9 771827 881004
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80325
ISSN 1827-8817
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
di Ferdinando Adornato
La nostra simulazione sul risultato a Palazzo Madama Il Pdl tra 156 e 166 seggi Maggioranza a rischio: decisivo il Lazio
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
Senato suspense alle pagine 2 e 3
NordSud Export, il Sud prova ad accorciare le distanze Giuliano Cazzola, Massimo Lo Cicero, Nino Novacco, Angelo Sanza
da pagina 12 MARTEDÌ 25
MARZO
costume
scenari
economia
ALLARGARE LA NATO A EST, IL PRIMO OBIETTIVO DEL SUMMIT DI BUCAREST
UNA FRANCIA IMPOVERITA NON PUÒ FARE SCONTI AD ALITALIA
Maria Maggiore
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
pagina 8
Gianfranco Polillo
NUMERO
53 •
pagina 18
WWW.LIBERAL.IT
Da Paris a Britney la rehab generation diventa un reality Roselina Salemi
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
pagina 20
19.30
pagina 2 • 25 marzo 2008
Senato
suspense
Il destino della legislatura nelle mani di Bossi
Comunque vada, il PdL rischia di essere ostaggio della Lega di Renzo Foa er la seconda volta in due anni, sarà la composizione del Senato a decidere le sorti di un’impresa politica. Sappiamo da tempo che la vera grande incognita del risultato di aprile riguarda ciò che uscirà dal meccanismo di attribuzione dei seggi a Palazzo Madama. Sappiamo anche che nel 2006, quando a fronteggiarsi furono due coalizioni, che divisero a metà l’elettorato, questo meccanismo funzionò secondo le ragionevoli previsioni dei risultati scomposti regione per regione. Non ci furono grandi sorprese. Ma ora, nel 2008, superato il regime bipolare, non è facile fare previsioni compiute. Tutti i sondaggi d’opinione registrano una forte quota d’incertezza. Piccoli spostamenti di voti a favore dell’Udc, della Sinistra arcobaleno, della Destra o del Partito socialista potrebbero erodere la maggioranza. La stessa maggioranza – che dovrebbe ragionevolmente andare al Pdl – potrebbe risentire negativamente dei risultati ottenuti dalle due liste collegate, cioè la Lega e l’Mpa. In queste pagine, Andrea Mancia propone i possibili scenari a cui ci troveremo di fronte la sera del 14 aprile. A ben pensarci, l’incognita è doppia. La prima, appunto, riguarda direttamente l’esito del voto, i venti premi di maggioranza regionali, il calcolo dei resti. La seconda incognita è rimasta finora un po’in ombra, in tutte le previsioni: si tratta degli equilibri che ci saranno tra Berlusconi e i suoi due alleati. Perché, anche dando per scontata la vittoria del Cavaliere, quel che non può essere dato per scontato è il controllo di Palazzo Madama direttamente da parte del Pdl. La lista formata da Forza Italia e da Alleanza Nazionale molto difficilmente, a meno di un risultato eccezionale, riuscirà ad avere un numero di senatori sufficienti ad assicurare stabilità, unità ed efficienza all’esecutivo. Più verosimilmente avrà quotidianamente bisogno della Lega (oltre che dell’Mpa). Dovrà trasformare gli apparentamenti elettorali in una più organica alleanza di governo, oltretutto in una situazione che non è più quella del rigido regime bipolare. Tra il 2001 e il 2006, Berlusconi doveva mediare in una coalizione a quattro. Era paradossalmente più facile. Dal 15 aprile, invece, potrebbe essere costretto a mediare essenzialmente con il Carroccio. Con un Carroccio che potrebbe godere di una forte “rendita di posizione”e che potrebbe risultare decisivo ai fini della composizione della maggioranza in Senato. Con qualche interrogativo per il futuro. Il primo, il più importante, riguarda il risultato che avrà Bossi. Basta girare un po’ per il “Nord pedemontano”per avvertire una crescita dell’attenzione verso la Lega, direttamente a scapito del Pdl. Cosa accadrà se, per la prima volta dal 1996, il Senatùr dovesse ottenere una massa di consensi tale da riaffidargli direttamente la “questione settentronale”? Sarà un alleato tranquillo o utilizzerà tutte le risorse della propria autonomia? Il Pdl corre il rischio di uscire dal voto del 13 e 14 aprile come un gigante impotente, con una leadership condizionata da una forza minore, ma in ascesa, storicamente combattiva e portatrice di forti interessi sociali e regionali. Corre il rischio cioè di non poter esercitare alcuna “vocazione maggioritaria”, oltretutto in un quadro politico più articolato e multipolare. Berlusconi potrebbe fin da subito trovarsi ad avere con la Lega tutti quei problemi che ha ritenuto di risolvere, un po’ frettolosamente, con An inglobandola e con l’Udc, escludendola. Dunque, oltre che dal numero dei senatori dell’Udc (e della Sinistra arcobaleno) il destino della legislatura potrebbe essere deciso dal numero dei senatori che avrà Bossi, un leader che ha sempre preferito scommettere più sui contenuti e sulla coerenza delle scelte che sulla tranquillità delle alleanze di cui faceva parte.
P
Simulazione sulla ripartizione dei seggi a Palazzo Madama
Senato: Lazio decisivo, maggioranza a rischio di Andrea Mancia a maggioranza del PdL al Senato è a rischio. E a giocare un ruolo decisivo sarà la conquista del premio di maggioranza nel Lazio. E’ questo il dato più significativo che emerge dalla nostra analisi sulla ripartizione dei seggi al Senato per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile. Qualche breve nota metodologica prima di affrontare in dettaglio le singole regioni. I numeri utilizzati per effettuare questa simulazione provengono da due fonti distinte: i dati ufficiali delle elezioni 2006 (Ministero dell’Interno); i dati dei sondaggi nazionali degli ultimi due mesi (dal sito politiche2008.tocqueville.it). Questi numeri sono stati “trattati”grazie ad un foglio di calcolo messo a disposizione dal sito NoiseFromAmerika.org, che permette di effettuare previsioni generali sul Senato “spalmando” uniformemente sul territorio nazionale il dato medio dei sondaggi (il nostro scenario di base è il seguente: PdL 44%; Pd 37%; Sa 7,5%; Udc 6,8%). L’ultima “manipolazione” è stata affidata in parte al buon senso e in parte ai (pochi) sondaggi regionali disponibili. Ecco i risultati della nostra analisi, regione per regione.
L
quasi impossibile. Se la SA riuscisse a superare la soglia di sbarramento, toglierebbe 2 senatori al Pd. PdL (13) Pd (7) Sa (2) Udc (0)
Lombardia La Lombardia assegna ben 47 senatori. Nel 2006, la CdL se n’era aggiudicati 27 con il premio di maggioranza, lasciando gli altri 20 all’Unione.Visto che l’Udc parte da un dato inferiore al 6 per cento, anche in questo caso l’incognita è rappresentata dalla Sinistra Arcobaleno, che al momento attuale – in assenza di sondaggi specifici sulla regione – dovrebbe essere appena al di sotto del 9%. Con la Sa sopra la soglia di sbarramento, al PdL dovrebbero andare 28 seggi (27 dal premio di maggioranza, più uno dai resti), al Pd 14 seggi, alla Sa 5 seggi (di cui uno con i resti). Se la Sinistra Arcobaleno restasse al di sotto dell’8% (ipotesi non assurda, in teoria), i suoi cinque seggi sarebbero divisi, quasi equamente, tra PdL (+3) e Pd (+2), portando il Popolo della Libertà ad ottenere dalla Lombardia 4 senatori in più rispetto al 2006. Nella nostra simulazione, comunque, ipotizziamo che la Sa riesca a superare la soglia di sbarramento. PdL (28) Pd (14) Sa (5) Udc (0)
Valle d’Aosta L’unico seggio in palio nella regione, eletto con sistema maggioritario semplici, dovrebbe restare alla lista “Autonomie Liberté Democratie”, che alle elezioni del 2006 ha conquistato più del 44% dei voti. La lista è collegata al centrosinistra (anche se non si tratta di un accordo organico come quello che lega la Svp in Trentino Alto-Adige). Nella nostra simulazione, comunque, assegniamo il seggio al Pd. PdL (0) Pd (1) Sa (0) Udc (0)
Veneto Ventiquattro senatori in palio. Nel 2006, la CdL ne aveva conquistato 14 (2 dell’Udc), lasciandone 10 all’Unione. Con il trend attuale dei sondaggi nazionali, la Sinistra Arcobaleno resta ampiamente al di sotto della soglia di sbarramento, mentre l’Udc la supera per un soffio (8,03%). Se l’Udc riuscisse a superare l’8%, conquisterebbe 2 senatori, impedendo al PdL di salire a quota 15 e lasciandone 8 al Pd (invece di 9). PdL (14/15) Pd (8/9) Sa (0) Udc (0/2)
Piemonte Nel 2006, dei 22 seggi in palio nella regione, 13 sono andati al centrodestra e 9 al centrosinistra. Il PdL non dovrebbe avere problemi ad assicurarsi il premio di maggioranza, con una decina di punti percentuali di vantaggio, confermando i 13 senatori della CdL (di cui 2 erano dell’Udc). L’unica incognita è rappresentata dal risultato finale della Sinistra Arcobaleno. Spalmando uniformemente su tutto il territorio nazionale i dati degli ultimi sondaggi, la Sa dovrebbe farcela (superando agevolmente il 9%). Mentre per l’Udc, che parte dal 6,3% del 2006, l’impresa è
Trentino Alto-Adige Il Trentino-Alto Adige elegge i suoi 7 senatori con il sistema misto previsto dalla vecchia legge elettorale: sei sono eletti, con sistema maggioritario semplice in altrettanti collegi uninominali (tre nella provincia di Trento e tre in quella di Bolzano), mentre l’ultimo è eletto in base al recupero regionale dei voti non utilizzati. Nel 2006, 5 senatori erano andati alla coalizione Unione-Svp e 2 alla CdL. Nella nostra simulazione abbiamo scelto di lasciare invariato questo risultato, anche se l’unico senatore eletto dalla CdL nell’uninominale è
in realtà a rischio (nel 2006 la CdL aveva vinto con lo 0,9% di vantaggio). Dall’altra parte, potrebbero verificarsi sorprese nei collegi di Trento e Rovereto in caso di una performance al di sopra delle aspettative da parte del PdL. Udc e Sinistra Arcobaleno sono fuori dai giochi. PdL (2) Pd (5) Sa (0) Udc (0)
Friuli Venezia-Giulia Risultato quasi obbligato per il Friuli, che dovrebbe confermare il 4-3 a favore del centrodestra registrato nel 2006. Con i sondaggi attuali (a livello nazionale), né l’Udc né la Sinistra Arcobaleno riescono a superare la soglia di sbarramente, rispettivamente di uno e di mezzo punto percentuale. Se uno dei due partiti (o entrambi) riuscissero a ottenere almeno l’8 per cento, potrebbero sottrarre uno (o due) senatori al Pd. PdL (4) Pd (3) Sa (0) Udc (0)
Liguria La Liguria, vinta dal centrodestra nel 2006 (5 senatori contro i 3 dell’Unione), è un must-win per il PdL. I sondaggi nazionali, però, proiettano numeri in bilico, con la coalizione guidata da Berlusconi davanti di appena 3 punti percentuali. In questo caso, però, è possibile anche analizzare i dati di un paio di sondaggi regionali. Il primo (Opimedia 27 febbraio) vede PdL+Lega al 42,2% e Pd+Idv al 40,2%. Il secondo (Swg 19 marzo) vede PdL+Lega al 42% e Pd+Idv al 37,5%. Il vantaggio del PdL ci dovrebbe essere, insomma, ma è troppo lieve per considerare la Liguria una regione sicura. Il problema è aggravato dalla Sinistra Arcobaleno, che dovrebbe aggirarsi appena al di sotto del 10 per cento (l’Udc invece naviga intorno al 6%), conquistando un senatore ai danni della coalizione sconfitta. Se il PdL dovesse perdere la Liguria, insomma, si troverebbe con 2 senatori invece di 5 (a meno che la vittoria del Pd non fosse causata da un crollo della Sa e in quel caso i senatori sarebbero 3). PdL (2/5) Pd (2/5) Sa (0/1) Udc (0)
Emilia Romagna Iniziano dalla prima delle “regioni rosse”gli ostacoli per la conquista di una solida maggioranza al Senato da parte del PdL. Se, infatti, nel 2006 il centrodestra aveva conquistato 9 senatori (contro i 12 assicurati all’Unione dal premio di maggioranza), nel 2008 la presenza della Sinistra
Senato
suspense
IL SENATO, REGIONE PER REGIONE PDL (certo) PDL (incerto) PD (certo) PD (incerto) in bilico
LE “FORCHETTE“ PDL 156-166 PD 118-133 SA 17-21 UDC 7-13
Abruzzi
LAZIO: LE CINQUE IPOTESI Scenario 1: vittoria del PdL, Sa sopra l’8% PdL 15 seggi - Pd 9 - Sa 3 - Udc 0 Scenario 2: vittoria del PdL, Udc sopra l’8% PdL 15 seggi - Pd 9 - Sa 0 - Udc 2 Scenario 3: vittoria del Pd, Sa sotto l’8% PdL 12 seggi - Pd 15 - Sa 0 - Udc 0 Scenario 4: vittoria del Pd, Sa sopra l’8% PdL 9 seggi - Pd 15 - Sa 3 - Udc 0 Scenario 5: vittoria del Pd, Sa e Udc sopra l’8% PdL 8 seggi - Pd 15 - Sa 2 - Udc 2 Arcobaleno – quasi sicuramente al di là dell’8% - sottrae almeno 2 senatori alla coalizione guidata da Berlusconi. L’Udc è distante dalla soglia di sbarramento (sotto al 6%), ma la SA viaggia appena al di sotto del 10% e dunque due senatori (di cui uno grazie ai resti) dovrebbero essere sicuri. PdL (7) Pd (12) Sa (2) Udc (0)
PdL, poi, potrebbero dimezzarsi se anche l’Udc riuscisse a superare la soglia di sbarramento, ma l’Unione di Centro dovrebbe migliorare di almeno un paio di punti percentuali la sua performance del 2006. PdL (2) Pd (4) Sa (1) Udc (0)
Marche
Umbria
Il calcolo per assegnare gli 8 seggi delle Marche è uno dei più complicati in assoluto. Nel 2006, l’Unione aveva conquistato 5 senatori e gli altri 3 erano andati alla CdL. Con gli attuali sondaggi nazionali a disposizione, però, Pd e PdL sono distanziati di poco più di un punto percentuale (a favore del Pd) e sia Sinistra Arcobaleno che Udc ottengono un risultato superiore all’8%. Alla coalizione vincente (che ipotizziamo possa essere quella guidata da Veltroni) andrebbero 5 senatori. Gli altri 3 verranno spartiti tra chi riuscirà a superare la soglia di sbarramento. PdL (2/3) Pd (5) Sa (0) Udc (0/1)
Anche in Umbria, il 4-3 per l’Unione del 2006 dovrebbe trasformarsi in un 4-2 per il Pd grazie alla presenza di una Sinistra Arcobaleno che viaggia ben oltre il 10%. I due senatori previsti per il
Anche il Lazio è una delle regioni-chiave del Senato. Nel 2006, 15 senatori erano andati alla CdL (2 all’Udc) e 12 all’Unione.
Toscana Anche in Toscana, la presenza della Sinistra Arcobaleno (qui, secondo i sondaggi nazionali, addirittura al di là del 12%) provoca un’emorragia di senatori al centrodestra rispetto al 2006 (quando era finita 11-7 per l’Unione). In questo caso, però, la presenza di SA dovrebbe sottrarre un senatore sia al PdL che al Pd. L’Udc, spalmando uniformemente su tutte le regioni i sondaggi nazionali, dovrebbe andare poco oltre il 6%. PdL (6) Pd (10) Sa (2) Udc (0)
Secondo i sondaggi nazionali, il PdL dovrebbe aggiudicarsi abbastanza agevolmente il premio di maggioranza, ma alcuni sondaggi regionali (e in particolare uno Swg del 19 marzo) registrano invece un vantaggio superiore ai 2 punti percentuali per il Pd, con Udc e Sinistra Arcobaleno al di sotto dell’8%. Un risultato importante della Destra e il“traino” delle elezioni comunali e provinciali a Roma potrebbe effettivamente ribaltare a favore della coalizione guidata da Veltroni il 15-12 del 2006. Se, poi, la Sinistra Arcobaleno riuscisse a frenare l’apparente emorragia di consensi rispetto alle ultime elezioni politiche (in cui era andata oltre il 10%), altri tre seggi potrebbero essere sottratti alla coalizione perdente. Nel caso in cui sia Sa che Udc riuscissero a superare l’8% conquisterebbero due senatori a testa. PdL (9/15) Pd (9/15) Sa (0/2) Udc (0/2)
Lazio
Gli Abruzzi, vinti 4-3 nel 2006 dall’Unione, sono stati considerati a lungo una possibile regione conquistata dal PdL nel 2008. Nella nostra simulazione, però, il presunto vantaggio del PdL è davvero troppo risicato (meno del 2%) per poter considerare la partita chiusa. Anche perché sia la Sinistra Arcobaleno sia l’Udc sono molto vicine all’8%. Se almeno uno dei due partiti riuscisse a superare la soglia di sbarramento, potrebbe sottrarre un seggio alla coalizione perdente. Per ora, ci limitiamo a ribaltare il 4-3 del 2006 a favore del PdL, ma la situazione potrebbe cambiare clamorosamente con lo spostamento di qualche migliaio di voti. PdL (2/4) Pd (2/4) Sa (0/1) Udc (0/1)
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me una regione in bilico. E i 17 senatori del premio di maggioranza dovrebbero andare, abbastanza agevolmente, al PdL. Le incognite, invece, riguardano Sinistra Arcobaleno e Udc, che potrebbero conquistare qualcuno dei 13 senatori ambiti dalla coalizione sconfitta (in questo caso il Pd). Ipr vede la Sinistra Arcobaleno all’8% e l’Udc al 5,5%. E si tratta esattamente degli stessi risultati che si ottengono spalmando uniformemente i risultati dei sondaggi nazionali su tutte le regioni. L’Unione di Centro, però, confida molto nella candidatura di De Mita e nei voti in libera uscita dell’Udeur. Due fenomeni che molto probabilmente sfuggono del tutto alle rilevazioni dei sondaggisti. La nostra sensazione è che, in una situazione caotica come quella campana, il voto potrebbe rivelarsi molto frammentato , consentendo sia alla Sinistra Arcobaleno che all’Udc di superare la soglia di sbarramento. PdL (17) Pd (9/11) Sa (2) Udc (2)
Puglia Il Pdl non dovrebbe avere problemi a conquistare, come nel 2006, i 12 senatori del premio di maggioranza pugliese. Il Pd, però, potrebbe non riuscire a garantirsi la totalità dei 9 seggi rimanenti. Particolarmente solida, infatti, sembra la posizione dell’Udc nella regione (oltre il 9%, secondo la nostra simulazione). E anche la Sinistra Arcobaleno non sembra troppo lontana dall’8%. Se solo l’Udc riuscisse a superare la soglia di sbarramento, comunque, toglierebbe al Pd almeno 2 senatori. PdL (12) Pd (7) Sa (0) Udc (2)
Basilicata
Campania
Anche la Basilicata, secondo i sondaggi condotti su base regionale, è una regione in bilico. Malgrado la forte crescita del PdL, soprattutto in provincia di Potenza, sembra però difficile che la coalizione guidata da Berlusconi riesca a colmare tutto il gap accumulato nel 2006 (una decina di punti percentuali). La situazione per il PdL è complicata dal fatto che la Sinistra Arcobaleno potrebbe, molto verosimilmente, superare la soglia di sbarramento e conquistare un senatore. PdL (2) Pd (4) Sa (1) Udc (0)
Nel 2006, la conquista da parte dell’Unione del premio di maggioranza in Campania (per poco più di 15mila voti) permise al centrosinistra di avere una maggioranza – almeno aritmetica – al Senato. Quest’anno, l’effettoBassolino ha fatto precipitare il Pd in tutti i sondaggi regionali. Ipr (19 marzo) assegna addirittura al PdL il 47% dei consensi (contro il 32,5% di Pd+Idv). Forse i 15 punti di distacco sono troppi, ma anche Swg vede il centrodestra avanti almeno di 6 punti. Non si può dunque considerare ancora la Campania co-
Secondo alcuni sondaggi Ced di marzo (e vista la grave difficoltà in cui versa la giunta regionale di centrosinistra), il PdL dovrebbe riuscire a strappare la Calabria al Pd, aggiudicandosi i 6 senatori assegnati dal premio di maggioranza. E’ anche probabile che la Sa superi la soglia di sbarramento. E anche l’Udc è molto vicina all’8%. Anche nel caso in cui soltanto una delle due coalizioni minori riesca nell’impresa, il Pd vedrebbe dimezzati i suoi seggi in regione. PdL (6) Pd (3) Sa (1) Udc (0)
Molise Il Molise elegge i due senatori che le spettano con un sistema proporzionale, senza correttivo maggioritario. Si potrebbe quasi evitare di votare, insomma, perché PdL e Pd si aggiudicheranno un seggio ciascuno. Per evitare questo risultato, la coalizione vincente dovrebbe conquistare più del doppio dei voti degli avversari. Fantascienza. PdL (1) Pd (1) Sa (0) Udc (0)
Calabria
Sicilia Il dominio del centrodestra in Sicilia non è in discussione. E la conferma arriva anche da alcuni sondaggi regionali molto recenti. Il PdL, dunque, non dovrebbe faticare troppo per confermare i 15 senatori assegnati dal premio di maggioranza. Il dubbio, casomai, riguarda la sorte degli 11 seggi rimanenti, che nel 2006 erano andati tutti all’Unione. Lo scenario più probabile è che l’Udc riesca a superare la soglia di sbarramento (gli ultimi sondaggi la danno intorno al 9%), al contrario della Sinistra Arcobaleno (che viaggia verso il 6%). In questo caso, l’Udc riuscirebbe a conquistare 3 seggi (di cui uno con i resti). PdL (15) Pd (8) Sa (0) Udc (3)
Sardegna Anche in Sardegna, incrociando i dati dei sondaggi nazionali con i risultati del 2006, il PdL dovrebbe riuscire a strappare i 5 senatori del premio di maggioranza al centrosinistra. Si tratta comunque di un vantaggio molto esiguo (intorno al 3%) che non lascia spazio a nessuna certezza. Per i quattro senatori residui ci sono molti pretendenti, perché la Sinistra Arcobaleno dovrebbe essere agevolmente al di sopra della soglia di sbarramento e anche l’Udc è molto vicina all’8%. Nella nostra simulazione, assegniamo un senatore alla SA perché il suo dato del 2006 è più solido di quello dell’Udc. PdL (5) Pd (3) Sa (1) Udc (0)
Estero Nel 2006, approfittando di un centrodestra inspiegabilmente diviso, l’Unione si è aggiudicata 4 senatori su 6 nelle circoscrizioni estere (uno, per la verità, è un “indipendente”del Sud America che ha promesso di schierarsi in ogni caso con il governo in carica). Quest’anno, il PdL dovrebbe riuscire ad aggiudicarsi almeno 3 seggi (più, se riuscisse a formare un governo, quello appunto della circoscrizione sudamericana). Nella nostra simulazione, dunque, assegniamo 4 seggi al PdL e 2 al Pd. PdL (4) Pd (2) Sa (0) Udc (0)
Scenari per il PdL Scenario massimo: Il PdL conquista la Liguria, il Lazio, l’Abruzzo e la Sardegna; l’Udc non supera l’8% in Veneto. 166 seggi. Scenario minimo: il PdL perde in Liguria, Lazio, Abruzzo e Sardegna; l’Udc supera l’8% in Veneto. 156 seggi. Da qualche parte, tra questi due estremi, si trova il probabile risultato finale per il Senato. E si trova anche la differenza, sottile, che passa tra una vittoria elettorale (anche se con la Lega decisiva) e una clamorosa vittoria mancata.
