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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

elezioni e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato

La democrazia soffocata dalla burocrazia Gennaro Malgieri Errico Novi

pagine 4 e 5

terza repubblica TOMMASO FROSINI: «IL PRIMO TRAGUARDO È LA GOVERNABILITÀ» pagina 7

Riccardo Paradisi

forze armate SONO LONTANE DALLA POLITICA, MA AMATE DAI GIOVANI pagine 8 e 9

Mario Arpino

Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma

Carte Grandi coalizioni: fatti e misfatti

Jean Cyril Spinetta è l’unico a poter salvare il salvabile di Alitalia. Dopo la rottura della trattativa si pone ora il problema di riprendere il dialogo

Richiamatelo alle pagine 2 e 3

VENERDÌ 4 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

61 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Giulio Andreotti Lodovico Festa Maurizio Stefanini

pagina 12

personaggi VAN MORRISON, UN ALIENO DEL PIANETA MUSICA pagina 21

Alfredo Marziano

80404

9 771827 881004

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 4 aprile 2008

richiamatelo

Berlusconi insiste nell’errore di Renzo Foa l giorno dopo aver costretto Jean Cyril Spinetta a rientrare a Parigi e Maurizio Prato a dimettersi, molti di coloro che hanno contribuito a far fallire la trattativa sono stati colti dal ragionevole dubbio che l’alternativa all’accordo con Air France sia il vuoto. Che non ci sia altro che il fallimento e che il fallimento sia una soluzione ancora peggiore della tanto temuta annessione di Alitalia da parte di Air France. Non tutti naturalmente, perché ancora ieri Silvio Berlusconi ha lanciato un appello «all’orgoglio degli imprenditori italiani» rilanciando l’immagine di quella cordata di cui tanto si è parlato e che con altrettanta intensità è stata smentita, nelle scorse settimane.

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Possono essere molte le ragioni per le quali il leader del Pdl insiste su questa scelta. Può davvero essere convinto di riuscire a raccogliere energie e capitali sufficienti, può scommettere di riuscire a giocare un ruolo decisivo una volta tornato a Palazzo Chigi. O può essere più banalmente una carta elettorale. Ma, comunque sia, hanno ragione coloro che ritengono che la sua iniziativa – che insieme è politica e imprenditoriale – abbia contribuito a pregiudicare l’unica soluzione possibile. E, attenzione, non si parla dell’unica soluzione possibile in questa primavera del 2008. Ma dell’unica soluzione possibile da dieci anni a questa parte. E quasi certamente anche dell’unica soluzione possibile pensando al futuro. Qui sta l’errore. L’errore di Berlusconi, l’errore dei sindacati che hanno alzato il prezzo dell’accordo, l’errore di chi con troppa facilità ha creduto che ci fossero in Europa altri gruppi interessati alla compagnia di bandiera. Che poi è solo l’ultima sequela di errori. Perché, in realtà, stiamo parlando di un decennio di irresponsabilità, la cui colpa si può spalmare su tutti i governi che ci sono stati e su tutti coloro che non hanno voluto sciogliere questo nodo. Compreso Romano Prodi, naturalmente. Esiste una sorta di colpa collettiva delle classi dirigenti – nella politica, nell’imprenditoria, nel sindacato – che non solo non consente a nessuno di dar lezioni ad altri, ma che dovrebbe spingere tutti al massimo della collaborazione. O, quanto meno, a non pregiudicare una via di uscita che finalmente è apparsa e che dovrebbe essere considerata «il male minore». Se non altro per salvare il salvabile. Lavorare per richiamare a Roma Jean Cyril Spinetta dovrebbe essere sentito, in questo passaggio, quasi un dovere nazionale. Perché sarebbe la soluzione di un problema italiano, che nessun italiano è riuscito finora a risolvere. L’italianità è questo. Al momento non si vede altra italianità in giro. Se non nel niente: basti pensare al fatto che nel giro di pochi giorni potrebbero addirittura esaurirsi le risorse anche per l’acquisto del carburante e per pagare le rate del leasing degli aerei. Ieri, si diceva prima, è dilagato il dubbio. Intanto fra molte sigle sindacali che hanno chiesto la ripresa della trattativa. E poi fra gli stessi dipendenti di Alitalia, visto che alla Magliana si è svolta una manifestazione di «colletti bianchi» a sostegno dell’accordo con Air France, dopo che per settimane la scena era stata interamente lasciata ai partigiani del «no» che hanno corso – e corrono ancora – il rischio di emulare i sindacati dei minatori inglesi che, oltre vent’anni fa, persero tutto per cercare di difendere tutto. Ieri, infine, il governo, che è in fase terminale, ha manifestato il suo impegno, per quanto piccolo e tardivo, a muoversi per riannodare i fili del dialogo. Avrebbe dovuto certamente muoversi meglio e prima. L’importante, comunque, è che ci si muova nella direzione giusta: che è quella di non far svanire definitivamente l’unica occasione di salvare parte del patrimonio costituito da Alitalia. A prescindere dalla campagna elettorale.

Ormai è chiaro che le alternative non ci sono

Non ci vuole l’esorcista Basta Air France di Gianfranco Polillo

er salvare Alitalia non occorre un esorcista, come ha teorizzato Maurizio Prato, prima di dimettersi da presidente. Basta mantenere la testa fredda ed i piedi per terra. Dopo l’abbandono di Air France, tutto è diventato più difficile. Ma è da lì che occorre ripartire, sperando che Jean-Cyril Spinetta possa convincere il suo consiglio d’amministrazione a non gettare la spugna. A trattare: non a subire le pressioni del sindacato che vorrebbe comportarsi con i francesi, come ha fatto in tutti questi anni. Mai un’autocritica od un’azione pedagogica rivolta a convincere i propri iscritti e simpatizzanti della necessità di rimboccarsi le maniche e costruirsi un futuro. Ma un continuo reciproco scavalco additando come scusa le insufficienze del management. Come se questo, a sua volta, non era espressione, seppure indiretta, dello stesso sindacato.

