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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

intervista he di c a n o r c di Ferdinando Adornato

Cossiga: i cattolici, la crisi italiana, la Costituente pagina 6

Renzo Foa

alitalia ULTIMATUM DI AIR FRANCE AI SINDACATI pagina 9

Francesco Pacifico

bioetica SERGIO BELARDINELLI: NON C’È UN CONFRONTO SU BASI RAZIONALI

IL MONDO TRE ANNI DOPO WOJTYLA

Occidente Vertice Nato Le strategie per il XXI secolo

L’uomo che ha riportato i valori al centro della nostra vita Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

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Riccardo Paradisi

Non abbiamo paura

Francesco Cannatà Michele Marchi Fernando Orlandi David J. Smith Stranamore

società GLI ULTRAS ALL’ULTIMO STADIO

NUMERO

59 •

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Cristiano Bucchi

ISSN 1827-8817 80402

alle pagine 2, 3, 4 e 5 alle pagine 2, 3, 4 e 5

MERCOLEDÌ 2 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Wojtyla

tre anni dopo

Il Papa che ha riacceso la fiamma interiore della libertà

Come Roosevelt, come Reagan ha cambiato il mondo di Michael Novak ualche anno fa due cristiani evangelici mi scrissero per dirmi che consideravano ancora Giovanni Paolo II il loro Papa. Uno di loro sosteneva che Karol Wojtyla fosse stato uno degli uomini più simili a Cristo dai tempi in cui visse lo stesso Gesù. Probabilmente Giovanni Paolo II avrebbe trovato l’elogio eccessivo, ma lo avrebbe gradito, perché essere il vicario di Cristo è stato il suo impegno più grande. Per questo, in un certo senso è stato quasi un caso che questo Papa sia diventato anche una delle maggiori risorse per la libertà umana degli ultimi secoli. Il suo interesse principale non era politico, non lo era il suo principale ruolo e non lo fu il suo primo amore, ma certo i venti che il suo pontificato sollevò ebbero la forza di un uragano. La sua presenza carismatica come vescovo di Roma rese impossibile l’attuazione di qualsiasi abuso dei diritti umani in Polonia e nei territori circostanti – come il pestaggio di preti, le violenze sugli scaricatori di porto a Danzica o l’imprigionamento di giornalisti in Slovacchia – senza che il Vaticano vi portasse sopra l’attenzione internazionale. Il suo carisma aprì infiniti spazi di libertà civile in Polonia e nei paesi confinanti, e fu così coraggioso da spingersi in ognuna di quelle nazioni per dare maggiori possibilità a quelle persone di iniziare a vivere, pensare ed agire come donne e uomini liberi. Li incitava a non avere paura, perché egli credeva, fin da ragazzino, nella luce della libertà, una fiamma donataci direttamente da Dio che brucia dentro di noi, una luce emanata dalla sua stessa luce che ci rende vivi, ci dà il potere di scegliere il nostro destino e fa di noi, sotto questo profilo, le creature a lui più vicine. Quando aveva solo 19 anni, nel 1939, fuori dalla Cattedrale di Wawel dove aveva appena assistito alla messa, il giovane Wojtyla vide il primo aereo da combattimento tedesco bombardare le case lungo l’argine del fiume sottostante. Era la zona in cui viveva il padre vedovo, e lui corse fino a rimanere senza fiato per accertarsi che fosse illeso, dovendo imparare così - durante tutto il periodo della resistenza - che la libertà interiore può sopravvivere anche sotto l’occupazione e il controllo del totalitarismo. Ma egli capì anche che gli esse-

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ri umani non vivono solo della propria vita interiore.

Con gli anni si rese conto di quanto ricca e complicata fosse la libertà; da quella interiore si passa velocemente a desiderare quella politica, e data quella politica si impara presto che senza libertà economica – la libertà dalla povertà – la gente non rimane soddisfatta a lungo solo per il fatto di poter votare ogni due o quattro anni. Imparò che né la libertà politica, né quella economica, si possono affermare o conservare sen-

za libertà religiosa, culturale e spirituale, che significa libertà di coscienza, di spirito, di impresa, di idee, di scienza e delle arti. Karol Wojtyla non era solo un uomo santo e un vescovo senza paura, era anche un filosofo autentico, un pensatore forte e originale. Gli rendiamo omaggio non solo in virtù della gratitudine per il suo aiuto nel cambiare la mappa d’Europa; non solo perché ha contribuito alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’impero sovietico puntando il dito Karol Wojtyla non era solo un uomo santo e un vescovo senza paura, era anche un filosofo autentico, un pensatore forte e originale. Gli rendiamo omaggio, non solo per ringraziarlo del suo aiuto nel cambiare la mappa d’Europa; non solo perché ha contribuito alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’impero sovietico puntando il dito contro il suo vuoto spirituale, ma anche per ciò che i suoi libri ci hanno insegnato sulla libertà del mondo

contro il suo vuoto spirituale; non solo per l’impegno profuso per diffondere la libertà nel mondo, ma anche per ciò che i suoi libri ci hanno insegnato sulla libertà. Le lettere che scrisse – le encicliche – gli sopravviveranno a lungo. Ricordiamo con particolare gratitudine l’enciclica del 1991, “Centesimus annus”, che riassume la lezione sulla libertà politica, economica e culturale che è stata imparata dai papi nell’arco di un secolo pieno di sangue e di dolore. Qui, in particolare, egli introdusse il concetto di “ecologia morale”, quell’insieme di sentimenti, storie, emozioni, passioni, spirito e atteggiamento all’interno del quale la libertà può manifestarsi. Questa dimensione – la dimensione culturale - è stata ignorata dal mondo per troppo tempo.

Molti ricordano che Giovanni Paolo II ha scritto con l’ex cardinale Ratzinger, suo attuale successore, due grandi encicliche sulla comprensione cristiana della libertà rivolte direttamente ai cosiddetti teologi della liberazione, intenti a diffondere nei paesi dell’America Latina lo stesso contorto pensiero marxista che aveva impoverito l’Europa. In tutti i sensi. Quando, sotto la rivoluzione reaganiana, le democrazie si svilupparono in quegli stessi paesi, i teologi della liberazione - che si erano preparati all’avvento del marxismo piuttosto che della democrazia – si rivelarono inconsistenti come previsto da quelle encicliche. Con il coraggio della sua azione, dei fatti, e con la profonda analisi dei rapporti tra democrazie e diritti umani, Giovanni Paolo II è andato oltre i grandi leader che si sono battuti per la libertà nel XX secolo; egli appartiene alla cerchia di personaggi come Wilson, Churchill, Roosevelt, Reagan e Thatcher. Dalle Filippine al Cile a tutta l’America latina - memorabile la sua visita ad una Cuba così lungamente repressa - lungo l’Africa e l’Asia, fino alla sua amata Polonia e in tutta l’Europa dell’est, Giovanni Paolo II ha acceso la fiamma interiore della libertà, ed ha contribuito anche ad aprire gli occhi a tanti portabandiera dell’oppressione. Quando è morto, il mondo politico aveva un volto radicalmente diverso da quello dell’anno della sua elezione, il 1978. Oggi è giusto rendere omaggio a quest’uomo straordinario. Non molti nel XX secolo, o anche nei tre o quattro secoli precedenti, hanno portato avanti la causa della libertà politica più intensamente e in più luoghi del mondo di lui. E pensare che non era questa la sua principale occupazione.


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l’industria della comunicazione. Quello che alcuni autori e accademici chiamano il «complesso scientifico-tecnologico» si è trasformato nel paradigma dominante per la comprensione e la gestione del mondo e, molto spesso, nel parametro con cui interpretare e capire l’intricato ambito umano. L’altro grande spazio nel quale i termini di uso comune nascono è quello dell’industria dell’intrattenimento, soprattutto televisiva e cinematografica.

Come Giovanni Paolo II ha ricostruito il “vocabolario dei valori”

Oggi, come si dice amore? di Joaquín Navarro-Valls ggi, una delle maggiori difficoltà nella trasmissione e nella comunicazione dei valori è la scomparsa di un sistema comune di riferimenti. I sistemi di riferimenti sono quadri generali di convinzioni e ipotesi proprie d’ogni epoca, nelle quali le parole di uso comune hanno un luogo, una posizione e un significato proprio. Termini come natura umana, persona, coscienza morale, preghiera, Dio, vita eterna, così come famiglia, amore umano, sessualità ecc. hanno avuto in altre epoche - almeno in Paesi di tradizione cristiana - un significato intelligibile per la maggioranza poiché facevano parte del sistema di riferimenti condivisi. Nel corso dei secoli, in quello che adesso chiamiamo Occidente cristiano, esisteva un accordo sul significato di quelle parole. E l’arte, la storia, la letteratura di quelle epoche ce lo confermano. Quando si parlava di Dio si sapeva di Chi si stava parlando. Ugualmente

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accadeva quando si parlava di coscienza, di dignità umana, di famiglia o di vita eterna. Attualmente, le società hanno perso la loro omogeneità culturale e diversi sistemi di riferimento convivono uniti in una stessa comunità, offuscando in questo modo il significato ultimo delle parole che utilizziamo. Si potrebbe persino dire che in queste società si è perso il dizionario comune.

Questo quadro mi è diventato particolarmente chiaro poco tempo fa quando discutevo tali questioni con un accademico scandinavo. Mi diceva: «Quando pronuncio nel mio Paese la parola “famiglia” nessuno sa a che cosa mi riferisco perché il 50 per cento dei miei compatrioti semplicemente coabitano o sono celibi con figli; pochi di loro si sposano e le iniziative politiche e gli esperimenti legislativi circa la realtà familiare hanno fatto sì che “famiglia”oggi significhi qualunque raggruppamento di persone che

vivono per qualche tempo sotto lo stesso tetto; rinviando più che altro al concetto di un particolare nomadismo umano». La questione, in definitiva, si potrebbe formulare così: quando c’è un sistema cristiano di riferimenti, Dio è il riferimento per l’uomo. Quando si considera Dio irrilevante, l’uomo si rende auto-referenziale. E il risultato è che l’essere umano diventa un quesito senza risposta e un enigma per se stesso. Manca il vocabolario necessario perché il processo comunicativo raggiunga il suo obiettivo: la trasmissione di verità. Però la difficoltà non è solo funzionale ai processi comunicativi; si fa anche sentire a livello teorico perché il problema è che all’uomo risulta impossibile pensare fuori del linguaggio. Per questo, in assenza di un vocabolario di valori, si elabora un altro linguaggio alternativo. Oggi questo linguaggio nasce soprattutto in due spazi ben definiti: l’ambito scientifico e tecnologico, e quello del-

Alle 21 la veglia presieduta dal cardinale Ruini

A San Pietro la messa solenne di Benedetto XVI di Francesco Rositano Rito solenne in Piazza San Pietro per il terzo anniversario dalla morte di papa Giovanni Paolo II. Benedetto XVI, stamattina, presiederà nella Basilica vaticana la santa messa, trasmessa in diretta su Raiuno alle 9.55. Stasera, ore 21 presso le Grotte vaticane, dove è conservata la salma del papa polacco, si reciterà in suo suffragio la preghiera del rosario. La veglia sarà presieduta dal cardinale Ruini, mentre

monsignor Comastri proporrà le riflessioni sui cinque misteri gloriosi. A concludere il rito, il cardinale Stanislaw Dziwisz, segretario particolare di Giovanni Paolo II. L’evento, seguito anche da Cracovia, verrà trasmesso da Sat2000, la tv della Cei. Presto la

salma del papa, non prima di un esito positivo della causa di beatificazione, potrebbe essere esumata ed esposta nella cappella di San Sebastiano. Una procedura già eseguita per altri Papi, come Giovanni XXIII, e per altri beati illustri, come padre Pio.

Il clima culturale oggi riduce la razionalità a una dimensione semplicemente strumentale, utilitarista, calcolatrice o statistico-sociologica. In questo modo, il pensare perde la sua capacità metafisica e il modello delle scienze sperimentali diviene parametro e criterio di razionalità. Il pensiero, così indebolito, non può capire l’essere umano se non da una prospettiva relativa e pragmatica. Tutto, in definitiva, diventa opinione. Per questo, il Pontificato di Giovanni Paolo II ha intrapreso la missione di ricostruire quel vocabolario comune che non esiste più nella nostra epoca e che, tuttavia, è oggi indispensabile per capire la realtà umana e l’universo dei valori cristiani. Questo modo di presentare la verità cristiana era un carattere distintivo degli scritti e dell’attività di Karol Wojtyla e ha continuato a esserlo nell’immmenso Magistero di Giovanni Paolo II. Quando, nel 1960, il futuro Pontefice scrive Amore e responsabilità, - e questo l’ho sentito dire direttamente da lui - ci si accorge che alcuni concetti morali che quel testo conteneva erano difficili da capire per la mentalità moderna, mancando un’idea adeguata di chi è la persona umana. E con questa intenzione scrive alcuni anni dopo Persona e atto, nel quale fissa le basi antropologiche che permettono di capire quello che l’etica cristiana richiede dalla persona umana. Naturalmente, l’immenso compito di ridisegnare i parametri concettuali di un’epoca esigeva mezzi straordinari, perché si trattava di invertire una delle più popolari propensioni culturali della nostra epoca che, come ben si sa, è la soggettivazione del fatto religioso. Anche in questa prospettiva si potrebbe intendere l’ostinato viaggiare che ha caratterizzato quel Pontificato. I viaggi di Giovanni Paolo II non solo hanno permesso una diffusione globale di valori ma, stimolando costantemente l’interesse dei media, soprattutto i media elettronici, hanno finito col porre il tema religioso precisamente al centro dell’attenzione della nostra epoca. Il fatto religioso e la domanda trascendentale si rendono, in qualche modo, inevitabili. Forse la Sua ultima grande missione di ricreare un sistema comune di riferimenti, Giovanni Paolo II l’ha realizzata durante la vecchiaia e la malattia, nonché con la Sua morte. La decadenza biologica dell’essere umano passa spesso sotto il silenzio nel nostro panorama culturale. Credo che egli abbia trasmesso nitidamente la verità che la vita umana conduce alla morte, che è la sua fine ma non il suo significato ultimo. Inoltre, la vulnerabilità fisica e i limiti che essa implica, rivelano la struttura dell’essere umano. Questa rivelazione getta nuova luce sul senso della responsabilità della propria vita; ignorarla significa rassegnarsi a vivere a un livello inferiore all’umano.


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Wojtyla

tre anni dopo

L’eredità di Giovanni Paolo la politica del Vecchio Continente L’eredità di Wojtyla perIIlaper politica del Vecchio Continente

IL PENSIERO DELLA GRANDE EUROPA, CRISTIANA E LIBERALE di Ferdinando Adornato

i può, com’è ovvio e giusto, essere d’accordo o meno con il magistero di Wojtyla: ma non si può negare la «scossa filosofica» che ha dato al mondo, sollecitandolo a svegliarsi dal torpore morale nel quale era caduto e del quale, in gran parte, è ancora prigioniero. La sua «eterodossa ortodossia», quella sua singolare capacità di sposare la tradizione (anche nelle sue più rigide disposizioni) e la modernità (anche nelle sue più inedite suggestioni) ha avuto il merito di reinserire prepotentemente nell’agenda dell’umanità le questioni prime e ultime dell’esistenza, cos’è la vita, cos’è l’uomo, da dove veniamo, perché esistiamo, cos’è il bene, cos’è il male. Sono questioni che il Ventesimo secolo aveva annichilito con la sua politica criminale e che le società del benessere stordiscono nella loro rutilante superficialità. Sono questioni, bisogna saperlo, che non abbandoneranno mai l’animo umano per il semplice motivo che esse appartengono al permanente mistero del nostro passaggio terreno. Non a caso esse sono da sempre oggetto d’attenzione delle più grandi menti dell’umanità, da Aristotele a Kant. Fino, appunto, all’avvento del Ventesimo secolo: quando dopo la lunga incubazione del positivismo razionalista e del pensiero negativo, la filosofia morale è stata di fatto bandita dal novero delle filosofie maggiori, considerata una sorta di scienza inutile, quasi essa avesse ormai a che fare esclusivamente con la vita teologica e mai più con la vita quotidiana. Il terreno era così pronto perché i totalitarismi annichilissero l’umanesimo cristiano e il pensiero liberale che erano il vero cemento dell’idea di Europa, colpendo dunque al cuore i valori fondativi dell’Occidente.Valori che si

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erano formati intorno a un concetto assai semplice e preciso: la centralità della persona nella storia. ***** Il Ventesimo secolo ha tradito questa identità europea. Il nazismo si presentava come il compimento della metafisica occidentale. Il comunismo sosteneva di essere l’erede della filosofia classica tedesca. Niente di più falso: entrambe le ideologie totalitarie hanno in realtà dilaniato le carni di quella cen-

allo strisciante dominio del nichilismo etico, vero figlio della maledizione lanciata dai totalitarismi. Ebbene, il pensiero di Wojtyla si è inserito come un cuneo dentro questo sistema mentale, rovesciandolo. Come un raggio di luce o una goccia fresca in un mondo spesso opaco e spiritualmente arido ha testimoniato il bisogno insopprimibile, per l’uomo, di un orientamento morale. Ha fatto capire sia all’esoterismo teologico che al pragmatismo laico l’insopprimibile priorità di una riflessione sulle modalità e sulle finalità dell’agire umano, la drammatica attualità della «domanda di senso» che torna a elevarsi sia all’Est che all’Ovest, sia al Sud che al Nord del pianeta. Perciò durante il suo pontificato ci è sembrato giusto definirlo l’unico filosofo morale del nostro tempo. Il nostro compito dovrebbe ora essere, credenti e non credenti insieme, di fare in modo che egli non sia l’ultimo.

