QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
milano 2015 e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
La Bellezza salverà il Nord Angelo Crespi Claudia Conforti Giancarlo Galli
da pagina 6
terza repubblica AUGUSTO BARBERA: «LE TRE RIFORME DELLA COSTITUZIONE»
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
Riammesso dal Consiglio di Stato il simbolo di una “Dc” che Berlusconi, nonostante la sua campagna contro i “partitini”, aveva adottato per danneggiare l’Udc. Giuliano Amato non esclude un rinvio del voto. Tutti, a cominciare dal Cavaliere, sono contrari. Ma la confusione si è abbattuta sulla campagna elettorale
pagina 5
Riccardo Paradisi
alitalia AIR FRANCE LASCIA MA LA BORSA L’AVEVA GIÀ BOCCIATA pagina 9
Gianfranco Polillo
zimbabwe «MUGABE LO CONOSCO, NON MOLLERÀ» pagina 10
Heidi Holland
Socrate La riscossa dei professori
Pasticcio Pizza
Giancristiano Desiderio Paola Mastrocola Mario Pirani Giorgio Ragazzini Domenico Sugamiele pagina 12
80403
alle pagine 2 e 3 9 771827 881004
GIOVEDÌ 3 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
60 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 3 aprile 2008
Ma i simboli non sono in vendita di Renzo Foa ra stato Silvio Berlusconi ad adottare il simbolo della Dc detenuto da Pino Pizza. In esplicita concorrenza con l’Udc lo aveva apparentato al Pdl, accanto alla Lega e al Mpa. Ora, a pochi giorni dal voto, questa ennesima improvvisazione è diventata un pasticcio, nella forma e nella sostanza. Intanto perché il ministro dell’Interno in persona ha contribuito a far deflagrare il caso, parlando un po’ imprudentemente del rischio di rinviare il voto di due settimane. Poi perché, come era normale attendersi, sia il Cavaliere, sia Veltroni si sono subito detti contrari allo slittamento. Poi ancora perché, dopo alcune ore, il senatore Francesco D’Onofrio ha ricordato a tutti che la Costituzione prevede che le elezioni si svolgano non oltre settanta giorni dallo scioglimento delle Camere (in questo caso entro il 16 di aprile). Dunque un rebus irrisolvibile. O, meglio, risolvibile soltanto confermando la chiamata alle urne di domenica 13 e di lunedì 14.
E
Va detto che, senza la dichiarazione fatta ieri mattina da Giuliano Amato, l’impatto del caso sarebbe stato minore, non avrebbe dominato la giornata. Sarebbe stato uno fra i tanti nella lunga storia elettorale italiana. Ma va anche detto che ha assunto rilievo perché questa storia del simbolo della vecchia Democrazia cristiana – la cui proprietà è rivendicata dall’ex esponente dc Pino Pizza – è una metafora della condizione politica del Paese. In particolare è la metafora dell’improvvisazione con cui, nel giro di pochi mesi, sono spariti vecchi marchi e ne sono apparsi di nuovi e con cui, soprattutto nell’area moderata, si è scomposta una coalizione durata quasi quindici anni. All’insegna dell’improvvisazione – è stato notato ormai da tutti – è avvenuta la nascita del Pdl. All’insegna dell’improvvisazione è stata condotta l’operazione che si è conclusa con l’esclusione dell’Udc e con il tentativo di marginalizzare la Destra. All’insegna della stessa improvvisazione Silvio Berlusconi si è impegnato in un corpo a corpo sul «voto utile» e contro «i partiti minori» per evitare di correre dei rischi nel voto per il Senato, sussumendo nello stesso tempo simboli e candidati che considerava concorrenziali con l’Udc e con la Destra. In particolare, ormai da anni, è aperta una vertenza (non solo politica, ma anche giudiziaria) sulla proprietà e sull’uso del vecchio simbolo della libertas, lo scudo crociato che raffigurava la Dc. Anche se ormai questo simbolo, nella stagione del bipolarismo, è diventato l’espressione prima del Ccd, poi dell’Udc e ora dell’Unione di centro, cioè della continuità del cattolicesimo moderato. Questa, quella della concorrenza diretta sulla scheda elettorale, è stata la ragione essenziale per cui Berlusconi, dopo la rottura con Casini, ha adottato la formazione di Pino Pizza. Per alimentare qualche dubbio, per creare un po’ di confusione. Soprattutto pensando che un simbolo possa essere usato come un trucco, dimenticando che invece rappresenta una storia riconoscibile, è un punto di riferimento di valori, coincide con il volto di leader e di persone. Ed è stata solo una visione della politica intesa come improvvisazione a creare le condizioni per un pasticcio che – questa volta si può essere d’accordo con Prodi – sollevando la questione del rinvio delle elezioni può infliggere all’immagine dell’Italia un colpo simile a quello della spazzatura in Campania.
pasticcio
pizza
Ricorso dell’Avvocatura dello Stato contro il Consiglio di Stato
Il voto in ostaggio delle carte bollate di Susanna Turco
ROMA. Verso metà pomeriggio, la situazione si fa così surreale da trasudare persino dai titoli delle agenzie di stampa. «Bianco: Cavaliere convinca Pizza a deporre lo scudocrociato». Si toccano toni da Ciclo bretone, insomma. Giuristi, ministri, sottosegretari, ex capi di stato, parlamentari ed esperti di ogni sorta si sbracciano per porre l’accento su questa o quest’altra norma. L’intreccio paradossale determinatosi ieri con l’ordinanza del Consiglio di Stato che riammette di fatto la Dc di Giuseppe Pizza detto Pino nella competizione elettorale del 13 e 14 aprile, infatti, è così difficile da sciogliere che per provare a spiegarlo i più partono dalle due sole possibilità esistenti per scongiurare un rinvio delle consultazioni. Prima ipotesi, quella percorsa nel tardo pomeriggio dal Viminale: chiedere, attraverso l’Avvocatura dello Stato, una revoca dell’ordinanza che riammette la Dc di Pizza, con l’argomentazione che è «già iniziato il procedimento elettorale». Seconda ipotesi: confidare in un ravvedimento dell’interessato, o quanto meno negli argomenti economici e da sottogoverno che Silvio Berlusconi - unico può essere in grado di offrire al leader Dc per ottenere che egli rinunci a partecipare alle elezioni.
«Un posto da sottosegretario e un congruo risarcimento per i mancati rimborsi elettorali al Senato». È questa, si vocifera nei Palazzi, la magica pozione berlusconiana che potrebbe distogliere Pizza dall’intento di proseguire la sua battaglia. Quella di vedere rinviate le elezioni, infatti, è prospettiva che non piace a nessuno dei contendenti. D’altra parte, però, anche di fronte alla mossa del Viminale, Pino Pizza appare irremovibile: «Non ho nessuna intenzione di mollare», ribadisce, precisando però che con Berlusconi non ha ancora avuto modo di parlare: «Ben venga il rinvio delle elezioni. Abbiamo gli stessi diritti degli altri a fare la campagna elettorale con gli stessi tempi. Il Viminale ha sbagliato e si deve assumere le sue responsabilità». Solo in serata lascia intravvedere la possibilità di un passo indietro: «Sono una persona dialogante e mite, se da parte del Capo dello Stato arrivasse una qualche sollecitazione...» e se il Viminale «fosse disposto ad ammettere le sue responsabilità..». Ipotesi «premature», precisa subito dopo.
-intervento della Cassazione per stabilire se i tribunali amministrativi siano o no competenti per intervenire nel procedimento elettorale. Roba da far girare la testa.Tar, consiglio di Stato, magari anche Cassazione: di fatto, celebrare le elezioni prima della chiusura del procedimento riguardante il ricorso di Pizza significherebbe esporsi al rischio dell’annullamento del voto. «Come avvenne a Messina nel 2005», sussurrano terrorizzati i protagonisti della politica. D’altra parte, però, neppure è ipotizzabile il rinvio a chissà quando. E non soltanto per fondatissime ragioni di buon senso. L’articolo 61 della Costituzione, infatti, prevede che elezioni debbano tenersi entro i settanta giorni dallo scioglimento delle Camere: e i settanta giorni scadono il 16 aprile. Giuseppe Pizza, segretario della Dc riammessa alla competizione del 13 e 14 aprile
Amato: «Possibile un rinvio delle elezioni». Pizza irremovibile: «Ben venga». E Berlusconi gli chiede «un segno di responsabilità, che lo premierebbe» Nel caso Pizza restasse fermo sulla sua partecipazione alle elezioni escludendo gli effetti dell’iniziativa del Viminale - i più spiegano che il rinvio delle consultazioni sarebbe praticamente inevitabile. Da un lato, infatti, anche la Dc pizziana dovrebbe avere a disposizione, come tutti gli altri partiti, i trenta giorni di campagna elettorale previsti per legge: un’eventualità di rinvio sulla quale la decisione spetterebbe «a chi ha fissato la data delle elezioni, quindi a governo e capo dello Stato», ha spiegato ieri il ministro dell’Interno. Dall’altro, come ha anche rilevato lo stesso Amato, dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato «la decisione finale di merito» sull’ammissione della lista di Pizza «deve essere ancora espressa dal Tar del Lazio». E una qualsiasi decisione del Tar sarebbe poi passibile di ricorso presso il Consiglio di Stato. Senza considerare un ulteriore - eventuale
Di punto in bianco, insomma, la campagna elettorale è stata risucchiata in un buco nero, in una selva giuridica di norme, leggi, ricorsi. Con una prospettiva di rinvio del voto che piace pochissimo, per non dire per niente, al governo e a tutti i protagonisti della competizione elettorale. Con l’eccezione del socialista Franco Grillini, forse l’unico a riconoscere che per la sinistra un rinvio «è grasso che cola». Da Bucarest, a margine del vertice Nato, Romano Prodi interviene per sottolineare come «si debba fare di tutto, nei limiti della legge, per evitare qualsiasi rinvio delle elezioni», ricordando che il processo elettorale «è già iniziato ed interromperlo sarebbe estremamente grave». Anche perché, fa notare, «i militari all’estero hanno già votato». A dire no al rinvio è anche il leader del Pdl, Silvio Berlusconi: «Mi auguro proprio che non ci sia un perché sarebbe un danno notevole per un Paese». E aggiunge: «Mi auguro che Pizza dia un segno di responsabilità e rinunci alla richiesta di avere ulteriori giorni per la campagna elettorale». Una scelta che, secondo Berlusconi, «lo premierebbe». «A me sembra francamente difficile fermare la macchina elettorale», commenta dal canto suo il vicepremier, Massimo D’Alema. A definirsi «assolutamente contrario al rinvio delle elezioni» è pure Walter Veltroni, candidato premier del Partito democratico: «Per il nostro Paese sarebbe anche un colpo d’immagine gravissimo».
pasticcio
pizza
3 aprile 2008 • pagina 3
Alcide De Gasperi ad un comizio del 1953 in piazza San Carlo a Torino. Alle sue spalle il simbolo della Dc per il quale votava la maggioranza relativa degli italiani e che rappresentava una politica coerente e riconoscibile
Breve storia di come un simbolo storico nel 2008 è stato ridotto ad un mezzo di disturbo
Uno scudo virtuale. Sotto c’è il niente di Errico Novi
ROMA. Quanto vale la Dc? E
rardo Bianco e Rocco Buttiglione avevano pensato che si trattasse di una questione politica, e si erano accordati da galantuomini: al primo sarebbe rimasto la sigla Ppi, al secondo il simbolo. Non pensavano che le carte bollate potessero contare più di un segretario eletto da migliaia di delegati. Piccoli comincia a lavorarci su, a presentare il nome (senza scudo) in qualche turno di amministrative. Dopo la sua morte, nella primavera del 2000, Pizza e Sandri mostrano di essere i più lucidi e di avere gli avvocati migliori. Nessuno dei due si
mente più noto, Marco Follini. È giornalista pubblicista e ha nel curriculum anche la direzione di Italia cronache, settimanale dc. Nell’anno di grazia 2004 si permette di espellere dalla Democrazia cristiana l’amico nemico Sandri. E di infischiarsene dello 0,2 per cento alle Europee.
sull’uso del nome Democrazia cristiana e del simbolo. Prodi aveva già fiutato l’affare. Non si sa se per una lettura attenta delle carte o mero intuito. Nella primavera del 2006 aveva convinto Pizza a mettere il suo partito insieme con un’improvvisata lista formata dal Codacons e dai margheritini scissionisti di Agazio Loiero. In Calabria l’inedito cartello era riuscito persino a eleggere Pietro Fuda.
chi può dirlo. E soprattutto di cosa si parla? Di voti o di incalcolabili vantaggi personali? Bisognerebbe chiederlo a Pino Pizza, certo, o al suo rivale Angelo Sandri, che in questi anni si sono sbattuti per tenere viva la Balena bianca contro ogni evidenza, al di là di qualsiasi logica. Solo una volta il partito virtuale si è misurato con le urne, alle Europee del 2004: meno dello 0,2 per cento. Avrebbe deposto le armi chiunque, non Giuseppe Pizza da Sant’Eufemia in Aspromonte, classe 1947. Come se nulla fosse ha continuato a celebrare congressi, a conteggiarli come successivi a quelli della Dc vera, a espellere Sandri, e a fare accordi prima con Prodi, poi con Berlusconi.
Più che una lista è un surrogato grafico. La Dc di Pizza non è fondata sugli iscritti ma su un teorema di Flaminio Piccoli: le carte bollate contano più della politica. E dieci anni dopo gli eredi dell’ex ministro passano all’incasso
Tutto nasce da un’idea, un’intuizione dell’ex ministro democristiano Flaminio Piccoli. Nel 1997 raduna un po’ di reduci e pronuncia un teorema: la gloriosa Balena bianca non è mai andata in pensione, la si considera sciolta ma nessuno ha celebrato il funerale. Un paio d’anni prima in effetti Ge-
sarebbe mai sognato di contendere la segreteria della Dc vera a De Mita o a Forlani, certo. Adesso invece si strappano a unghiate il vertice del partitofrankestein e le stanze residue di piazza del Gesù. Pizza vanta un quinquennio da delegato nazionale del Movimento giovanile e un successore decisa-
A chi gli ricorda il capitombolo, Pizza oggi fa notare cha «quella volta non avevamo il nostro simbolo» e che invece alle prossime Politiche «ci presentiamo finalmente con lo scudocrociato, inequivocabil-
mente nostro grazie alla sentenza del giudice Manzo». ”Il giudice Manzo” è ormai un’espressione mitologica, per i titolari dell’antica ditta. È colui che nel novembre del 2006 avrebbe trasformato in pronunciamento formale il teorema di Flaminio Piccoli: il Cdu cessi ogni lite nei confronti di Pizza
Sette mesi più tardi, pochi giorni dopo la sentenza Manzo, Prodi compare sul palco del ventesimo congresso de-
mocristiano nobilitato dallo scudo con la croce. L’idillio però è breve. Il segretario della microbalena naviga a vista, non smette di guardarsi attorno. Finché l’estate scorsa incrocia lo sguardo malizioso di Berlusconi. Ufficialmente non cede, ma il tradimento si manifesta un attimo dopo la svolta
di piazza San Babila: Pizza convoca l’ufficio politico e preannuncia la confluenza nel Popolo della libertà. Alla tavola forzista bisogna aggiungere un posto, oltre a quelli promessi a Rotondi, Caldoro eccetera. E perché mai, si chiedono gli azzurri. Semplice: perché la coalizione avrà uno scudo crociato in meno, quello dell’Udc. Non a caso Pizza si rimaterializza dopo il 9 febbraio, quando la rottura con Pier Ferdinando Casini è già consumata. Lui è lì, pronto a fornire il prezioso surrogato grafico. Il contemporaneo disfacimento dell’Udeur gli regala l’adesione di un cacciatore di voti doc come il presidente della commissione Finanze Paolo Del Mese, salernitano. Pizza dichiara 25mila iscritti, e chi può smentirlo. Conta lo scudo e fa niente se è un simbolo politicamente virtuale. L’importante è piazzarlo bene. Sandri si rifà sotto, dice che il marchio vero è suo e gli elettori rischiano di essere indotti in errore, «un errore che potrebbe costare caro al Paese». Sembra una sparata, forse è una mezza, involontaria profezia.
pagina 4 • 3 aprile 2008
L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Il crociato del Nord
La Pizza democristiana è servita di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza Legge elettorale, par condicio, bipolarismo coatto, nanetti e compagnia cantante. Di motivi da elencare per il mancato incendiarsi di questa campagna elettorale ce ne sono in quantità, ognuno con il suo quotidiano spazietto sulle nostre testate nazionali. Stupisce, allora, che ancora ieri, sulla prima del Corsera, Giovanni Sartori firmasse un elzeviro intitolato «Strane elezioni senza battaglia», anche perché che l’Italia non sia una democrazia “normale”e che i coniugi Veltrusconi abbiano scelto la linea soft ormai lo sanno anche i sassi. Adesso ipse dixit, però, speriamo non se ne parli più. Con il definitivo sigillo del doppio flop, a distanza di ventiquattro ore, di Pd e Pdl al di qua e al di là dello Stretto. Ma se gli spiriti non si surriscaldano più nemmeno nell’assolato Mezzogiorno, e i programmi di dei due carrozzoni non interessano a nessuno, non resta che voltare lo sguardo al profondo Nord e tendere l’orecchio a chi parla della quotidianità e del vivere civile. Meglio se poco civilmente, come la novella star di YouTube (decine di migliaia gli accessi al video “The best of…”) Piergianni Prosperini, vulcanico consigliere regionale della Lombardia, in quota ad An, due lauree, un master e una docenza all’Università di Pavia. Ma soprattutto ex nazionale dilettante dei pesi massimi, alpino paracadutista e tiratore scelto con carabina e pistola. Perché lo “Scaccia sinistri, Crociato del Nord, Paladino della Fede”(così sui suoi calendari ufficiali) vicentino non è tipo da mandarle a dire, e nei suoi periodici interventi sulle emittenti lombarde e su www.prosperini.tv va giù con l’ac-
cetta. Da consegnare ai posteri l’usuale ritornello con cui approccia i temi legati all’immigrazione - «Ciapen el trenin, ciapen el piroscafo, ciapen la careta, ciapen el camel e via, a ca’!» - ma anche in materia di centri sociali, droga e attacchi alla cristianità si farebbe fatica a dargli del politically correct. Per noi è lui il top of the list della campagna elettorale (peccato che, da consigliere regionale, non partecipi alla contesa nazionale).