pagina 4 • 25 marzo 2008
politica
La coalizione guidata da Lombardo verso una larga vittoria
Laboratorio Sicilia: messaggio per Roma di Alfonso Lo Sardo
PALERMO. Non si capisce bene cosa possa fare o dire Anna Finocchiaro per guadagnare qualche punto percentuale su Raffaele Lombardo e risulta ancora più difficile individuare da parte di quest’ultimo qualche dichiarazione o comportamento che possa farlo scendere da quello che i sondaggi gli attribuiscono, ossia un 58% delle preferenze da parte dei siciliani. A poco meno di tre settimane dal voto per l’elezione del presidente della Regione Siciliana si ha la netta sensazione che i giochi siano fatti e che non resti che attendere solo la comunicazione del responso elettorale. La Sicilia si conferma una terra di moderati. Deve averlo capito anche la senatrice Finocchiaro che non sembra raccogliere attorno a sé quel consenso che in molti immaginavano, non fosse altro che per la sua caratura politica ed istituzionale.Tutti i suoi tentativi di spostarsi al “centro”, inoltre, vengono frustrati dalle obiezioni - legittime sia chiaro della sinistra arcobaleno che qui nell’isola sostiene la sua candidatura. Sì perché la contraddizione Sicilia interessa in questa tornata elettorale non solo l’ex casa delle Libertà ma anche l’ex centrosinistra: tutti allineati e coperti a sostegno di Lombardo a presidente della Regione – dopo un percorso faticoso e non incruento laddove il cavaliere Berlusconi aveva cercato di proporre qualche suo uomo per isolare ancor di più l’odiata Udc – e tutti allineati e coperti a sostegno di Anna Finocchiaro a sinistra, e anche qui non senza recriminazioni, con la sinistra radicale che aveva puntato tutte le sue speranze sul nome antimafia di Rita Borsellino.
Ma alle elezioni politiche il panorama si presenta in modo del tutto diverso. Un panorama nel quale l’UDC corre da sola ma dove la stessa sinistra arcobaleno va per i fatti suoi. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante della questione laddove le ragioni per rimanere uniti alle regionali vanno a farsi friggere alle politiche, con l’aggravante che si voterà per entrambe le competizioni lo stesso giorno. Equilibri così consolidati dovrebbero lasciare poco spazio alle previsioni ed ai sondaggi ed in effetti così é. Nell’isola di Sciascia c’è poco entusiasmo nei confronti
Raffaele Lombardo di questa materia. È per questo allora che diviene interessante più che sondare o prevedere la vittoria di questo o quello – dal momento che già si conosce il risultato – capire quali siano le aspettative e le priorità dei siciliani. Secondo il sondaggio elaborato da Lorien Consulting e che su questo aspetto sembra veramente fedele alla realtà, il lavoro è per il 75 per cento degli intervistati la priorità
Resta da capire quali saranno gli equilibri nelle coalizioni e se potranno condizionare il futuro governo number one. Segue ma lontanissima, al 27 per cento, la realizzazione di infrastrutture ed al terzo posto con il 21 per cento la sanità. Agli ultimi posti la lotta alla mafia ed alla corruzione. E qui c’è spazio per tutte le strumentalizzazioni ideologiche del caso che poco interessano. Non sembra attecchire poi nell’isola la questione di lana caprina del voto utile o inutile, sollevata ad arte da Berlusconi con la complicità del sodale Veltroni. Sarà che il siciliano solitamente ha un orgoglio senza misura che lo porta a ritenere non solo utile il proprio voto ma anche legittime le consultazioni elettorali tout court solo nel
d i a r i o
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Veltroni spiega le liste del Pd «Chi avrei voluto candidare? Don Luigi Ciotti. Ma, essendo un religioso, non è stato possibile». Lo rivela Walter Veltroni in un’intervista esclusiva a Chi in edicola oggi. A proposito della formazione delle liste elettorali il candidato premier del Pd dice: «Noi non abbiamo portato gente di spettacolo. Ci sono l’operaio della Thyssen, il professor Veronesi, giovani imprenditori, i prefetti De Sena e Serra, impegnati nella lotta alla criminalità organizzata, e tanti giovani talenti». Veltroni stigmatizza un difetto che considera tutto italiano: «Se proponiamo giovani, lo sono troppo, se sono politici, non va bene, se sono vecchi, troppo vecchi... C’è sempre qualcuno pronto a lamentarsi. Ci vuole più fiducia nel futuro».
Casini: «Silvio vince ma non governa» caso di una sua presenza alle urne, ma questi trucchetti qui più che altrove sono visti in tutta la loro meschina pochezza. Anche il dato nazionale che vede un 28 per cento di indecisi in grado di condizionare il risultato finale nell’ipotesi di una scelta a favore dell’uno o dell’altro schieramento si riduce in Sicilia tra il 15 ed il 21 per cento. Risulta invece essere più interessante capire quali saranno gli equilibri all’interno delle coalizioni e in che modo il dato siciliano delle politiche potrà condizionare il futuro governo. In quest’ottica diventa ad esempio decisivo capire quale sarà l’apporto dell’Udc alla causa nazionale di Pier Ferdinando Casini, quali saranno le ripercussioni all’interno dell’ex Forza Italia della mancata candidatura di un proprio uomo con il rifiuto netto e preciso nei confronti di quella di Gianfranco Micciché giudicata “inadeguata”, quale sarà l’apporto di una forza politica come Alleanza Nazionale che in Sicilia è in caduta libera e non da pochi anni e, a sinistra, quali saranno gli assetti della sinistra moderata del Pd rispetto alla forza di quella estrema. Ma tutta questa materia non può essere di per sé appannaggio di previsioni o sondaggi.
Per capire dove tira il vento e quali correnti politiche avranno il sopravvento si dovrà attendere i risultati elettorali. Giganteggia su tutto la tranquillità rivoluzionaria di Raffaele Lombardo che ha assunto la posizione di chi vuole – senza urla e esibizionismi – ottenere per la Sicilia delle opportunità che merita e senza le quali, come disse lo stesso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Mezzogiorno resterebbe al palo e il futuro dell’Italia passa proprio dallo sviluppo e dal riscatto sociale ed economico del Sud. È contrario ad una politica rivendicativa Lombardo e non vuole elemosine o assistenzialismi. Se ne conoscono infatti già i risultati. Vuole la fiscalità di vantaggio, la realizzazione di infrastrutture e, tra queste, la trasformazione di un sogno in realtà: il ponte sullo Stretto. Non ci isola dal resto dell’Italia e dell’Europa ma ci si collega. I siciliani per ora gli hanno dato ragione e quella della croce sulla scheda elettorale sembra per ora solo una formalità.
«Le elezioni le vincerà il centrodestra, ma dopo sei mesi, se Berlusconi affronterà i problemi del Paese come sta affrontando Malpensa, nel Paese si determinerà una frustrazione verso chi governa». Lo ha detto il candidato premier dell’Udc Pier Ferdinando Casini, intervenendo alla trasmissione di Lucia Annunziata ”In mezz’ora”. L’ex presidente della Camera attacca la Rai «sbilanciata verso chi vince». «Io non accuso nessuno, è talmente evidente - spiega - in Rai pensano che vinca Berlusconi e, per mantenere il posto che occupano anche dopo le elezioni, lo sostengono. Se non denunciassi questa situazione sarei un cretino». Casini si sbilancia poi su un pronostico: «Siamo fortissimi nel Lazio - ha spiegato - dove siamo in condizione di portare almeno due senatori in Parlamento. Credo che ce la faremo».
Magdi Allam scuote il mondo arabo La notizia della conversione e del battesimo di Magdi Allam nella notte di Pasqua è rimbalzata sui media arabi, suscitando aspre polemiche anche per l’alto profilo che papa Benedetto XVI ha attribuito alla vicenda. Yaha Sergio Yahe Pallavicini, vice presidente della comunità religiosa islamica in Italia (Coreis) ha dichiarato: «Quello che mi stupisce - dice Pallavicini - è l’alto profilo che il Vaticano ha riservato alla conversione, con il battesimo impartito direttamente da Benedetto XVI durante la notte di Pasqua». AlArabiya definisce il vicedirettore del Corsera «uno dei più controversi giornalisti italiani, oltre ad essere un dichiarato sostenitore di Israele».Al Jazeera non cita la notizia, il quotidiano egiziano Al Masri El Yom ha attaccato violentemente Allam: «fino al 2004 frequentava la moschea e allo stesso tempo ingiuriava e offendeva gli arabi e i musulmani. Un giorno, dopo le preghiere del venerdì, informò le autorità italiane che l’imam aveva incitato i fedeli ad aggredire gli italiani. Dopo tale episodio, l’imam fu costretto dal governo a lasciare l’Italia entro 48 ore».
Paura diossina, mozzarelle al bando La Corea del Sud ha messo al bando la mozzarella di bufala dopo le notizie di possibile contaminazione da diossina per la crisi dei rifuti tossici in Campania. Lo ha riferito un funzionario mentre un portavoce del ministero dell’agricoltura ha spiegato che le importazioni di mozzarella sono state interrotte nel weekend e che il paese condurrà ora propri test per verificare l’eventuale contaminazione. «Non appena avremo identificato il produttore e il periodo di produzione - ha sottolineato - potremo restringere il bando». La Corea del Sud importa circa 10 tonnellate di mozzarella l’anno.
Garattini: «L’Italia faccia come la Corea» «La decisione della Corea del Sud di mettere al bando la mozzarella di bufala per il timore della contaminazione della diossina è saggia e logica e credo che l’Italia debba fare i giusti controlli per vedere se è ancora il caso di mettere questo alimento a disposizione della gente». Non ha dubbi il professor Silvio Garattini, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, dopo che le importazioni di mozzarella sono state interrotte nel Paese asiatico.
politica asta complulsare la tag cloud delle 100 parole più usate da Walter Veltroni durante il discorso al lingotto di Torino con cui il leader del Pd lanciava la propria candidatura per rendersi conto della noia che aleggia su questa campagna elettorale. I termini più ricorrenti sono “partito” (57 volte), “democratico” (39), “politica” (39), “paese” (37), “stato” (29), “società” (25) e così via. Per trovare qualcosa che non sia un richiamo generico e di maniera, bisogna arrivare a “fiscale” che compare 17 volte. Segno che l’unico aspetto sentito come prioritario anche nel Pd è quello delle tasse. Eppure in oltre 70.000 battute, qualcosa di nuovo si poteva pur tentare. Neppure il fantasma di Berlusconi è stato evocato, visto che il nuovo corso della politica italiana, inaugurato da Veltroni, è all’insegna di un bipolarsimo maturo che qualcuno definisce inciucio. D’altro canto, Silvio Berlusconi ha perfino rinunciato a mettere la propria icona sui manifesti elettorali, forse consapevole di come gli italiani, nel loro viscerale amore e odio per il corpo dei leader, hanno trattato alla fine illustri suoi predecessori. In questo modo è stata depotenziata la follia iconoclasta che da sempre accomunava la sinistra intransigente la quale aveva eretto il faccione sorridente di Silvio, pur per antitesi, a proprio simbolo identitario. E’ difficile dire se ci sia una strategia precisa oppure debba tutto essere riportato a fortuite contingenze. In ogni caso, paradossalmente la rarefazione della figura dei due leader di Pd e Pdl anche in un’ottica di futura condivisione del potere, ha provocato scompensi vari. Di fatto, la necessitata reductio ad unum di Veltroni ha spiazzato, per ora, i massimalisti. Sono letteralmente scomparsi i vari Pacoraro Scanio, Diliberto, Giordano e perfino Bertinotti fatica a trovare una nuova dimensione mediatica. Allo stesso modo, orfani di Berlusconi, si sono ridotti al silenzio comici, tribuni, girotondini. La Dandini, Moretti, Flores D’Arcais e Pancho Pardi sembrano ferrivecchi. Neppure Grillo maestro di show e di “vaffa” è riuscito a spezzare questa cortina. L’accordo tacito tra Berlusconi e Veltroni di riconoscersi come unici competitor sul campo, in virtù di una legge elettorale con sbarramento che decreta la fine di molti partitini, pesa anche sull’Udc che si è trovato di colpo fuori dai giochi, pesa su Fini la cui funzione è limitata a quella di un vassallo, pesa ancor di più su tutti quei capipartito visibili all’interno delle rispettive coalizioni solo in ottica di dittatura delle minoranze ed
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B
La campagna elettorale non decolla. Poche le novità, troppi deja vu
Tutti d’accordo: è la più noiosa di sempre di Arcangelo Pezza ora pressoché inutili: si pensi a Boselli e a Dini, e ancor di più a Mastella la cui esperienza politica oggi sembrerebbe per sempre conclusa.
La campagna elettorale più noiosa del secolo, così viene definita in Rete da migliaia di blogger il cui peso elettorale comincia a farsi sentire. Inanzitutto perché Berlusconi e Veltroni non hanno interesse ad alzare i toni. Berlusconi sa di aver vinto se non fa gaffes, e meno parla meno ne fa. Veltroni sa di aver perso, ma ha comunque vinto all’interno della sua area. Entrambi sono consci che la battaglia comincerà dopo, prima però - sono convinti è necessario disfarsi di alleati scomodi, zavorre e traditori. Secondo, la noia pervade i programmi fotocopia. Siamo al punto critico del “non plus ultra”. I problemi dell’Italia stanno sul tappeto e le ricette restano quelle. Non c’è destra e sinistra che tenga. Rilancio dell’economia, contenimento della spesa pubblica, taglio delle tasse, aumento dei salari.
Tutti temi di stretta economia che impediscono qualsiasi “immaginazione al potere”. Non spetta infatti agli economisti sognare mondi futuri, bensì trovare soluzioni immediate poiché «sul lungo periodo – chiosava Keynes – siamo tutti morti». Terzo, lo sfinimento del bipolarsimo con cui si è governata l’Italia negli ultimi 15 anni. Un bipolarsimo coatto che ha costretto famiglie politiche a dividersi e fronteggiarsi su opposte barricate con la perfidia e l’odio riscontrabile solo nelle guerre civili in cui i fratelli uccidono i fratelli. L’improvviso appeacement lascia smarriti i contendenti delle due fazioni. E’ possibile dunque ritrovarsi, lo si è capito, ritornare a discutere sui propri valori, riunirsi (come per esempio è successo ai partiti cattolici). Una positiva riaggregazione identitaria che richiederà tempo e, nel immediato, impedisce di essere già pronti per l’imminente 14 aprile. Quarto, lo sfinimento mediatico di una classe politica ormai
stravecchia e in perenne campagna elettorale dal 1994. Non c’è stato anno tra ribaltoni, sconfitte e rivincite, in cui un’elezione (politica, amministrativa, europea) non sia stata definita la madre di tutte le battaglie, con la sensazione indotta ogni volta di essere nei pressi di Waterloo, non accorgendosi invece di combattere una logorante guerra di trincea, da anni uno a pochi metri dall’altro. Oggi, nonostante un insensato regolamento televisivo imponga di dare eguali spazi a tutti i partiti, perfino a quelli mai sentiti come i Tremmisti , è chiaro che i big non hanno più nulla da dire. Cosa può essere cambiato rispetto agli scontri di due anni fa, di sette anni fa, di 12 anni fa? Nei talk show politici ogni sera viene allestito uno spettacolino che ha lo stesso numero di repliche di “Cats”, ma non uguale repertorio musicale. E dietro il cerone e la tintura, compaiono profonde le rughe di generali e collonnelli invecchiati difendendo le stesse posizioni. E ti attendi da un momento all’altro, quasi “In
morte a Venezia”, che il belletto usato per mascherare il pallore della malattia cominci a sciogliersi sulla faccia di un Aschembac ormai in agonia. Quinto, l’impossibilità di un vero ricambio generazionale alimenta i vecchi schemi e la noia. Oggi i nuovi trentenni e quarantenni candidati sono stati cooptati e spesso hanno ancora meno da dire dei loro nonni. Qualcuno è stato scelto per amicizia, subalternità, se donna, per fotogenia e subalternità (ma di altro tipo). Nessuno ha affilato la proprie armi di leader neppure nei luoghi più remoti della politica o della parapolitica. Sono miracolati senza una propria storia, senza un precedente impegno, in defininiva senza idee. Non rappresentano nulla, nessuna istanza, nessuna categoria, nessun sogno, se non un generico essere nuovi e giovani. E non c’è cosa peggiore del “giovanilismo” come modo d’essere e di pensare, sia quando colpisce i giovani sia quando rende ridicoli i vecchi. Sesto e ultimo, una pessima legge elettorale. I candidati (o meglio i nominati) sicuri già si beano del titolo “onorevole”; quelli troppo in alto nelle graduatorie smoccolano sotto voce contro i rispettivi partiti; restano quelli di mezzo, quelli che non sono sicuri ma che possono sperare in defezioni e negli abbandoni dei capilista, e sono questi pochi gli unici a fare campagna elettorale. Nelle province, nelle sezioni locali che nella maggior parte non hanno potuto esprimere propri uomini, o sono state bypassate dalle scelte dei coordinatori, o hanno visto preferire starlette, attori, cantanti, sportivi, regna il silenzio. Non ci sono cartelli appesi, non ci sono incontri in programma, non c’è nessun entusiasmo. Nessuno si muove. Che se la sbrighino gli altri.