È stato l’unico filosofo morale del nostro tempo. Il nostro compito dovrebbe essere, credenti e non credenti insieme, di fare in modo che egli non sia l’ultimo tralità della persona che era l’autentico fondamento dell’idea di Occidente. Non le classi, non le razze, non lo Stato né la Scienza sono il motore e lo scopo delle Storia: ma l’uomo, l’individuo, la persona. Ebbene, non ci sarà alcuna nuova Europa, di più: non ci sarà alcuna Europa se sulle nostre terre, dall’Atlantico agli Urali, non tornerà a sventolare la bandiera della centralità della persona. Ma chi si batte davvero per questo traguardo? Quale fermento esiste nella politica, nelle Università, nei media intorno a questo grande orizzonte di ricostruzione della nostra più profonda identità? Spiace dirlo: ma nelle classi dirigenti prevalgono, per ora, pigrizia mentale, indifferenza, sottovalutazione, forse inconsapevole, della portata del problema. Qualcuno si è arreso

***** Fin dall’inizio del suo Pontificato, Giovanni Paolo II ha rivolto la sua sfida anche nei confronti delle libere società occidentali. Ha invocato giustizia sociale e rispetto della dignità umana di fronte alle ancora troppo accentuate disuguaglianze economiche. Ha riproposto l’antichissima, ma nello stesso tempo modernissima, idea del lavoro come la più alta forma di creatività umana da valorizzare in quanto tale, secondo quello che

dovrebbe essere il modello delle economie libere, contro il cieco produttivismo e contro la diffusa mentalità consumista. In alternativa all’individualismo egoista ha rilanciato il valore delle comunità e innanzitutto, naturalmente, della comunità primaria: quella costituita dalla famiglia. Infine di fronte ai dilemmi posti dallo sviluppo scientifico, di fronte alle terribili scelte poste dalle biotecnologie, non si è stancato di richiamare noi tutti alla massima di Immanuel Kant: considerate l’uomo sempre come fine e mai come mezzo! Wojtyla non si sbagliava. È l’intera società occidentale che ha oggi bisogno di riscoprire le sue radici. L’uomo come Imago Dei, immagine e somiglianza di Dio sintesi di particolare e universale. ***** Parlando nell’Università di Lublino, nel 1987, Giovanni Paolo II lanciò un formidabile appello in difesa della «soggettività umana», un appello per non «permettere che né conoscitivamente, né praticamente l’uomo venga ridotto all’ordine degli oggetti», a «conservare la soggettività della persona nell’ambito di tutta la praxis umana», ad «assicurare questa soggettività anche nella collettività umana: nella società, nello Stato, nei diversi ambienti di lavoro e perfino nello svago collettivo». Il marxismo-leninismo aveva trasformato il lavoro in una sorta di fine ultimo; una certa ideologia capitalista ne aveva fatto una merce tra le altre; persino il pensiero cristiano lo aveva spesso retrocesso a semplice attività strumentale, mezzo di sopravvivenza o di arricchimento. Giovanni Paolo II ne esalta invece sia la dimensione «soggettiva» che


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l’utilitarismo morale a dominare la scena del dopoguerra prolungando in realtà quell’allontanamento dal discorso morale trascendentale che ha aperto il varco, nel secolo scorso, all’eclissi della ragione e allo sfrenarsi dei totalitarismi? E non è forse vero che il nichilismo, serpeggiante e diffuso nelle nostre società, è l’indizio di un superamento incompiuto della tragica epoca che abbiamo alle spalle? *****

quella «oggettiva» e ricorda come non sia il prodotto a dare valore e dignità al lavoro bensì il fatto che a produrre sia un uomo. Imprenditori e lavoratori sono così chiamati, insieme, a santificare questo prerogativa umana perseguendo un bene comune per il quale sia il profitto che il lavoro possono cooperare se, beninteso, essi agiscono all’interno della medesima spinta etica. Si intrecciano così due principii che, in genere, si tende a presentare contrapposti: quello della proprietà privata e quello della destinazione universale dei beni. Infatti, seppure implica un’esclusività, la proprietà privata, al pari del lavoro, trae la propria ragione d’essere dal servizio prestato alla comunità. A lavorare e intraprendere, infatti, è l’uomo libero. Di conseguenza è solo tra gli uomini liberi di scambiare che si può tessere una vera rete di relazioni umane. È solo una società basata sulla libertà a poter riconoscere i diritti fondamentali (proprietà, contratto, concorrenza) e a proteggerli. La società più armoniosa, dunque, è quella che protegge il valore delle persone, cioè la società che colloca alla base dello sviluppo economico e del progresso sociale la qualità dell’essere umano. In conclusione: all’origine di ogni ricchezza c’è solo un soggetto: l’uomo creatore. ***** Con questo umanesimo che è alla base delle nostre società libere e liberali e con le cause del nostro progressivo allontanamento da essa, noi tutti dobbiamo fare i conti, non certo solo i cristiani. Perché la cosa riguarda la sostanza e il senso, il presente e il futuro della nostra civiltà. Quanto questi argomenti siano cruciali, e purtroppo controversi, lo dimostra il tenace rifiuto opposto da molti leader europei all’idea di richiamare le comuni radici cristiane nella nuova Costituzione europea. Non si trattava e non si tratta di una disputa astratta: era ed è in gioco il giudizio di fondo sull’intera nostra civiltà europea. È stato del tutto insensato opporsi a far vivere nella Carta il riferimento alle tradizioni di quel cristianesimo e di quell’umanesimo laico che, insieme, hanno fondato la centralità della persona come «l’idea d’Europa». Nessuna Costituzione potrà mai essere sentita come propria dai popoli se essa si limita a essere una pura operazione di ingegneria costituzionale, se non si fonda su una comune identità culturale e spirituale delle genti che la sottoscrivono. Dobbiamo, a questo proposito, porci una domanda: è sufficiente basarsi sulla cultura della libertà che si è affermata in Europa nel

Non sarà, ecco la domanda chiave, che l’Europa vive ancora in una fase postfascista e postcomunista, che rifiuta, certo, quelle ideologie e quei sistemi ma che non ha ancora ritrovato un baricentro, culturale e morale, in grado di sottrarci definitivamente alle ombre del passato? Augusto Del Noce scriveva alla fine degli anni Settanta: «La frattura deve essere cercata tra prefascismo e fascismo, non tra fascismo e postfascismo». Da allora tante cose sono cambiate. Ma c’è da chiedersi se quelle parole non racRedemptor Hominis (4 Marzo 1979) È l’enciclica ”programmatica”di Wojtyla. Solo Gesù Cristo chiudano ancora una verità, è il redentore dell’uomo, e solo Lui può salvarlo dal male, c’è da chiedersi, appunto se l’Europa non sia ancora soldal peccato e dalla morte. tanto post-fascista e post-comunista, e cioè un continenSollicitudo Rei Socialis (30 Dicembre 1987) In occasione dei 20 anni dell’enciclica ”Popularum pro- te che definisce la sua idengressio”di Paolo VI, offre un panorama sullo ”stato di salu- tità soltanto in negativo sente”dello sviluppo umano contemporaneo, proponendo an- za saperla poggiare, come che soluzioni concrete ai gravi problemi che affliggono l’u- era nel passato, su una verità positiva. Un continente manità. che, di conseguenza, non può che vivere la propria liCentesimus Annus (1° Maggio 1991) In occasione del centenario della Rerum Novarum. Sot- bertà come mera sovrastruttolinea la ”terza via”definita dalla dottrina sociale della tura, senza alcun legame Chiesa, in opposizione a comunismo e liberalismo sfre- con alcuna verità e dunque inevitabilmente soggiogabinato. le dal nichilismo. Una tale riflessione equivale a porsi Veritatis Splendor (6 Agosto 1993) Partendo dalla figura evangelica del giovane ricco, Papa una domanda: il cosidetto pensiero debole Wojtyla affronta il tema della risposta che Cristo può essere il dà alla domanda di morale insita in ogni uomo.

Le encicliche che hanno fatto la storia

Evangelium Vitae (25 Marzo 1995) Sul valore e l’inviolabilità della vita umana. Ribadisce ancora una volta l’impossibilità di accettare aborto ed eutanasia. Ut Unum Sint (25 Maggio 1995) Sull’impegno ecumenico della Chiesa, che nasce dal riconoscimento dei propri errori, dalla costante conversione e dalla piena adesione a Cristo, venuto ”perché siate una cosa sola”. Fides et Ratio (14 Settembre 1998) Sulla lunga scia tracciata da Sant’Agostino e da SanTommaso d’Aquino, ribadisce che l’approccio alla fede, dono di grazia, prende le mosse dall’uso della ragione. Contro il fideismo e il razionalismo.

secondo dopoguerra, e che ha retto le nostre società fino alla fine del secolo scorso? L’antifascismo e l’anticomunismo hanno certamente fatto uscire l’Europa dalle tenebre, consentendole di riacquistare la speranza, la democrazia. Ma se queste due culture storiche ci hanno fatto riconquistare la libertà si può, con la stessa convinzione, affermare che siano state anche capaci di ricondurla, e ricondurre noi con lei, alla sua fonte morale primigenia? Non è forse più vero, infatti, che siano stati il relativismo e

vero superamento delle ideologie totalitarie? O, piuttosto, la vera alternativa è nel saper tornare a vivere pensieri forti, forti perché ancorati all’idea di verità e incardinati nella centralità della persona e della sua coscienza morale? Accettare la sfida lanciata al mondo da Wojtyla significa per tutti, credenti e non credenti, porsi anche questa domanda. Discutere se possa esistere una vera libertà dell’uomo senza che essa riposi su un’altrettanto solida verità. Cosa sarebbe in effetti la libertà, se essa smarrisse la sua più intima facoltà che è quella di scegliere tra il Bene e il Male? E se la libertà fosse libertà di scegliere il male essa potrebbe ancora definirsi libertà? Erano forse alfieri di libertà gli uomini di Hitler o di Stalin mentre fondavano il loro arbitrio sulla soppressione dell’umanità? E può essere inteso come libero un agire umano incapace di affermarsi come universale e come tale universalmente accettato? Agisci sempre considerando gli altri come un fine e mai come un mezzo, diceva Kant. Ama il prossimo tuo come te stesso, diceva Cristo. Liberalismo e cristianesimo si fondano sulla centralità della persona e la centralità della persona può divenire effettiva solo se si riconosce teoricamente e praticamente il nesso tra verità e libertà. ***** Anche perché non è affatto detto che la potenza dell’Inaudito sia scomparsa definitivamente dalla Storia. Anche l’attacco alle Torri gemelle di New York è in fondo un’espressione, tremenda, del nichilismo della società contemporanea. Certo, gli autori di quel crimine bestiale non sono figli diretti del fascismo e del comunismo e neanche di alcuna degenerazione filosofica europea. Non va però sottovalutato il fatto che essi sono comunque figli di una cultura che non pone al centro il valore della persona. E che, allo stesso tempo, essi sono venuti a contatto con le nostre società, con le idee e anche con i materiali tecnologici della nostra civiltà. Ecco perché l’Occidente è chiamato a riscoprire la propria anima e svelarla agli altri. Scriveva qualche tempo fa il Cardinale Jean-Marie Lustiger: «La nostra epoca è tentata di sostituire la forza delle leggi civili alla coscienza personale e alla responsabilità delle sue scelte. La coscienza e la libertà vengono allora ridotte alla legalità e alla politica. Era l’opinione dei Sofisti. Socrate è morto per averla respinta. Alcune epoche sono state ingenue nel voler misurare talvolta la legalità e la politica sulla sola regola della coscienza morale. La nostra epoca, operando una riduzione opposta, diventa cinica. È il trionfo di Machiavelli su scala planetaria». Io credo che in definitiva il compito dell’umanità, dei credenti e dei non credenti, sia quello di tornare a Socrate. E credo che Papa Wojtyla chieda a tutti noi di saperlo fare. Un pensiero laico che tornasse agli interrogativi di Socrate sarebbe più fresco, non più ingenuo. Proprio come il messaggio di Giovanni Paolo II. Si tratta, com’è evidente, di una grande questione, di un orizzonte forse non ancora alla nostra portata. Ma già porsi gli interrogativi giusti significa illuminare un po’ il nostro futuro. Ebbene Wojtyla ha posto a tutti noi gli interrogativi giusti. È stato ed è per tutti pungolo, sentinella, guida. Dopo di lui, non abbiamo più paura.


politica

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Da una risposta a Mino Martinazzoli una riflessione a tutto campo sul presente, su una politica senza cultura, sul fallimento del bipolarismo, con uno sguardo al futuro

I cattolici, la crisi italiana, la Costituente colloquio con Francesco Cossiga di Renzo Foa

ROMA. Quando Mino Martinazzoli in un’intervista a liberal, qualche giorno fa, lasciò cadere l’impegnativo giudizio secondo cui «è tempo che i cattolici si pongano il problema e si chiedano se non sia il caso di superare il dogma secondo cui l’unità dei cattolici in politica è finita», Francesco Cossiga mi telefonò. Non era d’accordo e voleva spiegarne le ragioni. Ci teneva perché tanti anni fa Indro Montanelli disse e scrisse che «di cattolici liberali ne conosceva solo due, Martinazzoli e Cossiga». Ora, passato qualche giorno, ne parla distesamente in una conversazione che ha come punto di partenza le scelte di un vecchio amico con cui ha condiviso decenni nella Dc. Una conversazione in cui, come d’abitudine, intreccia passato e presente, avvertendo che «chi vuole ricacciare il passato sarà dal passato sommerso». Una conversazione che ha però sullo sfondo la crisi italiana e il ruolo dei cattolici. E che ha come epilogo il fallimento della Seconda Repubblica e la speranza che si possa, in qualche modo, arrivare ad un’Assemblea costituente. «Anche se – dice, per esprimere una riserva sulla praticabilità della soluzione – quando l’abbiamo fatta uscivamo dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale. C’era stato un trauma». Mentre oggi appare soprattutto un vuoto: «Le culture non si inventano e senza cultura la politica non esiste». Che, comunque, non è poco. Iniziamo dagli argomenti di Mino Martinazzoli. Perché è in disaccordo? Ho grande stima e grande affetto per lui. È però un uomo privo di ambizione politica. Ha una grande ambizione culturale, è un grande studioso di Manzoni, scrive benissimo e tra un posto di presidente del Consiglio e una recensione preferisce quest’ultima. È un

Moro, solo che di sinistra e liberale... Un Moro? Moro non era liberale e non era di sinistra, nonostante l’icona sbagliata che ne è stata fatta. Era un conservatore illuminato, un cattolico sociale, che ha sempre rifiutato l’etichetta di sinistra. Ma quel che mi ha meravigliato di più è che Martinazzoli è uno stretto sturziano. Tentò di rilanciare Sturzo, da segretario della Dc riprese il nome del Partito popolare. E mi ha meravigliato – dicevo – perché ha una concezione laica. Non dimentichiamoci che Sturzo disse sempre che il Partito popolare era un partito di cattolici, a cui potevano aderire anche non cattolici purché ne condividessero le idee. Quindi questa idea che ha espresso,

la formazione di un partito che di fatto diventò non il partito dei cattolici ma che aveva i cattolici come nucleo essenziale erano contrari personaggi come i cardinali Ottaviani e Tardini e lo stesso Pio XII. La Dc fu originariamente il risultato dell’incontro fra i neo-guelfi di Malvestiti, gli ex popolari, i cristiano-sociali e poi il gruppo della Cattolica. Si tende ad ignorare che Giuseppe Dossetti è stato vice segretario della Dc, senza esservi mai stato iscritto. I due fondatori furono De Gasperi e Giovanni Battista Montini, di vecchia famiglia cattolica bresciana, che convinse Pio XII sulla necessità che ci fosse questo partito per contrastare il Pci. Altra favola quella che Paolo VI fosse di sinistra. Tutt’altro che di sinistra... Quando era arcivescovo di Milano mise il veto formale alla giunta di centrosinistra. E alla stessa elezione di Luigi Granelli. Fu grande avversario di Dossetti e del cardinal Lercaro e del post-conciliarismo. Fu lui a spiegare a Pio XII che l’indipendenza dell’Italia era essenziale per l’indipendenza della Chiesa. Così fu fatta la Dc, che è diventata il partito degli afascisti, dei fascisti convertiti, dei cristiani, ma con molti massoni. Più che di fronte al problema della nascita, nel ragionamento di Martinazzoli ci sono i problemi posti dalla fine della Dc. Attenzione: la Dc non è caduta per Tangentopoli. È caduta quando è caduto il Muro di Berlino. Ed è caduta per il Concilio Vaticano II. E se assumiamo questo punto di vista mancano i presupposti ecclesiali e mancano i presupposti internazionali, per la ricomposizione dell’unità politica dei cattolici. Diceva del Concilio Vaticano II... Del Concilio e dell’accettazio-

Non credo che la Chiesa, sulla quale ha pesato nel bene e nel male l’unità dei cattolici nella Dc, darebbe mai una mano alla ricostituzione di un partito dei cattolici

che verrà il momento in cui i cattolici si uniranno in un solo partito, mi sembra strana sia per le condizioni storiche, sia per le condizioni teoriche. Siamo al passato che ci aiuta a compendere il presente... La Dc fu essenzialmente il frutto delle congiunture internazionali ed interne del tempo. Chi ha creato la Dc sono il Partito comunista e l’Unione Sovietica. Alcide De Gasperi concepì subito la Dc come un partito di governo e un partito di massa, ma non nel senso marxista del termine, ma popolare. Era ciò che gli riconosceva Palmiro Togliatti quando diceva che i due grandi partiti di popolo erano in Italia la Dc e il Pci. Non dimentichiamo che al-

ne del principio della libera scelta. Oggi si tende ad ignorare un documento fondamentale emanato nel 1985. Si tratta delle istruzioni alle congregazioni dei seminari e delle università a favore del pluralismo dei cattolici, dove si dice espressamente che si può essere cattolici militanti e dirigenti anche in partiti socialisti e socialdemocratici. E poi c’è l’atteggiamento di oggi della Chiesa. Io non credo che la Chiesa, sulla quale ha pesato nel bene e nel male l’unità dei cattolici nella Dc, darebbe mai una mano alla ricostituzione di un partito dei cattolici. Se leggiamo gli ultimi discorsi del cardinal Bertone, così come il discorso del cardinal Bagnasco al Comitato permanente della Cei, così come le dichiarazioni del segretario generale Betori, tutti dicono chiaramente che i cattolici possono militare, essere eletti e votare per tutti i partiti, purché si attengano ai valori di

riferimento. Ma, anche qui, facciamo attenzione. Nel discorso di Bagnasco un terzo dello spazio è dedicato alle materie non negoziabili, mentre i due terzi sono contro il precariato, la globalizzazione, per la pace. Cosa significa? Che sono tutti temi per cui un cattolico se teme di essere battuto, ad esempio sull’eutanasia, può cercare di contrattare «il male minore» e di combattere politicamente per negoziare sul resto. C’è infatti anche la teoria del «bene possibile». La Chiesa è la prima a saperlo e non dimentichiamo che sono cambiati i tempi. Al duo Sodano-Ruini è succeduto il duo Bertone-Bagnasco. E, cosa importante, la segreteria di Stato ha ottenuto la trattazione delle vicende politiche italiane e la Conferenza episcopale italiana non è più la vera interlocutrice politica, come è stata con Poletti prima e Ruini poi. Dunque l’unità politica dei cattolici non solo è im-


politica

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Franceso Cossiga in alcuni momenti decisivi della sua vita ed in alcuni momenti normali. Nel maggio del 1978 la scoperta del corpo di Moro in via Caetani lo indusse a rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni. Successivamente, da presidente del Consiglio prima e da capo dello Stato poi, è stato protagonista di importanti scelte di politica internazionale (qui sopra con il presidente americano Ronald Reagan).