Ora che la Dc di Pizza è stata rimessa in gioco, la pizza è servita o la frittata è fatta. Che Bel Paese il Paese dove c’è incertezza sulle liste dei candidati e dove la data del voto è ballerina. Il ministro degli Interni, l’ineffabile Giuliano Amato, ha fatto sapere che «dopo la riammissione della Dc è possibile che ci sarà uno slittamento delle elezioni». A Silvio va di traverso Pizza. Fa un appello a Pizza: «Il rinvio del voto sarebbe un dramma. La Dc ragioni, meglio non rinviare il voto». No. La Dc vuole lo spazio necessario per la sua campagna elettorale: «Non sarebbe un dramma, anzi sarebbe un elemento di rafforzamento della democrazia italiana». Paolo Del Mese, deputato della Dc pizzaiola taglia la testa al toro: «Ho chiesto al presidente della Repubblica, al presidente del Consiglio, al ministro degli Interni, l’esecuzione immediata dell’ordinanza e il differimento della data del voto». Silvio non si perde d’animo, ha mille risorse. Dichiara: «Le tv e i media possono dare più spazio alla Dc di Pizza». Pier Ferdinando Casini ostenta tranquillità: «Noi siamo del tutto sereni e ci atteniamo alle decisioni del governo». Ma c’è anche un altro piccolo dettaglio segnalato da Antonio Di Pietro: «Le schede elettorali sono disegnate male, bisogna rifarle». Con Pizza.
I più grandi flop dei sondaggi/ Presidenziali Usa 2004
Il martedì nero degli exit-poll di Andrea Mancia Vi ricordate la prima pagina del manifesto all’indomani delle ultime elezioni presidenziali americane? Il titolo era uno squillante «Good morning America». E il sommario lasciava poco spazio alle interpretazioni: «Con una valanga di voti gli americani cacciano Bush dalla Casa bianca. Venti milioni di elettori in più rispetto al 2000 portano Kerry alla presidenza. Nella notte gli exit-poll decretano la sconfitta dell’uomo della guerra preventiva». Eccola, nascosta sotto un paio d’etti di propaganda spicciola, la parolina-chiave: exit-poll. Nel ciclo elettorale statunitense del 2004, infatti, la débâcle degli istituti di ricerca non si sostanziò nei sondaggi pre-elettorali, ma proprio negli exit-poll filtrati, via Internet, prima della chiusura dei
seggi. Fino a quel momento, i sondaggisti si erano comportati decentemente. George W. Bush vinse le elezioni con il 50,7% dei consensi (62 milioni di voti e
286 electoral votes) contro il 48,3% di John Kerry (59 milioni di voti, 251 electoral votes): il 2,5% di distacco, insomma. Alla vigilia del voto, la media dei sondaggi elaborata dal sito
RealClearPolitics vedeva Bush in vantaggio dell’1,5%, con una oscillazione che andava dal +6% a favore del presidente uscente (Newsweek) al +2% a favore dello sfidante (Fox democratico News). A parte qualche caso isolato, dunque, il risultato degli ultimi sondaggi si avvicinava abbastanza al risultato del voto. Ad essere totalmente fuori strada, invece, furono proprio gli exitpoll, capaci di ingannare gli Stati Uniti per qualche minuto e i più sprovveduti degli europei (italiani in testa) per molte ore. Verso le tre del pomeriggio, alcuni blog vicini al partito democratico iniziarono a pubblicare i primi da-
ti prodotti da Edison/Mitofsky, il consorzio incaricato dai grandi network televisivi di occuparsi degli exit-poll. Si trattava di numeri “rubati”, naturalmente, ma non inventati. E, soprattutto, si trattava di numeri sensazionali, che lasciavano intravedere la possibilità di una vittoria a valanga per i democratci. Nella prima “ondata” di exitpoll, Kerry era in vantaggio di 20 punti in Pennsylvania, 18 in Minnesota, 16 in New Hampshire e davanti (di 4-5 punti) sia in Ohio che in Florida, i due battleground states per eccellenza. Proiettati su scala nazionale, questi numeri davano un vantaggio a Kerry superiore al 4%. Dopo qualche ora, questo distacco si era assottigliato, ma restava consistente. Dopo lo spoglio dei voti veri, ai sosteni-
tori di Kerry era rimasto solo il suicidio rituale. In Pennsylvania, Minnesota e New Hampshire, il candidato democratico aveva vinto per poche migliaia di voti. Mentre in Ohio (130mila voti di distacco) e Florida (400mila) Bush aveva stravinto, conquistando in scioltezza la conferma alla Casa Bianca con tre milioni di voti in più del rivale. Il clamoroso flop degli exit-poll ha abitato per anni negli incubi dei democratici, che si sono affannati ad elaborare le teorie più fantasiose per spiegare il fenomeno. In estrema sintesi, secondo qualcuno non erano gli exit-poll ad essere sballati, ma i risultati reali, truccati dalla solita triade BushCheney-Halliburton. Se i democratici Usa non ci fossero, bisognerebbe inventarli.
3 aprile 2008 • pagina 5
L’ITALIA AL VOTO ROMA. Il dibattito italiano sulle riforme costituzionali prosegue da anni a strappi, in uno stop and go di aperture e chiusure determinate dall’esigenza di riformare l’assetto istituzionale del Paese e dall’impossibilità di trovare un terreno comune su cui praticare il cambiamento. A parte le riforme elettorali che in questi anni si sono succedute – peraltro avvolte da una letteratura più polemica che positiva – gli strumenti che dovevano dar vita alle grandi riforme istituzionali sono di fatto fallite. È fallita la commissione bicamerale, è fallito il referendum del 2006 per la riforma della Costituzione, sono falliti i tentativi di dare vita a governi di larghe intese. Sulla questione delle riforme liberal apre oggi un dibattito con i maggiori costituzionalisti italiani per cercare di capire quali dovrebbero essere i percorsi praticabili per le riforme. Cominciamo con Augusto Barbera professore ordinario di diritto costituzionale all’università di Bologna. Professore perché fino ad oggi in Italia sono falliti tutti i grandi tentativi di riforme istituzionali? Per quanto riguarda le forme elettorali non parlerei di fallimento. Piuttosto di riforme dimezzate con effetti positivi. La riforma del 1993 ha consentito, per la prima volta, che i cittadini determinassero dei governi. Addirittura sono state incluse le estreme nel centro decisionale del Paese. Il Msi è diventato An e ha concorso al governo della nazione, come poi è accaduto per Rifondazione comunista. Infine si è rotto un centro immobile valorizzando però gli elettori di centro il cui è stato decisivo per l’alternanza. Questo per quanto riguarda gli elementi positivi. E quelli negativi? Fino al porcellum di negativo c’era quella quota che rendeva i partiti concorrenti per il brandello di proporzionale e alleati per il resto. Il porcellum ha aggravato la situazione, portando a maxi coalizioni non omogenee costrette ad allearsi solo per battere l’avversario comune. Questo sul fronte delle riforme elettorali, su quello delle riforme istituzionali mi sembra più difficile registrare successi. In sede istituzionale siamo di fronte a una lunga serie di fallimenti. O non è stato fatto nulla o quello che è stato fatto è stato fatto male. La Bozzi e De Mita-Iotti sono state bloccate, la D’Alema ha prodotto poco. La realtà è che non c’è stata una seria consapevolezza del valore delle istituzioni, lo dimostra il fatto che anche le riforme costituzionali sono state usate strumentalmente. Nel 2001 la sinistra ha prodotto il pasticcio del titolo V per tentare di conquistare gli elettori della lega, la destra nel 2005 ha proposto un referendum costruito per tenere salda l’alleanza di centrodestra che poi è stato sconfitto. Eppure la riforma del titolo V è stata varata. È la prima riforma fatta in senso federale. Sia, ma resta il fatto che è stata fatta
Terza Repubblica. Le riforme istituzionali/1 Augusto Barbera
Le tre mosse necessarie per riformare la Costituzione colloquio con Augusto Barbera di Riccardo Paradisi
Il Senato italiano dovrebbe essere trasformato, secondo Augusto Barbera, in una camera delle Regioni.
“
Primo: togliere al Senato potere di vita o di morte sulle leggi e sui governi. Secondo: riformare la riforma del titolo V. Terzo: rafforzare i poteri del governo. Dandone di più al premier
esagerando in demagogia filoleghista. Si è esasperato l’orientamento localistico di quella riforma: in quel testo la produzione e il trasporto nazionale energie viene affidato in competenza ai comuni e alle Regioni. È una cosa che non ha senso. Per mettere mano alle riforme istituzionali del nostro Paese allora che si deve fare professore? Tre cose fondamentalmente. Primo, superare il bicameralismo perfetto. Bisogna togliere al Senato potere di vita o di morte sulle leggi e sui governi. Secondo: riformare la riforma del titolo V reintroducendo una clausola di supremazia nazionale e lavorando per un Senato realmente rappresentativo delle Regioni.Terzo: rafforzare i poteri del governo. Dando più poteri al premier. E queste tre mosse sbloccherebbero l’impasse italiana? In un seminario dei giorni scorsi tenutosi a Bologna cui hanno partecipato dei colleghi spagnoli sono venute fuori delle cose che possono aiutarci a chiarire meglio la nostra situazione. Partiamo dai dati: la Spagna ha in previsione un 2,5 percentuale di crescita del Pil per il prossimo anno mentre noi ci aggiriamo sullo 0,2. La Spagna ha l’alta velocità noi abbiamo i blocchi della Val di Susa. Se si considera che la Spagna esce dal
”
medioevo franchista solo nel 1978 c’è da restare impressionati. E che cosa c’entrano le riforme istituzionali con questi dati professore? C’entrano eccome. Perché la stabilità politica produce stabilità e crescita economica. Dal 1978 a oggi la Spagna ha avuto solo 4 presidenti del Consiglio: Suarez, Gonzalez, Aznar, Zapatero. Lei sarebbe in grado di dirmi quanti e quali sono stati i nostri dal 1978 a oggi? Si figuri, no naturalmente. Appunto. Quello spagnolo è un sistema infinitamente più funzionale del nostro perchè la loro costituzione prevede un Senato di ausilio, un presidente del Consiglio che può essere eletto con la maggioranza relativa dei voti ma può essere mandato a casa solo con la maggioranza assoluta e con la fiducia costruttiva. Infine lo stesso presidente del Consiglio può proporre al Re, che deve accettarlo, il ricorso anticipato alle urne. Infine in Spagna hanno un sistema bipartitico dovuto a piccole circoscrizioni senza recupero dei resti. Per fare riforme del genere però occorrono delle riforme costituzionali. Fino ad oggi, come dicevamo, l’itineriario e gli strumenti parlamentari che la Costituzione mette a disposizione per mettere mano a
riforme strutturali non sono stati sufficienti. Dunque? Con Stefano Ceccanti nel 2006 avevamo proposto una commissione formata da parlamentari ed esterni che avrebbe dovuto consegnare un sobrio progetto di riforma al Parlamento, il quale a sua volta avrebbe dovuto trovare delle formule con cui approvare e respingere queste proposte. Le proposte che venivano respinte sarebbero dovute essere riformulate e riproposte. Però scusi professore ma perché il Senato dovrebbe votare una proposta che mira a depotenziarlo? Questo che lei solleva è un problema reale però è un problema forse superabile. Nella sua pessima riforma Calderoli aveva individuato un processo legislativo che attenuava il potere di veto del Senato. D’altra parte se ci fosse in futuro una spinta più forte in senso bipartisan sull’esigenza di farla finita col bicameralismo i senatori potrebbero acconsentire. Si dovrebbe poi chiedere ai candidati del Senato di impegnarsi una volta eletti a riformare la propria camera secondo modelli europei. Secondo modelli di federalismo europeo? Certo, ma per questo non basta una riforma del Senato in senso regionalistico. Bisogna anche tornare indietro su alcune scelte del 2001 eccessivamente localistiche, soprattutto puntare di più sul federalismo fiscale. È nel federalismo fiscale che potere e responsabilità vengono a coincidere.
pagina 6 • 3 aprile 2008
niziamo dall’inizio. La vittoria di Letizia Moratti mette a tacere qualsiasi critica precedente. Come succede spesso in Italia, stuoli di uccelli del malaugurio gufavano sull’Expò. Molti facevano addirittura parte dello stesso schieramento del Sindaco. L’idea che circolava era che in caso di sconfitta, la Moratti, poiché aveva puntato tutto su questa fiche, si sarebbe dovuta dimettere. E visto che l’invidia è un vizio capitale, mentre l’amicizia non è neppure una virtù cardinale, questa sorta di perversione faceva proseliti via via che la data fatidica si avvicinava. Adesso, nella migliore delle tradizioni italiche, tutti corrono in aiuto del vincitore sbracciandosi. O meglio. Quasi tutti. Adriano Celentano, per esempio, canta fuori dal coro e un po’ stona. Non si capisce se sgomiti per la sua fetta di appalti (ma non ci sembra faccia il costruttore), oppure più realisticamente se usi questo proscenio per un briciolo di visibilità in più (di cui pensiamo non abbia bisogno). Se invece crede di poter incarnare davvero la figura di un’autorevole padre della città, meglio lasciar perdere e deliziarsi, al massimo, la sua splendida voce. Milano ha certo bisogno di cultura, per una volta però non quella pop e postmoderna delle canzonette. Il tema sul piatto non è però banale. L’Expò è una grande occasione che non deve prescindere dalla Bellezza, intesa come valore politico, indispensabile per un rilancio di tutta l’Italia di cui il Nord sia motore.
milano 2015 è più utile costruire infrastrutture che permettano ai milanesi di raggiungere zone verdi in pochi minuti così da conservare intatte le altre parti nobili della penisola a vocazione paesaggistica e artistica.
I
In queste settimane, sul Domenicale che dirigo e poi sul Corriere della Sera e Libero, si è aperto un fecondo dibattito sull’architettura contemporanea il cui esito – è bene ricordarlo – non è un preventivo no ad ogni intervento moderno (sul modello fallace dei tanti Pecoraro Scanio che c’ammorbano), bensì un’attento vaglio degli interventi in fieri nella capitale Lombarda, compreso il faraonico museo d’arte contemporaneo disegnato da Libeskind. Spesso, le prefiche dell’intellighenzia catastrofista milanese chic e di sinistra (ballerine, scrittorini, poetuncoli, urbanisti, tenutarie di salotti…) hanno pianto sul cadavere della cultura a Milano, spellandosi le mani, invece, per la rutilante vacuità delle iniziative romane targate Veltroni. E non
La grande occasione per la città: diffondere nel mondo la creatività italiana
Se Bellezza fosse la missione dell’Expò di Angelo Crespi
vedendo che gli imprenditori pubblici e privati meneghini (in silenzio) stavano investendo una ventina di miliardi di euro (40mila miliardi di lire) per rilanciare la città e farla assomigliare a una metropoli europea. I progetti per le nuove sedi della regione Lombardia, per il recupero dell’area ex fiera, per l’area ex varesine, poi Santa Giulia e la Bicocca, per citarne alcuni, in questi pochi anni stanno dando e daranno un impulso inimmaginabile perché Milano torni ad essere capitale di sviluppo e innovazione. D’altronde, tra le varie arti visive, solo l’architettura regge il confronto con i mass media. Solo una città o un palazzo può avere la possibilità di competere in termini di audience (cioè di numero di persone che lo fruiscono) con la televi-
Tra le varie arti visive, solo una città o un palazzo può avere la pretesa di fondare modelli estetici alternativi, e dunque anche etici
Nella foto: Letizia Moratti e Roberto Formigoni brindano a Parigi dopo la vittoria dell’Expò
sione e internet e solo una città e un palazzo può avere la pretesa di fondare modelli estetici alternativi, e dunque anche etici. Ed è per questo che proprio l’investimento architettonico può generare a cascata valore in tutti gli altri settori dell’esitenza umana. Ovvio che bisogna prestare attenzione, ma non per dare ragione alle nostalgiche rivendicazioni bucoliche del molleggiato, visto che Milano non ha mai avuto vocazione rurale né può essere riconvertita in valle dei templi, bensì per riuscire a far partire da qui – come ha espressamente detto la Moratti – “una nuova idea di sviluppo sostenibile” che ridia speranza e visioni a tutto il Paese. Nello specifico, non ha senso vagheggiare più verde in centro a Milano (cuore pulsante dell’economia), semmai
Detto questo, restano le beghe cortilizie. Dietro la festa, comunque vissuta con molto understatement, e il giusto entusiasmo, bisogna cominciare a produrre. La Moratti, come nel caso dell’ecopass (altra vittoria in solitaria), ha dimostrato carattere e determinazione. Spesso il carattere e la determinazione di un leader contrastano con le riluttanza della politica politicante. Qualcuno già prevede un rimpasto di giunta. E’ ovvio che i partiti della coalizione di Centrodestra rischiano di dover subire le accelerazioni di una rinvigorita leadership. Ma è altrettanto vero che solo lavorando di concerto si potranno ottenere i risultati sperati. Il coordinatore lombardo, Maria Stella Gelmini, ha dimostrato altrettanto carattere e capacità di leadership, in più straordinarie doti di mediazione che sono servite a smussare i contrasti di questi due anni. La probabile uscita di scena di Roberto Fomigoni, complica il quadro, e rende fondamentale la scelta del prossimo governatore. Inoltre, l’Expò richiede un cambio di marcia nei settori più implicati (urbanistica e infrastrutture), ma anche nei settori legati alla cultura e alla comunicazione, che oggi sono stati i meno efficaci di questo primo scorcio del mandato Moratti. Infine, più in generale c’è la questione culturale. L’Expò è una formidabile molla per rilanciare il Nord e contestualmente l’Italia. Secondo le stime della Bocconi arriveranno nella peggiore delle ipotesi oltre 20 milioni di visitatori. E’ dunque necessario risvegliare il “patriottimismo”, cioè una sorta di nazionalismo identitario in chiave positiva che ci traghetti fuori dalla crisi che prima di tutto è una crisi culturale e di valori. La via è quella di una riscoperta e di una rivalutazione dello specifico italiano: cioè della creatività diffusa. Che non è banale stereotipo bensì virtù reale acquisita attraverso il secolare contatto con la Bellezza. E torniamo all’inizio, prima dell’inizio. La Bellezza è la chiave di volta che dovrà reggere anche l’Expò.
milano 2015
3 aprile 2008 • pagina 7
Lettera dalla Lombardia, in attesa di un voto che rilancerà Bossi
Torna a soffiare il vento del Nord
di Giancarlo Galli a vinto il gioco di squadra», hanno detto in molti (anzi in troppi, ma è arcinoto come la Vittoria moltiplichi padri e padrini), dopo che Milano, la Lombardia e per parecchi risvolti l’intera Padania, da Torino a Trieste, hanno ottenuto un duplice successo: il verdetto parigino sull’assegnazione dell’Expo 2015 e, immediata conseguenza, la rimessa in discussione del ruolo della Malpensa. Nel nuovo scenario sarà problematico ridimensionarla da hub internazionale a scalo di seconda categoria. Quale la “squadra” che ha vinto? Visto da qui nessun dubbio: quella messa insieme, con un coraggio ai limiti della temerarietà, dal sindaco Letizia Moratti e dal governatore Roberto Formigoni, in venti mesi di paziente tessitura, superando gli scetticismi di ambienti intellettuali non casualmente simpatizzanti per il centrosinistra prodian-dalemiano. Sino alla vigilia Il Corriere della Sera è stato ultra prudente e non molto diverso l’atteggiamento del berlusconiano Il Giornale. Ciò, nonostante le prese di posizioni favorevoli del ceto imprenditoriale: dal presidente della Confindustria Luca di Montezemolo alla subentrante Emma Marcegaglia.
