QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Carte Le vittime italiane della Stasi
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
Prima l’annuncio dei nomi. Poi le smentite degli interessati. Poi ancora le controsmentite di Berlusconi. La tanto evocata cordata italiana sta diventando una commedia all’italiana
Anna Maria Minutilli pagina 12
Ma, al di là del fatto che ci riesca o meno, è giusto che un candidato premier organizzi in prima persona l’acquisto di Alitalia?
tibet BOICOTTARE I GIOCHI DI PECHINO? SI PUÒ pagina 7
Aldo Forbice
bioetica CLAUDIA MANCINA: TESTAMENTO BIOLOGICO PRIMO CONFRONTO pagina 9
Riccardo Paradisi
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
iraq
AIR SILVIO
La guerra sciita di Bassora pagina 10
Stranamore
jet set SIR FABIO CAPELLO BATTUTO. DA CARLA BRUNI pagina 21
Italo Cucci Cesare Geronzi, Mediobanca. Chiamato in causa ha fatto sapere che «non c’è allo studio alcuna ipotesi di cordata né di ingresso nel capitale di Alitalia»
Gilberto Benetton, presidente di Edizione Holding. Chiamato in causa ha precisato alla Consob di non partecipare ad alcun progetto.
Salvatore Ligresti, azionista di riferimento del gruppo Premafin. Chiamato in causa un portavoce del Gruppo ha risposto: «Nessun commento».
alle pagine 3 alle pagine 2, 3, 42 ee 5 VENERDÌ 28
MARZO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
56 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
ISSN 1827-8817 80328
9 771827 881004
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
IL BLUFF DI ALITALIA
he di c a n o r c
Renzo Foa
di Ferdinando Adornato
Ma alle elezioni politiche una terra di moderati. Deve averlo capito anche la senatrice Finocchiaro che non sembra raccogliere attorno a sé quel consenso che in molti immaginavano, non fosse altro che per la sua caratura politica ed istituzionale. Tutti i suoi tentativi di spostarsi al “centro”, inoltre, vengono frustrati dalle obiezioni - legittime sia chiaro - della sinistra arcobaleno che qui nell’isola sostiene la sua candidatura. Sì perché la contraddizione Sicilia interessa in questa tornata elettorale non solo l’ex casa delle Libertà ma anche l’ex centrosinistra: tutti allineati e coperti a sostegno di Lombardo a presidente della Regione – dopo un percorso faticoso e non incruento laddove il cavaliere Berlusconi aveva cercato di proporre qualche suo uomo per isolare ancor di più l’odiata Udc – e tutti allineati e coperti a sostegno di Anna Finocchiaro a sinistra, e anche qui non senza recriminazioni, con la sinistra radicale che aveva puntato tutte le sue speranze sul nome antimafia di Rita Borsellino. Ma alle elezioni politiche il panorama si presenta in modo del tutto diverso. Un panorama nel quale l’UDC corre da sola ma dove la stessa sinistra arcobaleno va per i fatti suoi. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante della questione legtrambe le competizioni lo stesso giorno. Equilibri così consolidati dovrebbero lasciare poco spazio alle previsioni ed ai sondaggi edciascia c’è poco entusiasmo nei confronti di questa materia. CONTINUA A PAGINA 3
Una nostra simulazione sul risultato a Palazzo Madama. Il Pdl tra 159 e 163 seggi. Maggioranza a rischio: decisive Liguria e Abruzzo
Senato suspence
alle pagine 2, 3, 4 e 5
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N
80315
on si capisce bene cosa possa fare o dire Anna Finocchiaro per guadagnare qualche punto percentuale su Raffaele Lombardo e risulta ancora più difficile individuare da parte di quest’ultimo qualche dichiarazione o comportamento che possa farlo scendere da quello che i sondaggi gli attribuiscono, ossia un 58% delle preferenze da parte dei siciliani. A poco meno di tre settimane dal voto per l’elezione del presidente della Regione Siciliana si ha la netta sensazione che i giochi siano fatti e che non resti che attendere solo la comunicazione del responso elettorale.
pagine 2, 3, 4 e 5
nell’inserto Occidente
Giuseppe Pisanu sulla crisi del Pdl
«All’udc dico: sono certo, ci ritroveremo dopodomani» Assuntina Morresi a pagina 8 GIOVEDÌ 20
MARZO
Giuseppe Pisanu alla
Giuseppe Pisanu
Giuseppe Pisanu alla
«All’udc dico: sono certo, ci ritroveremo dopodomani»
«E All’Udc ora dico: sono certo, troveremo»
«All’udc dico: sono certo, ci ritroveremo dopodomani»
Assuntina Morresi a pagina 8
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
Morresi, Adornato, Mancia, Colonna, Piccioni a pagina 8 50 •
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IL BLUFF DI ALITALIA NON REGGE
he di c a n o r c di Ferdinando Adornato
Renzo Foa
on si capisce bene cosa possa fare o dire Anna Finocchiaro per guadagnare qualche punto percentuale su Raffaele Lombardo e risulta ancora più difficile individuare da parte di quest’ultimo qualche dichiarazione o comportamento che possa farlo scendere da quello che i sondaggi gli attribuiscono, ossia un 58% delle preferenze da parte dei siciliani. A poco meno di tre settimane dal voto per l’elezione del presidente della Regione Siciliana si ha la netta sensazione che i giochi siano fatti e che non resti che attendere solo la comunicazione del responso elettorale.
N
Senato suspence
Ma alle elezioni politiche una terra di moderati. Deve averlo capito anche la senatrice Finocchiaro che non sembra raccogliere attorno a sé quel consenso che in molti immaginavano, non fosse altro che per la sua caratura politica ed istituzionale. Tutti i suoi tentativi di spostarsi al “centro”, inoltre, vengono frustrati dalle obiezioni - legittime sia chiaro - della sinistra arcobaleno che qui nell’isesta tornata elettorale non solo l’ex casa t Lombardo a presidente della Regione – dopo un percorso faticoso e non incruento laddove il cavaliere Berlusconi aveva cercato di proporre qualche suo uomo per isolare ancor di più l’odiata Udc – e tutti allineati e coperti a sostegno di Anna Finocchiaro a sinistra, e anche qui non senza recriminazioni, con la sinistra radicale che aveva puntato tutte le sue speranze sul nome antimafia di Rita Borsellino.
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Una nostra simulazione sul risultato a Palazzo Madama. Il Pdl tra 159 e 163 seggi. Maggioranza a rischio: decisive Liguria e Abruzzo
Ma alle elezioni politiche il panorama si presenta in modo del tutto diverso. Un panorama nel quale l’UDC corre da sola ma dove la stessa sinistra arcobaleno va per i fatti suoi. Ed è proprio questo l’aspetto più interessante della questione legtrambe le competizioni lo stesso giorno. Equilibri così consolidati dovrebbero lasciare poco spazio alle previsioni ed ai sondaggi edciascia c’è poco entusiasmo nei confronti di questa materia. CONTINUA A PAGINA 3
nell’inserto Occidente
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air silvio
pagina 4 • 28 marzo 2008
Una cordata italiana potrà intervenire solo dopo il fallimento di Alitalia
«Berlusconi? Vuole solo impressionare la platea» colloquio con Bruno Tabacci di Susanna Turco
ROMA. Berlusconi fa il «mago Zurlì» dello «Stato libero di Bananas». L’Alitalia è appesa a un filo. E noi italiani stiamo messi così male che «non possiamo nemmeno passare dalla padella nella brace: abbiamo solo la padella». Bruno Tabacci non ha mai risparmiato critiche al Cavaliere, nemmeno nel tempo in cui l’Udc era parte organica della Casa delle libertà. E figurarsi se cambia passo oggi, che il centro corre autonomamente e quindi in concorrenza con il Popolo delle libertà. Sulle dichiarazioni su Alitalia, e in particolare le ultime indiscrezioni (poi smentite) sui presunti partecipanti a una cordata italiana, non ha dubbi: «Berlusconi ha voluto dare dell’Italia l’immagine di un Paese sudamericano». Una specie di “Stato libero di Bananas”? Un Paese così, dove le parole non contano niente, dove l’importante è impressionare, stare sulle pagine dei giornali a chi la spara più grossa. Come se la crisi di Alitalia fosse un problema di oggi. E Berlusconi, novello mago Zurlì, saltasse fuori per trovare la soluzione. Si è dimenticato che è dal 1994 che ”sta sul pezzo”, è uno dei protagonisti degli ultimi 14 anni della politica italiana. E forse non gli è venuto in mente che Alitalia è stata pagata con i soldi dei contribuenti e degli azionisti. Beh, ma adesso se ne occupa. Sì, certo. In passato ha sostenuto i francesi, poi invece ha mandato avanti i figli, poi ha detto: «I miei figli di certo no». Oggi si inventa Mediobanca, Eni. Una banca d’affari o chi gestisce l’energia che dovrebbero far volare gli aerei: ma lo fa solo per impressionare l’auditorio, una boutade per i quotidiani, per il resto non gliene frega niente. L’auditorio sarebbero gli elettori? Quel che vuol far intendere è che una volta che lui è in campo la partita si spariglia. Tanto che Spinetta, il presidente di Air France, avrebbe modificato il piano industriale perché è stato impressionato dalla calata di Berlusconi. Sì, certo, sai che paura. Quelle dichiarazioni fatte alla Stampa sui componenti della cordata italiana, però, poi le ha smentite. Ha smentito. Sì. Vabbè. Certamente. Mi sembra giusto. Sarebbe a dire? Questo è lui, è Berlusconi. E anche la sua alternativa che tanto gli somiglia, Walter Veltroni, fa pensare proprio che il Paese è a ri-
schio. Da anni e sempre di più. Ritiene, come ha detto Di Pietro, che potrebbero esserci gli estremi per configurare l’aggiotaggio? Non ho ancora capito perché la Consob non abbia sospeso il titolo. Una gara in corso può essere assimilata a una procedura di opa. Che senso aveva tenere aperta quotazione? Chi ha parlato lo ha fatto in modo strumentale: come il gioco dei fagioli nella pentola, che vanno su, e vanno giù... Che conseguenze ha quest’ultimo capitolo della telenovela? Nessuna. Alitalia è in condizione da libri in tribunale da parecchi anni, è stata tenuta in
piedi si qui attraverso operazioni costate moltissimo. Un Paese normale da tempo avrebbe preso la strada maestra, lo hanno fatto gli svizzeri di Swissair, la Sabena, la Delta. Insomma, dentro quel mercato è accaduto di tutto, che l’Italia potesse pensare di essere tenuta fuori da questo rischio era pura velleità. Quale è oggi la strada maestra per Alitalia? O si fa una trattativa onorevole con Air France, o si portano i libri in tribunale. E solo a questo punto, con una procedura concorsuale, un commissario liquidatore e tutto ciò che interviene in un normale fallimento societario, solo allora una cordata italiana potrebbe anche intervenire. Su una amministrazione straordinaria si può inserire qualsiasi gruppo.
“
Malpensa va tenuta scollegata dalla questione Alitalia. È ridicolo pensare che il suo destino sia legato a quello delle compagnie che atterrano lì.Quando è fallita la Swissair,l’aeroporto di Zurigo non è stato mica chiuso
”
Bisognerà avvertire Berlusconi... Se invece di cianciare quando era al governo e chiedeva a Tremonti di andare in Europa per sollecitare un aumento di capitale, ecco se allora avesse semplicemente applicato la legge Prodi... Come per la Parmalat. Una legge che facilitava il risanamento e limitava il ruolo dei sindacati. I quali, peraltro, sono - vogliamo dirlo? - quantomeno corresponsabili di questa gestione fantasiosa di Alitalia. Per salvare l’onore della compagnia di bandiera... Una cosa deve essere chiara: quando si mette avanti il problema dell’italianità, si sa che si vuol colpire il consumatore, e non certo risolvere il problema. Ma come: e il tricolore? Una persona normale ha interesse che, per esempio, esista un aereo che faccia la tratta da Milano a Roma, che sia possibile salire su questo aereo e arrivare da una città all’altra, con un servizio aeroportuale accettabile. Cosa vuole che gliene importi se sulle ali c’è o non c’è la bandierina verde-bianco-rossa? I francesi però... Ma io arrivo a mangiare anche solo formaggini francesi, se la mozzarella di bufala italiana ha la diossina!
Perché il sistema imprenditoriale del nord non ha fatto offerte su Alitalia? Ma quale sistema? C’è solo da perdere in una situazione così. O vogliamo pensare che i problemi di Spinetta con il sindacato ce li avrebbe solo lui? A proposito, ritiene che nell’incontro previsto per oggi tra sindacati ed Air France ci siano basi per trattare? Ci vuole la ragionevolezza per concludere sapendo che altrimenti ne verrà solo danno. Intanto, si fanno ancora barricate su Malpensa. Malpensa va tenuta strettamente scollegata da questione Alitalia. È ridicolo pensare che il suo destino sia legato a quello delle compagnie che atterrano lì. Quando è fallita la Swissair l’aeroporto di Zurigo non è stato mica chiuso. Bonomi, presidente della Sea, ha ribadito che non ha intenzione di ritirare la causa contro Alitalia. Ma quando è stata aperta Malpensa, la Sea ha chiarito il problema che riguardava l’utilizzo di Linate oppure no? E come mai, se si parlava di servizio navetta Milano-Roma, invece su Linate hanno continuato a volare per tutte le destinazioni italiane? Fra l’altro è sempre lui, sempre il dottor Bonomi, quello che è passato anche per Alitalia. Adesso invece pretendono che la compagnia di
air silvio
28 marzo 2008 • pagina 5
Le condizioni del presidente dell’Unione piloti Massimo Notaro
«A Spinetta dirò: il problema è il posto di lavoro» colloquio con Massimo Notaro di Cristiano Bucchi
bandiera non fallisca, perché deve continuare a essere svenata a vantaggio di Malpensa. Ma se quello è un ottimo aeroporto, ben collegato - cosa su cui va fatta una opportuna verifica - ci sarà certo la coda di compagnie aeree per subentrare ad Alitalia. Arriverà Lufthansa, oppure che so, si compreranno la Sea... Se invece Malpensa viene considerato una landa disperata, la gente non ci andrà. E Alitalia volerà o non volerà altrove, ma per conto suo. E se invece la compagnia fallisse? È da tempo vicina al fallimento, e certamente Berlusconi che si diverte a lanciare i dadi ha dato un bel contributo anche lui. C’è chi dice che il suo agitarsi in funzione anti Air France sia stato un gran bel regalo del Cavaliere alla Lega. Mah, la Lega è il nuovo colbertismo di Tremonti, mette insieme il “vi tutelo io”, il “siete inefficienti ma non importa”, con la cultura monopolista di Berlusconi, quella del “ghe pensi mi”. Tutte cose che non c’entrano niente con gli interessi degli italiani. Intanto lui, Berlusconi, i suoi interessi li ha saputi fare benissimo. Ma se dall’altra parte c’è Veltroni, così simile al suo antagonista, allora non possiamo nemmeno passare dalla padella nella brace: c’è solo la padella.
ROMA. «Non si può andare avanti con una trattativa in esclusiva. È questo il problema con Air France. Si è sbagliato totalmente l’approccio, e adesso è tardi per tornare indietro». Massimo Notaro è il presidente dell’Unione piloti e nonostante le aperture che sono arrivate da parte di Air France, continua a guardare con diffidenza il piano franco-olandese. Si sono avvicinate le parti dopo l’incontro di martedì? Direi di noi. In un primo momento sembrava ci fossero state delle timide aperture da parte di Air France, poi hanno riconfermato le loro posizioni iniziali. Così non si va da nessun parte. Quanto è lontano l’accordo? Parecchio. Vorrei ricordare che Spinetta non ha dato alcuna garanzia oltre il 2010. Devo capire in che modo vogliono ridisegnare il perimetro di Alitalia, perché quello che per il momento viene fuori, è una piccola compagnia costretta a competere con le low cost, e questo sarebbe un suicidio. Silvio Berlusconi ha fatto sapere che il suo è stato solamente un appello. Tramonta così anche l’ipotesi di una cordata italiana. Deluso? Non sono in contatto con Berlusconi e quindi non posso sapere che cosa stia cercando di mettere in campo. Noi ragioniamo partendo da quello che abbiamo sotto gli occhi. L’unico elemento che abbiamo è la proposta Air France che noi giudichiamo inaccettabile. Spero che si riesca ad arrivare a qualcosa di più ragionevole, anche perché non chiediamo più denaro o di lavorare di meno; chiediamo solamente la sopravvivenza della compagnia. Senza di questo moriamo italiani, non c’è bisogno di morire posseduti da una terza compagnia. L’italianità è un valore da difendere? Come italiano assolutamente sì. Vorrei ricordare che il proprietario del gruppo Air France-Klm è il go-
verno francese, e quindi in quelle mani rischia di finire Alitalia. Trovo tutto questo molto preoccupante, anche perché il governo francese in questo modo finirebbe per mettere le mani sulle leve della nostra piccola e media industria e più in generale sul turismo. Sono i sindacati o la politica il problema di Alitalia? La politica è sempre stata la proprietaria della compagnia di bandiera. Così i manager che si sono avvicendati in questi anni non hanno mai avuto le capacità tecniche necessarie. Se ci troviamo in questa situazione non è certo per colpa nostra. L’offerta Air One che lei aveva difeso si è rivelata alla fine poco credibile. Qualche errore quindi l’avete commesso anche voi dell’unione piloti? Quello che difendevo era la pluralità dell’offerta. Non si può andare avanti con una trattativa in esclusiva. È per questo che oggi i nostri rappresentati politici ripetono che Alitalia non ha alternative. Dimenticano di dire che sono stati loro a bruciarla. Se ci fosse stata Air One, per quanto inconsistente potesse essere la cordata dal punto di vista economico, Air France sarebbe sta-
ta costretta a fare un offerta sensibilmente migliore. Adesso invece ci troviamo sotto ricatto. La Lega si preoccupa di Malpensa ma non di Alitalia. Sorpreso? È chiaro che Malpensa avrà una ripercussione molto forte dall’abbandono di Alitalia, ma il problema riguarda tutta l’Italia. Voglio solo ricordare che stiamo ragionando attorno ai 50 aeroplani in meno su 180, quindi di una parte consistente della flotta che sarà tagliata. Questo significa che tutto il paese avrà meno voli. La questione non è Milano contro Roma, e ridurla a questo sarebbe un errore. La Consob ha chiesto alla politica trasparenza per evitare speculazioni sui titoli di Alitalia. A questo proposito mi dovrebbero spiegare le affermazioni del ministro del Tesoro che pochi giorni fa è tornato a parlare del fallimento della nostra compagnia di bandiera. Forse Padoa-Shioppa dimentica che in questo periodo dell’anno si comprano i biglietti per volare nel periodo estivo, e quindi arrivano i soldi che permettono alla compagnia di andare avanti per tutto l’inverno. Certo se il proprietario parla di fallimento, è chiaro che i passeggeri sceglieranno un altra compagnia. La trovo una manovra inqualificabile. È ottimista guardando all’incontro di oggi? Naturalmente sì, anche perchè credo che Alitalia rappresenti un valore enorme, e poi perchè è posizionata in un mercato da 85 milioni di passeggeri. Questi sono numeri che nessuno può dimenticare e di cui Air France dovrà tener conto. Quindi fusione sì ma conservando il marchio Alitalia? Se si legge l’offerta di Air France il marchio sarà garantito per cinque anni. Certo non può essere questo il punto della trattativa. Il cuore della questione è il posto di lavoro dei miei colleghi, e su questo ci aspettiamo da Spinetta maggiori rassicurazioni.
pagina 6 • 28 marzo 2008
politica d i a r i o
d e l
g i o r n o
Da Napolitano allarme competitività Intervenuto alla mostra per i 100 anni del cantiere navale di Monfalcone, Giorgio Napolitano non sfugge ai cronisti quando gli chiedono «quali siano le sue preoccupazioni per l’Italia». I motivi di allarme non mancano, dice «ma adesso non posso fare un elenco... anche se la preoccupazione maggiore che ho sentito qui è quella di reggere le sfide della competizione che si farà sempre piú aspra, in un mondo che è cambiato e che continuerà a cambiare». Nella successiva visita al Centro internazionale di fisica teorica di Trieste, il Capo dello Stato torna sul rilancio del sistema produttivo: «Venire qui rappresenta uno di quegli anelli della mia peregrinazione tesa a conoscere da vicino e valorizzare tutte le realtà di eccellenza e le risorse di cui dispone per fortuna il nostro Paese».
