pubblici sulla via del risanamento». Fischi a parte, per due volte è caduto da cavallo.
Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda
Il sondaggio dei sondaggi la media di oggi Digis Crespi Quaeris Lorien Gipieffe Demopolis Swg 16 marzo
14 marzo
13 marzo
13 marzo
13 marzo
13 marzo
11 marzo
Pdl+Lega
Centro
Pd+Idv
Sin-Arc
Destra
Socialisti
44,0
6,8
36,5
6,9
2,5
1,2
(-0,4)
(+0,6)
(-0,4)
(-0,3)
(+0,2)
(+0,3)
44,7 43,0 44,0 44,0 46,0 44,0 42,7
6,9 7,4 7,0 7,3 6,8 7,0 5,5
38,2 35,0 36,0 35,9 35,6 37,0 38,2
6,7 7,2 6,5 7,3 7,4 7,5 6,7
1,6 4,0 3,5 1,9 1,9 2,5 2,2
1,5 2,0 1,5 0,9 1,0 1,0
La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.
di Andrea Mancia Quattro nuovi sondaggi pubblicati tra ieri e domenica. Partiamo con Lorien (13 marzo). Rispetto al 9 marzo, Berlusconi (44%) cresce dello 0,3%, mentre Veltroni (35,9%) scende dello 0,8%. Per Lorien, dunque, si allarga la forbice tra PdL+Lega e Pd+Idv, che adesso è arrivata all’8,1% (il 3 marzo era del 5,8%). In leggero calo Sinistra Arcobaleno (-0,1%), Udc (-0,3%) e Destra (-0,2%). Il sondaggio di Quaeris (13 marzo), invece, è una new entry: Berlusconi (44%) ha un vantaggio di 8 punti percentuali su Veltroni (36%). In dettaglio: il PdL è al 37%, la Lega Nord al 6%, l’Mpa all’1%, il Pd al 32% e l’Idv al 4%. Buono il risultato dell’Udc (7%), della Destra (3,5%) e dei Socialisti (1,5%). Pessima la Sinistra Arcobale-
no (6,5%). Recentissimo il nuovo sondaggio Digis per Sky Tg 24 (16 marzo). Rispetto al 9 marzo, Berlusconi (44,7%) perde consensi (-1,2%), mentre Veltroni (38,2%) ne guadagna (+1,5%). Il vantaggio di PdL+Lega su Pd+Idv scende dal 9,2% al 6,5%. In leggero calo tutti gli altri - Sinistra Arcobaleno (-0,4%), Destra (-0,1%) e Socialisti (-0,1%) - ad eccezione dell’Udc (+0,1%). Ultimo arrivato, il sondaggio di Crespi del 14 marzo, che vede il centrodestra perdere terreno rispetto al 10 marzo. Il vantaggio di PdL+Lega nei confronti di Pd+Idv scende dal 9% all’8%. Sale leggermente la Sinistra Arcobaleno (+0,2%), mentre l’Udc resta ferma al 7,4%. Socialisti stabili al 2%, la Destra arretra lievemente (-0,2%).
18 marzo 2008 • pagina 9
L’ITALIA AL VOTO
I saggi della Repubblica. Viaggio tra passato e presente/Franco Servello
«Gli elettori di destra sono confusi così il Pdl è una marmellata» colloquio con Franco Servello di Errico Novi
ROMA. Undici legislature. Nove alla Camera quando c’era ancora il simbolo della fiamma, due al Senato durante «la cosiddetta Seconda Repubblica», come la definisce lui, sotto le insegne di Alleanza nazionale. Franco Servello è interprete di un’ampia parte storia della destra italiana contemporanea, e ancora oggi presiede l’assemblea nazionale del partito di Fini. Al prossimo congresso farà sentire la sua voce, assicura: «Non per contestare il processo evolutivo, il passaggio a un nuovo grande partito del centrodestra, sia chiaro», dice, «ma per testimoniare cosa penso io e cosa pensano i militanti sui modi e i tempi di questa accelerazione». Ce lo dica subito: cosa pensa del Popolo della libertà? «Ribadisco: l’esigenza di evitare ulteriore frammentazione mi vede pienamente d’accordo, sono un fautore del percorso di evoluzione del centrodestra. Ma realizzarlo in modo precipitoso, senza sviluppare un dibattito tra i militanti e tutte le componenti coinvolte, rischia di essere un atto di superficialità. Nei contatti che ho con la nostra base trovo tante persone hanno questa preoccupazione». Nell’elettorato tradizionale di destra ci sarebbe smarrimento, dunque. «Più che smarrimento direi confusione, si cerca di capire il significato di quello che sta avvenendo. Non vedo rabbia, ma nemmeno entusiasmo, ecco. E il punto è guardare sì avanti ma senza cancellare la propria memoria storica. Se si ha questa attenzione poi si può anche procedere verso un sostanziale bipartitismo. In fondo dal secondo dopoguerra in poi abbiamo già ampiamente sperimentato una soluzione politica del genere: Democrazia cristiana e Pci erano due partiti nettamente dominanti, ciascuno dei due chiedeva l’unità del Paese attorno al proprio simbolo per sconfiggere l’avversario. È un modo di porsi all’elettorato simile a quello dei due partiti maggiori di oggi». Negli ultimi anni c’era stato un lavoro di elaborazione approfondito per arrivare a un partito unitario del centrodestra. Lavoro che finora è stato tenuto da parte. «È andata così anche per l’imporsi fatale della politica del quotidiano, che costrin-
ge a mettere da parte la ricerca di una vera strategia. La crisi di governo ha indotto a modificare la tabella di marcia e accantonare un lavoro molto importante, che andava avanti da tempo». Ormai la macchina è lanciata. «Io non vedo come questa unione nel Popolo della libertà possa diventare un partito unico d’emblée. Bisogna comunque definire con chiarezza una linea programmatica e identitaria, che tenga conto anche di una tradizione pluridecennale. Non possiamo cancellarla. La marmellata elettorale non può prevalere sugli aspetti culturali e programmatici». C’è l’esigenza di assicurare al futuro partito e dunque anche ad An l’ingresso nel Partito popolare europeo.
proprio patrimonio i vari filoni che la destra ha attraversato. In nome dell’ingresso nel Ppe non si può perdere la propria storia». In Italia è sempre difficile rivendicare un’identità di destra. C’è un pregiudizio che non ricorre nelle altre democrazie liberali. Forse è questo il problema. «C’è stata una demonizzazione durata oltre quarant’anni da parte della sinistra e della cultura azionista. Ma chi oggi guida il passaggio, l’evoluzione del centrodestra verso una forma unitaria rischia di attribuire a se stesso una grave responsabilità: ridursi a non essere nessuno. E ad affogare tutto nella mera tattica politica. Serve invece una strategia evolutiva che preservi anche i valori e i principi della tradizione». Concretamente: quali potrebbero essere le basi programmatiche di un grande partito del centrodestra che tenga conto di questa tradizione? «Posso citare un libro che ho scritto anni fa, Settant’anni in
nello specifico bisogna assumere l’impegno perché la nuova sia una legislatura costituente. Si trovino i criteri per nominare una commissione di saggi esterni al Parlamento, ci si sottragga alle forche caudine della polemica quotidiana». Lei invoca il coinvolgimento dei militanti. Ma l’Italia di oggi sembra disgregata proprio per la scomparsa dei fattori di coesione del passato. Come si organizza la partecipazione in queste condizioni? «Proprio con il disegno di una nuova Repubblica. Bisogna rinnovare la Costituzione anche per aprire di più la politica alla gente. Solo in questo modo si ricrea la fiducia, anche nei giovani : sarebbero i primi a far sentire la loro voce, se tornassero i luoghi in cui si discute. Prima si arrivava anche a scontrarsi, persino fisicamente, ma sempre attorno alle questioni ideali. Oggi occasioni di dibattito non ce ne sono». Che cosa è rimasto della vecchia politica? «Ci sono le correnti, che non erano necessariamente una cosa sbagliata. Lo sono ora, casomai: si sono ridotte a cordate utili solo alla definizione delle liste elettorali». C’è una strategia culturale che suggerirà al nuovo partito? «Ho davanti lo statuto del Movimento per la liberazione. Esiste dall’immediato dopoguerra e ha decine di sedi in tutta Italia, grazie a milioni di euro di finanziamenti. Una volta al governo, sarebbe giusto se il centrodestra sostenesse fondazioni e studi sulla guerra civile, in modo che sulla storia del Paese ci siano anche contributi di tipo diverso. Organizzazioni come quella che le citavo sono centri di irradiazione politica oltre che culturale». Il bipolarismo avrebbe dovuto anche pacificare la memoria storica. E invece sembra aver mancato la stessa missione di rendere più governabile l’Italia. «Il panorama di oggi non è consolante: Veltroni non ha la profondità culturale per riformare il Paese, Berlusconi ha grandi capacità di impatto sugli elettori ma gli manca un disegno di rinnovamento strategico. In questi quattordici anni le idee sono anche circolate, ma non sono state messe in primo piano. Ci è occupati del quotidiano, senza avere una prospettiva».
«Realizzare il nuovo partito in modo precipitoso è un atto di superficialità, se cancelli la memoria finisci per non essere nessuno», dice l’ex parlamentare di An
Franco Servello è stato parlamentare per 9 legislature con il Msi e per 2 con Alleanza nazionale. Nella foto a fianco con Mauro Mazza e Maurizio Gasparri «Ma non si può dimenticare il resto. Quando a una fondazione viene assegnato il nome Fare futuro, sembra che ci si voglia davvero porre solo il problema del domani, senza considerare la memoria storica. Non credo che si correrebbe il rischio di essere nostalgici. Si tratta di assimilare e conservare nel
fiamme, o quello che pubblicherò a maggio, Almirante trent’anni dopo. Giorgio ha lasciato un messaggio di grande attualità, pensava a una nuova repùbblica rifondata dalle radici. Sono idee che al congresso di An emergeranno, vedrete». Le farà emergere lei. «Non solo io. E comunque per restare
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mondo
Caschi blu e soldati colpiti da armi automatiche. Centinaia di feriti e decine di arresti
Attacco serbo, l’Onu lascia Mitrovica. Ora tocca alla Nato
Un mezzo delle forze internazionali bruciato. I disordini sono iniziati quando i serbi hanno messo la bandiera serba al posto di quella Onu
di Massimo Ciullo l tentativo da parte delle forze di polizia dell’Unmik (la missione Onu in Kosovo) di sgomberare un tribunale occupato venerdì scorso da manifestanti della minoranza serbo-kosovara, ha provocato gravi scontri nell’enclave di Mitrovica nord. I dimostranti, in maggior parte ex-dipendenti del tribunale cittadino, erano penetrati nell’edificio e sostituito la bandiera dell’Onu con il vessillo serbo. In circa 200 sono stati licenziati nel 1999, quando l’amministrazione della provincia è passata da Belgrado all’Unmik. Gli inviti dei rappresentanti dell’Onu ad abbandonare pacificamente il tribunale sono caduti nel vuoto. Ieri mattina, all’alba, i militari della Kfor con i gas lacrimogeni, hanno cacciato gli occupanti arrestando cinquanta persone. La notizia della sortita ha scatenato l’ira dei serbi di Mitrovica, che hanno contrattaccato lanciando sassi e bottiglie molotov. Alcuni testimoni affermano di aver udito anche colpi di armi automatiche. A quel punto, le forze della Nato hanno deciso di ritirarsi per evitare ulteriori violenze. Il bilancio degli scontri è piuttosto allarmante: 25 tra militari e funzionari dell’Unmik risultano feriti, al-
I
cuni anche in modo grave, e almeno un centinaio di dimostranti sono stati costretti a ricorrere a cure mediche.
Berlino e Londra hanno severamente condannato gli attacchi alle forze internazionali, mentre la Russia ha espresso la necessità della ripresa dei colloqui sullo status del Kosovo. Il presidente serbo, Boris Tadic, ha esortato Onu e le forze Nato «ad astenersi dall’uso della forza» contro i dimostranti serbi. Reazioni esagerate e «uso sproporzionato della
cessità del presidente Tadic, di sciogliere il Parlamento e convocare elezioni anticipate. Il leader dello schieramento moderato e filo-europeista, che meno di un mese fa aveva battuto al ballottaggio il candidato dei radicali nazionalisti Tomislav Nikolic, ha preso atto che l’alleanza tra il suo partito e quello del primo ministro Voijslav Kostunica, non esiste più. La rottura è stata determinata proprio dalle differenti opinioni sulla questione del Kosovo. Gli ultranazionalisti erano stati i promotori in Parlamento di
riconosciuto a maggioranza l’indipendenza di Pristina.