Che invidia gli Usa. Guardiamo le primarie americane e soffriamo: lì sì che si fa la politica e ci si diverte. Colpi di scena continui, sgambetti, trovate, lacrime e gioia, sterco e miele. Soffriamo davvero. Certo non abbastanza per farci rimpiangere le pinzallacchere di Pecoraro Scanio, i dotti ragionamenti di Boselli, i coup de theatre di Mastella, l’arroganza di Caruso, la erre moscia di Bertinotti, perfino la magnagrecità di Mastella e Pomicino, però... Se non fosse per Giuliano Ferrara e Daniela Santanchè saremmo già addormentati. La decisa lader della Destra è una ventata di futurismo nelle grigie e stantie camere del potere. Ferrara, seppur oggi in sordina, è l’unico che non si è piegato all’agenda dettata da Veltrusconi. Il resto, direbbe la canzone, è noia.
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L’ITALIA AL VOTO
Lo comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Il Vangelo secondo Boselli
Verga, Omero e Pirandello: Lombardo contro tutti di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza La premiata ditta Veltrusconi soffre l’assedio dai tre lati e le sorti del tanto sponsorizzato bipartitismo italiano paiono sempre più incerte. Così raccontano analisti e sondaggi, che all’outsider che volesse tentare l’impresa consigliano di puntare soprattutto su appeal e presenza mediatica, con meno attenzione ai programmi. L’elettore sul mercato, sembrano dire, non si fida degli altri due e cerca uno in grado di tenere sott’occhio quello che combineranno, antipolitica a valanga. Almeno farsi vedere, esistere come alternativa. Se questa è la competizione, però, i dubbi sono sciolti e il terzo polo non può che essere quello dei Socialisti di Boselli. Che non volendo dire niente, o non avendo niente da dire, scelgono ancora l’effetto sensazione, porgendo il fianco al linciaggio altrui pur di attirare attenzione e sfruttare i rimbalzi della polemica. Dopo il siparietto dell’offesissimo Enrico a Porta a porta, infatti, il partito del “Coraggio Laico” vara oggi il nuovo spot elettorale, testimonial Gesù di Nazareth. A cui è stato dato giusto il tempo di risorgere e guardarci trascorrere la nostra Pasquetta in coda, prima di andare in scena. Attraverso un patchwork di inquadrature dei più noti cristi cinematografici con voce fuori campo: «E’ lui il primo socialista della storia. E’ lui il simbolo di speranza
dell’umanità», «Chiudi il cerchio, ora vota socialista». Annunciato prima di Pasqua, il filmato ha già raccolto le critiche che meritava, offrendo ai socialisti e a noi di godere del loro sacrosanto diritto di replica. C’è da capire se sia peggio Boselli che si prende sul serio, difendendo la tesi del messaggio, o Grillini che continua a fare il simpaticone dicendo che i cattolici dovrebbero essere contenti che anche altre voci si rifacciano «a un personaggio dei Vangeli».
Verga «dà l’immagine dei siciliani sconfitti e rassegnati», Pirandello «li racconta complicati, imprevedibili, intricati», De Roberto «dipinge l’idea dell’ascaro, che va a Roma con il cappello in mano e qui si gode i privilegi del vicerè vessando la sua gente», Tomasi di Lampedusa sbaglia a sostenere che «i siciliani siano condannati a non cambiare mai». Più che un politico, Raffaele Lombardo è un critico letterario. Il suo “canone autonomista”, confidato a Cazzullo del Corriere, esclude dalle patrie lettere i tre quarti della storia letteraria siculo-italiana postrisorgimentale. Fatta eccezione per Bufalino («lo apprezzo», laconico) salva solo i viventi, Consolo e Camilleri, e Silvana Grasso, guarda caso candidata del Mpa. Oltre ad essere un critico letterario, Lombardo è anche un revisionista storico: «E’ tempo che l’intera nazione prenda atto del male che ci ha fatto Garibaldi: l’unità ci ha portato sottosviluppo, immigrazione, e un genocidio chiamato brigantaggio». Lombardo è inarrestabile: non solo è un critico letterario, non solo è un revisionista, è anche un fondatore di civiltà: «Il primo invasore è stato Ulisse e Omero fu il primo a umiliare i siciliani». Si riapra, dunque, la “questione omerica” per meglio fare la Sicilia autonoma. Con il Ponte.
Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda
Il sondaggio dei sondaggi la media di oggi Lorien Digis Swg Crespi Demop. Agron Ipsos 20 marzo
20 marzo
20 marzo
19 marzo
18 marzo
18 marzo
17 marzo
Pdl+Lega
Centro
Pd+Idv
Sin-Arc
Destra
Socialisti
44,3 (-0,2)
6,1
(+0,2)
36,9
7,0
2,3
1,1
44,4 45,6 43,0 43,9 44,0 44,7 44,6
7,1 6,0 5,5 6,0 6,0 6,4 5,9
35,2 38,4 38,0 36,4 37,5 35,3 38,1
7,2 6,3 7,5 6,5 7,5 7,6 6,7
2,0 1,7 2,5 4,0 2,5 2,1 1,9
1,3 1,0 2,0 1,0 1,6 0,9
(-0,3)
(=)
(=)
(=)
La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.
di Andrea Mancia Pubblicati (poco prima del weekend di Pasqua) i dati del nuovo sondaggio Lorien Consulting sulle intenzioni di voto del 18-20 marzo. Rispetto all’ultimo sondaggio Lorien (13 marzo), la coalizione guidata da Berlusconi (44,4%) guadagna lo 0,4%, mentre quella guidata da Veltroni (35,9%) perde lo 0,7%. Il vantaggio del centrodestra, dunque, sale dall’8,1% al 9,2%. Per quanto riguarda partiti e coalizioni minori, la Sinistra Arcobaleno (7,2%) e l’Udc (7,1%) perdono rispettivamente lo 0,1% e lo 0,2%. In leggera crescita la Destra (+0,1%) al 2%, mentre non è disponibile il dato dei Socialisti. Nella nostra tabella, il nuovo sondaggio Lorien prende il posto di quello Demoskopea del 17 marzo, che registrava an-
ch’esso un vantaggio di PdL+Lega nei confronti di Pd+Iv intorno al 9%, ma con una leggera sovrarappresentazione delle due coalizioni maggiori. Per questo motivo, il distacco resta abbastanza stabile (+0,1% a favore del PdL), ma le medie calano per entrambi. Resta stabile, invece, la media della Sinistra Arcobaleno (7%), mentre cresce leggermente quella dell’Unione di Centro (+0,2%) che torna ad affacciarsi oltre il 6%. Inchiodate, rispettivamente al 2,3% e all’1,1%, la media della Destra e dei Socialisti. Dopo la pausa di Pasqua, ci attende ora l’ultima settimana di sondaggi prima del blackout che inizierà il 31 marzo. Dopo quella data, l’unica cosa che sarà possibile contare saranno i voti degli elettori.
L’ITALIA AL VOTO
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Le verità scomode/1 È necessario aumentare la produzione e detassare i salari
Lavorare di più per guadagnare meglio di Gianfranco Polillo
I
n Francia, negli anni Novanta, la richiesta delle 35 ore spezzò le gambe alla sinistra. Lo slogan “lavorare meno lavorare tutti” fece crollare la credibilità di Jospin, che perse lo scettro a favore dei moderati. Fu un tentativo improvvido, portato avanti nel momento in cui il Paese si interrogava sul tema della “France qui tombe”. E lo spettro di un possibile declino agitava le coscienze di una classe dirigente allevata nel culto della grandeur e del ruolo della Nazione. Temi che ancora oggi continuano ad essere al centro del dibattito politico. Quando Sarkozy dice che bisogna lavorare di più per guadagnare di più ha ancora nelle orecchie il suono sgradevole di quelle grida e le conseguenze economiche e sociali che ne derivarono. Quella parola d’ordine ebbe in Italia un debolissimo appeal. Divenne cavallo di battaglia delle frange più estreme del sindacato. Convinse e coinvolse settori limitatissimi della classe operaia. Fu agitata da qualche dirigente della Fiom e da Rifondazione comunista. Poi scese il silenzio, in una salutare operazione di rimozione. Che tuttavia ebbe l’effetto di una goccia sulla pietra. Scavò un lungo tunnel sotterraneo che ora traspare nelle statistiche ufficiali sull’orario effettivo di lavoro. Secondo l’Istat la media delle ore settimanali lavorate dagli impiegati, nel corso del 2006, è stata, appunto, di 35 ore nell’Italia centrale. Il dato è naturalmente influenzato dalla forte presenza dei dipendenti pubblici. Ma gli operai lavorano appena 1 ora in più. Ed è di 36 ore settimanali la prestazione effettiva di tutti i lavoratori dipendenti della zona.
Le medie nazionali, grazie al maggior apporto del Nord e del Sud, indicano valori maggiori: 39 ore in media per operai e quadri, 38 per gli impiegati, 44 per i dirigenti. Ciò che colpisce è la differenza con i lavoratori autonomi (imprenditori, liberi professionisti e popolo delle partite Iva). In media lavorano 44 ore la settimana anche se le differenze interne sono notevoli. Facendo un piccolo confronto, i lavoratori autonomi dedicano in genere a questa faticosa attività il 13 per cento in più del loro tempo di vita. I dati forniti dalla Banca d’Italia, nella sua recente
Secondo l’Istat nell’Italia centrale gli operai lavorano 36 ore settimanali, contro le 39 di media di quelli del Nord e del Sud, gli autonomi arrivano a 44 ore. Nella foto a sinistra il presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy
indagine sui bilanci delle famiglie italiane, per lo stesso anno, penalizzano ulteriormente i lavoratori indipendenti. Che faticano per 43,9 ore la settimana, mentre i dipendenti sono a quota 37,9: un’ora in meno alle statistiche dell’Istat. Da questo punto di vista, la società italiana è attraversata da una grande frattura: la maggioranza del popolo lavoratore (più del 70 per cento) ha un ritmo blando. La restante consistente minoranza tira, invece, la carretta. Naturalmente guadagna di più. Negli ultimi sei anni il reddito familiare degli
detassazione. È il senso dell’ordine del giorno approvato proprio in questi giorni nell’aula della Camera dei deputati. Piccolo problema: dove prendere i soldi. Risposta scontata: utilizziamo il “tesoretto”. Peccato solo che non esista più: svanito come un miraggio nella sciagurata politica del “tassa e spendi” del governo Prodi. Il problema – quello di una crescita dei salari – comunque esiste. Solo che deve essere affrontato in modo diverso, rispetto alla demagogia con cui parte della sinistra condisce le sue pietanze preferite. Il reddito dei lavoratori indipendenti è superiore per due distinte ragioni. Il loro salario
Buste paga più pesanti e più produttività significherebbe maggiori consumi senza ulteriori spinte inflazionistiche. Per riuscirci è necessario che il sindacato abbandoni il ruolo di ”signor no” autonomi è cresciuto del 13,86 per cento, mentre quello dei dipendenti è rimasto “sostanzialmente stabile”, come scrive il rapporto. Valutazione che ha innescato immediatamente una dura polemica. I salari devono aumentare: è insorta la sinistra massimalista. Se non possono crescere a seguito della contrattazione aziendale, è lo Stato che deve provvedere con un’apposita
orario è leggermente più alto. La differenza, sempre secondo Banca d’Italia, è del 16 percento. È giusto che sia così. Esso incorpora una sorta di assicurazione individuale. Se l’autonomo non lavora, non guadagna. Non ha tfr. Le pensioni sono molto più basse. Tutto ciò è compensato da un maggior salario orario. Si pensi solo all’assenteismo. Tra i privati dovreb-
be essere intorno al 5 per cento. Per i pubblici arriva addirittura a 31 giorni lavorativi, in media: almeno secondo la denuncia di Confindustria. Per gli autonomi il fenomeno non esiste per definizione.
Ogni ora di malattia costa loro, in media, 9,66 euro di mancato guadagno.La seconda componente del loro relativo benessere deriva, soprattutto, dal maggior tempo di lavoro. Lavorare di più per guadagnare di più: l’esortazione di Sarkozy non vale solo per la Francia. Che succederebbe se seguissimo quell’esempio e i dipendenti lavorassero quanto gli indipendenti? I salari potrebbero aumentare del 25 per cento, a condizione che lo Stato rinunciasse a tassare gli straordinari. Ci sarebbero conseguenze negative per la casse dello Stato? È vero il contrario. Maggiori salari significherebbero maggiori consumi, senza ulteriori spinte inflazionistiche, visto che la produzione aumenterebbe. Quindi maggiore crescita del Pil e di conseguenza entrate fiscali aggiuntive capaci di compensare il minor gettito iniziale. È l’uovo di Colombo. Presuppone solo un sindacato che abbandoni la parte del “signor no”. La cosa più difficile da realizzare.
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scenari
L’ambasciatore Stefano Stefanini fa il punto delle emergenze internazionali in agenda
Allargare la Nato a est ecco il primo obiettivo del summit di Bucarest colloquio con Stefano Stefanini di Maria Maggiore
BRUXELLES. Alla Nato da giugno, dopo una missione di cinque anni a Washington, l’ambasciatore Stefano Stefanini si trova già catapultato tra l’operazione ad alto rischio in Afghanistan, la missione in Kosovo e il summit della Nato a Bucarest, il prossimo 2 aprile, con un’agenda capitale: allargamento della Nato a tre paesi dei Balcani, dialogo con la Russia in presenza di Putin, e riorganizzazione della missione Isaf in Afghanistan dove si gioca il futuro della Nato. Ambasciatore, in queste ore mettete a punto il programma di Bucarest. Sarà un’importante occasione per rivedere lo scopo e gli strumenti della missione in Afghanistan, il cuore delle operazioni Nato. Cosa chiede e cosa offre l’Italia a Bucarest? La Nato chiede un ulteriore sforzo a tutti gli Alleati, non solo all’Italia, soprattutto nel campo dell’addestramento dell’esercito afgano e del trasporto in teatro (essenzialmente elicotteri); si deve dare una risposta ai canadesi che chiedono un battaglione in più nel sud del Paese. Come si risolve questo punto? Si deciderá a Bucarest. La Francia sembra disposta a contribuire con più truppe, si vedrà dove inserirle e in che misura risolvano il problema del sud. E L’Italia? L’Italia arriva a Bucarest quasi alla fine della campagna elettorale. Questo limita la nostra capacità di offrire contributi addizionali al nostro già rilevante impegno. E, in ogni caso, dovranno essere confermati dal futuro governo, sempre all’interno degli impegni già stabiliti da questo Parlamento con il Decreto legge di finanziamento delle missioni militari all’estero.