Casini: votate per i vostri ideali
Silvio rivede il pari e chiede agli elettori dell’Udc un voto disgiunto
L’ombra lunga del Senato di Errico Novi
ROMA. Sarebbe difficile spiegarsi il buonumore con cui Berlusconi evoca il pari al Senato, se non fosse lo stesso Cavaliere a dare la soluzione: «Solo un matto, uno che non ha tutte le rotelle a posto, si può prendere la responsabilità di governare adesso». Ecco, il punto è che Silvio continua a non morire dalla voglia di passare altri cinque anni a Palazzo Chigi. È per questo che la mette sullo scherzo quando chiede il voto disgiunto agli elettori dell’Udc: «Se a uno piace Casini, magari perché è un bel fiyeu, allora lo voti alla Camera e non a Palazzo Madama». Davanti alla platea amica di Confcommercio l’ex premier ci ride su, poi ridiventa serio, se non arrabbiato, e dice che «se si pensa di votare tutta questa arlecchinata di partiti allora sarà colpa dei cittadini e in Parlamento non ci saranno maggioranze solide». Qualche ora dopo dirà di avere «8,6 punti di vantaggio sul Pd», ma il suo discorso sembra in perenne sospensione tra la rincorsa alla vittoria e la paura di doverci fare i conti. Così evoca altri spettri, quello dei rifiuti per esempio: «Se non riuscirò a portare Napoli e la Campania alla loro bellezza entro due, massimo tre mesi, quella immondizia lì sarà colpa mia». O quello del governo con il nemico in casa: «Avrò tutte le istituzioni contro, il Capo dello Stato l’hanno nominato loro, gran parte della magistratura è dalla loro parte, così la maggioranza della Corte costituzionale». Fino all’incubo più ricorrente, i brogli: «So-
no la mia sola preoccupazione, quelli della sinistra sono i professionisti che ti mettono la matita nella scheda».
Torna a farsi sentire dunque il mormorio dei sondaggisti. Di quelli che cita Ermete Realacci, per esempio: «Ci sono sei punti tra le due coalizioni, ma in termini di credibilità Walter ha il due per cento di vantaggio». Fanno impressione più di ogni altra cosa le simulazioni sui seggi al Senato: nessuno osa attribuirne a Silvio più di quanti ne avesse Prodi. Ma resta appunto un clima da combattimento finto, una specie di wrestling elettorale. Berlusconi
Veltroni evoca di nuovo le larghe intese sulle riforme istituzionali, ma Cesa avverte: «Siamo noi la garanzia contro qualsiasi inciucio» para senza troppa convinzione i colpi del rivale su Alitalia («a che numero di smentite siamo?…») e s’inalbera sul caso ”Porta a porta”: «È un atto di violenza di Veltroni e della sinistra, l’Italia sappia che la Rai è ancora in mano loro». Può consolarsi d’altra parte con l’impossibilità del faccia a faccia anticipato: «Chi scappa? Il confronto in tv dovrei farlo anche con gli altri dodici candidati». Meglio tenere l’avversario a distan-
za, meglio, per Berlusconi, avvertire che «Veltroni è disperato e se Bettini mi paragona a Le Pen io posso dire che il Pd è l’ultima reincarnazione dei comunisti».
Impossibilitato ad agitare i guantoni sul ring televisivo, Walter recupera immediatamente lo stile cavalleresco, e parla con tono grave del «raffreddore americano che diventa polmonite nei Paesi più deboli». Serve dunque «una stagione riformista, una fase costituente: saremo costretti ad accelerare i tempi, se ci ritroviamo con un pareggio voglio vedere come si farà a governare questo Paese». Rieccolo il Veltroni più conciliante, che forse in questo momento non saprebbe nemmeno come impostarlo, un confronto nello studio di Vespa. Fassino prova a rassicurarlo, spiega che «un risultato del Pd al di sotto del 35 per cento non mette in discussione la leadership». Ma l’incognita che non t’aspetti arriva dall’Udc. Da Pier Ferdinando Casini che lascia i due sfidanti alle loro beghe diplomatiche e si dice «confortato dai sondaggi che penso ci rendano determinanti al Senato». E da Lorenzo Cesa che forte dell’apertura di Bossi smorza sul nascere le rinnovate velleità grancoalizioniste lasciate intravedere da Veltroni: «Noi rappresentiamo la stabilità politica e ne daremo al prossimo governo evitando così inciuci». Sulla comoda scorciatoia del pareggio c’è qualcosa di più di un ostacolo.
«Voglio rivolgere un appello a tutti gli italiani: il vero voto utile è quello che difende i vostri valori e i vostri interessi, che non lascia a Bossi il controllo determinante dell’Italia e degli italiani, che si dà al centro moderato dell’Udc». È l’appello che Pier Ferdinando Casini rivolge da Potenza. «È una campagna elettorale costellata da bufale, dalla vicenda Alitalia alla mozzarella campana, e aspettiamo le prossime, magari quelle del voto disgiunto. Riferimento del candidato premier dell’Udc alle dichiarazioni di Berlusconi sul voto all’Udc alla Camera ma non al Senato: «Gli elettori italiani non si facciano coinvolgere da una politica che è diventata molto poco seria, e votino per i loro ideali».
I presidenti della Rai secondo Gasparri «Dipendesse da me sarei per riproporre alla presidenza della Rai Claudio Petruccioli o Lucia Annunziata, anche se la Annunziata mi ha detto di non essere interessata». Così l’ex ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri in un’intervista rilasciata a Klaus Davi. Il dirigente di An fa un generale elogio delle donne che lavorano in Rai («durante il governo Berlusconi hanno assunto ruoli di primo piano, ci sono molte manager validissime come Lorenza Lei che hanno dimostrato serietà e capacità») e si concede un pronostico sulla successione di Fini a Berlusconi che sarebbe «un ricambio naturale ma dalla data incerta, perché grazie all’elisir di lunga vita procuratogli da don Verzé Berlusconi cerca di differirla il più possibile: tutto dipende dall’evoluzione della scienza».
Solite scintille Berlusconi-Di Pietro Giornata di bordate tra Berlusconi e Di Pietro. Il Cavaliere ribadisce che l’ex pm gli fa orrore («ha messo in galera persone innocenti») e rispolvera dubbi sul suo percorso accademico («con quella grammatica si capisce che ha preso la laurea grazie ai Servizi»). A sua volta il ministro delle Infrastrutture attacca Silvio sul presunto dominio dei comunisti in Rai: «Noi dell’Italia dei valori abbiamo già ottenuto dall’Authority la condanna delle reti Mediaset a 100mila euro per il mancato rispetto della par condicio, quindi Berlusconi dice cornuto all’asino». Dopo che sul tema anche Fausto Bertinotti si produce in metafore ardite («quando parla di comunisti in Rai Berlusconi è accecato da Dio»), Di Pietro riprende la scena e prevede interventi della Procura sia a difesa della propria immagine di ex inquirente che sugli eventuali reati commessi dal Cavaliere con le dichiarazioni sul caso Alitalia. Finché nel pomeriggio l’Idv chiede a Napolitano di regolare la contesa: «Siamo costretti ad assistere a reiterati attacchi da parte dei media cui fa capo Berlusconi».
Forza Italia: no a riforme della scuola Secondo il coordinatore di FI Sandro Bondi «è inutile mettere a punto nuove riforme generali della scuola e dell’università, bisogna piuttosto partire dalla questione decisiva degli insegnanti». Il dirigente azzurro ne parla in un’intervista con Famiglia cristiana, aggiungendo che «se non si affronta il problema dei docenti è inutile perdere tempo e distruggere ciò che resta di valido nella scuola italiana». Passaggio dal vago tono bipartisan quando Bondi afferma che «non si può intervenire sull’istruzione a ogni cambiamento di maggioranza: così si disorientano gli insegnanti. Bisogna partire da un piano organico elaborato da una commissione di esperti scelti al massimo livello e investire su questo modello per i prossimi decenni».
diritti umani
28 marzo 2008 • pagina 7
Dopo Sarkozy, anche il presidente ceco Klaus e il vice premier belga Reynders hanno posto il problema di un forte gesto politico contro la repressione in Tibet
Boicottare Pechino? Si può di Aldo Forbice arrivato il momento di dire basta. Basta alle Olimpiadi, alle Olimpiadi di Pechino. La Cina popolare non ha rispettato nessuna delle promesse fatte al Comitato olimpico internazionale nel 2001 sulla tutela dei diritti umani. Ed ora, di fronte ai massacri del Tibet, alle umiliazioni, alle persecuzioni di monaci e cittadini inermi non possiamo rimanere indifferenti. Non si possono lasciare da sole Amnesty International le altre Ong che, nel silenzio dei media, continuano la loro solitaria battaglia. E mi chiedo dove siano finite le bandiere arcobaleno, a marcire in cantina? E dove sono finiti i «marciatori per la pace», la tolleranza, la solidarietà? E i radicali, sempre così solerti a fare scioperi della fame per ottenere qualche posto in parlamento in più, come mai rimangono fermi, inebetiti, imbarazzati? Eppure la loro associazione, Nessuno tocchi Caino, si è tanto battuta per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, anche contro la Cina (che nell’assemblea delle Nazioni Unite si era alleata con gli Usa e i paesi arabi per ostacolare il sì). Eppure il segretario di quella stessa associazione, l’on. D’Elia, si era recato a Dharamsala (India) da dove era partita (e bloccata dopo due giorni ) la «marcia del ritorno» in Tibet . L’esponente radicale ha assistito alle brutalità dell’esercito indiano che agiva su mandato del governo cinese, ma non ha osato parlare di boicottaggio delle Olimpiadi, probabilmente per non disturbare le opinioni dei suoi leader Pannella e Bonino, che la pensano diversamente. Quest’ultima, in particolare,dopo essere stata a Pechino a promuovere affari e contratti con l’Italia, si mostra ai giornalisti che la intervistano particolarmente imbarazzata ad assumere una posizione di netta condanna della Cina. E, arrampicandosi sugli specchi, si rifugia dietro la posizione del Dalai Lama, che coerentemente ha sempre sostenuto la necessità di non boicottare le Olimpiadi.
ro rasi al suolo dalle guardie rosse. Ganden, il più antico monastero fondato nel 1417 dal lama Tsongkhapa, ritenuto il fondatore della setta dei capelli gialli, alla quale appartiene la dinastia dei Dalai Lama, fu completamente smantellato dai giovani maoisti. Sera e Drepung, sedi di due delle più famose scuole di dialettica buddista, furono anch’essi distrutti dalle cannonate delle guardie rosse. Questi tre grandi monasteri sorgono vicino a Lhasa,la capitale millenaria del Tibet. Fino al 1959 Drepung ospitava 7 mila monaci, oggi ridotti a 700, e Sera da 5 mila a 600 monaci. Ogni giorno arrivano da Lhasa segnalazioni di torture e di uccisioni di monaci e suore. «Per protesta – denuncia Urgen Tenzin,direttore del Centro tibetano per i diritti umani - i nostri seguaci si sono tosati il capo, dopo una preghiera il 20 marzo a Dharamsaia. Il 22 marzo anche molti membri del parlamento tibetano in esilio si sono tosati la testa». Ma le richiesta di Amnesty, del Dalai Lama e del parlamento tibetano in esilio (l’immediato rilascio dei tibetani arrestati, cure mediche per le migliaia di feriti e l’accesso dei media alle zone delle violenze) non sono state prese in considerazione da Pechino.
È
Ma la guida spirituale dei tibetani, con questa politica diplomatica, da anni ha sempre cercato di ripristinare un filo di dialogo con il regime comunista cinese nel tentativo – lo ha ripetuto più volte - di fermare il genocidio culturale in corso da tempo in Tibet. Ma il ministro Bonino parla di «realtà complessa» e che non si può chiedere più di quanto sollecita il Dalai Lama e che, in ogni caso, bisogna premere per una presa di posizione europea. Al confronto, Ponzio Pilato è stato un campione di decisionismo perché almeno una posizione chiara ha avuto il coraggio di prenderla. Più netta ci è sembrata la posizione del presidente francese Nicolas Sarkozy, che non si è rifugiato nell’attesa di un pronunciamento europeo, dichiarando
espressamente che non sarà presente a Pechino per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, senza giri di parole alla Bonino ha detto che «la repressione cinese del Tibet non può essere tollerata». Ancora più chiara la posizione del presidente della Repubblica ceca, Vaclav Klaus, che ha annunciato di voler boicottare i Giochi olimpici di Pechino. Anche il vice premier del Belgio, Didier Reynders,non ha escluso la possibilità di un boicottaggio. Le reazioni alla repressione cinese del Tibet si allargano a macchia d’olio nel mondo. E dobbiamo prepararci, da oggi all’8 agosto, a molte sorprese, anche perché fin’ora le autorità cinesi non hanno dimostrato alcun ammorbidimento nella dura repressione in corso (135 gli assassinati accertati,migliaia gli arrestati e i torturati in Tibet e nelle altre regioni della Cina dove sono concentrate comunità tibetane ). Non solo, il governo cinese ha riaffermato l’intenzione di «intensificare l’educazione patriottica» nei mona-
steri tibetani dopo la rivolta delle due settimane scorse. «Lo scopo dell’educazione patriottica è di contrastare la cricca del Dalai (il capo del buddismo tibetano e Premio Nobel per la pace, lo ricordiamo, è in esilio dal 1959) che cerca con tutti i mezzi di bloccare lo sviluppo del Tibet e di sabotare le normali pratiche del buddhismo». A parlare così è il capo del Centro Lhagpa Phuntshogs, Dramdul, ovviamente filocinese. Questa sorta di «educazione patriottica», che significa semplicemente coercizione,con carcere e torture (e fucilazioni), i militari cinesi intendono attuarla in centinaia di monasteri tibetani e nelle vicine enclave tibetane. La rivolta, com ‘è noto, è partita dai monasteri di Drepung, Sera e Ganden, tra i più antichi del buddhismo tibetano e si è poi estesa alle regioni limitrofe del Sichuan, del Qinghai e del Gansu. Si tratta di «conventi» sopravvissuti alle grandi distruzioni di edifici religiosi nei primi anni della «rivoluzione culturale» dal 1966 al 1969, quando il 90% venne-
Una domanda ai radicali: non è un eccesso di realismo trincerarsi dietro la posizione del Dalai Lama, invece di alzare il tiro, avvertendo il regime cinese che non ha le mani libere?
Ci chiediamo se, in queste condizioni, sia possibile arrivare alle Olimpiadi di Pechino come se nulla fosse accaduto. Forse è il momento di dire basta con maggiore fermezza promuovendo un boicottaggio politico delle Olimpiadi. Questo non significa dire no ai Giochi. Siamo infatti consapevoli che migliaia di atleti si preparano da anni per questo importante appuntamento sportivo. Dobbiamo, con le iniziative più diverse, incoraggiare il dissenso politico e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. L’Unione europea deve uscire dal suo letargo, dalla sua impotenza, assumendo una iniziativa politica decisa e non inquinata da deteriori compromessi, per salvaguardare gli interessi economici. Un atto di dignità, di coraggio, che ci attendiamo, anzi che chiediamo con forza, al governo Prodi, ma anche ai candidati premier. Ci attendiamo una parola chiara di solidarietà con il Dalai Lama, con i tibetani in lotta per la loro sopravvivenza e per tutelare i diritti umani nella grande Cina, gravemente violati, ogni giorno. Un’ultima annotazione la dedichiamo alle associazioni e ordini dei giornalisti che, fin’ora,si sono pronunciati poco (e male). Come intendono tutelare i nostri colleghi giornalisti che si recheranno a Pechino? Quali garanzie si intendono chiedere alle autorità cinesi per assicurare agli inviati la libertà di raccontare, non solo gli eventi sportivi, ma anche tutto quello che accadrà in Cina? Attendiamo una risposta.
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L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Giorgia on my mind
SuperWalter, SuperSilvio e le Superdonne di Giancristiano Desiderio Il faccia faccia si farà, il faccia a faccia non si farà. Bruno Vespa aspetta e spera e strappa i petali delle prime margherite di una fredda primavera. Walter diventa SuperWalter come Pippo diventa SuperPippo: «Il dibattito tv sono pronto a farlo sulle sue reti, ma non scappi, non abbia paura». E Silvio che è da sempre SuperSilvio parte in quarta dimenticando le regole da galateo che i due superuomini si sono dati molto prima della campagna elettorale: «Veltroni è un comunista o, se volete, uno stalinista riciclato, di quelli che ricordano i negozi che chiudono per fallimento e il giorno dopo riaprono appendendo un cartello con scritto nuova gestione». SuperWalter, che ora ha anche l’inno I’m Pd (è come la Corazzata Potemkin per citare SuperWalter) grida: «Silvio non scappare». SuperSilvio ricorre ai superpoteri: «Io sono in grado di stracciare chiunque, perché sono un uomo del fare, gli altri fanno solo chiacchiere». Intanto Bruno Vespa continua: faccia a faccia sì, faccia a faccia no. Ma c’è un altro faccia a faccia che il Vespone vorrebbe: tra Daniele a Alessandra. Dopo le carezze che si sono scambiate («sei la valletta di Fini»; «zitta tu che sei politicamente orizzontale») verrebbe fuori un bel faccia a faccia. Tra superdonne.
di Arcangelo Pezza La nostra pasionaria preferita è Giorgia Meloni, jüngerianamente uno scoglio fermo in un mare agitato di veline e starlette, più carina della Melandri, più giovane della Bindi, più preparata della Brambilla, più sexy della Carfagna. L’idea migliore della campagna elettorale è la sua: un tir lungo 13 metri con la scritta “Acchiappasogni”. Verde sfumato, il camion di Azione giovani girerà la penisola inneggiando ironicamente alla “rivolta dei bamboccioni”. Attraverso un circuito interno di riprese (tipo videobox) verrà consentito ai giovani di lasciare i propri videomessaggi. Le testimonianze saranno poi raccolte in un unico dvd che verrà direttamente consegnato ai leader del Pdl, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Che capiscano che giovani più non sono. Bello il layout, il claim, la grafica giovanilistica ma non graffittara a tutti i costi, e bella pure la scriminatura centrale che incornicia il volto di Giorgia. Altro che Marianna Madia e la sua inesperienza al potere. La Meloni è una dal carattere irrobustito nelle sezioni periferiche romane di An. Perché far politica per una donna non significa sempre e solo saperla dar via o peggio far credere di averla data via. In definitiva, il truck acchiappasogni sta al pulman di Veltroni come un camionista americano sta a un guidatore di tram di Pomezia. Il truck acchiappasogni sta ai gazebo di Berlusconi come l’immaginazione al potere sta alla rivoluzione in pantofole. Il truck acchiappasogni sta ai Circoli della Libertà come Evola sta a Sturzo, o se preferite Pio Filippani Ronconi a Baget Bozzo. Siamo sicuri per questo che la Meloni farà breccia nei giovani, giovani di tutti i partiti, giovani che si sono rotti le scatole di una casta arrogante e insensibile, giovani che ancora sognano.