P

ma di protesta. Come dimenticare le migliaia di certificati medici invitati, qualche tempo fa, per giustificare l’assenza dal posto di lavoro di hostess e steward? Salari forse minori, rispetto ai concorrenti, ma una produttività per addetto ancora più bassa. E poi la rincorsa a terra: l’imboscamento di tanta gente stufa, anche a ragione, di volare. Ma il lavoro è lavoro. Non è un pranzo di gala. Se si è usurati, si cerca un’altra attività, senza pretendere una sorta di pensione anticipata, a carico del bilancio della Compagnia. Oggi siamo giunti al momento della verità. Po-

rare un minimo di liquidità, si erano tirate indietro. Migliaia di passeggeri rimasero a terra in ogni parte del mondo. Le carte di credito aziendali furono bloccate e molti dipendenti, costretti a pagarsi l’albergo con i propri soldi. Tutti i biglietti emessi si trasformarono, in un baleno, in carta straccia; tra le mille proteste dei clienti. Vogliamo arrivare a tanto? Sarebbe da irresponsabili. E poi perché?

Le alternative non esistono nemmeno sulla carta. La fantomatica cordata, evocata da Silvio

Se vengono meno i francesi non c’è che il fallimento. Le alternative non esistono nemmeno sulla carta: la cordata di Berlusconi è un fantasma, Air One spera e Lufthansa è un rumor

Più che un’opera pia, come ha detto Tommaso Padoa-Schioppa alla Camera dei deputati, in questi lunghi anni, Alitalia è stata una sorta di cooperativa, nel segno del consociativismo. Orari leggeri, rispetto agli standard internazionali, a partire dai piloti. Assenteismo, spesso camuffato sotto for-

trebbe essere un bagno salutare che riporta alla realtà, dopo la sbornia collettiva. Speriamo solo di essere ancora in tempo. Inutile illudersi. Al punto in cui siamo Air France rappresenta l’unica soluzione possibile. Se viene meno non c’è che lo spettro del fallimento. Non si dimentichi la vicenda di Swissair. Erano le 15 e 45 del 2 ottobre 2001, quando Mario Corti, Ceo della Compagnia, decise di interrompere i voli. Ogni tentativo di intervento era fallito. Le banche, che dovevano assicu-

Berlusconi, è ancora un fantasma. I concorrenti che all’inizio avevano mostrato intenzione di partecipare all’asta si sono persi per la strada. Air One, forse, ancora spera. Ma Banca Intesa, che all’inizio sembrava disposta, oggi, per bocca dei suoi massimi dirigenti, scuote la testa. L’ipotesi Lufthansa, che pure ha circolato con insistenza, è rimasto un semplice rumor. E’ difficile, in queste condizioni, sperare in un miracolo. Per ritornare al caso Swissair, non si dimentichi che dietro la società


richiamatelo c’erano due grandi banche svizzere del peso di Ubs e Credit Suisse. Eppure la cosa si concluse come abbiamo detto: con un fallimento. Per evitare il rischio che questo si ripeti, bisogna andare ai fondamentali. Ciò che manca non sono le possibilità di finanziamento. In un mercato liquido, come quello internazionale, è facile trovare i 300 milioni necessari per il prestito ponte. Che lo stesso TPS è disposto a dare. Il difficile è trovare un piano industriale credibile, che azzeri il passato della società e la faccia rinascere nel segno dell’efficienza e della competitività. Operazione tutt’altro che impossibile, se si considerano i vantaggi che il processo di internazionalizzazione può offrire, grazie alla presenza di una grande compagnia come Air France. Se non c’è questo, tutto il resto è inutile. Si può pensare al commissariamento, alla legge Marzano. Ma è solo prolungare, a caro prezzo, l’agonia.

Se invece Spinetta dovesse tornare, si aprirebbe uno spiraglio. Il titolo vale ancora 50 centesimi: questa è stata l’ultima quotazione prima della sua sospensione in borsa. Cinque volte tanto, quanto offerto da Air France. Uno scarto che va spiegato. Gli assets, materiali ed immateriali di Alitalia, hanno un valore di mercato, che la borsa, in qualche modo, capitalizza. Di questo i francesi, volutamente, non hanno tenuto conto. Lo hanno fatto un po’ perché sono francesi. Nei confronti dell’Italia non hanno obblighi politici o di natura sociale. E’ la logica del business: brutale quanto si vuole. Ma per molti versi ineccepibile. Ma questo non basta a spiegare quello scarto. Spinetta conosce bene i vincoli che gravano sulla società. Non a caso ha preteso – cosa inusuale nelle grandi trattative internazionali – l’accordo dei sindacati. Elemento ritenuto talmente importante da motivare la rottura di questi giorni. Dal valore di libro della società ha quindi sottratto il peso di questi oneri impropri. Se le rigidità del mercato del lavoro italiano hanno un costo – questo è stato il ragionamento – non si vede perché esso debba essere posto a carico dei contribuenti francesi. Meglio quindi scorporarlo fin dall’inizio dal prezzo di acquisto. I sindacati non hanno capito o fatto finta di non capire. Hanno, invece, alzato la posta, ponendo fine ad ogni discussione. Eppure, Spinetta, l’aveva detto: «non siamo obbligati a comprare Alitalia». Tanta chiarezza per nulla.

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Il governo deve riprendere la trattativa, fallire non si può

«Su Alitalia sbagliai anch’io. Ma ora basta rinvii» colloquio con Savino Pezzotta di Susanna Turco

ROMA.