possibile, ma anche impensabile? Equivarrebbe ad una sfida, ad un’opera dei conversi, ridotta solo ad un fatto di difesa estrema dei principi etici della posizione della Chiesa. Secondo lei Martinazzoli sbaglia proprio? I suoi sono bellissimi giudizi, ma la spiegazione vera è che lui non si ritrova certamente con Silvio Berlusconi e neanche con il Partito democratico. Lui si riconosce nelle posizioni del cattolicesimo bresciano, che è più forte di quello bergamasco, e sa perché? Perché? Perché Brescia è una città divisa a metà tra Zanardelli e Montini. L’unico dubbio è che Martinazzoli è anzitutto uomo di grande cultura e chissà che non dicendo cose che non attengono alla concretezza storica del momento non dica le cose giuste. È comunque abbastanza comprensibile che ci sia

una difficoltà a non ritrovarsi oggi nella politica che c’è. Se si è uomini di cultura, se si ragiona un po’ sul passato, sul presente e sul futuro può essere facile trovarsi a disagio... Il problema è che la politica bisogna farla nelle situazione concrete in cui si agisce. Si può anche pensare al domani. Ho sentito di recente Gorbaciov dire che bisogna dare tempo al tempo, che la Russia diventerà una democrazia compiuta. Anche se a me viene sempre in mente che c’è stato lo zarismo e poi lo stalinismo e ora c’è Putin che è figlio del Kgb. Infatti Martinazzoli non fa più politica e lo rivendica apertamente. Resta il problema per l’Italia... Noi abbiamo ora due grossi partiti. Il Partito democratico

che si trova in difficoltà anche solo a dire che entrerà nell’Internazionale socialista, mentre dall’altra parte c’è il Partito popolare europeo che non è più quello delle origini, dove convivono un po’ tutti, al punto che i

Le culture non si inventano a tavolino, non si inventano nè con l’Ulivo nè con il Partito democratico. Anche perché non siamo in America, che è un mondo diverso

veri conservatori hanno difficoltà a ritrovarcisi... Ma bisogna comunque far politica con ciò che c’è. Se pensiamo all’Italia, la politica resta pervasiva, è dappertutto, anche se c’è una certa repulsione e anche se, soprattutto, ci so-

no dei vuoti... Questa repulsione si è composta adesso ed è rafforzata dalla teoria della caduta delle ideologie, presentata come una liberazione. Ma, parliamoci chiaro, la politica senza la cultura non esiste. Dov’è oggi la cultura nella politica? Le culture non si inventano a tavolino, non si inventano nè con l’Ulivo nè con il Partito democratico. Anche perché non siamo in America, che è un mondo diverso. Vede, prima nell’era delle ideologie si poteva essere antidemocristiani, tanto più quando scoppiavano gli scandali, come ad esempio quello di Fiumicino. Ma contemporanemente si sapeva che cosa c’era dall’altra parte. E nell’era delle ideologie la Dc ha sempre rispettato il Pci e viceversa. Qui invece andare a ricercare cosa ci sia nel Pdl o nel Pd... Non si trovano culture forti.

Però il problema maggiore è nel Pd, che non può essere il partito dei lavoratori e del mio amico Colaninno o di Calearo. Questo può servire per prendere voti, ma per governare no. Improvvisazione? Insisto, le culture non s’inventano. Le grandi culture europee sono quella popolare, dove ora c’è di tutto, quella socialista, dove c’è spazio per il laburista Tony Blair che ha aspettato di lasciare la carica di primo ministro prima di convertirsi al cattolicesimo e che ha tra i ministri un numerario dell’Opus Dei. Questa grande tradizione abbraccia poi gli austromarxisti, i socialdemocratici di Bad Godesberg, i socialisti libertari spagnoli ed è stata arricchita dal passaggio di coloro che sono cresciuti con la cultura del Pci. Poi tra le grandi culture europee ci sono i liberali... Minoritari. Per non parlare dei cattolici liberali, appunto io e Martinazzoli. E non dimentichiamo che la cultura comunista in alcune zone europee esiste ancora. Ma mi chiedo cosa c’entri Rifondazione con i Verdi e poi mi chiedo ancora come Bertinotti, quando si è gettato nel filone della nonviolenza, abbia potuto dimenticare che che tutte le rivoluzioni hanno avuto la loro violenza, dalla francese all’americana al 1848... Possiamo dire che questo vuoto culturale a sinistra è anche il risultato di una frettolosa fuga dal passato? E che questo stesso vuoto culturale sia una delle cause del fallimento della Seconda Repubblica? Chi vuole ricacciare il passato sarà dal passato sommerso... C’è però un’anomalia... Aspetti. Prima voglio dire che l’unico tentativo di proporre una cultura è quello di Pezzotta, su un filone cristiano sociale largamente inteso. È stato un grande segretario della Cisl, non certo filo comunista... Dicevo di un’anomalia. Tra i vantaggi della fine della Dc c’è la forza con cui è apparsa la cultura della Chiesa, e che è un grande tema italiano... Sì, è il tema di una cultura forte fondata sui valori. Che appare ancora più sottolineata – penso agli «atei devoti» - in una Seconda Repubblica con una politica priva di cultura, come dicevo prima. Vuoto culturale, politica debole, come se ne esce? Un’Assemblea costituente aiuterebbe? Aiuterebbe molto. Quando l’abbiamo fatta però uscivamo dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale. Uscivamo da un trauma.


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politica

Appello di Veltroni: «Chi non vota poi non si lamenti». E Marini: «Scegliete chi volete, ma andate»

Sul Pd lo spettro dell’astensione d i a r i o

d e l

g i o r n o

Elezioni: stop ai telefonini con foto Vietati tutti i telefonini con fotocamere nei seggi, per le prossime elezioni. Lo ha deciso il Consiglio dei ministri che ha approvato un decreto legge. Lo ha reso noto il ministro dimissionario dell’Interno Giuliano Amato. Per i trasgressori è prevista una contravvenzione.

Fini: «Lunare Expo senza Malpensa» «Discutere oggi delle sorti e la cancellazione di Malpensa con l’Expo alle porte è qualcosa di lunare visto che arriveranno milioni di visitatori». Lo ha detto ieri il leader di An, Gianfranco Fini, nel corso dela puntata di Porta a Porta. Il numero due del Pdl ritiene quindi che «occorre togliere dal novero delle cose possibili la cancellazione di Malpensa», e questo «andrebbe fatto capire anche a Spinetta e compagnia».

Lavoro, ok al pacchetto sicurezza Via libera definitivo del Consiglio dei ministri al decreto legislativo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. «Ce l’abbiamo fatta. Non era scontato» è stato il commento del ministro del lavoro, Cesare Damiano. «È un atto dovuto al Paese, sul quale abbiamo cercato le più larghe convergenze tra le forze sociali e politiche. Il punto ora è applicare queste leggi molto avanzate».

Berlusconi: «Riformare la giustizia» di Susanna Turco

ROMA.

Alla fine, sulla campagna elettorale del Partito democratico, piomba lo spettro dell’astensionismo. Non per caso, infatti, proprio su questo punto hanno battuto ieri sia il leader del Pd Walter Veltroni, sia il presidente del Senato Franco Marini. «Il Paese è lento», ha detto il primo parlando all’Ance, «abbiamo bisogno di andare all’attacco delle condizioni che impediscono la crescita: tra queste l’instabilità politica con la quale non si riesce a fare nulla. Per questo dico a chi si astiene: poi però non lamentarti che le cose vanno in un certo modo». Nel suo argomentare, Veltroni incolpa del rischio instabilità anzitutto la legge elettorale e chi non ha voluto - dopo la caduta di Prodi - un governo Marini per modificarla: «Ho insistito per cambiarla, e invece si è voluti andare a votare con questo sistema e non sappiamo se ci darà stabilità». Stando così le cose, spiega il leader del Pd, l’unico rimedio è il voto compatto di quanti più elettori possibile. Ancora più semplice l’appello di Franco Marini nel corso di un incontro con le maestranze dei cantieri della Metro B1 a Roma: «L’unica cosa che un uomo, una donna, un giovane non possono dire è “mi sono scocciato, non vado a votare”. Scegliete chi volete, ma andate».

È in qualche modo una novità che il centrosinistra debba spendersi contro l’astensionismo. Secondo gli esperti della materia, infatti, tradizionalmente a propendere per il non voto è l’elettorato di centrodestra. Ben lontano dal fare prediche ai suoi elet-

tori, infatti, il leader del Pdl Silvio Berlusconi si è rivolto così a quegli «elettori disgustati» che non vogliono dare il voto a nessuno: «Se scegliete così, non lasciate la scheda intonsa, ma barratela con due o tre vistosi tratti, impedendo così l’utilizzo della scheda bianca per fare dei brogli». Già, uno dei chiodi fissi del Cavaliere, che però non sembra affatto preoccupato che l’astensionismo possa danneggiare direttamente lui (mentre non manca occasione di attaccare i partiti minori). L’Eurispes,

La tentazione del non voto impazza sui blog. E Berlusconi, serafico: «Se scegliete così, non lasciate la scheda intonsa: fate dei segni, eviterete i brogli» del resto, certifica che attualmente l’astensionismo per il 46 per cento degli italiani è una forma di indifferenza nei confronti della politica, ma dice pure - nella sua ultima indagine - che ben il 37 per cento degli elettori la considera una espressione di protesta. E basta fare un giro tra i blog per toccare con mano quanto questa la possibilità di astenersi sia tutt’altro che esclusa dai potenziali elettori del Pd. Circolano anzi molti appelli al non voto. Persino proteste come quella di «chiedere al seggio le schede che vanno poi restituite dopo la vi-

dimazione con la richiesta di mettere a verbale una dichiarazione che dica più o meno: “nessuna delle liste mi rappresenta”». Sul sito di Sabina Guzzanti è riportata anche questa suggestione: «Annullare la scheda alla Camera e votare solo per il Senato (turandovi il naso). Il risultato è la paralisi certa».

Proprio del risultato al Senato si è dimostrato ieri preoccupato Silvio Berlusconi. Questa legge elettorale «non rende sicura al Senato una larga maggioranza», ha detto lo stesso lo stesso leader del Pdl, criticando la normativa approvata sotto il suo governo perché preoccupato dal premio di maggioranza regionale. Intervenuto a un forum del quotidiano Il Tempo, l’ex premier ha spiegato che «tutto si decide in poche regioni in cui si è in bilico, quindi non si può essere sicuri che al Senato ci sarà una larga maggioranza per governare». Nonostante questo, Berlusconi ribassce il no a larghe intese, lasciando la porta aperta all’intesa bipartisan soltanto su poche e chiare riforme (come quella della giustizia). E neppure rinnega la scelta di dire no al tentativo in extremis di Franco Marini di coalizzare le forze politiche attorno ad un progetto di riforma elettorale, prima dello scioglimento delle Camere. «Appoggiare il governo Marini - spiega - sarebbe stato illogico, una soluzione inadeguata per affrontare una situazione economica tanto difficile. Un ritorno all’antico, ai vecchi governi balneari di una volta incapaci di operare che non avrebbe risolto nulla».

La lentezza della giustizia «è uno dei mali del Paese». Ha sostenuto ieri Silvio Berlusconi. «I tempi delle cause sono enormi, la giustizia necessita di una riforma, di una riforma da fare con l’opposizione», ha aggiunto il candidato premier del Pdl a Radio 24.

Why Not: Mastella esce dall’inchiesta Archiviata la posizione dell’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, nell’ambito dell’inchiesta Why Not. Il gip di Catanzaro, Tiziana Macrì, accogliendo la richiesta della Procura generale, ha disposto l’archiviazione del procedimento per mancanza di elementi sufficienti ad iscrivere Mastella nel registro degli indagati.

Gli italiani all’estero già votano E’ in corso in tutto il mondo il voto degli italiani stabilmente residenti all’estero. L’elettore, utilizzando la busta già affrancata e seguendo attentamente le istruzioni contenute nel foglio informativo, dovrà spedire le schede elettorali votate, in modo che arrivino al proprio consolato entro e non oltre le ore 16 ora locale di giovedì 10 aprile 2008. Gli elettori italiani stabilmente residenti all’estero sono 2,96 milioni per la Camera e 2,67 milioni per il Senato. Essi eleggeranno 12 deputati e 6 senatori.

Via i mendicanti da Firenze Dopo il pugno duro con i lavavetri (scomparsi dalla città), ora Firenze dice basta ai mendicanti che chiedono l’elemosina sdraiati sui marciapiedi o sulle strisce pedonali, causando pericoli ai pedoni e al traffico. La notizia, anticipata dal giornale Il Firenze, è stata confermata dagli amministratori di Palazzo Vecchio che stanno studiando una bozza di nuovo regolamento della polizia municipale per arginare il fenomeno.

Delitto di Perugia, confermato il carcere Amanda Knox, Raffaele Sollecito e Rudy Guede devono restare in carcere. Il Pg Consolo Santi ha chiesto per i tre giovani, davanti ai giudici della I sezione penale della Cassazione, il rigetto del ricorso avanzato dalla difesa dei tre indagatio per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, trovata morta a Perugia il 2 novembre dello scorso anno.


economia

rendere o lasciare» aveva intimato intimato ai sindacati meno di tre settimane fa. E un «prendere o lasciare», seppur con toni e proposte più concilianti, Jean-Cyrill Spinetta lo ripeterà oggi, vedendo i rappresentanti delle 8 sigle (la nona, la Uilt non ci sarà) del trasporto pubblico italiano e che alla Magliana la fanno da padrone.

«P

Da Parigi, infatti, si inseguono voci che la prima compagnia al mondo sarebbe pronta ad abbandonare l’idea di acquistare Alitalia, se non avrà a breve certezze sulla chiusura dell’operazione. Se oggi i sindacati non diranno un sì netto a chiaro a trattare, senza più traccheggiare in attesa dell’entrata in campo di ipotetiche cordate italiane. Ieri, questo concetto, emissari dei transalpini l’avrebbero ripetuto anche a Palazzo Chigi. Proprio a 24 ore da quella che, ormai soltanto sulla carta, dovrebbe essere la data ultima per ottenere il via libera dal sindacato e chiudere il deal. Oggi Jean Cyrill-Spinetta si affiderà ai proverbiali bastone e carota con i sindacati. Bastone: la minaccia a mandare tutto all’aria; carota: non poche modifiche alla proposta iniziale, tra l’altro accogliendo richieste fatte dalle 8 sigle durante gli incontri precedenti. Stando ad anticipazioni rimbalzate sulle agenzie di stampa – e attribuite a fonte sindacale – Spinetta farà concessioni sui nodi più complessi in questa vi-

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Aut aut del presidente di Air France-Klm ai sindacati: se non si chiude a breve l’operazione salta

Alitalia: l’ultima offerta di Spinetta. Altrimenti rinuncia di Francesco Pacifico cenda: il numero dei piloti in esubero, il futuro della Cargo e la cessione di Atitech, realtà impegnata nella manutenzione pesante che occupa a Napoli seicento persone. Sul primo versante, e anticipando di un anno (al 2009) l’ingresso in flotta di un nuovo

tare a un advisor esterno se le attività a Malpensa sono da chiudere oppure se sono remunerative come ripetono da mesi i sindacati e la Confetra. Novità anche per l’Atitech, che potrebbe rientrare nel perimetro dell’offerta: i francesi riconvertirebbero questi stabilimenti

scrivono in una nota congiuta i segretari generali della Filt Cgil e della Fit Cisl, Fabrizio Solari e Claudio Claudiani. «Non ritorniamo al tavolo finché Air France, che reputiamo il partner migliore, non rinvia la trattativa all’insediamento del prossimo governo», aggiunge

Il manager transalpino oggi vede i rappresentanti dei lavoratori e concede minori esuberi per i piloti e apre alle attività di Cargo e di Atitech. Ma le sigle aspettano l’insediamento del prossimo governo per trattare B777, la compagnia francese garantirebbe ai dipendenti di Alitalia lavoro per 100 assistenti e 12 piloti. I tagli per i vecchi aerei Md80 potrebbero essere ridotti da 16 a 13, evitando il licenziamento in tronco di 60 assistenti e 30 piloti. Per la Cargo ci sarebbe l’impegno a far valu-

alla manutenzione leggera, sfruttando il fatto che lì il costo del lavoro è inferiore al 40 per cento rispetto a quello delle altre struttura di Air France-Klm. I sindacati hanno bollato le presunte aperture come «briciole». «Non ci risultano novità di rilievo, né formali né informali»,

dalla Uilt Giuseppe Caronia. Il leader dell’Unione piloti, Massimo Notaro, invece, chiede che «s’inizi a parlare di rilancio del lungo raggio». E in fondo è proprio su questo punto, sul far partire una trattativa non soltanto incentrata sulle leve aziendali e finanzia-

rie per non fallire Alitalia, che i giochi si potrebbero riaprire già oggi. Anche senza dichiararlo pubblicamente, nel mondo sindacale sono in molti a credere che le basi per un’intesa ci siano. «Basterebbe», dicono dal fronte dei confederali, «che Spinetta iniziasse a discutere di futura flotta e di integrità degli asset nel perimetro aziendale». Tradotto: nuovi aerei per evitare che la compagnia sia soltanto un vettore per fare feederaggio su Parigi e garanzie che si realizzi uno spezzatino. «A quel punto», è il concetto ripetuto dal fronte sindacale, «si può trattare a oltranza. Ma la conclusione arriverà con il nuovo governo».

Così si spera che oggi, dopo le aperture lanciate attraverso le agenzie di stampa, Spinetta si mostri più incline alle richieste del sindacato. Anche perché entrambi le parti hanno bisogno l’una dell’altra. Come avrebbero spiegato gli emissari di Air France a Palazzo Chigi, quello che spaventa la compagnia francese è la tensione che si registra tra i lavoratori della Magliana. Ieri, per esempio è stata occupata nelle vicinanze una stazione della metropolitana. E soltanto il sindacato può tenere gli animi a bada. Serve quindi il sì del sindacato: non a caso da Parigi avrebbero fatto sapere al governo italiano di non contemplare l’ipotesi di un commissariamento, che renderebbe troppo onerosa l’acquisizione della compagnia.