Non vi fidate dei sondaggisti? Fate bene. Meglio fare la ”media”, per sbarazzarsi di errori e propaganda
Il sondaggio dei sondaggi la media di oggi Demop. Crespi Demosk. Ipsos Dinamic. Lorien Swg 27 marzo
25 marzo
25 marzo
24 marzo
20 marzo
20 marzo
20 marzo
Pdl+Lega
Centro
Pd+Idv
Sin-Arc
Destra
Socialisti
44,4
6,1
37,1
7,0
2,4
1,2
7,0 6,5 7,0 6,5 7,5 7,2 7,5
2,5 4,0 2,0 2,1 2,0 2,0 2,5
2,0 1,0 0,7 1,3 1,0
(=)
(-0,2)
(-0,1)
44,5 44,0 46,0 44,8 44,1 44,4 43,0
6,0 6,0 6,0 6,0 6,3 7,1 5,5
38,0 36,5 37,5 38,3 36,8 35,2 38,0
(=)
(+0,4)
(=)
La “media di oggi”è calcolata sugli ultimi sette sondaggi di istituti diversi. Queste le coalizioni presunte: PdL con Lega e Mpa, Pd con Idv e Radicali, Udc con Rosa bianca, Destra e Socialisti da soli. La data è relativa all’ultimo giorno in cui è stato effettuato il sondaggio.
di Andrea Mancia Due nuovi sondaggi pubblicati ieri. Il primo è quello di Crespi Ricerche sulle intenzioni di voto del 25 marzo. Rispetto all’ultimo sondaggio Crespi (19 marzo), le due coalizioni guidate da Berlusconi (44%) e Veltroni (38,5)guadagnano lo 0,1% ciascuna, lasciando il distacco invariato al 7,5%. Immobili anche Sinistra Arcobaleno (6,5%), Unione di Centro (6%), Destra (4%) e Socialisti (2%); con questi ultimi due partiti nettamente sovrarappresentati rispetto alla media degli altri sondaggisti. Il secondo sondaggio è quello effettuato da Demopolis per alcuni quotidiani locali sulle intenzioni di voto del 22-27 marzo. Rispetto al sondaggio dello stesso istituto di ricerca concluso il 18 marzo, sia PdL+Lega
(44,5%) che Pd+Idv (38%) guadagnano mezzo punto percentuale. La distanza tra coalizione di Berlusconi e quella di Veltroni, dunque, resta stabile al 6,5%. Perde qualcosa, invece, la Sinistra Arcobaleno che passa dal 7,5% al 7%. Ferme sulle loro posizioni Udc (6%) e Destra (2,5%). Mentre i Socialisti, che erano all’1%, questa settimana sono stati ”sciolti” negli Altri (2%). Nella nostra tabella, i sondaggi di Crespi e Demopolis prendono il posto di quelli Gipieffe e Digis del 20 marzo. Le medie non cambiano moltissimo: PdL+Lega, Sinistra Arcobaleno e Socialisti rimangono stabili; l’Unione di Centro perde lo 0,2%; Pd+Idv perdono lo 0,1%; la Destra cresce dello 0,4% (merito dell’“effetto-Crespi”).
28 marzo 2008 • pagina 9
L’ITALIA AL VOTO ROMA. Professore associato di etica alla facoltà di filosofia di Roma la Sapienza, editorialista del quotidiano il Riformista Claudia Mancina si occupa da anni di temi bioetici e fa parte del Comitato nazionale di bioetica. Con lei proseguiamo il viaggio che liberal sta facendo dentro questa dimensione rimossa dalla politica italiana. Professoressa Mancina è d’accordo sul fatto che i temi bioetica siano i grandi assenti di questa campagna elettorale? Che ci sia una specie di silenziatore sulle questioni bioetiche è in parte vero. Il centrosinistra le evita perché il Partito democratico è il frutto di un’alleanza recente che ancora non si è del tutto stabilizzata tra cattolici e sinistra e che ha bisogno di tempo per far crescere un confronto e maturare una sintesi su questi temi. Ma oltre a questo c’è un altro elemento la presenza di una lista, quella di Giuliano Ferrara, che ha estremizzato le posizioni, le ha talmente drammatizzate da rendere impossibile un dibattito politico costruttivo su questi temi. Lo stesso Berlusconi si è ritirato da una possibilità di alleanza con la lista di Ferrara. Lei ha detto che nel Pd si prende tempo per affrontare politicamente i temi bioetica, però i temi bioetici aprono dialettiche interne molto forti dentro il centrosinistra. Questo è accaduto soprattutto alla fine della legislatura ma non mi sembra stia accadendo anche in questa campagna elettorale. E comunque io ho criticato il fatto che durante le primarie del Pd non si siano affrontati temi bioetici. Anche se sarebbe ingiusto accusare Veltroni di reticenza: aprendo il Pd ai radicali ha fatto una scelta audace che gli è costato lo scontento e il dissidio dei cattolici. A proposito di dissidi quali saranno i primi temi eticamente sensibili a far emergere le divisioni che su questi temi attraversano orizzontalmente gli schieramenti politici? Non la legge 194 per fortuna. Infatti per la prima volta dopo 30 anni nessuno mette in discussione questa legge. Nemmeno Giuliano Ferrara. E questo è un fatto, mi permetta di dire, importante. Ci saranno tensioni probabilmente quando ci si dovrà confrontare con iniziative legislative sul tema del testamento biologico. A proposito di legge 194 la presidente dell’associazione Scienza e vita Maria Luisa Di Pietro ha detto a liberal che non si riesce a capire per quale motivo gli stessi che ritengono quella sull’aborto una legge immodificabile vogliano assolutamente mettere mano alla legge 40 che è molto più recente. Sinceramente trovo abbastanza peregrina la comparazione tra legge 40 e 194. Il principale argomento a favore della 194 è che questa legge ha operato bene per 30 anni, il principale argomento contro la legge 40 è che è una legge inapplicabile perché rende impossibile la procreazione assistita, costringendo
La legislatura bioetica. Le previsioni degli esperti/3 Claudia Mancina
Il confronto si aprirà sul testamento biologico colloquio con Claudia Mancina di Riccardo Paradisi
La storica visita di Giovanni Paolo II al Parlamento italiano il 14 novembre 2002. A sinistra Claudia Mancina
“
Una politica con soggetti forti sarebbe molto meno esposta a pressioni da parte delle gerarchie cattoliche. Con un sistema più solido sarebbe anche più proficuo il dialogo le persone ad andare all’estero. Nel referendum a cui lei accenna era anche presente la questione di libertà di ricerca sugli embrioni. Anche in questo caso la bioetica, come la società e la comunità degli scienziati, è divisa sullo statuto dell’embrione. Il risultato è l’interruzione di ogni sperimentazione. Ora, può darsi che la ricerca internazionale arrivi a considerare valida e proficua la ricerca sulle cellule staminali adulte e ne saremmo tutti felici credo, però il fatto che per una proibizione a priori agli scienziati non venga lasciato un margine per verificare altre strade è un grave ostacolo che si frappone alla ricerca scientifica. Proibizione che si estende anche alla ricerca gli embrioni soprannumerari e criocongelati che verranno comunque distrutti. C’è chi dice però che non è possibile verificare la morte di quegli embrioni. Che non c’è un certificato di morte per l’embrione. Non c’è un certificato di morte perché l’embrione non ha nemmeno un certificato di nascita. Vede c’è molta differenza tra l’approccio di chi pensa di dover
”
resistere sulle sue posizioni fino all’ultimo con le armi in mano e quello di chi invece cerca di ragionare. Su eutanasia testamento biologico le posizioni cattoliche sono fermamente contrarie. Certo ma stiamo attenti a non confondere eutanasia e testamento biologico. Sono cose diverse. E poi nessuno propone l’eutanasia in questo Paese. Le proposte in discussione sono sul testamento biologico, sul rifiuto dell’accanimento terapeutico. L’eutanasia è un’altra cosa e c’è solo in tre Paesi europei. Tra questi non c’è l’Italia. C’è invece chi teme anche per l’Italia una ”deriva zapaterista”come l’ha definita su liberal Francesco D’Agostino Mi sentirei di tranquillizzare D’Agostino. Quelli che guardano alla Spagna come modello infatti sono delle piccole minoranze. Persino le associazioni omosessuali italiane si limitano a chiedere le unioni civili, in vigore in 18 Paesi europei, non hanno mai avanzato richieste sulle adozioni, che non troverebbero peraltro maggioranze disposte a favorirle. Detto questo non accorgersi
che anche in Italia – dove semmai il rischio è un eccesso di subalternità all’etica cattolica – la famiglia è cambiata mi sembra miope. Un’ultima cosa: parlare di “derive” a proposito delle politiche di Zapatero non mi sembra corretto visto che le scelte di Zapatero sono state confermate da un altissimo numero di spagnoli. Subalternità all’etica cattolica lei dice. C’è un’eccesso di ingerenza della Chiesa nelle questioni politiche italiane secondo lei? Personalmente sono sempre stata contraria a queste accuse di ingerenza che spesso sono generiche e poco centrate. Si parla di ingerenze quando il Papa fa un discorso ma è evidente che il papa ha il diritto e il dovere di esprimere il punto di vista della chiesa. Credo piuttosto che esista un problema di eccessiva politicizzazione della conferenza episcopale. Mi preoccupano le indicazioni politiche che vengono date ai politici da questo organismo in un momento peraltro in cui la politica è molto debole. Una politica con soggetti politici forti sarebbe molto meno esposta a pressioni e molto più aperta al dialogo. Se da queste elezioni o dalla prossima riforma elettorale uscirà un sistema politico più robusto questo potrà dare origine a una stagione di maggiore equilibrio anche nei rapporti tra mondo cattolico e mondo politico.
mondo
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Al Maliki e Sadr stanno ridefinendo posizioni e rapporti di forza in vista delle elezioni di ottobre
La guerra sciita a Bassora di Stranamore
Q
uella in corso a Bassora ed in altre parti dell’Iraq, inclusa la periferia orientale di Bagdad è, al di là della retorica bellicista del governo di Nuri al-Maliki, un regolamento di conti tra fazione sciite di lotta e di governo. Perché a combattere sono le formazioni su base sciita dell’esercito regolare contro le milizie sciite dell’esercito Mahdi. E non è neanche una vera battaglia, almeno non secondo gli standard occidentali, anche se gli scontri sono relativamente intensi. Non si è mai visto infatti che dopo l’avvio di una grande operazione militare, strombazzata come risolutiva per il controllo della regione meridionale del Paese e per risolvere il problema costituito dall’esercito Mahdi - la milizia paramilitare dell’estremista filoiraniano Moqtada Sadr - si passi alla trattativa politica sotto l’ombrello di un ultimatum di addirittura 72 ore. Per non parlare della rinuncia a qualsiasi effetto “sorpresa”. Questo è un no go militare, perché nell’arco dei tre giorni, visto che Bassora, città di 2,6 milioni di abitanti, è tutt’altro che sottoposta alla morsa di un vero assedio, può accadere di tutto, soprattutto che le milizie di Mahdi riescano a sganciarsi, salvo poi rinascere tra qualche tempo e magari in un’altra zona del Paese. E Moqtada Sadr è, more solito, scomparso. Ma questo è il modo in cui gli sciiti stanno ridefinendo le proprie posizioni e rapporti di forza in vista delle elezioni parlamentari di ottobre. Il governo di al Maliki ha ottimi motivi per lanciare il suo tutt’altro che affidabile strumento militare in questa impresa. Da un lato, sempre in chiave politica, vuole dimostrare che il governo centrale è in grado di esercitare un effettivo controllo in ogni parte del Paese. Anche in questo senso va letta la deposizione dei vertici delle corrotte, inefficienti ed infiltrate forze di polizia di Bassora alla vigilia dell’offensiva. Al Maliki sostiene di agire affrancato dagli “stranieri”, dalle forze americane. La realtà è naturalmente un po’ diversa, i reparti iracheni vanno in azione contando sul supporto di fuoco, aereo, intelligence e in parte logistico fornito dagli Stati Uniti e in ogni unità irachena ci sono
Miliziani Mehdi armati del movimento radicale sciita di Moqtada Sadr, inneggiano al loro leader. Sadr ha esortato in passato i suoi seguaci a continuare a combattere contro gli americani anche se lui sarà ucciso
Se il governo riesce, con le buone o le cattive, a riprendere il controllo della città, potrà poi salvaguardare e sfruttare la zona petrolifera
consiglieri americani. Ma certo si tratta di una operazione indipendente e su vasta scala che non ha precedenti. L’esercito iracheno però è ancora poco affidabile e con capacità operative limitate. Anche se l’avversario è tutt’altro che formidabile, c’è da sperare che reparti, co-
mandanti e truppe abbiano la “stamina” per sostenere nel tempo le operazioni. Un fallimento sarebbe catastrofico. Se il governo riesce, con le buone o le cattive, a riprendere il controllo di Bassora potrà poi salvaguardare e sfruttare appieno la zona petrolifera, le raf-
Oltre cento donatori si sono presentati all’ospedale di Fallujah. Tra loro molti funzionari governativi
I sunniti raccolgono sangue per i “cavalieri” NELLA
CITTÀ SUNNITA di Fallujah è stata lanciata una campagna di raccolta di sangue per le vittime delle violenze nel sud sciita dell’Iraq. «Oltre cento donatori, tra cui alcuni funzionari governativi, si sono presentati all’ospedale di Fallujah per donare il sangue ai loro fratelli vittime delle violenze di Bassora e in tutto il sud» ha detto Ali Kheirallah dirigente dell’associazione non governativa di beneficenza al Yatim (l’Orfano). La campagna è stata annunciata «dagli altoparlanti delle moschee della città con gli imam che invitavano la popolazione “a contribuire con il loro sangue” alla campagna nazionale di solidarietà con le vittime delle violenze a Bassora». Si tratta di uno dei gesti più eclatanti e sorprendenti che spiegano la radicale inversione di tendenza rispetto
alla guerra settaria infuriata per due anni in Iraq. Da martedì scorso Bassora, la seconda più grande città irachena, è teatro di violenti scontri tra le forze governative e miliziani sciiti dell’esercito al Mahdi che hanno provocato decine di morti e feriti. Imboscati nelle viuzze della loro roccaforte Sadr City, i miliziani sciiti di Muqtada al Sadr indossano di nuovo le loro uniforme nere. È la fine di una lunga tregua durante la quale si erano tolti le divise scure che contraddistinguono l’esercito di al Mahdi. «Non perseguiremo chi deporrà le armi nelle prossime 72 ore», ha annunciato Nouri al Maliki, il premier sciita che gode del sostegno americano. «Se non consegneranno le armi, la legge seguirà il suo corso». Silvia Zorza
finerie, i terminali che oggi rischiano di diventare ostaggi e preda delle lotte tra milizie sciite, come conferma puntualmente l’attentato di ieri ad uno degli oleodotti più importanti. E comunque ridimensionerà il ruolo di Moqtada Sadr. C’è un altro motivo che ha suggerito ad Al Maliki di agire ora: Moqtada Sadr è in difficoltà, ha sbagliato a trascorrere troppo tempo in Iran in esilio volontario “autoprotettivo”. Nel frattempo il suo movimento ha perso coesione, alcuni capetti hanno velleità di indipendenza, ci sono stati anche scontri armati e ciò spiega il perché del cessate il fuoco unilaterale (che alcuni gruppi peraltro non rispettano), mentre è in corso una riorganizzazione politica e militare. In questo scenario il ruolo dei burattinai di Teheran conta fino ad un certo punto: la parola ormai è passata alle armi. Naturalmente a Washington non dispiace affatto che sia Al Maliki a togliere o rendere meno pungente la spina Moqtada Al Sadr… sempre che l’operazione Saulat al Fursan, la “Carica dei Cavalieri”di Al Maliki, si concluda con un successo, se non con una vittoria.
mondo
28 marzo 2008 • pagina 11
Zimbabwe sabato al voto. Il Paese è al collasso, l’inflazione alle stelle
Mugabe verso la vittoria senza osservatori stranieri di Stephanie Hanon ello Zimbabwe l’unica cosa ancora più incredibile dell’astronomico tasso di inflazione - ufficialmente superiore al 100mila percento - è il fatto che il presidente Robert Mugabe sia ancora al potere. Mentre l’economia del Paese affondava, il presidente si assicurava i favori dei sostenitori distribuendo cariche politiche importanti e stampando denaro. Oggi, però, alla vigilia delle elezioni del 29 marzo questo sostegno non appare più così certo. C’è grande fermento per la candidatura di Simba Makoni, ex ministro delle finanze che a febbraio è stato espulso da Zanu-Pf, il partito di maggioranza, dopo l’annuncio della sua candidatura. Appare improbabile che Makoni possa vincere le elezioni - anche perché nessuno si aspetta che siano libere e regolari - ma la sua defezione è il segnale di una frattura all’interno di Zanu-pf che, secondo gli esperti, potrebbe coinvolgere altri gruppi ritenuti fedeli a Mugabe. Il presidente, di fronte a questo calo di sostegno, appare sulla difensiva. Nel periodo pre-elettorale il governo dello Zimbabwe ha aumentato lo stipendio delle forze di sicurezza e ha acquistato macchinari per l’agricoltura, con il risultato che il debito governativo è cresciuto di 65 volte in sei settimane. Secondo l’Institute for War and Peace Reporting, Mugabe ritiene che un certo numero di militari di alto grado e funzionari dei servizi segreti si siano schierati dalla parte di Makoni. Molte istituzioni politiche dello Zimbabwe sono oggi sotto il controllo delle forze di sicurezza e quindi eventuali spostamenti di alleanze potrebbero creare grossi problemi al presidente. Oltre a fare i conti con il dissenso all’interno del suo
N
Nel periodo pre-elettorale il governo ha aumentato lo stipendio delle forze di sicurezza e ha acquistato macchinari per l’agricoltura. Ma il consenso è in calo partito, Mugabe deve affrontare la sfida lanciata da Morgan Tsvangirai, ex candidato presidenziale e leader del partito di opposizione Movement for the Democratic Change. Negli ultimi dieci anni Tsvangirai ha raccolto molti consensi ed è sostenuto da una efficiente macchina elettorale locale. Un sondaggio del Mass Public Opinion Institute, un gruppo dello Zimbabwe, attribuisce a Tsvangirai il sostegno del 28 percento della popolazione e a Makoni il 9 percento, anche se bisogna considerare che il 42 percento degli intervistati si è rifiutato di rispondere. Un editoriale pubblicato dallo Zimbabwe Independent ha preso in esame i raduni elettorali di Makoni e Tsvangirai che si sono svolti negli stessi luoghi e ha concluso che la scarsa partecipazione ai raduni di Makoni ha rivelato la «mancanza di gradimento popolare e i limiti della sua campagna». Naturalmente, se le elezioni sono truccate o se la popolazione ha paura di votare per l’opposizione, il sostegno per uno o l’altro candidato non avrà alcuna rilevanza. Il governo controlla la maggior parte dei media. Attualmente Zanu-Pf, che ha condotto la guerra contro la supremazia dei bianchi nell’ex Rhodesia, ha
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Tensioni intercoreane La Corea del Nord ha espulso dei funzionari sudcoreani dalla zona industriale amministrata in comune dai due Paesi nella città nordcoreana Kaesong vicina alla frontiera. Alla base del gesto ci sono le dichiarazioni del nuovo ministro sudcoreano per la riunificazione Kim Ha Joong, secondo cui Seul farà dipendere lo sviluppo del complesso industriale dal disarmo atomico di Pyongyang.