Sei anni dopo la caduta dei talebani si ha l’impressione che non ci siano grandi progressi, almeno non sono visibili dall’opinione pubblica, gli attentati sono aumentati, gli americani chiedono uno sforzo maggiore, ma qual è l’obiettivo di questa missione: prendere Bin Laden, combattere il terrorismo, ricostruire il Paese, sradicare le colture di oppio, perchè siamo in Afghanistan? L’obiettivo è sostenere il governo afgano nella costruzione di uno Stato garantendo stabilità e sicurezza. Per arrivarci occorrono, oltre allo strumento militare, una seria ricostruzione e un lavoro capillare con la popolazione civile, perchè riconosca l’autoritá del governo centrale, si allontani dai talebani e consolidi la propria fiducia negli stranieri - civili e militari - impegnati nella ricostruzione e sviluppo che operano sul loro territorio. Non condivido il pessimismo sulla missione. Nel
tuazione di «non Stato», dopo 25 anni di guerra e secoli di fortissime autonomie locali che, per geografia e difficoltà di comunicazioni, oltre che per le differenti etnie, scendevano fino al livello dei più piccoli villaggi. L’Afghanistan non ha una tradizione centralizzata. Tutt’altro. Adesso si deve sviluppare l’interazione con il governo centrale, democraticamente eletto, che, dal canto suo, deve offrire sviluppo e servizi e combattere la corruzione. Ma ci vogliono più soldati o più soldi per riuscire? Entrambi. Per il momento ci vogliono militari specializzati per azioni mirate volte alla pacificazione del territorio e all’isolamento dei talebani. Ma subito dopo occorre l’intervento rapido – e con mezzi finanziari adeguati - di altri attori: Ong, e organizzazioni internazionali devono poter entrare in campo, non appena i soldati, Nato e afgani, abbiano aperto la strada. È quel famoso «missing middle», la mancanza di un momento intermedio,
«La decisione su un eventuale ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza Atlantica spetta solo ai membri della Nato. Putin può dissentire ma non può decidere per noi. Il fatto però che la Russia partecipi al summit è un buon segnale» 2007 i talebani hanno subito sconfitte importanti sul piano militare; in risposta, hanno aumentato gli attacchi terroristici, accrescendo la percezione d’insicurezza nel Paese. È uno sviluppo preoccupante, ma denota anche la debolezza dei talebani. Non stanno «vincendo». Dunque restiamo ancora per qualche decennio? Sì per la ricostruzione e lo sviluppo, no per l’impegno militare. Certo, la missione di peacekeeping e di stabilizzazione, richiederà tempi lunghi. Istituzioni politiche e strutture amministrative si sono costituite ex novo. Si partiva da una si-
di cui parlano i canadesi, che ha dato l’impressione finora che ogni attore agisca in ordine sparso? Sì, dopo le azioni militari gli aiuti devono poter intervenire subito. Se si lascia un vuoto, vi si infiltrano i talebani. La nomina, appena avvenuta, del nuovo inviato speciale delle Nazioni Unite dovrebbe rilanciare l’impegno delle varie organizzazioni internazionali. Il norvegese Kai Eide ha grosse credenziali diplomatiche: non ha una diretta esperienza di Afghanistan, ma è stato ambasciatore alla Nato e, soprattutto, è stato il rappresentante del Segretario
Generale delle Nazioni Unite nel preparare il terreno al negoziato di Ahtisaari in Kosovo. È l’uomo giusto al posto giusto. Si discute molto dei famosi «caveat», le limitazioni alle operazioni militari, di cui usufruisce l’Italia insieme ad altri paesi. Un documento del «Comitato di difesa 2000» appena presentato a Roma, sostiene che alla lunga queste limitazioni comportano «uno scadimento del valore internazionale riconosciuto ai contingenti italiani» e quindi un declassamento dell’Italia. Condivide questa tesi ? Assolutamente no. Quanto al ruolo dell’Italia, direi proprio il contrario. I caveat sono limitazioni all’impiego posti per esigenze di politica interna, da molti dei paesi che partecipano
all’Isaf, non solo dall’Italia. Per quanto ci riguarda, il riconoscimento dell’impegno dell’Italia in missioni strategiche e delicate, è fuori discussione. In ambito Nato, abbiamo avuto il Comando dell’operazione Isaf nel 2005, manteniamo stabilmente la responsabilitá per la Regione ovest dell’Afghanistan, abbiamo il comando dell’operazione Active Endeavour (di contrasto al terrorismo nel Mediterraneo). Inoltre abbiamo una responsabilitá primaria per la missione Onu in Libano e sempre in Medio Oriente abbiamo il comando della missione Eubam (controllo del valico di Rafah), manteniamo stabilmente il Vice Comando della missione Tiph a Hebron e siamo impegnati con nostre Navi nella Mfo. Cambiamo continente e avviciniamoci a casa nostra. In Kosovo non ci so-
scenari
no stati imprevisti maggiori sopo la dichiarazione di indipendenza del 6 febbraio. Che futuro prevede per la Kfor? Restare, trasformarsi in forza civile? E per quanto tempo ancora? Siamo solo all’inizio, sarà anche questa un’operazione lunga. Guardi la Bosnia dove siamo arrivati nel ’95 con una forza Nato di 60 mila uomini e oggi, dopo che l’Ue ha ripreso il testimone della missione restano meno di mille uomini, ma sono passati 13 anni. La presenza della Nato non è destinata ad diventare un’operazione di polizia, che spetta alle Nazioni Unite e all’Unione europea. La Nato deve creare le condizioni di sicurezza esterna, il necessario ‘safe and secure environment’ statuito dal mandato che la Kfor ha ricevuto dalle Nazioni Unite con la riso-
luzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Come vede la soluzione della crisi con la Serbia. La possibilità di dividere il Kosovo affidando il controllo dei kosovaro-albanesi agli europei e dei serbo-kosovari alle Nazioni Unite, secondo lei è praticabile? I serbi sanno quello che non vogliono, ma non ancora quello che vogliono. Della partizione si era già parlato nel corso e specie verso la fine dei negoziati : sia i kosovaro-albanesi che i serbi l’avevano rifiutata. Che ne pensa dell’ingresso della Georgia e dell’Ucraina nella Nato ? Siamo d’accordo, quando le condizioni siano mature e quando i due paesi rispondano agli standards richiesti dalla Nato per l’adesione. L’allargamento della Nato può au-
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Nella foto piccola l’ambasciatore italiano presso la Nato, Stefano Stefanini
mentare la stabilità del continente. Ma la Russia è fermamente contraria, Putin ha detto che punterebbe i suoi missili contro questi Paesi. E Rogozin, ambasciatore russo presso la Nato, ha aggiunto che un nuovo passo della Georgia verso la Nato significherebbe la separazione dell’Abkazia e dell’Ossezia del sud. Dobbiamo preoccuparci? La decisione su un eventuale ingresso dell’Ucraina e della Georgia nell’Alleanza Atlantica spetta solo ai membri della Nato; richiede il consenso di tutti, ma resta una decisione presa da tutti i membri della
Nato, non da altri. Putin può dissentire, ma non può decidere per noi. La guerra fredda è finita, non è più vero che gli amici stanno con la Russia, e chi sta con la Nato sono i nemici. Questa è la forma mentis che la Russia deve abbandonare. Non corrisponde alla realtà internazionale, nè ai rapporti Nato-Russia. Abbiamo delle divergenze, ma condividiamo degli obiettivi più ampi come la lotta al terrorismo, e più specifici, come il successo della missione in Afghanistan e la lotta alla proliferazione nucleare dell’Iran. Ma Putin non difendeva l’Iran ? La Russia sembra condividere i timori per il programma portato avanti da Teheran ma sostiene che il pericolo nucleare non sia così imminente: ciò nonostante, e non a caso, in Consiglio di Sicurezza Mosca ha appena votato a favore di un terzo inasprimento delle sanzioni contro l’Iran. Sull’Iran la Russia ha le nostre stesse preoccupazioni strategiche. Il nuovo rappresentante Rogozin, nazionalista e senza peli sulla lingua, dice sarcastico che abbiamo rotto la bussola perche è strano che la Nato indichi la minaccia in provenienza dal sud e poi gli americani vogliono puntare i missili all’est. Rogozin usa questi toni solo all’esterno, in Consiglio NatoRussia è stato fermo ma senza eccessi retorici. È un rappresentante ben in sintonia con i vertici russi e questo mi sembra un fatto positivo. Ha contribuito a portare Putin al vertice di Bucarest. È la prima volta che un Presidente russo parteciperà a un vertice Nato. Che ne pensa dei programma antimissile Usa e della controproposta russa di parteciparvi ? Siamo d’accordo perchè lo scudo aumenta la nostra protezione. Il problema per la Nato è che non copre tutti i Paesi membri dell’Alleanza. Si discute se e come integrare il progetto americano con uno scudo complementare che copra la parte sud-est, la Turchia, la Grecia, la Bulgaria e la Romania, sulla base del criterio fondante per la Nato dell’indivisibilitá della sicurezza dei Paesi alleati. Non ci può essere protezione per alcuni (compresa l’Italia) e non per altri. Russi e americani intanto hanno aperto un dialogo su una cooperazione per questo progetto. L’interesse è reciproco perché la minaccia riguarda tutti e due. È un negoziato difficile ma non senza prospettive. Ma quando Rogozin dice che i missili dovrebbero
essere puntati a sud ha ragione? Secondo i nostri tecnici no. L’est dell’Europa è la posizione ideale per gli intercettori che devono essere piazzati in modo da distruggere missili provenienti dal quadrante sud-orientale in traiettoria di volo. Se si trovassero troppo vicini al luogo di lancio, l’intercettazione sarebbe molto più difficile, sia per i tempi più ravvicinati fra allarme e reazione, sia per la fortissima accelerazione iniziale. A Bucarest il 2-4 aprile si terrà un vertice per molti versi storico. Quali sono gli obiettivi italiani? Sono essenzialmente quattro. Primo, associarsi in pieno alla conferma dell’impegno in Afghanistan non solo da parte di tutti i paesi Nato, ma anche dell’intera comunità internazionale. Alla riunione sull’Afghanistan parteciperanno una sessantina di paesi. La presenza del Segretario Generale dell’Onu Ban Ki Moon è estremamente significativa: è un segnale di rinnovato impegno dell’Onu in Afghanistan. È prevista anche la presenza del Presidente della Commissione Ue, Barroso. L’Afghanistan non è una responsabilità della sola Nato, ma di tutta la famiglia delle organizzazioni multilaterali, Onu e Ue in prima fila. E poi ? Riaffermare il ruolo della Nato in Kosovo e più generale nei Balcani quale elemento essenziale alla stabilitá e alla sicurezza regionale. Collegato a questo secondo obiettivo, il terzo, l’allargamento, invitando tre nuovi Stati balcanici – Croazia, Albania e FYROM (ex Repubblica Yugoslava di Macedonia) - ad entrare nella Nato. Questo è un tassello importante della strategia d’integrazione euro-atlantica e di sicurezza regionale. Ma la Grecia non ne vuol sentire parlare di riconoscere un Paese che porta il nome di Macedonia. L’Italia è a favore del suo ingresso perchè ciò contribuisce, ancora una volta, a aumentare la sicurezza della regione e ritiene che tutti e tre i paesi abbiano soddisfatto i criteri. Ci auguriamo che venga trovato un accordo sul nome e in questo senso incoraggiamo fortemente Atene e Skopje. E con la Russia quali sono gli obiettivi ? Il rilancio dei rapporti fra la Nato e la Russia è il nostro quarto obiettivo. Fino a qualche settimana fa la presenza del Presidente Putin era tutt’altro che sicura. La decisione di venire a Bucarest può innescare una dinamica positiva.
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mondo
Acciaio, alluminio, cemento, vetro e carta. Le industrie alle barricate
Prezzi, quote e borse Parte il bazar dell’energia di Maria Maggiore
BRUXELLES. Il problema non è risolto. Ma almeno il Consiglio europeo di marzo ha preso atto del rischio di delocalizzazioni per le industrie ad alto consumo d’energia e ha scritto, nero su bianco, nelle sue conclusioni, che «se fallisce un negoziato internazionale sulla riduzione di emissioni di CO2, saranno prese delle misure appropriate» a livello europeo per proteggere la nostra industria. Così Angela Merkel tornando a casa ha potuto vendere se non proprio un successo, una certa apertura dal fronte europeo. È la battaglia delle industrie energivore, acciaio, alluminio, cemento, vetro, carta, grandi consumatrici di energia rispetto ai normali valori industriali, pronte alle barricate nei prossimi mesi pur di non farsi schiacciare dalla lotta al cambiamento climatico.
Facciamo un passo indietro. Il “pacchetto energia” approvato dalla Ue con grande enfasi nel marzo 2007, si dava obiettivi ambizioni, per lottare contro l’effetto serra: riduzione del 20% di emissioni di CO2 entro il 2020, portato al 30% se ci sarà un accordo a livello mon-
diale; aumento al 20% delle rinnovabili e utilizzo del 10% di biocarburanti nel totale di consumo di energia. Per questi obiettivi, la Commissione ha elaborato un complesso piano di cap and trade, “tetto e commercio”. Una parte d’inquinamento è consentita l’altra si acquista e si vende al mercato delle emissioni. Le danze sono state aperte con la nascita di varie borse europee di anidride carbonica: le
settore, gestiti direttamente dalla Commissione europea e le imprese dovranno acquistare in modo crescente le quote di emissione di CO2, fino al 100%. Si comincia da 80 e 20 (l’80% è offerto gratuitamente, il resto si compra nel mercato) e si aumenta gradualmente fino a doversela cavare da soli. E qui entrano in gioco le energivore. Forti del loro peso specifico – 180 miliardi di fatturato l’anno, 2.367 imprese concentrate nei
tre, per sopportare da un punto di vista industriale il peso delle quote di emissione, le industrie energivore spenderebbero circa 25 miliardi di euro l’anno sugli 80 miliardi previsti all’anno per ridurre del 20% le emissioni di gas carbonici. Una catastrofe per questi settori che rischiano – dicono loro - di bruciare tutti i dividendi per gli investimenti necessari contro l’inquinamento. E così, già da qualche mese, è partita all’at-
Ora le imprese che superano i limiti fissati da uno Stato, possono acquistare certificati “verdi” da imprese più “pulite”, anche da un altro Paese Ue. Dal 2013 il sistema diventerà più rigido imprese che superano i limiti fissati da uno Stato acquistano dei certificati “verdi”da imprese più “pulite” (anche in un altro Paese Ue), che nel frattempo ha ridotto le proprie emissioni. Ma, dal primo gennaio 2013, quando entrerà in vigore il nuovo Patto di Kyoto (si chiamerà forse Copenaghen perchè nella capitale danese si terrà il decisivo vertice di fine 2009), il sistema diventerà più rigido: si fisseranno degli obiettivi per
paesi big – Germania, Francia e Italia – un milione 147 mila lavoratori, le industrie ad alto consumo d’energia hanno detto “stop” al piano. «Per rispettare gli impegni sul clima aumenteranno i prezzi dell’elettricità – spiega Daniel Cloquet, direttore degli Affari industriali di BusinessEurope, la Confindustria europea – i costi degli investimenti per le rinnovabili, verranno in parte scaricati sul consumatore». Inol-
tacco la lobby delle energivore, rappresentata in Italia dalla neo-eletta presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, produttrice di acciaio con le imprese di famiglia.
Dal chieder aiuto alla Commissione europea si è passati al ricatto : «se non ci offrite gratuitamente le quote di emissioni (diritto d’inquinare), delocalizziamo le nostre industrie dove non rispettano gli obiettivi
di Kyoto». È questo il carbon leakage, la fuga del carbonio, le emissioni verrebbero spostate dall’Europa verso Paesi in via di sviluppo – Cina, India, Brasile – dove le normative ambientali sono più blande o inesistenti. Dunque il problema esiste e il commissario all’Ambiente Dimas ne è cosciente. Ma trovare una soluzione, è difficile. L’esecutivo europeo, con i Paesi scandinavi e il Regno Unito (ormai convertito ai servizi senza industria pesante), non intendono muovere un dito fino al dicembre 2009, quando a Copenaghen si cercherà un accordo globale sul clima. «Non avrebbe senso offrire delle deroghe alla nostra industria prima del 2009» – spiega un consulente di Dimas. «Primo perchè se otteniamo un accordo anche i paesi terzi- Cina e India in testa – dovranno uniformarsi al sistema delle quote CO2. Inoltre l’Europa vuole mantenere un ruolo di leadership sul clima, anche in materia di investimenti e nuove tecnologie. Perderebbe credibilità se si presentasse a un tavolo negoziale con molte eccezioni in casa sua». Così alla Commissione la risposta è «niente fino al 2009».
Poi, se dovesse fallire il negoziato, si studierebbero delle misure per proteggere la nostra industria dalla concorrenza mondiale. La più accreditata al momento, ha il sostegno delle associazioni ambientaliste e dei Verdi. Una tassa da imporre ai paesi terzi che vogliono vendere in Europa. Una forma di protezionismo, per scoraggiare anche le delocalizzazioni delle nostre imprese. Se Arcelor-Mittal – gigante dell’acciaio indiano-franco-belga – decide, per esempio, di produrre l’acciaio in India, dovrebbe poi comprare dei certificati di emissione di CO2 per vendere in Europa. Naturalmente le industrie in questione non sono d’accordo, preferendo aiuti diretti o sconti sui certificati. Così rimane all’orizzonte la minaccia del carbon leakage, di cui ormai tutti parlano a Bruxelles, da quando Merkel è venuta a parlarne di persona. Ma i Verdi al Parlamento europeo avvisano: è un falso ricatto. «Queste industrie non hanno interesse a delocalizzare», dice Claude Thurmes deputato lussemburghese, grande esperto di energia. «Chi vende cemento preferisce produrlo vicino dove si vende, altrimenti diventa troppo costoso trasportarlo. Inoltre queste industrie sono le prime a voler sviluppare tecnologie di alta qualità, per ridurre il consumo di energia, sempre più caro, oltre che inquinanante. Quindi, anche in India, userebbero gli stessi impianti a bassa emissione di gas carbonici».
mondo
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Parità dei sessi e legge, un’accoppiata che non dà frutti
La quota rosa spagnola è al verde di Davide Mattei
MADRID. Le “quote rosa” spagnole sono in ribasso. Le prime votazioni svoltesi con la ley de igualdad, legge sull’uguaglianza, di Zapatero non hanno dato frutti. Non solo non sono state elette più donne, ma la loro presenza è addirittura diminuita. Un flop per i socialisti che puntavano a garantire per legge almeno un 40 per cento di donne.
Il nuovo Congreso de los diputados (la Camera bassa) avrà una donna in meno rispetto al 2004 e quota rosa ridotta al 36 per cento. Un dato comunque superiore al 17 per cento italiano o al 13 per cento francese. Il principio che regge la legge spagnola è semplice: le liste elettorali devono includere tra il 40 e il 60 per cento di candidati di uno stesso sesso. Una discriminazione positiva che avrebbe dovuto garantire un minimo di presenza femminile. Ma non è stato così. Il Psoe ha perso 3 deputate, il Pp ne ha guadagnate 2, e CiU, i demoscristiani catalani, 3. Tutti i piccoli partiti ne hanno perse. Il risultato è un Congreso orfano di una deputata. Il trucco è presto svelato. I partiti hanno garantito almeno il 40 per cento di donne come previsto dalla legge, ma allo stesso tempo hanno fatto ”scivolare” le candidature femminili verso il basso, concedendogli, di fatto, meno possibilità di essere elette. Il 70 per
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Un collaboratore di Benazir Bhutto, nuovo primo ministro del Pakistan Il nuovo capo del governo di Islamabad è Yousaf Raza Gillani, ex presidente del Parlamento. Gillani, a lungo stretto collaboratore della Bhutto, era stato designato dal Ppp, il Partito pachistano del popolo. Oggi dovrebbe prestare giuramento davanti al presidente Musharraf. Con la nomina di Gillani, il Pakistan compie un passo ulteriore verso la fine di un governo militare durato più di otto anni. Musharraf ha dichiarato che intende restare capo dello Stato per i cinque anni previsti dal suo mandato ma, dopo la sconfitta del suo partito alle recenti elezioni, il suo potere sarà drasticamente ridotto. La decisione del Ppp di sostenere Gillani è venuta dopo una settimana di tensioni interne al Ppp, e ha messo fine alla competizione con Makhdoom Amin Fahim, presidente del partito. In quanto candidato di compromesso, il nuovo primo ministro sarà soggetto alla leadership del Ppp. La durata dell’incarico potrebbe però essere breve. Se il marito di Benazir Butto,Asif Ali Zardari, dovesse essere eletto nelle elezioni della prossima estate, dovrebbe diventare il prossimo primo ministro. La prova più importante del nuovo governo di coalizione consiste nella ridefinizione della guerra contro i militanti islamisti nelle aree tribali ai confini con l’Afghanistan che dovrà diventare una ”guerra pachistana”. In questo caso i legami con Washington e le forze della Nato dovranno essere meno appariscenti.
Olimpiadi, cresce la tensione Soledad Murillo, con l’ex sottosegretaria alla Difesa, Soledad López cento dei capilista è formato da uomini e in molti casi le donne sono al terzo posto. Il risultato lo si è visto soprattutto nei partiti minori. In calo di voti e di deputati, hanno eletto solo i vertici delle liste. Tutti uomini per il Pnv, Erc e Iu. Zapatero non è dunque riuscito a far si che la Spagna raggiunga la rappresentanza femminile dei Paesi scandinavi che, assieme al Belgio, sono gli unici a precedere Madrid per il numero di donne presenti nelle istituzioni. I socialisti ora vogliono un’altra legge. Soledad Murillo, segretaria di Stato per le pari opportunità, ha invitato alla «riflessione» per introdurre «misure correttive» ad una legge che si è rivelata controproducente. La ley socialista ha aperto un dibattito anche fuori dal
CENTRALI IN COMUNE
Londra e Parigi unite dal nucleare L’appuntamento è per giovedì in una cornice piuttosto originale per un vertice politico: lo stadio dell’Arsenal, a Londra. Ma è proprio qui che il premier britannico, Gordon Brown, e il presidente francese, Nicolas Sarkozy, s’incontrerano per lanciare un programma comune nel campo della produzione di energia elettrica attraverso centrali nucleari di nuova generazione. È la prima volta che due Paesi europei mettono insieme le loro capacità in un settore così strategico. La Francia è già, in Europa, il maggior produttore di energia dall’atomo (con l’85 per cento del fabbisogno coperto dalle centrali nucleari), mentre la Gran Bretagna è, per ora, a quota 20 per cento e ha deciso di aumentare le sue potenzialità per rendersi sempre più indipendente dal petrolio e dal gas. Il programma comune che sarà formalizzato da Brown e
partito. In molti si chiedono se la discriminazione positiva garantisca davvero pari opportunità. Il giornale conservatore Abc ha ricordato che «la politica della quote è contraria al diritto di tutti ad accedere al posto che meritano» meglio misure più realiste e ugualitarie. La ley de igualdad ha fatto discutere anche per altri aspetti. Uno di questi impone che entro sette anni nei consigli di amministrazione delle aziende spagnole via sia almeno il 40 per cento di donne. Una legge duramente criticata dal Pp e dagli imprenditori. Finora non è cambiato nulla. Come in passato, nei Cda le donne sono rimaste al 5 per cento. La politica delle quote non ha dato grandi risultati. Spetterà di nuovo a Zapatero riprendere la battaglia.
L’inizio della marcia verso Pechino della torcia olimpica non segna la diminuzione delle pressioni sulla Cina. Il presidente francese Nicolas Sarkozy e il segretario di Stato Usa Condoleeza Rice, hanno invitato la dirigenza cinese a dialogare con i tibetani, mentre manifestanti hanno disturbato la cerimonia dell’accensione della fiamma olimpica. L’evento è avvenuto ieri in Grecia, Paese culla della manifestazione sportiva, nel corso di una cerimonia posta sotto stretta sorveglianza. Poco prima tre militanti di Reporters Sans Frontières, avevano tentato di ragggiungere la tribuna delle autorità durante il discorso del responsabile cinese del Comitato organizzatore. Lunedì un militante cinese dei diritti dell’uomo che aveva diffuso una lettera aperta con lo slogan «Vogliamo diritti umani e non giochi olimpici», nel suo Paese è stato condannato a cinque anni di prigione. In Europa aumentano i favorevoli al boicottaggio della cerimonia di apertura dei giochi.