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L’ITALIA AL VOTO

La comunicazione politica sotto esame

lessico e nuvole

Guerriglia urbana, made in Udc

Gli occhi di Silvio e Walter (secondo Franceschini) di Giancristiano Desiderio

di Arcangelo Pezza In questi giorni Milano è lo scenario del guerrilla marketing targato Udc. In alcune vie del centro, sui pali della luce spiccano piccole riproduzioni color arancio della nostra penisola con il claim «l’Italia non può restare al palo» e sotto l’indirizzo www.pierferdinandocasini.it. Come spiegano gli esperti, il guerrilla marketing è un insieme di tecniche di comunicazione non convenzionale che consente di ottenere il massimo della visibilità con il minimo degli investimenti. Le campagne di stickering, fatte cioè mediante adesivi, sono una delle soluzioni economiche più adottate per ottenere la riconoscibilità del brand in modo intensivo e subliminale. Ma più in generale, questo tipo di azioni di marketing lavorano sul passaparola e la viralità tipica dei nuovi mezzi di comunicazione, alternativi ai cosiddetti mass media, che si mischiano e contaminano con forme d’arte tipo graffiti e street art. La trovata è buona, sebbene il giorno dopo sia stata replicata in modo più banale utilizzando i classici palloncini da convention americana bianchi con logo dell’Udc azzurro e slogan «fai volare in alto i tuoi valori». In ogni caso, Casini sta utilizzando ogni mezzo per ringiovanire il proprio partito, e contemporaneamente per modificare la percezione polverosa che talora gli elettori hanno

di un partito di centro moderato. Sul sito personale, il leader Udc non ha timore a mettere, in home page sotto la dicitura «tarocca Casini», i fake dei suoi manifesti elettorali. Tra i quali il più riuscito è quello proposto da Enrico in cui un piccolo Di Pietro dice a Pierferdinando «i veri valori non sono quelli immobiliari». Parafrasi dello slogan «i veri valori non sono in vendita» e contemporaneamente spiazzamento semantico che può rimandare sia Casini, per via dell’affinità con l’immobiliarista Caltagirone, sia a Di Pietro per la vicenda dell’immobiliare di famiglia Antocri (a onor di cronaca, questione già archiviata).

«A me gli occhi please». Il suggerimento non è di Gigi Proietti ma di Dario Franceschini: “Il numero due” (come scrivono le didascalie dei giornali). Secondo il Franceschini gli elettori dovrebbero guardare bene negli occhi Silvio e Walter quando appaiono in tv. Il suggerimento è un po’ curioso, ma seguiamolo: «Io dico ai cittadini di guardare i programmi tv e di concentrarsi sugli occhi del Cavaliere e su quelli di Walter e così capiranno chi è credibile e chi per la quinta volta ripete le stesse cose; chi sprizza innovazione e voglia di cambiamento e chi è stanco». A parte l’espressione «sprizza innovazione» (come si fa a sprizzare innovazione?), Franceschini riscopre un luogo comune classico: gli occhi sono lo specchio dell’anima. Infatti, di fianco all’intervista al “numero due” ecco una grande foto di Walter (La Stampa) con due occhi spiritati. Ma di che colore ha gli occhi Walter? Chissà, per vincere le elezioni e governare l’Italia magari servono anche degli occhi azzurri o scuri ma teneri assai. Silvio, invece, avrebbe occhi stanchi. Ma come, proprio lui che fa sognare le donne di mezza Italia e di Forza Italia avrebbe gli occhi stanchi? Non è possibile, gli occhi del presidente sono gli occhi del presidente, non scherziamo.

I più grandi flop dei sondaggi/ Presidenziali francesi 2002

Quando Le Pen terrorizzò la Francia di Andrea Mancia I risultati del primo turno alle elezioni presidenziali francesi del 2002 furono uno shock, non solo per la Francia ma per tutto l’Occidente. Il presidente uscente, il gollista Jacques Chirac, e il primo ministro in carica, il socialista Lionel Jospin, sembravano destinati ad incontrarsi al ballottaggio per la sfida finale verso l’Eliseo. Ma il leader del Front National, Jean-Marie Le Pen, conquistò a sorpresa il secondo posto, eliminando Jospin e gettando nella più profonda prostrazione la sinistra (e non solo) di tutto il pianeta. Fino a poche ore dal voto, nemmeno un istituto di ricerca aveva ipotizzato uno scenario di questo tipo, tanto che tutti i sondaggi prevedevano anche una domanda sulle intenzioni di voto al secondo turno, dando per

scontato un duello Chirac-Jospin. I dodici sondaggi pubblicati nell’ultima settimana prima delle elezioni vedevano il primo ministro socialista con una media del 18 per cento, mentre Le Pen era appena al di sopra del

12 per cento. E nessun sondaggista registrava un distacco tra i due inferiore ai 4 punti. Secondo Ipsos, a un mese dal voto Jospin aveva addirittura più che doppiato Le Pen (21 punti con-

tro 10). Un vantaggio che si era ridotto nelle settimane successive, ma che non era mai stato percepito come a rischio.Terminato lo spoglio delle schede, però, i risultati confermarono la tendenza emersa dai primi exitpoll, che già avevano seminato il panico tra i custodi del politically correct: con il 16,86 per cento (contro il 16,18 di Jospin) e quasi 5 milioni di voti (contro poco più di 4 milioni e mezzo), Jean-Marie Le Pen conquistava il secondo posto e si garantiva l’accesso al ballottaggio contro Chirac (19,88 per cento e oltre 5 milioni e mezzo di voti). Il “pericolo nero”fu poi ridimensionato al secondo turno, che vide la larga affermazione del presidente gollista con l’82,21 per cento

contro il 17,79 di Le Pen. Ma lo shock restò impresso per anni nella memoria dei francesi, anche perché era la prima volta (dal 1977) che agli istituti di ricerca era permesso di fare sondaggi fino a tre giorni prima del voto. In uno studio pubblicato nel 2004 dalla rivista americana Public Opinion Quarterly, i ricercatori francesi Claire Durand, André Blais e Mylène LaRochelle analizzarono il clamoroso flop dei sondaggisti, realizzando anche un’analisi comparata con elezioni che si erano svolte in altri Paesi nello stesso periodo. Le spiegazioni proposte dalla ricerca sono differenti. Ed alcune hanno a che fare con questioni tecniche (scelta del campione, formulazione del questionario, inclusione o meno

dei leaning voters) su cui non è il caso dilungarsi. Ma i problemi principali furono sostanzialmente due: la frammentazione della sinistra che portò ad una leggera sovrastima di Jospin (per l’incapacità dei sondaggisti di misurare esattamente il dato dei partiti minori) e, soprattutto, le stime totalmente sballate del potenziale elettorale di Le Pen. Si tratta di un fenomeno noto: i simpatizzanti dei partiti “estremi” (meglio se di destra e meglio ancora se disprezzati dai media) tendono ad essere sottorappresentati dai sondaggi. Mai, però, questo “pudore” aveva influito in modo tanto decisivo in un ciclo elettorale così importante. Con uno schiaffo da cui i socialisti francesi si sono (forse) ripresi soltanto quest’anno.


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L’ITALIA AL VOTO ROMA. È con Sergio Belardinelli -- professore di Sociologia politica nell’università di Bologna -- che liberal chiude il viaggio intrapreso nel mondo della bioetica e della biopolitica. Un viaggio delicato visto che con Francesco D’Agostino, Maria Luisa Di Pietro, Claudia Mancina, Monsignor Elio Sgreccia, Mauro Ceruti si sono toccati temi e questioni legati alla vita e alla morte delle persone: dall’aborto all’eutanasia, dalla pillola del giorno dopo all’educazione sessuale, dal testamento biologico allo statuto degli embrioni. In questi colloqui è emersa una polifonia di voci che è sicuramente segno di ricchezza ma anche di irriducibilità tra idee diverse, che derivano da differenti visioni del mondo e dell’uomo. È la stessa divisione che attraversa la nostra società occidentale, spazio di confronto tra un politeismo di valori spesso confliggenti. Per questo abbiamo chiesto a un sociologo come Belardinelli, studioso di temi connessi alla libertà, al bene comune e alla religione nelle società complesse, una riflessione sugli scenari sociali e politici che i temi bioetici hanno già aperto in Occidente. Professore, la biopolitica sarà la vera politica, la meta-politica, si è detto, del ventunesimo secolo. Eppure in Italia si preferisce non introdurre nel dibattito pubblico le questioni bioetiche. Perché secondo lei? Temo si tratti di una questione di opportunità politica. Di tattica. Una tattica difensiva però, che denota da un lato una profonda debolezza della nostra politica, dall’altro una miopia d’analisi straordinaria visto che sono questi temi a rendere interessante ormai un discorso pubblico per altri versi asfittico. Ad aver capito questo punto, a intuire qual è oggi la vera posta in gioco, è stato un uomo intelligente come Giuliano Ferrara. E lo dico pur non condividendo tatticamente quello che ha fatto presentando alle elezioni una lista contro l’aborto. Chi difende la scelta della maggiori forze in campo di tenere fuori dalla campagna elettorale i temi della bioetica lo fa con questo argomento: si arriverebbe al muro contro muro, all’opposizione di valori non negoziabili, a posizioni irriducibili. Meglio la libertà di coscienza. Già; ma se sono le questioni stesse a essere irriducibili che si fa? Si mette la testa sotto la sabbia? Il problema piuttosto è che sulle questioni biopolitiche non esiste un confronto supportato da argomentazioni razionali. Intellettuali e politici non ne sono all’altezza. Perché? Perché nel nostro Paese esiste un degrado culturale che è progressivo: per pigrizia e convenienza si preferisce ancora subire i vecchi riflessi ideologici. Intanto, mentre si dibatte, la tecnoscienza procede nel cercare e spesso trovare sempre più delicati campi di applicazione. Meno di due anni fa un documento dell’Onu non escludeva l’ipotesi che in un qualche laboratorio tra quelli sparsi sul

La legislatura bioetica. Le previsioni degli esperti/6 Sergio Belardinelli

Sulla biopolitica si gioca il destino del liberalismo colloquio con Sergio Belardinelli di Riccardo Paradisi

«La biopolitica è il terreno decisivo del dibattito pubblico», sostiene il sociologo Belardinelli. Sopra, le immagini del Family day e della manifestazione per l’Orgoglio laico: i due eventi si sono celebrati nello stesso giorno, il 12 maggio dello scorso anno

La comunità scientifica tende ad arrogarsi un’autonomia e un’autorità morale che sono tutt’altro che scontate. Sull’uso della ricerca i cittadini devono potersi esprimere

pianeta la clonazione dell’uomo fosse già avvenuta. Quando dicevo che in ambito bioetico si dovrebbe usare soprattutto la ragione, davo per sottinteso che da un tale esercizio possa scaturire una seria cultura normativa. Certo, questo non impedirà che qualcuno prima o poi faccia il passo verso la clonazione, però c’è una grande differenza tra una situazione in cui questo passo avviene nella censura politica e civile o all’interno di un vuoto normativo assoluto. Perchè questa sensibilità sull’inviolabilità della vita e della dignità umana sia generale occorre però un grande lavoro di persuasione culturale e morale. Già, però non sembra un compito facile. Lei un paio di anni fa, in un saggio sulle radici cristiane e la sfida del relativismo scriveva: «Oggi è la scienza, non più la Chiesa, a essere forte abbastanza da far tacere gli eretici». E spesso l’apparato scientifico tecnologico non si fa troppi dubbi né scrupoli nell’applicare ciò che viene scoperto. Oggi la comunità scientifica tende ad arrogarsi un’autonomia e un’autorità mo-

rale che sono tutt’altro che scontate. È giusto che lo scienziato e solo lui si occupi di ricerca scientifica, però sull’uso che si deve fare di una ricerca hanno diritto tutti alla parola e alla decisione. È materia da cittadini, perché interessa l’umanità degli uomini nel profondo. Resta il fatto che se maggioranze politiche decidono, democraticamente, che certi valori per una minoranza non negoziabili possano invece essere messi in discussione, si entra in un’impasse: la minoranza deve negoziare su valori che non erano negoziabili. L’unica cosa che possono fare gli uomini di buona volontà è appunto cercare di far valere buoni argomenti a sosegno della dignità umana e di tutti quei valori che non è bene dipendano dai capricci degli uomini o delle maggioranze. Solo che questa è un’operazione non garantita a priori. E se bisogna evitare in ogni modo che le discussioni su questi temi diventino guerre civili, si deve anche sapere che esiste il rischio che possano diventarlo. In che modo? Se, poniamo, una maggioranza dicesse

che bisogna sottoporre a test genetici tutti i bambini nati, in modo da garantire che le loro vite saranno degne d’essere vissute, che succederà? Ci sarà gente, presumo e spero, che non sarà disposta a cedere. Se le posizioni dovessero diventare così antitetiche, del resto, si potrebbe andare verso una società spappolata, sarebbe molto difficile la convivenza. L’Occidente è debole d’altra parte proprio perché diviso in se stesso. Le divisioni interne che esistono in materia bioetica fanno impallidire rispetto a quelle che abbiamo con le culture altre. Proprio per questo le persone responsabili devono farsi carico di un’opera di sensiblizzazione ai buoni argomenti. Anche nello sforzo di trovare un terreno comune di laico buon senso. La biopolitica potrebbe costituire questo terreno? È il terreno decisivo. Io credo che siamo al punto in cui le nostre democrazie mettono a nudo se stesse, le proprie debolezze e la loro grandezza. C’è un rischio ovviamente. Ma questo lo abbiamo sempre saputo. Sapevamo che le liberaldemocrazie vivono di presupposti che da sole non sono in grado di garantire. Noi fino ad oggi abbiamo pensato che i valori non negoziabili in una democrazia non ci fossero: la macchina bene o male funzionava e procedeva. Nel momento in cui la bioetica ci sbatte in faccia le sue provocazioni ci accorgiamo che la sfida è aperta.


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speciale esteri

Occidente

Apre a Bucarest il vertice dell’Alleanza Atlantica: 3 giorni no stop Allargamento a Est e timori russi al centro del confronto

NATO, STRATEGIA PER IL XXI SECOLO di Francesco Cannatà a partita decisiva del summit che si apre oggi a Bucarest sarà un incontro a tre fra Georgia, Russia e Nato. La posta in gioco è l’ingresso di Tblisi nel “piano d’azione in vista dell’adesione”, Map, dell’Alleanza atlantica. La decisione, qualunque essa sia, sarà presa in base a calcoli politici. I georgiani non sono pronti all’ingresso, ma la loro partecipazione al piano d’azione è necessaria ora. Sarebbe un contributo importante alla stabilizzazione di una regione difficile. La battaglia durerà fino a venerdì e ognuno affila i propri coltelli. Saakashvili oltre a presentare un piano di “autonomia illimitata” per risolvere il conflitto con l’Abkhazia, si è rivolto direttamente alla Germania e in una

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do la carta afgana. Senza tralasciare il Kosovo e suggerendo che ripercussioni potrebbero esserci anche sugli armamenti. Per ora però Putin ha offerto di far passare attraverso la Russia una parte dell’approvvigionamento Nato in Afghanistan. L’assistenza, ma anche la sicurezza, dell’Isaf ne verrebbe avvantaggiata. Ma il vertice dovrà sciogliere anche altri nodi, senza mettere in discussione i fragili equilibri che esistono tra l’alleanza, i suoi membri e tutti gli attori esterni. Se Ucraina e Georgia non devono irritare Mosca, la Macedonia deve parare il colpo greco che le chiede di cambiare nome. Il Kosovo va stabilizzato senza offendere troppo la Serbia e tenendo presente che, «più i Balcani sono nella Nato, meno la Nato è nei

altri stanno a guardare. Nicolas Sarkozy e il ministro della difesa francese Morin fanno sapere alla Casa Bianca che si accingono a rivedere le scelte di Jacques Chirac dando luce verde a un maggiore impegno bellico francese, ma non vogliono che tra i futuri membri dell’alleanza ci siano Ucraina e Georgia.