La prossima campagna elettorale si preannuncia quindi come un vero e proprio referendum tra chi, come Tadic sostiene velatamente la necessità di sacrificare la provincia a maggioranza albanese per ottenere il visto per Bruxelles e chi, come Kostunica, non è disposto a rinunciare ad un terzo del territorio nazionale, ritenuto la culla della nazione serba. «Le elezioni rappresentano un mezzo democratico affinché i cittadini
Venerdi disoccupati serbi avevano occupato gli edifici Onu. Quando le unità della polizia hanno provato a sgomberare sono iniziate le reazioni violente che hanno costretto al ritiro le forze di polizia. La Nato minaccia il pugno di ferro forza possono determinare proteste in tutta la provincia», si legge in. La minoranza serba che ancora vive in Kosovo, dal giorno della dichiarazione d’indipendenza ha messo in atto una serie di manifestazioni per ribadire che non accetterà mai di diventare parte del nuovo Stato a maggioranza albanese e spera vivamente in un cambiamento di rotta da parte delle autorità di Belgrado. Un auspicio alimentato dalla ne-
una mozione in cui si chiedeva di troncare i negoziati con l’Ue, qualora quest’ultima non fornisse garanzie circa il mantenimento dell’integrità territoriale serba; Kostunica si era detto favorevole all’iniziativa, mentre Tadic vi si era opposto, pur censurando la secessione del Kosovo. Il presidente della Repubblica non ha voluto seguire il suo primo ministro in uno scontro frontale con gli Usa e con l’Ue, i cui membri hanno
possano esprimersi su come la Serbia debba svilupparsi negli anni a venire», ha dichiarato il presidente della Repubblica. La replica del suo ex-alleato Kostunica è stata affidata a un comunicato, in cui il primo ministro uscente chiarisce di non aver più fiducia nei partner della coalizione del governo dimissionario: «Non sono pronti a lottare con noi contro la dichiarazione unilaterale del Kosovo e a metter in atto una politica na-
zionale difficile, ma responsabile». Per Kostunica, le «elezioni politiche del prossimo 11 maggio hanno un significato particolare per la Serbia: è molto importante che i cittadini scelgano un governo responsabile, che sia in grado di lottare per la difesa del Kosovo, per lo sviluppo economico del Paese, e che conduca i colloqui con la Ue per fare entrare in Europa il Paese nella sua integrità, lottando contro la corruzione e la criminalità», recita la nota del primo ministro. L’ipotesi, abbastanza remota fino a poco tempo fa, di un patto tra il premier uscente e gli ultranazionalisti sta prendendo corpo in queste ultime ore. Lo conferma anche Velimir Ilic, presidente di Nuova Serbia, partito molto vicino al Dss di Kostunica, che ritiene possibile la formazione di una coalizione con il partito radicale (Srs) dopo le elezioni politiche anticipate. «Faremo un governo con tutti i partner che garantiranno di non violare la Costituzione, di non essere favorevoli all’indipendenza del Kosovo e di non voler entrare nell’Unione europea senza il Kosovo come parte integrante della Serbia», ha affermato Ilic, confermando che «il nostro candidato premier sarà Vojislav Kostunica».
mondo
18 marzo 2008 • pagina 11
Nasce il fenomeno del «socialismo municipale»
«Nuova coabitazione» dice il voto francese di Michele Marchi a Francia ha avviato una nuova coabitazione? La sinistra francese, e in particolare il Ps, si trova da oggi alla testa di 59 dipartimenti su 101 e lascia alla destra neogollista solo 12 città su 37 superiori a 100mila abitanti. Nel valutare questa caduta non va dimenticato il forte radicamento locale del socialismo, che in Francia è un «socialismo municipale». L’elenco delle città conquistate dal Ps è impressionante: Tolosa, Strasburgo, Rouen, Caen, Reims, SaintEtienne, Amiens, Blois , Metz, e naturalmente Parigi. Uniche consolazioni a destra la riconferma del sindaco di Marsiglia e qualche vittoria simbolica come quella di Calais e Mulhouse dove il sindaco uscente è stato riconfermato.
L
Quali le ragioni principali della sconfitta? Sul banco degli imputati naturalmente Sarkozy. La strategia dell’Eliseo sembra mutata e da alcune settimane il basso profilo e la «ri-sacralizzazione» del ruolo presidenziale paiono in atto. Alla base della sconfitta c’è una campagna elettorale avviata con l’intenzione di «nazionalizzare» lo scrutinio per poi decidere, una volta valutati i pessimi sondaggi di Sarkozy, di minimizzare un’eventuale debacle e
sottolinearne il valore puramente locale. In secondo luogo le difficoltà interne all’Ump, in imbarazzo nello spiegare le strategie portate avanti dall’Eliseo e nel mobilitare l’elettorato. Con due conferme, l’elettorato di destra, soprattutto urbano, tende a mobilitarsi per le elezioni nazionali e l’elezione presidenziale è davvero il fulcro della vita politica francese. Nella maggioranza si sono aperti i primi processi. Il primo Ministro Fillon e il segretario dell’Ump Devedejian hanno ribadito che l’esecutivo dovrà procedere sulla strada delle riforme. Al contrario l’ex primo ministro Raffarin non ha esitato ad affermare quanto
Juncker e Rasmussen al tre per cento
L’eurocrazia non ha l’appoggio popolare Per gli eurocrati che stanno trattando la designazione del primo presidente della Ue previsto dal nuovo Trattato che scatterà dal 2009, è arrivata una complicazione. Un sondaggio pubblicato ieri dal Financial Times ha rivelato che tra i cittadini dei principali Paesi europei - Italia, Germania, Gran Bretagna, Francia e Spagna - i due candidati che sono preferiti dalle Cancellerie non raccolgono che un irrisorio consenso popolare. Jean-Claude Juncker, primo ministro del Lussemburgo, è apprezzato appena dall’uno per cento delle persone intervistate (con l’eccezione di un 7 per cento tra i tedeschi) e il suo collega danese, Anders Fogh Rasmussen, non arriva che a un due per cento complessivo. Nel vertice europeo di primavera, che si è tenuto nello scorso fine settimana a Bruxelles, il nome di Rasmussen era
sia necessario correggere il tiro a livello nazionale. Interessante poi il suo accenno alla necessità che l’Ump, dopo la sconfitta di Pau, torni a parlare al centro. «L’esecuzione» del leader centrista è stata in realtà orchestrata all’Eliseo. Decidendo di non ritirare il proprio candidato al secondo turno, l’Ump ha sacrificato Pau, regalandola così ai socialisti, per dare il secondo e forse definitivo colpo di grazia a Bayrou. L’erede della tradizione centrista e cristiano-democratica ha anche pagato a caro prezzo la strategia di alleanze variabili mal compresa dall’elettorato e la sempre più accentuata bipartitizzazione del sistema politico francese, dovuta sia all’uninominale a doppio turno, che alla personalizzazione dell’elezione presidenziale diretta. Ci sarebbe poi il Ps. Al momento i tre leader, Royal, Hollande e Delanoe hanno insistito sull’importanza del «contributo collettivo» alla vittoria. Oltre ad elaborare una strategia vincente in vista della presidenziale del 2012, il Ps dovrà sciogliere il dilemma delle alleanze e non farsi intrappolare nella logica della cosiddetta «secessione locale». Tutti i giochi sono aperti. La politica ha scalzato il gossip ed è tornata a dominare la scena.
d i a r i o
g i o r n o
Iraq, donna kamikaze a Kerbala Nuova strage in Iraq. Una donna kamikaze si è fatta saltare nella città santa sciita di Kerbala. Un bilancio provvisiorio stima i morti in 39, oltre a 54 feriti. Lo ha annunciato una fonte ufficiale sanitaria irachena. L’attentato è avvenuto in un bar del centro, non lontano dalle moschee più importanti. Il responsabile dell’ufficio stampa del dipartimento sanitario di Kerbala ha precisato che «sette vittime sono pellegrini iraniani oltre a donne e bambini». La maggior parte dei feriti sarebbe in gravi condizioni. Le autorità irachene hanno decretato il coprifuoco a Kerbala, città che lo scorso 24 febbraio aveva pianto altri 63 morti in un attentato.
Pakistan, si insedia il nuovo parlamento Il nuovo parlamento pakistano, eletto nel corso delle elezioni legislative del 18 febbraio scorso, si è riunito per la prima volta. All’ordine del giorno, la sicurezza nella nazione, il restauro dell’ordinamento giudiziario “decimato” dal presidente Musharraf e la lotta al terrorismo internazionale, principale punto di incontro con il grande alleato statunitense. L’organismo sarà guidato dal Partito popolare, vincitore delle ultime elezioni, che ha siglato la scorsa settimana un patto elettorale con la Lega musulmana N. Questa, guidata dall’ex premier Nawaz Sharif, si è piazzata seconda nel conteggio dei voti. Fra i 342 membri che compongono la Camera bassa vi sono anche 3 cristiani.
Francia: rubati 30 quadri impressionisti Trenta tra capolavori di Claude Monet, Paul Cezanne, Jean-Baptiste-Camille Corot, Alfred Sisley e una scultura di August Rodin sono state rubati in pieno giorno da un gruppo di cinque uomini armati. I rapinatori hanno fatto irruzione nella casa di un antiquario alle porte di Parigi, sequestrandolo e scappando poco dopo con il prezioso bottino. Le opere, che ancora non sono state rese note, sono «senza prezzo», hanno rivelato fonti giudiziarie. I ladri dopo essersi dileguati hanno abbandonato e dato alle fiamme il fuoristrada impiegato nella rapina in un bosco.
Cuba, Fidel Castro contro Usa Gli Stati Uniti minacciano tutto il mondo con la loro «forza brutale»: lo scrive Fidel Castro nel suo nuovo editoriale, il secondo di una serie intitolata «Sete di sangue» e che in questo caso fa il punto sul recente viaggio di Condoleeza Rice nell’area latino americana. «I capi e i funzionari dell’impero lavorano febbrilmente minacciando tutti con la loro forza brutale», scrive l’81 enne ex presidente cubano, sostenendo che va denunciata «tenacemente la sete di sangue dell’imperialismo impegnato provocare guerre fratricide tra i popoli dell’America Latina».
vi si dirà di Enrico Singer
emerso tra i leader della Ue come quello del possibile ”terzo uomo”nella lotta tra Juncker e l’ex premier britannico Tony Blair che ha l’appoggio di Londra e di Parigi, ma è osteggiato da quesi tutte le altre capitali, Berlino e Roma comprese. Il sondaggio condotto dalla Harris, naturalmente, non influirà più di tanto sui conciliaboli in corso tra i Ventisette. Tuttavia è l’ennesima prova di quanto anche la politica europea, così come è fatta, sia lontana da quello che la gente vorrebbe. Il 75 per cento degli intervistati in Italia, Francia e Spagna e il 50 per cento degli inglesi ha detto che il primo presidente della Ue dovrebbe essere una ”grande personalità”. Tra i nomi proposti dalla Harris, oltre a quelli di Blair, Juncker e Rasmussen, c’erano quelli di Angela
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Merkel, dell’ex premier spagnolo Felipe Gonzales e di Romano Prodi. A sorpresa - grazie a un 30 per cento ricevuto dagli spagnoli - il più votato è stato Gonzales, seguito da Blair e dalla Merkel. Prodi tiene compagnia a Juncker e Rasmussen con poco più dell’uno per cento. Rigassificatori, l’emirato rilancia
Spodestata l’Indonesia, il Qatar diversifica Il Qatar ha appena spodestato l’Indonesia come massimo esportatore di gas naturale liquefatto e ha deciso di diversificare i suoi clienti per mettersi al riparo dagli sbalzi di prezzo sui mercati mondiali. Finora il gas lique-
fatto dell’emirato (che detiene il 15 per cento di tutte le riserve di gas naturale) era diretto per lo più in Giappone e negli Stati Uniti, tanto che la principale compagnia di commercializzazione, la Adgas, aveva anche cercato - invano - di acquistare consistenti pacchetti azionari delle società private che gestiscono alcuni grandi porti americani. Adesso saranno create due società - la Qatargas e la RasGas - che si divideranno in parti quasi uguali la produzione di gas liquefatto (nel 2010 sono previste 80 milioni di tonnellate) con l’obiettivo di esportarlo negli Usa, in Asia e in Europa. Una parte significativa dei nuovi investimenti previsti dall’emirato sarà destinata a finanziare in Europa impianti di rigassificazione per riportare il gas liquefatto al suo stato naturale: proprio quei rigassificatori che in Italia hanno trovato tanta ostilità da parte delle amministrazioni locali. Ma il Qatar rilancerà le sue offerte. Sperando in una migliore fortuna.
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speciale
economia
NordSud
La sfida del mondo dell’Information & Communications Technologies per dare all’Italia una rete di nuova generazione
RIVOLUZIONE BANDA LARGA di Mario Derba Pubblichiamo l’intervento di Mario Derba, Amministratore Delegato di Microsoft Italia, fatto all’IDC Forum del 13 marzo 2008
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uando si parla di innovazione, il dato di fatto, credo incontrovertibile, è il ruolo da protagonista che la tecnologia ha svolto in quest’ultimo decennio sull’aspetto sociale in generale, e in particolare del mondo degli affari. Se c’è un grande cambiamento, questo è lo spostamento dell’impatto della trasformazione tecnologica sull’individuo, sul terreno sociale: la tecnologia sta infatti trasformando il mondo in cui viviamo, lavoriamo e ci divertiamo. In Microsoft questo fenomeno era stato previsto ed era stato nominato digital lifestyle. Si tratta di un cambiamento rilevante perché non è isolato e limitato all’individuo nel suo privato, bensì si riflette in tutti i contesti in cui l’individuo si muove. Così nasce questa sorta di rivoluzione copernicana: in questo ambito è la persona la vera forza innovatrice all’interno delle organizzazioni poiché si trova a sperimentare nel privato tecnologie molto spesso più efficaci e più produttive di quelle che ha nell’ambiente di lavoro. Un fenomeno noto con il nome di consumerization, che spesso è legato ad un nuovo modello di computing che si sta affermando con forza, in base al quale l’individuo e l’organizzazione fruiscono delle applicazioni del futuro da qualunque piattafor-
Lo Stato deve essere l’elemento armonizzatore della società digitale ma: da un personal computer, da dispositivo mobile, da server locale o remoto, da applicazioni residenti in rete... Tutto questo senza rinunciare a quelle caratteristiche di affidabilità e sicurezza alle quali siamo abituati e alle quali non possiamo rinunciare.