Cina, un poliziotto ucciso nello Sichuan Un agente ucciso e diversi altri feriti a seguito di disordini in una regione popolata di tibetani nella provincia della Cina sudorientale dello Sichuan. Secondo le autorità, 381 persone che avrebbero preso parte agli scontri si sarebbero arrese.
vi si dirà di Enrico Singer
Sarkozy prevede la realizzazione di una centrale di nuovo tipo che potrà essere anche commercializzata “chiavi in mano”a clienti di altri Paesi. Londra e Parigi guardano, naturalmente, alla Germania dove il dibattito sul rilancio del nucleare civile è aperto. Un aspetto non secondario della nuova collaborazione è che Francia e Gran Bretagna sono le due uniche potenze europee che hanno anche un arsenale militare nucleare. Anche qui si sta muovendo qualcosa. Sarkozy ha appena assistito alla presentazione del Terrible, un sottomarino a propulsione atomica della classe Triomphant che, entro il 2010, avrà quattro unità operative tutte armate con missili balistici intercontinentali M51 a sei testate H. In campo militare, ufficialmente, non ci sono pia-
ni di cooperazione tra Parigi e Londra. Eppure la Francia ha un grande problema da risolvere: deve riciclare la sua vecchia force de frappe: quel complesso di razzi a lunga gittata interrati nei grandi silos del plateau d’Albion che sono ormai superati proprio dai sottomarini atomici. IN GRAN BRETAGNA
Una corsia speciale per auto ”piene” L’idea l’hanno copiata dagli Stati Uniti: dedicare una corsia in autostrada alle vetture che viaggiano con almeno tre persone a bordo. Per ridurre inquinamento e consumo di carburanti. E per evitare i maxi-ingorghi che si verifica-
no attorno alle grandi città nelle ore di punta all’apertura e alla chiusura degli uffici. L’autorità britannica che controlla il traffico sulle autostrade - la Highways Agency - ha accertato che l’85 per cento delle automobili in queste ore cruciali hanno a bordo una sola persona. Il rapporto del direttore della Highways Acency, Andrew Brown, è arrivato sul tavolo del ministro dei Trasporti, la signora Ruth Kelly, che ha preso la decisione di avviare la sperimentazione su una delle autostrade più trafficate: la M62 tra Liverpool e Manchester. La parte più delicata del progetto è quella per scovare - e punire - i trasgressori: in altre parole, per evitare che automobilisti ”single”viaggino nella corsia riservata a chi condivide l’auto con amici o colleghi di lavoro. Lo strumento per individuare i trasgressori saranno le telecamere e il deterrente sarà una multa da 30 sterline (50 euro). Un dettaglio: la maggior pate delle autostrade britanniche è a quattro corsie.
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speciale
economia
NordSud
EFFETTO EXPORT, IL SUD PROVA AD ACCORCIARE LE DISTANZE di Nino Novacco recenti dati diffusi dall’Istat sulle esportazioni italiane relative al quarto trimestre del 2007 disegnano un quadro complessivamente positivo. La buona performance (+8 per cento nel 2007, che conferma il +8 del 2006) ha riguardato tutte le regioni italiane e conferma una buona capacità di reazione delle imprese nazionali, dopo una fase che ha caratterizzato con significative flessioni la prima parte degli anni 2000.
I
attenzione, confermano la persistenza di elementi di debolezza strutturale di tutta la struttura produttiva meridionale.
All’interno di un simile scenario va sottolineata la situazione del Mezzogiorno, che nel 2007 realizza una
L’analisi per settori pone in evidenza con riferimento all’export del Sud una ripresa, che ha riguardato con intensità assai diversa i comparti dell’economia meridionale. Tassi di crescita a doppia cifra sono infatti rilevabili per i prodotti petroliferi raffinati, per i mezzi di trasporto, per le macchine e apparecchi meccanici. Incrementi assai più modesti hanno fatto invece segnare i settori tradizionali, quali il
Nel 2007, per volumi di merci, il Meridione ha superato il centro e il Nord Italia crescita percentuale del +11,5 per cento, superiore al dato medio nazionale. Tra le regioni del Sud spiccano le performance della Calabria, in testa con un +30 per cento, seguita a distanza dalla Basilicata (+21) e dalla Sicilia (+19,8). Si tratta di dati importanti che vedono il Sud superare, positivamente, il dato medio dell’Italia. Ma sono dati che, se analizzati con maggiore
tessile e abbigliamento, ancora negativi come nel caso del cuoio. Le imprese meridionali appartenenti al comparto dei beni «tradizionali» scontano ancora una più acframmentazione centuata dell’offerta. Il problema della ridotta dimensione aziendale e deltecnologica l’arretratezza delle imprese meridionali ha infatti reso più difficile per esse sviluppare quel proces-
so di upgrading qualitativo dei prodotti verso segmenti più difficilmente aggredibili dalla concorrenza di prezzo dei nuovi competitori quali India e Cina, che invece sembra essere riuscito a molte imprese, anche distrettuali, del Centro-Nord. La controparte di ciò è costituita dall’accresciuto peso rivestito dai ”settori di scala”, caratterizzati dalla presenza di relativamente poche grandi imprese, in prevalenza a controllo esterno al Mezzogiorno. Nel 2007, per esempio, la percentuale di vendite all’estero attribuibile ai settori di scala meridionali sull’export totale manifatturiero è risultata pari a quasi il 60 per cento; nel 1997 era leggermente inferiore al 50. Al di là degli andamenti congiunturali è però nei fondamentali dell’economia meridionale che si conferma la realtà di un Paese ancora profondamente dualista.
C i ò si ri s p ec c h i a chiaramente nel tasso di internazionalizzazione dell’economia meridionale. Il persistente, ampio ritardo del Mezzogiorno sotto il profilo della sua integrazione con l’estero, costituisce un aspetto centrale dei problemi di posizionamento competitivo dell’intero Paese e spiega in larga misura la fase di declino relativo che l’Italia ha fatto segnare rispetto agli altri
partner dell’Unione europea. Il grado di apertura internazionale della ripartizione meridionale, comunque misurato, rimane ancora nettamente al di sotto del suo potenziale, il che rappresenta al tempo stesso un effetto e – in prospettiva di un quadro di crescente integrazione e globalizzazione dell’economia – una causa importante del suo ritardo di sviluppo. L’incidenza percentuale delle esportazioni di merci meridionali sul totale nazionale è stata nel 2007 pari all’11,5 per cento (e sul commercio mondiale la quota del Sud è pari ad appena lo 0,4, a fronte di una quota del 3,3 del Centro-Nord). Il contributo fornito dalle esportazioni alla formazione del prodotto resta nel Mezzogiorno decisamente contenuto a motivo di un grado di apertura internazionale strutturalmente
più basso. La quota delle esportazioni di merci sul Pil è pari nel Mezzogiorno all’8,5 per cento, a fronte del 23,5 della ripartizione settentrionale.
I l d e f i c i t d i e x p o r t meridionale – e dunque, per converso, il potenziale di crescita presente in questa area – è facilmente desumibile da questi dati: il peso export meridionale è l’11 per cento; il peso del Pil è il 25; il peso della popolazione dell’area arriva al 35. La fotografia dell’evidente “divario strutturale” del Sud non sembra tuttavia avere nell’attuale dibattito politico, adeguata attenzione, e soprattutto non viene colto nel suo reale significato, chiaramente indicato dal Governatore Mario Draghi nei mesi scorsi: «Il Paese non si riprende se il Sud non decolla».
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Per un nuovo patto per lo sviluppo del Mezzogiorno
Prima di tutto le infrastrutture di Angelo Sanza l nuovo patto per il Sud, proposto da chi ha a cuore le sorti di questa parte dell’Italia, vorrebbe costruire un’alleanza bipartisan per il rilancio del Mezzogiorno, uscito colpevolmente dall’agenda politica, in una campagna elettorale piena di slogan poco imparentati con la realtà. Noi vorremmo, invece, restare con i piedi per terra, evitando che ci siano inutili contrapposizioni fra Nord e Sud e fra priorità, come quelle che sembrano emerse recentemente tra ferrovie e porti. Serve tutto, per recuperare un ritardo che non scontano solo le regioni, ma il Paese. Se il Nordovest ha Malpensa, come simbolo da difendere, il Meridione ha solo l’imbarazzo della scelta in una lunga lista di opere da concludere.
I
Ugualmente possiamo mutuare questa frase per dire che l’economia nazionale raggiungerà un migliore peso in termini di presenza dei suoi prodotti sui mercati esteri, solo quando anche il Mezzogiorno parteciperà al processo di internazionalizzazione, con intensità paragonabili al proprio peso “naturale”.
Questo però vuol dire che sarà necessario adoperarsi per dotare l’area di adeguate infrastrutture materiali e immateriali, nonché di condizioni per la vita economica e sociale paragonabili a quelle esistenti nel resto del Paese. Solo un’Italia tutta forte e unitariamente efficiente e produttiva può occupare con dignità, in Europa e nel Mediterraneo, un posto corrispondente alla sua geografia e alla sua storia. Presidente della Svimez
Dobbiamo essere chiari: senza una precisa e corretta ultimazione del piano per le infrastrutture, parlare di rilancio è inutile. Siamo la parte del Paese calata nel Mediterraneo che, a sua volta, è un tassello, una fermata obbligatoria nella grande rete globale dei trasporti. Ogni ritardo significa dare spazio ad altre regioni dell’area, che non stanno certo a guardare. Durante la permanenza nella maggioranza di governo e alla presidenza della commissione Trasporti della Camera, siamo riusciti a trasferire al Sud risorse pari al 43 per cento di tutti gli investimenti infrastrutturali. Sono finalmente crollati alcuni tabù come il completamento dell’autostrada Palermo-Messina; c’è stata l’approvazione di tre maxi lotti dell’asse autostradale SalernoReggio Calabria. È stato approvato il master plan europeo che prevede l’attuazione del «Corridoio 1» Berlino-Palermo, del «Corridoio 5» Lisbona-Kiev (no-tav permettendo) e del «Corridoio 8» Bari-Durazzo-Varna. Accanto a queste opere straordinarie esiste la cantierizzazione ordinaria di Anas e Ferrovie che all’epoca mise sul tavolo opere per circa 4,2 miliardi di euro, portando la percentuale di risorse destinate al Mezzogiorno a superare il 31 per cento. In altre legislature, rispetto alla XIIma, questa quota non superava mai il 6-7 per cento. Importantissimo sarà anche il completamento dell’alta velocità
Bari-Napoli. Altro capitolo, le realtà portuali. I corridoi plurimodali europei sono canali che rendono il Mediterraneo come il grande teatro delle convenienze per tre aree strategiche, come il Nord Africa la nuova Europa a 25 e l’Eurasia. In questo framework continentale i grandi porti del Sud, tra i quali quelli pugliesi, iniziano ad essere integrati tramite collegamenti stradali e ferroviari efficienti al resto del territorio. Un esempio è Taranto, che ha superato una delle tare dei porti italiani, che è il ”collo di bottiglia”costituito dagli scarsi collegamenti con la rete stradale e ferroviaria e dall’insufficiente sfruttamento delle aree retroportuali. Proprio la Puglia, con la piattaforma logistica composta dal nodo ferroviario e portuale di Bari, quest’ultimo destinato a diventare un moderno scalo passeggeri, con Manfredonia come scalo commerciale e con gli hub di Brindisi e Taranto, può rappresentare una grande occasione di sviluppo. Soprattutto in relazione ai problemi nati a Gioia Tauro, dove da tempo si cerca – senza successo – di passare dal semplice transhipping a una fase più complessa e avanzata d’assemblaggio di componenti, che farebbe aumentare occupazione e sviluppo. E se i tedeschi vogliano ancora investire, c’è chi vorrebbe andarsene, visto il fallimento del governo Prodi nel garantire la sicurezza necessaria agli operatori. E il porto di Algeciras, in Spagna, potrebbe approfittarne per ”rubare”traffico allo scalo calabrese.
Il trasporto pubblico locale è una voce in perdita secca nel bilancio dello Stato. Per questo abbiamo pensato a una rimodulazione della normativa contrattuale con gli enti locali, in modo da ottenere risparmi mantenendo alta la mobilità sul territorio, utile anche all’economia produttiva. Un problema, che soltanto nel 2004 comportava una spesa da 8 miliardi di euro, da non sottovalutare. E che potrebbe scatenare una patologia irreversibile dell’intero sistema dei trasporti. Coniugare economicità con un accettabile livello di gradimento per gli utenti, è una formula niente affatto semplice. Ma va trovata rapidamente.
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speciale economia
NordSud
La questione meridionale e i limiti di una politica che ancora guarda ai piani straordinari
Spazzatura e caos nell’Italia delle emergenze ordinarie di Giuliano Cazzola ontinua a crescere l’occupazione. E nonostante il permanere di divari (significativo quello sull’impiego di donne e giovani) anche nelle regioni meridionali aumentano i posti di lavoro. Pure i dati sull’esportazione delle imprese del Sud migliorano. Il è positivo, dal momento che quell’area territoriale ha sempre consumato più di quanto produceva e poteva permettersi sulla base dei redditi ufficiali, ad ulteriore prova dell’esistenza di un’economia sommersa di ampie proporzioni. Ma al di là di questi segnali incoraggianti, il Sud ha davanti a sé una prospettiva di riscatto al pari di quanto è avvenuto negli ultimi anni negli altri «Mezzogiorno» d’Europa? La questione meridionale fa capolino nei programmi elettorali dei maggiori partiti. «Noi vogliamo un’Italia», tuona il documento del PdL, «che finalmente superi, attraverso un impegno straordinario, il drammatico divario tra Nord e Sud, realizzando una politica che
C
soprattutto, alla criminalità organizzata.
Visibile l’impegno dell’Udc, per il quale è sbagliato guardare solo e sempre a ricette diverse da quelle necessarie al resto del Paese, chiede misure per fa-
Per i termovalorizzatori ci vorranno 3 anni, per pulire le strade 60 giorni valorizzi la responsabilità dei territori e metta a frutto tutte le energie presenti nel Paese».
Si prevedono un piano decennale straordinario concordato con le Regioni per il potenziamento realizzazione delle infrastrutture per formare un sistema logistico integrato; la creazione di zone e porti franchi,“Leggi Obiettivo” ad hoc per turismo, beni culturali, agroalimentare come per poli di eccellenza per la ricerca e l’innovazione; un programma di riconversione per la chimica pesante; un migliore utilizzo dei fondi comunitari; la realizzazione della Banca del Sud; un federalismo fiscale solidale accompagnato da fiscalità di sviluppo per le aree svantaggiate; il contrasto,
cilitare l’accesso al credito, punta a una riforme, chiede una svolta per le infrastrutture come nei poli tecnologici «per attrarre e valorizzare cervelli». Il Pd non è da meno. Il Sud viene ricollocato nell’area del Mediterraneo con il proposito di «portare la rete delle infrastrutture e dei servizi a dimezzare il gap accumulato rispetto al Centro-Nord» entro il 2013. Anche in questa circostanza vengono evocati i progetti per le «infrastrutture della mobilità» (strade, autostrade, ferrovie o porti) impegnandovi almeno la metà delle risorse comunitarie. E sono indicati alcuni obiettivi-standard: dal servizio idrico, all’ambiente, dalla giustizia all’Università. Di fronte alla progettualità annunciata dai maggiori schieramenti, dobbiamo ricor-
dare che il cammino è in salita. Il dramma dei rifiuti – per esempio – è lontano dall’essere risolto. La perdurante mancata raccolta in gran parte della Campania (la lodevole eccezione di Salerno e del suo hinterland dimostra che le cose si possono fare anche lì) sono una vergogna per l’intero Paese.
L’Italia, grazie alle reti di comunicazione del villaggio globale, viene sbattuta in prima pagina da mesi in tutto il mondo. Ma dopo lo stupore, gli italiani hanno cominciato a capire di più. In sostanza la Campania (soprattutto nell’area tra Napoli e Caserta) è stata una groviera di discariche fuori norma, di luoghi in cui venivano gettati i rifiuti piuttosto che siti adeguati alla raccolta. Il tutto – visto che di mezzo c’era la camorra – nell’inerzia delle comunità interessate: le stesse che oggi protestano. Tali discariche «storiche», nel tempo, sono state chiuse allo scopo di essere bonificate. Intanto, venivano individuati alcune località ritenute adatte per predisporre discariche a norma e piani per lo smaltimento. Le relative misure, però, non sono mai state attuate. Per molti motivi: l’inerzia delle amministrazioni, il rifiuto delle popolazioni interessate e quant’altro. Così i rifiuti restavano per strada. Quando raggiungevano i
primi piani delle abitazioni, se ne occupava la televisione in una logica di emergenza. Diventava allora necessario, in mancanza di prospettive nuove e diverse, riaprire temporaneamente le vecchie discariche, incontrando l’opposizione delle popolazioni di quelle realtà. Fino a quando il meccanismo si è rotto andando incontro a un tragico cupio dissolvi: la completa impotenza. La spazzatura accumulata ha scavalcato gli argini dell’emergenza (divenendo problema ingestibile), mentre la soluzione di carattere strutturale è lontana, anche ammettendo che vi sia l’intenzione di arrivarci. I tecnici, con l’ottimismo della volontà, dicono che per liberare le strade occorrono almeno 60 giorni, per creare una discarica con tutti i crismi di legge ne sono necessari almeno 120, per fare un termovalorizzatore ci vogliono tre anni. Ciascuno di questi tre momenti non consente a nessuno di «fermare il mondo per poter scendere», ma cammina sul tapis roulant dei «rifiuti di giornata» (35mila tonnellate ogni settimana). Insomma, la situazione è destinata ad avvitarsi sempre più nella tragedia. L’unica certezza sono i posti di lavoro stabili e ben remunerati costituiti dal Commissariato.