«Su Alitalia sbagliai anch’io, da sindacalista. Me ne prendo la responsabilità, ma a maggior ragione oggi dico che non si può andare avanti a rinviare». All’indomani della rottura della trattativa tra sindacati e Air France sulla vendita di Alitalia, Savino Pezzotta ex leader Cisl ed ora esponente di spicco dell’Udc-Rosa bianca, utilizza anche l’autocritica esplicita - una rarità tra i politici - pur di affermare la necessità che il negoziato riprenda al più presto. Dunque, Pezzotta, si dice che con l’abbandono del tavolo da parte di Spinetta, il sindacato si sia fatto scappare l’unica scialuppa che avrebbe potuto portare in salvo la compagnia di bandiera. A me questo gioco dello scarica barile non piace più. Sicuramente la responsabilità è anche dei sindacati, però comincerei a metterle in fila, tutte le responsabilità. Prego. Il sindacato avrebbe dovuto osare di più nella trattativa, togliere alcune rigidità, trovare modi e forme per una intesa.

D’altra parte però tra governo e Air France il negoziato andava condotto in modo diverso. Ritiene quindi che anche il governo abbia qualcosa da rimproverarsi? Beh, le trattative non si fanno così. Quando hai una situazione difficile, prima di avviare il confronto costruisci le condizioni per un accordo. Si sondano le parti, e poi si avvia il tavolo. Ma a questo punto non pos-

che non doveva esserci e che ha cambiato il gioco sul tavolo. Secondo: a questo punto chi ha una alternativa ha il dovere di metterla in campo. Cordate italiane a parte, come si esce da questo vicolo cieco? Credo che tocchi ora a Prodi riaprire il confronto. Credo sia indispensabile evitare il commissariamento. Guglielmo Epifani, leader Cgil, dice che in quel caso si finirebbe nel «caos totale». Diventerebbe un problema gravissimo, perché si finirebbe per indebolire una azienda quotata in Borsa. E tenendo presente che Alitalia perde un milione di euro al giorno, si capisce pure che bisogna trovare una soluzione con una certa fretta. Per questo non mi interessa lo scaricabarile: voglio piuttosco che le parti in gioco si assumano le loro responsabilità per verificare la possibilità di riaprire il confronto: così, se si dovesse arrivare al fallimento, sapremo con chi prendercela. La Uil, già prima della rottura con Spinetta, aveva

Mi rammarico di non avere, da leader Cisl, accettato il piano Mengozzi. Ma dico pure che oggi non si può più andare avanti così. Quanto a Prodi: le trattative si fanno in un altro modo siamo ragionare solo su chi ha sbagliato, bensì su quale è la alternativa ad Air France. C’è un’alternativa? Non mi pare. E gli appelli non servono a nulla. Sta alludendo, immagino, di Silvio Berlusconi, che ha rivolto più volte appelli agli imprenditori italiani perché facciano un’offerta. Primo: si è trattato di una incursione in una trattativa delicatissima, una intromissione

lasciato il tavolo, ritenendo opportuno trattare con il nuovo governo. Come giudica questo comportamento? Più aspettiamo, più paghiamo: è una scelta. Per alcuni, il confronto era già segnato comunque. Nelle trattative non c’è mai nulla di determinato, è la trattativa in sé che determina. E certo, se la campagna elettorale si fosse tenuta fuori, sarebbe stato meglio per tutti. Comunque sia, il confronto va recuperato, il governo deve Dimentichiamo muoversi. troppo spesso che questa vicenda è aperta da dieci anni, ma certe cose non si sono mai affrontate, si è sempre rinviato a scelte successive. E lei lo sa bene lei, col suo robusto passato da leader Cisl. Ma io mi rammarico per non aver a suo tempo sottoscritto l’accordo sul piano Mengozzi. Non ho avuto il coraggio o la determinazione di rompere e forzare le cose, si pensava che ci sarebbe stata sempre un’altra occasione. Ho sbagliato, ne ne assumo la responsabilità, ma dico anche che non si può continuare così, pensare ancora che si può sempre andare alla stretta successiva.


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politica

iù dell’immondizia potè la Pizza. Per accentuare, è evidente, la smagliante immagine dell’Italia nel mondo. Un’Italia invertebrata, come a tutti, per una volta d’accordo, appare incontestabile. L’immagine, insomma, di un Paese che giorno dopo giorno scivola verso l’abisso quasi con l’allegria del naufrago, consapevole che non ci sia più nulla da fare, se non rassegnarsi all’ineluttabile decadenza. Un’Italia, in questo primo decennio del XXI secolo, che viene accompagnata verso un incerto destino da saccenti “uomini di Stato” i quali asseverano perfino ciò che dovrebbe essere liquidato come una barzelletta mal riuscita.

P

Il ministro dell’Interno, per dirne una, l’esperto giurista Giuliano Amato, incurante della brutta figura, avrebbe potuto derubricare la pizza confezionata dal Consiglio di Stato, con un semplice richiamo all’articolo 61 della Costituzione che, come tutti sanno, prevede tassativamente la celebrazione delle elezioni entro settanta giorni dallo scioglimento delle Camere. Non esistono subordinate. Il testo è chiaro e perentorio. Ed i ricorsi non possono mutare la lettera e lo spirito della Carta costituzionale che, quale Norma fondamentale, è fonte di legittimazione di tutte le leggi sottostanti. Perché il costituzionalista Amato ha ceduto il passo al politico Amato nel diramare quel comunicato che ha fatto andare in bestia tutti gli italiani, a cominciare dai responsabili dei partiti? Probabilmente lo ha fatto per rimediare ad altre non commendevoli imprese in materia elettorale del ministero che guida. Oppure perché ispirato da eccessiva prudenza la quale si ritorta contro di lui. In ogni caso non ha raccolto applausi e per del suo rango uscire di scena in questo modo non deve essere stato gradevole. Discorso chiuso? Nemmeno per idea. La frittata è fatta o la pizza è servita, come più vi aggrada. Adesso tutti chiedono a qualcuno di sbrogliare la matassa. Il mandato, istituzionalmente, è stato conferito dalla presidenza del Consiglio e dal ministero dell’Interno all’Avvocatura dello Stato. Se ne occuperanno, comunque, la Cassazione (la cui pronuncia è attesa per martedì), il Tar, forse le Giunte per le elezioni di Camera e Senato (quando? a consultazioni avvenute?), il Governo, il presidente della Repubblica. Ecco: in Italia non si sa mai a chi spetta l’ultima parola e quali effetti