Poi c’è un terzo fattore innovativo, importante: il ruolo dello Stato, che dovrebbe agire da elemento “armonizzatore” per accelerare da una parte la piena realizzazione della società digitale e per facilitare dall’altra l’inclusione digitale degli anziani, di certi settori giovanili e dei segmenti emarginati per vari motivi, oltre che per creare nuove opportunità di lavoro e un ambiente socialmente più avanzato. Lo sviluppo economico e sociale non può essere garantito senza pari opportunità fra le persone nell’accesso ai benefici dell’economia della conoscenza. Impresa e Pubblica Amministrazione stanno attrezzandosi per affrontare sfide molto simili: devono migliorare i servizi che forniscono ai cittadini/clienti, ridurre i costi e soddisfare al contempo le esigenze dei propri dipendenti. L’equazione può sembrare impossibile, irrisolvibile. Ciò è possibile solo grazie alla tecnologia
ed in particolare alle soluzioni che abilitano la comunicazione e la collaborazione, i due requisiti chiave per una innovazione vera e che permettono di superare questi vincoli. È il concetto di E-government 2.0 quello cui stiamo tendendo, ovvero l’applicazione dei valori di condivisione e collaborazione del Web 2.0 alla comunicazione cittadino-Stato, potenziata grazie ai canali digitali. Sarà un modello nuovo, che consentirà una collaborazione a due vie tra cittadino e governo e che attribuisce un ruolo anche alle imprese nella creazione di nuovi servizi. In questo contesto il cittadino esce dal suo ruolo tradizionale, trova una sua identità digitale e accede ad un mondo di servizi estremamente ampio. Il cambiamento è già in atto e a riprova di ciò proprio ieri il Comune di Milano ha annunciato, in collaborazione con Microsoft, la disponibilità per tutti i milanesi di una casella di posta elettronica che verrà utilizzata per fornire servizi utili alla cittadinanza: dall’invio di notizie su eventi e informazioni sul traffico, alla possibilità di trasformare presto una mail inviata al Comune dall’indirizzo nome.cognome@milanosemplice.it in una mail “certificata”(equiparabile ad una raccomandata a/r), fino alla visualizzazione di cantieri stradali e deviazioni attraverso il nostro servizio Virtual Earth.
Le tecnologie che ci cambieranno la vita, che qualche analista definisce di supercollaboration, uniranno la comunicazione classica (voce, dati, voip) con la collaborazione che discende dalla condivisione di spazi virtuali, wikies, blogs e social networks. Il risultato abiliterà applicazioni nuove di web conference, di computer telephone integration e così via che a loro volta permetteranno ritorni estremamente importanti di produttività, di flessibilità e – soprattutto – grandi ritorni d’investimento concreti. Forrester Research e Unioncamere hanno sviluppato uno studio su queste tecnologie di “supercollaborazione” e il ritorno sull’investimento è stato pari al 600 per cento. Se togliamo gli effetti di incremento di produttività, che ogni tanto sono variabili, il ritorno è “soltanto”del 338 per cento. In sintesi, per innestare un ciclo di innovazione reale nel paese occorre far sì che le nostre imprese abbiano un ruolo nell’economia globale, in cui si collabora tra team, individui e imprese. E per far questo c’è bisogno di un programma che stabilisca dei passaggi chiave e metriche di misurazione dei risultati. Qualcosa si sta attualmente muovendo, ma è sentita l’esigenza di una regia forte, in grado di portare avanti un progetto strategico a livello nazionale. Amministratore Delegato di Microsoft Italia
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MERCATO GLOBALE
L’era dei nuovi colonialisti di Gianfranco Polillo iulio Tremonti sarà contento. A scendere in campo contro la Cina, questa volta è l’Economist, da sempre il tempio della cultura liberale internazionale. Copertina, editoriale e 14 pagine di inserto, ma soprattutto il titolo: ”I nuovi colonialisti”. Incipit sorprendente, se si considera che la Cina resta il più antico baluardo dell’esperienza comunista e che fu proprio il lievito antimperialista a guidare la lunga marcia che è all’origine della nascita di quel Paese. Una nuova eterogenesi dei fini, quindi? Fino ad un certo punto. La politica di potenza, la stessa che si ritrova nella Russia di Putin e di Medvedev, è stato il tallone effettivo, al di là delle fumisterie ideologiche, di quell’esperienza. Ed essa si ritrova, attualmente, in una linea di assoluta continuità. Ecco, allora, il pieno dispiegarsi di una politica imperiale nella fase dell’economia globalizzata. Se l’Occidente ha messo in campo i suoi grandi campioni nazionali – imprese che operano nei diversi settori dell’economia – l’Oriente preferisce invece il “complesso burocratico-industriale”. Versione moderna e generalizzata di quello che una volta era il combinat “militare-industriale” americano: apparati dello Stato e grandi imprese, sottoposti a un’unica direzione strategica, i cui obiettivi travalicano i confini dell’economia, per assumere una valenza tutta politica. Questo è il rischio maggiore, che traspare seppure cautamente, dalle pagine dell’Economist e che si proietta, inquietante, sugli sviluppi futuri dell’economia internazionale. Perché a questa minaccia non si può rispondere soltanto con l’invocazione delle leggi del libero mercato. Se mancano regole condivise, il gioco si squilibria. Da un lato la potenza di uno
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Stato, che sa essere feroce con i propri cittadini e i propri competitor. Dall’altro la singola impresa che, pur supportata dall’azione indiretta dell’amministrazione, è destinata a soccombere. È quanto sta avvenendo in grandi aree geografiche e in interi settori dell’economia internazionale. La Cina – scrive l’Economist – «coinvolge circa un quinto della popolazione mondiale, ma si appropria di circa la metà della produzione di carne di maiale, della metà del cemento, di un terzo dell’acciaio e più di un quarto dell’alluminio». Fosse solo questo. Questi risultati sono la conseguenza di una strategia di penetrazione che è frutto della stretta integrazione di piani diversi: economia, politica, finanza e diplomazia. Una ragnatela di rapporti. Dalle materie prime, alla finanza. In Congo, le ricche province del Katanga con la loro produzione di rame. In Canada, Indonesia, Kazakhistan: petrolio, gas, carbone e metalli. In Australia le grandi imprese di trasporto, capaci di assicurare la logistica inter-oceanica. Negli stessi Stati Uniti il tentativo, poi abortito, di conquistare un’azienda come la Unocal: tra le più grandi imprese petrolifere. E via dicendo. Ogni mezzo è stato usato per realizzare questi obiettivi. Per contrastare la presenza occidentale, specie in Africa, la «Cina», scrive il settimanale «ha aiutato i regimi dittatoriali e li ha incoraggiati a sfidare le regole internazionali. Corruzione, cattiva amministrazione, repressione ed instabilità sono cresciuti a dismisura». Come reagire? Le anime belle della sinistra italiana, scoprendo in ritardo i processi della globalizzazione, ne hanno subito mitizzato i risultati. Ma quel processo – come mostra l’Economist– è meno lineare di quanto a prima vista possa apparire.
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speciale economia
NordSud
Il presidente della Fondazione Bordoni si sofferma sui ritardi del Vecchio Continente
Dècina: «Nuove regole dalla Ue per facilitare gli investimenti» colloquio con Maurizio Dècina di Alessandro D’Amato l livello di penetrazione della banda larga in Europa è simile a quello di Usa e Giappone. Ma la differenza tra noi e loro sta tutta nelle infrastrutture future. Eppoi negli altri continenti si investe anche con l’aiuto dei governi. Qui il ritardo delle telco è palese». Maurizio Décina, presidente della Fondazione Ugo Bordoni e ordinario di telecomunicazioni al Politecnico di Milano, mette in luce tutte le problematiche e le contraddizioni delle broadband del Vecchio Continente. Professore, qual è la situazione in Europa? Alla fine del 2007, nell’Europa dei 15, i collegamenti erano circa 90 milioni con un tasso medio di crescita annua del 10 per cento. In Italia il tasso di incremento annuo è stato maggiore, circa il 18, anche se con segni di rallentamento. Si prevede che dai circa 10,1 milioni di linee Adsl di fine 2007 si arrivi a circa 14,6 milioni di linee a fine 2010. Oggi il livello di penetrazione della larga banda negli Stati Uniti e in Giappone non è molto diverso da quello europeo, ma, co-
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luppo Ngn a breve termine. Spicca il caso della Germania che ha lanciato un piano di cablaggio tuttora oggetto di un contenzioso regolatorio tra l’autorità locale e la Ue, che contesta la “moratoria” di tre anni per l’accesso all’infrastruttura dell’incumbent da parte dei concorrenti. Asia e America mostrano che le vie che portano alla
Mancano programmi sul breve termine come in Usa e Giappone me ho messo in evidenza in un recente articolo su www.la-rete.net, sono differenti le prospettive di diffusione nei prossimi tre anni delle fibre ottiche nell’ultimo miglio, delle cosiddette infrastrutture Ngn (Next Generation Networks, ndr). Come ci sta muovendo in questi Paesi? In Asia i piani a breve termine coprono dall’80 al 100 per cento delle abitazioni. In Nordamerica la concorrenza con la Tv via cavo ha spinto gli investimenti in fibra ottica degli operatori telefonici. AT&T, che ha riunito i tre operatori locali (Verizon, Sbc e BellSouth) coprirà il 50 per cento delle abitazioni entro il 2010. L’Europa rischia di rimanere indietro? Gli incumbent di Francia, Italia, Inghilterra, Spagna e Germania stentano a formulare piani di svi-
realizzazione degli investimenti sono diversificate e si snodano sia in ambienti che sostengono una politica “pubblicista”sulla rete dell’incumbent sia in settori dove c’è piena concorrenza con due principali infrastrutture di accesso. Da noi non c’è un efficace duopolio nell’accesso e la politica di sviluppo è governata dai quadri regolatori europei e nazionali. Risultato? Si accentua la criticità dello sviluppo delle reti Ngn, in un mercato in rapida evoluzione, in cui i servizi tradizionali di telefonia e di televisione convergono con quelli basati sul Web, e sono quindi soggetti a nuove e aggressive modalità di concorrenza. La Ue riuscirà a far accettare la separazione funzionale della rete? Negli Usa il duopolio quasi per-
fetto tra operatori via cavo e telefonici su due infrastrutture di rete d’accesso è stato plasmato dalla politica dell’Fcc, che ha favorito gli investimenti dei carrier deregolamentando de facto gli accessi in fibra ottica. In Europa, dove è prevalente l’infrastruttura telefonica, ci si è focalizzati sul modello Openreach, che purtroppo non affronta il problema degli investimenti in fibra ottica nell’ultimo miglio. Che cosa suggerisce? C’è bisogno di una soluzione che garantisca la concorrenza e l’apertura della infrastruttura a larga banda, e che nel contempo stimoli gli investimenti e la realizzazione dei nuovi accessi in fibra ottica in tempi non troppo lunghi. Il dibattito in Europa non è quindi certamente esaurito e mi sembra che il consenso sulle soluzioni al momento sia lontano. Intanto Telecom Italia ha lanciato Open Access. Questa divisione va inquadrata nel nuovo piano industriale, che prevede una ristrutturazione societaria per diventare operatore “convergente”di servizi ICT. Open Access comprende tutti gli asset passivi della rete di accesso di vecchia e di nuova generazione ed è uno strumento per ottenere efficienza di gestione nella convergenza delle infrastrutture di accesso fisse e mobili, e trasparenza delle operazioni dell’incumbent sia verso gli altri operatori sia in definitiva verso i clienti finali. Open Access è una decisione presa autonomamente da Telecom Italia di cui tenere conto.