Crisi energetiche, fondamentalismo islamista, failed States, diffusione di armi di distruzione di massa.Tutte minacce cui la Nato reagisce in ordine sparso. Ma il vero pericolo per l’Alleanza è un altro. Che il dibatto sul nuovo “concetto strategico” che Angela Merkel alla conferenza di Monaco dello scorso anno ha definito «indispensabile per trovare una risposta comune alle sfide por-

Il summit dovrà sciogliere molti nodi senza minare gli equilibri tra i suoi membri e un gran numero di attori esterni combattiva intervista alla Frankfurter Allgemenie Zeitung ha fatto presente alla Merkel che un nuovo asse Mosca-Berlino, questa volta politico, dopo quello energetico sul gasdotto del Nord, vedrebbe l’opposizione di tutti i membri orientali della Ue. Un appello cui ha subito risposto il presidente polacco Lech Kaczynski. Il vero obiettivo di Varsavia non è però Tblisi ma Kiev. Nessuno in Polonia ha dimenticato quanto ha detto Lech Walesa nel 1994: «Senza l’indipendenza ucraina, non c’è indipendenza polacca». Ovvio che se Kiev rompesse il tabù per la Georgia tutto sarebbe più facile. Il Cremlino sembra aver messo da parte l’idea di puntare i suoi missili sugli ex satelliti preferen-

Balcani», secondo il rebus levantino del capo della diplomazia di Skopje. In Afghanistan i taleban, alleati di al Qaeda, colpiscono la Nato perché vogliono rovesciare il debole governo di Hamid Karzai, azzerare la giovane democrazia afghana e ripristinare il regno del terrore? Washington chiede agli alleati di inviare più uomini e mezzi per vincere un conflitto da cui dipendono le sorti dell’Alleanza atlantica? Londra, Ottawa, L’Aja e Canberra schierano reparti combattenti a fianco di Washington e Kabul, mentre Parigi, Roma, Berlino e Madrid esitano. Pongono restrizioni all’impiego delle truppe, causando così situazioni militari nelle quali mentre alcuni soldati Nato affrontano il fuoco nemico

tate alla sicurezza internazionale», possa spaccare definitivamente l’Alleanza. Per ben due volte, 1991 e 1999, l’Alleanza transatlantica è riuscita a superare la prova di aggiornare il suo pensiero alle mutate condizioni dei rapporti di forza internazionali, unendosi su un “concetto strategico” in grado di descrivere i suoi compiti fondamentali e le sue linee guida politiche. Col primo di questi documenti, elaborato a Roma nel novembre 1991 nel segno della dissoluzione dell’Urss, venivano messi in cantina fondamenti della strategia militare transatlantica come “difesa anticipata” e “risposta flessibile”. Al loro posto appariva il concetto di “sicurezza allargata”. La fine della

minaccia militare rappresentata dal Patto di Varsavia si rifletteva nella dottrina della “strategia senza nemico”. Tutti d’accordo che in un momento in cui il contrabbando nucleare rendeva realistica l’ipotesi che bande criminal-terrostiche entrassero in possesso di “bombe sporche”, i rischi per libertà e sicurezza erano diventati più alti. Nonostante pericoli nuovi e “invisibili” l’alleanza, continuando a poggiarsi sulle colonne portanti della sua strategia, difesa e dialogo, si attrezzava per cooperare, gestire le crisi, controllare gli armamenti e darsi nuovi compiti militari senza escludere gli ex nemici. L’addio ad una “pura” linea di strategia militare andava di pari passo con la richiesta di maggiore flessibilità alle truppe e il timore di un possibile ruolo politico delle armi atomiche. Erano i passi concettuali indispensabili all’alleanza per giustificare la sua esistenza anche se il mondo bipolare nel quale era stata concepita non c’era più. Gli anni successivi vedevano altre innovazioni. La struttura militare transatlantica interveniva nella stabilizzazione dei Balcani. Si allargava a est e, concretizzando i segnali di cooperazione del Partenariato per la pace, collaborava con la Russia, l’Ucraina e gli Stati rivieraschi del Mediterraneo. Le strutture di comando si snellivano mentre prendeva forma una “identità”europea in materia di sicurezza e difesa. Un nuovo documento strategico elaborato al vertice di Washington del 1999, contemporaneamente alla guerra in Kosovo, formalizzava questi sviluppi. I “compiti fondamentali” dell’Alleanza si ampliavano: sicurezza, consultazioni, dissuasione e difesa, gestione delle crisi e prevenzione dei conflitti, partenariato. La consapevolezza dei nuovi pericoli dava significato crescente alla politica della sicurezza Ue in

divenire. La concentrazione allo spazio euroatlantico, l’Europa e le sue instabili periferie, significava l’abbandono dell’idea della Nato come“poliziotto mondiale”. Dopo la fine delle attività militari in Kosovo avvenute senza la copertura della comunità internazionale, il ruolo della Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza venivano rivalutate, senza escludere però la possibilità di nuovi interventi in base ad“automandati”. Dall’elaborazione del secondo “concetto strategico”sono passati circa dieci anni durante i quali le condizioni della sicurezza sono cambiate drammaticamente. 11/9, intervento in Afghanistan, guerra in Iraq e progressi nella politica della sicurezza europea sono i momenti chiave del nuovo millennio. Un passo verso la formalizzazione dei nuovi compiti è stato fatto nel novembre 2006. I partecipanti al vertice Nato di Riga hanno presentato una “guida politica generale”per l’alleanza. Il documento non è stato però in grado di proporre nuovi concetti strategici. Oggi per gli alleati è più difficile unirsi su una “nuova strategia per l’alleanza” con la quale riassumere la sicurezza della situazione mondiale dopo gli attacchi terroristi del 2001.

In molti ritengono che l’ultimo “concetto strategico” sia ancora valido. Il Patto del nord atlantico con le clausole generali che coprono ogni forma di minaccia nei confronti degli alleati e permettono anche la “difesa anticipata” è diventato una coperta, più stretta ma ancora efficace.


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60 capi di Stato, 26 Paesi membri, delegazioni e giornalisti: traffico chiuso in città

Tutte le spaccature dell’Alleanza di Fernando Orlandi

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Per tre giorni la capitale rumena sarà al centro dei media mondiali. A sinistra una manifestazione anti Nato a Kiev. A differenza della Georgia, sulla questione dell’Alleanza l’Ucraina non segue compatta le indicazioni del suo presidente

Indubbiamente alcuni governi, soprattutto in Europa occidentale, vedono con malessere la transizione. Una lega difensiva, quale era la Nato durante la guerra fredda, potrebbe diventare una alleanza attiva con responsabilità verso la sicurezza internazionale. Ma andrebbe sciolto il nodo dell’intervento umanitario. Si può intervenire in zone esterne all’Alleanza, anche se da questi territori non provengono minacce all’Europa o al nord America? Per molti governi le trattative in corso con Iran e Corea del nord mostrano che è possibile relativizzare conflitti e contrapposizioni, mentre Kabul non deve diventare un precedente. Il futuro dell’alleanza sarà però determinato da quello che avverrà in Afghanistan. In caso di mancato successo, la struttura militare transatlantica potrebbe uscirne ferita a morte. In Afghanistan si combatte anche per la coesione della Nato. Se la missione afgana si concludesse con una serie di ritiri unilaterali, lasciando gli Usa soli, il conto finale non lo pagherebbe Washington, ma Bruxelles. La difesa europea è un neonato ancora troppo gracile per poter camminare da solo.

uello che si apre a Bucarest è indubbiamente uno dei vertici della Nato destinati a rimanere nella storia, forse il più importante dal termine della Guerra fredda. All’ordine del giorno c’è molta carne al fuoco (dall’Afghanistan al ruolo più generale che la stessa alleanza transatlantica deve assumere nel futuro). Pur non essendo in primo piano l’attenzione sarà anche focalizzata sul sistema di difesa antimissile, sulla sicurezza degli approvvigionamenti energetici e sul cybercrime. La Russia, infatti, nel corso degli anni passati ha più volte chiuso il rubinetto (Georgia, Lituania e Ucraina, solo per fare qualche esempio) nel tentativo di esercitare pressioni e intimidazioni politiche. La tecnologica e informatizzata Estonia è stata vittima nella primavera del 2007 di un’aggressione informatica ai sistemi governativo e finanziario. Un attacco riconducibile, secondo Tallin, a fonti governative russe. La questione è davvero delicata: l’interruzione della fornitura di gas o un cyber-attacco potranno fare scattare i disposti dell’articolo 5 del Trattato di Washington del 1949, quello che ha portato alla costituzione della Nato? Un attacco di questo genere contro un Paese membro dell’alleanza “sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti”? Per quanto riguarda la difesa antimissile si è assai vicini alla formalizzazione dell’accordo di Washington con Praga (il sistema radar) e Varsavia (dieci intercettori). Ma anche la Nato sta elaborando un proprio sistema anti-missile tattico: verranno unificati? saranno concorrenti? Sul tavolo c’è pure la questione, divenuta scottante, dell’ulteriore allargamento dell’alleanza: da un lato i tre paesi candidati all’associazione (Albania, Croazia e Macedonia) e dall’altro

Georgia e Ucraina, che ambiscono al Membership Action Plan. La scelta di associare i tre stati balcanici non è di portata strategica (visto lo scarso peso delle loro forze armate), ma è finalizzata alla stabilizzazione della regione dopo il riconoscimento del Kosovo. A dispetto dei loro progressi, i tre Paesi hanno ancora un cammino da percorrere per mettere in sintonia i loro sistemi politici con gli standard europei. L’obiettivo di stabilizzazione dei Balcani, tuttavia, dovrebbe premiare il cammino intrapreso. Ci si deve pertanto attendere un invito, che ad oggi comunque resta ancora avvolto da qualche incertezza. L’ostacolo è quello del nome della Repubblica di Macedonia. Dal 1991 la Grecia ha iniziato una disputa con il confinante perché Atene vuole che rinunci al nome, essendo Macedonia una delle proprie province. Oltre quindici anni di negoziati con uno speciale rappresentante Onu non hanno condotto a nulla e ora il governo greco minaccia il veto. Il primo ministro Karamanlis ha dichiarato il 3 marzo: «Nessuna soluzione, nessun invito». Per Atene è una occasione unica di usare il suo potere di ricatto. Riusciranno gli altri Paesi dell’alleanza a disgiungere il problema del nome da quello dell’associazione? La fonte di maggiori controversie a Bucarest sarà data dal Membership Action Plan per Georgia e Ucraina. Proposto da Washington (non a caso il presidente George W. Bush ha iniziato il suo viaggio verso la Romania con la tappa di Kiev), ha trovato il sostegno aperto di Canada, dei Paesi dell’Europa centrale e di qualche altro Stato, ma anche la dichiarata opposizione di Germania e di altri Stati fra cui Francia, Spagna, Italia, Belgio, Lussemburgo e Olanda. La divisione della Nato, insomma, è ciò che rende questo vertice così importante.


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speciale esteri

Occidente La regione del Caucaso e l’ Ucraina sono attraversate dalle pipeline che trasportano il gas proveniente da Russia, Caspio e Asia centrale. Anche la questione della sicurezza energetica diventerà un compito dell’Alleanza? A sinistra una fase dei controlli delle condutture Gazprom

Favorevoli e contrari all’allargamento: chi avrà il coraggio di sfidare Mosca?

Georgia, Ucraina e il “niet” russo una partita piena di incognite di David J. Smith TBILISI. I 26 capi di stato dei Paesi membri della Nato decideranno al vertice di Bucarest se la Georgia entrerà a far parte del Map. L’ultimo incontro si è chiuso senza raggiungere un accordo, ma un diplomatico che era presente ritiene che il momento sia piuttosto favorevole grazie alla presenza di più Paesi disposti ad accogliere la richiesta georgiana. Detto questo, la Nato decide a maggioranza assoluta, quindi è sufficiente un solo no per bloccare la strada. Nonostante la stampa elenchi un cospicuo numero di scettici tra i membri Nato, come Belgio, Francia, Grecia, Ungheria, Italia, Lus-

in conflitti regionali non dovrebbero cercare di diventare membri e che i candidati dovrebbero essere in grado di offrire un contributo significativo e di qualità agli sforzi di tutto il gruppo. Peccato che abbia sorvolato sul fatto che lei stessa verrà criticata a Bucarest per l’impiego dell’esercito tedesco in progetti sociali nella zona relativamente tranquilla del nord Afghanistan, privando in questo modo gli alleati di truppe combattenti al sud. D’altro canto, la Georgia ha più di un plotone di soldati sotto il comando Nato in Kosovo, ed ha aggiunto le sue truppe alle forze Nato per le elezioni presidenziali

I Paesi a sostegno di Tbilisi e Kiev temono Putin, ma riconoscono il Kosovo semburgo, Olanda, Norvegia, Portogallo e Spagna, gli occhi sono tutti puntati sulla Germania. Questo perchè appena due giorni dopo essere stata il primo leader occidentale ad incontrare il neoeletto presidente russo Dmitry Medvedev, il Cancelliere Angela Merkel ha lanciato una granata sul cammino della Georgia verso la Nato. La sua tesi? Che i Paesi implicati

del 2004 in Afghanistan, Paese intorno al quale si discute l’ipotesi che i soldati georgiani ritornino senza le pesanti restrizioni che troppi alleati hanno imposto. Insieme ad una impressionante serie di riforme, la volontà dimostrata dalla Georgia di contribuire in modo significativo all’Alleanza atlantica le ha fatto comunque guadagnare l’appoggio di molti

Paesi; il presidente Bush, dopo aver incontrato il 19 marzo il presidente georgiano Mikhail Saakashvili, ha detto di credere che la Nato trarrebbe beneficio dall’entrata della Georgia, e ha chiarito che porterà questo messaggio a Bucarest, mentre il Canada, il 20 marzo - insieme ad altri nove membri, ex repubbliche del Patto di Varsavia - ha scritto al Segretario generale dell’alleanza, Jaap de Hoop Scheffer, in favore del Map per la Georgia e l’Ucraina. Qualche giorno dopo anche il presidente rumeno,Traian Basescu, ha sollecitato la Nato ad appoggiare il Map per gli stessi Paesi, rifiutando totalmente l’idea di offrire loro una sorta di mezza misura, come vorrebbero invece alcuni diplomatici che definendo eufemisticamente il loro scetticismo, sostengono che i Paesi come la Georgia non siano pronti. Poco importa se conseguire il Map significa - per definizione - che il Paese candidato non possa essere pronto, visto che il Map è proprio un piano d’azione per aiutarlo a prepararsi; se qualcuno avesse presupposto che la Georgia fosse già adatta oggi discuteremmo di ingresso nella Nato, non di altro. Purtroppo, i Paesi che puntano i piedi per far entrare la Georgia nel Map sono impreparati a guardare la Russia negli occhi, ed è un peccato che molti di loro abbiano trascurato questo fatto mentre si pre-

cipitavano a sferrare alla Russia il colpo dell’indipendenza kosovara. Consapevole di questo, appena al vertice di Bucarest la decisione riguardo il Map per la Georgia e l’Ucraina sarà presa, Mosca aggraverà il conflitto nel territorio georgiano di Abkhazia e condurrà una propaganda negativa nei confronti dell’Occidente. Già il 6 marzo la Russia ha revocato le sanzioni commerciali, economiche, finanziarie e sui trasporti inflitte all’Abkhazia per undici anni dal Cis (Commonwealth of Independent States), rendendo vana una delle ultime speranze che Mosca riconosca l’Abkhazia come territorio georgiano, e aprendo la possibilità - come ha sottolineato allarmato l’ambasciatore americano alle Nazioni Unite Zalmay Khalilzad l’11 marzo - che il ritiro russo dalle sanzioni possa facilitare il rifornimento di armi ai separatisti. Dmitry Rogozin, l’inviato russo alla Nato, ha rinfacciato agli alleati il fatto che appena la Georgia intravederà il parere favorevole di Washington alla prospettiva di entrare nella Nato, comincerà già dal giorno dopo il processo di secessione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud dalla Georgia. Medvedev, in una intervista al Financial Times del 21 marzo, ha chiarito di non essere affatto soddisfatto della situazione riguardo la Georgia e l’Ucraina; nessuno Stato - ha dichiarato - può essere contento di

avere un blocco di rappresentanza militare al quale non è concesso di avvicinarsi alle proprie frontiere, e lo stesso giorno la Duma ha proposto una risoluzione che chiede al Cremlino di considerere l’utilità di riconoscere l’indipendenza all’Abkhazia e all’Ossezia del Sud. Questo è il modo in cui Mosca diffonde lo scetticismo sul Map presso alcuni membri della Nato, ed è stupefacente che la maggior parte dei leader occidentali accetti acriticamente la messa in scena russa, mentre in realtà dovrebbero fargli due precise domande: primo, al di là della vostra infelicità e dispiacere, per favore diteci esattamente in che modo il cammino della Georgia e dell’Ucraina verso la Nato può danneggiare gli interessi russi, così potremo usare efficacemente il Consiglio Nato-Russia per attenuare le vostre preoccupazioni. Secondo, sappiamo che voi avete il controllo generale degli sviluppi in Abkhazia e Ossezia del Sud, quindi siete disposti ad unirvi a noi in uno sforzo diplomatico per risolvere questi conflitti? Se i membri della Nato avessero il coraggio di affrontare il nocciolo del problema, il Map per la Georgia sarebbe un risultato scontato. Ma sono pronti a farlo? Direttore del Centro georgiano di indagini sulla sicurezza di Tbilisi, e senior fellow dell’Istituto Potomac per gli studi politici di Washington


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La vera partita di questo vertice si gioca su Kabul. In ballo c’è la sopravvivenza dell’Alleanza

Afghanistan, l’ombelico della Nato di Stranamore fficialmente i riflettori accesi sulla ribalta di Bucarest in occasione del 59° vertice dei capi di stato della Alleanza Atlantica sono puntati sulla questione dell’ampliamento della Nato, che passa da 26 a 29 membri. Entrano Albania, Croazia e, salvo capricci greci dell’ultima ora, Macedonia. Si discuterà poi della prematura richiesta statunitense di accogliere Georgia ed Ucraina nel Map, il membership Action Plan, di fatto l’anticamera per il pieno ingresso nell’alleanza. Si parlerà anche di scudo antimissile americano, di trattati Cfe e Inf. Ma in realtà la vera partita è tutta interna all’Alleanza e riguarda l’Afghanistan. Gli Usa stanno esercitando da mesi una pressione crescente sui partner atlantici affinché aumentino l’impegno nel Paese. Il generale Dan McNeill che comanda l’Isaf, la forza multinazionale a guida Nato, ha chiesto almeno 7.5008.000 soldati in più, rispetto ai 47mila, dei quali circa 19mila statunitensi, di cui dispone. Altri 10mila soldati Usa sono inquadrati nella operazione Enduring Freedom. L’obbiettivo è portare Isaf a 55mila uomini. Ma difficilmente ci si arriverà. Gli Usa volevano un potenziamento di Isaf già subito dopo il vertice di Riga, 16 mesi fa ed in effetti rinforzi sono arrivati, ma insufficienti e troppo lentamente. Alla fine gli Usa hanno dovuto inviare, ufficialmente per un “turno”di sette mesi, una brigata di 3.200 Marines a colmare i vuoti. McNeill però non è soddisfatto, vuole di più ed ha giocato proprio nell’imminenza del vertice una carta rischiosa. Sostanzialmente ha detto che i Paesi Nato possono scegliere se fornire le truppe richieste e consentire in questo modo una più rapida soluzione della dimensione militare del problema afgano, oppure lesinare uomini e mezzi e rassegnarsi a mantenere l’attuale livello di forze per anni, tre o cinque, dipende da quello che farà l’avversario, in attesa che le forze di sicurezza afgane e in particolar modo l’Ana, l’Esercito nazionale siano in grado di assumere direttamente un ruolo davvero significativo nel fronteggiare la guerriglia e garantire la sicurezza interna. Una mossa un po’ azzardata, perché al mito della “vittoria rapida”dopo sei anni non crede fortunatamente nessuno, mentre se è vero che una surge in Afganistan potrebbe dare risultati positivi, come è avvenuto in Iraq, purchè accom-

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Conferenza stampa congiunta del Segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer e del presidente afghano Karzai pagnata ad altre azioni, anche spregiudicate (compreso cercare di dividere e recuperare parte dei talebani, come auspicano a Londra), non è prudente fare promesse. In realtà c’è una terza opzione: la Nato potrebbe dimostrarsi incapace di mantenere lo sforzo attuale per dare il via, dopo un logoramento più o meno lungo, ad un prematuro ritiro unilaterale: in pratica una sconfitta che aprirebbe una crisi gravissima, tale da mettere in gioco la stessa sopravvivenza dell’Alleanza Atlantica.