Olimpiadi/1 Londra sarà a Pechino Londra non ha intenzione di boicottare i giochi di Pechino e la cerimonia di apertura delle Olimpiadi. Lo ha dichiarato il primo ministro britannico Gordon Brown in una conferenza stampa tenuta insieme al presidente francese Nicolas Sarkozy, che nei giorni scorsi non ha invece escluso tale possibilità.
Olimpiadi/2 Varsavia boicotta Il premier polacco Donald Tusk ha deciso di boicottare la cerimonia di apertura dei giochi olimpici a Pechino il prossimo 8 agosto. «Non ho nessuna intenzione di partecipare all’inaugurazione» ha detto lo stesso Tusk in una intervista al quotidiano Dziennik, sottolineando come consideri «inappropriata» la presenza di politici a Pechino vista la situazione in Tibet. Secondo il quotidiano, il ministero degli Affari Esteri polacco sta preparando un’offensiva diplomatica per spingere l’Unione Europea ad assumere una posizione più decisa sulla difesa dei diritti umani in Cina.
La Svizzera sostiene l’indipendenza del Kosovo Un momento della campagna elettorale di Mugabe in mano il controllo della distribuzione degli alimenti sovvenzionati che viene effettuata in base alla fedeltà al partito e la popolazione vive nel terrore dell’apparato di sicurezza del governo. Un nuovo rapporto di Human Rights Watch ha denunciato il clima di intimidazione contro i candidati dell’opposizione.
La mancanza di trasparenza del processo elettorale e il clima politico incerto hanno indotto gli analisti a esprimere preoccupazione per le conseguenze del voto. Alcuni ritengono che Mugabe farà ricorso alla violenza se non riuscirà a vincere al primo turno oppure nel caso di elezioni contestate. «Sino ad ora la violenza è stata abbastanza contenuta, ma se le elezioni dovessero andare al secondo turno il livello salirà immediatamente», ha dichiarato all’Economist un ex ministro di Zanu-Pf che si è schierato con Makoni. Sydney Masamvu dell’International Crisis Group ha dichiarato al Council on Foreign Relation che, «nell’eventualità di un secondo turno elettorale, è probabile che Zanu-Pf e le forze di sicurezza sosterranno Makoni». Gli esperti sostengono che gli attori internazionali, a cui è stato negato l’invio di osservatori, dovrebbero iniziare a prepararsi per quello che avverrà dopo le elezioni ed all’eventualità di una transizione ad un governo post Mugabe. L’International Crisis Group in un nuovo rapporto ha proposto l’African Union come possibile mediatore tra i candidati presidenziali nel caso di elezioni contestate. Ma certo, dopo il recente fallimento di Mbeki - che di fatto ha dato il “la” a Mugabe per indire nuove elezioni, la situazione non è delle migliori. Un recente Council Special Report auspica che gli Stati Uniti guidino la creazione di un fondo comune internazionale per sostenere il processo di riforme e ricostruzione da parte del governo di transizione. Al momento, comunque, rimangono tutte in piedi le sanzioni contro il Paese. Gli Usa e la Ue, oltre a un embargo di forniture militari e armi, hanno congelato i beni di Mugabe e di 131 stretti collaboratori, vietandogli di viaggiare sul suolo americano ed europeo (anche se qualche deroga è stata concessa). Direttore news del Cfr.org
La Svizzera vuole svolgere un ruolo attivo nell’amministrazione internazionale del Kosovo. Lo ha dichiarato a Pristina Lukas Beglinger, ambasciatore svizzero in Kosovo, secondo cui il suo Paese ha un forte interesse affinchè il nuovo Stato si affermi politicamente ed economicamente.
Uranio impoverito in Colombia Unità della polizia e dell’esercito della Colombia hanno sequestrato circa 30 chilogrammi di uranio impoverito appartenenti ai ribelli delle Farc trovati in una zona non lontana dalla capitale Bogotà. Secondo quanto annunciato dal ministero della Difesa colombiano, le informazioni relative all’esistenza del deposito di uranio impoverito sono state trovate in uno dei computer appartenenti a Raul Reyes, il numero due delle Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia ucciso durante il raid delle forze speciali colombiane in territorio ecuadoregno il primo marzo scorso.
Ucraina, cade elicotero militare Sono dodici le vittime causate dalla caduta di un elicottero militare, un Mi-8, nel Mar Nero, in Ucraina. Lo riferisce l’agenzia Interfax. I loro corpi sono stati tutti ritrovati. Solo una persona è sopravvissuta nell’incidente, di cui sono ancora ignote le cause.
Scandalo corruzione in Bulgaria Un nuovo scandalo complica gli sforzi della Bulgaria di scrollarsi l’appellattivo di ”sorvegliato speciale” da parte della Commissione europea. Al centro della bufera vi è il governo di Sofia che rischia la crisi a causa dell’arresto di due alti funzionari di polizia accusati di abuso di potere. Possibili implicazioni del ministro degli Interni Rumen Pektov nell’affare. Iliev e Ivanov sono accusati di abuso di potere dopo le intercettazioni telefoniche pubblicate dalla stampa, secondo cui Ivanov avrebbe avuto contatti illegali con criminali ed avrebbe rivelato informazioni su operazioni di polizia per proteggere gli interessi dei principali protagonisti dell’economia sommersa.
Attivismo globale di Sarkozy e Brown Il presidente francese Sarkozy e il primo ministro britannico Brown hanno inaugurato una entente amicale, con molte prospettive internazionali ma senza grandi intese bilaterali. I due leader hanno preso in considerazione la possibilità di norme più rigide per i mercati finanziari e la gestione civile di eventuali future situazioni di crisi. Brown ha parlato di una «visita storica», Sarkozy di «coraggiose aperture». Sarkozy e Brown sono però ancora alla ricerca di una entente con le rispettive opinioni pubbliche nazionali.
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speciale approfondimenti
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Una storia mai raccontata: quella dei nostri connazionali vittime della Stasi. La terribile polizia segreta della Germania dell’Est
LE VITE DEGLI ALTRI (ITALIANI) di Anna Maria Minutilli l centro della Laussitzer Berge, nella Sassonia orientale tra lande e laghi solitari, 60 Km a est di Dresda, c’è una graziosa cittadina di cinquantamila abitanti: Bautzen. Nonostante le sue meravigliose bellezze naturali ed architettoniche, il suo nome evoca l’immediato accostamento con quello del famoso carcere, detto «miseria gialla» dal colore dei mattoni con cui è stato costruito. Accanto, ai tempi della Ddr, ne esisteva un altro: Bautzen II, nella Maettigstrasse, il penitenziario riservato della Stasi. All’interno delle sue mura furono detenuti anche diversi italiani.
A
Il caso Elena Sciascia Il primo caso fu quello di una donna, Elena Sciascia nata a Berlino nel 1935 da madre tedesca e padre italiano. Aveva lavorato dal 1935 al 1963 presso il consolato generale italiano, usufruiva di un pass e di un permesso di lavoro per tutto il territorio della Germania orientale, in cui aveva spesso lavorato come indossatrice ed interprete. In occasione della fiera di Lipsia, nel 1959, due anni prima della costruzione del muro, Elena conobbe la signora Eva Sturm di Berlino est, la quale occupava una posizione di rilievo nell’ambito del settore tessile della Germania orientale. L’amicizia fra le due donne si consolidò negli anni, al punto che quando nel 1974 Eva decise di tentare la fuga all’ovest si rivolse proprio ad Elena, e questa si impegnò personalmente ad aiutarla. La signora Sciascia non aveva alcun contatto con gli ambienti anticomunisti e non era particolarmente interessata alla politica prima di conoscere la sua amica. Ma alla richiesta di aiuto da parte di Eva Sturm, che viveva un momento critico sul piano personale e politico, non solo non si sentì di rispondere negativamente ma si rivolse anche ad un’organizzazione che si impegnava ad organizzare le fughe dal settore
orientale di Berlino. Il 14 febbraio del 1974, Elena era tranquilla. Attraversò il muro, cioè il confine, si recò a casa di Eva per comunicarle il punto di incontro, ma giunta a destinazione ebbe un’inaspettata sorpresa: la porta era stata sigillata, segno che Eva era stata arrestata. Capì subito che il tentativo di fuga era stato scoperto.Tornare indietro fu inutile. Giunta a pochi metri del checkpoint Charlie (la frontiera tra i due settori della città), fu fermata da due poliziotti in borghese che le mostrarono il contrassegno della Stasi, e le chiesero con fermezza di seguirli «per un breve interrogatorio». La Sciascia dovette mostrare il suo passaporto italiano e salire sulle loro auto. Venne condotta nella sezione femminile del carcere preventivo della Stasi nel quartiere di Berlino-Hoheschönhausen (casa alta e bella, in tedesco), fu costretta a spogliarsi completamente, dovette indossare una tuta e a quel punto confessò.Venne protocollato tutto e dovette firmare ogni pagina. A Hohenschönhausen Elena rimase sei mesi in isolamento, non poteva né leggere né parlare con alcuno, il
giorno passato sulla branda a guardare il soffitto, le fu concesso di scrivere a casa, ogni tanto. Questo fino al processo, nel settembre del 1974 che fu breve (durò solo un giorno) e a porte chiuse. Per la prima volta ritrovò Eva. Il difensore d’ufficio era lo stesso avvocato Vogel che faceva da tramite nella «vendita» di dissidenti alla Germania Ovest. Di tutti gli incartamenti processuali, Elena potè vedere solo i protocolli, ma non l’atto di accusa né la sentenza che ha potuto leggere solo dopo il suo rilascio. Con la rappresentanza diplomatica italiana non potè avere alcun contatto. Il viceconsole la cercò, ma quando infine la trovò, non potè assistere al processo. Elena ed Eva furono entrambe condannate a sette anni e mezzo, l’una per tentata fuga, l’altra per «commercio di persone ai danni dello Stato». Pena da scontare in due prigioni diverse. La Sciascia finì nel carcere di Bautzen II, in Sassonia, in compagnia di ladre, prostitute e donne coinvolte in altri tentativi di fuga. Non subì alcuna violenza fisica, ma fu costretta a lavorare nove ore al giorno all’assemblaggio di pez-
Una telefonata, un gesto, un errore. Bastava poco per precipitare in un incubo cibo era pessimo e perse molti chili. Tutti i giorni veniva interrogata per tre ore dagli agenti della Stasi, ogni mattina, in modo ossessivo, ripetitivo, gli interrogatori erano condotti da una coppia di agenti, che volevano sapere sempre la stessa cosa: come operava l’organizzazione a cui si era rivolta per far passare nel mondo libero la sua amica. Per tre ore le venivano puntati sul viso riflettori accecanti, mezz’ora d’aria e il resto del
zetti elettrici componenti di motori di ascensore e la prospettiva di passare così sette anni con un minimo compenso che le permetteva di acquistare burro, latte e salsicce. Parte del denaro non speso, guadagnato a Bautzen, in cattività, potè portarselo via, al momento del rilascio come triste ricordo... Gli anni che scontò, escluso l’isolamento, furono solo due, ma non per interessamento dell’Italia. Fu la Repubblica federale tedesca a
pagare 80 mila marchi di riscatto e ad ottenere il suo rilascio. La libertà arrivò nel dicembre 1977. Ridotta a soli cinquanta chili di peso (era alta un metro e settantasette) fu colpita da un ictus subito dopo la liberazione. Poi la lenta convalescenza, il matrimonio con il tedesco Dieter Gratker e la cittadinanza tedesca. Seguì una paresi del lato sinistro e gravi disturbi alla parola tanto che cominciò a balbettare, non riuscendo più a esprimersi in italiano e a coordinare i movimenti: questo le accadeva al mattino, segno che gli ossessionanti interrogatori ed i riflettori puntati per ore sul suo volto le avevano provocato problemi neurologici che l’avrebbero accompagnata fino alla morte avvenuta nel 2005.
Il caso Graziano Bertussin Il secondo caso riguarda Graziano Bertussin. Nato a Isola d’Istria il 7 novembre 1943. Arrivò a Sylt nel ’65 con un contratto stagionale, grazie all’aiuto di alcuni amici italiani, si trasferì poi a Berlino, dove trovò lavoro come uomo delle pulizie in un albergo. A Berlino, Graziano cambiò spesso lavoro. All’inizio del 1967 fu assunto come magazziniere in una caserma inglese a Berlino ovest. A Pasqua di quello stesso anno, durante una visita al settore orientale di Berlino, fotografò, forse per averne un souvenir, l’ambasciata vietnamita dalle cui vetrine era visibile materiale di propaganda (quello fu un periodo cruciale per la guerra in Vietnam). Nella Ddr era vietato scattare foto alle ambasciate. Bertussin dichiarerà poi, in un’intervista, di non ricordare se avesse fotografato l’ambasciata vietnamita o quella albanese, né se nella foto comparisse materiale di propaganda o se avesse scattato la foto proprio per quel materiale. Lì attorno non c’erano caserme né obiettivi militari, inoltre, non aveva scattato la foto di nascosto, ma sotto gli occhi di un poliziotto che montava la guardia all’edificio. La Stasi avrebbe fabbricato ad arte le accuse nei
suoi confronti, basta leggere la sentenza che alterava gravevemente quanto accaduto: «L’accusato era stato istruito ad attirare su di sé l’attenzione del ministero per la Sicurezza fotografando edifici di sedi diplomatiche e statali, sedi di istituzioni nella capitale. Per aumentare l’interesse del ministero per la Sicurezza, Bertussin dovette accettare un rapporto di lavoro presso le truppe d’occupazione britanniche o statunitensi. A tale scopo il viceconsole d’Italia lo mise in contatto con la Cia. All’inizio del 1967 egli si impiegò in una caserma inglese, la Alexander Barracks di Berlino ovest. Nel marzo dello stesso anno ebbe dal servizio segreto inglese l’ordine di fotografare, facendosi notare, l’edificio della televisione tedesca o le ambasciate cinese o vietnamita. In caso di arresto si sarebbe dovuto qualificare come cittadino italiano di idee di sinistra al fine di conquistare la fiducia del ministero per la Sicurezza e ottenere il risultato di rimanere in contatto con gli organi di Sicurezza». Arrestato dalla Stasi, forse perché costretto o, molto più probabilmente, per leggerezza giovanile o spirito di avventura, Bertussin raccontò in seguito di quanto allora fosse sicuro «che mi avrebbero rilasciato, non mi sembrava che facessero sul serio, mi sembrava impossibile, ma dopo poche ore mi resi conto che la situazione era molto brutta e non era possibile mettersi in con-
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te nulla per sostenere il progetto delle due ragazze. Ciò nonostante, fu accusato di averle aiutate. Pirri quando fu arrestato aveva 25 anni, venne condannato a sedici mesi ma ne scontò quattordici: una parte nel carcere di Pankow e il resto nel penitenziario berlinese di Rummelsburg. Il trattamento, anche per lui, fu durissimo. Per ben quattordici mesi non fu messo in condizione di poter scrivere ai suoi genitori in Calabria, era obbligato ai lavori forzati con il cottimo pressante. Dall’Italia, mentre era recluso, arrivarono a Berlino Est sua sorella e suo fratello, ma non ebbero il permesso di visitarlo. Durante gli interrogatori e in più occasioni, ebbe la forza di reagire a chi tentava di coinvolgerlo in azioni e cose che non aveva mai nè pensato, nè fatto. Anche dal consolato generale d’Italia di Berlino Ovest non ricevette alcuna visita nè alcun segnale di attenzione per il dramma in cui era precipitato.
Il caso Timo Zilli
L’attore tedesco Ulrich Muhe, da poco scomparso, fu il protagonista del film ”Le vite degli altri”. Oscar 2007 come miglior film straniero. Nella foto piccola a destra il simbolo della Stasi tatto con nessuno…». Commise l’errore di accettare, in cambio del rilascio, di diventare una spia per conto della Stasi, promettendo di procurare materiale e informazioni sui segreti occidentali di Berlino ovest. Fornì delle storie inventate, ma fu scoperto e dovette subirne le conseguenze. Innanzitutto con torture fisiche e psicologiche e, sotto la minaccia costante della condanna a morte, venne costretto ad una falsa confessione: dovette cioè dichiarare di essere stato tenente del servizio segreto italiano, reato per il quale venne condannato a dieci anni di reclusione in quanto «spia». Ripetutamente aveva chiesto di avere un avvocato e un contatto con l’ambasciata italiana, ma senza successo. Quando tutto era già stato stabilito e deciso, poco prima del processo, la Stasi gli comunicò che sarebbe venuto un avvocato e che doveva fare attenzione a quanto gli avrebbe detto perché, nel caso avesse cambiato versione, avrebbero ricominciato tutto dall’inizio. Nel momento in cui si trovò dinanzi (anche lui come Elena Sciascia) l’avvocato Vogel, temette che la Stasi avesse piazzato qualche microfono per registrare quanto avrebbe detto. Era dubbioso se dire la verità o inventarsi qualcosa. Non aveva mai
visto l’avvocato Vogel e conosceva solo il suo nome, rimase stupito di come fosse vestito elegantemente nella austera Ddr e che avesse persino un bracciale d’oro. Alla fine Bertussin, temendo che l’avvocato fosse un agente della Stasi e che se avesse ritrattato sarebbe cominciato per lui un secondo calvario, alla domanda se fosse un agente segreto, rispose affermativamente. Quando fu introdotto nell’aula del tribunale dove si svolgeva il suo processo, fu anche informato che l’avvocato Vogel non sarebbe stato presente. Al suo posto si presentò un certo avvocato Kanert. Durante il processo Bertussin dovette ripetere tutto ciò che gli era stato estorto con la continua minaccia di morte, sotto forma di confessione. Fu condannato a dieci anni di detenzione per spionaggio. Di quei dieci anni ne scontò poi solo 4 e mezzo a Bautzen II, probabilmente poiché in quel periodo la Ddr voleva essere riconosciuta sul piano internazionale. Un giorno Graziano Bertussin fu fatto salire su un furgone con altri dieci detenuti e venne trasferito nella prigione di Berlin-Rummelsburg. Insieme agli altri prigionieri furono riuniti in una stanza doeve i funzionari della Stasi cominciarono a istruirli. Comunicarono loro che
sarebbero stati rilasciati e che, una volta fuori, non avrebbero dovuto parlar male della Ddr. Dopo tre giorni trascorsi a Rummelsburg, venne liberato. Era il 14 novembre 1972. Ufficialmente, aveva beneficiato di un’amnistia. Era rimasto in carcere complessivamente per quattro anni e mezzo.