Agli occhi del mondo l’immagine dell’Italia è sempre più in declino

La democrazia soffocata dalle carte bollate di Gennaro Malgieri avranno le decisioni in merito. Intanto si sta con il fiato sospeso anche se l’impressione è che tutto finisca in una bolla di sapone, tranne l’irrimediabile figuraccia di una democrazia incompiuta, scassata, indegna degli standard europei. I cittadini ne ridono amaramente; i politici non sanno a quale santo votarsi poichè, sia pure non responsabili, la vicenda avrà ri-

poi in mente di impugnare le elezioni stesse invocando una presunta irregolarità? I costituzionalisti escludono questa eventualità dicendo che, una volta insediato il nuovo Parlamento, competente in materia è esso stesso. Ineccepibile. Ma volete scommettere che ci sarà pur qualcuno che contesterà il processo elettorale e metterà in discussione il risultato? Con

da bollo. Non è una sensazione piacevole. Anche perché lo scherno dell’opinione pubblica internazione diventa assordante. Mai, si fa rilevare, in nessun Paese civile e democratico, in questo dopoguerra è accaduto che le elezioni generali e politiche venissero messe in forse per ragioni tanto risibili come quelle che dall’altro ieri ci tengono in apprensione. Ma nep-

Nelle sue dichiarazioni il ministro Amato, esperto giurista, ha ignorato l’articolo 61 della Costituzione. Un’ uscita di scena non gradevole. Mai in un Paese civile è accaduto che le elezioni venissero messe in forse per ragioni tanto risibili percussioni sul sistema di cui fanno parte; i candidati vivono comprensibilmente ore di angoscia per quanto certi di un esito positivo, comunque non è a cuor leggero che da qui agli inizi della prossima settimana batteranno le circoscrizioni chiedendo voti e fiducia. Insomma, quando si voterà? E siamo sicuri che se la data fissata, come ci auguriamo, verrà mantenuta a nessuno salterà

l’aggravante di allontanare ancora di più la gente dalla politica. A tanto siamo arrivati. I ludi cartacei, in queste ore, prendono le forme meste di celebrazioni funebri. La democrazia parlamentare non è ancora morta, ma non si sente tanto bene. Meglio stare all’erta. Sui manifesti di propaganda compaiono, nella comprensibile immaginazione popolare, le carte

pure nei Paesi piuttosto incivili, dove vigono forme di democrazia approssimative, si è mai verificato niente del genere. In Pakistan, ricordiamo, le elezioni furono rimandate qualche mese fa a causa dell’assassinio di Benazir Butto, non certo perché un simbolo era stato escluso dal protervo Musharraff. Da noi le cose vanno diversamente: tutto finisce in vacca o in rissa, sempre senza pathos, senza

stile, senza un filo d’eleganza. Il grottesco, insomma, segna le nostre vicende e le seppellisce. Questa volta, checchè se ne dica, si balla davvero sul Titanic. E non per l’affare Pizza in se stesso. Ma perché esso esprime, come punta di un iceberg, peraltro in singolare coincidenza con il flop Alitalia-Air France, la crisi dello Stato, anzi l’eclissi stessa dell’idea di Stato: assicuro i lettori che non drammatizzo affatto. Quando si arriva a mettere in discussione il principio della democrazia rappresentativa, cioè a dire il momento elettorale, vuol dire che la Repubblica è entrata in un inverno dal quale nessuno può dire come e quando ne uscirà. Finita la prima, agonizzante dal momento della nascita la seconda, possiamo sperare soltanto nella terza Repubblica, ma le condizioni perché si realizzi sono molte e difficili da concretizzare. Del resto, se le norme che regolamentano il processo elettorale (e, dunque, non soltanto la vigente discutibilissima legge), soluzioni non prevedono quando dovessero emergere anomalie come questa con la quale abbiamo a che fare, immaginare un cambiamento piuttosto rapido nei costumi e nel sistema politico è quasi da folli. Lo è ancora di più se si considera che i poteri costituzionali si mostrano frastornati ed impotenti quando messi alle stretta da un’“emergenza” di tale portata, mentre il ministero dell’Interno gestisce in maniera tanto dilettantesca tutta la faccenda, fin dal momento della valutazione delle liste e dei simboli da ammettere.

Certo che desideremmo discutere di una Terza Repubblica in questa campagna elettorale. Ma con quale coraggio, se ci troviamo alle prese con accadimenti francamente impensabili in un Paese serio? È disperante, lo ammettiamo. Tutto finirà all’italiana, naturalmente. E per una volta non è la conclusione peggiore. Le elezioni si terranno il 13 ed il 14 aprile, ma resterà in tutti, protagonisti, comprimari e spettatori la sgradevole sensazione che si è rotto, per una vicenda da niente in fondo - anche un po’ ridicola se non ci fosse di mezzo un simbolo che nel bene e nel male ha rappresentato un partito che ha contribuito a fare la storia d’Italia - un patto non scritto tra popolo ed istituzioni. Quando si arriva a tanto c’è di che essere preoccupati. La sindrome di Weimar è dietro l’angolo. Soltanto chi non la vede può avviarsi all’appuntamento elettorale a cuor leggero.


politica

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Pizza non chiederà il rinvio, ma la Cassazione deciderà solo martedì prossimo se il suo simbolo sarà sulle schede

Voto con l’incognita, la farsa continua d i a r i o

d e l

g i o r n o

Casini: «Bossi sarà il Bertinotti del centrodestra» «Domani i veti di Bertinotti saranno sostituiti dai veti di Bossi». Il candidato premier dell’Unione di Centro, Pier Ferdinando Casini, parlando a Confcooperative, ribadisce il ruolo determinante che la Lega potrà avere in un probabile governo del PdL. E aggiunge: «Oggi i difetti del bipolarismo che tutti hanno contestato si ritroveranno “pari pari” nei due partiti maggiori».