Ma per ora nessuno vuol toccare questo argomento, c’è da compiere l’ultimo sforzo per raggranellare un po’ di soldati extra. Certo che gli appelli che arrivano da una amministrazione Bush ormai agli sgoccioli hanno sempre meno forza. Sarà quindi graditissimo il contributo che la Francia di Sarkozy si appresta a gettare nel piatto: in aggiunta ai 1.500 militari già presenti nel Paese arriveranno mille e rotti soldati “combat”, che saranno schierati in una delle zone più calde, quella orientale, al confine con l’Afghanistan. Andranno a sostituire altrettanti soldati statunitensi, che potranno essere spostati a sud, a dare una mano al contingente canadese, la cui presenza è stata confermata dal governo di Ottawa fino al 2011 solo a condizione di poter contare su un aiuto consistente. La scelta del presidente francese, duramente contestata in patria, è in realtà ben spiegabile con il “riavvicinamento” di Parigi alla Nato, un processo che por-

Gli Usa chiedono ai partner atlantici uno sforzo maggiore

Il nostro governo non osa prendere impegni militari sotto elezioni

terà presto alla piena integrazione nel dispositivo militare alleato. Anche la Gran Bretagna, che pure sta già sostenendo uno sforzo formidabile, con quasi 8mila soldati in Afghanistan, si appresta a inviare un battle group a livello battaglione, con comandi e supporti, 600-800 uomini. La Polonia dal canto suo sembra pronta a mettere in campo altri 400 soldati per rinforzare il suo contingente. Quanto alla Germania, il massimo che Berlino ha offerto è un contingente addizionale di 250 soldati “combat” per una forza di reazione rapida, ma da impiegare essenzialmente nel “tranquillo” nord. Probabilmente qualcun altro si farà avanti, fornendo qualche centinaio di soldati aggiuntivi.

Sarà già un buon risultato se Isaf potrà ricevere in tempi ragionevoli il 50 percento di quanto richiesto. Meglio che niente, ma certo per stroncare sul nascere le offensive talebane primaverili e mantenere pressione e iniziativa militare servirebbe di più. In particolare considerando che il nuovo governo pachistano è intenzionato a rimangiarsi parte delle promesse fatte dal generale Musharraf agli Usa sulla possibilità di condurre operazioni offensive anti-talebane su vasta scala operando su entrambi i lati del confine con l’Afghanistan. Proprio per questo le forze Usa stanno operando con la massima intensità in queste settimane, temendo una “stretta” a medio termine. In questo contesto un contributo può ve-

nire anche dall’Italia. Un rafforzamento del nostro contingente è possibile. Malgrado la riduzione strisciante degli effettivi delle nostre Forze Armate, ci sono i margini per sostenere un impegno addizionale permanente in Afghanistan di 500-1000 uomini. Ma se questa opzione si rivelasse politicamente impraticabile si può ripiegare sulla soluzione elaborata dagli Stati Maggiori: visto che l’esercito afgano sembra in grado di “tenere” Kabul con sempre minor appoggio esterno (e questa è un’ottima notizia), si potrebbero spostare i nostri 7800 uomini presenti nella capitale ad Herat e dintorni, dove sono disperatamente necessari. Inoltre concentrando le forze in unico teatro si potrebbe aumentare la componente “combat”, grazie ai risparmi nei settori logistico e di staff. Se a questo fosse aggiunta una riduzione di quegli assurdi caveat che finiscono per mettere a repentaglio la vita dei nostri stessi soldati e magari qualche aereo ed elicottero, la Nato non potrebbe che apprezzare. Peccato solo che il nostro governo dimissionario si guardi bene dal prendere impegni militari sull’Afghanistan a pochi giorni dalle elezioni. Si, si potrà sempre fare la nostra parte “dopo”, ma l’effetto politico di una dichiarazione forte a Bucarest sarebbe stato maggiore. Peccato.


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speciale esteri

Occidente

Il “recentrage” della politica estera e di difesa transalpina e il suo ruolo fra Pesd e Nato

La scommessa di Sarkozy di Michele Marchi ra i tanti motivi di interesse dell’appuntamento di Bucarest ve ne è uno che riguarda in maniera specifica Parigi e la nuova politica estera avviata dal suo Presidente a partire dal 6 maggio 2007. Da un punto di vista evenementiel è atteso l’annuncio ufficiale di Sarkozy dell’invio in Afghanistan di circa mille uomini. Nonostante l’opposizione parlamentare dei socialisti, che hanno depositato una mozione di censura contro il governo Fillon, l’incremento delle truppe si effettuerà. Ci sarà poi da stabilire il loro posizionamento e se realmente si tratterà, come sembra, di forze combattenti, dunque da schierare nelle aree calde del sud-est del Paese. Ma accanto alla decisione

T

struzione di un’autonoma difesa europea. Sono passati circa 42 anni dallo storico 7 marzo 1966, quando de Gaulle consegnò nelle mani dell’ambasciatore americano a Parigi la missiva per il presidente Johnson che conteneva l’annuncio del ritiro delle unità francesi dal comando integrato Nato entro il 1 luglio 1966 e la chiusura di tutte le basi americane presenti sul territorio francese entro il 1 aprile 1967. Da quel momento in poi, seppur con notevoli sfumature a seconda dei presidenti in carica e delle contingenze di politica internazionale, Parigi ha incarnato una strana solidarietà occidentale, sempre a metà strada tra la rivendicazione di autonomia assoluta e il desiderio di collabora-

Più Nato per ottenere più Europa, è questa la sfida lanciata dall’Eliseo militare in sé, è interessante notare come alla sua base si trovi il tentativo di riposizionamento (quello che i francesi definiscono recentrage) della politica estera e di difesa transalpina, in particolare per quello che riguarda il ruolo francese all’interno della Nato e il suo contributo per la co-

zione critica. È su questo sostrato storico che si innesta la rupture di Sarkozy riguardo alla collocazione atlantica del Paese: «più Nato per ottenere più Europa», questa in estrema sintesi la scommessa di Parigi. Già in occasione del discorso di novembre al Congresso Usa Sarkozy

libri e riviste

essun problema importante del mondo può essere risolto senza l’impegno di Stati Uniti ed Europa; nessun problema è irrisolvibile quando lo affrontano Usa e Ue insieme». È una «storiografia del presente» quella presentata da Parsi che spiega le ragioni di un’alleanza irrinunciabile, oggi che la sovranità, come la intendeva Ulrich Beck, ha cessato di esistere da molto tempo in Occidente. Un problema di leadership, di come si sia radicata l’egemonia americana rispetto a dei modelli preesistenti, del nuovo balance of power e dei “dividendi” economici. Gli Usa da tempo, in omaggio alla loro cultura, prediligono il concetto di «legittimità politica» rispetto a quello di «legalità giuridica»,

«N

Bernard Kouchner e Frank-Walter Steinmeier, ministri degli Esteri di Francia e Germania aveva esplicitato le sue intenzioni: un totale reintegro della Francia nel comando integrato Nato da scambiare con il via libera da parte di Washington al progetto di difesa comune europea. Nello specifico, mostrando un rinnovato impegno militare in Afghanistan, Parigi concretamente mette sul piatto della bilancia il suo rientro a pieno titolo nell’Alleanza Atlantica. Da Washington sembrano apprezzare la «svolta atlantista» di Sarkozy e non ne disdegnano nemmeno le ricadute europee. Il doppio intervento, a Parigi e a Londra, dell’ambasciatrice americana alla Nato del 22 e 25 febbraio scorsi ha segnato da questo punto di vista un vero e pro-

uno dei tanti motivi di incomprensioni con la politica delle Nazioni Unite, tanto per fare un esempio. Insomma che si chiami pax americana o equilibrio egemonico, staremmo vivendo il superamento di un modello, saremmo di fronte a una «discontinuità» rispetto alla tipologia westfalica dei rapporti fra Stati, con un nuovo dominio «costituzionalizzato». È dunque interesse dell’Europa superare le cicliche crisi nei rapporti transatlantici per rinsaldare ciò che resta dell’Occidente. Vittorio Emanuele Parsi L’Alleanza inevitabile Università Bocconi Editrice 299 pagine – 16 euro

prio turning-point. Parlando della «legittima ambizione europea ad operare militarmente in maniera autonoma» Nuland ha sgomberato il campo dall’obiezione costantemente posta da Washington di fronte ai piani di politica europea di difesa: creare una sorta di «duplicato europeo» della Nato. Cosa ha spinto Nuland a queste dichiarazioni? Certamente le difficoltà militari Usa in Iraq e Afghanistan, ma soprattutto un interessante ragionamento elaborato dall’Eliseo. Sostenere la teoria del rischio «duplicato» tra Nato e Pesd ha avuto come unico risultato quello di condurre la maggior parte dei Paesi europei a decurtare i propri investimenti nel settore dife-

a «principessa arancione» è tornata alla guida dell’Ucraina, seppur di stretta misura. Una settimana prima dello scorso Natale, l’Ucraina ha avuto un nuovo governo, guidato ancora una volta da Yuliya Timoshenko. Come si ricompongono i pezzi della rivoluzione arancione - data più volte come definitivamente defunta - e dei suoi protagonisti, Yushchenko e Tymoshenko? Anche da quella parti si vocifera di una «grande coalizione» vista la maggioranza parlamentare risicata di cui godrebbe la compagine governativa. Sorprende come il popolo che sostenne la rivoluzione arancione (2004) abbia continuato a premiarla nelle urne, forse il segno di una maturità politica raggiunta lungo la difficile strada verso la democrazia. Andrew Wilson Return of Yuliya Harvard International Review web exclusive - March 16, 2008

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sa, convinti che questo ambito fosse di competenza esclusiva della Nato e di conseguenza dovesse gravare sulle sole finanze americane. L’assunzione di maggiore responsabilità europea in materia di difesa passa secondo l’Eliseo, e su questo punto Washington concorda, per un aumento reale dei budget di difesa dei vari Paesi dell’Ue. Parigi si attende che a Bucarest gli Usa operino una moderata apertura all’idea che i Paesi europei più filo-atlantici si decidano a contribuire alla creazione della difesa europea. In particolare gli Usa dovranno convincere Londra, da sempre scettica sulla possibilità di incardinare le proprie istituzioni all’interno dei complicati meccanismi europei. In particolare Londra non vede di buon occhio il «centro di pianificazione e comando» del quale dovrebbe dotarsi l’Ue, per attuare finalmente quella Pesd, stabilita (teoricamente) al Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999. Oggi si è ancora nella fase embrionale, quella politico-diplomatica e per questo la recente visita di Sarkozy a Londra non è entrata nei dettagli tecnici. Il dato comunque da sottolineare è che Parigi pare decisa a passare da una Nato «à la carte» ad una «a menù fisso». Si tratta di un ritorno a Canossa? Per il momento, la Francia andrà a Kandhar e Hindu Kush, e questa non è certo una notizia da poco.

n «mondo scatenato» senza più controllo oppure una «libertà attiva»? L’autore leggendo la globalizzazione preferisce utilizzare la parola «instabile» per descrivere i fenomeni ad essa collegati. Nessuna apologia del mondialismo – oggi assai difficile – ma un’analisi sulla “religione” della libertà molto concreta. Se le rivoluzioni borghesi «avevano distrutto tutti i legami feudali che stringevano l’uomo al suo superiore naturale» allora cosa sarebbe rimasto del rapporto fra simili oltre il cash nexus? Le sei lezioni sul «mondo instabile» di lord Dahrendorf provano a descrivere un runaway world dove il nomos sta scomparendo insieme ai vecchi equilibri. Ralph Darhendorf Libertà Attiva Laterza – 139 pagine – 7 euro

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pagina 18 • 2 aprile 2008

mondo Tony Blair e Gordon Brown: rispetto al predecessore, il nuovo primo ministro ha accentuato la posizione filo Ue, prefigurando una vera cessione di sovranità nei confronti del superstato

WASHINGTON. È improbabile che al primo ministro Gordon Brown, presto in visita negli Usa (16 aprile, ndr), sia riservata la stessa entusiastica accoglienza trovata dal suo predecessore, Tony Blair. Un recente articolo pubblicato dal quotidiano londinese Sunday Telegraph getta ombre sinistre sullo stato adelle relazioni angloamericane, con il seguente titolo a tutta pagina: “La ‘relazione privilegiata’ muore con Gordon Brown”. Secondo il Telegraph i diplomatici britannici non utilizzano più questa espressione per descrivere la decennale alleanza fra Londra e Washington che, all’apogeo della sua gloria, aveva consentito di sconfiggere sia la Germania nazista che la Russia sovietica. La formula è stata tranquillamente eliminata dal ministero degli Affari esteri britannico per rispetto nei confronti dei partner dell’Unione europea. Come chiarito nella Strategia di sicurezza nazionale del Regno Unito, da poco resa pubblica, pur se «il partenariato con gli Stati Uniti costituisce la nostra relazione bilaterale più importante, di vitale importanza per la sicurezza nazionale… l’Unione europea svolge un ruolo essenziale nel garantire un mondo più sicuro sia all’interno che al di fuori dei confini dell’Europa». Riferendosi a Washington, così come a New Delhi ed a Pechino, l’articolo prosegue affermando che la Gran Bretagna «continuerà a costruire relazioni bilaterali con i principali Paesi, ivi compresi gli Stati Uniti e le potenze emergenti come India e Cina». La stessa equa ripartizione di affetti per gli Usa e l’Unione europea da parte di Downing Street sarebbe stata impensabile ai tempi di Margaret Thatcher e Ronald Reagan, ma l’idea aveva già preso piede durante l’amministrazione Blair, nonostante i forti sentimenti fi-

Freddo con gli Usa e la lotta al terrore, il primo ministro sconfessa una pluridecennale scelta strategica

Brown,l’anti-Churchill che fa a pezzi la relazione privilegiata di Nile Gardiner lo-americani dell’ex primo ministro. A torto Blair riteneva che la Gran Bretagna potesse essere sia il più fedele alleato degli Stati Uniti che significativo protagonista in un’Europa sempre più integrata.

Nonostante Blair sia rimasto duramente scottato nelle sue trattative con Parigi, Berlino e Bruxelles sull’Iraq, Brown appare determinato a perseguire la stessa via filo-europea del predecessore, adottando al

in gita scolastica al museo del trasporto locale. Il poco convinto approccio di Brown nei confronti di Washington può essere spiegato da vari fattori, non da ultimo la sua avversione per gli affari internazionali e il suo interesse quasi ossessivo per tutti i minimi particolari della politica economica. L’arcigno Brown continuerebbe a essere un ottimo ministro del Tesoro ma è molto meno adatto a guidare l’esecutivo, come dimostrano i

po più di un decennio di governo laburista i militari britannici sono pesantemente sotto pressione e senza sufficienti risorse. Il Regno Unito ha ancora 4mila uomini in Iraq e più di 8mila in Afghanistan, ma il loro coraggio è ben superiore alla spesa del governo. Oggi la Gran Bretagna destina appena il 2,2 per cento del Pil per la Difesa: il livello minimo dagli anni Trenta del secolo scorso. Un simile approccio ha naturalmente portato Brown a

Nella ”Strategia di sicurezza nazionale” Londra mette sullo stesso piano il rapporto con gli Stati Uniti e quello con «le potenze emergenti India e Cina» contempo una posizione decisamente tiepida nei confronti degli Stati Uniti: un’impostazione che con indulgenza può essere definita distratta nei confronti dell’alleanza angloamericana. Il suo incontro del luglio scorso con George W. Bush alla Casa Bianca ha avuto un carattere pratico e operativo ma uno stile quasi tetro. Il nuovo primo ministro aveva lo stesso entusiasmo di uno scolaro errante costretto ad andare

recenti sondaggi. La sua popolarità è scesa di 26 punti, e il suo partito è ai livelli minimi di gradimento dal 1987, con sedici punti percentuali in meno rispetto ai conservatori.

Da ministro del Tesoro, Brown aveva dimostrato scarso entusiasmo per le guerre americane in Iraq e Afghanistan, aumentando di malavoglia il bilancio per le spese militari. Oggi segue la stessa impostazione. Do-

essere in disaccordo con la Casa Bianca. Il primo ministro non ha eliminato soltanto l’espressione “relazione privilegiata” ma anche quella di “lotta al terrorismo”, e ora ai funzionari pubblici britannici è stato ordinato di utilizzare il termine “criminali” invece che “terroristi islamici”. Per citare la Strategia di sicurezza nazionale, «pur se il terrorismo costituisce una minaccia alle nostre comunità e un attacco ai nostri

valori, esso non rappresenta attualmente una minaccia strategica». Un’impostazione che va di pari passo con l’ulteriore resa della sovranità britannica all’Europa. Brown ha sostenuto il nuovo Trattato di riforma europeo - quasi identico alla precedente Costituzione Ue che è a tutti gli effetti un programma a favore del superstato continentale. Si è risolutamente rifiutato di ricorrere al voto popolare sul Trattato, nonostante lo schiacciante sostegno dell’opinione pubblica per un referendum sul tema. Esiste il pericolo reale che la relazione privilegiata possa alla fine morire di una morte lenta e irreversibile, frutto di un mix d’indifferenza politica, diminuzione della spesa britannica per la Difesa ed erosione della sovranità di Londra in seno all’Unione europea. Spetterà al futuro primo ministro invertire questo processo. Resta da vedere se il leader conservatore David Cameron, sempre più popolare, darà nuovo vigore e slancio all’alleanza, in caso di vittoria alle elezioni del 2010. Per il futuro del mondo libero è di vitale importanza che lo faccia. Come ebbe eloquentemente a dire Margaret Thatcher in un discorso alla fine della Guerra Fredda, «indipendentemente da ciò che dice l’opinione pubblica, la relazione privilegiata esiste, conta e deve continuare perché gli Stati Uniti hanno bisogno di avere amici nel loro solitario compito di garantire la leadership mondiale. Più di ogni altro Paese, la Gran Bretagna condivide l’impegno appassionato dell’America nei confronti della democrazia e la volontà di lottare per difenderla».