«H
A risultato acquisito, sia Prodi che D’Alema hanno preteso atteggiarsi a super sponsor; e con qualche frazione
di maggior credibilità lo stesso Silvio Berlusconi. Difficilmente saranno però loro a cogliere i frutti. Per la signora Moratti è dato per scontato il rinnovo del mandato. Prima donna sindaco nella storia di Milano, difficilmente alle elezioni del 2010 troverà qualcuno disposto a sfidarla. Quanto a Formigoni, candidato del Popolo della libertà, le possibilità di ottenere l’agognata poltrona di ministro degli Esteri divengono concrete. (In caso di vittoria del Pdl, va da sé).
maggiore leghista vedrebbe con favore il fallimento tout-court, per lasciare spazio ad una nuova entità. Quasi incredibile eppure reale la Lega, pur disponendo di sperimentati uomini di governo (da Roberto Maroni a Roberto Castelli), non ha presentato un’ombra di programma. Solo perché “imparentata” (con simbolo autonomo) nel Pdl? No. I suoi candidati puntano su un’altra carta più emotiva che strettamente politica: l’orgoglio padano. L’autonomia, il federalismo, con in filigrana l’originario cavallo di battaglia del secessionismo. Sarà terra-terra, magari rozzo il ragionamento; tuttavia fa pre-
Se i senatori della Lega risulteranno decisivi, potranno porre macigni sulla strada di eventuali “inciuci”. Il più grosso, pretendere da subito un federalismo alla maniera catalana
l’Expo lo scontro sulla Malpensa. Ai leghisti, poco importa delle scelte su Alitalia, italianità o meno. Quel che rileva sono per loro la Malpensa e la Sea, Società esercizi aeroportuali, anche gestore di Milano-Linate. Farebbero patti col diavolo ed avrebbero accettato Air France, non fosse stato per la decapitazione dello scalo. A quel punto, pollice verso contro Prodi (accusato di svendere) e Padoa Schioppa (giudicato un miope tecnocrate). Su questa lunghezza d’onda si sono trasformati in interpreti di vasti settori dell’opinione pubblica nordista. Sulla questione di principio, asse privilegiato con Formigoni. Colte al volo le opportunità dell’Expo. Air France aveva proclamato “prendere o lasciare”. Incuneandosi, hanno costretto i francesi a riscrivere le arroganti proposte ed il successo ha avvicinato la Lega ai sindacati.
po’ a tutti i sondaggi, gli ultimissimi coperti da un segreto di Pulcinella, s’appresta a incassare la Lega. Con una battaglia al Senato di 16-20 eletti, costituirebbe una spina nel fianco del Pdl, con Forza Italia e Alleanza nazionale obbligate a subire l’intransigenza del Carroccio, su temi quali l’immigrazione, il burocratismo di “Roma ladrona” (lo slogan, coniato negli Anni Novanta giganteggia sui manifesti). Nonché la difesa ad oltranza della Malpensa. Al di là del destino di Alitalia, del quale lo stato
Il leghismo ritiene di mietere alle elezioni. Se i suoi senatori risulteranno decisivi, potranno porre macigni sulla strada di eventuali “inciuci”. Il più grosso, pretendere da subito un federalismo alla maniera catalana. Lasciando il 90 per cento delle imposte dove si producono. Le riforme, e radicali, del moloch centralista sarebbero automatiche. Le urne certificheranno di quale seguito effettivamente goda la “linea verde”; ma piaccia o meno questa è l’aria che si respira al Nord.
Altro dato importante, da non sottovalutare, il “dividendo” che, stando un
sa. Riassumiamolo. Inutile promettere riduzioni di imposte, ordine pubblico e controllo dell’immigrazione, efficienza della giustizia e taglio della spesa pubblica se non si prende per le corna il toro del centralismo.
Un Carroccio che risfodera la spada di Alberto da Giussano, ma insomma. «A fare promesse e poi disattenderle, sono buoni tutti», si martella nei comizi. Aggiungendo: «dobbiamo reagire, combattere». Ed ecco, senza attendere
pagina 8 • 3 aprile 2008
milano 2015
Nella foto: lo skyline di Milano nella notte in cui il capoluogo lombardo ha ottenuto l’assegnazione dell’Expò 2015. hi ha conosciuto l’orizzontale malinconia della pianura Padana o la dolcezza sabbiosa della costa versiliese o i lidi aspri e silvestri del Cilento negli anni Cinquanta e Sessanta, patisce con rammarico l’erosione irrimediabile di quei paesaggi antichi perpetrata da una miriade sterminata di casette, più o meno a schiera, di châlet e di palazzine. Unità edilizie piccole o addirittura minute che, minuscole spietate e voraci come termiti, divorano in poco tempo intere porzioni di territorio: ne cancellano l’identità paesaggistica e il miracoloso equilibrio tra natura e artificio, orditi nei secoli dai nostri avi, trasformando l’intera penisola in un’unica sterminata periferia residenziale, tessuta di casette con giardini recintati e barbecue.
C
Il territorio abitabile dell’Italia è piccolo in rapporto alla popolazione; è fragile sotto il profilo idrogeologico ed è delicatissimo per la millenaria stratificazione storica che lo ha rimodellato come un’opera d’arte a scala macroterritoriale. Proprio queste caratteristiche chiedono coscienza storica, consapevolezza delle scelte architettoniche, parsimonia costruttiva, libertà di giudizio e lungimiranza urbanistica. Da qualunque parte si guardi la questione della crescita edilizia in Italia, risulta evidente quanto la disseminazione edilizia, costituita da unità residenziali unifamiliari conformate sui sobborghi nordamericani, in ossequio a un modello veicola-
Ecologia ed estetica possono convivere
La bella notizia della città verticale di Claudia Conforti to dal cinema e dalle serie televisive (ricordate Happy days?) sia in contrasto con le nostre risorse ambientali e non trovi nessuna legittimazione storica. La città, quale è nata e si è sviluppata in Italia, è la città delle torri medievali, dei maestosi palazzi rinascimentali e barocchi, delle cuspidi ardite dei campanili e dei volumi gonfianti delle cupole, tanto alte
egoiste e sciupone, come la società che le esprime. Riflettiamo su un recentissimo caso di cronaca che, pur svolgendosi subito fuori dai confini dell’Italia, suscita loquaci sdegni e risentite scomuniche nel Bel Paese. Nell’occhio del ciclone si trova un edificio a torre, progettato da un architetto di tutto rispetto quale è Mario Botta, per Celerina, un villag-
ca del villaggio alpino, potenziando come in un incubo la distesa di châlet in cemento armato e di condomini mansardati, che già infestano la valle e che, fatto salvo lo sfondo rupestre, la rendono uguale a una qualsiasi opaca periferia padana. Questa lunga premessa porta evidentemente acqua all’edilizia verticale, la quale non significa solo grattacielo, ma
Se ben progettato un grattacielo consente significativi risparmi energetici e ottimizzazioni infrastrutturali non trascurabili, che si traducono immediatamente e nel tempo in conservazione e salvaguardia dei siti che le loro ombre si protendono dall’abitato fin sui campi e i boschi del contado. In definitiva la città italiana (la città, si badi, non il villaggio! ) è un agglomerato fitto, compatto e tendenzialmente verticale, che usa con accortezza e parsimonia il territorio. Tutto il contrario delle moderne periferie, parcellizzate nell’edificato e nel verde, anonime,
gio in Engadina. Il progetto è articolato in quattro blocchi verticali accorpati, il più alto dei quali raggiunge i 77 metri. Esso ospita un grande parcheggio di 750 posti, un hotel di 300 letti, e piani di appartamenti per vacanze. Queste medesime strutture di accoglienza turistica, se spalmate in orizzontale sul territorio, moltiplicherebbero a dismisura l’estensione fisi-
anche torre nelle sue diverse declinazioni: essa può salvaguardare quel che resta del territorio nazionale, inteso come superficie terrestre e come ambiente antropico. Se ben progettato, un edificio verticale consente infatti significativi risparmi energetici e ottimizzazioni infrastrutturali non trascurabili, che si traducono immediatamente e nel tempo in
conservazione e salvaguardia dei siti.
Per esempio, l’elegantissima orre di 52 piani del New York Times, costruita nel cuore di Manhattan da Renzo Piano, in virtù della sottile e vibrante griglia di ceramica, che scherma con facciate continue i fronti vetrati del parallelepipedo, attua un alto grado di efficienza energetica nella climatizzazione dell’edificio. Inoltre al piano terra, in continuità spaziale e visiva con la strada, l’edificio custodisce un vero e proprio giardino pubblico alberato, intorno al quale si aprono un teatro-auditorium, caffè, ristoranti e negozi che prolungano fin nei precordi dell’edificio privato i flussi pubblici e vitali della città. Ho evitato ogni accenno alla questione estetica: non ha nessun senso tacciare gli edifici verticali, in quanto tipo edilizio, di carenze estetiche, così come non ha senso affermarne l’intrinseca bellezza. Esistono grattacieli e torri malriusciti e incoerenti e altri straordinariamente armoniosi, capaci di dialogare con i luoghi e le voci della storia. In quest’ultimo senso Milano è caposcuola: il Pirelli di Gio Ponti e la Torre Velasca dei BPR hanno rivelato, negli anni tristi del dopoguerra, alla città i suoi volti nascosti, traducendo le sue silenti contraddizioni in potenzialità espressive tanto dirompenti da lanciare Milano come protagonista della scena mondiale della modernità. È un miracolo che può ripetersi con l’Expo del 2014: miracolo a Milano.
alitalia
3 aprile 2008 • pagina 9
Jean-Cyrill Spinetta abbandona le trattative per la compagnia italiana: troppo onerose le richieste dei sindacati
Ma è la Borsa a bocciare Air France d i a r i o
di Gianfranco Polillo
g i o r n o
Casini: «Liberalizzazioni per modernizzare il Paese»
opo un batti e ribatti tra proposte troppo lontane, ieri Air France ha abbandonato il tavolo delle trattative di Alitalia, lasciando con un palmo di naso i sindacati. Intanto, e rispetto a 24 ore prima, il titolo Alitalia, più volte sospeso per ribasso, ha chiuso con una perdita del 3,77 per cento. Non è molto se si considera che, nelle stesse ore,Tommaso Padoa-Schioppa, alla Camera, invitava l’Italia a bere l’amaro calice di una sconfitta: o si chiude rapidamente con Air France – che di lì a poco avrebbe fatto saltare tutto – o si portano i libri in tribunale. Poteva essere, quindi, una Caporetto, ma così non è stato. Il titolo vale ancora 5 volte tanto il prezzo offerto da Spinetta: 50 centesimi, contro i 9,9 posti alla base dello scambio tra le azioni della compagnia di bandiera francese e quella italiana.
D
È quindi una vicenda strana quella di Alitalia. Nei dodici mesi antecedenti la decisione di giungere a una trattativa esclusiva con i cugini d’Oltrealpe, il titolo era oscillato tra un massimo di 80 ed un minimo di 60 centesimi. Poi il crollo improvviso, nel mese di marzo, in concomitanza con l’offerta francese. Allora, dopo una caduta rovinosa durata un paio di giorni, si era toccato il fondo, che risultava, tuttavia, pari a più del doppio dell’offerta francese. Che dire di questi andamenti? Che forse l’offerta era indecente. O almeno così l’aveva considerata la Borsa. Da allora il prezzo è progressivamente risalito, fino a raggiungere le quotazioni che abbiamo indicato. Con una plusvalenza netta di oltre il 100 per cento a favore di chi, fin dall’inizio, non aveva creduto ai fantasmi della svendita. Di Pietro, quindi, dovrebbe riflettere prima di partire lancia in resta nella denuncia contro il reato di aggiotaggio. Se di questo si tratta, l’operazione non è scattata a Roma, ma fuori dall’Italia. I principali guadagni sono andati a favore di chi aveva venduto allo scoperto per poi ricomprare, prima che il titolo riprendesse quota, collocandosi leggermente al di sotto della media dei mesi precedenti. Che la Consob, quindi, intervenga: come ha detto Tps a Montecitorio. Ma lo faccia contro ignoti: fuori dagli schemi e dai teoremi precostituiti. Si indaghi pure su Silvio Berlusconi o su altre piste, ma non si trascurino i vizi all’origine dell’intera vicenda. Una trattativa privata, esclusiva, opaca e senza precedenti, quella voluta o imposta al Cda dell’azienda. O meglio un precedente c’era
d e l
«Non più dazi come vuole Tremonti, ma più liberalizzazioni per modernizzare il Paese». È il messaggio espresso dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini questo pomeriggio a Genova nel suo discorso elettorale. «Occorre - ha spiegato Casini mettere in competizione i servizi per fare abbassare le bollette, abbiamo in Italia nei servizi locali tante piccole Iri su cui bisogna intervenire». Casini ha poi sottolineato la necessità di tornare all’energia nucleare. E per quanto riguarda la tassazione, il leader dell’Udc ha sostenuto che «non bisogna abbassare le tasse per tutti, ma abbassarle a partire dal reddito famigliare».
Bologna: scontri con la polizia al comizio di Ferrara
Il presidente di Air France, Jean-Cyrill Spinetta. Le sue aperture non sono state giudicate adeguate dai sindacati, che hanno rilanciato: da qui la rottura stato: quello della SME (finanziaria alimentare dell’Iri), quando lo stesso Romano Prodi aveva cercato di vendere l’azienda a Carlo De Benedetti per un prezzo irrisorio. L’allora premier Bettino Craxi organizzò, in fretta e furia, una cordata alternativa che offrì un prezzo maggiore e fece saltare tutto.
A essa, com’è noto, partecipò lo stesso Silvio Berlusconi, quando ancora non era stato catturato dal demone della politica. Ma quel lontano episodio, evidentemente, ha
A piazza Affari il titolo della Magliana vale 5 volte in più rispetto all’offerta dei transalpini: speculazione aggressiva o scommessa di un rilancio? pesato nei ricordi del Cavaliere, fino al punto da fargli lanciare il famoso appello a una, almeno per ora, fantomatica cordata italiana. Probabilmente non era opportuno, ma era meglio accettare il piano originario? Il prendere o lasciare a un prezzo irrisorio? Su questi aspetti, oscurati nel dibattito sulla Magliana, dovremmo accendere i riflettori. Si parla, invece, d’altro. Di esuberi e di come ridurre il costo sociale dell’operazione. È anche comprensibile, siamo in campagna elettorale. Ma l’ap-
proccio è poco serio. Alitalia è affondata non perché il mercato interno italiano e internazionale non offrisse occasione di business. Ma perché azzoppata da un eccesso di oneri dovuti essenzialmente a una presenza sindacale che, di fatto, ha gestito l’azienda. E l’ha gestita al di fuori di ogni quadro di compatibilità economiche: orari ridotti, eccesso di occupazione, scarsa produttività. In un settore, qual è quello del trasporto aereo, che è il cuore stesso della globalizzazione. Il rischio principale è che oggi si contratti per annacquare la cura. Non per risolvere, con ammortizzatori sociali, il problema di fondo, ma solo accettando un prezzo più basso del valore reale del bene che si intende vendere. La Borsa ha già dimostrato che l’azienda vale di più. A meno di non considerare i finanziatori che detengono il titolo una massa di sprovveduti, incapaci di intendere e volere.
In prospettiva, inoltre, quel valore, dopo la scelta di Milano, quale sede dell’Expo 2015 è destinato a crescere. I numeri parlano chiaro: 20 miliardi di investimenti, 29 milioni di visitatori, un giro d’affari di 44 miliardi. Una parte cospicua di questo bottino sarà appannaggio del vettore aeronautico. Non siamo insensibili al grido di dolore che proviene dal sindacato, specie in un momento difficile per la vita economica dell’Italia. Ma non svendiamo il futuro, per soddisfare le esigenze del momento.
Ci sono state cariche della polizia in piazza Maggiore a Bologna al comizio di Giuliano Ferrara. Appena il candidato premier ha cominciato a parlare si sono intensificati fischi ed urla, ci sono stati lanci di pomodori e di qualche uovo. Durante un passo del comizio di Ferrara i manifestanti hanno cominciato a premere con insistenza e dal cordone di polizia è volata qualche manganellata. Momenti di tensione anche quando Ferrara è sceso dal palco. E’ stato scortato dalla polizia e anche in questo caso ci sono stati scontri con la polizia.
Brunetta: «Veltroni offre un caffè a tre milioni di famiglie» Il bonus proposto da Veltroni per contrastare il caro prezzi equivale a «un caffè, poco più o poco meno». Lo afferma Renato Brunetta, vice coordinatore di Forza Italia. «Veltroni - spiega Brunetta - propone un bonus di 600 euro l’anno per tre milioni di famiglie, con due figli a carico, ed un reddito fino a 18mila euro complessivi (tutto compreso). Facendo due conti sul retro di una busta viene fuori che: se uno è single, con un reddito di 7500 euro l’anno, riceve da Veltroni 250 euro sempre l’anno; in due, 390 euro, con un reddito fino a 11500 euro l’anno; due persone con un figlio a carico, con un reddito fino a 15000 euro l’anno, il bonus va a circa 500 euro. Se si sommano a questi bonus gli sconti previsti, sempre dal “Veltroni pensiero”, dei negozi convenzionati, le cifre suddette dei bonus si possono incrementare del 5-10 per cento. Come dicevamo, facendo un po’ di conti sul retro di una busta, il single ha circa 0,60 euro al giorno, per gli altri da 0,60 a 0,80 a 0,90 euro al giorno. Un caffè poco più o poco meno. Grazie Veltroni, grazie del caffè. Ma caro ci costa», conclude Brunetta.