Lei ha dichiarato che in Italia, per connettere 15 milioni di abitazioni, servono investimenti compresi tra i 6 e i 12 miliardi di euro. Telecom può sostenere questa cifra? L’azienda ha un piano di sviluppo della NGN che prevede investimenti per circa 6,5 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, con un avvio morbido nei primi tre anni: il numero di connessioni ultra veloci basate sulle fibre ottiche nel 2010 è previsto in circa 2 milioni, il 10 per cento delle abitazioni. Il piano di France Telecom ha esattamente le stesse caratteristiche, mentre in Inghilterra si dibatte solo oggi sulla necessità di un piano per il cablaggio in fibra ottica! Come detto, poi, in Germania il piano di cablaggio di Deutsche Telekom per 8 milioni di abitazioni è oggetto di un contenzioso regolatorio. Cosa avviene nelle aree più virtuose? Quindi c’è il caso giapponese, con il progetto Ubiquitous-Japan. Le reti di nuova generazione offrono accessi a banda larga a 100 Megabit/s. Il governo giapponese stima in circa 1.500 miliardi di dollari il prodotto interno lordo aggiuntivo generato dal progetto U-Japan, a fronte di investimenti di circa 50 miliardi dollari per una rete pervasiva NGN con fibre fino alle abitazioni. E ha messo in campo sussidi dello Stato, mediante prestiti a tasso bassissimo e significative deduzioni fiscali per gli investimenti infrastrutturali. Il tutto entro regole accorte, capaci di incentivare ogni sforzo verso l’obiettivo di un nuovo ciclo economico.
libri e riviste
opo aver svelato tutti i luoghi comuni sulla produzione del petrolio, Leonardo Maugeri si sofferma sulle possibilità di superare la dipendenza dalle fonti fossili. Problema di cui sentiamo tutto il peso in Italia, vista l’alta bolletta energetica, e che sta mettendo a dura prova l’ecosistema. Senza prese di posizioni ideologiche, l’autore descrive quanto questi combustibili – che oggi coprono più dell’80 per cento dei consumi mondiali – siano ormai insostenibili e indica una serie di soluzioni realistiche e stringenti. Soprattutto il suo approccio molto concreto lo spinge alla conclusione che nel lungo periodo soltanto la ricerca scientifica potrà affrancarci dalla dipendenza da greggio e gas. Leonardo Maugeri Con tutta l’energia possibile Sperling & Kupfer pagine 228, euro 20
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in rete l’ultimo Bollettino Adapt, la rivista on line di giuslavorismo diretta da Michele Tiraboschi e curata dall’Associazione degli amici di Marco Biagi. In questo numero il professor Giuliano Cazzola fa il punto sulla collaborazione tra mondo del lavoro e università. E illustra le mancanze e le opportunità di questo rapporto. Giorgio Santini, segretario confederale della Cisl, analizza i cambiamenti apportati dal protocollo del Welfare. Il consulente del lavoro, Andrea Asnaghi, descrive invece i limiti che porta con sé il nuovo apparato sanzionatorio contro il lavoro nero, introdotto dal decreto Bersani. Per ricevere una copia del bollettino, basta scrivere a csmb@unimore.it. Bollettino Adapt
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Il progetto di Telecom non risolve i molti dubbi del mercato su liberalizzazioni e digital divide
Open Access non apre la rete di Sandro Frova olti si aspettavano dal Telecom Day del 7 marzo indicazioni precise sulle strategie di sviluppo della rete/Ngn di Telecom. Così è stato, ma nel segno opposto a quanto auspicato dagli ottimisti: le osservazioni in tema di disciplina finanziaria, attenzione al payback period, compressione delle Capex, nonché la conferma che almeno sino al 2010 l’Adsl2 rimarrà il pilastro portante della banda larga, dicono infatti con chiarezza che Ti non è al momento disposta a investire granché sulle Ngn.
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Resta dunque aperto il dibattito sulla eventuale separazione, dato che la scelta attuale della società è quella di procedere solamente a una ristrutturazione organizzativa interna con la creazione di Open Access, una sorta di dipartimento. Le affinità con il caso inglese, in cui BT ha attuato una separazione divisionale della rete, sono limitate al solo linguaggio, dato che Open Access costituisce una sintesi di Open Reach (la divisione di BT realmente separata e “protetta”da significativi chinese walls) e di Equality of Access (il principio concorrenziale di non discriminazione fra competitors). L’an-
to: separazione societaria della Rete; quotazione della nuova società mantenimento da parte di TI di una quota di partecipazione classificabile come “di controllo”; ingresso di investitori specializzati: fondazioni, CDP, F2i, fondi di investimento; non è chiaro quale possa essere il flottante lasciato al mercato, ma pare evidente che non si tratterebbe di una vera e propria public company e che quindi non vi sarebbe –anche volendo – contendibilità. Se dovesse svolgersi in questo modo (peraltro, anche una separazione societaria senza quotazione lascerebbe aperte le medesime aree di criticità), la separazione comporterebbe, in sintesi, che da un lato TI raccoglie cassa e mantiene il controllo della essential facility, dall’altro vengono nei fatti depotenziate le eventuali conseguenze per TI di una separazione con annesse condizioni di equality; rimarrebbero poi zone d’ombra con riferimento a NGN e liberalizzazione dei prezzi retail. È un progetto che da un lato avrebbe il pregio di rimettere in moto gli investimenti tanto invocati; dall’altro porterebbe con sé tre rischi principali: 1) Che attraverso un alto prezzo di quotazione si attualizzino, a tutto vantaggio di TI, elevati margini futuri implicitamente connessi a un quasi monopolio. In altri termini, se la valorizzazione della Newco Rete sarà alta grazie agli elevati margini, quotando e facendo cassa subito TI si appropria del reddito monopolistico futuro, e non corre dunque neppure il rischio che prima o poi la rendita monopolistica decada. Dunque, a prescindere dai risultati futuri della Newco, TI avrà comunque un significativo vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti, estraendo dalla quotazione le rendite quasi monopolistiche future con cui implementare le proprie strategie competitive attuali. Se poi la Newco genererà effettivamente extra-profitti, un obiettivo che starà certamente a cuore agli investitori finanziari, meglio ancora per TI che, in quanto socio
Con la societarizzazione l’azienda potrebbe generare extraprofitti nunciata ristrutturazione organizzativa da un lato, il rinvio delle scelte strategiche che contano dall’altro, lasciano aperta, anzi forse più aperta che mai, l’opzione di una eventuale, ma non immediata, separazione societaria della rete: un tema complesso, che tocca diversi aspetti nodali per TI, per la concorrenza, per la competitività stessa del nostro sistema economico. Ricordo che il progetto di separazione della rete di TI tratteggiato di recente da autorevoli operatori ed esperti era così articola-
industriale di controllo (anche se relativo) ne avrà il ritorno via dividendi. Per inciso, le valutazioni circolate ufficiosamente variano fra i 10 ed i 20 miliardi di euro. 2) Che attuata la separazione societaria TI faccia passare l’idea – su cui ha già insistito – che venga meno la ragione dell’intervento regolatorio. 3) Che un’eventuale convergenza d’interessi fra TI e Stato/Istituzioni, ad esempio sul digital divide, si svolga a discapito della concorrenza e dello sviluppo concorrenziale del settore. Dal punto di vista della concorrenza, se il valore della Newco Rete riflettesse eccessivi valori del capitale investito e una struttura dei costi non pienamente efficiente, oltre che prezzi “elevati”, l’ipotesi di quotazione con TI che rimane azionista di riferimento diverrebbe doppiamente preoccupante: l’operatore dominante mantiene il controllo operativo e strategico, incassa attraverso la cessione di una quota significativa (diciamo il 70 per cento) un prezzo che riflette “elevati” profitti futuri, e mantiene probabilmente un elevato flusso di dividendi futuri. Con tali capitali l’impresa dominante non potrebbe che vedere migliorata la propria posizione competitiva rispetto agli altri concorrenti.
Se non ci si volesse infilare nel ginepraio sopra descritto, allora, le eventuali scelte di separazione tornano agli schemi classici: A) Separazione funzionale, ma non societaria: modello all’inglese, con forte controllo esterno e chinese walls, unito ad un indispensabile sostegno alla capacità di enforcement del regolatore. B) Separazione societaria (se TI vuole fare cassa): mantenimento delle regole attuali ed imposizione di un controllo all’inglese; in altri termini, la separazione societaria non può far dimenticare tutto quanto si è detto in questi mesi sulla separazione funzionale. In questo caso, però, riterrei necessario che il prospetto informativo ed il business plan della quotazione siano trasparenti e “condivisi”, nella parte prezzi/mercati,
Troppa cautela nei piani di sviluppo dell’incumbent
La preoccupazione crescerebbe se si pensa che, naturalmente e comprensibilmente, gli investitori istituzionali non possono che vedere di buon occhio una posizione di forza, al limite monopolistica, in quanto in tale ipotesi riuscirebbero ad ottenere una –per loro - assai apprezzabile combinazione di basso rischio ed alto rendimento. Il rischio concreto sarebbe che, in un potenziale contesto di parziale o totale assenza di regolazione e controllo che dovesse risultare dalla negoziazione degli impegni, la convergenza di interessi fra operatore dominante ed investitori istituzionali fosse tale da spingere all’insù il valore della Newco Rete e –per le ragioni sopra ricordate- all’ingiù la forza competitiva degli OLO.
da AGCOM ed AGCM. C) Non succede nulla, ovvero non vi è separazione funzionale o societaria: rimane la situazione attuale, con TI soggetta a regole ma –probabilmente- incapace di sostenere un piano di investimenti a medio termine nella NGN che non sia minimalista. E, in effetti, il piano di investimenti al 2010 fatto intuire il 7 marzo sembra riflettere molta cautela, unita all’esigenza di tenere sotto controllo gli equilibri economico/finanziari dell’azienda. Per il sistema Paese questo rimane un punto oltremodo dolente; non solo perché lascia aperta una situazione concorrenziale non accettabile (si vedano in proposito i richiami dell’AGCOM), ma anche perché cresce il rischio che le pur legittime scelte dell’operatore dominante allontanino, più che avvicinare, l’individuazione di soluzioni maggiormente orientate allo sviluppo. www.la-rete.net
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speciale economia
NordSud
Il Sudest asiatico e la capacità di conciliare risorse necessarie per le infrastrutture e l’apertura dei mercati
Internet veloce, a lezione dalla Corea e Honk Kong di Alessandro D’Amato n mercato con gravi squilibri. Nel quale le quote degli incumbent – gli ex monopolisti – sono assai diversificate da Paese a Paese, e gli investimenti nell’innovazione languono. Perché quanto accade in Italia, infondo, non è diverso da quello che succede nel resto del Vecchio Continente. La banda larga all’europea è in sofferenza, e guarda al futuro con molta apprensione. E le problematiche da affrontare sono troppe: c’è una realtà commerciale ancora troppo chiusa, che, in alcune nazioni, favorisce le grandi telecom a discapito degli operatori alternativi; si registra uno stallo generalizzato nella rete di nuova generazione; le necessità imporrebbero grandi impieghi di denaro, che però nessuna delle aziende è in grado di movimentare nel breve termine. E di conseguenza i ritardi li pagheranno gli utenti nei prossimi anni.
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Prima di tutto, la penetrazione della broadband. L’ultima rilevazione ufficiale in ambito comunitario, e curata dall’Ecta (l’associazione degli operatori “non incumbent”), offre “forchette” di dati assai diversificati. Che vanno dal 35 per cento di abbonamenti alla banda larga in paesi come Danimarca e Olanda, all’8,1 della Grecia e al 7 della Polonia. Nei grandi Paesi la situazione è assai diversificata. All’Adsl è abbonato un quarto degli abitanti del Regno Unito, il 23 per cento dei francesi e il 22 dei tedeschi, ma soltanto il 17 per cento degli spagnoli e il 16,5 degli italiani. Il nostro Paese si sta allontanando dalla media dell’Unione europea (19,8 per cento) ed è sempre più distante dai paesi comparabili per numero di abitanti come Francia, il Regno Unito, Germania, per non parlare delle nazioni nordiche. E siamo stati superati anche dall’Irlanda, e seguiti da molto vicino dal Portogallo. Ma il dato più interessante per giudicare l’apertura del mercato è la quota ancora appannaggio degli incumbent rispetto al totale degli abbonamenti. A brillare per la concorrenza è – guarda caso – l’Inghilterra. Qui British Telecom – la prima realtà costretta ad aprire sulla rete – mantiene appena il 25 per cento del totale – la più bassa in assoluto – seguita da Svezia e Repubblica Ceca con una quota del 36-37 per cento circa. Le maggiori concentrazioni arrivano da Francia e Germania, dove si arriva al 46-47 per cento, e soprattutto dall’Italia, dove Telecom mantiene ancora il 64 per cento del totale degli abbonamenti: è la percentuale più alta nel Vecchio Continente dopo Lussemburgo e Cipro. Se poi si vanno a confrontare i dati sul mercato dell’unbundling, cioè sulla possibilità di affittare dall’incumbent l’ultimo miglio di rete e poi di rivenderlo al detta-
Soltanto la Gran Bretagna ha saputo limitare il peso degli ex monopolisti glio, si notano ancora grandi discrepanze tra le diverse realtà europee. A fronte del 46 per cento dell’Inghilterra, la quota degli ex monopolisti sul totale delle vendite retail, nei grandi Paesi, è pari al 71 per cento in Germania, al 75 in Francia, all’84 in Italia e al 90 in Spagna. Nel nostro Paese c’è quindi soltanto un 20 per cento di concorrenti di Telecom che si limitano a rivendere con il loro marchio il traffico che comprano all’ingrosso. La quota degli operatori veramente alternativi è quindi pari al 16 per cento, percentuale in cui è compresa la fibra ottica di Fastweb.