Il caso Pirri Natale Pirri, originario di Corigliano Calabro, conobbe nel 1969 una ragazza che abitava nella Germania orientale. Dopo numerosi incontri, lei e sua sorella, gli espressero il forte desiderio di vivere, in libertà, nella Germania federale e gli chiesero di aiutarle nel loro piano di fuga. Sebbene comprendesse la difficile situazione in cui vivevano le due sorelle, Pirri rispose loro che, pur desiderandolo, non le avrebbe aiutate. Ma qualcuno, che forse le due ragazze conoscevano, doveva aver registrato le loro intenzioni. Così un giorno, incontrandosi con le due amiche nella Alexander-Platz per andare a ballare, Pirri fu arrestato da alcuni agenti in uniforme della polizia ferroviaria e trasferito nel carcere di Pankow. Pirri aveva soltanto la colpa di aver ascoltato un desiderio altrui poichè non aveva fatto concretamen-
Timo Zilli era nato in Friuli nel 1945, ma la sua famiglia si era successivamente trasferita a Roma. All’età di 17 anni, per sfuggire alle pressioni della disciplina patriarcale di suo padre ed al servizio militare, partì per vari paesi nord europei svolgendo i lavori più disparati. Arrivò a Berlino nel 1965, partecipò ai movimenti del ’68 ed ebbe contatti con Dutschke e Ensslin. Qui, visse, come numerosi gastarbeiter nella West-Berliner, una vita normale, fino al 11 novembre 1970. Quel giorno dopo aver partecipato ad una festa dell’impresa dove lavorava, ubriaco si recò alla S-Bahnhof nella Friedrichstrasse dove cominciò a discutere con un Vopo che lo picchiò e lo portò al posto di polizia ad Alexanderplatz dove venne nuovamente picchiato e portato nel carcere di Pankow. Si rifiutò di pagare ventimila marchi per il suo rilascio e fu condannato a tre anni e mezzo. Colpevole di aver cagionato un «pericolo per l’ordine di società socialista». Pochi giorni dopo gli fu ridotta la misura della pena ad un anno e venne portato nella casa di detenzione di Rummelsburg con il numero di prigionia 856082. Qui cominciò la sua odissea: la tortura era all’ordine del giorno, per ore rimaneva con le mani legate, solo le punte dei piedi potevano toccare il suolo. Veniva lasciato al buio per parecchi giorni, in una cella minuscola dove si susseguivano botte e calci, e tutti i possibili tormenti psichici. Nell’autunno del 1972, fu graziato per un’amnistia in occasione dell’anniversario della Ddr, ma il suo periodo di sofferenza non era ancora finito: ad ovest nessuno credeva alle sue esperienze, solo con la caduta del muro e l’apertura dell’archivio della Stasi verrà riscattato. Egli apparteneva all’Unione emigranti italiani proletari, gruppo che si
era staccata dal Partito comunista italiano. Era quindi politicamente impegnato e non ne faceva mistero. Così aveva fatto anche durante la discussione con il Vopo nella Friedrichstrasse (enfatizzata dall’alcool, che probabilmente non gli consentì di contenersi, data la situazione) in cui dissentì sui metodi coercitivi della Ddr.
L’omicidio Benito Corghi Alle 4 del mattino del 5 agosto 1976, ufficiali tedeschi della parte occidentale che prestavano servizio presso la stazione di confine di Rudolphstein/Hirschberg in Baviera, sul principale collegamento autostradale che collegava Monaco a Berlino, sentirono dei colpi d’arma da fuoco provenire dalla parte orientale. Malgrado le condizioni metereologiche, poco favorevoli a causa di una fitta nebbia, impedissero agli ufficiali di scrutare quanto era accaduto, essi compresero immediatamente che c’era stato un incidente e che probabilmente qualcuno era stato ucciso o perlomeno ferito. Dopo ore di incertezza e varie ipotesi sull’accaduto, un breve annuncio della Ddr nella sera del 5 agosto confermò queste paure: un uomo era stato ucciso mentre tentava di evitare controlli di confine. Questa fu la prima versione ufficiale, ne seguirono poi diverse. La vittima si chiamava Benito Corghi. Trasportava regolarmente delle merci dalla Ddr in Italia. Durante il suo ultimo viaggio, appena passata la frontiera, era dovuto ritornare indietro perché si era accorto che gli mancava un documento: il certificato veterinario per la carne che trasportava lasciato presso l’ufficio della dogana della Germania orientale. Poiché girare il suo camion, di notevoli dimensioni, gli appariva troppo faticoso, pensò bene di percorrere a piedi i pochi metri di autostrada che lo separavano dalla frontiera. L’autostrada era vietata ai pedoni e così, il povero Corghi, fu preso a fucilate senza che avesse avuto neppure il tempo di capire perché. Nella Ddr si poteva morire anche così.A tutt’oggi non si è ancora capito se i poliziotti di frontiera gli avessero mai intimato di fermarsi o avessero sparato direttamente o se fosse stato vittima di una incomprensione linguistica o semplicemente non avesse sentito l’intimazione dell’alt. Di versioni sulla dinamica dell’incidente ne sono state date diverse. È interessante notare che a proposito dell’omicidio Corghi si sollevò davvero un caso internazionale e vi fu un forte momento di attrito fra la Ddr e l’Italia. Dall’apertura degli archivi della Stasi, in un fascicolo, è emerso che Corghi si sarebbe avvicinato alla guardia di confine in maniera minacciosa e sospetta, e non avesse alcuna ragione di ritornare indietro.
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speciale approfondimenti
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segue da pagina 13 Dai medesimi fascicoli viene fuori che i rappresentanti della Germania orientale insistettero (ma non è vero) con l’ambasciatore italiano nell’affermare che Corghi fosse in possesso di tutti i documenti necessari per il prosieguo del viaggio e che non avesse lasciato alcunchè alla stazione di frontiera. Dieter Pabst e il capitano Herbert Lukass, i superiori del soldato di frontiera che fece fuoco, pur conoscendone il nome, avviarono presso l’Ufficio centrale del registro di Salzgitter un procedimento per omicidio contro ignoti. Benito Corghi lasciò moglie e due figli. La Frankfurter Allgemeine Zeitung dell’11 agosto 1976, titolò «La vedova di Corghi dà una lezione alla DDR sulla difesa del socialismo». Così vennero descritti i funerali: «Al suono dell’Internazionale, Benito Corghi, il camionista italiano ucciso dalla Volkspolizei al confine con la Ddr, è stato sepolto lunedì sera nella città natale di Rubiera, presso Reggio Emilio. Vestiti a lutto, seguivano la bara la moglie, il figlio e la figlia, i familiari, le autorità tra le quali il prefetto in rappresentanza del capo dello Stato e del capo del governo, il capo della polizia, il presidente dell’Amministrazione provinciale, il sindaco di Reggio Emilia e quello di Rubiera, i gruppi comunisti locali con le bandiere rosse e altra gente, in tutto 3.000 persone». In quell’occasione la vedova Corghi, anche in merito alla mancata chiarezza sulla dinamica e sulle responsabilità della tragica morte di suo marito, dichiarò: «Quello che è successo è il risultato di un modo assurdo e inaccettabile di difendere il socialismo, noi, i miei figli ed io, abbiamo pagato un prezzo alto, troppo alto… Il socialismo non può essere difeso con un omicidio…». Il 3 maggio 1994 il soldato di frontiera Uwe Schmiedel, autore materiale dell’omicidio Corghi, nel processo tenutasi a Gera (nell’ex Germania dell’est), fu scagionato dall’accusa di omicidio colposo, poiché secondo il giudice, non voleva uccidere Corghi.
A sinistra la costruzione del Muro di Berlino Sopra la celebre foto del soldato tedesco in fuga dal checkpoint Charlie trich pregò Vittorio di fargli un favore: consegnare all’abitazione di un certo mister Wilson, nel quartiere occidentale di Zehlendorf, un pacchetto contenente un libro. Palmieri accettò subito, convinto di fare una cortesia a un amico che non poteva attraversare il muro. Così, col pacchetto sotto il braccio, se ne andò alla fermata della sopraelevata, dove presentò il suo passaporto per tornare a casa. Invece, con sua grande sorpresa, venne fermato. Per due ore aspettò, sorvegliato, in una stanzetta buia, arrivarono poi tre agenti in borghese della Ssd (il servizio di sicurezza comunista). Caricato a forza di spintoni su una vecchia macchina, fu condotto alla Uboot, ossia alla Centrale della polizia politica. Lo fecero entrare in una stanzetta con la luce bassa. Il più autorevole dei tre gli chiese cosa contenesse quel pacchetto. Lui, in perfetta buona fede, rispose che conteneva soltan-
ore con le mani legate e le braccia alzate, lo rinchiusero in una cella. Il mattino dopo fu riportato in ufficio e dovette ripetere il suo racconto. Alla fine lo stesso ufficiale della notte prima gli comunicò che quella notte, grazie alle sue indicazioni, avevano potuto arrestare il suo complice tedesco: si chiamava Dietrich ed era una spia degli americani. In realtà, come troppo tardi Palmieri comprese, Dietrich non era altro che un agente della Stasi, uno dei tanti «spioni scout», con il compito di tendere delle trappole a stranieri di passaggio a Berlino est per metterli nelle mani della polizia di Pankow, in modo che questa potesse costringerli a diventare altrettanti informatori. L’ufficiale gli comunicò che correva il rischio di essere condannato per spionaggio e per Agententätigkeit, cioè attività spionistica, mostrandogli il codice contenente la Strafrechtsergänzugesetz, le leggi per la sicurezza
rare un agente del controspionaggio americano: spettava a lui la decisione. Pensò che non gli rimaneva altro da fare se non accettare il gioco che gli proponevano, con la speranza di potersene liberare il più presto possibile. Il giovane operaio romano era caduto in trappola, ma riuscì a resistere a tali pressioni soltanto per qualche tempo. Voleva, in qualche modo, uscire fuori dal giogo di cui era vittima e decise di diventare un Fluchthelfer, cioè aiutare qualche berlinese della zona comunista a raggiungere la libertà valicando il muro, così in caso di denunce, almeno da parte occidentale, avrebbe mostrato la sua buona volontà con questo atto di coraggio. Purtroppo i suoi piani furono scoperti fu nuovamente arrestato.Per dieci mesi fu isolato nelle tetre celle del carcere della polizia segreta di Pankow: ogni settimana se il tempo era bello poteva uscire all’aria aperta per 15 minuti con
Il caso Vittorio Palmieri
Sfidare il Muro era sfidare la morte
Vittorio Palmieri, un montatore elettricista romano, era emigrato agli inizi degli anni ’60 a Berlino ovest, dove aveva trovato un lavoro ben retribuito; anche lui, come gli altri stranieri, godeva di una certa libertà di transito attraverso gli sbarramenti del muro. Il 28 febbraio 1962 fu arrestato per la prima volta alla stazione della metropolitana sopraelevata della Friedrichstrasse. Frequentava, da tre mesi circa, il settore orientale della città, dove aveva conosciuto, in un locale notturno, un giornalista sportivo di nome Dietrich. Una sera Die-
to un libro. Ancor prima di aprire il pacchetto, il capo degli Zivilisten lo accusò di essere una spia degli americani e venduto al capitalismo. Poi aprì il pacchetto, come un prestigiatore che sapeva benissimo cosa stesse per scoprire e gli mostrò trionfalmente il contenuto. Palmieri vide spiegarsi, incredulo davanti ai suoi occhi, carte e mappe con tanti cerchietti rossi disegnati a matita intorno a città e quartieri. Quelli erano gli obiettivi militari sovietici di Jena, Dresda e Lipsia. Dopo averlo lasciato due
contro gli attentati alla Repubblica Democratica; con una pena da 5 a 10 anni per «gli attacchi degli imperialisti all’ordine democratico ed antifascista»; pena che poteva barattare accettando di fornir loro, in futuro, qualche notizia. Poi gli diede cento marchi occidentali, come compenso, per aver fatto loro scoprire e catturare, sia pure involontariamente la spia Dietrich. Nel caso non avesse accettato, sarebbero stati costretti a denunciarlo alla polizia di Berlino ovest come traditore, per aver fatto loro cattu-
un unico e magro pasto, la notte avevano luogo lunghi interrogatori. Solo attraverso il tubo di scarico della toilette riusciva talvolta a comunicare con altri detenuti delle più diverse nazionalità. Deperì a tal punto che spesso, quando i carcerieri comunisti irrompevano nella cella con i loro potenti riflettori, lo trovavano svenuto. Il processo, cominciò il 14 marzo dell’anno dopo, il ’63, come interprete c’era una comunista italiana e al posto del pubblico, c’erano agenti in divisa scura. Al Palmieri non fu conces-
so di avere un avvocato. Fu letta l’accusa e subito il presidente cominciò a leggere la condanna. Lui protestò perché non gli era stata consentita nessuna difesa: il presidente lo zittì, rispondendo che era superflua e a quel punto visibilmente sconvolto si gettò contro il pubblico accusatore brandendo la bottiglia d’acqua che era sul tavolo del presidente: bloccato dai poliziotti, il vetro della bottiglia rotta lo ferì profondamente al polso destro. Il pomeriggio del giorno dopo, riprese il processo, questa volta con un avvocato difensore d’ufficio, il prof. Gaul. La sua difesa fu questa: «Gli italiani sono quasi tutti analfabeti, perciò questo giovane ha sbagliato per ignoranza e per insufficiente preparazione culturale». Questa «accurata arringa», fruttò all’avvocato Gaul 200 marchi occidentali, sborsati dal consolato generale italiano di Berlino. Dopo, Palmieri fu rinchiuso per più di tre settimane in una cella di isolamento alta 180 centimetri. Ogni tre giorni una tazza d’acqua calda con una patata. Mani e piedi legati: spesso non veniva slegato neanche per soddisfare i bisogni corporali. Esausto e disperato tentò il suicidio, ma fu salvato dalle guardie. Dopo questo episodio visse fra i detenuti comuni a Rommelsburg, non sperando più niente, senza sapere quale fosse stata la sua condanna, poiché la sentenza non gli era mai stata notificata, finchè il primo giugno del ’64 fu rilasciato.
Il caso Michele Aduani Michele Aduani era uno studente romano di 25 anni che si trasferì a Berlino nei primi anni ’60 con il suo amico Vittorio Palmieri, sia per motivi di studio sia perché affascinato dalla città dai due volti. Come tanti altri italiani, trascorreva spesso il tempo libero a Berlino est, dove tutto costava meno.
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La costruzione del muro aveva fatto degli stranieri dei privilegiati perché si potevano recare liberamente da un settore all’altro della capitale. Però il contatto quasi quotidiano con la popolazione orientale e le pressanti richieste di aiuto che riceveva avevano suscitato in lui un commovente senso di umanità. Aduani si mise nei guai con la polizia dell’est proprio per non essere riuscito a frenare l’impulso di aiutare alcuni berlinesi dell’est che volevano fuggire. Quando fu arrestato, il 31 maggio del 1962, aveva progettato con il suo amico,Vittorio Palmieri, un tentativo di fuga: quel giorno i controlli furono più lunghi del solito al Check Point Charlie e i loro passaporti furono trattenuti a lungo nei box della polizia, fu fatto un accurato esame alla macchina, una vecchia auto americana che Vittorio aveva comprato con i suoi risparmi e che avevano attrezzato in modo che sul fondo del bagagliaio si potesse celare una persona. Aduani ebbe un momento di indecisione e pensò che fosse più opportuno rimandare l’azione ad un altro giorno ma il tedesco, da condurre all’ovest, che aveva fatto slittare già di un giorno la fuga, non volle sentire ragione. Per facilitare la delicata operazione Aduani si allontanò da solo, dando appuntamento ai due amici per le 22,45. Poi si fermò in un locale per teenegers e quando si avviò al controllo per andare a Berlino ovest era ormai l’una del
di collaborare con i servizi segreti; il ragazzo pur di uscire dal carcere, in un primo momento accettò l’offerta gli fu dato un deckname, Gregor, e gli fu fissato un appuntamento per il 15 agosto successivo per ragguagli sulla sua collaborazione con un loro agente. Appuntamento a cui però lui non si presentò. Si recò lo stesso a Berlino est per avere notizie del suo amico Vittorio Palmieri, fu sorpreso nella casa della fidanzata di un suo amico siciliano e direttamente condotto nel carcere di Pankow e rimase in isolamento per dieci giorni senza neanche poter godere della luce solare; quattro fette di pane nero ed un tocco di margarina era il suo rancio quotidiano. Al processo fu accusato di aver infranto la Zollgesetz (legge doganale) perché aveva in tasca alcuni marchi orientali non registrati sul passaporto. Rivide il suo amico Vittorio nella prigione di Rommelsburg poco prima del suo rilascio dopo 2 anni e 9 mesi di reclusione.
nio Cerveres di Porto d’Ischia che scontarono una pena di tre anni per aver tentato di condurre a Berlino ovest una ragazza della zona comunista. Diversi erano coloro che scomparivano per mesi o addirittura anni o venivano catturati senza motivo dalla polizia politica di Ulbricht, come il vicentino Nereo Dal Molin, arrestato al varco del Check Point Charlie il 24 marzo 1962: era in compagnia di un amico appena giunto dall’Italia e si apprestava a condurlo in visita a Berlino est. Fu trattenuto in carcere per 20 mesi con la solita infondata scusa
schönhausen, il Dal Molin potè farle recapitare notizie sulla sua scomparsa.