Veltroni: «Sì alle intercettazioni, no ai nomi sui giornali» «Un magistrato deve poter intercettare chi gli pare per le sue indagini poi però quel magistrato deve garantire che quei nomi non vengano pubblicati sui giornali perché nessun italiano può finire in un tritacarne e ci sia invece l’esame sereno che viene fatto in un’aula di giustizia». Lo ha detto il leader del Pd Walter Veltroni nel corso di un comizio elettorale a Nuoro. «È una posizione garantista - ha aggiunto Veltroni - ma è una posizione in difesa della legalità. Il Popolo della Libertà ha invece fatto un’altra proposta: che le intercettazioni telefoniche si possano usare solo per reati come il terrorismo, le organizzazioni criminali e non per le frodi bancarie, la corruzione, le rapine, l’usura, niente di tutto questo. È possibile che gli elettori di Alleanza nazionale siano d’accordo su questo?».
pagina 10 • 3 aprile 2008
mondo
Gli scrutatori caricano in macchina i certificati elettorali delle elezioni del 29 marzo. Nel foto sopra, Robert Mugabe
La diplomazia punitiva che l’Occidente gli riserva è inutile. Ci vuole un piano internazionale per farlo uscire di scena
Mugabe lo conosco, non mollerà di Heidi Holland
JOHANNESBURG. Ho lasciato Mugabe, dopo la rara intervista che mi ha concesso a Dicembre, con la sensazione che vivesse in una realtà immaginaria, un mondo in cui lui è un leader altruista che non può sbagliare perché - paradossalmente - non sopporta vedere come ha ridotto lo Zimbabwe. Lui stesso ha avallato questa sensazione dicendomi che il baratro economico del Paese è figlio del mancato aiuto allo sviluppo da parte dell’Occidente. Seduto dritto davanti a me, con i suoi occhi che fulminavano rabbiosi il mio scetticismo, ha detto: «La nostra economia ha un problema, ma sta molto meglio, centinaia di volte meglio, della maggior parte delle economie africane. A parte il Sud Africa, quale altro Paese è al livello dello Zimbabwe?». «È vero ancora oggi?», chiesi io, e lui: «Si. Quello che manca ora sono le merci in vendita, tutto qui. Ma le infrastrutture ci sono. Abbiamo miniere nostre, come vede. E delle imprese». Distorceva la realtà sostenendo che tutto ciò che mancava allo Zimbabwe erano beni di consumo, per evitare, in questo modo, di dover riconoscere il suo fallimento. Una più onesta valutazione delle cose sarebbe stata devastante per lui. Questa è la ragione per cui non cede sulla crisi economica mentre il Paese gli sta crollando addosso. Vorrebbe essere lasciato
guardare un altro abisso. La visione messianica che aveva di se stesso e dei suoi “sacrifici”, non ha portato a niente. Ammetterlo, riconoscere che tutto cià che aveva progettato è fallito, è insopportabile per lui. Una delusione di tale portata gli renderà estremamente difficile accettare la sua possibile sconfitta alle urne o un suo indignitoso esilio. Il suo istinto sarà quello di dare battaglia, duramente, anche se dovesse capire che i suoi più fedeli sostenitori stanno per lasciarlo solo e non avesse altra scelta
regno”nelle mani di Morgan Tsvangirai. Chi ha lavorato con lui, in questi anni, concorda che ha il gusto di progettare continuamente ogni astuzia pur di vincere e godersi la vittoria. Andare a segno contro i suoi nemici stimola il suo ego vorace. Anche da bambino giocava a tennis per vincere e si lanciava in assurdi scoppi d’ira quando perdeva. Le riflessioni che ho fatto dopo la nostra intervista vanno tutte nella stessa direzione: la diplomazia punitiva che l’Occidente gli ritorce contro è inutile. Mu-
lo Zimbabwe non si fermerà davanti a niente pur di provare che è stato offeso dal governo britannico. Nonostante il merito delle sue affermazioni riguardo agli impegni presi sulla questione della redistribuzione territoriale dello Zimbabwe, lasciare che Mugabe persegua le sue vendette è un’alternativa troppo rischiosa per la popolazione del Paese. Quando gli ho chiesto se fosse disposto a sacrificare l’intero welfare del suo Paese pur di portare avanti il suo contenzioso contro la Gran Bretagna, mi ha replicato:
Il presidente è pronto a qualsiasi compromesso pur di non lasciare il “suo regno” nelle mani di Morgan Tsvangirai. Chi ha lavorato con lui concorda che ha il gusto di progettare continuamente ogni astuzia pur di vincere e godersi la vittoria che accettare la fine della sua presidenza. La sua storia politica mostra che lui ha sempre reagito a ogni avversità. Ogni volta, ha risposto e si è vendicato dei “traditori” o dei suoi nemici prendendosela con i cittadini bianchi, il governo inglese e il suo popolo. Ha sempre risposto duramente. Sempre. Mugabe è un uomo strategico. Potrebbe parlare amichevolmente a Simba Makoni, chiedendogli addirittura scusa per le cose abominevoli che ha detto su di lui nelle scorse settimane, se questo gli fosse utile. È pronto a qualsiasi compromesso piuttosto che lasciare il “suo
gabe non è uomo da “carota e bastone”, ci vuole un piano concertato per farlo uscire di scena. Perché Mugabe si vede come un eroe. E benché insista nell’affermare che il suo contenzioso riguarda solo la Gran Bretagna, quest’ultima non sembra intenzionata a confrontarsi direttamente con la sua eredità post coloniale: perché Robert Mugabe ne è l’impersonificazione. Ecco, forse è l’intera comunità internazionale a dover cercare di esplorare ogni strada pur di farlo uscire di scena, ammesso che questa strada, per Mugabe, esista. Se dovesse rimanere, il dittatore del-
«Si. Ho già sacrificato il nostro welfare». A questo impetoso quadro di Mugabe, alla sua incredibile conferma, a dispetto del massacro di migliaia di supporter dell’opposizione durante i primi anni del suo mandato, crede non gli sia stata riconosciuta la buona volontà (e non gli sia stato dato credito) mostrata nel non aver “schiavizzato” ancora più gente ed è convinto che Europa e Stati Uniti dovrebbero parlargli proprio per la sua politica umanitaria. Bisogna aprire gli occhi: ciò che rimane sul groppone di un Paese e che ne testimonia la distruzione è un
nemico che è l’impersonificazione della tragedia. L’uomo in questione ha una giustificazione alla sua protesta - il ripudio di una promessa fatta da uno dei primi amministratori britannici - che è imbarazante. Ma quello che l’ex potere coloniale sceglie di ignorare, umiliando Mugabe più che cercare di marcare le differenze, potrebbe ritorcersi contro se lui dovesse restare al potere per un altro mandato. L’Occidente deve cambiare il suo approccio verso Mugabe. Anni di isoalmento e sanzioni, durante i quali ha fatto carne di porco grazie alla sua macchina propagandistica, lo hanno solo reso più cattivo e determinato. Se c’è una possibilità di farlo uscire di scena, questo sforzo deve essere fatto a livello internazionale. Pensare che la situazione in Zimbabwe non possa peggiorare è una strategia superata per questo Paese piegato e piagato dalla sua dittatura. L’immobilismo occidentale mette in pericolo lo Zimbabwe e lo espone al rischio di cadere in un baratro, in cui a farla da padrone potrebbe essere sempre lo stesso presidente. Più incattivito che mai. Heidi Holland, giornalista e scrittrice sudafricana, è stata l’ultima persona ad intervistare Mugabe ad Harare 3 mesi fa. Ha appena pubblicato il libro: “Una cena con Mugabe”.
mondo
3 aprile 2008 • pagina 11
Ondata di dimissioni per la rete: ben 11, tra cui Steve Clarck, direttore Tg e David Marash, anchorman
Crisi Al Jazeera,sempre meno “english” d i a r i o
d e l
g i o r n o
Parte il vertice Nato Da Bucarest, dove nella serata di ieri si è formalmente aperto il summit dell’Alleanza transatlantica, Bush ha aperto le danze del dibattito internazionale. Intervenendo a una conferenza organizzata dal ”Marshall Fund”, un centro di ricerca tedesco, il presidente Usa ha proposto che basi militari dell’epoca sovietica vengano collegate alla difesa antimissile dell’Alleanza e ha assicurato che questo porterebbe a «un livello di cooperazione strategica senza precedenti». Bush in un incontro col segretario generale della Nato Jaap de Hoop Scheffer, si è detto anche «molto ottimista» sul livello di sostegno alla missione in Afghanistan da parte dei leader della Alleanza convenuti in Romania. «Circa la reazione della Russia, ho sempre detto al mio amico Vladimir Putin che è nel suo interesse che vi siano democrazie ai suoi confini e che non ha niente da temere dalla Nato - ha detto Bush - che è composta di nazioni dedite alla pace». Jaap de Hoop Scheffer ha affermato che l’Afghanistan costituisce una grossa priorità per la Nato e che un documento che sarà diffuso durante il vertice ribadirà l’impegno a lunga scadenza dell’Alleanza in Afghanistan dove «si trova la prima linea della lotta contro il terrorismo: dobbiamo prevalere a tutti i costi».
Israele, al via guerra simulata di Maurizio Stefanini un anno e mezzo dal suo lancio, è in crisi Al Jazeera English. Era partita nel novembre del 2006: proprio in quello stesso anno che aveva visto a gennaio la partenza a livello sudamericano della Telesur di Hugo Chávez e a dicembre il lancio del canale internazionale transalpino France 24, mentre nel dicembre del 2005 era partita Russia Today; nel febbraio 2004 il canale in arabo promosso dal governo Usa Alhurra; nel luglio 2007 l’iraniana Press Tv; e a sua volta la Bbc, dopo quella chiusura del suo servizio in arabo che aveva propiziato la nascita della stessa Al Jazeera, ha ripristinato una propria Arabic Television lo scorso 11 marzo. Insomma, divampa più intensa che mai la guerra delle tv di informazione globale. E Al Jazeera English aveva d’altra parte cercato di scansare l’immagine sia di un canale governativo tipo France 24, Russia Today e Alhurra; sia di uno strumento di “controinformazione” militante, stile Telesur. Ad esempio, col sottoscrivere l’appello a quattro per il rilascio del corrispondente Bbc a Gaza Alan Johnston: assieme alla stessa Bbc, alla Cnn e a Sky News. Segnale del considerarsi parte di un’aristocrazia delle tv mondiali. Oppure, con la stessa scelta di sostituire all’ultimo momento l’appellativo English a quello International: suggerimento implicito, che avrebbero potuto seguire ad essa anche altre Al Jazeera, in ulteriori lingue. Il bacino potenziale di utenti dell’emittente in inglese era d’altronde individuato in almeno 100 milioni di
A
famiglie, in una sessantina di Paesi. Qualche segno di successo, d’altronde c’è: Al Jazeera English, in particolare, è il canale di notizie più visto su YouTube Usa. Ma la notizia può essere considerata il risvolto del particolare negativo che nessun pacchetto di abbonamento offre in realtà questo canale agli utenti statunitensi. È dunque probabile che questa difficoltà a sfondare abbia avuto qualche ruolo nella spettacolare ondata di dimissioni e autolicenziamenti degli ultimi due mesi. Ultimi, due autentici pezzi da novanta assunti proprio per fare da
I giornalisti sarebbero sottoposti a forti pressioni dalla proprietà, che reclama una maggior ortodossia ideologica dal punto di vista musulmano star e attrattiva: Steve Clark, direttore del telegiornale dopo esserlo stato nella Itv; e David Marash, anchorman da Washington, proveniente dalla Nightline della Abc. Altre ragioni che sono state ipotizzate sono di natura finanziaria: dispute contrattuali; bilanci troppo tirati. Tutti segnali, comunque, di salute non eccelsa. Nel caso di Steve Clark, poi, c’è la causa di lavoro che sua moglie Jo Burgin ha fatto presso un Tribunale di Londra, dopo aver lavorato per l’emittente come capo della pianificazione. Le sue la-
gnanze riguardano addirittura la legge britannica contro la discriminazione per ragioni di sesso, razza o religione. Mentre il controllore finanziario Clive Brady si è invece rivolto a un tribunale statunitense, dopo essere stato licenziato.
Ma la ragione principale del malcontento dei dipendenti sembra un’altra: creata per rappresentare un fiore all’occhiello di un mondo islamico modernizzante a a suo agio con il pluralismo, Al Jazeera English si troverebbe al contrario sottoposta a sempre più forti pressioni dalla proprietà, che reclama una maggior ortodossia ideologica dal punto di vista musulmano. Il disagio d’altronde è non solo nello staff ma anche tra gli spettatori, che apprezzano il brio della catena quando si occupa del resto del mondo, ma la trovano invece scialba quando tratta dei Paesi arabi. Insomma, sarebbe più brava a guardare le pagliuzze nell’occhio del mondo “cristiano” che non le travi in quello del mondo islamico. Vogliamo dirla con i boatos riferiti dal Guardian? La proprietà si sarebbe pentita di aver assunto tanti occidentali: troppo più pretenziosi degli arabi a proposito di condizioni di lavoro e autonomia professionale. Starebbero dunque forzandoli ad andarsene apposta, anche con voci di non rinnovo dei contratti. Proprio per poter ripartire da capo con nuovo personale e nuove sedi, da Gaza e Nairobi. E la scelta in particolare di Gaza sotto il controllo di Hamas può far capire ben con quali intenzioni.
ll gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato un piano per un’esercitazione di emergenza su larga scala da mettere in atto le prossime settimane nel Paese. L’esercitazione simulerà un attacco di guerra sui civili e coinvolgerà tutti i ministeri, le Forze di Difesa israeliane, le autorità locali e le attrezzature scolastiche. L’esercitazione, la più importante degli ultimi anni, avrà inizio domenica con una speciale riunione di governo. Si simulerà il Paese in guerra. Martedì le sirene daranno il via all’emergenza e verrà simulato il lancio di missili in tutto il Paese. L’esercitazione sarà guidata da Rachel, l’autorità nazionale per l’emergenza creata in seguito alla seconda guerra con il Libano e incaricata di preparare i civili per le situazioni di emergenza durante i conflitti.
Spagna, consultazioni per il premier Re Juan Carlos di Spagna ha avviato oggi le consultazioni con i leader dei partiti politici rappresentati nel parlamento di Madrid uscito dalle elezioni politiche del 9 marzo. Al termine delle consultazioni, che si concluderanno venerdì con i leader del Partito Popolare Mariano Rajoy e del Psoe Josè Luis Zapatero, il re incaricherà il premier uscente, vincitore delle politiche, di formare il nuovo governo. L’investitura di Zapatero è prevista per la metà della settimana prossima.
Birmania, no a una nuova Costituzione Il principale partito di opposizione in Birmania, la Lega nazionale per la democrazia (Ndl) della dissidente Aung San Suu Kyi, ha lanciato un appello per il “No” al referendum sulla nuova Costituzione. La consultazione, prevista per maggio, è parte del piano in sette punti della giunta militare al potere che prefigura una sorta di road-map verso la democrazia. «Lanciamo un appello alla gente affinché si rechi alle urne e si esprima contro la costituzione», ha affermato il portavoce della Ndl, Nyan Win.
Cambio di governo a breve in Irlanda Bertie Ahern, al potere da undici anni e sotto inchiesta per corruzione, ha annunciato le dimissioni da primo ministro. Ahern ha precisato che lascerà la poltrona di capo di governo il 6 maggio. Ahern è stato uno dei protagonisti del processo di pace in Irlanda del Nord. Annunciando che lascerà la guida del governo il 6 maggio prossimo, con undici anni ininterrotti di premierato, Ahern ha sostenuto che la decisione di dimettersi non è dovuta ai controversi finanziamenti da lui ricevuti negli Anni Novanta. «Da politico non ho mai messo i miei interessi personali al di sopra del bene comune. Non ho mai fatto nulla di male o ingannato qualcuno», ha dichiarato il capo del governo di Dublino.
pagina 12 • 3 aprile 2008
speciale educazione
ella lettera aperta ai partiti presentata a Roma giovedì scorso (la riproduciamo nella pagina accanto), alcuni notissimi studiosi e commentatori chiedevano di ancorare saldamente la politica dell’istruzione e la vita delle scuole a due criteri fondamentali: merito e responsabilità. Nei molti commenti e resoconti è rimasto un po’in ombra il secondo elemento del binomio, che invece costituisce una chiave altrettanto essenziale per leggere la realtà della nostra scuola e della società. La responsabilità consiste nel dover render conto dei nostri comportamenti e delle loro conseguenze. Questo può comportare una sanzione o un rimprovero, il chiedere scusa, la riparazione di un danno. Assumersi la responsabilità di un errore richiede un certo grado di maturità, ma insieme la crea e la fortifica.