La gag di Berlusconi Incontro pubblico con gag finale di Silvio Berlusconi, ospite ieri mattina della Coldiretti. Dopo aver parlato per oltre un’ora e mezza di tasse, Alitalia e situazione internazionale, l’ex premier si è avvicinato agli stand dove era stata allestita una carrellata di prodotti tipici, mozzarelle di bufala e una mortadella. Il Cavaliere non ha resistito alla tentazione di ironizzare sul caso del latticino alla diossina e, dopo aver addentato una mozzarella, si è messo una mano sul petto fingendo un malore, provocando una risata generale. Ma non solo, perché Berlusconi poco dopo è stato attratto dalla mortadella. Pressoché inevitabile una gag con riferimento a Romano Prodi: il cavaliere prima l’ha guardata, poi ha fatto dei gesti di contrarietà e infine, dopo essersi fatto aiutare, l’ha sollevata e l’ha nascosta sotto il tavolo.

di Errico Novi

ROMA. Chi lo ringrazia, chi lo riceve, chi gli riserva una tribuna elettorale da candidato premier. Tutti per Pino Pizza, da Silvio Berlusconi alla commissione di Vigilanza Rai. Lui assicura che «si voterà il 13 e 14 aprile», che non chiederà «il rinvio delle elezioni pur avendone diritto». Eppure con il suo sorriso sornione il segretario della Dc-frankestein fa ancora ombra al processo elettorale. Non foss’altro perché sapremo solo martedì se il suo simbolo sarà sulla scheda. Le Sezioni riunite della Cassazione si pronunceranno sui tre ricorsi presentati dal Viminale: uno chiede il regolamento di giurisdizione e si appella all’ampia giurisprudenza secondo cui le questioni elettorale competono solo al Parlamento, gli altri due riguardano il merito dei provvedimenti che hanno riammesso lo scudocrociato di Pizza. Fatto sta che a dieci giorni dal voto non v’è certezza sulla composizione delle schede elettorali. E la situazione già abbastanza farsesca è completata dal paradosso del voto di militari e diplomatici residenti all’estero: in oltre 10mila hanno già ricevuto, o stanno per ricevere, le schede senza il simbolo della Dc. Se dalla Cassazione arrivasse un giudizio favorevole a Pizza ci sarebbe un’inedita disparità di voto tra gli italiani: chi risiede entro i confini patri troverebbe uno scudo crociato in più rispetto ai connazionali in missione all’estero. E tutto questo rende tristemente comica la corsa al rimedio dell’ultimo minuto a cui partecipano isti-

tuzioni e partiti. C’è l’affanno del ministero dell’Interno, oppresso dal peso della discutibile decisione con cui l’ufficio elettorale ha escluso la lista civetta dei demo-nostalgici, con la conseguente imprevista performance del vice avvocato generale dello Stato, costretto a produrre sei decisive cartelle in poche ore. C’è la premura del presidente della Vigilanza Mario Landolfi, che ripristina i diritti televisivi negati a Pizza, gli riserva una tribuna elettorale e addirittura una conferenza stampa «della stessa durata di quella prevista per i candidati premier». C’è infine l’ospitalità di Ber-

«Alle urne il 13», dice il leader della Dc-frankestein alla fine dell’incontro con Berlusconi. E assicura: «Non abbiamo parlato di posti nel governo» lusconi, che nel primo pomeriggio di ieri sacrifica mezz’ora di campagna elettorale per ricevere il mini alleato a Palazzo Grazioli. A fine incontro Pizza svela ai cronisti di aver parlato «anche con Gianfranco Fini, perché siamo in un’alleanza ed è giusto discutere della decisione con tutti i leader». Lui giustamente si sente equiparato agli altri big della coalizione, ma assicura di non aver chiesto agli alleati posti nel governo: «Abbiamo parlato solo di campagna elettorale, oltre che della decisione di non chiedere il

rinvio delle elezioni, assunta dal mio partito per senso di responsabilità».

Se la gode comunque, il democristiano che appendeva i quadri di Fanfani in bagno. Tiene tutta la macchina elettorale in sospeso, costringe i leader a rivolgergli appelli, tutto con una Dc-frankestein che si toglie lo sfizio di essere nel cuore della contesa come ai bei tempi. Vale più di mille sentenze, questo spettacolo, anche se martedì 8 aprile la Cassazione decidesse di invalidare la decisione del Consiglio di Stato. Pizza dice che «i suoi avvocati sono al lavoro con i funzionari del Viminale per risolvere gli aspetti tecnici». E pensare che lo avevano trattato come un piazzista qualunque, all’ufficio elettorale. C’è molta e suggestiva enfasi nelle reazioni arrivate ieri in tarda mattinata, quando in un’intervista concessa a Radio 24 il segretario tardo democristiano aveva dato l’impressione di volersi addirittura ritirare dalla contesa. Il portavoce di Andrea Ronchi dice d’impulso: «Sulla persona non avevo dubbi, ha guardato agli interessi nazionali». Roberto Formigoni parla di «atto di responsabilità». Pizza precisa che «faremo sì una campagna elettorale di pura testimonianza, con soli dieci giorni a disposizione, ma dopo tante battaglie per riportare la Dc sulla scheda sarebbe un tradimento non correre alle elezioni». A sua volta la Sinistra arcobaleno rinuncia al ricorso contro il Mpa di Raffaele Lombardo. Ma l’immagine del Paese sembra compromessa lo stesso.