Il piccolo sardo C’era anche un sardo tra le vittime della Stasi; Pietro Porcu, un operaio nato a Modolo il 21 agosto 1937; negli anni ’70 era stato imprigionato e tenuto segregato per lunghi mesi. Dietro l’accusa di «Terrorismo e commercio di uomini», classico capo di imputazione, legato ai periodi più bui della guerra fredda, si nascondeva soltanto un suo maldestro tentativo di far fuggre dalla Ddr tredici per-
Il sistema di torture più efficace del mondo
Piccola “Fraulein” per un rossetto In quegli anni numerosi italiani, specie operai e Gastarbeiter, vivevano nel settore occidentale di Berlino, come stranieri potevano transitare più facilmente attraverso i varchi del muro; le gite a Berlino est erano frequenti, quasi tutti vi avevano la loro piccola fraulein, particolarmente sensibile ad un astuccio di rossetto o ad una boccetta di profumo. Facile tendere
«Terrorismo e commercio di uomini», l’imputazione per chi tentava la fuga mattino. Quando i Vopos videro il suo nome sul passaporto lo invitarono ad entrare in una porta laterale; risultava loro, inesorabilmente dal suo Tagesaufenthalt, (permesso di soggiorno giornaliero) che era già stato in precedenza con l’amico Vittorio a bordo della macchina sequestrata. Lo accusarono di essere un Fluchthelfer e che i suoi due amici erano nelle loro mani ed avevano già confessato. Gli ordinarono di uscire, fuori li stava attendendo una Skoda nera con due agenti che si posero sul sedile posteriore. Arrivarono alla Magdalene Strasse, alle 7 del mattino, altri due agenti lo prelevarono e lo portarono al terzo piano da un signore dai modi gentili che gli comunicò che la sua situazione era precaria ma si poteva rivedere, nel caso avesse accettato
delle trappole, spaventare i più ingenui fino a farli diventare delle spie per i comunisti e per chi si rifiutava avevano luogo processi, il cui esito era scontato in partenza. Le autorità italiane erano informate di queste tragedie anche se con ritardo di anni: purtroppo su tali drammi, si potrebbe dire della solitudine, in cui i nostri connazionali venivano abbandonati dalle istituzioni, spesso, si preferì stendere una pesante coltre di silenzio. Winfried Esch, condannato a dieci anni da un tribunale russo, subito dopo la rivolta operaia di Berlino est del ‘53, uscì dal carcere nell’estate del ’61, portando con sé un lungo elenco di prigionieri politici detenuti con lui a Bautzen II. Fra nomi francesi, olandesi, spagnoli ne figuravano anche due italiani: Pasquale e Anto-
della sua presenza nel carcere di massima sicurezza della Stasi e pregava i suoi familiari di far pervenire ai suoi due figli (un bambino di tre e una bambina di quattro anni) qualcosa che alleviasse loro le grandi difficoltà che erano costretti a subire nella patria del socialismo reale. Egli elencava minuziosamente i numeri di scarpe e le misure dei vestitini che avrebbe voluto che i familiari inviassero ai suoi figli nella Germania orientale. Un racconto commovente, consumato nel silenzio che è proprio dell’emigrazione e che conferma
Nelle celle del carcere di Bautzen furono detenuti molti italiani, vittime degli aguzzini della Stasi di essere «una sporca spia del capitalismo». Per cinque mesi la sua giovane moglie, residente a Berlino ovest, non ne ricevette più alcuna notizia e solo dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Hohe-
sone, fra cui l’amica Brigitte Bock, che risiedeva a Berlino est. Durante la sua detenzione a Bautzen II, in una commovente lettera indirizzata alla mamma, datata il 21 gennaio 1972, Porcu, spiegava le ragioni
l’umanità di quest’uomo, che a soli quarantacinque anni e precisamente il 28 agosto 1982, moriva per infarto a Berlino, a seguito dei traumi subiti nel famigerato penitenziario di Bautzen. Porcu conobbe in carcere e divise la cella con Graziano Bertussin, a cui raccontò la sua disavventura. Al primo incontro degli ex internati a Bautzen, qualcuno ricordò gli italiani incarcerati nella Ddr: fu ricordato il siciliano Ernesto De Persilis, nato a Licata, reo di aver calunniato lo Stato dei lavoratori e dei contadini della Repubblica democratica tedesca. Il De Persilis, sposato con una tedesca, passò quasi un anno a Bautzen e tutti lo ricordavano come persona allegra e spensierata, piena di spirito che riusciva, anche nei momenti più difficili, a tenere alto il morale nel clima nient’affatto idilliaco esistente nell’ambiente carcerario. De Persilis giunse a Bautzen il 24 ottobre del 1962, insieme ad altri due italiani, accusati dello stesso reato: Pasquale Cervera nato ad Ischia il 6 marzo 1943 e Antonio Di Muccio, nato a Taranto il 15 luglio 1940. Costoro, rischiando non poco, si prestavano a passare informazioni all’interno dei vari reparti del penitenziario, dove erano reclusi tedeschi dell’Est, tedeschi dell’Ovest e numerosi stranieri. Sia Pasquale che Antonio dimostrarono, inoltre, attitudini e qualità particolari durante una festa di Natale organizzata nel lontano 1963, dove i due italiani, Antonio con la sua voce e Pasquale con la chitarra allietarono le buie giornate del carcere. In quei momenti, solo canzoni e musiche tedesche potevano essere intonate e suonate.
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speciale approfondimenti
Carte
Nel momento più tragico della guerra fredda alcuni italiani si comportarono da eroi
Berlino 1959. Scappano tutti, ma arrivano i focolarini oco nota fu la presenza nella Ddr dei medici italiani del movimento dei focolarini, dovuta al vuoto che si aprì negli ospedali evangelici e cattolici per colpa delle fughe all’Ovest e perché nella Germania orientale un medico era pagato meno di un operaio specializzato. Furono incorporati dal ministero della Sanità dove era rimasto soltanto il 5% del personale necessario, In quella situazione così precaria, i vescovi cattolici ed evangelici, che avevano l’amministrazione degli ospedali confessionali delle loro diocesi, dopo diciassette anni di occupazione sovietica, convinsero il governo comunista a concedere il permesso di accesso a medici volontari provenienti da paesi occidentali e che loro stessi avrebbero provveduto a trovare. Nel ’59, il vescovo di
P
Nella foto grande un’immagine tratta dal film “Le vite degli altri” Sopra Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari, scomparsa pochi giorni fa
Ospedali senza medici e il vescovo di Dresda chiese aiuto a Chiara Lubich Dresda-Meissen, monsignor Otto Spuelbek, chiese a Chiara Lubich, la fondatrice del movimento, se ci fossero dei medici del movimento disposti a trasferirsi in quelle zone. La Lubich sentì che dare quell’aiuto poteva essere una risposta importante, fraterna per i cristiani che erano sotto pressione nella zona sovietica, un impegno forte per la Chiesa tenuta «sotto controllo» in quei tempi di conflitto. E così iniziò a cercarli. I primi medici ad accettare tale incarico furono, alla fine del 1960 il dott. Enzo Fondi e il dott. Giuseppe Santanchè, i quali presero servizio all’ospedale St. Elisabetta di Dresda. Altri medici li seguirono; nel periodo dal ’61 al ’64 arrivarono sia dall’Italia che dalla Germania Occidentale altri colleghi, in tutto dieci. I primi passarono il confine nell’estate del ’61, quando la «cortina di ferro» non era ancora in muratura. I medici che arrivarono furono: a Berlino i dott. Pino Tradigo, Maria Genova e Doni
Fratta nell’ospedale St. Edwig (queste due poi trasferite ad Halle); a Lipsia, Natalia Dallapiccola, Roswita Bayer, Margareth Frisch in un ambulatorio; e Giuseppe Santanchè, Enzo Fondi, Roberto Saltini nell’Ospedale St. Elisabetta a Lipsia; ad Erfurt nell’Ospedale St. Nepomuk il dott. Giuseppe Di Giacomo. La maggior parte di loro ebbe responsabilità sanitarie importanti come primari o capiservizio. Ad Erfurt, Berlino, Lipsia, Di Giacomo, Tradigo e Santanchè ricevettero l’incarico di costituire reparti di terapia intensiva e di anestesiologia moderna. Due interniste Maria Genova e Anna Fratta cominciarono il lavoro di medicina interna prima a Berlino e poi ad Halle. La dottoressa Margareth Frisch , la Bajer e la Della Piccola furono invitate, dal medico provinciale, a riaprire a Lipsia un ambulatorio medico privato, che era stato in fretta abbandonato da
un professionista passato a lavorare in Occidente. I medici focolarini si resero da subito indispensabili nel campo sanitario, l’approccio fraterno dei missionari, inoltre, provocò una certa distensione dell’atmosfera politica in cui operavano, anche se ciò non evitò loro di essere schedati nei fascicoli della temuta Stasi. I medici missionari focolarini avevano all’inizio del loro soggiorno, solo il visto italiano per la Germania Occidentale. Intervistato, il dottor Santanchè ricorda: «Eravamo oltrecortina, nelle mani di quel governo, accettati perchè eravamo per loro molto utili come sanitari, ma avrebbero potuto fare di noi qualsiasi cosa senza dar alcun ragguaglio a nessuno: era una zona militare. Il maggior pericolo che correvamo era quello di venir deportati con l’accusa di complotto anticomunista e sparire di colpo a fare i medici nei campi di lavoro in Siberia accusati di delitti contro le leggi locali. Nessuno avrebbe mai saputo la verità… In contrasto con quella situazione di violenza, noi fin dall’inizio, abbiamo cominciato a costruire in piccoli gruppi rapporti d’altro genere. Spiegavamo a chi e dove era possibile, che quello era il tempo di considerare ognuno fratello, fosse esso comunista o li-
beral-democratico, o cristiano. Alcuni sacerdoti, per il loro atteggiamento, furono puniti con periodi di internamento in duri campi di rieducazione. Ricordo che di uno di questi, arrestato per aver detto qualcosa contro lo Stato, si occupò il vescovo Spuelbeck per mesi, e come lui tante altre personalità del governo e del partito per riaverlo in libertà. Il vescovo ci riuscì al-
Berlino occidentale a Lipsia, a Berlino orientale e ad Erfurt. C’è una pagina di un fascicolo della Stasi dove l’ufficiale scrive quasi con commozione... che il dott. Giuseppe Di Giacomo primario anestesista ad Erfurt rimase giornate e notti a curare malati gravissimi, invece di lasciarli seguire dai suoi aiuti o assistenti… Alcuni gruppi del partito ci accusavano di voler
Con l’accusa di complotto anticomunista si finiva facilmente in Siberia la fine, ma con il divieto di nominarlo parroco. Ed allora lo prese con se come segretario... Eravamo l’unico gruppo cristiano nuovo, internazionale e attivo, che il sistema tollerava. Vedevano che volevamo loro bene, che li aiutavamo senza parole, contenti…anche se guadagnavamo un terzo di quello che avremmo guadagnato in Occidente, cosa che anche per loro era inconcepibile. La stessa cosa fu nei reparti dove lavoravamo. Li abbiamo costituiti con tanta fatica, con apparecchi comperati ed introdotti da
indebolire la coesione comunista con un ”pacifismo disgregatore”. Testualmente, gli agenti della Stasi, alla fine dell’indagine nell’Ospedale di Erfurt definita in codice “Operazione Milano”dopo un lavoro di qualche mese, compiuto da sei o sette agenti infiltrati nei reparti, scrissero: “Il movimento ha puro carattere umanistico. Non si può affermare che vi sia l’utilizzazione illegale dell’associazione per propagandare o imporre ideologie pacifiste. Si propone quindi di chiudere l’indagine ”Operazione Milano”».
local
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La storia di Giuseppe Molinari e del suo laboratorio territoriale a Roma
La buona politica contro l’antipolitica di Francesco Accolla
ROMA. Ma quale antipolitica! L’unico antidoto davvero efficace alla cattiva politica, è quella buona. All’interesse di parte contrapponi il bene comune, al comitato d’affari rispondi con la partecipazione dei cittadini a progetti autentici e inc lusivi. A Roma, nel territorio del XX Municipio, da qualche anno è partito un nuovo modello di politica: civica, territoriale, trasparente e concreta. L’ha lanciata e perseguita Giuseppe Molinari avvocato trentottenne cresciuto a pane e governo della cosa pubblica fin da ragazzino (il padre, Carmelo, vice-segretario romano della Dc negli anni Novanta e più volte assessore al Comune, il nonno Giuseppe senatore democristiano nel governo Leone, il bisnonno fondò e diresse in Sicilia il Partito Popolare di don Sturzo). All’ombra di ponte Milvio, Molinari ha aperto una sezione dell’Udc, ha dato vita ad un’associazione molto attiva nel denunciare inefficienze e a promuovere iniziative, edita la rivista di quartiere La voce del villaggio (che ha un’edizione on line molto curata), anima un blog (vignaclara.wordpress.com) assai frequentato dai ragazzi della zona che evidentemente non sono solo quelli (seppur ‘teneri’) descritti nei romanzi di Federico Moccia.
Nella zona dei “lucchetti dell’amore”, Molinari, che dal 2001 è al Consiglio del Municipio, si è occupato del risanamento e della conservazione
I “lucchetti dell’amore” a Ponte Milvio: il nuovo simbolo dei giovani che ha rilanciato il quartiere romano
del verde pubblico (il municipio comprende monte Mario e i Parchi di Veio e dell’Insugherata: veri polmoni di Roma nord), proprio come gli chiedevano con molte mozioni gli abitanti del territorio, e ha lavorato per il miglioramento delle vie di comunicazione della zona e per l’ampliamento delle grandi arterie come l’apertura dello svincolo per il nuovo ospedale S. Andrea del Grande Raccordo Anulare. Insomma è stato in ascolto e ha dato risposte. Si diceva di un nuovo modello di politica ma in vero, a pensar-
“
Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata
„
Alessandro Manzoni
ci meglio, di nuovo il giovane Molinari ci mette il suo entusiasmo e gli strumenti che la
Una rivista di quartiere e un blog frequentato dai ragazzi della zona, per dare ascolto alla voce della città modernità gli consegna: la ricetta che applica è quella da sempre vincente, l’unica che
abbia un senso. Perché se Veltroni e così a Roma Rutelli, arruolano giovani il cui merito pare soltanto quello di non sapere nulla della politica, Molinari sembra invece aver imbrigliato le redini di una tradizione nobile quando oramai da decenni obliata: la politica come servizio. Bisognerebbe andarci nella sua sede di via Flaminia: è piena di gente che lavora (gratuitamente), persone giovani e meno che si danno un gran da fare. Stai lì e pensi: stana sorte ha oggi la modernità, per trovarsi un futuro si deve rifare alle ra-
LA FORZA
DELLE IDEE
C A M P A G N A
❏ semestrale
dici. Già, la buona politica è una questione di valori, di ideali capaci di dare un’anima all’azione. Certo per perseguire questo tipo di impegno ci vuole una robusta tempra morale, un corredo di solite doti e virtù come la passione, il senso di responsabilità, la lungimiranza. Che dire: ora Molinari candidandosi alle elezioni comunali, ha deciso di estendere questa sua esperienza di quartiere alla città. L’augurio è che non si guasti, che rimanga il ragazzo del quartiere dei “lucchetti dell’amore”. Che il suo sia patto duraturo con la buona politica.
A B B O N A M E N T I
❏ annuale
2 0 0 8
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economia
Il ricorso a questa forma di energia non ha più soltanto una valenza economica ma strategica
La geopolitica al tempo del nucleare di Strategicus l nucleare non è soltanto una fonte di produzione di energia oppure un mero esercizio industriale. È soprattutto un’idea, una scelta strategica del e per l’intero sistema Paese. Non solo: non è sbagliato considerarlo un intero sistema vivente.
I
Una centrale nucleare la si può paragonare a una cellula, che nasce (scelta), cresce (costruzione), si sviluppa (produzione di energia), si riproduce (una centrale vive nel territorio e per il territorio e la popolazione) e poi muore (fine del ciclo vitale). Al nostro Paese l’Unione europea chiede un incremento del 17 per cento della produzione da fonti rinnovabili e nel contempo impone un taglio del 13 per cento delle emissioni, rispetto ai livelli del 2005. Allo stato attuale delle cose, e dovendo fare i conti con una dipendenza vicina al 90 per cento dagli idrocarburi e un costo del greggio oltre i 100 dollari al barile, tale richiesta non può essere soddisfatta. Il dibattito sul revival del nucleare nasce proprio all’interno di questo contesto. Più aumenta il prezzo del greggio e più questa tecnologia sembra acquistare forza e rispetto. Ma il nucleare non è la panacea di tutti i mali: resta al momento la soluzione più realistica nella determinazione di politiche energetiche nazionali, che stanno assumendo una nomenclatura del tutto nuova rispetto al passato. La variabile energetica è oggi un elemento strategico prioritario nella definizione degli interessi nazionali. L’energia ha assunto, infatti una dimensione geopolitica transnazionale. Così il puzzle geoenergetico non è più solamente di natura geoeconomica (basato, in sostanza, sul ruolo delle imprese e del mercato) e/o geostrategica (competizione e deterrenza, principalmente su base militare). Paesi energivori quali Stati Uniti, Cina e India stanno modificando le politiche energetiche nazionali per influen-
zare i mercati mondiali a proprio vantaggio. Al giorno d’oggi non si guarda più unicamente alla fonte d’energia soffermandosi sulla categoria del “valore economico”. Ma la si valuta attentamente anche come “valore geopolitico”. E spesso, in politica, “valore” diventa sinonimo di “arma”. Per capire quanto sta accadendo in questi anni, basta ricordare che la russa Gazprom non è soltanto un’azienda, ma si
Ecco allora che anche se il mercato europeo dell’energia è sempre più lanciato verso una forma di liberismo economico, di fatto si assiste oggi a ripensamenti – del tutto sbagliati – su un ritorno a una politica nazionalistica dell’energia.
Le risposte da parte dello Stato-nazione non possono, quindi, che essere altrettanto globali. Ma, beninteso, in sintonia con gli interessi nazionali.
In passato, di fronte a fluttuazioni dei prezzi del petrolio, la scelta della
Le sfide energetiche o, meglio, le sfide che tramite una politica energetica si vogliono vince-
Gazprom non è soltanto un colosso imprenditoriale, ma il braccio armato del Cremlino. Così si torna a discutere su interventi e investimenti diretti degli Stati
Isteresi dei prezzi e squilibri
Non affrontare il deficit del fabbisogno comporta costi altissimi: in Europa il prezzo della non azione è pari a 3mila euro all’anno per ogni cittadino
muove come il braccio armato del Cremlino.
Tutto ciò è ancora più vero se alla politica si affianca la parola “geo”, che ingloba in sé oltre alle dimensioni geografico-territoriali e storico-culturali, anche fattori razionali, irrazionali e a-razionali.
l’energia. Tutto rientrava in regole economiche “naturali” e, quindi, “invisibili”. Oggi la situazione è molto cambiata. Alla speculazione e ai corsi e ricorsi delle instabilità dei prezzi e delle logiche nel mercato, si aggiungono criticità, quali i cambiamenti climatici, l’aumento demografico mondiale, la crescita della domanda di energia, che oggi è un fattore strategico rilevante quanto la sicurezza energetica. Per non parlare della globalizzazione del mercato dell’energia che ha, di fatto, polarizzato le aree geografiche geo-energetiche, l’instabilità geopolitica di aree strategiche, e così via.
re, hanno superato la dimensione nazionale. Va da sé che l’Italia non è più uno Stato-nazione perimetrale, ma parte integrante del sistema comunitario e dello scacchiere mondiale. Spesso si dimentica che le tematiche e le problematiche energetiche sono globali. Sono nell’agenda dei principali vertici internazionali (quelli della Unione europea, delle Nazioni Unite, della Nato o dell’Osce).
politica era di aspettare che l’effetto della speculazione e la mano invisibile del mercato facessero il loro corso, riportando le quotazioni delle fonti di produzione di energia a livelli accettabili per la collettività. Anzi – salvo casi particolari, quale la bolla speculativa degli anni Settanta e Ottanta – la collettività spesso non riusciva neanche a seguire l’andamento ondivago dell’economia del-
di mercato sono sempre più una “normalità visibile”. Anche il “non fare” si tramuta oggi in un costo diretto per la collettività e per il sistema-Paese, tanto quanto “il fare”. Addirittura, nel caso del settore energetico, i costi per l’Europa dovuti all’inazione sarebbero dieci volte superiori ai costi dell’azione: pari a circa 1.500-3mila euro all’anno per persona. Le variabili transeconomiche sono divenute un fattore determinante nella edificazione dell’architettura del sistema dell’energia. La politica deve ritrovare il suo primato e la sua centralità. Senza una politica energetica innovativa che punti ad aumentare il livello di cooperazione internazionale, a una maggiore diversificazione delle fonti, a investire nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie innovative e a elevare il grado di efficienza energetica (quindi, di risparmio energetico), entro il 2030, la domanda di energia mondiale crescerà del 50 per cento e le emissioni di gas serra del 60. Intervenire, a quel punto, sarebbe difficile. Il ritardo si tradurrà, in termini macroeconomici, in una significativa perdita del Pil mondiale, con conseguenti crisi di stabilità delle Grandi potenze e, verosimilmente, con un inasprimento delle violenze regionali e locali. In termini geoeconomici, in una perdita sostanziale di competitività dei Paesi importatori ed esportatori, a svantaggio del sistema industriale e delle popolazioni.
economia
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d i a r i o
d e l
g i o r n o
Cassazione annulla sequestro Impregilo Muthar Kent, presidente e Ceo di Coca Cola e Andrea Illy (foto in basso), presidente dell’impresa triestina, hanno firmato un memorandum per la joint venture
Joint venture con Coca Cola per entrare in un mercato da 10 miliardi di euro
Illy:con il caffè in lattina alla conquista del mondo di Giuseppe Latour
ROMA. Illy varca per l’ennesima volta i confini nazionali, entrando nel mercato delle bevande in lattina. Soprattutto lo fa con un partner d’eccezione come la Coca Cola. Dall’accordo nascerà, infatti, una joint venture per produrre tre bibite ai gusti di cappuccino, caffè e latte macchiato. La società veicolo di questo progetto era già in cantiere da qualche mese, ma è stata definita nei dettagli solo da qualche giorno. Firmatari del memorandum sono stati Muthar Kent, presidente e Ceo di Coca Cola, e Andrea Illy, presidente dell’impresa triestina. Il nome della joint venture paritetica sarà Ilko coffee international e sarà pronta ad andare sul mercato a partire da fine aprile. Da definire, invece, i dettagli commerciali della collocazione sul mercato. Così come non si sa ancora nulla del packaging, del nome delle bevande e di tutti gli aspetti finanziari. Unica notizia trapelata: le bibite saranno prodotte da Illy e imbottigliate e distribuite da Coca Cola e si collocheranno in una fascia di mercato alta. I prodotti in una prima fase arriveranno in via sperimentale in dieci Paesi europei, tra i quali Austria, Crozia, Grecia e Ucraina.Successivamente (tra il 2008 e 2009) i confini dell’affare si allargheranno in maniera decisa. E saranno aggrediti gli altri mercati europei, Italia compresa, e quelli di Asia, Nordamerica e area del Pacifico. E sarà in qusta fase che il peso specifico della rete distributiva del colosso americano avrà un ruolo decisivo.