Direttore del Centro Margaret Thatcher per la libertà presso l’Heritage Foundation.


mondo

2 aprile 2008 • pagina 19

L’Onu riafferma l’integrità territoriale dell’Azerbaijan e chiede il ritiro delle truppe armene dai territori occupati

Alta tensione nel Nagorno Karabakh d i a r i o

di Fernando Orlandi e risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a differenza di quelle del Consiglio di sicurezza, non sono vincolanti. Ma quella adottata il 14 marzo con la quale si è riaffermata l’integrità territoriale dell’Azerbaijan, chiedendo il ritiro delle truppe dell’Armenia dai territori occupati e ribadendo il diritto inalienabile al ritorno della popolazione espulsa, rischia di produrre degli sviluppi inattesi. Oggetto della risoluzione è il conflitto fra armeni e azeri che ha portato a un lungo e sanguinoso conflitto e all’occupazione del Nagorno Karabakh, uno dei cosiddetti quattro “conflitti congelati” dello spazio post-sovietico. Quello che ha opposto gli armeni cristiani agli azeri musulmani è un antagonismo di vecchia data, che risale al 1918 ed esplode a partire dal febbraio 1988 quando i deputati armeni del Nagorno Karabakh votano per la separazione della regione dall’Azerbaijan e l’unificazione all’Armenia. La risposta non si fa attendere: nella città azera di Sumgait il 28 febbraio si tiene una vera caccia all’armeno (32 uccisi e numerosi feriti). L’insurrezione irredentista che ha preso il via nel Nagorno Karabakh sfocia, grazie all’aiuto militare dell’Armenia nella proclamazione dell’indipendenza. Alla fine degli anni Ottanta l’Unione Sovietica, in preda ai sussulti che condurranno alla sua implosione, invece di agire da imparziale pacificatrice, parteggiò per la fedele Erevan, e Baku si trovò ad essere occupata militarmente nel 1990. La perestroika di Gorbachev non riuscì a gestire il “conflitto controllato” e si macchiò di sangue: 142 morti e oltre 700 feriti. Divenuti due Stati indipendenti nel 1991, il conflitto si acutizzò, mentre Mosca cercava di manipolare i contendenti sfruttando le rivalità e armandoli. Chi ne beneficiò maggiormente fu l’Armenia. Il generale Rokhlin, poi ucciso in circostanze non chiare, rivelò che tra il 1992 e il 1994 erano state trasferite illegalmente dalla Russia all’Armenia armi e munizioni per un miliardo di dollari. La frittata era fatta. Ad un certo punto, violando una tregua firmata il giorno prima a Teheran, gli armeni conquistarono il cosiddetto corridoio di Lachin, collegando fisicamente il Nagorno Karabakh al proprio Stato. L’Azerbaijan si è così trovato monco di

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Una cartina del Nagorno Karabakh da cui si chiede il ritiro armeno circa un quinto del territorio, mentre entrambe le parti hanno intrapreso una “pulizia etnica”:oltre quattrocentomila armeni hanno dovuto lasciare l’Azerbaijan, mentre i rifugiati azeri superano i settecentomila. Nel 1992, per promuovere la soluzione pacifica del conflitto, l’Osce ha costituito il Gruppo di Minsk, che ha operato in modo inconclusivo fino ad oggi sotto la guida di alcuni co-presidenti, una troika formata da Francia, Russia e Stati Uniti. All’Assemblea generale dell’Onu i co-presidenti del Gruppo, assieme ad Angola, India, Vanuatu e Armenia, hanno votato contro la risoluzione approvata il 14 marzo.

Nel 1992 l’Osce ha costituito il Gruppo di Minsk che fino ad oggi ha operato in modo inconcludente sotto la troika formata da Francia, Russia e Stati Uniti Il documento non altera la situazione, ma indubbiamente gli imprime un nuovo dinamismo, soprattutto alla luce dell’indipendenza del Kosovo. La troika ha motivato la sua opposizione alla risoluzione sostenendo che questa era sbilanciata, in quanto rifletteva le posizioni azere e non quelle armene. A Baku hanno reagito in modo piccato: il viceministro degli esteri Azimov ha sostenuto che sarà costretto a ri-

considerare le relazioni con i tre e soprattutto ha fatto due cose concrete: ha ritirato i suoi 33 militari che servono in Kosovo e ha scritto al Segretariato dell’Osce chiedendo una serie di informazioni sulle procedure per cambiare il formato dei negoziati in corso. Questa lettera è stata erroneamente interpretata dagli armeni come la richiesta dello scioglimento del Gruppo di Minsk. In realtà non è così, essendo un capolavoro di ambiguità, finalizzata a ritagliarsi un più ampio spazio di manovra e capitalizzare il successo ottenuto all’Onu. Da questo punto di vista non accadrà nulla, anche perché l’Azerbaijan non può permetterselo. E il ritiro dal Kosovo è stato accompagnato dal raddoppio dei propri soldati in Afghanistan, affinché il segnale non venisse male interpretato. Gli azeri sono insoddisfatti di Russia (alleata dell’Armenia) e della Francia, e vorrebbero un ricambio. Rispetto al negoziato in corso non intendono prendere in considerazione il mantenimento di un corridoio di collegamento fra Armenia e Nagorno Karabakh e si oppongono a risolvere internazionalmente la questione sullo status regionale. La minaccia più concreta all’esistenza del Gruppo di Minsk viene invece dal possibile rifiuto di Erevan a riconoscere che il Nagorno Karabakh fa parte dell’Azerbaijan. Resta il fatto che l’inconcludente operato del Gruppo di Minsk bene riflette le dinamiche politiche dei suoi tre rappresentanti: Mosca può permettersi di esercitare pressioni indirette su un Azerbaijan che troppo mira a Occidente e intende gestire autonomamente le proprie risorse energetiche; l’Ue è ben riflessa nella sua tattica dilatoria per cui è meglio posporre che affrontare un problema; gli Usa avvilluppati da una duplice politica, con l’Amministrazione che rema da una parte e Capitol Hill, pressata dalla potente lobby armena, che spinge dall’altra. L’Ue deve far fronte anche ad un problema più generale: quello di riuscire ad avere una comune politica estera e della sicurezza, all’interno della quale la dimensione della sicurezza energetica assume oggi un peso rilevante. Senza dimenticare che nella grande regione del Caspio-Mar Nero potrebbe trovare alcune soluzioni ai problemi della sicurezza e diversificazione degli approvvigionamenti energetici.

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g i o r n o

Ue: Mugabe sia pronto a farsi da parte La presidenza dell’Unione Europea ha chiesto al leader dello Zimbabwe, Robert Mugabe, di farsi da parte in caso di sconfitta elettorale. Per Dimitrij Rupel, ministro degli Esteri della Slovenia che per il semestre in corso è presidente di turno dei Ventisette, un eventuale colpo di mano dell’uomo fore dell’ex Rhodesia potrebbe far precipitare il Paese africano nel caos. Il Dipartimento di Stato Usa, dal canto suo, ha invitato Mugabe a rispettare i risultati del voto, anche in caso di vittoria dell’opposizione, e ha esortato la commissione elettorale dello Zimbabwe a rendere al più presto noti i risultati, che tardano invece a essere ufficializzati. Secondo delle fonti, intanto, il presidente Mugabe starebbe trattando la cessione del potere al leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai. Lo sostiene ad Harare un membro della Commissione incaricata dello spoglio del voto.

Il Dalai Lama a Bruxelles? Forse Invitare il Dalai Lama a Bruxelles, come chiesto ieri dal capo della diplomazia francese Bernard Kouchner, è un’idea «fattibile» ma è prima necessario che ne discutano tutti i 27 Paesi dell’Ue. Lo ha detto il ministro degli Esteri sloveno e presidente di turno Ue, Dimitri Rupel, nel corso di un intervento al parlamento europeo a Bruxelles. Il Dalai Lama sarà a Londra il prossimo 22 maggio. In quell’occasione, il premier britannico Gordon Brown non ha escluso di volerlo incontrare.

Trattato Lisbona, sì polacco Il Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, ha votato oggi la ratifica del Trattato europeo di Lisbona: a favore hanno votato 384 deputati, contro 56, 12 si sono asstenuti. Per la ratifica era necessaria una maggioranza dei due terzi (302 voti) del totale dei 452 deputati presenti. La coalizione governativa del partito di centro Piattaforma Civica (Po) e del Partito dei contadini (Psl) non dispone di un tale numero di deputati perciò ha avuto bisogno dei alcuni voti del partito euroscettico dei Kaczynski Diritto e Giustizia (Pis), ora all’opposizione.

Sarkozy, nuovo appello per Betancourt Lo stato di salute di Ingrid Betancourt è «allarmante», è «in pericolo imminente di morte». Lo ha detto il presidente francese Nicolas Sarkozy rivolgendo un appello per la liberazione immediata dell’ostaggio franco-colombiano al capo delle Farc, Manuel Marulanda. Lo riportano i media francesi che hanno anticipato «l’importante iniziativa» del presidente a favore della Betancourt, ammalata di epatite B e di leishmaniosi.

Istanbul, arrestati presunti terroristi Arrestati a Istanbul 45 presunti terroristi, ritenuti appartenenti a una cellula di al Qaeda. Lo ha riferito l’agenzia di stampa turca Anadolu. L’operazione di polizia si è svolta in simultanea in otto quartieri della metropoli. Secondo le autorità, le persone arrestate erano pronte a compiere attentati.

Sms erotici, si dimette ministro finlandese Il ministro finlandese degli Esteri, Ikka Kanerva, dovrà dimettersi per aver mandato 200 sms erotici ad una spogliarellista con il cellulare di servizio. Lo ha confermato ad Helsinki Jyrki Katainen, leader del partito conservatore. «È stata una decisione molto difficile. Ma sono arrivato alla conclusione che Kanerva non gode più della fiducia e del rispetto generale necessari per la sua permanenza come ministro», ha detto il capo del Partito della Coalizione Nazionale. Kanerva, ufficialmente in malattia, non ha commentato. Il ministro, 60 anni, si era recentemente scusato in pubblico, dicendo di aver commesso «un errore di giudizio». Ma le scuse non sono bastate, specie dopo la pubblicazione dei testi degli sms sulla rivista di gossip Hymy.


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cultura

Dal Risorgimento italiano al bipolarismo incompiuto della Seconda Repubblica

Cavour e le strane alleanze Il libro di Giuseppe Talamo (in basso a sinistra) ”Attraverso il Risorgimento e l’Italia Unita - Storia e storiografia” offre una serie di spunti di ricerca e un enorme materiale di archivio. Nell’immagine a sinistra l’ingresso a Milano nel 1859 del generale Giuseppe Garibaldi; in basso a destra Giovanni Spadolini

di Massimo Tosti na cinquantina di anni fa lo storico inglese Denis Mack Smith scrisse che il “connubio” (l’alleanza con la sinistra moderata di Urbano Rattazzi, annunciata da Cavour nel 1852) era all’origine di tutti i mali successivi del nostro Paese: il trasformismo di Depretis, le incertezze e i giri di valzer nella politica estera, il fascismo. Fu stabilita allora la «la consuetudine di basare il potere su alleanze mutevoli, all’interno di un’amorfa maggioranza parlamentare, piuttosto che su di un singolo partito con un programma ben definito e coerente». Mack Smith era uno storico che piaceva molto alla sinistra italiana dell’ultimo dopoguerra, ma il ”suo”storicismo non era (per molti versi) dissimile da quello di Gioacchino Volpe (uno storico che piaceva molto alla destra), il quale ottant’anni fa scriveva che «La storia si scrive con i documenti del passato e con quelli del presente, con le carte scritte e con l’osservazione e le suggestioni dell’oggi, il quale oggi è, in verità, l’elemento animatore e vivificatore del passato. Esso gli dà un senso che altrimenti in se stesso non avrebbe per noi. Per questo ogni generazione riscrive la storia. E la riscrive in modo diverso dalla generazione precedente».

cattedratico di Storia del Risorgimento. In quest’opera, Talamo chiosa il pensiero di Mack Smith sottolineando che «i successori di Cavour avrebbero proseguito per la stessa strada, e la lotta politica avrebbe presentato perciò in Italia non ‘grandi contrapposizioni di principi’ e una netta distinzione tra due partiti contrapposti, ma ondeggiamenti opportunistici e una continua equivoca collaborazione tra forse intrinsecamente diverse». Ecco come riaffiora il legame fra passato e presente. Di che cosa altro si parla oggi se non del bipolarismo in-

Queste riflessioni sono rese attualissime da un volume fresco di stampa di Giuseppe Talamo (“Attraverso il Risorgimento e l’Italia Unita – Storia e storiografia”, Archivio Guido Izzi - Firenzelibri, 430 pagine, 30 euro). Talamo è uno storico autorevole: presidente dell’Istituto di Storia del Risorgimento italiano, è stato rettore dell’Università di Roma e

compiuto della Seconda Repubblica e delle tentazioni di alleanze innaturali per il dopo 13 aprile? (Di recente anche Francesco Cossiga nel libro “Italiani sono sempre gli altri”, ha attribuito a Cavour la primogenitura delle alleanze innaturali che ebbero il coronamento con il compromesso storico degli anni Settanta). Questo volume di Talamo non è

U

un’opera divulgativa alla portata di tutti. Ma gli storici di professione (e gli appassionati di storia) dovrebbero tenerlo sul comodino quando spunta la tentazione di abbandonarsi a interpretazioni (o ricostruzioni) originali del Risorgimento italiano. Perché la fatica dell’autore offre una miniera di spunti di ricerca e un enorme materiale di archivio. Si spazia dalla storiografia moderata e democratica dell’Ottocento (Cesare Balbo e i mazziniani) a quella della prima metà del Novecento (Volpe e Benedetto Croce) ai documenti dell’Archivio cen-

Giuseppe Talamo, nel suo ultimo libro, sostiene che la lotta politica in Italia non avrebbe presentato grandi contrapposizioni di principi, ma ondeggiamenti opportunistici trale dello Stato, per arrivare ai profili di alcuni dei maggiori storici contemporanei (De Felice, Romeo, Ghisalberti, Moscati, Salvatorelli, Alatri, Moscati, Maturi, Pischedda e Spadolini). L’obiettivo dichiarato di Talamo e quello di rimettere le cose a posto. «Si assiste ormai, spesso, al malinconico tentativo di rispolverare vecchi pamphlet legittimisti per ri-

scoprire ed enfatizzare gli errori dello Stato unitario o per cercare di devitalizzare Stati scomparsi nelle coscienze prima che nelle carte geografiche o ancora per creare martiri e perseguitati tentando di dare al nuovo Stato sorto nel 1861 i caratteri di dittature del XX secolo. Si rinnova e si modifica in questo modo la conoscenza del nostro passato o si immagina semplicemente una storia diversa da quella realmente accaduta?”.

Per dare corpo a queste preoccupazioni, Talamo (come dovrebbero fare tutti gli studiosi seri) offre un panorama approfondito di tutte le scuole interpretative del Risorgimento (e di quel che ne è seguito): liberali, marxiste, cattoliche e radicali. E dimostra persino come alcuni studiosi onesti abbiano mutato – nel corso degli anni – le loro idee, approfondendo alcuni aspetti inizialmente ritenuti secondari. Spadolini, in età giovanile, fu influenzato dai grandi storici europei (come Trevelyan e Huizinga) e postulava una ricostruzione che comprendesse la vita religiosa degli italiani e la loro cultura politica, letteraria, filosofica artistica. Era affascinato dal “Risorgimento senza eroi” di Piero Gobetti. In età matura dedico tanta parte della sua ricerca storica a curare i profili di quanti avevano contribuito alla realizzazione del disegno unitario, fino alla pubblicazione (nel 1993, un anno prima della morte) di un volume intitolato “Gli uomini che fecero l’Italia”, che raccoglie una cinquantina di biografie degli “eroi”, scelti soprattutto fra gli intellettuali (compresi i poeti, gli scrittori e i musicisti) che contribuirono a forgiare lo spirito nazionale.


società

2 aprile 2008 • pagina 21

ROMA. «Gli stadi sono sempre più militarizzati. E paradossalmente la forte presenza della polizia evita anche i contatti normali tra tifoserie facendo sì che vadano in crisi i gemellaggi. Ecco perché gli scontri si sono spostati lontano dagli impianti, fino ad arrivare negli autogrill». Maurizio Marinelli, sociologo ed ex arbitro, è ormai da vent’anni il direttore del Centro studi e ricerche della polizia sugli ultras. Ha girato l’Italia in lungo e in largo, raccontando nelle università e nelle scuole il fenomeno del tifo. Ci aiuta a tracciare l’identikit dell’ultras? Quello che sappiamo è che nel corso degli ultimi anni la parola ha assunto un significato diverso. Oggi si definisce ultras tutto quello che appartiene al mondo del calcio. Dentro ci sono giovani e meno giovani; non è più come vent’anni fa, quando erano soprattutto adolescenti o preadolescenti. Oggi la tifoseria non vuole più essere identificata come gruppo, né tantomeno vuole essere connotata politicamente. Ma chi è davvero un ultras? Quella persona che vive in simbiosi con la propria squadra. La sostiene allo stadio, in casa e in trasferta, a volte sacrificando molto della sua vita privata. Senso di appartenenza e fedeltà alla maglia: questi sono i valori fondamentali di un ultrà. Come spiega lo scioglimento dei gruppi storici? In questi ultimi anni abbiamo registrato all’interno degli stadi un vero e proprio ricambio generazionale. C’è poi un elemento nuovo che riguarda tutti quelli che sono stati diffidati o colpiti dal Daspo; stiamo parlando di decine di persone che non rispondono più a nessun gruppo e si muovono autonomamente. Questo è quello che avviene in questo momento nel mondo ultras. Matteo Bagnaresi era stato colpito dal Daspo. Sorpreso? Assolutamente no. Nel corso degli anni ci siamo occupati più volte della rivalità tra i tifosi della Juventus e quelli del Parma. Quello che domenica è accaduto prima dell’investimento è un qualcosa che appartiene a questa rivalità. Il

L’opinione del direttore del Centro studi e ricerche della polizia sul tifo

Ultras all’ultimo stadio colloquio con Maurizio Marinelli di Cristiano Bucchi

Costretti a scontrarsi in autogrill pur di sfuggire alla militarizzazione degli impianti e alle leggi repressive

problema è che ci sono molti diffidati che si spostano nelle categorie minori e che a quel punto sono difficilmente identificabili. E’ questa migrazione della violenza che va combattuta. Purtroppo all’origine di questa scelta c’è la volontà di non voler far parte di un gruppo; la pretesa di sentirsi liberi e di agire senza render conto a nessuno. Quindi lo scontro all’autogrill non è casuale? Direi di no. D’altronde il fatto che negli stadi ci siano ormai decine di telecamere rende molto più difficile l’azione dei