PdL due punto zero: Internet e politica Tocqueville.it, il più importante aggregatore di blogger politici d’Europa, che raccoglie 1600 blog di informazione e di cultura politica liberale e conservatrice, organizza oggi a Roma, presso l’Associazione Stampa Estera (ore 16), “PdL due punto zero”, un incontro con Giorgia Meloni (vicepresidente della Camera) e Deborah Bergamini (candidata per il PdL in Toscana) per discutere di Internet e politica. I blogger della “Right Nation” italiana, presenteranno alle due candidate una piattaforma politica e legislativa, per accelerare lo sviluppo della democrazia online in Italia.

Nasce Lettera22 Oggi a Roma, alla Sala del Garante per la privacy, nasce “Lettera22”, un’associazione «che si propone di riunire giornalisti professionisti, pubblicisti ed esponenti della società civile che lavorano a qualsiasi titolo nel campo dell’informazione, i quali si vogliono impegnare a promuovere e a sostenere con la propria attività l’informazione libera e non omologata, l’autonomia professionale e il diritto d’espressione del pensiero in tutte le sue forme e attraverso qualsiasi mezzo atto a esercitarlo». L’iniziativa, che sarà articolata su base regionale, vuole essere «uno strumento agile ed attento per confrontarsi ed intervenire sui temi dell’informazione, dell’editoria e delle comunicazioni dal basso».

Palermi: «Contestare Ferrara ovunque» «Hanno fatto bene a contestare Ferrara».Così Manuela Palermi, esponente della Sinistra Arcobaleno, ha espresso ieri durante la trasmissione televisiva Omnibus (La7) la sua solidarietà alle femministe e ai centri sociali che ieri hanno contestato Giuliano Ferrara durante il comizio di Bologna. «Dovrebbero farlo - ha affermato Palermi in tutte le piazze d’Italia». «Onore alla senatrice Palermi - ha replicato il senatore di Alleanza Nazionale, Alfredo Mantovano - in un coro di ipocrite e sinistre prese di distanza dalla contestazione bolognese, ha detto ciò che in tanti pensano, e sottovoce dicono, dalle sue parti: chi sostiene i diritti del concepito non ha diritto di parola, e se insiste va realizzata nei suoi confronti violenza, esattamente come accade per il nascituro non gradito».


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L’ITALIA AL VOTO

La comunicazione politica sotto esame

lessico e nuvole

Pizza, pizza marescià

Il criterio funebre di Eco vale anche per la letteratura? di Giancristiano Desiderio

di Arcangelo Pezza «Faremo una campagna elettorale simbolica e rinunceremo a correre alle prossime elezioni». Questa è l’ultima speriamo definitiva dichiarazione di Giuseppe Pizza, segretario della Democrazia Cristiana, il cui simbolo è stato riammesso alla competizione. Se così fosse, il 13 e 14 aprile si andrebbe a votare e per fortuna vista la noia che ha sommerso leader e candidati in questo mesetto di grigi Matrix e plumbei Porta a Porta in par condicio. Resta un punto da chiarire: “la campagna elettorale simbolica”cosa è? Sul tema gli esperti di marketing politico si dividono. Alcuni sostengono che “simbolica” dal termine “simbolo”, dal greco “sumbolon”, cioè propriamente da “sun + ballo”, cioè “getto con”, cioè “metto insieme”, cioè “una cosa che rimanda all’altra”, cioè proprio l’oggetto “simbolo” che i latini chiamavano “tessera hospitalitatis”, cioè quella tessera che rotta in due serve a certificare un patto di amicizia, come il cuore spezzato che gli innamorati posseggono a metà, significa che Pizza dice una cosa ma questa cosa rimanda ad un’altra, cioè che la sua campagna elettorale non sarà solo una campagna ma pure qualcosa d’altro che non sappiamo, visto che il simbolo trascende sempre il proprio oggetto, cioè che alla fine Pizza non farà campagna o la farà solo “simbolica”, per chiedere ed ottenere qualcosa d’ulteriore che ancora non presagiamo, ma forse i suoi alleati, sì. Altri esperti invece sono convinti che Pizza proprio per il simbolo già contenuto nel nome “pizza” che è anche un’emblema dell’italianità del mondo possa fare a meno

di qualsiasi campagna simbolica o meno, essendo già un brand riconosciuto a livello mondiale. E anzi, in tempo di par condicio, dovrebbe essere vietato la posizione dominante in un settore così attrattivo come il made in Italy. Altrimenti ha tutte le ragioni Berlusconi a chiedere il marchio dop e Veltroni quello docg.

Oggi l’eco della stampa è ricco di nuvole. I nostri supereroi parlano di Rocky Balboa, Ivan Drago e Ulisse. SuperWalter fa parlare SuperSilvio e lo paragona a Ivan Drago che dice «Io ti spiezzo in due» ma beffardo aggiunge: «Io Veltroni lo straccio, lo trituro ma poi scappa dal ring perché ha paura». Il fatto è che SuperSilvio sembra davvero inafferrabile. Si è paragonato a Ulisse: «Io ho scoperto di essere Nessuno, vi ricordate la storia di Ulisse, io sono come Ulisse». Attenti alle sirene. Tra echi ecco spuntare l’Eco. La sua teoria sul rilancio dell’Italia passa per le pompe funebri. Quale sarà il futuro del Paese? L’Eco risponde così a El Pais: «Dipende dal fatto che muoiano una decina di persone che sono ormai molto grandi, è un fatto biologico. Dovrebbe arrivare una nuova classe politica. Siamo il Paese con la classe politica più anziana del mondo». Eco dice chiaro e tondo che se muoiono una decina di uomini politici è un gran bene. Fa anche i nomi, anzi il nome: salva Walter («è giovane, ha cinquant’anni»), ma boccia Silvio («Ha più di settant’anni»). Ora la domanda è: il criterio funebre di Eco è universale? Vale anche per la letteratura? Per rinnovare le lettere italiane bisogna augurarsi la morte di una decina di scrittori? Quanti anni ha Eco?