Infine, c’è il capitolo più dolente. Uno studio pubblicato dalla OfCom – l’autorità britannica delle telecomunicazioni – mette a confronto gli investimenti effettuati dalle compagnie telefoniche asiatiche, americane ed europee in quello che dovrebbe essere il business prossimo più importante: la fibra ottica. Cioè quella tecnologia, che dovrebbe innovare profondamente la rete telefonica, permettendo anche la fruizione di internet ad alta velocità, consentendo quindi l’accesso a nuovi servizi come l’IpTv (la Tv via internet), la tele-medicina e la tele-sorveglianza. Una rivoluzione nella quale gli investimenti però sono molto diversificati tra Paese e Paese: il Giappone spenderà 35 miliardi di euro per coprire il 95 per cento delle abitazioni entro il 2010; La Corea del Sud e Hong Kong si trovano su percentuali di co-
i convegni ROMA Martedì 18 marzo 2008 Enea Tavola rotonda sulle ”tecnologie per l’energia: quali innovazioni e strategie industriali in Europa? Il Set Plan e le sue proposte”, promosso dall’Enea. Partecipano, tra gli altri, Carlo Andrea Bollino, presidente del Gse; Flavio Cattaneo, amministratore delegato di Terna; Alessandro Ortis, presidente dell’Autorità per l’Energia elettrica e gas; Pasquale Pistorio, vice presidente Innovazione e sviluppo tecnologico di Confindustria. Conclude i lavori Emma Bonino, ministro per le Politiche europee. MILANO Mercoledì 19 marzo 2008 Le Meridien Gallia Al via il Forum Corporate Governance, organizzato da The Economist e Business International. Tra gli altri, sono attesi gli interventi di giuristi del calibro di Guido Rossi e Piergaetano Marchetti, presidente Rcs Mediagroup.
pertura simili; gli Stati Uniti hanno in programma di arrivare al 40 per cento della popolazione entro lo stesso anno. E sono tutte prospettive ambiziose, da attuare in mercati sicuramente reattivi alle nuove tecnologie e in grado di “digerire” spese anche ingenti nell’infotainment.
Se invece si guarda alla realtà europea, le cose stanno diversamente. Piccoli Paesi come la Danimarca, l’Olanda e la Svizzera riusciranno a cablare gran parte delle utenze entro tre anni. I brutti segnali invece arrivano dai “grandi”: la Germania ha in programma di arrivare solo al 21 per cento, l’Italia al 5 e la Francia al 4 nel biennio 20082009. Come dimostrano i numeri, tre dei Paesi che dovrebbero essere all’avanguardia si trovano ancora praticamente alla fase sperimentale di progetti che in Asia e in America sono già decollati. A sentire gli esperti, a questa situazione contribuiscono anche le generali difficoltà delle telecom europee. Anche perché in questa fase investire ingenti cifre nella rete fissa, quando Bruxelles pensa alle separazioni funzionali potrebbe essere visto anche come un rischio dai manager. Se si guarda all’Italia, come spiega Maurizio Decina del Politecnico di Milano, l’ordine di grandezza degli investimenti per il collegamento a larga banda di ciascuna abitazione va dai 400 fino agli 800 euro, quando la fibra arriva fino ai locali. Per connettere 15 milioni di abitazioni servono quindi investimenti compresi tra i 6 e i 12 miliardi di euro. Ma sarebbe il caso, a questo punto, anche di chiedersi che tipo di infrastruttura di rete avremo in futuro in Europa. Perché da questo dipendono molti servizi e business che rischiamo di vedere soltanto con il binocolo tra appena 5 anni.
ROMA Mercoledì 19 marzo 2008 Palazzo Giustiniani L’università Luiss presenta l’annuale Rapporto Luiss 2008 – “Generare classe dirigente. Una sintonia positiva da ritrovare”. Ne discutono, tra gli altri, il presidente del Senato, Franco Marini; il direttore generale dell’ateneo, Pier Luigi Celli; il presidente della Fiat, Luca Cordero di Montezemolo. ROMA Mercoledì 19 marzo 2008 Tempio di Adriano La Fondazione Nuova Italia organizza il convegno “Liberare il lavoro. Le politiche del lavoro tra produttività e sicurezza Idee e proposte per la XVI legislatura”. Interverrà sul tema Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria. BOLOGNA Giovedì 20 marzo 2008 Palazzo Davia Bargellini Nomisma presenta il Rapporto 2008 sul mercato immobiliare italiano. Lo illustra il presidente Gualtiero Tamburini
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Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein
C A M PA G N A
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2008 ❏ semestrale 65,00 euro invece di 127,00 euro
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❏ annuale sostenitore 200,00 euro invece di 254,00 euro Modalità di sottoscrizione dell’abbonamento - CONTO CORRENTE POSTALE: occorre versare l’importo sul c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl”. - BONIFICO BANCARIO: è necessario versare la somma al seguente riferimento bancario: “Banca Carim - Filiale di Roma - Via Po n.160 - c/c n° 7473344, intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” IBAN: IT 31 I 06285 03200 009007473344
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DELLE IDEE
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economia
A sinistra, il nuovo tanker per la Us Air force del consorzio Airbus Grumman Northop, Kc-45
La voracità dei fondi non risparmia l’industria della sicurezza. E America e Vecchio Continente si scoprono alleate
Difesa europea a rischio «sovranità» di Pierre Chiartano otrebbe essere una Dife- cento) detengono il 45 per cen- per affrontare il problema dei rispetto agli interessi naziona- della finanza internazionale sa senza “sovranità”quel- to di Eads e non si vorrebbe fondi sovrani – che stanno li, senza scoraggiare l’arrivo di (Merrill Lynch, Citigroup e la che si sta preparando che gli investitori stranieri pos- creando, da tempo, problemi copiosi fiumi di denaro molto Ubs) ricapitalizzando i grandi per l’Europa. Le recenti sano superare il 15 per cento negli Stati Uniti – in un incon- utili per un’economia in tempi malati dei subprime. vicende legate all’entrata dei del capitale. tro organizzato dalla delega- di recessione. Potrebbe essere fondi sovrani nell’industria del zione Usa con i responsabili lo stesso caso anche per l’Eu- Sul fronte Ue, inizialmente, il Vecchio Continente hanno sca- Il 29 febbraio scorso, la situa- dell’Abu Dhabi investment ropa? C’è chi vede un legame portavoce della Commissione tenato un conflitto istituzionale zione si è ulteriormente comfra la richiesta delle golden per il Mercato unico, Oliver a differenti livelli. Il primo è le- plicata con l’acquisizione di un share e il megacontratto con il Drewes era stato lapidario: «Le gato alla scarsa trasparenza fi- lucroso contratto oltre Oceano: golden share non hanno un poPentagono. nanziaria di questo mare di sol- circa 40 miliardi di dollari per Non va nascosta la penuria sto all’interno del mercato unidi, l’altro al loro utilizzo per fi- la fornitura di 179 aerocisterne d’investimenti nel settore sicu- co». Dall’altra parte Parigi e alla Us Air Force, da parte di ni politici. rezza. Le spese generali per la Berlino stanno studiando un L’estate scorsa il fondo sovrano Airbus in partnership con l’adifesa vedono la Ue a una quo- sistema per salvaguardare gli del Dubai (sovereign wealth mericana Northop-Grumman. ta di 425 euro pro capite, con- interessi dei governi all’interno fund) aveva acquisito il 3,1 per Un successo dell’industria eutro i 1.363 euro del Pentagono. dei loro campioni nazionali. In cento del capitale di Eads, il ropea, che ha battuto la Boeing Anche e soprattutto per il Vec- loro soccorso, successivamenconsorzio della difesa europeo in casa propria, in un mercato chio Continente dovrebbero te, sembra essere arrivato lo che controlla anche Airbus, Eu- molto esigente e competitivo. A authority e del Government in- valere le stesse regole, visto stesso commissario europeo rofighters e numerosi progetti fine febbraio anche il diparti- vestment corp di Singapore. Si che i fondi sovrani hanno mes- per il Mercato unico, Charlie legati alla sicurezza in ambito mento del Tesoro si è mosso vuole evitare acquisizioni ostili so un piede nei salotti buoni McCreevy, affermando che i 27 europeo e internazionale. Stati membri «possono Poi in dicembre anche la esercitare il potere di veQuesti veicoli hanno una potenza di fuoco da 3mila miliardi di dollari. Verso nuove regole? banca statale russa Veb to sugli investimenti nei settori sensibili come aveva incamerato un alquelli legati alla sicureztro 5 per cento, facendo za». Non da meno il prescattare l’allarme in alcusidente della Commissione cancellerie. Esistono dal 1959, per creare riserve finanziarie per debito. È allo studio un codice di autoregolamenne, José Manuel Barroso: Francia e Germania gli Stati petroliferi. Oggi hanno preso di mira alcuni tazione per rispondere alle molte richieste di «Ci riserveremo il diritsettori strategici, tanto da scatenare reazioni in am- trasparenza. Emblematica la vicenda di Dubai hanno subito reagito, ma to», dice, «di intervenire bito Ue e Usa. Win Bischoff di Citigroup, prima sod- ports world, che fu costretta a vendere 5 terminal Brussels ha acceso un selegislativamente qualora disfatto di coprire le perdite dei mu- portuali negli Usa su pressione del Congresso maforo rosso in noil codice di trasparenza tui “facili”, ha poi lanciato l’allarme, americano. Ma la riscossa dei Swf è avvenuta per me della libera condei fondi risultasse inefgiudicandoli uno strumento politico due concomitanze: la prima è il prezzo del greggio correnza. Nicolas ficace». Soltanto allora la fuori dal mercato. Russia e Cina con schizzato alle stelle; la seconda è la voragine fiSarkozy e Angela Ue si muoverebbe per i Paesi del Golfo gestirebbero circa nanziaria causata da subprime e derivati. Merkel vorrebbero bloccare gli investimenti 3mila miliardi di dollari, che diven- Il primo salvataggio è avvenuto a novembre 2007, introdurre le goldei swf. terebbero 12mila nel 2015 – secondo con 7,5 miliardi di dollari dell’Abu Dhabi investden share per gaIn realtà si tratta di un le stime di Morgan Stanley, a sua vol- ment authority destinati a Citigroup. Poi è stata la rantire che il concodice volontario di auvolta della svizzera Ubs con 11 miliardi di franchi ta “beneficiata” dai fondi cinesi. trollo di Eads – cotoregolamentazione verSecondo il Financial Times il model- scuciti dalla Singapore investment corp e 2 miliarme le industrie di so il quale sono scettici lo sarebbe il Fondo pensioni del governo norvegese. di sauditi. La China development bank è entrata in altri settori “sensibili”– risia la Russia sia il È considerato un esempio di buona gestione e Barclays e China investment corp in Standard manga saldamente nelle Kuwait. Dunque, niente trasparenza, non paragonabile però, a ciò che Chartered, che sono le chiavi dei mercati delle ex mani degli Stati nazionaprotezionismo, ma granavviene nella maggior parte degli altri sovereign colonie britanniche. Un modo per Pechino di diverli. Ora il governo francese de attenzione a chi ci (15 per cento), il gruppo wealth fund . Quelli russi – come altri – sono gestiti sificare gli investimenti – rispetto ai Tbond – e almettiamo in casa, sopratdal governo, senza controllo e senza sollievo per il lungare le mani sull’economia occidentale. Daimler (22,5 per cento) e tutto a guardia della noquello Lagardere (7,5 per stra sicurezza.
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Sarko e la Merkel lanciano la golden share per fare da scudo all’aggressività di arabi, cinesi e russi
Caccia ai salotti buoni della finanza
economia
18 marzo 2008 • pagina 19
I Werthein ostacolano i piani di Bernabè sulla joint venture
Argentina, in rivolta i soci di Telecom di Alessandro D’Amato
ROMA. Dopo il Brasile ancora problemi per Telecom in Sudamerica. «Eserciteremo senza dubbio la nostra opzione sul restante 50 per cento della holding Sofora, che controlla Telecom Argentina», aveva dichiarato durante la presentazione del piano industriale l’A.d. Franco Bernabè, riferendosi alla call option esercitabile a fine anno di cui dispone il gruppo italiano sulla quota oggi detenuta dalla famiglia Werthein (48 per cento) e da France Telecom (2). Ma la settimana scorsa, riferisce il quotidiano argentino La Nacion, durante il Cda per approvare il bilancio, i contrasti latenti tra i soci si sono ancora una volta palesati.
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g i o r n o
Chiusura in forte ribasso per la Borsa Seduta a senso unico in Piazza degli Affari, che ha visto il listino muoversi quasi solo verso il basso. A fine giornata sia il Mibtel che lo SPMib mostrano flessioni superiori al 3 per cento, in linea a quanto sta succedendo sulle altre piazze finanziarie europee in seguito ai timori scatenati dalla vicenda Bear Stearns. L’indice Mibtel ha terminato la giornata in flessione del 3,52 per cento a 23.371 punti mentre lo S&P Mib ha lasciato sul terreno il 3,39 per cento a 30.586 punti.
Rinnovabili, istruttoria dell’Authority su Enel L’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha avviato un’istruttoria nei confronti di Enel Distribuzione. Sono state riscontrate, informa un comunicato, ’’alcune carenze nell’erogazione del servizio di connessione alla rete degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: in particolare, ritardi nella realizzazione dei collegamenti e nella fornitura dei necessari preventivi. Se verranno accertate le violazioni, l’azienda, oltre a dover cessare immediatamente i comportamenti lesivi, rischia una sanzione nei termini di legge’’.