A sinistra l’autogrill di Badia al Pino dove ha perso la vita il tifoso della Lazio Gabriele Sandri; sopra, materiale ultras sequestrato dalla polizia; a destra la piazzola dell’autostrada A21 dove è morto il tifoso del Parma Matteo Bagnaresi

violenti. Ormai sempre più di frequente gli scontri vengono organizzati a tavolino, con tifosi che si danno appuntamento utilizzando internet. Questa è la situazione, e questo spiega perché gli incidenti avvengono sempre più spesso lungo le autostrade o comunque lontano dagli impianti sportivi. Non c’è più l’appartenenza al gruppo? A questo proposito direi che molte cose sono cambiate. Oggi le tifoserie gemellate si aiutano reciprocamente. Quello che si cerca sempre più spesso è lo scontro con le forze dell’ordine,

perché è il poliziotto il nemico da fronteggiare, da combattere e da sconfiggere. Crede che occorrano approcci diversi per la violenza negli spalti e quella nei campi da calcio? I metodi sono svariati. Non credo che esista un unico sistema di intervento. Per quanto riguarda gli spalti ritengo che una funzione di mediazione sociale e culturale, operatori che cerchino di risolvere contrasti e contraddizioni attraverso metodi dialogici e più inclusivi, possa funzionare più di altre misure ferree. Anche avvalersi degli stessi giocatori per veicolare messaggi positivi ai giovani, ai tifosi, sarebbe un modo per creare un sistema di regole condivise. Lei ha scritto di recente un libro dal titolo Le norme per contrastare la violenza negli stadi. Quali soluzioni propone? Il dato che emerge è che l’aspetto normativo da solo non basta. Si spieghi meglio. E’ inutile che ci ostiniamo a contrastare la violenza con norme repressive, come ad esempio il Daspo. Oggi c’è bisogno soprattutto di prevenzione. E’ necessario entrare nelle scuole e parlare con i giovani. Solo così è possibile raccogliere dei risultati. Il capo della polizia Manganelli ha ricordato che dopo l’omicidio dell’ispettore Filippo Raciti gli incidenti sono diminuiti del 40%. I fatti di questi giorni ci dicono però che l’emergenza continua. E’ vero che ci sono meno incidenti e meno arresti, ma la situazione resta molto delicata. Non possiamo dimenticare che negli ultimi dodici mesi ci sono stati quattro morti. E’ su questo elemento che dobbiamo riflettere. Il fatto che muoia una persona per il pallone, vuol dire che abbiamo fallito su tutti I fronti. Lei ha detto che il problema della violenza nasce nelle categorie minori. Conosco bene il mondo del calcio, anche perché per tanti anni ho fatto l’arbitro. Spesso ho visto nei campionati degli esordienti o degli allievi, genitori che dagli spalti incitavano alla violenza. Credo che questo sia il danno maggiore che si possa fare al pallone.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Sarà decisivo il Lazio per l’esito del Senato? SARÀ DETERMINANTE COME QUELLE REGIONI CHE VEDRANNO L’UDC RAGGIUNGERE L’8% Non sarà solo il Lazio a risultare decisivo, ma tutte quelle Regioni dove Udc e Sinistra Arcobaleno dovrebbero raggiungere il limite dell’8%. Insomma è molto probabile che l’Italia si troverà ancora in una condizione di ingovernabilità. E che faremo? Rivoteremo? E cosa potrebbe cambiare? Forse Berlusconi, che in genere non sbaglia certe mosse, avrebbe dovuto aspettare tempi più propizi per fondare il Pdl. In fondo le istanze dell’Udc non sono tanto distanti da quelle di Forza Italia e Alleanza nazionale. Staremo a vedere, ma le previsioni non le vedo rosee.

Greta Gatti - Milano

SENZ’ALTRO DAL LAZIO DIPENDERÀ MOLTO, BERLUSCONI AVREBBE DOVUTO APRIRE A CASINI E’ molto probabile che il Lazio possa risultare decisivo per il raggiuingimento della maggioranza in Senato. Intanto perché è una delle Regioni che assegna più seggi, ma soprattutto perché - almeno stando ai sondaggi - nel Lazio dovrebbero avere successo quelle liste che raggiungendo il fatidico 8% condizioneranno Pd e Pdl, che potrebbero non

ottenere quei 162 senatori (e poi i senatori a vita?) che permetterebbero alla coalizione vincente di governare. Ma come? Come il governo Prodi? Ecco, direttore, che viene da chiedersi: ma era proprio necessario votare ancora con questa legge? E da elettore del centrodestra le chiedo: ma perché Berlusconi non ha voluto accogliere le richieste dell’Udc? La vittoria sarebbe stata ottima e abbondante, proprio come ”il rancio della Truppa”.

Lucio Pompili - Roma

LE TERRE CHE VANNO DA GAETA A CIVITAVECCHIA SARANNO PURTROPPO L’AGO DELLA BILANCIA Drammaticamente il Lazio sarà l’ago della bilancia delle prossime Politiche per quanto riguarda il Senato. E come al solito Berlusconi pagherà i suoi errori, visto che sembra proprio lontano il premo di maggioranza delle terre che vanno da Gaeta a Civitavecchia. Da queste parti la Destra e l’Udc saranno i due partiti che faranno perdere al centrodestra la maggioranza. E poi, come farà il Cavaliere a governare al Senato?

Filippo Testa Terracina (Lt)

QUEST’ANNO TROPPE SCHEDE ELETTORALI, NEL LAZIO E ALTROVE CROCE SU UN SOLO SIMBOLO

LA DOMANDA DI DOMANI

E’ giusto vietare il telefonino ai seggi elettorali? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Decisivo non sarà solo il Lazio, perché ci sono diverse Regioni, simili per dimensioni e seggi, che sono nella stessa situazione di incertezza. Certo il Lazio comprende Roma e quindi il voto qui assume un aspetto tutto particolare. Inoltre a Roma si vota anche per la scelta del sindaco, che non è un qualsiasi sindaco. E penso che proprio quest’ultimo aspetto, il voto amministrativo, possa un po’ sconvolgere la situazione. Soprattutto le persone anziane vorranno semplificare al massimo il loro compito, per cui non opteranno per il voto diversificato o per quello disgiunto. Sceglieranno un partito e via, croce su quel simbolo in tutte le schede. Era proprio necessaria la decisione di far votare nello stesso giorno per le elezioni politiche e per quelle amministrative?

QUANDO LA POLITICA SI FACEVA IN PIAZZA Siamo a pochi giorni dal voto e dovremmo essere nel pieno della campagna elettorale. La stessa, a seconda di come la si guardi , si sta articolando, a mio avviso, con molte anomalie e segnali preoccupanti. Certamente il sistema elettorale senza preferenze toglie il gusto della competizione tra i candidati e la riduce a mero confronto tra quattro o cinque competitori eletti a rappresentare le liste elettorali. Con tale sistema, fatta eccezioni per i big costretti a girare l’Italia per concedere a tutti il privilegio della manifestazione del proprio partito, si evidenzia l’inoperosità dei candidati vuoi perché alcuni sono già eletti inseriti nella parte nobile delle liste, vuoi perché per altri l’essere in lista rappresenta un mero esercizio di militanza e quindi la loro campagna elettorale si riduce all’accompagno del proprio leader quando lo stesso raggiunge il collegio elettorale di appartenenza. Assenti il porta a porta, le manifestazioni e i dibattiti periferici, tutto ciò che rendeva il vero clima delle vecchie campagne elettorali e del quale personalmente soffro di no-

È LA STAMPA BELLEZZA! La Newspapers House di Londra: realizzata a inizio anno dagli artisti Gillian McIver e Sumer Erek con 8.000 vecchie copie di quotidiani free press, ”per dare un’idea del volume di rifiuti creato solo dalla stampa” PER IL TURISMO SERVE UNA LEGISLAZIONE AD HOC Per il turismo serve una legislazione ad hoc che ne garantisca uno sviluppo all’altezza delle aspettative degli operatori della categoria. Questo, sia sul piano nazionale che a livello locale. A Roma, Walter Veltroni propone di dimezzare l’iva dal 20 al 10 per cento per il settore, un provvedimento analogo a quello già proposto dal Popolo della libertà che contraddice però le misure adottate dall’amministrazione capitolina che ha visto consistenti aumenti della tassa sui rifiuti a danno degli albergatori e il tentativo continuo di imporre la tassa di soggiorno in città, più svolte sventate grazie all’impegno dell’opposizione. Il turismo, da queste parti lo sappiamo bene, è un settore che non è stato adeguata-

dai circoli liberal Marcello Lupi - Viterbo

stalgia. Paradossalmente la stessa televisione che ha soppiantato le piazze con i relativi comizi per una ridicola legge di par condicio, costretta a dibattiti misurati con il bilancino del farmacista, stenta a darci emozioni e tutto si trascina stancamente. Pare che siano state scelte leggi elettorali, leggi sulla campagna elettorale tese a mantenere se non ad aumentare il divario tra coloro che dovrebbero rappresentare il popolo e lo stesso. In questa campagna elettorale è stato utilizzato tutto il cloroformio politico reperibile compreso quel falso onere, politicamente corretto, dell’abbassare i toni ed evitare la rissa. Chiedo scusa se sarò scorretto ma a me piacevano i politici che si infervoravano con gli avversari, che dimostravano con grinta le proprie ragioni e ci davano l’occasione di tifare. La stessa aria rarefatta si respira a Roma per le elezioni comunali dove per conformità con quelle nazionali si evitano i toni accesi e lo scontro tra i candidati alla carica di Sindaco. Eccezion fatta per Alemanno e Ciocchetti che non lesinano manifesti e bandiere gli altri sono inesistenti. Capisco coloro che corrono

mente supportato neanche dal presidente della Provincia di Roma Gasbarra e dalla maggioranza di centrosinistra e sul quale la Provincia dovrà saper dare adeguate risposte che fino ad oggi non sono arrivate. Per questo mi sento di appoggiare il Pdl, che propone di rendere la Capitale e la sua provincia al passo con le altre città europee, che hanno visto crescere la qualità della vita e i servizi in ben altro modo. Del resto, Veltroni, l’unica cosa seria che potrà fare per il turismo è far dimettere il suo iscritto Bassolino, che ha disintegrato l’immagine dell’Italia nel mondo grazie alla sua politica dissennata sui rifiuti. Cordialmente ringrazio per l’attenzione. Distinti saluti e buon lavoro.

Fausto Monti Ostia (Roma)

per il solo gusto della bandiera ma Rutelli che fine a fatto? Eppure i sondaggi lo danno favorito e quasi vincitore al primo turno e lui che fa? Si lesina? Non ci dà soddisfazione? Fa il prezioso? Buoni tempi quando il candidato a Sindaco l’elezione se la doveva sudare quartiere per quartiere, piazza per piazza nel confronto serrato con il proprio antagonista, ho nostalgia di quei tempi. Alberto Caciolo COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL LAZIO

APPUNTAMENTI BATTIPAGLIA - SABATO 5 APRILE 2008 Ore 11: pubblico comizio di Ferdinando Adornato presso il cinema teatro Bertoni. NAPOLI - SABATO 5 APRILE 2008 Ore 17.30: assemblea regionale di tutti i Circoli Liberal della Campania presso il Grand Hotel Excelsior.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog VORREI CHE PISTORIUS GAREGGIASSE A PECHINO

Metterò su tela le belle donne di Madrid Mio caro Baudelaire, solo ieri sono arrivato da Madrid e mia moglie mi ha consegnato la vostra lettera. Ho visto delle cose di Goya molto interessanti, qualcuna molto bella, tra le altre un ritratto della duchessa d’Alba in costume maja d’un fascino incredibile. Al mio ritorno spero di mettere sulla tela l’aspetto brillante, scintillante e allo stesso tempo drammatico della Corrida. E il Prado, dove ogni sera si ritrovano le più belle donne di Madrid, tutte acconciate con la mantiglia. Ma se in quel Paese si hanno grandi piaceri per gli occhi, lo stomaco vi è invece torturato. Addio, mio caro Baudelaire, mille cari saluti e, credetemi, le vostre cose non saranno mai fatte bene come da voi stesso, non contate mai sugli altri. Non vi può capitare niente di buono finché sarete in quel benedetto Paese. Vostro. Édouard Manet all’amico Charles Baudelaire

LA POLITICA E LA CITTADINANZA Sono il responsabile di ”Oratorio aperto”, iniziativa di aggregazione giovanile nata da un anno e mezzo presso la parrocchia del Carmine di Udine. Il nostro è uno spazio laico per bimbi, ragazzi, giovani di diverse etnie e religioni; condividiamo il grande impegno e la grande gioia di vivere un’esperienza di vicinanza con la realtà giovanile del nostro quartiere, troppe volte bollato con il nomignolo di ”borgo stazione”. La nostra è una realtà multietnica e multiculturale, i giovani vivono esperienze di condivisione, di gioco, di socializzazione che si realizzano nello stare insieme. Però questo non fa notizia, non interessa, non attira. Abbiamo bisogno di risposte, i nostri ragazzi e le nostre famiglie vorrebbero sapere come mai, anche in questa campagna elettorale a sindaco di Udine, alcuni si sono riempiti la bocca con le parole: giovani, aggregazione, centri giovanili, oratori. Alcuni amici mi hanno detto che è colpa forse di noi responsabili che non siamo andati a cercare i politici. Siamo impazziti?

Carlo Tulissi - Udine

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

2 aprile 742 Nasce Carlo Magno, sovrano e imperatore franco 1840 Nasce Émile Zola, giornalista e scrittore francese 1917 Prima guerra mondiale: il presidente Usa Woodrow Wilson chiede al Congresso di dichiarare guerra alla Germania 1926 Su proposta del cavalier Benito Mussolini, il Governo italiano vara la legge sull’Opera Nazionale Balilla 1948 Usa, il Congresso approva il piano Marshall 1982 L’Argentina invade le Isole Falkland (o Isole Malvinas, a controllo britannico): è l’inizio della Guerra delle Falkland 1989 Yasser Arafat è proclamato presidente della Palestina 2004 Dopo la firma dell’accordo del 29 marzo, primo alzabandiera a Bruxelles delle nuove sette nazioni della Nato: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia 2005 Alle 21:37, dopo due giorni di agonia, muore Papa Giovanni Paolo II

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Spiace non vedere Pistorius alle Olimpiadi di Pechino. Se le protesi al titanio generano dei vantaggi la decisione è giusta; ma penso che si dovrebbe ricercare una soluzione, magari appesantendo le protesi, così da consentire a questo atleta di gareggiare.

Diana Pittaluga - Siena

IN ITALIA SONO POCHE LE PICCOLE IMPRESE AGEVOLATE Credo che gli imprenditori onesti che si schierano con la sinistra siano poi gli stessi che fanno ”vivere” la propria azienda sulle spalle della politica, ossia dello Stato. La parte che produce ricchezza, infatti, è notoriamente contro a quello che Gianfranco Miglio ha sempre denunciato come Parassitismo, eppure in Italia le aziende che sanno muoversi all’interno della burocrazia dei Palazzi del potere sono sempre le stesse. In tal modo si ammmazza definitivamente la piccola e media impresa, che non potrà mai accedere a questi incredibili aiuti di Stato scomparendo nell’arco di poco tempo, e lasciando che pochi politici guidino le sorti di in commercio di Stato, livellato, controllato e liberticida.

Alberto Moioli - Milano

Sia Silvio sia Walter vogliono il professor Mario Monti al governo. Poi dicono che non hanno programmi uguali.

Giancristiano Desiderio

La capacità di godere richiede cultura, e la cultura equivale poi sempre alla capacità di godere THOMAS MANN

OLIMPIADI ROSSO SANGUE Il presidente cinese, Hu Jintao, ha acceso ieri a piazza Tiananmen la fiaccola olimpica arrivata dalla Grecia, dando il via alla corsa che porterà il simbolo delle Olimpiadi in cinque continenti. Al termine della cerimonia a Pechino Hu Jintao ha consegnato la fiaccola a Liu Xiang, il campione del mondo dei 110 ostacoli, che l’ha portata sulla porta dell’antica residenza imperiale, la Città Proibita. Da qui la fiaccola viaggerà per tutte le province della Cina, incluso il tormentato Tibet, e tornerà nella capitale tra 130 giorni, l’8 agosto, giorno di apertura dei Giochi Olimpici. Le fiamme rosse di vergogna viaggeranno nei cinque continenti. Attraverseranno tutte le province della Cina. E passeranno anche dal Tibet. Per l’inaugurazione dell’otto agosto, davanti ai potenti proni, torneranno qui a colorare una piazza ancora rossa. Di sangue.

China Game Over chinagameover.blogspot.com

PUNTURE

il meglio di

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

ORE 12. L’AVEVO DETTO CHE VINCEVA MILANO Ha vinto Milano. Mai avuto dubbi in proposito. Mi viene in mente un aforisma di quel geniaccio di Churchill: ”L’abilità politica è l’abilità di prevedere quello che accadrà domani, la prossima settimana, il prossimo mese e l’anno prossimo. E di essere così abili, più tardi, da spiegare perché non è accaduto”. Ebbene, Milano ha vinto perchè la politica italiana non si è spaccata in mille interessi contrapposti fra di loro, ma ha saputo perseguire ciò che conta unicamente: l’interesse nazionale. Con buona pace dell’Europa che una volta di più ha dimostrato la sua in-

consistenza politica, la sua incapacità di sentirsi una.Vi dirò di più, in fonfo in fondo, pensavo che avrei rosicato di più vedendo esultare il faccione rubicondo di Prodi. Forse era destino, forse era giusto così. Anche per questo mi è dispiaciuto leggere le dichiarazioni acide di Berlusconi nei suoi confronti. Concedere un po’ di gloria al nemico sconfitto mi sembra roba da uomini di valore, da spiriti degni. Tanto lo sappiamo tutti, il merito della vittoria all’Expo è della mamma di Carla Bruni.

L’Ornitorinco blog.libero.it/lornitorinco

FARC E BÉTANCOURT Iván Márquez, uno dei sette capi del vertice delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), ha confermato che è svanita ogni possibilità di trattativa per la liberazione di Ingrid Betancourt. In un comunicato firmato da Márquez, pubblicato dalla Agencia Bolivariana de Prensa, vicina al gruppo narcoguerrigliero-terrorista, si afferma che ”non ci saranno incontri con la delegazione francese in relazione alla liberazione della Bétancourt”. La ex candidata alla presidenza è stata sequestrata dalle FARC nel 2002 e soffre a causa di una epatite B cronicizzata e leshmaniasi (infezione da protozoo veicolata da pappataci, mortale per cani e altri animali di piccola taglia, alquanto difficile da curare per l’uomo, se non presa in tempo). Altre fontidicono che IB si starebbe lasciando morire, rifiutando cibo, medicine e trasfusioni di sangue.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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