I più grandi flop dei sondaggi/ Germania 2005

La rimonta di Schröder di Andrea Mancia Nella primavera del 2005, a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo del Bundestag, previste per il 18 settembre, secondo i sondaggisti tedeschi la Germania aveva già deciso: fuori Gerhard Schröder, dentro Angela Merkel. Secondo i sei istituti di ricerca maggiori del Paese (Allensbach, Emnid, Forsa, Forsch’gr. Wahlen, Gms e Infratest Dimap), l’alleanza Cdu/Csu viaggiava tra il 37% e il 40%, mentre la Spd oscillava tra il 23% e il 29%. Con un distacco minimo del 10% e uno massimo del 15%, insomma, la sorte del governo in carica guidato dal cancelliere socialdemocratico sembrava segnata. E la crisi della Spd era aggravata dal fatto che, mentre i suoi possibili alleati dei Grünen (i Verdi) sembravano in calo irreversibile di consensi, i liberali della Fpd (Freie Demokratische Partei) viaggiavano stabilmente tra l’8% e il 10%, rendendo estremamente plausibile la formazione di un governo di centrodestra Cdu/Csu-Fpd.

All’inizio di agosto, il consenso per la Merkel iniziò a scendere. Qualche gaffe, qualche scontro con Edmund Stoiber (leader dei “fratelli” bavaresi della Csu), l’alto grado di popolarità di Schröder: niente di serio, però. Tanto che un sondaggio condotto per Süddeutsche Zeitung alla fine di agosto continuava a registrare un dato complessivo Cdu/CsuFpd superiore al 51%. Neanche il “faccia

a faccia” televisivo del 4 settembre tra Schröder e la Merkel (che, secondo i sondaggi, aveva visto emergere come vincitore il cancelliere in carica) riuscì a scalfire più di tanto il vantaggio della Cdu sulla Spd, che alla vigilia delle elezioni era stimato intorno al 9% (42% contro 33%, in media). I numeri di centrodestra e centrosinistra nel loro complesso erano, in realtà, più ravvicinati, ma Schröder continuava a rifiutare qualsiasi ipotesi di alleanza con la sinistra Die Linke/Pds o con i Verdi. E questo rendeva di fatto impossibile una coalizione “rosso-verde”. Immediatamente dopo la chiusura dei seggi, però, già con la diffusione dei primi exit-poll diventò subito chiaro che il successo della Cdu sarebbe stato molto inferiore al previsto. E soprattutto che l’alleanza Cdu/Csu-Fpd non avrebbe

avuto i seggi necessari per governare. Gli exit-poll delle televisioni Ard e Zdf davano la Cdu al 35%, la Spd al 34%, i liberali al 10%, la sinistra al 9% e i Verdi all’8%. Forsa aveva dati leggermente diversi per Cdu (36%) e sinistra (8%), ma il quadro restava sostanzialmente lo stesso. Stavolta gli exit-poll si dimostrarono corretti.Tra uninominale e proporzionale (il sistema tedesco è misto), Cdu e Csu non andarono oltre il 36,8% (226 seggi): appena un soffio davanti alla Spd (36,2% con 222 seggi). Con 286 seggi, l’alleanza tra Cdu/Csu e Fpd non aveva raggiunto i 308 seggi necessari per conquistare la maggioranza al Bundestag. A posteriori, Schröder era riuscito a convincere un gran numero di elettori “indecisi”, ribaltando in extremis un risultato che i sondaggisti avevano dato per scontato ormai da mesi. Con il pareggio, l’unica strada praticabile per la Germania restava la Große Koalition.


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L’ITALIA AL VOTO ROMA. Tommaso Frosini, costituzionalista, è professore ordinario di diritto pubblico comparato nell’università di Napoli suor Orsola Benincasa. Prosegue con lui il dibattito di liberal sulle riforme istituzionali. Professore, fare le riforme istituzionali in Italia sembra impossibile. Tutti ne avvertono la necessità ma la storia di questi anni parla solo di tentativi naufragati. È così, ma credo sia giusto fare una piccola ma importante eccezione: nel 2001 si è riusciti a fare la riforma del titolo V della Costituzione per via parlamentare e col voto confermativo del referendum. Poi sono state fatte altre piccole riforme. L’articolo 51, che ha introdotto la pari opportunità, l’articolo 111 il giusto processo e l’articolo 55 che ha introdotto i parlamentari italiani all’estero. Però è vero che non si è riformata la seconda parte della costituzione. Perché secondo lei? Perché nella bicamerale non c’era accordo tra le forze politiche. E perchè il referendum del 2006 è fallito. È evidente l’incapacità delle forze politiche da un lato di introdurre i meccanismi adatti per modificare la Costituzione dall’altro di portare a sintesi varie opzioni istituzionali: presidenzialismo, semipresidenzialismo, cancellierato. Certo non si può escludere che nella prossima legislatura, anche grazie alla parziale semplificazione del quadro politico, potranno emergere condizioni migliori almeno per riforme subcostituzionali. Di quali riforme parla? L’esigenza di riformare la Costituzione è nata soprattutto da quella di trovare meccanismi più funzionali di governabilità. È per questo che si è cominciato sempre più insistentemente a parlare di presidenzialismo, semipresidenzialismo, addirittura del sindaco d’Italia. Ma questo obiettivo lo si può raggiungere con riforme che incidono sulla Costituzione ma per via parlamentare. Riforme come quella di dare al primo ministro il potere di chiedere lo scioglimento delle camere per esempio, di revocare i ministri. E anche se queste ulteriori modifiche costituzionali non si è riusciti a mandarle in porto si deve però ammettere che oggi siamo in presenza di un sistema elettorale che consente almeno ai cittadini di designare il presidente del Consiglio. A me sembra un successo aver portato il corpo elettorale ad eleggere non solo i rappresentanti ma i governanti. È vero, sul fronte delle riforme elettorali sono stati fatti dei passi concreti è sulle riforme istituzionali però che è tutto fermo. Ad esempio è evidente a tutti che il nostro bicameralismo perfetto sia un anacronismo e però è un anacronismo che sembra ancora avere un grande futuro davanti a sé. Certo, è assurdo che l’Italia continui ad avere due camere identiche.Vanno distinte, ma per questo occorre cambiare la Costituzione.