La multinazionale sceglie il gruppo di Trieste per anticipare la rivale Pepsi che sta studiando un’alleanza con Stairbucks L’alleanza appare una contromossa a quanto la rivale Pepsi sta facendo con la catena Star-Bucks. E appare tanto più importante perché nel gioco a stelle e strisce fa capolino un player italiano.
Una novità che seguirà lo spirito delle tradizioni: «Avrà il gusto del caffè Illy», spiega Andrea Illy, «Abbiamo siglato un memorandum, ma dobbiamo ancora definire un sacco di dettagli. La bevanda avrà un nome, il marchio Illy e sarà distribuita dalla Coca Cola». Sul perché gli americani hanno
cercato un partner così lontano, arrivando fino in Italia, la spiegazione del presidente di Illy mette l’accento principalmente sul know how nel settore della produzione di caffè. «Diciamo che è una sinergia reciproca. Il gigante americano aveva bisogno di un caffè di eccellenza per entrare nel settore, se l’avessero fatto con un loro marchio sarebbe stato più duro. Sono quindi andati a cercare il meglio». Il vantaggio di Illy sarà tutto sul fronte delle potentissima rete distributiva degli americani: «A noi serviva un’infrastruttura distributiva come quella della Coca Cola, che è la prima azienda del mondo per la capillarità del servizio. Noi distribuiamo soltanto nei bar, negli alberghi e tra le famiglie».
Il mercato che Trieste si prepara ad attaccare, quello del caffè pronto da bere, vale circa 10 miliardi di euro ed è cresciuto negli ultimi cinque anni in media del 10 per cento. E l’importanza del passaggio risalta maggiore se si pensa che Illy sta sostituendo su questo segmento il partner storico della Coca Cola, la Nestlè, che ha deciso di restare solo sul mercato del tè. E nel futuro dell’azienda di Trieste sono dati per possibili altri accordi simili, continuando a battere con decisione il tasto delle alleanze internazionali. Dopo il recente riassetto organizzativo, poi, si guarderà alla Borsa. Anche se, fanno sapere alla Illy, è un passaggio per il quale non si vogliono affrettare i tempi, rischiando di disperdere in tutto o in parte quanto di buono si è fatto fino ad oggi.
Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno deciso di annullare con rinvio il maxi sequestro che nello scorso giugno aveva portato a congelare 750 milioni di euro di proprietà delle società Fibe, Fisia e Impregilo, su ordine della procura di Napoli. La Corte Suprema ha stabilito che la somma identificata dai pm campani debba essere ridotta, così come richiesto dagli avvocati delle società incriminate e dal pg della Cassazione, Gianfranco Ciani. Secondo una stima dei difensori delle società, che a Napoli rispondono dei reati di truffa e frode, il tribunale del riesame potrebbe dissequestrare 500 milioni. L’ultima parola, però, spetta appunto al tribunale partenopeo.
Bernabè: «Con Agcom avviato percorso virtuoso» Franco Berbabè, amministratore delegato di Telecom è statto ascoltato ieri dall’Agcom. «Con l’autorità è stato avviato un percorso virtuoso - ha detto Bernabè - fondato sulla trasparenza, che verrà verificato man mano che si fa un pezzo di strada. Per quanto riguarda Open access si tratta di una scelta organizzativa all’avanguardia in Europa. È un percorso sul quale stiamo lavorando e che sarà verificato mano a mano dall’autorità. L’obiettivo è di avere un sistema trasparente, efficiente e di grande qualità. Ma soprattutto - ha sottolineato Bernabè - che consenta la crescita delle telecomunicazioni».
Napolitano in visita alla Fincantieri Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano visitando ieri gli stabilimenti Fincantieri di Monfalcone per il varo della nave ”Ventura” ha detto: «È una grande realtà pubblica che credo abbia bisogno di trovare un po’ di quattrini nel privato». E l’amministratore delegato di Fincantieri ha sottolineato: «Guardiamo con fiducia i prossimi anni, consapevoli della grande responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri lavoratori e della storia che abbiamo in questo Paese. Siamo un’azienda leader mondiale nel settore, sana, senza debiti, che da anni consegue risultati positiv».
Conti e Scaroni a Mosca per incontrare Putin L’amministratore delegato dell’Enel, Fulvio Conti, e quello dell’Eni, Paolo Scaroni, saranno il prossimo 2 aprile a Mosca per un pranzo con il presidente Vladimir Putin riservato agli investitori italiani in Russia. Lo hanno confermato gli stessi amministratori delegati delle due società a margine della presentazione dell’International Energy Forum che si terrà a Roma dal 20 al 22 aprile prossimo. Conti ha spiegato che «è previsto un pranzo al Cremlino con Putin, per chiedere il mantenimento del programma di privatizzazioni in corso». Conti ha aggiunto: «mi aspetto il mantenimento della politica attuale con aperture dei mercati e privatizzioni in un Paese che ha bisogno di energia e di grandi investimenti».
Bollorè pronto a investire in Pininfarina Il cda della Pininfarina ha convocato l’assemblea degli azionisti per il 29 e 30 aprile per varare l’aumento di capitale per un importo complessivo di circa 100 milioni di euro. La ricapitalizzazione si legge in un comunicato «permetterà lo sviluppo dell’auto elettrica Pininfarina e il rafforzamento finanziario e patrimoniale della società». Le società che fanno capo alla famiglia Pininfarina «sottoscriveranno la quota parte dell’aumento di capitale che sarà loro offerta in opzione anche cedendo una quota dei rispettivi diritti di opzione ad investitori che hanno già manifestato il loro interesse a partecipare al capitale della società tra i quali Vincent Bollorè che ha di recente ribadito la sua disponibilità in tal senso».
Possibile collaborazione Tata-Fiat Siamo contenti di entrare in un grande gruppo come Tata che ha importanti scambi di collaborazione produttiva con il gruppo Fiat. Così il presidente di Jaguar Italia e di Land Rover Italia Daniele Maver ha commentato la cessione di Ford dei due marchi britannici all’indiana Tata Motors. Non escludiamo - aggiunge - che in futuro questa partnership produttiva possa estendersi anche a Jaguar e Land Rover, magari come la Ford, che per la Ka condivide lo stabilimento in Polonia con la Fiat 500.
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cultura Giuseppe Arcimboldi, Vertumno 1951 Balsta (Stoccolma)
roprio nei giorni in cui uno dei piatti forti della nostra tavola, la mozzarella di bufala campana, vittima eccellente del disastro della mondezzopoli partenopea, viene messa sotto inchiesta per la presenza di un eccesso di diossina che ne ha bloccato la produzione e l’esportazione su vasta scala. E mentre la mania dei fornelli dilaga sempre più ossessivamente in tv, caratterizzando i format e accarezzando il gusto dei telespettatori. Tra Gualtiero Marchesi e Gianfranco Vissani che in virtù di disquisizioni filosofiche e acquisizioni gastronomiche animano le dispute tra chef innovativi e critici integralisti sulla nouvelle cousine, l’editoria smarca a destra gli uni e a sinistra gli altri puntando sempre di più proprio sul cibo, considerato tra storia e costume; sulla cultura della tavola riesaminata tra riti tradizionali e demonizzazioni culinarie, tra passato folcloristico e presente globalizzato, alimentando un mercato letterario in crescita esponenziale per offerta autoriale e richiesta dei lettori.
sembrare forzato, in un’epoca come la nostra in cui i ritmi della tavola sono stati sovvertiti dal dominio del fast food, e in cui, nella scelta di un ristorante si tende sempre più spesso a privilegiare il menù «alternativo» alla carta caratterizzata dalla tradizione locale, oggi più che mai, tra mode sushi ed epopee esotiche, uno dei segni incontrovertibili della distinzione culturale passa per la dispensa. Per i frantoi, le vigne, i campi, i mercati, che sono a monte di un piatto.
P
Come confermato con Musei del gusto. Mappa della memoria enogastronomica, un testo edito da Carsa (263 pagine, 20,00 euro) che, nella cornice di una vera e propria guida ai luoghi dedicati alla civiltà della tavola e agli oggetti legati al mondo della dispensa, ripercorre origini e tradizioni locali che hanno scritto i capitoli della storia del cibo, che oggi, tra nazionalismi e ambizioni europee, ha un cuore che pulsa per le peculiarità regionalistiche quanto per la ricerca di una comune matrice continentale. Una storia allora, che come esaustivamente censito e illustrato nel libro, da quindici, venti anni a questa parte, può essere rivissuta anche grazie a questi gastromusei, sempre più numerosi nel nostro Paese e, come recita l’introduzione a firma del docente di Storia dell’alimentazione Massimo Montanari, «segnale vivissimo di un’attenzione e di una domanda nuova, di un turismo intelligente che non si accontenta più del monumento famoso o della grande collezione d’arte, ma vuole capire il senso di un territorio, dei rapporti consolidati che ogni società ha intrattenuto con l’ambiente in cui vive, traendone le risorse per vivere, possibilmente bene».
Musei del gusto: più che un libro un viaggio nella storia del cibo
Ma i sapori italiani non sono bufale di Priscilla Del Ninno Una ricerca del benessere, quella odierna, che come argutamente intuito dagli addetti ai lavori e dagli operatori dell’editoria, passa anche per il concetto di convivio, che dall’etimologia latina del termine - cum vivere - rimanda proprio a una scelta mirata a trasformare il gesto nutrizionale dell’alimentazione in un momento eminentemente culturale. Un dogma di partenza che nel dibattito interregiona-
Anche il turismo si sta trasformando, non solo visite ai monumenti e alle collezioni d’arte, ma anche ai gastromusei sparsi per la penisola alla ricerca di un gusto sempre più raffinato
le che anima la discussione politica secessionista, restituisce forza alle peculiarità locali, viste però nell’ottica dell’unicità della gastronomia italica. Una convinzione che ha ridato alla scienza intestata allo studio del cibo una nuova dignità sociale, restituendo alle pietanze e al vino che ne accompagna sapori e retrogusti, un ruolo importante nel riconoscimento dell’identità di un popolo. Così, anche se può
E allora, nel melting pot della cucina e nella trasversalità delle ricette, tra proibizioni, rivisitazioni e commistioni, come ci ricorda la guida edita da Carsa, non possiamo prescindere - moderne lotte internazionali di marchi e etichette comprese - dal racconto del nostro passato e dalla disanima sul nostro presente che passano anche per i corridoi del Museo del Parmigiano Reggiano di Montecchio, in Emilia Romagna, come dal Museo dell’Olio di Torgiano, in Umbria, o da quello del peperoncino di Maierà, in Calabria. E così, dall’Ecomuseo della vitivinicoltura a Candelo, in Piemonte, al Museo del tartufo di S. Giovanni d’Asso in Toscana, giù fino alle Saline Ettore e Infersa di Marsala, in Sicilia, il testo propone un viaggio per il Bel Paese i cui odori, sapori e rimandi ancestrali fanno da ideale contraltare alla più vasta Babele del gusto europea. Per questo ci piace concludere quest’incursione alle radici dei nostri trascorsi enogastronomici e alla ricerca di possibili scenari futuri, con le parole del direttore dell’European Museum Forum, Massimo Negri, che nelle pagine introduttive della guida ci ricorda come «dalla fabbrica vittoriana alla chiesa barocca, dalla cascina lombarda allo stugor scandinavo, dal polder olandese alla risaia del meridione spagnolo… tutto il continente ci offre un vastissimo catalogo di manufatti e forme del paesaggio antropico che costituiscono l’ambiente storico europeo, il che costituisce il substrato e il portato di una cultura europea in continua evoluzione». Un mosaico in cui l’Italia e la sua infinita varietà di cucine offre i suoi preziosi tasselli.
jet set
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Carla Bruni ha monopolizzato le prime pagine dei tabloid inglesi
Madame Sarkozy batte sir Fabio Capello di Italo Cucci e non ci fosse stato quel maledetto rigore realizzato da ”Scarface” Ribery, ieri Fabio Capello avrebbe conteso le prime pagine dei tabloid inglesi alla magnifica connazionale Carla Bruni che invece – caduta l’Inghilterra davanti alla Francia a St.Denis – ha dovuto spendere più sorrisi del dovuto per addolcire la pillola agli ospiti. L’incrocio Inghilterra-FranciaItalia, almeno dal punto di vista diplomatico/politico è stato felicissimo, un po’meno quello calcistico: Sir Fabio ce l’ha messa tutta, s’è visto che nulla si poteva rimproverare ai suoi giocatori sul piano fisico, ”Fat” Rooney ha corso come un ossesso, ”Spice” Beckham non sembrava neanche un aspirante pensionato, gli altri avevano l’aria di operai precari quindi impegnati a salvarsi il posto; e tuttavia la squadra di Capello è lontana dall’avere – e mostrare – una qualità e continuità di gioco che possa far contenti gli amareggiatissimi inglesi che dovranno vedersi gli Europei in televisione.
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D’altra parte, affacciandomi contemporaneamente su due reti per seguire l’Italia in Spagna e l’Inghilterra in Francia, non ho potuto cogliere sensibili segnali di speranza per Capello nè per Donadoni, che quindi rinviamo ad altri impegni possibilmente decisivi. Resta, di memorabile, di questo mercoledì internazionale, ben poco. E andiamolo a vedere, come si dice da quando ”leggere” è diventato quasi un vezzo, non più una necessità. E capirete perché, se continuerete – bontà vostra – a seguirmi. Memorabile, tanto per cominciare, il prologo a Francia-Inghilterra su Sky. Marcello Lippi, inviato speciale della paytivù a Londra, si è esibito in una intervista a Fabio Capello, fino a poco tempo fa commentatore ufficiale di Raisport. Immagino che fuori campo si siano confidati alcuni segreti (”Continua di questo passo – potrebbe aver detto Fabio a Marcello – e fra poco avrai la panchina che meriti, magari quella
dell’Italia, ora occupata dal precario Donadoni”) così come son certo che da nessun sindacalista del ramo sia venuta una dura protesta per l’abusiva esibizione di Lippi, come toccò tempo fa al povero Bonolis. Poi è cominciata la partita di St.Denis e mi sono goduto i commenti un po’ borbottati di Lippi, le corse eleganti ma poco fruttuose di Beckham, la faticaccia di Rooney, il correre a vuoto di Trezeguet (che agli Europei con Domenech non ci arriverà mai), soprattutto la rabbia di Ribery che si è sciolta dopo il gol in un emozionante omaggio a Thierry Gilardi, il quarantanovenne commentatore televisivo
della nazionale francese morto improvvisamente alla vigilia della partita: ”Scarface” ha sollevato la maglietta dei ”Coq” e ha mostrato, sotto, quella recante una scritta dedicata al popolare telecronista. A Gilardi
per questa osservazione che non vuol essere corporativa ma sottolineare un dato di fatto: è passato quasi inosservato, il 25 scorso, un anniversario significativo. Ottant’anni fa, il giornalista Giuseppe Sabelli Fioretti
L’incrocio Inghilterra-Francia-Italia ha segnato il battesimo politico della first lady francese e di Marcello Lippi come commentatore televisivo era stata dedicata addirittura la partita, prima del fischio d’inizio. Così ho capito che in Francia i giornalisti contano ancora qualcosa e non sono stati quasi soppiantati, come in Italia, da ex calciatori e allenatori. C’è un motivo
”Scarface” Ribery ha dedicato il gol alla memoria del giornalista Thierry Gilardi a sottolineare l’importanza della stampa d’Oltralpe. Il mercoledì internazionale ha fatto registrato una sconfitta per Roberto Donandoni, come per Fabio Capello
aveva offerto agli italiani (a quei pochi – dicono quarantamila – che possedevano una radio) la prima storica radiocronaca di una partita di calcio, un’Italia-Ungheria finita 4-3. Sabelli Fioretti – che ho conosciuto bene nell’antica redazione di ”Stadio”quando, ritiratosi dalla lunga milizia redazionale, si era dedicato alla filatelia sportiva – era stato incaricato di raccontare la partita coincidente con l’inaugurazione dello Stadio del Partito Nazionale Fascista, a Roma, oggi Stadio Flaminio; e aveva aperto la strada a un altro mito, Niccolò Carosio, che avrebbe cantato le gesta azzurre fino al 1970 quando, in uno stadio messicano, s’era giocato il posto in Rai sfottendo pesantemente un guardalinee etiope.
Ecco: credo che queste imprese giornalistiche saranno sempre più rare, anche se Civoli, Marianella e altri telecronisti si battono come leoni per sopravvivere all’opinionismo pedatorio; nel nome del radiocronista Sabelli Fioretti – ch’era severissimo e mal avrebbe tollerato l’odierno andazzo – continueremo spero a seguire con immutata passione Sorella Radio, dove Riccardo Cucchi e i suoi prodi tengono alta la bandiera della professione giornalistica ormai allargata anche a coloro che hanno vistose difficoltà linguistiche.