Oro, nuovo recordo storico L’oro continua a macinare record mentre gli investitori sono alla ricerca di un rifugio sicuro dalle turbolenze dei mercati finanziari. Ieri a Londra il metallo giallo ha toccato quota 1.032 dollari l’oncia, rispetto ai 1.003 dollari di venerdì, per poi ritracciare a quota 1.024 dollari l’oncia.
Finmeccanica migliora la redditività 2007
A sinistra, l’amministratore delegato di Telecom, Franco Bernabè
Gerardo Werthein, vicepresidente di Telecom Argentina, ha prima accusato gli azionisti italiani di nascondere informazioni sull’azienda e di discriminarlo al momento di prendere le decisioni, poi si è scagliato contro l’entrata di Telefonica in Olimpia, affermando che l’impatto dell’operazione sulla concorrenza e sul quadro regolatorio è stato occultato agli organismi di controllo argentini. E ha fatto mettere a verbale che le opzioni di acquisto in scadenza a fine 2008 per le azioni della società sono considerate nulle dal suo gruppo (W de Argentina), tanto da promuovere una serie di azioni legali per far valere i suoi diritti. Eppure nello stesso Cda ) è arrivata la smentita del presidente Carlos Felices, secondo il quale nessuna comunicazione di iniziative giudiziarie è ancora giunta alla società. Ma intanto il verbale della riunione è stato inviato alla Borsa argentina, e non mancherà di finire nel dibattito apertosi con il cambio dell’assetto azionario di Olimpia e la nascita di Telco. Interpellata da Liberal,Telecom Italia non ritiene di dover rilasciare alcun commento sull’accaduto, e non ha nulla da aggiungere rispetto al piano industriale, dove si indicano i mercati sudamericani come quelli su cui l’incumbent italiano punta per crescere. E ha intenzione di esercitare la call option. Una decisione confortata dagli ottimi risultati comunicati dall’azienda: ricavi in crescita del 24 per cento nel
d i a r i o
litico aveva costretto in febbraio il presidente Gabriele Galateri di Genola a incontrarsi in “missione diplomatica”con il presidente argentino Cristina Kirchner.
In ogni caso, dicono gli operatori,
L’ex monopolista vuole rilevare la holding Sofora. Intanto, come già in Brasile, si intravede lo spettro di Carlos Slim terzo trimestre 2007, lo sfondamento di quota 10 milioni di clienti nel mobile (+32), e un utile netto di 183,1 milioni di dollari, in aumento del 262 sul 2006. Sulla stessa linea l’azionista di maggioranza Telefonica. Che però è anche proprietaria di Telefonica de Argentina, primo competitor della joint venture italosudamericana. Proprio per l’evidente rischio di accordi lesivi della concorrenza, la situazione a livello istituzionale e po-
dietro le dure posizioni di Werthein, tra l’altro partner di Generali e vicino al presidente Antoine Bernheim, potrebbe nascondersi semplicemente la volontà di aumentare il prezzo dell’uscita dal gruppo. Ma intanto anche la Telex di Carlos Slim, vecchio pretendente di Olimpia, si è presentata a Buenos Aires per contestare l’operazione davanti alla Commissione per la difesa della concorrenza alla Camera. E le difficoltà argentine fanno il paio con quelle del Brasile, dove l’obiettivo di Telecom è di non indebolirsi nel ricco settore della telefonia mobile. Ma anche lì Telefonica controlla il primo operatore in partnership con Portugal Telecom, mentre Tim Brasil è il secondo. E Slim, primo azionista di America Movil, tiene d’occhio l’Anatel: il terzo operatore mobile brasiliano è suo. Il quadro è in evoluzione, dal momento che il governo Lula sta favorendo la riunificazione di OiTelemar con Brasil Telecom, per creare un grande operatore nazionale. Dal quale, per ora, sarebbe esclusa la rete mobile.
Finmeccanica archivia il 2007 con una accelerazione della redditività operativa e una crescita robusta di ordini e ricavi. I conti approvati dal cda evidenziano ricavi per oltre 13,42 miliardi di euro con una progressione dell’8 per cento sul precedente esercizio e un risultato operativo in crescita a doppia cifra (+11 per cento) che supera la soglia di un miliardo di euro. Al netto delle componenti straordinarie, l’utile netto 2007 si attesta a 503 milioni con un aumento del 49 per cento sui 337 milioni dell’esercizio precedente. Soddisfatto il presidente e amministratore delegato di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini. «I risultati registrati nel 2007 confermano la nostra affidabilità e la capacità di rispettare puntualmente le previsioni comunicate al mercato. Abbiamo superato - afferma Guarguaglini - gli obiettivi prefissati e continueremo a mantenere gli impegni presi».
Mutui, ecco il premio trasparenza Al via la prima edizione del premio ”Trasparenza” sui mutui, ad aprile a Firenze. Dopo lo scossone dato dalla crisi dei mutui subprime, e la rottamazione dei finanziamenti resa possibile dalla legge Bersani con la surroga e senza spese aggiuntive, arriva adesso il premio Trasparenza dei contratti mutui casa, realizzato in occasione del salone immobiliare che si svolgerà a Firenze da giovedì 3 aprile fino al 6. Nella giornata del 5 aprile, in particolare, l’Associazione dei consumatori Adiconsum e Guida Mutui presenteranno una ricerca condotta sui mutui casa offerti da ben 28 istituti di credito dislocati su tutto il territorio nazionale. Alla tavola rotonda sui mutui sono stati inoltre invitati rappresentanti di Abi, Antitrust e Consiglio nazionale del Notariato.
Conferenza di Organizzazione della Cgil Dopo 15 anni, la Cgil terrà una nuova Conferenza di Organizzazione. Si svolgerà a Roma, dal 29 al 31 maggio e sarà intitolata ”Cgil. I nostri valori al lavoro -. Il territorio, la centralità del lavoro e della condizione sociale per riprogettare il Paese, per una rinnovata confederalità”. Lo ha annunciato ieri il segretario generale, Guglielmo Epifani, spiegando che «sarà una occasione per discutere su come è cambiato il mercato del lavoro, il ciclo produttivo, il territorio e di come fare correzioni per rafforzare la nostra presenza e la nostra azione».
Internet, nasce la-rete.net Sul modello della voce.info, alcuni economisti indipendenti hanno fondato il sito www.la-rete.net. La pubblicazione on line ospita interventi sulle tematiche dell’Ict e dei media. Tra i promotori, i professori Maurizio Decina, Giorgio De Michelis,Sandro Frova,Augusto Preta e Francesco Sacco.
cultura
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Riflessione sul libro di Gennaro Malgieri “Le macerie della politica”
L’Italia, il Paese capovolto di Giancristiano Desiderio ennaro Malgieri lo dice fin dal primo rigo di questo suo ultimo, ma non ultimo, libro (“Le macerie della politica”, edito da Rubbettino): «Questa Italia che non mi piace”. Cos’è che non gli piace, tanto da fargli dire addirittura che l’Italia è una nazione “infelice?». La lettura di Malgieri potrebbe essere troppo personale, soggettiva, magari faziosa. Parlando della incapacità della classe politica nel suo insieme, senza molta differenza tra destra, sinistra e centro, a rappresentare interessi generali e a parlare della nazione alla nazione, magari l’ex direttore del Secolo e dell’Indipendente potrebbe a sua volta peccare di parzialità e cadere nel medesimo errore che condanna. Potrebbe. C’è, però, un modo per capire se quando Malgieri parla di “decadenza”, “Italia invertebrata”, “Paese infelice”sta colpendo un bersaglio reale o sta esagerando. Il metodo è quello della ricerca sul campo. Esempio: come funziona la scuola? Il sistema sanitario nazionale sta bene o è malato? Il Mezzogiorno d’Italia è un’Italia che appartiene ancora allo Stato italiano?
la cura e in molti ospedali si muore piuttosto che guarire, e non certo per fatalità. Tutto è capovolto.
G
La scuola italiana è semplicemente un disastro. Lo sa bene l’Ocse, lo sanno al ministero, se ne è reso conto perfino il ministro Fioroni che, sia pure in maniera buffa e mascherata, ha in pratica reintrodotto gli esami di riparazione a settembre. La scuola italiana è il primo e serio problema italiano perché, come diceva Longanesi, «tutto quello che non so l’ho imparato a scuola». Battuta a parte, la scuola in Italia non è costruita sul merito, bensì sul demerito. Il vero fallimento del Sessantotto si chiama scuola di massa e sperimentale: qui la ricreazione non è mai finita e oggi la scuola è solo il più grande parcheggio sociale italiano, per gli studenti e per i docenti. Che cosa dice al riguardo la “faziosità” o l’ “esagerazione” di Malgieri? Una cosa semplice: senza un buon sistema scolastico, almeno di livello europeo, non andiamo da nessuna parte. È troppo chiedere un governo che governi la scuola? È troppo pensare che sia necessario avere una scuola che crei merito, che pensi il merito e insegni a pensare il merito? O bi-
La “questione meridionale”.
Il diario di un riformista deluso dall’incapacità della classe dirigente nel suo insieme a rappresentare interessi generali, a parlare alla nazione e ad affrontare i problemi reali: dalla scuola, alla sanità, al Mezzogiorno d’Italia
sogna rassegnarsi ad avere una scuola sottosopra?
Altro esempio. La sanità. Anche qui, purtroppo, è buio a mezzogiorno. E non perché la malasanità fa notizia e la buona sanità non finisce in prima pagina, ma perché il sistema sanitario nazionale italiano è pensato male e costruito peggio. Roberto Volpi, uno che della materia se ne intende perché per anni ha lavorato per la programmazione socio-sanitaria, ha scritto un interessantissimo e rigoroso libro,“L’amara medi-
cina”, edito da Mondadori, e ha passato ai raggi X il sistema ospedaliero e la medicina italiana arrivando alla conclusione che la medicina non fa distinzione tra sani e malati e spesso punta più alla conquista dei sani che alla cura degli ammalati; con la conseguenza, tutt’altro che infrequente, di fare ammalare i sani. Il sistema “preventivo” si è pervertito fino a considerare i sani dei ammalati in pectore. Risultato (con dati alla mano): non funziona la prevenzione, non funziona la cura, siamo diventati un popolo
di ammalati sani. Cosa dice Malgieri nella sua denuncia? Anche qui una cosa semplice quanto grave ma vera: i cittadini sentono di essere privati del diritto alla salute o, almeno, al-
Il nome stesso fa sorridere: esiste ancora qualcosa del genere? Anche se non se ne parla, il Sud è ancora più a Sud. Soprattutto, al Sud lo Stato non è Stato: non ha il controllo del territorio. Anche qui si cammina come il gambero. Tutto è rovesciato. E tutto è testimoniato, noto, certo. È forse un caso che il libro italiano più importante degli ultimi anni e quello più noto all’estero è “Gomorra” di Roberto Saviano? Malgieri è nato a Solopaca, paese del Beneventano, alle pendici del monte Taburno, conosce bene la sua terra e sa molto bene quanto la politica abbia contribuito a peggiorare e non a migliorare la sofferente vita civile di un Mezzogiorno senza luce.
Ecco, il cuore del libro di Malgieri - un testo morale più che politico, anche e soprattutto perché parla di politica, d’Italia e d’Europa - è questo: a cosa serve la politica? “L’Italia di questo inizio secolo non mi piace. E credo non piaccia a nessuno. Può cambiare? Credo debba necessariamente cambiare. A meno di non volersi votare all’estinzione”. Malgieri è stato deputato e ora è in corsa per tornare in Parlamento. Al suo pessimismo della ragione corrisponde, evidentemente e gramscianamente, l’ottimismo della volontà. Avrà dato una risposta in cuor suo alla domanda “ a cosa serve la politica?”. Diamo, per quel che possiamo, la nostra risposta che, Malgieri ci perdonerà, non è forse da lui condivisibile ma pur è in linea con il suo “diario di un riformista deluso”. In un Paese normale, diciamo pure europeo, la politica serve a formare governi che lavorano su problemi; in un Paese come l’Italia la politica serve a creare problemi per formare governi. In Paesi seri la politica forma il consenso per risolvere problemi, in Italia si agitano problemi per avere consenso. L’Italia è semplicemente un Paese capovolto.
musica
18 marzo 2008 • pagina 21
Il 10 marzo Leonard Cohen è stato ammesso nella Hall of Fame del Rock and Roll (foto grande) insieme con Madonna, John Mellencamp, The Dave Clark Five e The Ventures
eonard Cohen torna a esibirsi dal vivo dopo quindici anni di assenza dai palchi, dandosi in pasto al pubblico dei principali festival internazionali dell’estate 2008. Sarà a Montreux, ma anche nel carnaio fangoso di Glastonbury, Inghilterra, con una data anche in Italia, il 27 luglio al Summer Festival di Lucca. Ha 73 primavere sulle spalle, ma a ben vedere questa sua mossa spiazzante è in linea con il personaggio: il suo orologio biologico non è mai stato in sincrono con i ritmi del music business. Schivo e solitario, il venerando canadese ha esordito nel mercato discografico, una suburbia popolata da ragazzini ansiosi e smaniosi, alla matura età di 33 anni, quando in patria si era già fatto un nome come poeta e romanziere. A un certo punto, nel ’94, scappò via dalla pazza folla isolandosi in un monastero buddista sulle pendici dei monti di San Gabriel, in California, e cambiando il nome in Jikhan: “il silenzioso”. Nel ’99 è tornato a vivere a valle, a Los Angeles: una contraddizione solo apparente, perché al pari del rifugio del Mount Baldy Zen Center la sterminata metropoli degli angeli è un non luogo per antonomasia, un posto dove è facile perdersi e astrarsi dalla realtà terrena. Ha ripreso nel frattempo a pubblicare dischi col contagocce, ma da lì a decidere di tornare on the road ce ne corre. Proprio lui, poi, che s’era dato alla meditazione per non diventare “il più vecchio cantautore sulla breccia”…
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Il momento non potrebbe essere più propizio. Il 10 marzo scorso, al Waldorf Astoria di New York, un Cohen inappuntabile nel suo smoking è stato introdotto nella Rock and Roll
Il cantautore canadese sarà protagonista dei festival internazionali dell’estate 2008
Il ritorno di Cohen “il silenzioso” di Alfredo Marziano Hall of Fame accanto a Madonna e al rocker John Mellencamp, con lo scorbutico Lou Reed ben lieto di fargli da maestro di cerimonie e il giovane Damien Rice emozionato interprete di Hallelujah, la canzone che ha regalato luce eterna alla stella cometa di Jeff Buckley. È idolatrato dai colleghi, Leonard, come quell’altra primula rossa di Bob Dylan: uno che come lui sa rendersi inafferrabile adottando la tattica opposta, ogni sera in una città diversa lungo le tappe del suo infinito neverending tour.