Ma non vi è solo la criticità delle immondizie campane. «Gli appalti pubblici, come noto», è scritto nella relazione della Commissione Antimafia, «rappresentano per la criminalità organizzata un collaudato sistema di appropriazione indebita delle risorse pubbliche». E ancora: «In molte aree del nostro Mezzogiorno le Asi (aree di sviluppo industriale) sono caratterizzate da una serie di capannoni industriali deserti a testimonianza che molti dei capitali investiti nel Meridione (…) sono stati impiegati per realizzare impianti industriali la cui attività è durata il tempo dell’espletamento del processo di finanziamento». Ecco perché, ad osservare programmi elettorali in cui si parla ancora di piani straordinari, l’insorgere di qualche perplessità è più che legittimo.
libri e riviste
ieci esperienze di eccellenze per raccontare che in Italia, nonostante si investa soltanto l'1,1 per cento del Pil in ricerca, si può fare innovazione. E soprattutto per descrivere un processo virtuoso che va ben altro l'adeguamento dei propri prodotti alle richieste del mercato, ma comprende la ricerca di nuovi canali di vendita come la sperimentazione di materiali più performanti. Spiega l'economista Giordano Taggiasco: «La forza e la rappresentatività di queste dieci imprese sta nell'essere riuscite a trasformare la loro capacità innovativa in vere routine aziendali, arrivando a cogliere le opportunità che i molteplici contesti hanno loro offerto». Ed è forse questa la ricetta per non soccombere di fronte alla globalizzazione. Giordana Taggiasco L’ innovazione parla anche italiano. Edizioni Il Sole 24 Ore, pagine 189, 20 euro
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in uscita Economia politica, una delle tante riviste-appendici nate intorno all’esperienza del Mulino. Nell’ultimo numero Dominick Salvatore fa il punto sul livello di competitività e sul peso delle Regioni europee nei meccanismi della globalizzazione. Valeria Costantini e Salvatore Monni si soffermano sul complesso rapporto tra sostenibilità e sviluppo. Ahmad K. Naimzada e Fabio Tramontana descrivono, invece, le peculiarità e gli effetti di “un modello dinamico del consumatore con razionalità limitata e analisi globale”. Mario Pomini parla di“Abitudini, aspettative e incertezza. L’equilibrio dinamico nella scuola paretiana”. Economia politica Il Mulino editore pagine 207, euro 28,5
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La ricetta di Massimo Lo Cicero per superare le criticità delle imprese
«Banche regionali, volano per lo sviluppo» colloquio con Massimo Lo Cicero di Alessandro D’Amato
MERCATO GLOBALE
Cina, India e Nordest: la rivincita dei poveri di Gianfranco Polillo
a ripresa dell’export nel Sud? «Una buona notizia, ma parliamo di volumi ancora troppo bassi per considerarli significativi». Eppoi non basta per risolvere il nanismo delle imprese, le loro difficoltà a fare rete o a dialogare con il mondo bancario. Massimo Lo Cicero, ordinario di economia all’università di Roma Tor Vergata e censore dei limiti del Mezzogiorno, preferirebbe invece sentire notizie sulla nascita al Sud di banche regionali o di un ripensamento generale delle strategie di internazionalizzazione delle Regioni. Nel 2007 l’export del Sud è cresciuto dell’11,8 per cento, più che nel centro o nel Nord. È un segnale di risveglio? Credo proprio di no. Non tragga in inganno un incremento del genere. Basta confrontare i dati con quelli del resto d’Italia per capire che si tratta di fenomeni ancora marginali: il Mezzogiorno produce il 25 per cento del Pil, ci vive il 30 della popolazione e il suo export è pari al 12 per cento di quello italiano. È ancora troppo poco. Non pecca di pessimismo? Volendo si potrebbe anche notare che le esportazioni nei primi cinque anni del secolo sono state pari a 316 miliardi, mentre le importazioni nette sono pari a 65 miliardi: questo significa che quanto produce non basta al Sud per chiudere il bilancio in pareggio. Una bocciatura totale. Per carità, è una buona notizia che qualcosa cominci a muoversi. Ma purtroppo stiamo parlando di volumi ancora troppo bassi per poterli considerare significativi. Il Meridione continua a essere un’entità deficitaria e minoritaria rispetto al totale dell’industria del Paese. L’export premia settori poco di moda come meccanica e chimica. Si tratta di risultati dovuti alle realtà industriali del Nord, come la Fiat di Pomigliano, che hanno deciso di impiantare aziende qui, spinti da vantaggi di tipo fiscale. In massima parte, la chiamerei industrializzazione “esogena”, portata dal Settentrione e da quello dipendente. Cresce l’agroalimentare. E si tratta di una produzione che manda in continuazione segnali positivi. Grazie soprattutto all’emersione sul mercato di marchi e brand – penso al vino di Planeta o a quello dei Feudi di San Gregorio – che stanno facendo bene nella competizione italiana e internazionale. E hanno ottimi margini di miglioramento. Sono una bella realtà che speriamo si consolidi. Dimentica le tante realtà nate, soprattutto nell’Ict, che sono all’avanguardia dal punto di vista tecnologico? Ma stiamo parlando di imprese attive soprattutto nella subfornitura, ovvero nel contoterzi. Ecco, questi sono dati che l’Istat sottostima, visto che magari queste aziende producono compo-
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nentistica che poi viene mandata al Nord per essere ulteriormente raffinata e finire rivenduta all’estero. E sono realtà piccole o piccolissime, che da sole possono smuovere poco. Cosa manca per una svolta? Altro sarebbe se queste imprese si aggregassero tra di loro, dandosi un’identità e specializzandosi in produzioni tipiche, entrando nei mercati in prima persona. Ma questo non vale solo per l’Ict, ma per il 90 per cento delle realtà del Sud. L’industria locale lamenta difficolta nell’accesso al credito. E allo stato delle cose, si può fare molto poco. Il processo di concentrazione del credito italiano ha portato alla formazione di grandi aggregati con una vasta rete che arriva fino al Sud. Ma il problema, ironia della sorte, sta proprio nella loro dimensione internazionale: le banche faticano a stabilire un dialogo costruttivo con l’apparato produttivo meridionale perché, mentre le prime parlano europeo, le imprese continuano a parlare in dialetto. E le nuove regole? Con Basilea II il divario si è ancora più accentuato: l’azienda del Sud è storicamente meno trasparente, incapace di separare la proprietà dal controllo, restia a comunicare i propri risultati economici. In più c’è il sommerso… In realtà una soluzione ci sarebbe, l’hanno sperimentata nel Nordest: far nascere due o tre banche regionali che possono recitare il ruolo di dettaglianti del credito, calandosi maggiormente nel territorio e garantendo un accesso facilitato alla liquidità. E il private equity? È la frontiera delle frontiere, ma difficile da introdurre in un mondo che viene da 50 anni di crediti agevolati: farà sicuramente fatica ad abituarsi a logiche come queste. Quindi il Sud è bocciato in export. Eppure le Regioni spendono il 10 per cento dei loro bilanci in attività di promozione. Parto da un dato messo in luce dal Dipartimento delle politiche per lo sviluppo, che ha condotto un’indagine su come veniva percepito il prodotto locale nostrano nei mercati esteri. La maggioranza degli interrogati faceva fatica a cogliere le differenze tra le specificità regionali, preferendo etichettare tutti i prodotti come “italiani”. Ecco, forse l’errore delle Regioni è proprio questo: andare in ordine sparso, ciascuno con il proprio orticello da salvaguardare e con un’identità da costruire, prima ancora che da propagandare. Morale? Bisognerebbe quindi partire da questo per creare un’unica entità per l’internazionalizzazione, che poi potrebbe ulteriormente “spingere” quelle che sono le vere eccellenze territoriali. Per parafrasare un detto famoso, lo slogan potrebbe essere: “Think national, Act local”.
ipartiamo dal Sud. Non dal mezzogiorno o dalle aree sottoutilizzate. Il primo termine appartiene a una stagione politica che non torna più. Il secondo a un linguaggio burocratico che solo la scarsa fantasia degli eurocrati di Bruxelles, con la complicità dei ministeriali nostrani, poteva coniare. Se nomina sunt consequentia rerum, come erano soliti ripetere gli antichi, quel cambiamento è necessario.Vuole evocare un approccio diverso, un modo di vedere che fa tesoro di quanto avviene nel mondo e di come la nuova rimbalza nel dibattito italiano. Negli anni passati Mezzogiorno faceva rima con sottosviluppo. Non a caso, negli anni Cinquanta fu l’economista inglese Vera Lutz a impostare un problema specifico, che aveva, tuttavia, una portata più generale. Fu lei a parlare degli squilibri che dividevano l’Italia e che il rispetto delle semplici regole di mercato non avrebbero sanato. Al contrario: quella forbice tra le zone ricche e povere si sarebbe allargata. Capitava la stessa cosa tra mondo sviluppato e non. Cresceva il benessere nelle grandi città dell’Occidente, il Terzo mondo subiva una crescente emarginazione. Fame, povertà, inedia: erano queste le caratteristiche che imprigionavano i due terzi della popolazione del Pianeta. Paesi capitalisti come paesi socialisti, quel fossato era destinato a crescere e radicarsi. Si poteva forse intervenire con qualche aiuto compassionevole, mobilitare la Croce rossa e le altre organizzazioni umanitarie. L’Onu e l’Unctand indivano conferenze internazionali, ma nessuna di queste iniziative, per quanto lodevoli, erano in grado di affondare il coltello nella piaga. Stesse ricette per il Mezzogiorno. Anche qui qualche aiuto, trasferimenti di risor-
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se, la Cassa per il Mezzogiorno, quindi investimenti a perdere, imprenditori senza scrupoli lesti di mano nell’arraffare tutto quello che si poteva arraffare. Ma mancavano infrastrutture e una politica economica specifica, che tenesse conto delle diverse condizioni di partenza, non c’era nemmeno a pensarla. In compenso c’erano grandi proclami sulla centralità del problema e scioperi simbolici per salvarsi la coscienza. Alla fine, un pugno di mosche, con quel fossato più ampio di giorno in giorno. Basterebbe questo per dire che bisogna cambiare pagina. E ragionare in termini diversi. Ce lo insegnano paesi come la Cina e l’India, che hanno rifiutato una solidarietà pelosa per camminare con le proprie gambe. Non più grant e loans, vale a dire doni e prestiti a tasso agevolato, ma sviluppo: una politica economica anche troppo aggressiva nei confronti del resto del mondo, una voglia di rivincita che parte innanzitutto da una volontà collettiva e da gruppi dirigenti che hanno rotto ogni legame di dipendenza culturale, con le grandi centrali dell’economia internazionale. E che si muovono con le proprie gambe. Non è certo un pranzo di gala, come diceva Mao Tze Tung, ma almeno quei sacrifici servono a qualcosa. Certo, il Sud non è la Cina. Ma neppure il Nord est: terra laboriosa e intraprendente, piena dell’antico fascino rinascimentale, ma risorta a nuova vita solo di recente. Il Sud è una realtà più complessa: luogo di antica civiltà, contenitore di grandi valori culturali e di un senso della vita che non ha uguali nella storia nazionale. Elementi su cui si può costruire una diversa identità. Occorre solo che il popolo del Sud ne acquisti consapevolezza e li trasformi in sintesi politica.
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speciale economia
NordSud
Sul Sud stanno per piovere tanti, troppi, aiuti comunitari. Ma le Regioni litigano su un’agenda comune
Centoventi miliardi dalla Ue e un milione di priorità di Giuseppe Latour inque anni per sparare le cartucce rimaste. Tanto rimane al Sud di qui al 2013 per impiegare la prossima tornata di fondi europei. E saranno tanti, circa 120 miliardi di euro. Gli ultimi, probabilmente, perché dopo questa data l’area uscirà dalle zone dell’Obiettivo 1. E se fino a oggi questi soldi sono stati spesi molto male, con inefficienze di spesso paradossali, c’è il pericolo che i prossimi vengano impiegati anche peggio. Perché mancano piani chiari sulle azioni da avviare. Ci sono tante richieste sia da parte dell’industria sia delle rappresentanze sindacali. Non mancano decine di progetti, spesso poco dettagliati, e le solite parole della politica. Di concreto sul campo, però, c’è davvero pochissimo. Le storiche inefficienze del meridione hanno già sprecato buona parte della tornata 2000-2006. Basti pensare che la London School of Economics ha calcolato che questi fondi, pari a circa il 3 per cento del Pil meridionale, avrebbero dato più frutti se distribuiti direttamente ai cittadini, anziché fatti passare dalla politica e burocrazia locale. La crescita dell’area, infatti, è stata pari a uno scadente +1,2 per cento. Quindi, in termini di risultati, si è incassato la metà di quello che si è messo nel motore.
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Guardando agli ultimi dati della Ragioneria dello Stato, non ancora aggiornati a fine 2007, il quadro dell’avanzamento del Por (il Piano operativo regionale) per le cinque regioni del Sud segue un leit motiv: i soldi non sono stati tutti spesi. Anzi, in molti casi sono rimasti in buona parte inutilizzati. Dei 27,1 miliardi messi a disposizione le cinque regioni hanno impegnato l’88 per cento ed effettuato pagamenti per il 58, poco più di 15 miliardi di euro. Una situazione generata dal cocktail di burocrazia inerte e mancanza di visione progettuale che incatena il sud. E che lascia poca speranza per le risorse vecchie, ma deve dare una lezione importante per quelle che stanno arrivando. «È auspicabile fare tesoro dell’esperienza per non ripetere gli errori con la prossima programmazione, ultima chance di rilancio per la parte economicamente meno sviluppata del Paese», nota il presidente di Confindustria Sicilia, Ivan Lo Bello. E proprio da Confindustria arriva la lista della spesa più dettagliata per chi dovrà gestire i prossimi soldi in arrivo nel sud. In cima alle richieste degli industriali ci sono le infrastrutture, da potenziare attraverso un raddoppio della spesa annua su questo capitolo. Con due obiettivi principali: la linea ad alta velocità Napoli-Bari e la Salerno-Reggio Calabria. Almeno un miliardo va poi utilizzato per la protezione delle aree industriali. Sempre per le imprese va avviato un programma di fiscalità compensativa, in grado di convogliare investimen-
i convegni ROMA mercoledì 26 marzo 2008 Palazzo Rospigliosi L’Isimm e la Fondazione Bordoni organizzano un workshop su “WiMax e nuove prospettive per la banda larga”. Ne discutono, tra gli altri, il presidente dell’Isimm, Enrico Manca, e il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni. ROMA mercoledì 26 marzo 2008 Università Luiss L’ateneo della Confindustria fa il punto sull’internazionalizzazione dell’Italia e sulle ricette per “fare sistema per competere”. Sono attesi, tra gli altri, gli interventi di Luca di Montezemolo,di Emma Bonino, ministro per il Commercio internazionale, di Massimo D’Alema, ministro degli Esteri, di Franco Frattini, vicepresidente della Ue, e di Adolfo Urso.
Tra gli anni 2000 e 2006 non è stata utilizzata la metà dei fondi europei ti in entrata dall’estero, insieme a un bonus sull’occupazione. Chiudono l’elenco due interventi facili da enunciare ma difficili da attuare: lotta al racket (drena circa l’1 per cento del Pil meridionale) e riduzione dei tempi della burocrazia, i cui ritardi arrivano fino a 400 giorni.
Non condivide l’analisi l’assessore campano al Bilancio e alla programmazione economica, Mariano D’Antonio. Per lui si sta perpetuando un mito, quello che «in Campania e nel Mezzogiorno sono arrivati dall’Europa tanti finanziamenti, troppe risorse, che alimentano una cultura della dipendenza, un’assuefazione ai sussidi che spegnerebbe la corretta amministrazione della cosa pubblica e gli spiriti vitali della popolazione». E allora la sua Regione si prepara a impiegare i soldi in arrivo in maniera diversa dal passato. O almeno si spera. Gli obiettivi prioritari del prossimo periodo saranno tre: infrastrutture, porti e ferrovie su tutto, turismo, per uscire subito dall’emergenza rifiuti, e rilancio dell’agroalimentare, cercando soprattutto di sostenere le zone della produzione di latticini e di sfruttare la scia dell’Agenzia nazionale per la sicurezza, in atterraggio di qui a breve a Foggia. Stanno poi partendo in queste ore i piani della Sicilia. E muoveranno anzitutto dalla disoccupazione che, dati alla mano, al Sud è in media circa il triplo del resto del Paese. I primi programmi riguarderanno «il rientro dei cervelli nell’Isola e la formazione professionale, con particolare attenzio-
ne alle donne»; capitoli sui quali sono già stati impiegati due miliardi di fondi europei. Seguono ambiente e agricoltura, per i quali sono previsti altri due miliardi. «È un piano articolato che interviene fornendo incentivi alle aziende agricole, punta sulla salvaguardia dell’ambiente e, infine, riprende il tema delle Aree rurali marginali, nelle quali stimoleremo la crescita di occupazione e servizi», dichiara Giuseppe Morale dell’Autorità di gestione del piano di sviluppo per la regione Sicilia. Sull’agricoltura puntano anche l’assessore della regione Calabria, Mario Pirillo, e il presidente Agazio Loiero, convinto di poter cambiare in cinque anni l’aspetto della sua terra. Su questo capitolo auspica «di raggiungere in tempi brevi livelli di spesa capaci di stimolare una crescita di qualità». Non manca un’attenzione specifica sul tema della sicurezza: «Stiamo lottando per portare la regione, e questi fondi Por sono l’ultima occasione, lontano dalle fauci della criminalità. Ci batteremo fino in fondo, sono convinto che ce la faremo».
E della programmazione molisana, alle fasi decisive in questi giorni, si sta occupando l’assessore regionale al Bilancio, Gianfranco Vitagliano. Nelle consultazioni in corso per arrivare a definire gli obiettivi strategici è già emersa una lista di priorità: innalzare le competenze degli studenti, migliorare la gestione dei rifiuti urbani e il servizio idrico integrato, rivedere la viabilità, con particolare riferimento alla realizzazione della Termoli-San Vittore per collegare Tirreno e Adriatico e dare una mano alle aree interne, isolate dal resto del Paese. Oltre, ovviamente, a interventi in favore della produttività e delle imprese.
ROMA giovedì 27 marzo 2008 Palazzo dell’Enea Nel workshop su “Finanza, Venture Capital e tendenze globali dell’investimento in energia sostenibile: quali sviluppi per l’Italia?”, si studia il sempre più stretto rapporto tra mercato e necessità di liberarsi della schiavitù del petrolio. Ne discutono Luigi Paganetto (Enea), Vincenzo De Bustis (Deutsche Italia) e Salvatore Rossi (Bankitalia). ROMA giovedì 27 marzo 2008 Nuova Fiera di Roma Si tiene il convegno su “Sviluppo aerospaziale e strategie geopolitiche”. Ne discutono Giorgio Zappa (Finmeccanica), Giovanni Fabrizio Bignami, (Asi) e Giuseppe Veredice (Telespazio). VERONA venerdì 28 marzo 2008 Verona Fiere Fondazione Nord Est e UniCredit Banca d’impresa, nel convegno “Fuori dalla Media – Percorsi di sviluppo delle imprese di successo”, fanno il punto sull’innovazione italiana. Atteso, tra gli altri, l’intervento di Emma Marcegaglia, futuro presidente di Confindustria.
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca
C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
Anche il rallentamento del Paese dietro la decisione di Spinetta di presentare un piano di lacrime e sangue
Una Francia impoverita non può fare sconti ad Alitalia di Gianfranco Polillo a Francia guarda al tentativo di Jean-Cyril Spinetta, alle prese con la tegola Alitalia e che oggi rivede i no sindacati, con ostentato distacco. Pochi i commenti sulla stampa, nessuna preoccupazione che la loro compagnia di bandiera possa risultare contagiata dalle scarse virtù italiche. Sembrano sicuri del fatto loro, quasi si trattasse di un fatto di ordinaria amministrazione. Come interpretare questo atteggiamento? Air France Klm è una società leader, la prima al mondo. La sua struttura patrimoniale è solida, nonostante il caro petrolio e la forte concorrenza internazionale. Ha grande liquidità. Il rischio dell’operazione, alle condizioni annunciate, è stato valutato, ogni possibilità di inquinamento prevista e sterilizzata.
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C’è poi l’uomo Jean-Cyril Spinetta. È stato da anni nel consiglio d’amministrazione di Alitalia, conosce quello che riserva, una volta aperto, questo vaso di Pandora. È anche uno dei più grandi esperti del mondo del trasporto aereo. Lo ha dimostrato facendo crescere Air France nel rispetto delle regole del mercato. Il suo profilo professionale è tale da fugare dub-
bi e timori. E la Francia si fida fino al punto da dimostrare indifferenza. Spinetta è indubbiamente tutto questo, ma non solo. È uomo dell’Ena. Fa parte cioè di quella tecnostruttura che da sempre governa la Francia. È membro di una consorteria – nulla di dispregiativo, per carità – che può dividersi sul piano politico, ma è sempre unita nel guardare alla Repubblica. La vera garanzia dei francesi ha questo solido riferimento. E Spinetta lo dimostra in ogni gesto e comportamento.
Spinetta naturalmente conosce la crisi dell’economia italiana. Ma se Roma piange, Parigi non ride. Anche in Francia l’economia è lambita da una crisi che non lascia spazio ad atteggiamenti compassionevoli.