N
Socrate
Gli insegnanti devono riscoprire la fermezza e non aver paura di dire dei no. A partire dal ‘68 sono stati oggetto di una continua colpevolizzazione: «L’insuccesso di un allievo - si é detto - è un fallimento della scuola»
LA RISCOSSA DEI PROFESSORI di Giorgio Ragazzini
Purtroppo un simile comportamento non è la regola nel nostro paese. È forse più frequente che gli adulti insegnino, anche solo con l’esempio, a “farsi furbo”o a scaricarsi la coscienza invocando il“così fan tutti”. Chi poi ha compiti di controllo o di sorveglianza in qualche settore, soprattutto nella pubblica amministrazione, sa benissimo che se svolge sul serio il suo compito, rifiutandosi di lasciar perdere o far finta di non vedere i comportamenti scorretti, spesso si affatica e si logora senza costrutto e a volte con proprio danno (leggi parcella dell’avvocato), tanto numerose sono le cavillose tutele di cui può farsi scudo il demerito. Per costruire il senso di responsabilità negli allievi, come del resto nei figli, non è sufficiente enunciare delle regole, benché sia ovviamente necessario. È essenziale farle rispettare. Con perseveranza e con coerenza. E senza escludere a priori provvedimenti disciplinari. È questa la più efficace “educazione alla legalità”. Altrimenti non si mette in moto un’autentica dinamica educativa, perché ben presto un bambino capisce che le regole sono solo parole. E si educa alla responsabilità anche non“regalando”sufficienze o promozioni immeritate, specie se le carenze dipendono dalla pigrizia più che da reali difficoltà. Non pochi colleghi invece, anche seriamente dediti al loro lavoro, non dubitano (in buona fede) di godere in sede di scrutinio di una discrezionalità quasi assoluta, che consente di trasformare in sufficienza anche un quattro, purché venga addotta una qualche pseudomotivazione di tipo psicologico o sociale. Il risultato è che molti studenti pensano giustamente che sia inutile studiare regolarmente tutte le materie; anzi, due o tre si possono anche
trascurare del tutto, tanto la promozione è assicurata. Il fatto è che per “assumersi” responsabilità come quelle di educare e di valutare è necessaria una virtù poco di moda, di cui si era quasi perso anche il nome fino a tempi recenti: la fermezza. La capacità, cioè, di prendere e mantenere decisioni giuste sul piano educativo, anche se emotivamente costose (come spiega un libro utilissimo, Non ho paura a dirti di no, di Osvaldo Poli). Dico sul piano educativo perché di questo parliamo; ma potrei dire sul piano politico o sociale, come la cronaca insegna ogni giorno. La fermezza è invece indispensabile per dare ai giovani dei chiari punti di riferimento e la sicurezza di una guida; e non è affatto alternativa al “dialogo”e alla “comprensione” che molti gli contrappongono, ma ne è anzi la precondizione: nel caos notoriamente non si dialoga. Essendo però l’esatto contrario del “chi me lo fa fare”, la fermezza non è facile. Si deve far fronte alle nostre umane fragilità emotive (i ragazzi mi odieranno? subiranno un trauma? sarò meno popolare della collega di musica?), ma anche alla pressione dei dogmi messi in giro dalla pedagogia permissiva, di cui per fortuna si cominciano a valutare – anche se in ritardo – gli enormi danni. Sul lato della “condotta” l’interdetto è stato violentissimo. La parola stessa e altre come “disciplina”, “punizione”, “autorità”, sono state per decenni innominabili, perché considerate inscindibili da un’educazione autoritaria. In molte scuole si è potuto per anni farne di cotte e di crude, rischiando al massimo un bonario predicozzo. Pende poi sulle valutazioni finali il severo monito “la boc-
ciatura è sempre un fallimento della scuola”, che implicitamente azzera ogni responsabilità dell’alunno. Se questo non bastasse, si devono fare i conti col timore dei sempre più frequenti ricorsi dei genitori. Un vero killer della fermezza, poi, è la paura che l’allievo bocciato “commetta qualche sciocchezza”. E, per dare il colpo di grazia ai docenti, non c’è niente di più efficace di una lettera dello psicologo che consigli “di non interrompere il processo di maturazione in atto”. Si sa del resto che la colpevolizzazione dei docenti, dal sessantotto in poi, ha raggiunto livelli inimmaginabili, tanto da renderli spesso confusi e incapaci di farsi rispettare. Sdoganare la fermezza come qualità insostituibile nella preparazione di ogni educatore è quindi urgente, per dare seguito all’inversione di tendenza inaugurata dal ministro uscente. Ma, come si è chiesto Mario Pirani lunedì scorso, “supererà le elezioni il coraggioso tentativo di riportare la serietà, il merito e l’eguaglianza nelle scuole italiane?”. Eppure anche le graduatorie internazionali dei sistemi scolastici sembrano confermare che una scuola più rigorosa sostiene i giovani nel loro impegno molto più efficacemente della scuola dell’“accoglienza”. I paesi orientali infatti, dove la scuola, severissima, è ancora circondata da rispetto e prestigio e vista come mezzo di ascesa sociale, sono tutti nei primissimi posti. E sarebbe forse utile inserire, nelle analisi dei risultati, il “fattore serietà”, che finora non mi risulta essere stato preso in considerazione. Senza il quale, è bene ripeterlo, ogni riforma della scuola non può che costruire sulla sabbia.
3 aprile 2008 • pagina 13
Ora questo termine si può usare ma non basta se resta soltanto una parola
Merito è bello. Finalmente di Paola Mastrocola a meritocrazia è una faccenda complicata. Da un annetto in qua se ne parla molto, e da ogni parte. Ne parla Montezemolo e ne parla Veltroni. Ne parlano i giornali e gli intellettuali, i presidi e i professori, e persino i sindacati. È diventata una parola molto di moda. Una parola trendy, molto cult. Guai a non dirti meritocratico. Ricordo che anni fa non era affatto così. Era una parola tabù, impronunciabile. E infatti, nessuno la pronunciava.
L
M e l o r i c o r d o m o l t o b e n e perché, per il lancio del il mio romanzo Una barca nel bosco, io cominciai timidamente a usare la parola merito. Era il 2004, e ricordo che mi sembrava ci volesse un bel fegato a usare quella parola così inconsueta. Ma io dovevo farlo, per la storia che raccontavo: la storia di Gaspare, figlio di un pescatore del sud, un giovane bravissimo in latino, meritevole, che vuole studiare per diventare latinista, e che invece sarà schiacciato da una scuola piatta, facile, conformista e mediocre. Alle presentazioni del libro facevo cadere lì la parola merito, e sentivo il tonfo sordo che produceva. Tutti rimanevano piuttosto basiti. All’inizio non ci fu plauso, ma nemmeno biasimo. Forse si cominciava a pensare che meritocrazia era una parola strana e remota, sì, ma non così malvagia.
Non dico che fui la prima ad usarla. Per carità, non voglio arrogarmi nessun vanto. Dico che adesso dovrei essere contenta che tutti parlino di meritocrazia. E invece non lo sono, perché tutti ne parlano e basta ma, secondo me, siamo lontani mille miglia dal realizzarla o anche solo dal volerla veramente. Credo che nessuno voglia per davvero un sistema meritocratico. Meritocrazia vuol dire attribuire valore al merito. Meritare vuol dire essere così bravi da essere ritenuti degni di un premio o riconoscimento o lode. Vuol dire avere un talento e vederlo pubblicamente esaltato. Già, ma il talento è una cosa intollerabile per la maggioranza degli esseri umani. Il talento è scandaloso: non ha motivi, non ha criteri; è dato a qualcuno (pochi) e non è dato agli altri (tanti). Il talento è dunque visto come fortemente discriminatorio, e quindi ingiusto, iniquo: non equo. Il talento innalza, non eguaglia, non parifica. E qui veniamo al punto: noi non siamo capaci ad ammettere e accettare la diseguaglianza, anche qualora la diseguaglianza sia foriera di evidenti vantaggi. E’ chiaro infatti che dovremmo fortemente volere, sostenere e stimare i giovani di talento, perché saranno la base del nostro futuro. Ciò nondimeno non lo facciamo. Noi finora abbiamo molto trascurato i nostri studenti migliori. Li abbiamo tenuti a bagno, livel-
lati, mortificati. La scuola, da quarant’anni a questa parte, è presa da altre priorità, come si dice. E la priorità vincente è sostenere i peggiori, quelli che faticano, che non hanno le capacità, che non s’impegnano, non studiano. Basti pensare alla filosofia del recupero, che dilaga da dieci anni a questa parte: oggi la scuola è soprattutto una valanga di corsi di recupero, ovvero lezioni di ripetizione a getto continuo, destinate a coloro che non raggiungono la sufficienza.
Alt ro c he m er itoc raz ia! I meritevoli intanto cosa fanno? Stanno ai margini, ripetono anche loro, si annoiano e deprimono così la loro intelligenza. È una scuola dell’aiuto, del sostegno perenne, la nostra. Non certo una scuola del merito. Se lo diventerà, sarò la prima a gioirne. Ma davvero mi chiedo come ciò potrà avvenire, quale cataclisma mentale dovrà abbattersi su tutti quelli della mia generazione, perché si produca un tale stravolgimento. Oggi però un segnale in controtendenza forse si scorge: pochi giorni fa sedici professori universitari hanno firmato un manifesto in favore del merito. Sono persone che stimo molto, come Lucio Russo, Gianluigi Beccaria, Giulio Ferroni. Mi fa piacere - anche se non poco mi stupisce… - che questo nobile grido si levi proprio dall’ambiente universitario,
dove finora hanno fatto carriera perlopiù i portaborse, i parenti e i mediocri, ben di rado i migliori! Mi sembra l’inizio di un possibile cambiamento.
Resta l’am bien te di lavor o, presidiato dai sindacati. Anche qui è dura. Se davvero si volesse esaltare il merito, bisognerebbe licenziare i peggiori e premiare i migliori. Saremmo disposti ad accettare una cosa simile, o al primo licenziamento scenderemmo in piazza a difendere per la milionesima volta i diritti del lavoratore? Non so, mi sembra che siamo ancora lontani… Ma intanto è bello che la parola merito si pronunzi sempre più, che circoli, che sia di moda, che rimbalzi di qua e di là. È bello che sia una parola che non si può più non dire. È vero che per il momento è solo una parola. Ma le parole hanno una grande forza, le parole sono le cose! Bisognerà forse aspettare anni. Intanto il mio Gaspare non è diventato latinista e per un po’ non lo diventerà. Forse doveva fare il pescatore, come suo padre. Ha sbagliato a puntare così in alto, a credere che il suo talento sarebbe stato apprezzato dai suoi insegnanti. Sì, ha sbagliato. Ma forse i futuri Gaspari, un giorno, ce la faranno. Se noi, cari compagni della mia generazione postsessantottina, avremo creduto fino in fondo alle parole. Fino al punto di farle diventare vere.
La lettera aperta del “Gruppo di Firenze” ai partiti e ai candidati
Scuola: un partito trasversale del merito e della responsabilità utti, a parole, considerano centrale la scuola per il futuro del paese. I partiti hanno però il dovere di esporre con chiarezza ai cittadini-elettori i loro programmi in materia di istruzione. Programmi che ovviamente saranno in parte diversi; ma che dovrebbero tutti aprirsi con questo preambolo: “Sia le riforme, sia il governo e la vita della scuola a tutti i livelli dovranno ispirarsi ai criteri di merito e di responsabilità”. L’aggiornamento dei programmi, la riorganizzazione dell’istruzione superiore, l’autonomia delle scuole potranno dare risultati effettivi e duraturi solo recuperando e mettendo in pratica questi elementari principi dell’etica pubblica e privata. Al ministro uscente va riconosciuto di aver avviato, almeno in parte, un’inversione di tendenza dopo decenni di lassismo. Noi pensiamo che esista un largo consenso trasversale sulla necessità di una scuola più rigorosa. Ma per questo “partito del merito e della responsabilità”è arrivato il momento di manifestarsi e di assumere precisi impegni di fronte all’elettorato: quello di offrire ai nostri ragazzi una scuola più qualificata ed efficace, ma insieme più esigente sul piano dei risultati e del comportamento; e quello di restituire ai docenti, spesso demotivati e resi scettici da troppe frustrazioni, il prestigio e l’autorevolezza del loro ruolo, intervenendo però con tempestività e rigore nei casi (pochi, ma negativi per l’immagine della scuola) di palese negligenza o inadeguatezza. I dirigenti scolastici infine andranno valutati in primo luogo per la loro capacità di garantire nel proprio istituto professionalità e rispetto delle regole da parte di tutti. Su questi temi ci attendiamo che giungano presto risposte convincenti e annunci di impegni precisi da parte di tutte le forze politiche, insieme a proposte e riflessioni di tutti coloro che hanno a cuore il presente e il futuro della scuola.
T
Gian Luigi Beccaria, Giovanni Belardelli, Remo Bodei, Piero Craveri, Giorgio De Rienzo, Giulio Ferroni, Ernesto Galli della Loggia, Sergio Givone, Giorgio Israel, Mario Pirani, Lucio Russo, Giovanni Sartori, Aldo Schiavone, Sebastiano Vassalli, Salvatore Veca
pagina 14 • 3 aprile 2008
Socrate «La promozione non è un diritto. Chi non sa ripeta l’anno» speciale educazione
«È stato un errore togliere l’esame di riparazione»
colloquio con Mario Pirani di Francesco Lo Dico nni fa mise in guardia, in una serie di articoli lucidi e veementi, dai sentieri disagevoli che si profilavano all’orizzonte del sistema scolastico italiano. Famiglie e docenti gli scrissero a decine manifestandogli piena concordia in merito ai problemi sollevati. Non così ministri, sindacati e pedagogisti, che a uno sprezzante silenzio alternarono, di fronte ad analisi tanto impietose quanto obiettive, le invettive. Eppure, fatti come i la pubblicazione dei dati Ocse e le recenti iniziative, non ultimo l’appello dei quindici docenti universitari del Gruppo di Firenze, sembrano avergli dato ragione. Mario Pirani, giornalista di Repubblica, aveva saputo cogliere prima di tutti i tratti di una catastrofe, quella scolastica, oggi palese e innegabile. Un disastro che, nonostante le sue proporzioni, non sembra aver scalfito più di tanto la pervicace caccia ai consensi delle compagini politiche impegnate nella campagna elettorale. Pirani, visto che la politica scansa il problema scolastico, appare ormai chiaro che la situazione debba essere presa in mano dai docenti. L’appello del Gruppo di Firenze, da lei sostenuto, suggerisce che prima di tutto è indispensabile il ripristino del merito. Il ritorno alla meritocrazia è imprescindibile, e i docenti che hanno aderito al “Partito del merito”, auspicano che il prossimo governo non cancelli alcuni provvedimenti del ministro Fioroni. Misure come la reintroduzione dei membri esterni nelle commissioni di maturità e il ripristino delle prove di recupero
A
a settembre, rispondono a un trentennio di lassismo, e vanno finalmente nella giusta direzione. Se lo studente non riesce a colmare le lacune formative, è necessario che ripeta l’anno. Ed è indiscutibile che gli atti di bullismo, come previsto dal ministro uscente, vengano sanzionati in modo più severo al di là delle ideologie di riferimento. Sul perché si sia arrivati al disastro, il Gruppo di Firenze ha le idee molto chiare. Avere pressoché abolito gli esami di riparazione e avere assunto, in luogo del diritto allo studio, il diritto al successo formativo come principio guida, sono stati gesti di rottura che hanno condannato il nostro sistema di valu-
nazionali. È necessario tornare a una formazione più omogenea, capace di rinnovare l’unità nazionale e garantire a tutti, non solo ai più benestanti come attualmente accade, pari opportunità di base. I programmi nazionali sono stati sostituiti da indicazioni generiche, piene di interstizi nei quali ciascuna scuola ha elaborato offerte formative eterogenee, con conseguenze deleterie sui risultati e sulla valutazione. Quella della valutazione, ossia il che cosa valutare, è una questione molto controversa. L’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, ndr)è senz’altro passibile
«Le responsabilità del ’68 ma non solo. Autonomia scolastica da ridurre» tazione all’inefficacia. Se il successo scolastico si tramuta in un diritto, gli scrutini si muovono entro margini angusti, già predisposti per confermare sempre questo principio, a dispetto dei risultati reali. Complice l’inesausto clima sessantottino che ha livellato l’istruzione verso il basso. Sì, ma c’è dell’altro. Per esempio bisogna ridimensionare notevolmente l’autonomia scolastica, e rimettere al centro , specie per alcune discipline fondamentali come l’italiano, la matematica, la storia e la geografia, i programmi
di modifiche, e ne vanno specificati meglio metodi e obiettivi, ma la valutazione non può funzionare se prima non viene ricondotta a unità l’attuale frammentazione. Tra una scuola del Nord e una del Sud esistono rilevanti differenze, sia nell’offerta formativa che nella maniera di valutare. Ad esempio,il 20 per cento degli studenti del Sud riceve in matematica il giudizio di ottimo, a fronte del 13 per cento di quelli del Nord. Un risultato del tutto opposto a quello messo in luce dai rapporti internazionali, che indicano come i ragazzi del Mezzogiorno abbiano nei
confronti dei loro compagni settentrionali, un divario di 70 punti. A livello di competenze acquisite parliamo di circa due anni di ritardo. Il ritorno dell’esame unico di terza media, a partire dal prossimo 17 giugno,è un primo passo verso l’omogeneità, perchè consentirà di valutare gli scritti di italiano e matematica secondo parametri univoci. Certo è che se non si restituisce autorità agli insegnanti, quello del merito sarà un eterno ritorno, continuamente differito. Si tratta soprattutto di una battaglia culturale. Nel momento in cui l’insegnante rientra in possesso di un paradigma di potere, condiviso e sostenuto anche da presidi e dirigenti,e può quindi assegnare i voti, punire l’indisci-
plina o premiare l’impegno, viene reinvestito di una ritrovata e piena autorità. E magari anche di maggiore prestigio e riconoscimento economico basato sui risultati. Non sarebbe più facile estendere il diritto di scelta educativa alle famiglie? Credo si tratti di operazioni astratte, perché nei fatti la famiglia sceglie la scuola secondo criteri di vicinanza. Occorre innalzare il livello delle scuole e la qualità degli insegnanti, ma bisogna accettare l’idea che ogni istituto avrà sempre insegnanti buoni e altri meno buoni. È inevitabile che accada,e immettere le professionalità dei docenti in un circuito concorrenziale sarebbe una scelta discutibile, che penalizzerebbe i meno abbienti.
3 aprile 2008 • pagina 15
I sindacati hanno gravissime colpe I
L’insopportabile retorica della pedagogia progressista di Domenico Sugamiele uindici intellettuali e docenti universitari non sono i 40mila della Fiat del 1970 ma è, comunque, un buon inizio. Perché la lettera aperta «un partito trasversale del merito e della responsabilità», ampiamente documentato in Liberal del 27 marzo con i servizi di Turco e Novi, è una iniziativa che deve crescere e creare un movimento permanente che si contrapponga alla deriva denunciata. Il «partito per il merito» rappresenta una palla di neve che può formare una valanga per seppellire il potere politico – sindacale che ha condotto la scuola italiana al collasso. Esso, tuttavia, non dovrà sciogliersi dopo le elezioni ma al contrario dovrà cercare «il massimo dell’adesione per avere una voce più forte».