Ascetico e pragmatico (è entrato in causa con la sua ex manager, Kelley Lynch, accusandola di avergli sottratto cinque milioni di dollari), improvvisamente Cohen si manifesta uno e trino: è da poco uscito anche in Italia, per Mondadori, il suo autobiografico Libro del desiderio, mentre alla Richard Goodall Gallery di Manchester sono esposti, fino al 18 agosto, una cinquantina di suoi schizzi, disegni e caricature che forniscono un Private Gaze, uno sguardo privato e intimo su quarant’anni di vita ed arte. È capitato persino, ultimamente, di sentirne la vo-
È da poco uscito in Italia l’autobiografico ”Libro dei desideri”, mentre la Richard Goodall Gallery di Manchester ospita i suoi disegni
ce inconfondibile e catramosa in tv, in quello spot pubblicitario di una nota marca automobilistica che ci ha rinfrescato la memoria sulla bellezza di Hey, That’s No Way To Say Goodbye, la sorella gemella di Suzanne che stava su quell’inarrivabile primo album intitolato semplicemente Songs Of Leonard Cohen. Uscì nell’anno di grazia 1967, in piena Summer of love, ma con una visione dell’amore molto più disincantata, complessa, aggrovigliata, contraddittoria: un viluppo di carnalità e misticismo, di sacro e profano, di peccato e purificazione (Nick Cave ringrazia: su queste stesse tematiche ci ha costruito sopra una carriera, evocando Cohen anche nel timbro vocale). In copertina, foto in bianco e nero, il giovane Leonard sembrava un sosia di Al Pacino o di Dustin Hoffman (di origini ebree come lui): non fosse che al loro febbrile vitalismo americano lui, cresciuto nei grandi spazi canadesi, opponeva introspezione, sussurri e silenzi (molti anni prima di diventare Jikhan).
E un amore incondizionato per la parola, i libri, la letteratura, ereditato dal maestro Irving Layton («io - disse una volta Cohen - gli ho insegnato a vestirsi, lui mi ha insegnato a vivere in eterno») e condiviso con Fabrizio De André, che di Suzanne ci fece innamorare per primo. Era la prima icona in una stupefacente galleria di personaggi attinti al Vecchio Testamento e alla mitologia, alla fantasia e alla cronaca quotidiana, la Giovanna d’Arco promessa sposa alle fiamme e il marito tradito che in Famous Blue Raincoat scrive una lettera all’amante della moglie, “fratello e assassino”. Meravigliosamente poetico, Cohen, anche quando ricorda Janis Joplin nell’atto di praticargli una fellatio sul letto sfatto di un albergo newyorkese (Chelsea Hotel#2), mentre fuori le limousine restano in paziente attesa. Ostinatamente libero e fuori dal coro, come l’uccellino in bilico sul filo della luce e il cantante ubriaco di Bird On A Wire. Per questo, a dispetto di dischi sempre più pallidi (lui stesso ha definito l’ultimo Dear Heather, 2004, come niente più di un insieme di «appunti di un notes, ricette appese sulla porta del frigorifero»), può ora permettersi un ritorno senza paura di risultare patetico, neanche fosse un Bing Crosby o un Frank Sinatra che delle luci della ribalta non potevano fare a meno. Anche se le parole con cui si è accomiatato dalla platea della Hall of Fame sono state, come sempre, ambigue e sibilline: “Vi dico addio”, ha salutato col suo vocione il maestro zen canadese, “perché non so quando tornerò”.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
La legge 194 è un freno efficace agli aborti illegali? NON È UNA CATTIVA LEGGE MA MOSTRA TUTTE LE RUGHE DELLA VECCHIAIA La 194 non è una cattiva legge, ma mostra tutte le rughe della vecchiaia.Va riscritta in base alle sopraggiunte scoperte tecnologiche e adeguata a un’esigenza primaria: evitare che l’antica piaga degli aborti clandestini praticati da donne disagiate si trasformi, oggi, nella superficiale (e quasi impunita) espulsione del feto indesiderato da parte di donne travolte dall’ansia della carriera o dal timore dell’indigenza. In amicizia.
Rossella Grazioli
OGGI LA PRATICA DELL’AMORE SPENSIERATO SI COMBINA COL RIFIUTO DEL PRODOTTO DELL’AMORE Per rispondere alla sua domanda le racconto una storia. Avevo una fidanzata di Verona, ragazza splendida figlia di una borghesia poco produttiva e molto edonistica, molte amicizie danarose, pochi libri letti, in fondo un temperamento generoso. Quel che si dice una donna del suo tempo. In due anni di fidanzamento, ho conosciuto parecchie amiche della mia ragazza, ciascuna di esse con uno o due aborti sulla coscienza. Sì, direttore, proprio così. Non credo che Verona sia il mattatoio dei feti italiani, ma per esperienza posso dirle che la pratica dell’amore spensierato (legittima) si combina maledet-
LA DOMANDA DI DOMANI
tamente con la leggera, certo traumatica ma in fondo condivisa pulsione a rifiutare il prodotto di quegli amori attraverso gli aborti. Mi sono chiesto più volte, allora, quale medico potesse certificare il diritto di abortire a ragazze sane e ricche, soltanto atterrite all’idea di dover partorire all’età di venti o venticinque anni. Poi un giorno è arrivato il mio turno, direttore, ma non ho avuto neppure l’occasione d’intromettermi tra l’aborto di mio figlio (mio figlio!) e la decisione di abortirlo presa dalla mia fidanzata. Semplicemente, ho scoperto il tutto a cose fatte, me l’ha confidato una sua amica pentita o forse pettegola, quando ormai la nostra storia a distanza era conclusa da un mese. Non credo sia importante sapere se quell’aborto è stato la causa della nostra rottura, né se lei abbia abortito clandestinamente, presso qualche agiato e complice ginecologo. E’andata così, direttore, giudichi lei.
Alfonso Di Nardo - Viterbo
LA 194 È UNA VOX POPULI E COME TALE DEVE ESSERE ACCETTATA La 194 è una vox populi e come tale va accettata. Ma è troppo scomodo applicarla: chi si adopera perché la donna possa parlare con persone idonee a farle capire a cosa può andare incontro abortendo? E’una legge comoda invece a controllare le nascite di figli non programmati in certi ceti sociali. Lo dimostra il notevole numero di neonati rinvenuti nei cassonetti a causa della totale disinformazione che regna nel nostro Paese. Cordialmente ringrazio per l’attenzione.
Claudia Previti - Milano
VA BENE MA È MIGLIORABILE NELL’APPLICAZIONE CON MAGGIORI CONTROLLI E SOSTEGNI PER LA DONNA
È giusto boicottare le Olimpiadi di Pechino? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
la risposta è sì: la legge 194 rappresenta una garanzia solida, certificata da fatti e statistiche, contro l’aborto clandestino. Detto questo, è evidente che una completa applicazione della legge scoraggerebbe anche le numerose interruzioni di gravidanza dovute alla così detta dittatura del desiderio o alla paura di non poter crescere il nascituro. In sintesi, la 194 va bene, ma è migliorabile nella sua applicazione con maggiori controlli e più servizi e sostegni per la donna incinta. Cordialità.
IL NOBILE PENSIERO DI ALDO MORO Sono passati trent’anni dall’eccidio di Via Fani del presidente della Dc, Aldo Moro. Erano i cosiddetti anni di piombo, della contestazione giovanile, iniziata con la “rivoluzione culturale del ‘68” e che presto si trasformò in lotta armata. Quanti fiumi di parole, quante ipocrisie per cercare di rievocare fatti che rischiano di illanguidire nelle diverse celebrazioni il nobile pensiero di un grande statista, uomo di cultura, cattolico. Rileggendo alcuni dei suoi scritti, si possono comprendere le ragioni per cui Moro intendeva perseguire un disegno politico di ampio respiro, quel “compromesso storico”, chiamando a corresponsabilizzare in un momento difficile per la vita sociale del Paese, tutte le forze politiche di maggioranza e di opposizione. Certo, una scelta difficile quella di mettere insieme il partito dei cattolici, di coloro che avevano guidato la difficile fase della ricostruzione del dopoguerra, con coloro che da sbandieratori delle classi operaie hanno esaurito le loro battaglie con l’occupazione dei posti di potere. Più di qualcuno ha cercato di evi-
WHISKY IN FIORE A South Queensferry, Edimburgo, la fiera dell’Uomo Bardana è una tradizione di oltre 300 anni. Il protagonista, vestito di soli fiori spinosi, si aggira per la città bevendo unicamente whisky scozzese TUTTA COLPA DI MUSSI IL DISASTRO DELLE UNIVERSITÀ La Corte dei Conti ha respinto la riforma dei contratti sui ricercatori, causando lacancellazione di 784 posti e il blocco di 550 milioni di euro destinati allaricerca. Siamo di fronte all’ennesimo disastro realizzato dal Ministro Mussi, l’università italiana nell’ultimo anno e mezzo è stata vittima di una gestione scellerata e questa decisione della Corte dei Conti ne è la conferma, gli atenei si trovano nell’impossibilità di bandire nuovi concorsi per mancanza di normative di riferimento. Mussi (ormai alla fine, per fortuna, della sua attività da ministro) ha pensato di lasciare ai ricercatori e a tutti gli studenti una disastrosa eredità,di fatto dei bandi per la ricerca del
dai circoli liberal Camillo Leonardi - Roma
denziare come Moro ebbe l’intuizione prima di altri di mettere in guardia i “vecchi attori” della politica di fronte ai fenomeni dell’evoluzione dei tempi, invitandoli a voler dare spazio alle giovani generazioni che avanzavano. Il decadimento della politica, dei partiti, delle Istituzioni è storia dei nostri giorni, con il serio rischio questa volta che possa alimentarsi un nuovo fenomeno di indifferenza della gente contro un sistema che sta mettendo in ginocchio il Paese. Oggi mi riesce difficile rileggere e immaginare l’affermazione del pensiero nobile di Moro, l’uomo che ha pagato un prezzo troppo alto rispetto alla volgarizzazione di una politica incapace di affrontare le vere emergenze del Paese. Corriamo il rischio di subire un’altra grande rivoluzione culturale, contro un sistema traballante che non riesce più ad assicurare stabilità. La democrazia è compromessa da un sistema elettorale che nega di far scegliere la sua classe dirigente relegandone la responsabilità morale alle oligarchie dei partiti. Se coloro che ricoprono incarichi ai diversi livelli si convinceranno che non è più il tempo del successo per-
2008 non c’è traccia, comportando danni gravissimi le cui conseguenze si ripercuoteranno anche nel futuro.
Fulvio Noto - Palermo
L’ITALIA RITIRI TUTTI GLI AMBASCIATORI DALLA CINA Come purtroppo temevamo tutti, è stata la censura la risposta della Cina agli appelli mossi dalla comunità internazionale. Se il Governo di Pechino crede che sia sufficiente oscurare l’informazione per placare le polemiche sul mancato rispetto dei diritti umani si sbaglia: l’Italia ritiri i suoi ambasciatori impegnati in Cina e si mobiliti in sede internazionale affinché sia rivista la scelta del Cio sull’assegnazione dei giochi Olimpici 2008.
Luigia Veronesi - Pisa
sonale e del consolidamento di posizioni di potere, ma della responsabilità e del dovere, potremmo nobilitare i valori della Politica e gli intenti di Moro. E’ nostro dovere onorare Aldo Moro, un martire dello Stato dei nostri tempi, nonché tutti i caduti di quegli anni, affinché il loro sacrificio possa giovare alla democrazia e alla libertà del nostro Paese. Gianluigi Laguardia PRESIDENTE CIRCOLO LIBERAL POTENZA
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 28 MARZO 2008 Ore 11, presso l’Università Gregoriana, in piazza della Pilotta 4 Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog IL COMUNE RIQUALIFICHI LE PISTE CICLABILI DI ROMA Il signor Rutelli a quanto pare si è accorto solo ora che esistono le piste ciclabili, ma continua a dire che va tutto bene. Fa finta di non vedere lo stato di degrado in cui versano, dimentica che sono state scenario di aggressioni e che i cittadini da tempo chiedono più sicurezza. Per la riqualificazione delle piste ciclabili, così come delle aree adiacenti, il presupposto è quello di effettuare maggiori controlli, e non solo in campagna elettorale, cosa che il centrosinistra non ha mai fatto.