Ne parlo sereno, anche se sono uno di famiglia, anzi: soprattutto per questa possibilità che mi viene concessa di essere ”dentro” lo strumento magico dell’eterno ”Tutto il calcio minuto per minuto”non ancora ridotto a ”spezzatino”. Toccherà a loro raccontare le future gesta delle nazionali di Capello e Donadoni. Per quella che ci è più vicina, raccomando di prepararsi a forti emozioni. La faccia dell’Italia azzurra che m’è rimasta impressa dopo la sconfitta di Elche è quella di Gianluigi Buffon appena fulminato dal siluro di Villa. Sembrava dire: ”Dove andremo a finire, di questo passo?”. Perché molti hanno elogiato la difesa azzurra, ribattezzandola addirittura ”Muro di Berlino” in memoria del Mondiale vinto nel 2006; ma certo dovrebbero spiegarci perché Buffon si sia esibito in una serie di parate audacissime, senza le quali avremmo portato a casa un risultato pesantissimo. Nel frattempo, Donadoni, come un Prodi qualsiasi, invoca la fiducia (contrattuale) anticipata, magari a rischio. E un telecommentatore già calciatore e allenatore, Dossena, lo difende sostenendo che ”a un commissario tecnico non si può offrire un contratto finalizzato a un risultato”.Vecchio amico Beppe, come ti capisco: Ghana, Albania e Paraguay – le cui nazionali hai allenato con scarsa fortuna – sempre al risultato han guardato. Sempre.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
La conversione di Allam creerà tensione con l’Islam? I PROBLEMI POTREBBERO NASCERE PER ALLAM PER LE ACCUSE DI FONDAMENTALISMO Di primo acchito viene da pensare che problemi seri potrebbero nascere solo contro lo stesso Magdi Allam e il Vaticano. Perché problemi per l’Islam? Non dovrebbe essere difficile per i Mussulmani trovare un fanatico disposto a punire - magari impunito - l’apostata Magdi Allam o il provocatore Benedetto XVI. In verità, secondo me, è reale il pericolo che la conversione del vicedirettore del Corriere della Sera possa produrre problemi nei confronti dell’Islam, dal momento che Magdi Allam ha accompagnato la sua conversione con la lettera - pubblicata sul Corrierone il giorno successivo alla cerimonia in Vaticano - in cui lancia nei confronti dei Mussulmani accuse di fondamentalismo, violenza e discriminazione nei confronti delle donne. Accuse ribadite ed ancor più esplicitate nella trasmissione Otto e mezzo di due giorni fa, in cui ha affermato che in Italia ci sono migliaia di Islamici convertiti al Cattolicesimo che vivono la loro nuova fede in clandestinità. Queste dichiarazioni possono davvero aprire gli occhi a molti altri Mussulmani fondamentalisti per costrizione, veramente moderati e aperti alla
verità e al dialogo interreligioso. Potrebbe probabilmente aprirsi una falla dalle conseguenze inimmaginabili. Ringraziando la redazione per l’attenzione, distinti saluti.
Alfredo Bianchi - Palermo
SPERO NON SORGA ALCUNA TENSIONE, UN DIBATTITO COSTRUTTIVO SAREBBE IDEALE Spero proprio che la conversione al Cattolicesimo di Magdi Allam, sia destinata ad aprire un dibattito nell’ambito della Comunità islamica, dibattito che potrebbe condurre ad un costruttivo dialogo interreligioso. Il commento dell’Ucoii ( Unione delle Comunità islamiche in Italia ), apparentemente moderato, è stato giudicato ambiguo da Magdi Allam, però in via definitiva il comunicato si conclude con l’invito a vivere la propria religiosità liberamente, astenendosi quindi dal condannare il giornalista del Corriere di apostasia. Condanna che invece è stata pronunciata dagli integragralisti e accompagnata dalle solite minacce di morte. Direttore, possiamo sperare in un dialogo tra moderati? O meglio: esistono Islamici moderati?
Giulio Guidi - Siena
NESSUNO SCONTRO DI CIVILTÀ O RELIGIONI, MA COSA NE PENSA IL PROFESSOR CARDINI?
LA DOMANDA DI DOMANI
Come reintrodurre il merito nel sistema scolastico italiano? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Pensate veramente che una civilità e una religione millenaria come l’Islam possa esser messa in difficoltà dalla conversione di una persona? Io sinceramente non lo penso, anche perché il vicedirettore del Corriere della Sera aveva già manifestato più volte idee e propositi lontani dalla sua tradizione di appartenenza. Non bisogna cadere nell’errore di pensare ad uno scontro di civiltà o di religione. In realtà Islam e Cristianesimo hanno sempre dialogato e non si capisce perché oggi dovrebbero essere in contrapposizione. Non bastano gli islamisti radicali per farci pensare che tutti quelli che si rifanno all’Islam sono pericolosi nemici. Proprio per questo mi piacerebbe leggere sul vostro giornale un intervento del professor Cardini sulla questione.
UNA NUOVA STAGIONE POLITICA ALLE PORTE Con il fenomeno dell’antipolitica, che è letteralmente divampato nella società Italiana, c’è da chiedersi: ora che fare? Un dato è certo, i partiti (mere strutture di potere oramai non più al passo con i tempi) devono ripensare ruolo, funzioni e organizzazione. Siamo dunque alla nascita di una nuova stagione politica? Potrebbe darsi. Il Grillismo, fenomeno telematico prima, mediatico poi, e di popolo successivamente, non può essere né ignorato, né sottaciuto, né liquidato con sufficienza. Il sistema politico è forse ”alla frutta”, non è possibile continuare ad avere a tutti i livelli una classe politica spendacciona e incapace, o più che altro disinteressata alle problematiche reali dei cittadini rappresentati. Il fenomeno del potere è un fenomeno particolare, gli eletti da sempre fanno di tutto per conquistare e mantenere i privilegi del ruolo che ricoprono, ma il dato più grave nell’ultimo decennio, è che non si è costruita una classe dirigente sia a livello periferico che centrale, capace di interessarsi realmente alle istanze dei cittadini, per poter costruire
IL TEMPO DEI FIORI Subito prima delle nozze, le donne africane Swahili si affidano alle cure di una donna esperta detta ”somo”, che decora all’henné il loro corpo con disegni floreali, simbolo del passaggio all’età adulta L’ABORTO VA COMBATTUTO, CERTAMENTE NON FACILITATO ”L’aborto non è solo una questione che riguarda le donne: non devono essere lasciate sole davanti a un simile dramma”. Sono le parole dette ieri da Giuliano Ferrara, direttore del foglio e leader della lista Pro Life. Parole che sottoscrivo in pieno. Ecco perché mi auguro che vada davvero a ricoprire il ruolo di ministro della Salute, Ferrara si batterebbe anche contro l’introduzione della pillola Ru486, ”il prezzemolo moderno. E’ pericolosa. Non è possibile assumerla sotto controllo in ospedale e seguire in una struttura sanitaria tutto il percorso che porta all’espulsione del bambino dal corpo della donna. La Ru486 finirebbe dunque con l’essere lo strumento che riporta l’aborto tra le pa-
dai circoli liberal Marco Pace - Milano
con acume e preparazione le giuste risposte che una società si attende. È dunque necessario costruire un serio percorso di riabilitazione per una politica inefficiente e incapace di costruire risposte reali alle istanze dei cittadini, ma cosa ancor più grave incapace di rigenerarsi allevando nuovi soggetti capaci e pronti all’impegno politico e amministrativo. È urgente introdurre nuova linfa in politica anche a livello elettivo, con rappresentanze giovani capaci, in passato, e ancora oggi invece i rappresentanti del popolo sono sempre più spesso professionisti o presunti tali che sembra si siano distinti nel loro lavoro privato, e che poi la società oligarchica ha eletto a rappresentarli, senza però sapere che in tali soggetti il mordente per migliorare le condizioni sociali dei rappresentati era, e in molti casi è, inesistente. Moltissimi, se non tutti, sono arrovellati quotidianamente dal mantenimento del potere, unico progetto da essi perseguito. Questo periodo storico dunque, va visto da più punti di vista. Quando anche lo stesso Presidente della Repubblica interviene nel dibattito politico invitando i par-
reti domestiche, colpevolizzando le donne che si ritroverebbero di nuovo sole di fronte ai loro drammi, sapendo che assumerla significa ingerire un veleno che uccide il bambino che portano in grembo. L’aborto facile è una favola. Va combattuto, certamente non facilitato”.
Amelia Giuliani - Potenza
IN ITALIA TUTTO FA NOTIZIA, ANCHE LA LAUREA DI STASI In Italia ormai tutto fa notizia. Ad esempio la laurea in Economia con 110 e lode di Alberto Stasi, che in realtà noialtri ricordiamo come unico indagato per l’omicidio della fidanzata, Chiara Poggi di Garlasco. Dunque ce l’ha fatta e festeggerà, pare, con amici e parenti nella sua villetta. Ma la verità sul delitto?
Marco Valensise - Milano
lamentari a essere più sobri e credibili, vuol dire che qualcosa non va, se però la classe politica è lo specchio della società, vuol dire allora che siamo messi maluccio; che fare dunque? Innovare, innovare, innovare. È l’unica via perseguibile per costruire una classe dirigente nuova, dare una maggiore credibilità alle Istituzioni e vigore a una società che dovrebbe avere più spunti innovativi. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Un quadro non sempre deve essere profumato Caro Theo, penso che una contadinella sia bella vestita com’è, con la sua gonna e camicetta polverosa e rappezzata, azzurra, cui il maltempo, il vento e il sole danno i più delicati toni di colore. Se si veste da signora, perde il suo fascino particolare. Un contadino è più vero coi suoi abiti di fustagno tra i campi che quando va a Messa la domenica con una sorta di abito da società. Analogamente ritengo sia errato dare a un quadro di contadini una sorta di superficie liscia e convenzionale. Se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalla patate bollenti, va bene, non è malsano; se una stalla sa di concime va bene, è giusto che tale sia l’odore di stalla; se un campo sa di grano maturo, patate, guano o concime va benone, soprattutto per gente di città. Quadri del genere possono insegnare loro qualcosa. Un quadro non deve necessariamente essere profumato. Addio, sempre tuo. Vincent Van Gogh a suo fratello Theo
ORAMAI A ROMA NON C’È PIÙ SICUREZZA La scorsa notte un tassista è stato aggredito a Roma da due marocchini, uno dei quali, ventenne, è stato arrestato. Occorrono interventi per tutelare la sicurezza dei lavoratori, compresi gli autisti dell’Atac in servizio notturno: troppe aggressioni ormai all’ordine del giorno. Grazie a un passante è stato bloccato uno dei due rapinatori che aveva sottratto incasso e portafogli, ferendo il tassista al setto nasale e provocando altre lesioni curate poi al Sant’Eugenio. Credo sia urgente reperire i fondi per sistemi antiaggressione, per la lotta contro l’abusivismo e la concorrenza sleale degli Ncc di fuori Roma. Grazie per l’ospitalità, saluti.
Claudia Testa - Roma
L’ISLAM È MOLTO DI PIÙ DI QUELLO CHE SI CONOSCE Comprendo bene che per rispetto, per paura di ferire la sensibilità e le credenze altrui, qualcuno esiti nel fare ironia o satira sul profeta dell’Islam, Maometto, o sull’I-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
28 marzo 1881 Si spegne il compositore russo Modest Mussorgsky, autore di Una notte sul monte Calvo 1911 Nasce Ludovico Quaroni, urbanista e architetto italiano 1923 Istituzione della Regia Aeronautica 1939 Termina la guerra civile spagnola: il Generalissimo Francisco Franco conquista Madrid 1941 Muore Virginia Woolf, scrittrice e saggista britannica 1943 Muore in California il compositore russo Sergei Rachmaninoff 1959 La Cina blocca la rivolta popolare tibetana iniziata il 10 marzo e scioglie il governo del Tibet assumendone il totale controllo; il Dalai Lama ripara in esilio in India 1979 Incidente alla pompa di raffreddamento della centrale nucleare di Three Mile Islands (Pennsylvania) 1995 Fusione in Giappone tra la Mitsubishi Bank e la Banca di Tokyo
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
slam stesso, che non può però essere piegato o appiattito da nessuno a interpretazioni univoche che assecondano o giustificano logiche di violenza terrosistica. L’Islam è certo molto di più di quello che in troppi conoscono: è un tesoro di grande spiritualità che più volte nei secoli si è schiuso anche agli occidentali (basti citare la fecondità e la bellezza della tradizione dei pii sufi). Ciò che non comprendo è, invece, la paura, mascherata da rispetto, di molti intellettuali o politici nell’affrontare in modo critico la dottrina, la storia e la realtà oggettiva di una grande e contraddittoria religione. Imparino - se mi permettono un consiglio - i fratelli musulmani dagli altri figli di Abramo a sorridere o anche a ridere di se stessi e delle proprie cristallizzate e talvolta assai umane credenze. Il loro Dio è di certo più grande di certe umane piccolezze. Ringrazio cordialmente la redazione.
Davide Romano Palermo
PUNTURE Ho visto insieme Elisabbetta d’Inghilterra e Carla di Francia: la prima è la regina, ma la seconda era regale.
Giancristiano Desiderio
“
Il genio, che significa prima di tutto trascendente capacità di prendersi delle brighe THOMAS CARLYLE
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LA CINA E I GIORNALISTI ACCOMPAGNATI Il Dalai Lama ha affermato che il mondo dovrebbe sfruttare le Olimpiadi come un’opportunità per ricordare alla Cina il rispetto dei diritti umani. E ha invitato a rinunciare agli appelli per il boicottaggio dei Giochi. Intanto la Cina ha organizzato delle ”visite guidate” per i giornalisti in Tibet. Pechino vuole mostrarsi al mondo, far vedere che va tutto bene, che non ci sono problemi. Peccato però che i giornalisti non siano liberi di girare per il Tibet per compiere, come si deve, il proprio lavoro.
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LE OLIMPIADI SARANNO UN EVENTO POLITICO Una breve gita a Lhasa, con percorso predefinito e sotto la massima sorveglianza delle autorità, è tutto ciò che il governo cinese ha concesso a 26 reporter di 19 testate internazionali (escluse Bbc e Cnn) per verificare la situazione in Tibet, rispondendo con una farsa alla richiesta di apertura ai media avanzata da tutte le principali capitali occidentali. Dovevano essere i Giochi della trasparenza e dell’apertura della Cina al mondo, ma oggi è chiaro che saranno le Olimpiadi della censura e del controllo poliziesco, al servizio di una macchina propagandistica messa in moto per trasformare l’evento sportivo nella trionfale celebrazione della potenza della Cina popolare. Pechino aveva promesso che in vista dei Giochi, e durante il loro svolgimento, la stampa avrebbe goduto di maggiore libertà di movimento. Ad oggi, invece, ci ritrovia-
mo con il Tibet sigillato, off limits per stampa straniera e turisti; il divieto di accesso esteso a tutte le province limitrofe; e giorni fa è stato annunciato anche il divieto assoluto, da adesso fino a tutta la durata delle Olimpiadi, di trasmettere in diretta da Piazza Tienanamen. Le autorità cinesi sono ormai di fronte a un bivio: impedire ai giornalisti occidentali di informare liberamente dalla Cina e dal Tibet, suscitando però nei propri confronti l’ostilità del mondo dei media; oppure, permettere ai giornalisti di fare il loro lavoro, sapendo però di fornire occasioni di visibilità al dissenso interno. (...) Quanti in questi giorni ci ripetono che sarebbe sbagliato boicottare le Olimpiadi, perché non si mescolano sport e politica, e perché saranno comunque un momento di apertura della Cina al mondo, un’occasione per porre sotto i riflettori anche il tema dei diritti umani, o si sbagliano o mentono. Non riescono o non vogliono vedere che boicottaggi o no – ancor di più alla luce di quanto accaduto in Tibet – le Olimpiadi assumeranno comunque e inevitabilmente un connotato politico. Avrebbero un valore politico le eventuali assenze dei leader occidentali, ma l’avranno anche le loro presenze e la propaganda nazionalista di cui sarà permeato l’evento. L’unica cosa che non possiamo impedire, dunque, è che attraverso le Olimpiadi passi un messaggio politico. Possiamo impedire, invece, che sia solo Pechino a trarre beneficio da quel messaggio.
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PAGINAVENTIQUATTRO Richard Widmark era la faccia oscura dei film degli anni Cinquanta
Hollywood perde il suo
CATTIVO di Francesco Ruggeri a faccia del bravo ragazzo non l’ha mai avuta. Sarà per quell’aria con cui sembrava sfidare il mondo o per quegli occhi che sprizzavano fascino e ambiguità. Al secolo: Richard Widmark. Lontano anni luce dai toni ”soft” alla James Stewart, così come da quelli duri e puri alla John Wayne. Un uomo perennemente contro, riflesso nei bagliori di un attore che ha sempre depistato ogni attesa. Giocando un gioco tutto suo. Dall’inizio alla fine. I primordi allora: Widmark nasce nel lontano 1914 a Princeton (Illinois) dove frequenta il Lake Forrest College. Tempo di diplomarsi in fretta e furia ed eccolo debuttare in radio con Aunt Jenny’s Real Life Stories. Ma la sua fissa è il cinema. Dopo aver dribblato il servizio militare (viene esonerato per via di un problema al timpano), non ci pensa due volte ed esordisce sul grande schermo. Niente gavetta, anzi, gli capita d’entrare subito nella storia del cinema. E dall’entrata principale. Il film è Il bacio dell’assassino (Henry Hathaway, 1947) e il suo Tommy Udo (gangster schizzato capace di azioni folli) diventa subito uno spartiacque nel genere. Scena simbolo: Widmark (vincitore dell’Oscar come migliore attore non protagonista) si avventa contro una vecchia paralitica e la getta dalle scale. Pelle d’oca. E non è che l’inizio.
L
Richard Widmark nel 1956 interpretò al fianco di una giovanissima Marilyn Monroe La tela del ragno Elia Kazan lo diresse in un ruolo da “buono” nel film Bandiera gialla
ferisce buttarsi dall’altra parte della barricata. A questo punto un altro magari si sarebbe adagiato sugli allori, facendosi cullare dall’etichetta di ‘villain’ perfetto per ogni occasione. Richard non ci pensa nemmeno. E dopo appena sei film si mette disperatamente alla ricerca di chi sappia impiegarlo anche in altre vesti.
Elia Kazan non se lo lascia sfuggire. E per il suo Bandiera gialla (1950), gli regala il ruolo dello scienziato, facendolo passare dalla parte
Mano pericolosa (Sam Fuller, 1953), dell’ex bandito diventato sceriffo in Ultima notte a Warlock (Edward Dmytryk, 1959), del medico invischiato in un mèlo rovente ne La tela del ragno (Vincent Minnelli, 1955).
Arriva infine il momento di correre da solo. Widmark saluta la Fox e si reinventa una carriera in solitaria. Un free-lance deciso a scegliersi i copioni che dice lui. Fonda una sua casa di produzione (la Heath Productions) e si afferma definitivamente come uno degli attori simbolo della sua generazione. Il suo genere preferito? Il western. Basti ricordare L’ultima carovana (Delmer Daves, 1956), Cavalcarono insieme (John Ford, 1961) e Ultima notte a Cottonwood (Don Siegel, 1969). Senza tralasciare una delle sue interpretazioni più alte, quella del colonnello Lawson in Vincitori e vinti (Stanley Kramer, 1961). Tra gli anni Sessanta e i Settanta presenzia alla nascita del poliziesco moderno (Squadra omicidi sparate a vista, Don Siegel, 1968), per poi ritirarsi gradualmente dalle scene. Dopo di lui Hollywood non è più stata la stessa.
Aveva 93 anni. Nel 1947 interpretò un gangster in Il bacio dell’assassino e vinse l’Oscar come attore non protagonista. È stato interprete indimenticabile di western e polizieschi
La 20th Century-Fox lo adocchia immediatamente e non perde tempo, mettendolo sotto contratto. Il suo marchio di fabbrica? Interpretare come nessuno psicopatici a piede libero. Come quello che campeggia in Cielo giallo (fiammeggiante western di William Wellman targato 1949) e il malvivente de I trafficanti della notte (Jules Dassin, 1950). Nella Hollywood del dopoguerra, dominata dal carisma scintillante dei ”buoni”, Widmark pre-
del ”bene”. Ma non è che una breve vacanza. Perché nell’arco di tutti i Cinquanta Widmark tornerà a incidere a fuoco lo schermo, continuando a vivere storie di uomini sbandati, persi nelle retrovie della città, incastrati al confine che corre fra legalità e malavita. È il caso del ladruncolo di mezza tacca immortalato in