Q
«Sia le rifor me, sia il governo e la vita della scuola a tutti i livelli dovranno ispirarsi ai criteri di merito e responsabilità». Un principio inoppugnabile che in un «Paese normale» potrebbe sembrare anche banale dirlo. In Italia, invece, è un fatto dirompente. Un avvenimento che mette in discussione poteri consolidati che subito hanno manifestato il loro disappunto. Il sindacato, per bocca del segretario della Cisl su Tecnica della Scuola, considera la «lettera aperta» un «attacco al sistema scolastico sferrato da un gruppo di intellettuali e docenti universitari». E si invitano i firmatari a guardare in «casa loro» e a non occuparsi della scuola. Come se la scuola fos-
se «cosa propria» del sindacato. Il documento individua un punto dirimente per la salute del nostro sistema educativo: il merito e la responsabilità. Dagli interventi dei sottoscrittori emergono con chiarezza le cause che sono alle origini del declino del nostro sistema di istruzione, dalla scuola dell’infanzia all’università, e che sono principalmente individuate nel virus del pedagogismo progressista. L’ossessione della riforma, a partire dagli anni Settanta, è stata proprio l’ossessione politico-pedagogica. Un sistema che ha consentito il proliferare di carriere accademiche, amministrativo-sindacali e professionali, generando vere e proprie scuole, vacue di contenuti ma ricche di potere. La retorica della «pedagogia progressista» si è sviluppata con in canoni settari del nemico di classe e del reazionario per chi non fosse d’accordo. È mancata la manifestazione di una posizione che apprezza la tradizione e che indica i pericoli del cambiamento: un conservatorismo che mettesse in guardia sugli aspetti negativi dell’alterazione del rapporto disciplina-educazione-merito. Un posizione dialettica che in Italia ha avuto grande difficoltà ad esprimersi per il clima di continua intimidazione: chi ha manifestato opinioni contrarie a quelle della vulgata progressista è stato tacciato come reazionario e autoritario. Le parole merito e responsabilità comportano, tuttavia, alcune riflessioni. Innanzitutto non è sufficiente pensare che basta nominare ministro «un
pato, in Italia, lo spazio sociale dell’educazione. Ci si potrebbe aspettare dai firmatari, di indubbia matrice liberale, una riflessione sul rapporto tra democrazia e consenso. Perché il consenso a tutti i costi e le mediazioni continue hanno condotto a 40 anni di consociativismo corporativo. Il consenso si è materializzato nel potere politicosindacale e gli aspetti sociali più delicati sono stati delegati allo Stato.
intellettuale al di fuori degli schieramenti». Qualsiasi ministro, se non supportato da un movimento radicato nella società e che condivide questi principi, fallirà come hanno fallito i pochi che hanno tentato cambiamenti radicali. È stato lasciato solo Berlinguer quando ha tentato di introdurre meccanismi di valutazione dei docenti che portassero ad una differenziazione di carriera; è stata lasciata sola la Moratti quando ha riconosciuto un punteggio aggiuntivo ai giovani laureati delle Scuole di specializzazione all’insegnamento. Nel caso della
Moratti neanche i professori universitari che gestiscono le Scuole di specializzazione si sono sentiti in dovere di scendere in campo a difesa di un principio meritocratico che premiava giovani che, dopo la laurea disciplinare, frequentavano due anni di corsi di specializzazione universitaria per l’insegnamento.
N on occ or re un movimento bipartisan ma partisan. Partigiani che intendono battersi per ridare la scuola alla società e sottrarla alle burocrazie amministrativo-sindacali e alla politica. Lo stato ha occu-
È evidente che se si vuole far funzionare un sistema democratico, alcuni aspetti devono essere sottratti alla decisione politica, riconoscendo un’autorità non fondata sul consenso ma sul merito. Se nella scuola si vuole il merito e la responsabilità bisogna, prima di ogni altra cosa, mettere al bando qualsiasi forma di sanatoria per docenti e dirigenti scolastici (con la legge Finanziaria del 2007 Fioroni ha assunto anche dirigenti privi della laurea) e porre all’ordine del giorno il tema della carriera degli insegnanti, sottraendo alla contrattazione lo stato giuridico, il sistema di formazione iniziale e in servizio, il sistema disciplinare e di valutazione, le modalità di reclutamento e lo sviluppo della carriera.
pagina 16 • 3 aprile 2008
speciale educazione
Socrate
LETTERA DA UN PROFESSORE
SCUOLA, AVAMPOSTO DELLA FOLLIA di Giancristiano Desiderio a scuola italiana è caratterizzata dalla faciloneria. Tutto è facile.Tutto è raggiunto senza sforzo. La fatica è stata abolita per le legge. Il “debito formativo”è nei fatti la legalizzazione della promozione politica. Il ministro Fioroni, timidamente, molto timidamente, ha cercato di metterci una pezza con i corsi di recupero. In pratica ha avuto paura di fare ciò che un ministro serio di una scuola seria deve fare: ripristinare gli esami di riparazione a settembre. A giugno non sei promosso; sei rimandato a settembre: se ripari bene, altrimenti ripeti l’anno. Non è mica un male o un delitto. E’ addirittura un bene. Eppure, i teorici della scuola facile a tutti ci costi, i pedagoghi del divieto di bocciare ritengono che gli esami a settembre e la bocciatura (eventuale) possano essere una trauma. Davide Miccione lo dice bene nel suo libro “Guida filosofica alla sopravvivenza” (Apogeo) in mezza paginetta che dedica all’argomento. La scuola non deve mai mettere in difficoltà in alcun modo: “Mai compiti difficili, mai bocciare né rimandare, mai pagare seriamente per i propri errori (disciplinari o di studio), né vi è più alcuno che abbia il coraggio di immaginare e discutere gli aspetti positivi della bocciatura come incontro con la realtà e con le conseguenze delle proprie azioni”. Ecco, la scuola che dovrebbe essere anche scuola di vita e, quindi, capace
Viva gli insegnanti nostalgici «Mi dicono che sono un’insegnante nostalgica. Mi dicono tante cose che non mi piacciono: che sono un’insegnante vecchia, un’insegnante snob, un’insegnante tradizionale, un’insegnante ‘resistente’ (al nuovo, credo). Tra le cose che mi dicono, ‘insegnante nostalgica’ è quella che mi piace di più». Paola Mastrocola, professoressa e scrittrice che ha all’attivo svariati premi tra i più prestigiosi della narrativa italiana, affronta in pagine dense di brio e lungimiranza il tema della catastrofe educativa nel suo Tra le prime a intuire quanto il pedagogismo esasperato e il livellamento della qualità verso il basso stessero spingendo la formazione lungo una china senza fine, Paola Mastrocola analizza pasticci vecchi e nuovi di riforme scriteriate che hanno messo al centro l’allievo e il processo di apprendimento, a scapito dell’insegnamento, aborrito perché inteso come un dispositivo autoritario. «L’insegnate è diventato a tutti gli effetti, aanche linguistici, un’altra cosa: una funzione». Eppure, spiega l’autrice, la soluzione sarebbe a portata di mano. Bisognerebbe tornare a una scuola «in cui il docente insegna e l’allievo impara, molto semplicemente». La scuola raccontata al mio cane Edizioni Guanda, pagg., 191 • 12 euro
L
di trasmettere - se insegnare è più difficile - il senso della realtà, è invece il luogo in cui la realtà e il suo senso vanno in vacanza. Come se la scuola non sapesse più cos’è la realtà. La scuola è da questo punto di vista, dice bene Miccione, “l’avamposto della follia”. La scuola uccide la realtà. Non a caso finisce su You Tube. La scuola è un mondo virtuale, mentre dovrebbe essere un mondo virtuoso o, almeno, della virtù - dell’areté - dovrebbe conservare il senso. La scuola dovrebbe essere una prova. Dovrebbe insegnare l’abitudine a misurarsi con le
la recensione
prove, gli esami, il rigore. È verissima la frase di Eduardo: gli esami non finiscono mai. Ma se è vera, la scuola dovrebbe dare un metodo per prepararsi agli esami della vita. La scuola altro non è che metodo. Invece, accade l’inverso: si trasmette l’abitudine alla facilità ossia all’assenza di metodo. Non è un caso se gli alunni arrivano all’esame di stato impreparati (metodicamente impreparati, nel senso che non si sanno preparare) e non è un caso che ogni anno a fine anno scolastico l’Italia intera viva uno psicodramma per la commedia degli esami.
edizioni
Accorato, a tratti brutale, colmo di suggestioni. Scritto ormai dieci anni fa dal professor Giovanni Pacchiano, Di scuola si muore mantiene intatto ancora oggi il suo forte spirito critico. Smarrita ormai come un’antica superstizione il rispetto verso l’istruzione, la scuola raccontata da Pacchiano è un teatrino in cui si agitano valori legati al business e alla volgarità di una formazione tramutata in cabaret. Nozioni ridotte a spot, mentalità manageriale e risultati a tutti i costi. E a margine, a far da tappezzeria alla scuola dello spettacolo, i docenti. Di educazione, responsabilità e merito, nella scuola di Pacchiano non c’è più neanche l’ombra. Di scuola si muore Feltrinelli pagg 248 • 7,70 euro Sospinta verso un’analisi tecnico formale monomaniacale, la letteratura raccontata dall’autore Tzvetan Todorov, e l’esempio più dolente di quanto gli ultimi ritrovati analitici sperimentati a scuola sugli studenti, li abbiano allontanati dal piacere della lettura e della scoperta, libera da griglie e complicati labirinti formalizzanti, della pagina scritta. Dimenticata l’affabulazione, e la voce autorevole con cui ciascun autore si appella ai giovani in attesa di essere raccolta, la letteratura, tramortita tra i banchi, è diventata per chi studia, lettera morta. La letteratura in pericolo Garzanti pagg. 84 • 8,80 euro
NOVITÀ IN LIBRERIA
ROBERT CONQUEST I DRAGONI DELLA SPERANZA Realtà e illusioni nel corso della storia
“
Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein
C A M PA G N A
„
ABBONAMENTI
2008 ❏ semestrale 65,00 euro invece di 127,00 euro
❏ annuale 130,00 euro invece di 254,00 euro
❏ annuale sostenitore 200,00 euro invece di 254,00 euro Modalità di sottoscrizione dell’abbonamento - CONTO CORRENTE POSTALE: occorre versare l’importo sul c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl”. - BONIFICO BANCARIO: è necessario versare la somma al seguente riferimento bancario: “Banca Carim - Filiale di Roma - Via Po n.160 - c/c n° 7473344, intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” IBAN: IT 31 I 06285 03200 009007473344
LA FORZA
In entrambi i casi la quietanza del pagamento deve essere inviata al seguente numero di fax: 06-69922118 Per ulteriori informazioni contattare il nostro ufficio abbonamenti al numero di telefono 06.69920542 Sito internet: www.liberal.it. Email: info@liberalfondazione.it
DELLE IDEE
pagina 18 • 3 aprile 2008
economia I segretari generali dei tre sindacati confederali: da sinistra, Raffaele Bonanni (Cisl), Luigi Angeletti (Uil) e Guglielmo Epifani (Cgil). In basso, Giorgio Cremaschi, leader di Rete 28 aprile, corrente massimalista dei metalmeccanici della Fiom
Epifani, Bonanni e Angeletti partecipano a un incontro elettorale di Veltroni e i duri e puri della Fiom si ribellano
Cgil spaccata sul sindacato unico del Pd di Vincenzo Bacarani
ROMA. Questa volta hanno deciso di uscire ufficialmente allo scoperto: Cgil, Cisl e Uil appoggiano il Partito democratico sperando in una sua vittoria per poter contare su un governo amico. Il grande “passo in avanti”– che sta alimentando polemiche soprattutto in Cgil – è stato compiuto a Brescia con protagonisti i tre leader delle confederazioni (Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti) sul palco con Veltroni. Se è risaputo che il segretario generale della Cgil è riuscito negli ultimi tempi a modellare una segreteria a immagine e somiglianza del partito veltroniano, la netta scelta di campo di Bonanni e Angeletti lascia perplessi. E alcuni vedono il rischio di un appiattimento sindacale sulla linea politica del Pd. Non sono mancate reazioni negative, soprattutto dall’ala più massimalista della Cgil che ha sempre voluto distinguere in qualche maniera le questioni sindacali, cioè di vertenze e di rivendicazione dei diritti, dalle manovre di partito. «Ogni cittadino», dice Giorgio Cremaschi, segretario nazionale Fiom-Cgil e leader della componente di sinistra radicale Re-
te 28 aprile, «ha diritto a far campagna elettorale e questo vale anche per i sindacalisti. Quando però, a pochi giorni dal voto, i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil partecipano a Brescia a una manifestazione elettorale con il candidato premier del Partito democratico, l’autonomia e l’indipendenza del sindacato subiscono un danno».
Perché un danno? Qual è il rischio che secondo Cremaschi si cela dietro queste manovre? «C’è chi pensa nei partiti e nelle organizzazioni sindacali», afferma il segretario Fiom, «di costruire il sindacato unico del Partito democratico. E chi pensa questo, sappia una cosa: questa ipotesi sarà sconfitta. In tutta risposta, nella Cgil, sorgerà una così diffusa opposizione a tale progetto, da renderlo impraticabile». Ma che le manovre, soprattutto all’interno della più grande organizzazione, per creare un sindacato simpatizzante del Partito democratico fossero in atto, era già noto da tempo. La pattuglia del Pd in segreteria ha già svolto un ruolo non indifferente nella trattativa sul welfare tra governo e sindacati del luglio scorso, arrivando a condizionare il segretario ge-
conosciuto anche la fabbrica), sono i più veltroniani della segreteria nazionale. A questi si è aggiunto anche Paolo Nerozzi, che addirittura ha rotto con la Sinistra arcobaleno per candidarsi al Senato per il Pd.
Il timore è quello di tornare a essere sciacciati dal governo amico. Cremaschi: «Il progetto non ci piace. Faremo le barriccate» nerale Guglielmo Epifani che ha firmato un’intesa da egli stesso condivisa a metà.
Marigia Maulucci, Achille Passoni, Nicoletta Rocchi e Mauro Guzzonato laureati e provenienti da un sindacalismo di seconda linea (escluso Guzzonato che è stato leader dei metalmeccanici liguri e che ha
Sulla questione del rapporto sindacati-partiti interviene anche il senatore dell’Ulivo, Giorgio Benvenuto, presidente della commissione Finanze ed ex leader della Uil. «Oggi», spiega, «il sindacato è cambiato. Non è più come una volta, quando la Uil aveva riferimenti con il partito socialista e il partito repubblicano, la Cisl con la Dc e la Cgil con il Pci e in parte con il Psi o il Psiup. Questi legami si sono ormai dissolti». Sarà, intanto, sembra che qualcuno cerchi di farli rientrare dalla finestra e tutti nella finestra di Veltroni: come lo stesso Nerozzi o il delegato Uil della Thyssen di Torino. «Non è propriamente vero», ribatte Onorio Rosati, segretario della Camera del lavoro di Milano, «In Sinistra arcobaleno ci sono politici che sono stati sindacalisti. E poi vedo quella di Cremaschi come una polemica strumentale. La stragrande maggioranza del sindacato non la pensa come lui». Rosati ritiene che non ci sia al-
cun disegno per creare un sindacato unico del Pd: «È un’immagine caricaturale. Il sindacato è una rappresentanza sociale, non politica. C’è un’oggettiva convergenza, questo sì, con alcune impostazioni sui temi sociali del Pd. Non un appiattimento. La manifestazione di Brescia è stata un’occasione per conoscere in maniera più approfondita le proposte del candidato Veltroni».
Secondo il segretario della Camera del lavoro di Milano, «la Cgil, come la Cisl e la Uil, si deve confrontare con tutti. Anche se le confederazioni non possono farlo con quei partiti che considerano le organizzazioni sindacali degli ostacoli e non degli interlocutori». Ma la Rete 28 aprile non ritiene sufficienti queste spiegazioni e in un volantino che viene distribuito in questi giorni nelle fabbriche pone due domande: «Non è ora che il sindacato si sganci definitivamente da ogni rapporto subalterno con gli schieramenti politici e sia davvero indipendente, lottando quando c’è da lottare chiunque sia al governo? E non è ora che siano le lavoratrici e i lavoratori con un’autentica democrazia sindacale a decidere sulle piattaforme e sugli accordi?».
economia
3 aprile 2008 • pagina 19
Il gotha dell’imprenditoria italiana ricevuta con tutti gli onori nella dacia presidenziale di Putin
Russia-Italia,patto d’acciaio sul business d i a r i o
di Giuseppe Latour
d e l
g i o r n o
Catricalà: in 110mila a rischio per mutui Emergenza mutui anche in Italia. Il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, ha denunciato che sono 530mila le famiglie italiane in difficoltà per pagare le rate. E di queste 110mila sono a rischio insolvenza. Catricalà si è lamentato dell’assenza di strumenti coercitivi e sanzionatori per contrastare il non rispetto delle norme su estinzione e portabilità dei mutui. Replica Giuseppe Zadra, direttore generale dell’Abi: «La lentezza nel far funzionare in maniera adeguata la volontà politica che si è espressa con la legge non è dovuta a un atteggiamento doloso del sistema bancario».
Zuccoli: Edison può guardare all’estero Il consiglio di amministrazione di Edison, utility controllata da Edf e A2A, ha confermato Giuliano Zuccoli presidente e Umberto Quadrino amministratore delegato. In Cda entra anche Pierre Gadonneix (numero uno di Edf). L’assemblea ha ha approvato il bilancio 2007, che è stato chiuso con un utile consolidato di 497 milioni di euro, e ha stabilito di distribuire un dividendo di 0,05 euro per azione ordinaria. Zuccoli ha spiegato che, visto il rapporto fra indebitamento e mezzi propri, «la nostra posizione finanziaria è tranquilla per eventuali attività di espansione all’estero».
La Ue in allarme per l’inflazione Il presidente uscente della Russia, Vladimir Putin, grande artefice degli ottimi rapporti economici tra il suo Paese e l’Italia. In alto: a sinistra, Giovanni Bazoli (IntesaSanpaolo) e in basso, Paolo Scaroni (Eni)
ROMA. Parte da Novo-Ogarievo, la residenza presidenziale di Vladimir Putin alle porte di Mosca, il nuovo corso delle relazioni economiche tra Russia e Italia. È qui che ieri è stata ricevuta una delegazione di 14 tra dirigenti di banche e imprese italiane. In altre parole, tutto il meglio delle 200 imprese italiane e delle 800 joint venture italo-russe presenti nel Paese.
E c’erano tutti: dal presidente designato di Confindustria, Emma Marcegaglia, agli amministratori delegati di Eni ed Enel, Paolo Scaroni e Fulvio Conti, passando per il presidente di IntesaSanpaolo Giovanni Bazoli, il vicepresidente di Unicredit Roberto Nicastro, e il numero uno di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini. Ma anche l’Ad di Indesit, Marco Milani, Gianfelice Rocca della holding di controllo del gruppo Techint e Alessandro Castellano, Ad di Sace. Oltre, ovviamente a Luisa Todini, presidente del Forum Italia-Russia per la parte italiana. Che nel suo intervento ha evocato un futuro di «virtuosa interdipendenza». Una delle chiavi della crescita al ritmo dell’8 per cento della Russia di Putin è stato il «raddoppio degli investimenti stranieri». Oltre all’apertura verso alcune presenze, ben selezionate. Grazie a questo atteggiamento, l’export italiano in Russia ha raggiunto i 10 miliardi di euro con una crescita del 3 per cento e l’import
ha toccato i 14 miliardi di euro con un incremento del 5,6. L’interscambio complessivo è lievitato del 12,7 nell’ultimo anno.