Una pallida statua che vi guarda con desiderio Nati sotto cieli diversi, non abbiamo né gli stessi pensieri né lo stesso linguaggio. Abbiamo forse cuori che si somigliano? Il clima mite e nuvoloso dal quale provengo mi ha lasciato impressioni gentili e malinconiche; quali passioni ha infuso in voi il sole generoso che ha abbronzato la vostra fonte? Io so come amare e soffrire, e voi, cosa conoscete dell’amore? L’ardore dei vostri sguardi, la violenta stretta delle vostre braccia, il fervore del vostro desiderio, mi tentano e mi spaventano. Non so se combattere la vostra passione o se condividerla. Accanto a voi io non sono niente altro che una pallida statua che vi guarda con desiderio, preoccupazione e stupore. Non so se mi amate, non lo saprò mai. Voglio ignorare ciò che fate e quale parte giocate fra i vostri compagni uomini. Non voglio nemmeno sapere il vostro nome. Nascondetemi il vostro animo onde io possa sempre pensare che sia bello.
Ada Fioravanti - Roma
BENE IL NUMERO CHIUSO AGLI SCAVI DI POMPEI
George Sand a Pietro Pagello
LA SINISTRA E LA VESTAGLIA Il gentiluomo lo sa, la vestaglia rivela la sua vera natura dopo molte stagioni. Col passare del tempo, anche se si consuma in vari punti e modi, muta e prende la sua forma unica. Si carica del valore aggiunto di un investimento affettivo. Diventa una passione da cui egli si sente dominato e mai domato. Una passione calda, aristocratica e capace di stupire. Proprio come quella che egli nutre per la nostra sinistra. Grato dell’attenzione.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
IL PD NON È UN PARTITO NUOVO NÉ DI RINNOVAMENTO In una cittadina del Reggiano, Sant’ilario d’Enza, Prodi ha parlato (deve avere molto tempo disponibile per dedicarsi anche alle inaugurazioni delle piccole sedi politiche del Pd, con tutto il rispetto alla cittadina ed al partito, ma, con questi chiari di luna, un Presidente del Consiglio...). Ha parlato e ha detto che il Pd è un partito ”costruito pazientemente, con saggezza e ci sono voluti 15 anni”. Anche questo è vero, ma gli ultimi mattoni della costruzio-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ne (Panella e Di Pietro) poteva pur risparmiarseli: già ci sono stati cedimenti all’inizio (si è sganciata la cosa rossa), a metà costruzione vari scricchiolii non hanno deposto bene (Binetti, Veltroni-Bassolino), in fase di rifinitura poi sono stati individuati corpi estranei non previsti in progetto... Tutto questo, fatto in 15 anni e con saggezza. E cosa sarebbe stato un progetto affrettato e senza un briciolo di competenza e riflessione? Grazie per l’attenzione e buon lavoro. Ps: caro direttore, ho inserito il titolo di laurea per evitare che Prodi mi dia dell’incompetente. E la presi quando gli esami... ma lasciamo perdere.
Numero chiuso agli Scavi di Pompei. Lo propone il nuovo assessore al Turismo e ai Beni culturali della Campania Claudio Velardi, mentre storce il naso il sovrintendente Pietro Giovanni Guzzo. Personalmente mi trovo d’accordo con la proposta: fissare un tetto di visitatori serve per offrire servizi adeguati. Sarà dunque più facile portare gli imprenditori dentro gli scavi e produrre eventi. Si fa così anche al Moma, al Prado, al Louvre.
Amelia Giuliani - Potenza
PUNTURE Corrado Passera dice che “la crisi è seria ma tecnicamente non siamo in recessione”. Passerà.
Giancristiano Desiderio
Architetto Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)
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Per me un libro è valido quando ti dà l’impressione che l’autore sarebbe crepato se non l’avesse scritto T. E. LAWRENCE
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di CHE BEL SILENZIO
NEMMENO BERLINO ‘36
Si suol dire che il silenzio sia d’oro, ma mai e poi mai, questo modo di dire è inappropriato per la situazione attuale… E’ sotto gli occhi di tutti quel che sta avvenendo in Tibet, nonostante le barzellette riguardanti il buon cuore del governo cinese, ci ritroviamo di fronte ad una situazione inaccettabile, sotto qualsiasi punto di vista… I manifestanti, che chiedono indipendenza da un governo che li ha invasi più di cinquant’anni fa, vengono picchiati, torturati e uccisi dall’esercito del buon Mao, che chissà come sarà contento nel vedere i suoi successori ancora così poco evoluti rispetto alla sua repubblica popolare, nella quale vengono cancellati tutti i diritti umani. Non sto dicendo proprio nulla di nuovo, si sapeva che quel governo era davvero una gran merda, ma tutti chiudono gli occhi dinnanzi alla potenza economica cinese, davanti al miliardo di abitanti e forza lavoro a basso costo e poi fra poco iniziano le olimpiadi… Boicottarle? Macchè, non servirebbe a nulla credo, piuttosto una bella T-Shirt sul podio con stampato un bel Free Tibet … La cosa però che più mi lascia perplesso è: perchè tutto questo silenzio? Perchè non ho ancora visto una dei tanti centri sociali soliti a bruciar bandiere statunitensi, mettere al rogo qualche bella bandiera rossa? Perchè non ho ancora visto le bandiere della pace nei cortei di protesta? Perchè non ci sono i tanti comunist-socialista del paese a condannare le scelte dell’ultimo avamposto di questo tipo di politica? Perchè ho il dubbio che se una cosa simile l’avessero commessa gli Usa, sarebbe successo tutt’altro?
Nemmeno Berlino 36 è paragonabile a ciò che sta accadendo oggi in Cina. In quel perfetto agosto di teutonica esaltazione greco-romana il mondo sospettava, ma non sapeva. La notte dei cristalli sarebbe avvenuta solo due anni dopo, e il folklore immortalato da Leni Riefensthal, passò presto in secondo piano rispetto al rimorso per una prima pace mondiale stupidamente antigermanica. Al contrario, oggi della Cina l’Occidente sa tutto: metodi, campi di concentramento, numero di morti, numero di diritti negati, numero di diritti violati. Ma non ci basta: l’Occidente questa volta non si sente colpevole; questa volta l’Occidente andrà a Pechino per mero interesse economico. Senza rimorsi, poichè l’adulto occidentale uscito dal massacro totalitario del novecento ha insegnato a suo figlio a non avere valori, a non fidarsi di nulla e nessuno se non del proprio istinto economico. Compriamo magliette cinesi sotto il prezzo di costo; non ci importa della loro provenienza, non ci importa sapere se prodotte in un Lao Gai da un prigioniero politico detenuto per un reato commesso dal nonno. Perchè mai l’Occidente, arrivato a questo punto di miseria morale, dovrebbe boicottare Pechino? Capiamo così, non solo di aver perso la ”colpa” giudaico-cristiana, quel macigno etico sulla singola anima, ma persino la ” responsabilità” del diritto greco-romano, ossia la capacità di vedere la verità palese. Che questo Occidente vada pure a Pechino; la dannazione val bene un’Olimpiade.
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e di cronach
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PAGINAVENTIQUATTRO Le memorie della Terloeva, simbolo della resistenza cecena
Milana, la donna che danzava SULLE ROVINE di Massimo Tosti lampi della memoria aiutano a ricostruire il mosaico della sofferenza. Era il dicembre del 1994. Lei, Milana Terloeva, aveva appena quattordici anni. Il suo universo era racchiuso in pochi chilometri quadrati di felicità adolescenziale. Oggi è una donna molto più matura della sua età anagrafica: gira il mondo, è una giornalista affermata, per molti suoi connazionali ceceni è diventata un simbolo della resistenza e del coraggio. La bandiera dell’opposizione democratica al regime di occupazione. Non è una terrorista, non ama gli integralisti islamici, che considera fanatici ebbri di potere. Non si fida (per dirla con un eufemismo) di Vladimir Putin. E non si fida dell’Europa e dell’Occidente, che non ha alzato un dito per difendere la sua gente e la sua patria. Ha studiato in Francia, si è laureata alla Sorbona, aveva di fronte a sé una carriera brillante. Ha preferito tornare a Grozny, condividere con i suoi connazionali le difficoltà, la fame, la paura, per offrire una testimonianza di un dramma che si consuma dal 1994, quando era un’adolescente, e viveva a Orechovo, un
I
Ha studiato in Francia, ma è tornata a Grozny per testimoniare il dramma che si consuma dal 1994. Non è una terrorista, non ama gli integralisti e non si fida di Putin villaggio che dista una sessantina di chilometri dalla capitale.
Il primo flash risale ad allora, alla sua adolescenza felice.“Per festeggiare l’anno nuovo la scuola del villaggio si prepara per organizzare un ballo. Una ragazza di quattordici anni ammira in un vecchio specchio il vestito da principessa che sua madre le ha donato per l’occasione. E il suo primo ballo e sta proprio bene, non si era mai vista tanto bella. Nella soffitta vuota di una casa ancora in costruzione, immagina come sarà la sua pettinatura, il colore del suo rossetto e la forma dei suoi gioielli. Sogna le eroine di Tolstoj e di
Lermontov, e si immagina mentre balla fra i suoi amici di Orechovo, proprio come una principessa in un salone di San Pietroburgo”. I sogni si infransero in una realtà crudele. “Quel vestito, io non l’ho mai indossato. Quell’anno non ci fu nessun ballo. Veramente, non ci fu semplicemente più scuola. L’esercito russo ha invaso la Cecenia e la guerra è entrata nelle nostre vite. Essa non ha soltanto distrutto le nostre città, i nostri villaggi, i nostri percorsi abituali, le nostre case: essa ha contaminato le nostre anime”. La guerra? “Non avevo la minima idea di cosa potesse essere. Un evento di cui si parlava a avolte in televisione, nomi sconosciuti: Kabul, Vukovar, Sarajevo. La nostra generazione non era preparata alla realtà della guerra. Non sapevamo a chi rivolgerci, a chi chiedere aiuto. Tutto nella guerra è orribile, ma la cosa peggiore, secondo me, è la solitudine immensa che ognuno sente dentro di sé anche quando si ritrova pigiato in una cantina di dieci metri quadrati insieme a una quindicina di persone”.
Milana ha raccontato i lampi della sua memoria in un libro (Ho danzato sulle rovine, Corebaccio editore, 188 pagine, 14 euro) che non aspira “a spiegare un conflitto vecchio di tre secoli: è la storia semplice di una ragazza, uno specchio che scorre lungo le strade sconvolte della mia cara Cecenia”. È angosciata, perché il mondo è indifferente al dramma del suo popolo, e perché il governo russo sta regalando la Cecenia ad Al Qaida. Il terrorismo islamista cerca di accreditarsi come l’unica forma di resistenza possibile. I ceceni sono costretti a fare i conti con i 360 morti della strage nella scuola di Beslan nel settembre 2004. Sono costretti a fare i conti con una repressione cieca e spietata. Racconta di quando un vecchio davanti ai cadaveri di alcuni bambini falciati dai soldati russi, domandò a un generale: “Sono questi i terroristi che Putin vi ha mandato ad ammazzare?”. E quello rispose: “Sono futuri terroristi”. I lampi della memoria la portano agli anni trascorsi a Parigi, quando aveva tutto per considerarsi felice, ma il cuore era distante chilometri. E spiega perché è tornata a Grozny, perché ha in testa la folle idea di aprire un giornale indipendente: per combattere tutti gli integralismi, per invocare libertà per i sopravvissuti. Milana racconta la partenza precipitosa da Orechovo poco prima dell’arrivo dei carri armati russi, la vita nelle cantine di Grozny, il suo bisogno di andare in università a dispetto dei rischi, la fuga in Inguscezia sotto i bombardamenti, l’euforia “fra le due guerre”, i campi di filtraggio, le epurazioni, l’insperata partenza per Parigi, la scoperta dell’Occidente, il ritorno in quel “caos di morti e di menzogne dove ombre umane lottano per sopravvivere”. Al rientro in patria, incontra i suoi vecchi amici ed è piena di ammirazione e di amore: “Sono belli. Sono undici anni che non vedono altro che guerra e violenza. Ognuno di loro, naturalmente, trascina con sé i propri fantasmi e le proprie ferite”, ma “non un lamento esce dalle loro bocche”. “Penso”, conclude, “che c’è qualcosa di nobile in noi, qualcosa di speciale che i russi non riusciranno mai a distruggere”. Gli uomini e le donne eroiche di un piccolo paese del Caucaso, come sua madre che, “da vera cecena, non ha mai trovato le parole per lamentarsi”. Esattamente come lei, Milana, giovane, bella, orgogliosa e dolce. Una testimone disarmata e fortissima.