Gli ultimi dati, che fanno da sfondo a quella ruvidità, lo dimostrano. Nel 2006 il Pil francese era cresciuto del 2 per cento. Il 2007 si è chiuso all’1,9. Flessione più forte nel 2008: +1,7 per cento contro il +2 ipotizzato qualche mese fa. Il peggioramento dello scenario è
zione dell’euro che penalizza le esportazioni francesi. Se la Francia è cresciuta, il merito va interamente attribuito alla dinamica dei consumi interni. Sono lievitati oltre il reddito, soprattutto grazie alla riduzione delle aliquote fiscali e dei contributi sociali. Decisioni adottate nell’agosto del 2007 e nel febbraio 2008, hanno accresciuto il tasso di occupazione, contribuendo, attraverso questa via, a dare tono a tutta l’economia. Sarà un effetto duraturo? I segnali sono contrastanti. La
Le ultime stime sul Pil del 2008 calcolano una crescita all’1,7 per cento inferiore alle previsioni. Oltralpe si paga il caro petrolio e la debolezza dell’export. Si temono delocalizzazioni, soprattutto per l’industria aerospaziale La durezza con cui ha affrontato la fossa dei leoni dell’ultima riunione con i rappresentanti del sindacato italiano lo ha confermato. «Non siamo obbligati a comprare Alitalia», ha detto con chiarezza. Non parlateci quindi di argomenti che non sono all’ordine del giorno. Il business è solo business. Difendere l’occupazione, risolvere i rapporti pregressi con Sea e Malpensa, sobbarcarsi di un sociale complessivo non è compito di Air France.
stato improvviso e accelerato, foriero, forse, di ulteriori cali. Più preoccupante la dinamica che ha imposto la correzione: l’estero è stato negativo. Segno evidente di una caduta di competitività, rispetto all’Europa e in particolare alla Germania. E tra i due Paesi si è innescato un contenzioso politico tra i due leader, Nicolas Sarkozy ed Angela Merkel. Lo scontro è, non a caso, la politica della Bce, che mantenendo alti i tassi di interessi, determina una rivaluta-
Francia, al pari dell’Italia, soffre del caro petrolio, specie nei trasporti, e dell’aumento dei prezzi in campo alimentare. Dallo scorso autunno il tasso di inflazione è cresciuto dello 0,7 per cento, attestandosi sul 2,8 annuo. Di cui un punto si deve solo all’aumento dei costi energetici e delle materie prime, comprendendovi i prodotti alimentari. Il rischio è l’azzeramento dei benefici fiscali. Le nubi che si addensano sul celo di Parigi non lasciano pre-
sagire alcunché di buono. Debolezza dell’export, consumi incerti almeno per l’avvenire, investimenti in flessione a causa della crisi finanziaria e dell’atteggiamento prudente assunto dalla Bce. L’economia ne soffre, ma ne soffre in particolare l’industria. Ed al suo interno è proprio il comparto aerospaziale che mostra le più forti difficoltà.
Ai programmi comuni europei lavorano, in Francia, circa 130mila persone. I costi stanno diventando proibitivi, la frammentazione delle imprese non regge alla concorrenza internazionale. Come reagire? La ricetta, al momento solo sussurrata, è quella della delocalizzazione. Produrre all’estero almeno le parti meno nobili. Imitare, in definitiva, i cugini tedeschi,con cui i francesi mantengono un conflittuale rapporto di amore-odio. Fu quella, in Germania, la scelta degli anni successivi agli attentati delle Torri Gemelle. Risultato: 5 milioni di disoccupati, ma il sostanziale salvataggio delle basi industriali del Paese. I francesi ci pensano. E Spinetta lo sa. Può guadare all’Italia, avendo a cuore i problemi sociali della nostra compagnia di bandiera?
economia I dubbi dell’economista sulle misure prese dalla Fed e dal governo Usa
Stati Uniti in crisi, la versione di Makin di Pierre Chiartano
ROMA. Ogni crisi ha la sua storia, altrimenti sarebbe fin troppo facile prevederle. Però non è neanche così difficile anticipare quelle che ciclicamente hanno strapazzato le democrazie liberomercatiste. Esistono alcuni passaggi chiave per capire che, anche in presenza di tempesta, sia possibile guadagnare fino a un minuto prima che il semaforo rosso accenda il panico dei mercati. E qui che si giocano i grandi interessi, si stringono accordi “taciti”, si decide a chi lasciare in mano il cerino acceso. L’attuale instabilità che fa vacillare i colossi bancari americani – e non solo – è figlia di molti padri, ma è la madre di una nuova consapevolezza: la rooseveltiana convinzione che l’intervento «protettivo» dello Stato non sia sempre «maledetto» come, del resto, von Hayek e Mises ci avevano insegnato. Se già si rivaluta lord Keynes, è utile restare nell’ambito dell’analisi critica liberale e leggere le previsioni recenti e meno recenti dei guru della finanza, partendo da un dato chiaro e inquietante: Ben Bernanke, governatore della Fed, è un esperto nato e cresciuto nella consapevolezza che una seconda crisi del Ventinove andava assolutamente evitata. Questo è il suo e, purtroppo, anche il nostro orizzonte. John Makin è invece un esperto dell’American enterprise institute, in passato consulente del dipartimento del Tesoro americano, del “leggendario” Congressional budget office e dell’impopolare International monetary fund. Uno che ha “letto” e anticipato numerose crisi, comprese quella russa e quella brasiliana di fine anni Novanta. In gennaio aveva prodotto un documento dal titolo emblematico, Bene nel 2009 (non tanto nel 2008), dove aveva stigmatizzato gli interventi federali a favore del sistema bancario Usa. Il piano di sostegno ai subprime e i continui tagli ai tassi erano seguiti ai primi cedimenti di Wall Street. Citigroup, il 14 dicembre scorso, aveva perso in una settimana l’11 per cento, Goldman Sachs il 3,5 in un solo giorno e il 15 da fine ottobre. Ma il peggio era la ripresa dell’inflazione, con gli aumenti di energia e alimentari a ricadere su altri beni e servizi, rimettendo in moto il Consumer price index e portando l’inflazione su base annua verso 2,3 per cento. Cosa si sarebbe dovuto fare con un’economia in rallentamento nel 2008? Il dipartimento del Tesoro aveva messo sul tavolo due iniziative. Una dedicata
a chi prestava denaro un’altra a chi lo prendeva. La prima, SuperSiv (special investment vehicle), un fondo speciale di 100 miliardi di dollari, dove acquistare liquidità al di fuori del mercato canonico. Un “elemosinario” per i grandi malati della finanza americana, con i soldi messi a disposizione dai colossi bancari come Citigroup. Il piano, annunciato a ottobre, aveva visto proprio Citigroup prima denunciare uno stato di “sofferenza”, poi, dopo aver silurato il proprio Ceo, Chuck Prince, riprendersi 49 miliardi di dollari dalla Siv. Insomma, un salvatore che doveva salvare se stesso.
L’altro strumento ideato da Henry M. Paulson Jr. era un aiuto al milione e più di americani invischiati nei mutui a tasso variabile. Per Makin, l’iniziativa aveva provocato soltanto un’ulteriore svalutazione delle securities, basate su fondi ipotecari, sparse per i mercati mondiali ed era stata di sollievo per non più di 2300mila famiglie. La Fed invece doveva combattere su due fronti: tenere viva la crescita economica e vigilare sull’inflazione in ripresa. Anche qui è stato creato un fondo (Taf) di 40 miliardi di dollari di prestiti a breve per il sistema bancario. Sul fronte mutui potrebbe funzionare una riedizione della Resolution finance corporation, usata vent’anni fa per la crisi delle saving&loan. Costo per il contribuente? Dai 500 ai 600 miliardi di dollari. Comunque, se tutte le misure elencate da Makin fossero state prese, il 2009 potrebbe essere un buon anno, sacrificando la felicità per il 2008, naturalmente. Dopo un solo mese – siamo in febbraio – la musica cambia: spartito wagneriano. La crisi si chiama «recessione», le critiche a governo e Fed si fanno pungenti, si parla di «unusual, persistent drop in consumption and investment». La brusca impennata dell’indice di disoccupazione, tra novembre e dicembre 2007, viene letta come indicatore di una recessione in arrivo, se non in atto. Il molto temuto capo economista di JP Morgan, Bruce Kasman, afferma: «Non c’è stato episodio nella storia economica del secondo dopoguerra, che con un segnale così forte sul fronte occupazionale non abbia significato un’economia in recessione». In breve, i soldi succhiati dai mutui sono tolti dal consumo di beni finiti, falsando il ciclo economico. E il crollo della Bearn Stern può non essere l’ultimo.
Le iniezioni dall’alto di liquidità «hanno aiutato soltanto 300mila famiglie» vittime dei mutui spazzatura, causando nuove svalutazioni
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Energia, verso una nuova stangata Nelle scorse settimane Alessandro Ortis ha parlato di «tsunami» per le tasche dei consumatori. Così gli esperti si aspettano grandi scossoni quando all’inizio della prossima settimana quando l’autorità per l’Energia presenterà le nuove stime sulla bolletta, seguite alle fiammate del petrolio. Nomisma Energia, attraverso simulazioni fatte sulle quotazioni del greggio negli ultimi mesi, ha calcolato che il conto per le famiglie salirà dal primo aprile di quasi 60 euro su base annua: 17 euro in più per la luce (si profila un rincaro del 3,9 per cento) e circa 40 euro in più per il metano (+4,1).
Generali, prima filiale in Cina Generali China Insurance, la joint venture creata dal gruppo del Leone nella Repubblica popolare, ha ricevuto l’autorizzazione ad aprire la prima filiale nel Paese. Il via libera, come ha riferito l’agenzia Bloomberg, è arrivato dall’autorità responsabile, la China insurance regulatory commission. L’ufficio verrà aperto a Daqing, città nella provincia nordorientale di Heilongjing, al confine con la Russia. Secondo i dati dell’authority, nei primi due mesi del 2008 i premi nel ramo danni sono saliti in Cina del 28,9 per cento a 41,7 miliardi di yuan, pari a circa 3,9 miliardi di euro. Generali China, controllata pariteticamente dal Leone e dalla China national petroleum corporation, è la prima joint venture nei danni tra una realtà locale e una straniera.
Biodiesel, allarme dall’agroalimentare L’industria agroalimentare è preoccupata per il boom dei biocarburanti. «Se intendiamo coprire il 20 per cento del bisogno crescente in prodotti petroliferi in questo modo, e come è previsto, non avremo più niente da mangiare». L’allarme è stato lanciato dal presidente e direttore generale di Nestlé, Peter Brabeck.
Expo 2015, settimana decisiva per Milano Inizia il conto alla rovescia per Milano, in lizza con la turca Smirne, per l’assegnazione dell’Expo 2015. Da oggi il sindaco di Milano, Letizia Moratti, sarà a Parigi per illustrare il progetto e per convincere i 140 membri del Bureau International des Expositions in modo da ottenere i voti decisivi. E il primo scoglio sarà tranquillizzare il board del Bie spiegare che il sistema lombardo ha la forza di superare i danni creati da Alitalia all’operatività dello scalo di Malpensa. Nella delegazione del primo cittadino fanno parte anche Diana Bracco, presidente di Assolombarda, e rappresentanti di numerose aziende come Edison, Telecom, Eni, Alfa Romeo, IntesaSanpaolo, Finmeccanica, A2A ed Enel.
Bear Stearns, Jp Morgan alza l’offerta Jp Morgan rilancia la sua offerta e il titolo di Bear Stearns vola in Borsa. La banca americana ha alzato l’asticella portando il prezzo per azione a 10 dollari. La preda guadagna a Wall Street quasi l’85 per cento, arrivando a 11,80 dollari ad azione. Jp Morgan ha dunque quadruplicato l’offerta nel tentativo di vincere l’opposizione degli azionisti dell’istituto finita sull’orlo della bancarotta. La nuova proposta eleva il valore di Bear Stearns a circa due miliardi di dollari e il board della banca ha annunciato che voterà a favore dell’operazione. Jp Morgan ha anche siglato un accordo che prevede l’acquisto del 39,5 per cento di Bear Stearns nel quadro di una transazione che non richiede l’approvazione degli azionisti. Per chiudere l’operazione, basta l’ok del 10 per cento degli soci. Ancora contrario il miliardario britannico inglese Joseph Lewis.
India, Fiat e Tata rilanciano Fiat e Tata aumentano gli investimenti in India per incrementare la capacità produttiva del loro impianto di Ranjangaon, nello stato del Maharashtra. Per rispondere all’aumento della domanda i due costruttori automobilistici hanno infatti raggiunto con lo Stato un accordo che comporterà un aumento di 23,41 miliardi di rupie (quasi 580 milioni di dollari). Finora il Lingotto ha investito 16,79 miliardi di rupie nella joint venture.
Wall Street, boom di licenziamenti Le società di Wall Street colpite dalla crisi dei subprime hanno tagliato oltre 34mila posti di lavoro negli ultimi nove mesi. Intanto Hillary Clinton ha proposto una commissione con gli ex presidenti della Fed, Alan Greenspan e Paul Volcker, e l’ex segretario al Tesoro, Robert Rubin, per stabilire gli interventi del governo Usa.
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Sull’onda del successo delle bad girls, il canale americano Vh1 lancia uno show dedicato a vip in riabilitazione
Paris Hilton e Britney Spears lanciano la moda della REHAB GENERATION ed è subito reality di Roselina Salemi a chiamano “rehab generation”, dove “rehab” sta per riabilitazione, espressione molto frequentata dallo star system da quando sono entrate in scena le quattro “cattive ragazze”: Paris Hilton, l’ereditiera affamata di celebrità, Britney Spears, la popstar un po’ in declino, Lindsay Lohan, l’ex tenera ragazzina prodigio di casa Disney, e Nicole Ritchie, la stella del reality Fox The Simple Life. Tutte con problemi uguali e diversi, troppo alcol, corse spericolate in auto, festini e disordini alimentari. Prima di loro l’etica hollywoodiana imponeva di negare tutto. O almeno minimizzare. Dopo di loro, che hanno riempito le cronache con gli arresti in stato di ubriachezza, il carcere e i ricoveri, è cominciato il tempo dell’outing. Confessione, ammissione di debolezze e masochismi, attacchi di panico, eventualmente clinica e psicoterapia non sono più mal viste.
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Anche Withney Houston, Robbie Williams, Kate Moss e Courtney Love a un certo punto hanno deciso di mostrare in pubblico tutta la loro fragilità, dall’alcolismo alle droghe passando per le fobie. Ma adesso è una specie di reality nel reality, con puntate sempre nuove che deliziano i giornali di gossip. Shawn Sachs, partner di “Sunshine Sachs & Associates”, studio newyorkese di pierre che lavora per i politici, ma anche per attori come Ben Affleck, sostiene che «i media e il pubblico desiderano vedere i loro idoli passare dalle stelle alle stalle, cadere e risorgere», perchè questo li rende più umani. Di umanità, ultima-
mente ne abbiamo da vendere. Paris Hilton è andata in carcere, ha perso lo spot dei telefonini (sostituita da Luciana Littizzetto), forse sarà diseredata, ma ha avuto quello che voleva: essere famosa. Lindsay Lohan, arrestata due volte mentre guidava completamente sbronza, è stata condannata dal giudice a prestare una settimana di servizio all’obitorio, perché capisse come finiscono gli ubriachi al volante. Ha fatto due turni di riabilitazione e giura che migliorerà. Britney Spears ha avuto tre incidenti, si è rapata a zero, è andata in giro senza mutande, ha perso la custodia dei figli, entra ed esce dalle più costose cliniche di “rehab” e arriva a spendere un milione di dollari l’anno in cure mediche. Però il suo ultimo album, Blackout, ha venduto 350mila copie, è il più scaricato con I Tunes e il più richiesto su Amazon: non succedeva da quattro anni. Nicole Ritchie ha problemi di cibo: a volte ingrassa, ma soprattutto dimagrisce. Fermata dalla polizia in possesso di droghe e farmaci, ha fatto soltanto 82 minuti di prigione: il posto era sovraffollato e l’hanno lasciata andare. Ha avuto una bambina, Harlow Winter Kate: sarà una buona madre,
Nonostante la caduta d’immagine e i guai con la legge, Britney Spears ha fatto registrare con il suo ultimo lavoro, Blackout, cifre da record. Complice il video piccante di Gimme more, e il sound discotecaro al ritmo del quale la popstar balla la lapdance in abiti succinti, è l’album più richiesto su I Tunes e Amazon, e ha già venduto più di 350mila copie
Nicole? L’80 per cento degli americani crede di no.
Il guaio è che piacciono. «Adoro tutto di loro», ammette in televisione una studentessa newyorkese. «Vivono la vita, provano ogni cosa, non seguono le regole, hanno successo». Basta pensare a Amy
Winehouse, la popstar inglese che ha scritto la canzone “Rehab”, dove racconta il suo rifiuto a disintossicarsi. Il ritornello dice così: «Hanno provato a farmi andare in riabilitazione/ma io ho detto ”no no no”/sì, mi sono infuriata ma quando tornerò tu saprai saprai/ non ho il tempo e se mio
padre crede che io stia bene/ vuol dire che è stanco di provare a mandarmi in riabilitazione/ ma non andrò non andrò non andrò». Nonostante la canzone, in rehab è andata, anche se per poco, ma quando è uscita il cronista del Daily Mirror l’ha raccontata mentre sniffava
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vodka con la cannuccia. Intanto, la mancanza di sobrietà non le ha impedito di vincere cinque Grammy ( genio e sregolatezza?) e in più le sono stati offerti circa 750 mila euro per partecipare a una serata al Metropolitan Museum of Art Costume di New York, il prossimo 5 maggio. Pare piaccia molto a Giorgio Armani, pare sia stata sollecitata ad accettare addirittura da George Clooney e Julia Roberts. «Amy è rimasta assolutamente stupita quando ha saputo che Clooney e la Roberts la stavano cercando – spiega Now Magazine – non riusciva a prendere sul serio la proposta, credeva fosse uno scherzo».
E siamo arrivati all’ultima, inevitabile conclusione: il “rehab show”. Come mai non ci hanno pensato prima? Ma, ecco, la lacuna è stata colmata e gli interessati hanno potuto schiacciare il telecomando per scegliere Celebrity Rehab with Dr. Drew, il reality statunitense dedicato ai vip in riabilitazione, sul canale via cavo Vh1. Il dottor Drew Pinsky è un vero, famoso psichiatra molto televisivo, consacrato da Loveline (domande e risposte su temi del sesso). «La gente – sostiene il medico – non capisce quanto è diffusa la malattia mentale tra i ricchi e famosi». Beh, adesso può farlo.
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Sopra un arresto di Paris Hilton A destra lo psichiatra Drew Pinsky, già famoso per Loveline, assiste star in declino in Celebrity Rehab with dr. Drew, dove vince il vip più determinato a disintossicarsi. Nelle foto sotto alcuni momenti del programma, vinto da Mary Carey, al quale ha partecipato Brigitte Nielsen
Il plot della trasmissione è piuttosto semplice: nove celebrità sull’orlo del precipizio vengono seguite nel loro percorso di disintossicazione da droghe e alcool. Tutto quanto fa spettacolo: vomito, convulsioni e svenimenti compresi. Il pubblico può assistere ai tormenti di star come il fratello di Alec Baldwin, Daniel (protagonista nel 2007 del film italiano Paparazzi, che raccontava la guerra personale di un attore contro un gruppo di fotografi invadenti), Jeff Conaway, Brigitte Nielsen, la bionda ex moglie di Sylvester Stallone (è stata al Celebrity Big Brother inglese e alla Talpa), Seth “Shifty” Binzer (il cantante dei Crazy Town) e Jessica Sierra (star di American Idol) che, dopo aver finito di registrare il reality, neanche a dirlo, è stata arrestata. Sul “rehab show” l’opinione pubblica americana si è divisa (e anche i giornali). New York Times contrario, Washington Post favorevole. L’outing funziona, la generazione delle cattive ragazze ha fatto scuola e forse non diventeranno buone, ma ricche sicuramente. Dicono che il format arriverà anche in Italia.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
E’ giusto alzare l’età pensionabile? DOPO AVER LAVORATO PER 35 ANNI SI HA IL DIRITTO DI AVERE IL TEMPO CHE SI VUOLE Non sono d’accordo. La maggior parte dei lavoratori svolge attività logoranti, spesso così deprimenti da rendere necessario il ricorso all’immigrazione per effettuare quei lavori che gli Italiani rifiutano di fare. Credo inoltre che dopo aver lavorato per 35 anni, un qualsiasi individuo abbia il diritto di avere il tempo libero che vuole, considerando anche che ha pagato contributi per un bel periodo della propria vita e che infondo dopo 35 anni di lavoro dovrà avere necessariamente oltre 50 anni di età. Senza contare che il ricambio serve anche per combattere la piaga della disoccupazione. Non parliamo poi di quei lavoratori che svolgono le cosiddette attività usuranti ai quali dovrebbe essere riconosciuto un bonus di almeno 5 anni di anzianità.
stri figli non avranno quanto abbiamo avuto noi attuali pensionati. Non possiamo permettere che i nostri figli paghino le pensioni per noi e per loro stessi. Ed è veramente tragico pensare di andare incontro, scientemente, ad un mondo peggiore di questo. L’umanità è progredita e progredirà soltanto se i padri prepareranno per i figli un mondo migliore. E’ stato sempre così, deve essere così. Quindi niente più pensioni di anzianità, diamo il via all’innalzamento dell’età pensionabile. Ma c’è un altro motivo che mi spinge ad auspicare l’innalzamento dell’età pensionabile. L’allungamento dell’aspettativa di vita che costringerebbe il pensionato a vivere nell’inattività per un periodo troppo ampio. E’ un peccato sprecare tante energie relegando persone ancora in forze ed esperte nel ruolo del nonno e basta. Ringrazio per la gentile ospitalità.