Le grandi manovre, però, devono ancora arrivare. E coincideranno con i Giochi olimpici di Soci nel 2014 e, ovviamente, con le prossime mosse della battaglia del gas. Anche se l’Italia si trova, almeno per ora, dall’altra parte della barricata rispetto a Putin e ai suoi. Una situazione in rapido cambiamento, vista la recente politica messa in atto da Paolo Scaroni, soprattutto
Eni, Enel, Unicredit, Intesa e Finmeccanica: tutti alla ricerca di grandi affari nell’energia e nella gestione e negli appalti dei Giochi olimpici del 2014 a Soci con Southstream. Il nuovo gasdotto, infatti, collegherà la Russia all’Europa meridionale e, ovviamente, all’Italia. E i primi grandi movimenti sono già iniziati. Guarda caso, proprio con l’energia. Enel, infatti, ha annunciato investimenti per 2,2 miliardi di euro nei prossimi cinque anni, aumentando di circa un terzo il proprio impegno e avviando il dialogo su “progetti comuni” con il
colosso Gazprom, eventualmente anche in Paesi terzi. Novità anche nel settore metallurgico. Emma Marcegaglia ha annunciato una joint venture nella quale investirà circa un miliardo di euro con Metall-Invest. «Stiamo trattando, ma i presupposti sono buoni», ha nicchiato, anche se l’iter delle trattative per una produzione congiunta di tubi in acciaio inossidabile sembra già a buon punto. Sempre Marcegaglia, ma come presidente di Confindustria, ha anticipato: «Penso seriamente di organizzare la prima missione di Confindustria in russia quando mi insedierò come presidente. E spero di poterlo fare entro fine anno». Un impegno rivolto principalmente alle Pmi, come sembra aver capito anche Intesa. Che in queste ore sta chiudendo per la nascita di una banca di investimenti italo-russa, rivolta principalmente ai più piccoli. Nel progetto rientreranno anche i colossi italiani dell’energia presenti in Russia, oltre a Gazprom e, per la parte bancaria,Veb. Nel mirino, però, entreranno anche l’appetitoso mercato dei mutui russi e «i grandi progetti di investimento, con la prospettiva di entrare anche nei mercati cinese e indiano», come ha annunciato Serghei Iastrzhembski, rappresentante di Putin presso la Ue. Entro la fine dell’anno il progetto partirà in Italia, dove verrà probabilmente collocato il quartier generale.
L’Unione europea è preoccupata per la nuova fiammata dell’inflazione, al 3,5 per cento a marzo. Il commissario agli Affari economici, Joaquin Almunia, ha parlato di «brutti dati, brutti risultati. Aumentano le nostre preoccupazioni». La Ue ha chiesto ai governi e alle parti sociali dei 25 maggiore rigore per «evitare gli effetti di secondo giro», ossia di innescare la spirale prezzi-salari.
Moto: immatricolazioni in forte calo Marzo segna una forte battuta d’arresto non soltanto per le auto. In flessione anche il mercato delle due ruote: nel mese appena trascorso le immatricolazioni sono state 46.317, circa 11.500 unità in meno rispetto a un anno fa. Colpiti soprattutto i veicoli sopra i 5O centimetri cubici (-22,9 per cento rispetto al 2007), mentre i ciclolmotori (con 9.314 pezzi) registrano un calo contenuto: 500 unità. A dare questi numeri Confindustria-Ancma. Il suo presidente, Guidalberto Guidi, nota: «La congiuntura economica non ci ha aiutato: i clienti al momento preferiscono contenere le spese».
Fmi: cresce il pericolo recessione È pessimista il Fondo monetario sull’economia mondiale nel 2008 tanto da portare al 25 per cento le possibilità di una recessione globale. L’organismo, nelle sue previsioni di primavera, ha tagliato dal 4,1 al 3,7 per cento la crescita del Pil globale nel 2008, rilevando il ritmo di incremento più basso dal 2002. Quest’anno gli Usa si dovrebbero fermare allo 0,5 e allo 0,6 nel 2009. La zona dell’euro, dove si prevedono allentamenti della politica monetaria, dovrebbe chiudere il 2008 all’1,3 per cento.
Sportswear, Geox sfida Nike e Adidas Geox entra nel campo d’azione dei colossi Nike e Adidas ed entra nella produzione e nella commercializzazione delle scarpe da corsa e palestra con un apposito modello. Venduto all’inizio soltanto in italia, sarà nell’arco di pochi anni distribuito in tutto il mondo. L’azienda ha annunciato altre calzature per diversi sport, tutte caratterizzate dalla traspirabilità delle suole. Questo comparto ha registrato nel 2006 un giro di affari complessivo di 24,6 miliardi di dollari, nel quale Nike e Adidas hanno quote di mercato pari al 38 e al 23 per cento.
pagina 20 • 3 aprile 2008
cultura
“L’anima e il suo destino”, il bestseller di Vito Mancuso, concilia fede e sapere
Quando la Chiesa tende la mano alla scienza di Sergio Valzania on capita spesso di trovare un libro di teologia in testa alle classifiche di vendita e ancora più raro è il caso nel quale un tale successo arrida a uno scritto in difesa della religione cristiana, o almeno che si dichiari orientato in questo senso. Eppure è questa la vicenda dell’Anima e il suo destino di Vito Mancuso. Si tratta quindi di un evento letterario e spirituale da considerare con attenzione e rispetto. Il primo elemento da sottoporre ad analisi e da considerare con totale favore ritengo sia il progetto stesso che sta alla base della ricerca di Mancuso. L’autore esplicita fin dall’inizio del volume la sua intenzione di riconquistare alla teologia una centralità nel dibattito culturale. Egli ricorda infatti che si tratta di una disciplina che nel passato godeva di una posizione dominante nella sviluppo della riflessione umana. Durante la tarda classicità, il medioevo e la modernità, lo sguardo della teologia condiziona i risultati della ricerca intellettuale in una condizione di confronto aperto, soltanto di recente trasceso in rivalità violenta con la scienza. Lo studio dei fondamenti della natura non procedeva allora disgiunto da quello della radici dell’essere, la cui ricerca si basava sullo studio delle scritture. Secondo Mancuso oggi è l’incapacità dei teologi a confrontarsi con i risultati conseguiti dalla ricerca scientifica e a tenerne conto nelle loro indagini, come invece seppero fare pensatori come sant’Agostino e soprattutto san Tommaso, a spingere la teologia in una sorta di angolo buio della conoscenza, dal fondo del quale risulta impossibile mandare messaggi che incidano nel profondo sul sentire dell’uomo contemporaneo. Perciò l’autore si impegna a sottoporre alcuni dogmi della Chiesa, come quelli relativi alla formazione dell’anima o alla resurrezione dei corpi, a una riconsiderazione fondata sul rispetto delle attuali conoscenze scientifiche. Il progetto presenta un fascino notevole e dispone di un orizzonte largo di ambizioni. I risultati conseguiti però non sembrano mantenere le promesse iniziali, né manifestano una particolare attualità tematica. Oggi sembra più necessaria una riflessione sulle possibilità della genetica o sul ruolo della donna nella Chiesa che sulle modalità di esistenza dell’inferno. Una critica molto puntuale sul lavoro di Mancuso è stata inoltre quella relativa all’impoverimento dei fondamenti del messaggio cristiano che ne risulte-
N
rebbe. Sull’Osservatore Romano, Bruno Forte ha notato che L’anima e il suo destino propone una visione della salvezza che non ha al proprio centro l’incarnazione, il sacrificio e la resurrezione di Gesù, e a questo si potrebbe aggiungere che il testo nega esplicitamente la presenza e l’azione costante e concreta di Dio nel mondo, che pare piuttosto lasciato a se stesso in uno sviluppo meccanico di natura del tutto materialistica.
A mio giudizio la difficoltà a trovare punti di sintesi in una ricerca di questa natura si trova più sul versante della scienza che su quello della teologia, almeno se il riferimento dell’analisi è rappresentato dalle cosiddette scienze esatte. È infatti il loro paradigma, nelle forme nelle quali si è accreditato
Spiegare il mondo rinunciando al concetto di Dio, esclude dall’orizzonte razionale realtà come l’amore e l’amicizia che sfuggono a calcoli e teorie nella conoscenza contemporanea, a rifiutare ogni possibile incontro con le istanze della riflessione teologica. Il fine stesso che la scienza moderna si è dato è quello di spiegare il funzionamento del mondo fisico senza far uso del concetto di Dio, rifiutando che esista qualche mistero che non possa es-
sere svelato, almeno in una prospettiva di lunghissimo periodo. Perseguendo questo progetto la scienza ha escluso dal proprio ambito di ricerca, e quindi ha posto in un certo modo fuori dal mondo, tutte le realtà che sfuggono alla misurazione, all’analisi strumentale. Il progetto ha finito con il dichiarare non scientifica ogni riflessione di estetica, sul bello e sulla natura dell’arte, di linguistica e di letteratura, di etica e di ricerca della felicità, di presa in considerazione dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà umana. Quando la teologia insegue le scienze esatte sul loro terreno si trova quindi di necessità a sacrificare proprio gli aspetti dell’esperienza umana che prima giustificano e poi rendono necessaria la sua esistenza e la sua ricerca. Insomma, non si deve dimenticare che le scienze esatte, ossia quelle legate al filone fisico-matematico, numericoquantitativo, non esauriscono lo scibile umano con i loro strumenti di indagine. Al contrario, si limitano programmaticamente a studiarne una parte ristretta. La più facile da indagare e forse la meno interessante. Del resto, se si è ormai dissolta la vecchia bipartizione tra fisica, che si occupa del visibile e del misurabile, e metafisica, che invece studia ciò che sfugge ai nostri sensi, è entrata in crisi anche la pretesa positivista di considerare scientifico solo il risultato ottenuto sulla base di misurazioni e di esperimenti. Oggi siamo consapevoli del fatto che il diritto, la storia, la linguistica, la comunicazione, la sociologia, l’antropologia, ossia quell’insieme di saperi che vengono raggruppati sotto la definizione di scienze umane, hanno una dignità propria e dispongono di autonomia assoluta rispetto all’ambito del misurabile e dello sperimentabile in laboratorio. Proprio in questi contesti l’uomo ritrova la complessità della sua ricchezza interiore e la stimolante problematicità del suo essere. Tanto esso viene impoverito se semplificato e ridotto in abito fisico-materialistico, tanto recupera in profondità spirituale e imprevedibilità di comportamenti ogni volta che l’analisi si incentra sulla sua storia, le trasformazione del suo modo di vivere e di pensare, la varietà delle forme del suo rapporto con il mondo che lo circonda.
Forse è questo l’ambito scientifico nel quale è più fecondo, più opportuno, e più utile, che la teologia sviluppi un confronto fecondo con la ricerca contemporanea. In questo senso vor-
La Resurrezione di Cristo di Piero della Francesca, opera conservata alla Pinacoteca Comunale di San Sepolcro. Dipinto fra 1463 e il 1465, l’affresco era destinato, nelle intenzioni dell’autore, ad assumere un significato religioso non privo di implicazioni civiche. La figura del Salvatore, posta al centro della composizione, divide il paesaggio in due metà contrapposte: brullo alla sua sinistra, ridente a destra
rei proporre un esempio che ritengo illuminante. Non ci sono dubbi che il maggior contributo alla formazione dello statuto e dei principi della scienza delle comunicazioni provenga dall’opera di Marchall McLuhan, lo studioso canadese che propose la formula diventata celebre in base alla quale «il mezzo è il messaggio». Ebbene, anche senza una riflessione approfondita si possono cogliere le implicazioni teologiche, e cristologiche, che una ta-
cultura
3 aprile 2008 • pagina 21
di ogni media sulla società dipende molto più dalla sua esistenza e dal suo funzionamento all’interno del corpo sociale che dall’uso che si ingegnano a farne coloro che materialmente lo gestiscono. La stampa a caratteri mobili suscitò lo scisma protestante, lo sviluppo delle lingue nazionali, determinò l’affermazione del nazionalismo e la crisi dell’impero indipendentemente da quello che venne scritto nei libri pubblicati nel Quattro e nel Cinquecento. Le ferrovie fecero sorgere le grandi città moderne senza che coloro che le costruirono avessero progettato questo risultato. Allo stesso modo radio, televisione, telefoni e telefonia mobile, riproduzione musicale, computer e internet cambiano le nostre vite in maniera non collegata alla qualità dell’offerta televisiva o all’intelligenza delle telefonate che facciamo. Da un punto di vista più largo, teologico e cristologico, «il mezzo è il messaggio» ci ricorda la modalità prima dell’essere dell’universo nel quale viviamo, fondato per i credenti sul mistero dell’incarnazione. Il Cristo è infatti nello stesso tempo il mezzo della salvezza e il suo annuncio. Questa è una comunicazione che nei Vangeli, ossia nella buona novella, viene ripetuta in un numero strabocchevole di occasioni. Gesù non si stanca di ripetere di essere «la vita, la verità e la
Il messaggio di Cristo non si sovrappone ai dati certi ma ci avvicina a una scoperta più profonda e matura dell’universo in cui viviamo
le proposizione comporta. Ed è evidente che McLuhan ha sviluppato in parallelo un percorso di approfondimento religioso e di ricerca scientifica. Nella sua esperienza umana le due vicende sono solidali. È proprio in ambito religioso, cattolico, che lo studioso ha maturato le proprie idee. Anche se non ha mai voluto esibire in modo ostentato il proprio itinerario religioso, McLuhan incentrò la sua vita, e le sue indagini, prima letterarie e poi sul-
la comunicazione come fenomeno complessivo, sulla sua esperienza di fede. Nato in una famiglia protestante si convertì al cattolicesimo e per tutta la vita fu un assiduo, anche se discreto, praticante. A chi gli ricordava l’abitudine ad assistere quotidianamente alla messa, rispondeva in modo sbrigativo che si trattava di un costume che poteva rispettare con comodità, dato che la cappella del campus si trovava giusto lungo il percorso che do-
veva fare per recarsi a lezione. «Il mezzo è il messaggio» non può quindi essere considerato come una formula semplificatoria per riassumere un concetto tecnico relativo a un sapere marginale. Al contrario è il modo per riproporre in un ambito inatteso un carattere fondante della nostra esperienza umana, partecipe in modo decisivo di quella religiosa. In termini di scienza della comunicazioni «il mezzo è il messaggio» significa che l’effetto
via», «l’acqua di salvezza», colui «per mezzo del quale tutte le cose sono state create». Allora anche quando si tratta di media, la cui definizione McLuhan tende a dilatare fino a comprendere quasi ogni parte del mondo con cui l’uomo entra in contatto, e delle loro modalità di funzionamento, non possiamo stupirci nello scoprire che il loro essere profondo e il modello del loro agire corrispondono al grande progetto, alla pietra angolare di tutta la realtà. «Il mezzo è il messaggio» è l’eco nel contesto della comunicazione che ci proclama l’evento dell’incarnazione come la radiazione di fondo del cosmo ci conforta nella teoria del big bang. Credo che seguendo percorsi di questa natura, aperti alle intuizioni più illuminanti della ricerca contemporanea relativa all’uomo e alle caratteristiche del suo vivere e agire nel mondo, piuttosto che rimanere prigionieri del materialismo che sembra la cifra condizionante, e forse in questa fase del sapere necessaria al progresso delle scienze esatte, sia possibile sviluppare una riflessione teologica moderna, vitale e collegata con le frontiere del sapere contemporaneo. Una teologia che sia soprattutto utile all’uomo, al cui servizio deve sempre sforzarsi di rimanere legata, capace di fornire strumenti utili per il suo agire nel mondo contemporaneo e per godere in forma piena i doni che riceve da Dio.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Giusto vietare i telefonini dentro i seggi elettorali? È UN’OFFESA GRAVE A NOI E AI POLITICI, DOVREMMO TUTTI VERGOGNARCI UN PO’ Ormai è addirittura certificato dallo Stato stesso: l’Italia è un Paese di corrotti e corruttori. Con il cellulare si agevola il voto di scambio - esistono casi concreti - e dunque via i telefonini dalle urne. Proprio come si fa con gli studenti agli esami. Diciamo la verità: un po’ dovremmo vergognarci. E’ la patente ammissione che lo Stato si limita a reprimere perché non sa educare. Peggio ancora: è l’ammissione che al nostro Parlamento vengono candidati fior di mascalzoni, personaggi che sono pronti a comprare il voto e che parte dell’elettorato è disposto a farsi comprare. Non discuto sull’opportunità del provvedimento, la realtà è quella che è, però mi vergogno un po’.
Alessandro Raci - Roma
IL PROVVEDIMENTO IMPEDIRÀ ALMENO IL CONTINUO VERIFICARSI DEL VOTO DI SCAMBIO Sarà dunque vietato andare alle urne accompagnati dal fido telefonino. Finalmente ci sarà un momento nella giornata in cui non saremo assillati dal trillo del cellulare. Ma è giusto il divieto? Io penso proprio di sì. E’ stato accertato che nelle precedenti elezioni alcuni elettori filmavano la scheda già votata per dimostrare,
al padrino protettore, la fedeltà alla parola data. Insomma la prova che il voto di scambio è una realtà e anche diffusa. Soprattutto là dove camorra, ’ndrangheta e mafia sono affermate. Certo, sempre di repressione si tratta, non si può infatti parlare di prevenzione quando non esiste la volontà di non violare. Ma insomma qualcosa bisogna pure fare per contrastare un reato.
Fabio De Clesis - Cagliari
IL DIVIETO VIOLA I NOSTRI DIRITTI, TROVIAMO UNA SOLUZIONE ALTERNATIVA Assolutamente no. Trovo anzi offensivo che ci venga impedito di esercitare un diritto solamente perché alcuni, anni addietro, hanno violato la legge ad esempio fotografando la propria preferenza sulla scheda elettorale. Certo, difficile trovare una soluzione alternativa al divieto, visto che non è possibile nemmeno accompagnare gli elettori all’interno delle cabine elettorali. Ma francamente credo che questo assurdo provvedimento rappresenti un’offesa, un vero e proprio insulto sia a noi cittadini onesti (e credo, fortunatamente, che siano la maggioranza della popolazione), sia ai politici candidati nelle diverse liste, tacciati in questo modo di esser, se non corrotti, quanto meno corruttibili attraverso così detto voto di scambio. Cordialità.