L’INNALZAMENTO DELL’ETÀ È INDISPENSABILE, CI SONO PENSIONATI ANCORA IN GRADO DI LAVORARE
NON È MANDANDO PRIMA A CASA GLI ALTRI CHE RISOLVEREMO LA PRECARIETÀ DEI TRENTENNI
Ritengo proprio indispensabile l’innalzamento dell’età pensionabile partendo da una valutazione puramente economica. Se non si passa ad almeno sessantacinque anni l’età per andare in pensione, i no-
E’ vero che troppi giovani non riescono ad avere un posto di lavoro, ma penso che non sia mandando in pensione precoce ”i grandi” che si può risolvere il problema. Ancora una volta, l’Italia rappresenta dunque il ”fanalino di coda” dell’Europa tutta. In quasi tutti gli altri Paesi, infatti, si va in pensione dopo di noi, come ad esempio in Austria, dove si va a casa a 65 anni con anzianità lavorativa dai 40 ai 45 anni. O anche come in Finlandia, Spagna, Danimarca o Germania, dove la pensione arriva alla stessa identica età. Dunque sì, ritengo fondamentale innalzare l’età pensionabile. Risolveremmo forse gran parte dei problemi e riacquisteremmo credibilità anche nel resto d’Europa.
Guido Mantici - Livorno
LA DOMANDA DI DOMANI
Il futuro di Alitalia: Air France o cordata italiana? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Paolo Antinori - Roma
Sandra Viola - Cosenza
È UN PECCATO CAPITALE VEDERE I MIEI GENITORI ”SPRECATI” A CASA Sono una quasi trentenne con due genitori andati in pensione nonostante avessero ancora molte forze vitali da donare attraverso il loro lavoro. Un peccato capitale vedere sprecate le loro energie.
QUALE RIFORMA DELLA GIUSTIZIA? La Giustizia è il termometro della crescita e del progresso culturale e sociale di una nazione. La garanzia del rispetto delle regole di una convivenza civile nei rapporti interpersonali, di scambio, economici, tra pubblico e privato, serve a far vivere meglio e a farci sentire uguali: “la legge è uguale per tutti”. Eppure in questa campagna elettorale si parla ben poco della questione. Al contrario dovrebbe essere un terreno di confronto e di dibattito politico. Si dovrebbero analizzare e discutere le proposte degli schieramenti per capire cosa intendano fare per garantire il rispetto delle leggi. Perché di leggi nel nostro Paese ce ne sono tante, ma la certezza del diritto viene garantita non aumentandole, ma creando un sistema di applicazione rapido e certo, pur nella costituzionale garanzia del diritto di difesa: dura lex sed lex. La riforma del processo civile fatta nell’anno 2005, va accolta con favore quanto meno per aver reso più veloce il processo, così come la creazione del Codice dei contratti pubblici e delle assicurazioni private hanno creato utili testi unici di
IN FONDO AL MARE ”Sorgerà” tra pochi mesi ma a 13 metri di profondità nel mare delle Fiji. E’ il Poseidon Resort, raggiungibile tramite 2 ascensori e costruito in plastica acrilica trasparente. Il costo? 1.500 $ a notte ”O SI FA ALITALIA OPPURE SI MUORE”
ZINGARETTI NON RIESCE A ESSERE LEALE E CONCRETO
”O si fa alitalia o si muore”. Silvio Berlusconi ha descritto così la situazione sulla vicenda della compagnia di bandiera. Parlando con i cronisti a palazzo Grazioli il leader del Pdl ha spiegato di aver parlato ”con Prodi, ma questo non cambia nulla.Ho fatto un appello all’orgoglio degli imprenditori italiani che ritengono, come me, di non voler essere colonizzati, e quindi bisogna fare Alitalia”. Dispiace molto, francamente, notare come Silvio Berlusconi sia forse l’unica voce fuori dal coro che si spende in difesa di uno dei gioielli nazionali d’Italia. A questo punto non rimane che sperare in questa ”cordata d’orgoglio” per riuscire a salvare un simbolo d’identità.
Si vede che Zingaretti si è occupato d’Europa: non perde occasione di parlare al futuro di quello che farebbe e di quello che vorrebbe disegnando una provincia fantastica. Mi aspetterei, invece, da parte di autorevoli esponenti quali Gasbarra e Marrazzo, una rendicontazione precisa dei risultati che non abbiamo visto e delle ragioni per le quali in questi anni i Comuni siano stati abbandonati a loro stessi, trasferendovi solo i problemi della Capitale, i rifiuti che non sono stati una risorsa e i 600mila pendolari che ogni giorno hanno vissuto in mezzo la traffico per accedere alla città. La sinistra ha governato e governa, e quindi ha il dovere di parlare di fatti concreti.
dai circoli liberal Silvia La Marca - Napoli
riferimento. E’ necessario reperire risorse economiche per aumentare la presenza di magistrati, cancellieri e ufficiali giudiziari. Senza i primi nessuna legge può essere applicata. Senza gli ufficiali giudiziari nessuna sentenza e/o provvedimento definitivo può essere eseguito. E’ utile “spoliticizzare” il Csm: deve essere un organismo di autogoverno che non può subire le influenze di questa o di quella parte politica. E’ indispensabile responsabilizzare il lavoro dei magistrati e garantire anche nei loro confronti una rigorosa applicazione delle regole che disciplinano la loro attività. Chi ha il dovere di far applicare la legge deve essere il primo ad esserne assoggettato se sbaglia. La riforma del processo penale invece diventa sempre più urgente: ad esempio la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti ed inquirenti deve essere un punto di arrivo, se non si vuole arrivare a sottoporre i pubblici ministeri agli indirizzi del ministro della Giustizia. Lo strumento delle intercettazioni telefoniche non può essere abrogato, ma ne deve essere garantito solo un utilizzo lecito a fini processuali e non a fini giornali-
Gaia Miani - Roma
Mauro Rettore - Pisa
stici e/o di screditamento sociale e politico. Spesso leggiamo di fughe di notizie da qualche tribunale. Non credo che le notizie fuggano da sole, ma che qualcuno abbia interesse a farle diffondere e questo qualcuno non deve restare impunito. Gli avvocati difendano, i magistrati giudichino, le leggi vengano fatte rispettare: tutto ciò rende un Paese più giusto e più moderno. Nico Panio CIRCOLO LIBERAL LAZIO
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Il teatro è qualcosa di inutile e vano Vi scrivo una lettera dopo una prova in cui ho detto delle vostre parole. Le ho dette a me stesso, ai ragazzi, a un pubblico ancora immaginario. Domani non lo sarà più. Sarà il pubblico vero, l’unico, eterno, uguale pubblico di sempre. Ci siamo nutriti con una enorme gratitudine dei vostri pensieri, e io questa notte non so dirvi molto. Mi avete insegnato voi a non cercare di capire troppo nel teatro. Mi avete detto voi: “L’intelligenza per un attore è sentire molto alto”. E mi avete detto voi: “L’albero che cresce non pensa di crescere. Cresce e basta”. Pure anche in me, c’è questo bisogno di pensare al teatro, al nostro mestiere.“Come si può fare teatro senza pensare al teatro?”dicevate. A me viene da scrivere: come si fa a resistere tanti anni, dentro questo mestiere che ha sempre in sé qualcosa di infame e indegno, qualcosa di vano e inutile? Avete resistito voi fino all’ultimo. Sto resistendo anch’io. Giorgio Strehler a Louis Jouvet
DIAMO ALL’ITALIA UN GOVERNO SERIO Mi ha sorpreso che a fronte del linciaggio mediatico-politico di Gustavo Selva nessuno si sia preso la briga di raccontare al popolo inferocito anche chi è stato e quanto ha fatto Gustavo Selva, soprattutto nell’ambito dei rapporti internazionali. Ma va così. L’Italia ha già vissuto anni inconcludenti e torbidi di crisi della politica. Rincorrere l’applauso tra gli elettori auspicando tagli draconiani sugli stipendi e il numero dei parlamentari può esprimere la sacrosanta ricerca di una maggiore moralità pubblica, ma non è un atteggiamento coerente con un concetto di responsabilità istituzionale e politica che dovrebbe ispirare chi si candida a guidare il Paese. E’ giunto il momento di dare all’Italia un governo serio e responsabile, che inauguri finalmente la stagione delle riforme. Al di là delle schermaglie e dei risentimenti, rimango convinto che un’intesa di governo tra il Popolo delle Libertà e l’Udc del Presidente Casini sarebbe naturale e positiva per i democratici-cristiani, i liberali e i moderati italiani, raccolti a livello europeo nel grande partito democratico e
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
25 marzo 421 Fondazione leggendaria di Venezia 1798 Londra, Richard Trevithich applica alle sue carrozze la macchina a vapore di Watt creando il primo veicolo senza trazione animale 1821 La Grecia dichiara l’indipendenza dall’Impero Ottomano: inizia la Guerra greca di indipendenza 1842 Nasce Antonio Fogazzaro, scrittore e poeta italiano († 1911) 1867 Nasce Arturo Toscanini, direttore d’orchestra italiano († 1957) 1886 Genova: esce il primo numero del quotidiano Il secolo XIX 1895 Al Teatro alla Scala di Milano viene rappresentata per la prima volta l’opera Silvano di Pietro Mascagni 1918 Muore Claude Debussy, compositore e pianista francese (n. 1862) 1959 Nella striscia giornaliera dei Peanuts nasce Sally, la sorella minore di Charlie Brown 1940 Nasce Mina, cantante italiana
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
conservatore del Ppe. L’ingresso del Presidente Fini e di An nel Popolo della Libertà e, in prospettiva, nel Ppe è il risultato di un processo politico coraggioso e lungimirante, che non va in alcun modo sottovalutato, ma anzi approfondito e sostenuto. Oggi un’intesa politica tra Pdl e Udc appare lontana; anzi quasi impossibile, alla luce delle polemiche della campagna elettorale e dei livori un po’dipietristi di alcuni esponenti della Rosa Bianca. Ma il centrodestra italiano ha saputo superare crisi peggiori e ha mostrato la capacità di cambiare, secondo la volontà dei suoi simpatizzanti, elettori e dirigenti e per il bene dell’Italia. Cordialmente.
Matteo Prandi
RISPARMIARE È POSSIBILE COL TAGLIO DELLE PROVINCE ”Se si abolissero le province si otterrebbe un risparmio di 10,6 milardi di euro all’anno”. Lo sostiene un rapporto Eurispes riferito a dati del 2006. Ebbene, mi trovo d’accordo. I risparmi si potrebbero ottenere ad esempio reimpiegando il personale in altri Enti o Istituzioni.
Amedeo Gatti - Palermo
PUNTURE Cossiga ha rivelato che due adepti di Gladio sono ora al governo. Servizio permanente effettivo.
Giancristiano Desiderio
“
Coloro che reprimono il desiderio, lo fanno perché il loro desiderio è abbastanza debole da essere represso WILLIAM BLAKE
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di BUONA PASQUA DI CONVERSIONE Tanti auguri a tutti, anche agli ignavi che ultimamente preferiscono star sghisci, quelli che «esporre un crocifisso è una provocazione per chi non crede». A maggior ragione in questi tempi di vigliaccherie sopite e manifeste, faccio oggi convintamente le più vive felicitazioni a Magdi Allam e al Papa. Al giorno d’oggi un pubblico autodafè cristiano a Roma persino il giorno di Pasqua, giorno della Conversione per eccellenza, significa minimo venir redarguiti per «l’opportunità». In ogni caso ci vuol tanto coraggio, pensa te come siamo messi bene in Occidente. Notate prego lo stupito e quasi timoroso distacco con cui il Mainstream Media porge la notizia così fuori dagli schemi del politically correct: come direbbe il corrispondente della Gialappa’s da Beri, solo «la fredda cronaca». Avviso ai naviganti: questo non vuol per niente essere un outing in quella che considero la noiosissima solfa di retroguardia laici vs. credenti, mero rigurgito di questioni ragionevolmente risolte nelle coscienze e nelle legislazioni locali e Occidentali dalla fine dell’Ottocento. Non ne faccio una questione di Fede, tema in ogni caso privatissimo e nel mio caso personale estremamente arduo. Da un punto di vista pubblico per me è una questione ben più forte, ben più esiziale e importante che il decidersi individualmente, lo scommettere pascalianamente se «c’è o non c’è». Si tratta piuttosto del bene più prezioso per un animale sociale, con buona pace per il libertarian estremo: l’identità,
privato della quale l’uomo semplicemente cessa di essere, perde ogni parità nel costante confronto con il «diverso da sè» (rivendicare una identità e pretenderne il rispetto non significa disprezzare quelle altrui) e retrocede a oggetto schiavizzabile, bestia parlante o res animata loquentis come definita dagli antichi romani, men che animale in quanto incapace di sopravvivere fuori dal branco. Anche un miscredente come me è quindi convintamente orgoglioso di portare al collo sempre e ovunque il crocifisso, simbolo distintivo dei padri dei suoi padri (che pur si dichiaravano «prima venexian e po’ cristian»), anteposto a identificativo privato di una religiosità individuale. Right or wrong, my Identity. Chi invece abbia vergogna di dove provenga, son tutti e soli problemi suoi. Problemi che la raccontano tutta, alla Kundera, con chi in realtà ce l’abbiano veramente, chi in realtà aborrono (l’impossibile fuga dal sè).
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LA PASSIONE DI CRISTO E NOI Siamo tutti Pilato quando ogni giorno cediamo al comodo relativismo, quando snaturiamo il nostro potere e democraticissimamente accettiamo indifferenti l’assassinio legale. Siamo tutti Centurioni romani quando da postazioni sicure e di potere (schiavitù), per interesse, ingordigia o debolezza esercitiamo violenza sulla verità, anche noi facciamo sanguinare il corpo di Gesù.
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PAGINAVENTIQUATTRO I partiti si liberano dell’identità
La politica può fare a meno dei suoi di Gianfranco de Turris osa è un simbolo? A che serve un simbolo? La politica ha ancora bisogno di simboli, dato che oggi c’è chi li abbandona al proprio destino, se ne disfà non considerandoli più qualcosa di attuale e di “moderno”, li getta via come retaggio inutile del passato?“Viviamo in una foresta di simboli” diceva Baudelaire. Vero, soltanto che oggi a livello conscio non ce ne rendiamo più conto: l’ultima civiltà capace di recepirli e comprenderli in modo semplice e naturale è stata quella medievale, come ha dimostrato, fra gli altri, M.M.Davy. Eppure, il simbolo “funziona”ancora: gli studi e le spiegazioni di Mircea Eliade sono inconfutabili. Del resto, bastano alcune semplici dimostrazioni: perchè ci commuoviamo ancora sentendo una specifica canzone? Perché si prova orgoglio di fronte alla bandiera nazionale? Perché è così difficile modificare un inno patriottico? Perché siamo tanto restii a disfarci di un antico oggetto casalingo? Perchè conserviamo un ricordo materiale di nostro padre e di nostra madre? Semplicemente perché sono simboli. Il simbolo - che è ben più di una semplice metafora - opera dentro di noi e ci collega a qualcosa d’altro di elevato, profondo, essenziale, addirittura metafisico e spirituale. Una stemma, una bandiera, una foto, una musica non sono soltanto un pezzo di metallo, un brandello di stoffa, un rettangolo di carta lucida, un suono che svanisce nell’aria: sono qualcosa di più e d’altro, scavano in noi e ci collegano ad un evento, fatto, persona, immagine, sensazione, entità, soprattutto ad un valore generale e superiore che quella piccola cosa, quell’oggetto qualsiasi racchiude ed esprime, immutato, nel tempo.
C
Il mondo moderno, non soltanto materialista e secolare, ma anche frettoloso e distratto, è circondato da simboli ma non se ne accorge, quasi non li vede, ma essi operano nell’inconscio, e forse ancora più in profondità, e spesso quando un singolo o una massa sono mossi nelle loro azioni (positive, ma spesso anche negative) si cercano altre spiegazioni e si tralascia il valore del simboli che li hanno spinti ad agire come hanno agito. I partiti che hanno negli ultimi dieci anni cambiato o cancellato il loro simbolo tradizionale hanno quindi perso
SIMBOLI? qualcosa di essenziale della loro identità, quale essa sia stata. Il simbolo non è “un semplice segno grafico”, ma qualcosa di più. molto di più: ovviamente, quando è ancora profondamente sentito, quando non è stato svuotato dall’interno dei valori di riferimento. È chiaro che, da un lato un “segno grafico”non ha più alcun senso se ai valori che rappresen-
sanno quasi nulla del passato, si aggiunge. Parole come “fascismomo/antifascismo”, “comunismo/anticomunismo”,“destra/sinistra”hanno ormai poco senso, si conclude.
Sarà forse vero, ma questo nulla ha a che vedere con il valore del simbolo che persiste, forse si modifica e si adeguaa ma persiste nonostante lo squagliamento di tanti particolari aspetti della politica politicante. Smobilitati certi simboli, ne sorgono altri. Non credendo più alla politica, i ragazzi di oggi si aggrappano ad altri simboli, che però sono e restano tali. È noto, lo abbiamo avuto sotto gli occhi anche di recente, che quando un regime cade in modo traumatico la prima cosa che fanno i suoi nemici esterni e interni è proprio quello di cancellare i suoi “simboli” più evidenti: bandiere, statue, monumenti, stemmi, lapidi, iscrizioni, libri, addirittura edifici, modificare i nomi di strade, città, istituzioni. Se fossero soltanto asettici “segni” grafici o marmorei li si lascerebbe stare.Ed è proprio per questo che, ogni tanto, ancora oggi salta su qualche demagogo della sinistra radicale che si accorge all’improvviso che qua e là sono rimasti certi“simboli del fascismo” e chiede di distruggerli dopo sessanta e passa anni di democrazia consolidata: scritte persistenti al tempo, la stele del Foro Italico, edifici, mosaici, quadri, affreschi, oggetti vari: o chiede di modificare i nomi di vie, scuole, località. E poi dicono che il simbolo nel XXI secolo razionale e razionalista non serve più, non ha più efficacia...
«Uno stemma, una bandiera, una foto, una musica non sono soltanto un pezzo di metallo, un brandello di stoffa, un rettangolo di carta lucida, un suono che svanisce nell’aria. Sono qualcosa di più e d’altro che ci collega a un valore generale e superiore» ta nessuno crede più, e dall’altro che se questi valori sono essenziali e radicati essi permangono anche se il simbolo viene cambiato, modificato in tutto o in parte, o addirittura annullato. È una questione di - diciamo così - “pensiero forte”e “pensiero debole”. Insomma, non è scontato il fatto che “rinunciare a un simbolo non significa recidere le radici”. Può essere così se i valori di riferimento sono robusti, chiari, evidenti, conclamati, difesi e soprattutto riversati nelle parole e quindi nelle scelte e nelle azioni. Può non essere invece così, e allora con il simbolo si annullano le radici se questi valori si sono nel corso del tempo annacquati, edulcorati, deteriorati, e poi travisati e modificati: se è avvenuto ciò insieme al simbolo il collegamento delle radici, già molto allentato, si recide definitivamente e si diventa qualcosa di diverso, di molto diverso. Siamo al tramonto delle ideologie, si dice, I giovani non