Luisa Bordasco - Verona
LA DOMANDA DI DOMANI
Firenze: pugno di ferro contro i mendicanti, siete d’accordo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
NON CREDO SIA DEL TUTTO SBAGLIATO, COME SEMPRE CI ADEGUEREMO SENZA PROTESTARE Non credo sia del tutto sbagliato. Capisco possa dar fastidio, ma in fondo il provvedimento ricalca un po’ altri fastidiosi ma comprensibili divieti, come ad esempio quello di usufruire a scuola del libro di questa o quella materia durante un relativo compito in classe. Oppure quello di avere con sé proprio il famigerato telefonino durante lo svolgimento di un esame di Stato di una qualunque professionalità, come gli avvocati o i giornalisti. Certamente ci sono le dovute differenze, ma se questo può contrastare la violazione della legge, che prevede la segretezza del voto, ben venga il divieto. Tanto siamo in Italia: ci adegueremo presto senza troppo protestare.
VOTO UTILE, VOTO DISGIUNTO E VOTO INTELLIGENTE Più si avvicina l’apertura delle urne, più si odono appelli al voto utile. E’ iniziato come un mormorio sommesso, è proseguito in crescendo, ed adesso è uno dei temi dominanti della campagna elettorale. Purtroppo, perché i problemi degli italiani sono ben altri. Chi sono le vestali del voto utile? Tutti i Veltrusconi, originali o d’imitazione, e naturalmente le loro “vallette” e camerieri con contorno di nani e ballerine. La litania, ripetuta a gran voce da Berlusconi (Veltroni, furbescamente, sussurra) è sempre la stessa: è inutile votare partiti che non raggiungeranno il quorum. Ma poiché l’assalto banditesco alla diligenza Udc è fallito miseramente, perché lo scudocrociato tiene botta e naviga ben oltre lo scoglio del 4%, ecco che dagli “amici” del centro-destra parte un nuovo attacco: il voto disgiunto. Cosa dicono gli strateghi di Arcore? Che è inutile votare al Senato i partiti che non raggiungeranno l’8%. Si parla di voto “sprecato”, di “voto a Veltroni”. I circoli Liberal hanno il compito di aiutare Ca-
RITORNO AL PASSATO A Farmington, New Mexico, la suite per coppie ”Grotta di Kokopelli”, piccola caverna artificiale ricavata nella roccia a 21m sotto la superficie terrestre. Pareti grezze e doccia in stile ”cascata”, costa 260 $ a notte INTITOLIAMO A WOJTYLA LA STAZIONE TERMINI DI ROMA Dopo aver letto sul quotidiano liberal gli splendidi contributi di Navarro-Valls, Ferdinando Adornato e di Michael Novak sull’eredità spirituale, culturale e politica dell’amato Papa Giovanni Paolo II, mi son ricordato della spiacevole polemica sull’intitolazione al grande papa polacco della stazione ferroviaria di Roma-Termini. Dopo la levata di scudi degli ’anticlericali’, Veltroni si rimangiò in qualche modo la proposta. A tre anni dalla scomparsa di Sua Santità Giovanni Paolo II e in tempo di elezioni politiche e amministrative, chiederei ai candidati sindaco di Roma e ai leader dei partiti se vogliono ora assumersi l’impegno di intitolare la stazione Termini a Papa Giovanni Paolo II, profeta cristiano di dia-
dai circoli liberal Silvia Sambo - Bari
sini e Adornato a spiegare perché questa è una colossale sciocchezza. Ed infatti, per prima cosa dobbiamo rispondere che in molte regioni, tra cui persino la “rossa”Toscana, l’Udc ha forti possibilità di conquistare il quorum per il Senato. In secundis, dovremmo rilevare che Berlusconi e le sue ancelle tanto sicuri di vincere non sembrano più, visto che fino a pochi giorni fa strombazzavano addirittura trenta senatori di vantaggio, mentre adesso sono ridotti a pietire il voto disgiunto al Senato. Terzo, diciamo ai nostri amici del PDL che questi mezzucci li aveva già adottati la sinistra di Prodi nel ’96, quando inventò lo sconcio del “patto di desistenza” con Rifondazione. Se era gioco sporco quello, mi sembra che l’appello al voto disgiunto al Senato non sia da meno. Ancora, cosa direbbero loro se, per esempio in Toscana (dove il premio di maggioranza per il Pd è garantito), noi di Liberal cominciassimo a suggerire a qualche amico del Partito democratico di votare al Senato per l’Udc, così da garantirgli l’8% e togliere almeno un paio di senatori al Pdl? Credo che si straccerebbero le vesti.
logo, amore, pace e speranza per l’Europa e per tutti i popoli della terra. Memoria storica e gratitudine dovrebbero parlare da sole.
Matteo Prandi
BASTA IL VOTO E LA POLVERE VA GIÙ Un po’ di polvere non ha mai ucciso nessuno. Anzi, gli appassionati di cose antiche e gli animi sensibili alla sua vista spesso si emozionano. Ma nelle liste dei candidati alle prossime elezioni, ce n’è un po’ troppa. Non si può far finta di non vederla per non soffrire. Non sorprende che qualcuno voglia ricorrere al battipanni o all’aspirapolvere. Ma perchè faticare? Basta semplicemente attendere le elezioni e votare. Grato dell’attenzione.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
Ma nessuno di noi si abbasserà a tanto. Infine una cosa dobbiamo dirgli: che la campagna elettorale deve parlare di programmi e valori per permettere agli elettori di dare un voto intelligente, non utilizzare sistemi elettorali poco trasparenti ed ancor meno democratici (la mancanza di preferenze è una violenza all’elettore) per fare giochetti di potere che non servono a far ripartire l’Italia. Giorgio Masina CIRCOLO LIBERAL SIENA
APPUNTAMENTI BATTIPAGLIA - SABATO 5 APRILE 2008 Ore 11: comizio di Ferdinando Adornato al cinema teatro Bertoni. NAPOLI - SABATO 5 APRILE 2008 Ore 17.30: assemblea regionale di tutti i Circoli Liberal della Campania al Grand Hotel Excelsior.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog I poeti sono flauti, frecce e coppe della vita Mary amatissima, tu e io, e tutti coloro che sono nati con una fame di Vita, non stiamo cercando di sfiorare i margini esterni d’altri mondi con la profondità del pensiero e del sentimento. Il nostro unico desiderio è scoprire questo mondo ed entrare in unione con il suo spirito. E lo spirito di questo mondo è l’Assoluto. I grandi poeti del passato non ricercavano un punto essenziale né desideravano scoprire i segreti della Vita. Semplicemente consentivano alle loro anime di esserne governate, mosse, manipolate. Il saggio e il buono sono sempre alla ricerca della sicurezza.Talvolta la trovano, ma la sicurezza è un fine, e la Vita non ha fine. Il poeta non cerca nulla. Il suo unico desiderio è divenire flauto o freccia o coppa. E in tal modo egli a un tratto diventa uno degli scopritori di questo mondo. E non lo scopre solo per se stesso, ma anche per coloro che possiedono una naturale disponibilità ad ascoltarlo. Con affetto. Kahlil Gibran alla sua musa Mary Haskell
IL VOTO VA GARANTITO ANCHE AI MALATI NON RESIDENTI La possibilità di esprimere il proprio voto, in occasione delle imminenti consultazioni elettorali del 13 e 14 aprile, dovrebbe essere un diritto di tutti, soprattutto di coloro che per motivi di salute sono costretti a soggiornare fuori dal comune di residenza. E’ inammissibile che alle persone in difficoltà di salute che si trovino al di fuori del luogo di residenza, non ricoverati in strutture ospedaliere, non sia consentito di esercitare uno di quei diritti fondamentali che la Costituzione ha conferito ad ogni cittadino della nostra Repubblica, quando invece ai protagonisti della trasmissione del Grande Fratello viene concessa questa possibilità. Anche questa volta lo spettacolo e la notorietà hanno la precedenza sulla socialità e sulle situazioni di emergenza. Sicuramente i protagonisti del Grande Fratello non si recheranno nemmeno a votare, presi dall’entusiasmo offerto dalla condizione di breve libertà vigilata fuori dal controllo delle telecamere e dei fan. Considerato il fatto che sono molti i casi di cittadini in difficoltà che dovranno rinunciare al voto, è necessario che
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
3 aprile 1660 Nasce Daniel Defoe, scrittore britannico
i singoli comuni prendano seri provvedimenti per ovviare a tali gravi inadempienze che danneggiano la libertà di espressione e partecipazione della collettività, prendendo accordi e ricercando soluzioni idonee per tutelare tutti nell’esercizio del voto.
Katia Romiti - Bergamo
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
IN RICORDO DI GIOVANNI PAOLO II
I TASSISTI DI ROMA MERITANO RISPETTO In tutti i municipi capitolini aumentano i disservizi per i tassisti romani che soffrono dei disagi inerenti la segnaletica verticale ed orizzontale, i posteggi e la viabilità che il Comune di Roma tarda a garantire, a danno di tutti i cittadini che usufruiscono del servizio. I servizi a disposizione, ad oggi, sono stati concepiti per far fronte ad un organico di 5.800 vetture a fronte dell’attuale numero di taxi, che è di 7.300 unità. Con i turni integrativi, poi, le vetture che dovrebbero stazionare al posteggio di competenza di ogni singolo municipio sono aumentate del 60%. E’ opportuno migliorare il servizio esistente per soddisfare le esigenze e la vivibilità dei cittadini.
Alessio Pucci - Roma
1860 Usa: Prima corsa del Pony Express da Saint Joseph, Missouri a Sacramento, California (sarà completata il 13 aprile) 1881 Nasce a Pieve Tesino Alcide De Gasperi, politico e statista 1896 Esce il primo numero della Gazzetta dello Sport, nata dalla fusione de ”Il ciclista” e ”La tripletta” 1956 Elvis Presley canta Heartbreak Hotel al ”Milton Berle Show”: platea stimata, un quarto della popolazione Usa 1961 Esce il celeberrimo francobollo Gronchi rosa 1973 Martin Cooper effettua la prima telefonata con un telefono cellulare portatile 1974 148 tornado colpiscono tredici diversi stati americani in 26 ore, fenomeno record nella storia della meteorologia 2000 La Microsoft di Bill Gates viene accusata di violazione delle leggi Usa sull’Antitrust per aver occupato una posizione di preminenza rispetto alla concorrenza
il meglio di
PUNTURE Archiviata la posizione di Mastella nell’inchiesta Why Not. E l’Udeur? Era già stata archiviata.
Giancristiano Desiderio
“
Gli uomini sono sempre sinceri. Magari, spesso, cambiano sincerità. Ecco tutto TRISTAN BERNARD
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
Celeste è questa corrispondenza d’amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l’amico estinto e l’estinto con noi: il sentimento che mi accompagna ogni 2 aprile dal 2005 a questa parte è colto a pieno dai versi di un agnostico e materialista come Foscolo. È chiaro che la prospettiva del cristiano è antitetica a quella de I sepolcri: lo sappiamo nella casa del Padre, lo preghiamo perché interceda per noi, sappiamo il suo ministero in ottime mani; ma questo non ci evita il sentimento della privazione fisica, della nostalgia, perché fa parte della nostra umanità.Non è carenza di Fede, altrimenti dovremmo pensare che lo stesso Cristo ne fu carente, quando pianse per l’amico Lazzaro. È piena accettazione della nostra umanità, la stessa di Gesù e la stessa che fece di Woityla un fenomeno sociologico senza precedenti: persone di ogni razza, religione, cultura lo vedevano come un amico, un padre, un nonno. Piansero la sua morte come quella di un parente, anche se molti non lo incontrarono mai fisicamente. Non ebbero mai modo di parlarci, di stringergli la mano, eppure avevano chiara la sensazione di una relazione personale. Tutto questo mi fa tornare alla mente una frase ricorrente nei volantini di Cl ai tempi dell’università, che allora mi sembrava oscura e tipica di un certo conformismo ciellino. La riprese qualche anno Benedetto XVI ai funerali di Giussani: «il Cristianesimo non è un sistema intellettuale, un pacchetto di dogmi, un moralismo, il Cristianesimo è un incontro; una storia d’amore; è un avvenimento». Sempre più spesso mi capita in-
vece di percepirla come una verità, tanto evidente da non capacitarmi di quanto allora mi risultasse oscura. Il caso di Giovanni Paolo II è uno di questi: la relazione personale, l’affetto, la simpatia (intesa etimologicamente come ”comunione di sentimenti” ) per questo Papa è stata capace di avvicinare tante persone a Cristo come nessun catechismo sarebbe stato capace di fare. Del resto all’inizio del Vangelo non sta una serie di precetti, ma l’invito ad una relazione personale: «venite e vedrete».
Ai piedi del sicomoro aipiedidelsicomoro.blogspot.com
ETNO-NAZIONALISMI: NE VEDREMO ANCORA Il nazionalismo americano è civico, figlio della cultura liberale. Così è anche per una parte dell’Europa, ma muovendosi verso est si tinge di significati etnici che acquistano un valore sempre più importante. Figlio di un passato fatto di conflitti e sangue, l’etnonazionalismo rischia di sopravvivere al Terzo millennio, alimentato da immigrazione e dinamiche demografiche che minano l’unità identitaria di molti Stati e le richieste indipendentiste di altri soggetti che aspirano a diventarlo. Jerry Z. Muller nel suo articolo su Foreign Affairs dimostra come influenzi ancora la sostanza di molta politica in giro per il mondo, da Pechino a Lisbona, fino alla martoriata terra d’Israele. Muller sottolinea che la particolare natura degli Stati Uniti, nati dall’unione di una molteplicità di gruppi etnici e nazionali, in fuga da persecuzioni religiose e politiche, ha prodotto una sottovalutazione di questo fattore in politica estera.
Cronache Luterane pierrechiartano.blog.lastampa.it
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via Vitorchiano, 81 00188 Roma -Tel. 06.334551
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza
Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Abbonamenti
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO Si apre oggi la rassegna enologica veronese
di Priscilla del Ninno l prologo all’alzata del sipario prevista per oggi su una delle ribalte enologiche più prestigiose in assoluto, il Vinitaly, (la 42a edizione si inaugura oggi alla presenza del ministro delle politiche agricole, Paolo De Castro, insieme all’ambasciatore degli Usa, Ronald Spogli, e sarà di scena a Verona fino al 7 aprile), è a dir poco frizzante. Il dibattito su alcune delle più rinomate etichette dell’industria vitivinicola di casa nostra, simbolo di un riconquistato stile di vita e business ormai intercontinentale, rimbalza nella Rete dai wine blog ai forum vinosi, dai siti enologici ai web delle associazioni di categoria, aggiungendo al carnet delle degustazioni guidate, dei convegni intestati al marketing e dei seminari di settore previsti per questa nuova edizione della rassegna veronese, un ulteriore elemento di discussione da accodare agli appuntamenti in programma, che spazieranno dalle specialistiche indagini di mercato a più cosmopolite speculazioni culturali.
I
La bomba è esplosa a Montalcino, un quotidiano ne riecheggia il 28 marzo scorso il botto, che deflagra per la prima volta sul blog di Franco Ziliani «Vino al vino»: i dubbi fermentano e, come è ormai abitudine mediatica in voga da anni a questa parte, l’inchiesta in corso viene riassunta per tutti sotto l’etichetta di «Brunellopoli» secondo cui, come riportato nei giorni scorsi nelle pagine fiorentine del medesimo quotidiano, «la Procura di Siena indaga per frode in commercio su cinque grossi produttori di Montalcino, che userebbero tra il 10 e il 20 per cento di uve non Sangiovese nel loro Brunello, che invece in base al disciplinare deve contenere al 100 per 100 quel vitigno». Pronta è arrivata l’incredula replica del Consorzio del vino Brunello di Montalcino («Si tratta di un’accusa gravissima a cui stentiamo a credere e di cui peraltro non abbiamo nessun riscontro»), cui è seguita la dichiarazione di Andrea Sartori, il presidente di Unione Italiana Vini, che
VINITALY NEL SEGNO DEL BRUNELLO in un comunicato stampa del 28 marzo, in attesa delle conclusioni delle indagini in corso, dichiarava che l’associazione «è al fianco delle imprese che - non deve essere dimenticato - hanno contribuito ad affermare il made in Italy enologico nel mondo». Insomma, che il vino racconti molte storie, si sa. Che il suo immaginifico bouquet racchiuda mondi olfattivi e rimandi ancestrali che razionalmente è difficile decodificare, è altrettanto notorio. Così come ormai è quasi un dogma eno-psicologico che negli effluvi del nettare di Bacco si nascondano accattivanti segreti che all’assaggio confondono caratteristiche organolettiche del vino e sensazioni
confini - malgrado il caro euro - dall’Usa alla Cina, avocando a sé sempre più numerose pattuglie di donne, capaci di prendere di gestire con successo uno spazio tradizionalmente riservato agli uomini.
Tappe di un cammino culturale e industriale in continua evoluzione che la rassegna, tra regionalità e internazionalità, industria e ambiente, brindisi e convegni, nei prossimi giorni ripercorrerà nella cornice di un evento fieristico mondiale dedicato al vino. Così Vinitaly, tra buyer e imprenditori del settore, come spiegano organizzatori e ospiti, «è pronta ad aprire le porte a 150 mila operatori professionali, dei quali il 30 per cento in arrivo da oltre cento paesi». Un viaggio intorno all’universo dell’enologia - gli espositori sono circa 4300 - che abbina palato e affari e che, nella molteplicità delle vetrine imprenditoriali e dell’offerta culturale, anche quest’anno farà incontrare storici clienti e nuove acquisizioni (Polonia e Israele tra le new entry più attese), aziende e consumatori, esperti e semplici appassionati. E allora, tra le iniziative della kermesse, dopo il successo dell’anno scorso viene ampliato l’angolo riservato al Taste Italy, uno spazio dedicato alle degustazioni di cibo e vino curate da rinomati chef e assistito da sommelier «tutor», finalizzato all’assaggio della migliore produzione delle aziende nostrane. Quelle che hanno contribuito a rendere grande il nostro vino e le sue blasonate etichette, fonti inesauribili del successo del marchio - questo sì impossibile da contraffare - ”made in Italy”…
Alla kermesse parteciperanno 4300 espositori e oltre 150mila operatori, provenienti da oltre cento Paesi per un evento fieristico che è giunto alla sua 42esima edizione e che esalta una delle produzione d’eccellenza del ”made in Italy” evocative individuali collegate alla sua degustazione. Ma quello che forse occorre sottolineare è che il tutto va considerato a prescindere da inchieste giudiziarie e polemiche giornalistiche tra addetti ai lavori e appassionati cultori. E allora, a conferma della potenza e del prestigio del settore vitivinicolo italiano che ha saputo - scandali dell’ultim’ora a parte - guadagnarsi negli anni l’attenzione non solo dei sempre più numerosi consumatori, ma anche del mondo economico-finanziario, anche quest’annata della fiera veronese dimostrerà l’estendersi di un mercato nazionale fino alla conquista di un export in continua crescita, capace di ampliare i suoi