Terza Repubblica. Le riforme istituzionali/2 Tommaso Frosini

Primo traguardo la governabilità colloquio con Tommaso Frosini di Riccardo Paradisi

Il presidente francese, Charles De Gaulle (nella foto con Amintore Fanfani), per passare alla V repubblica non insediò un’Assemblea costituente. In Italia ogni riforma trova mille ostacoli nel suo cammino

Un’Assemblea costituente? Solo se le modifiche da apportare alla nostra Costituzione dovessero essere radicali e profonde. Ma per ora è un orizzonte molto lontano» Appunto. Forse è necessaria un’Assemblea costituente. Già ma le potenzialità di un’assemblea costituente sono complesse. Potrebbero portare i costituenti a cambiare e riformulare per interno la Costituzione, dall’art 1 al 139. E poi le riforme dell’Assemblea costituente dovrebbero essere decise con un voto a maggioranza assoluta? Questo comporterebbe però l’esclusione di qualcuno dalla riscrittura delle regole. Il problema dell’assemblea costituente è circondato poi da altre ambiguità. Per esempio? Quali dovrebbero essere le funzioni dell’assemblea? Quale legge dovrebbe istituirla? Una legge costituzionale? Certo c’è l’articolo 138 che dice che bisogna avere la maggioranza dei tre quarti del parlamento e la doppia lettura delle camere e se invece c’è maggioranza semplice si va al referendum. Ma si tratterebbe di aprire una nuova contrapposizione politica. E poi un’altra cosa: chi è parlamentare potrà sedere nell’assemblea costituente? E con quale criterio si approverebbero i provvedimenti dell’Assemblea?

A maggioranza assoluta o dei tre quarti? Ed è necessario poi un referendum popolare per ratificarli? Ecco, prima di parlare di assemblea costituente tutti questi passaggi andrebbero chiariti bene. Insomma lei vede più i rischi di un’Assemblea costituente che le opportunità. Se guardiamo all’Europa assemblee costituenti non ce ne sono state. In Europa le riforme si fanno attraverso il potere costituito e non con le costitituenti. Anche De Gaulle non insediò mica un’assemblea costituente per passare alla V repubblica. D’altra parte se vogliamo cambiare la costituzione uno strumento c’è: si può utilizzare l’articolo 138. L’Assemblea costituente può essere un’orizzonte, uno stimolo ma non è una soluzione. A meno che… A meno che? A meno che le forze politiche volessero mettere in moto dei cambiamenti davvero profondi e radicali nella nostra Costituzione: a cominciare dalla riscrittura dell’articolo 1 immaginando per esempio, come si è già detto su liberal, una repubblica fondata sulla persona più che

sul lavoro. Ma a me sembra che le modifiche realmente avvertite siano più mirate, come la riforma del Senato. Però professore faccio a lei la stessa obiezione che ho fatto a Barbera. Ma per quale motivo i senatori dovrebbero votare una modifica costituzionale che di fatto, con la trasformazione del Senato in una Camera consultiva, depotenzia il loro ruolo? Guardi con la riforma del centrodestra il Senato non votava già più la fiducia e diventava una camera federale. In quella circostanza si riuscì a far votare ai senatori questo progetto. Poi il referendum lo bocciò: ma fu un passo importante. Si è dimostrato che l’esperienza di una maggioranza politica riformista è possibile. E se per ipotesi il corpo elettorale avesse votato a favore del referendum noi oggi avremmo un’altra organizzazione del Senato. C’è un periodo ipotetico e un condizionale nel suo ragionamento: di fatto noi non abbiamo un’altra organizzazione del Senato. No, ma abbiamo una consapevolezza più generale che la Costituzione va modificata. Che va cambiato il nostro bicameralismo. Che si deve aprire una stagione di grandi riforme. Non ci sarebbe la stessa consapevolezza senza tutti i tentativi che sono stati fatti fino ad oggi.


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società

Dopo Nassirya raddoppiate le domande di arruolamento. Il paradosso italiano delle Forze armate

Lontane dalla politica e amate dai giovani di Mario Arpino l Guardian del 26 marzo scorso riportava la notizia che il sindacato nazionale degli insegnanti britannici si apprestava a lanciare una nuova campagna contro la propaganda per il reclutamento militare nelle scuole. Il motivo, secondo il sindacato, è che il ministero della difesa userebbe argomenti devianti e poco educativi, omettendo di raccontare ai ragazzi tutta la verità, quando spiega che i militari vengono inviati all’estero per portare la pa-

I

Gran Bretagna e gli Stati Uniti, le difficoltà di reclutamento di volontari effettivamente ci sono, a prescindere dall’attivismo più o meno pacifista dei sindacati degli insegnanti. Il tema, in ogni caso, è oggetto di civile dibattito interno, e questo certamente non è male. Per lo meno, è un sicuro segno di interesse.

E in Italia, cosa succede? Non credo proprio che tra i sindacati degli insegnanti siano questi i problemi di prioritario dibattito. Anzi, sembrerebbe che a livello istituzionale di questi argomenti non se ne interessi proprio nessuno, se non saltuariamente e per motivi di parte quando si tratta di votare il rinnovo semestrale dei decreti di finanziamento delle nostre “missioni di pace”. Ovvero, quelle missioni condotte dai “soldati di pace”a fianco degli alleati inglesi e americani, che invece si sentono, come sono, “soldati in guerra”, dove la pace ancora non c’è. Siamo in campagna elettorale già da tempo, ma qualcuno ha mai sentito uno so-

Dopo l’11 settembre, tutti i Paesi occidentali hanno aumentato le proprie spese per la difesa. Tutti, ad eccezione dell’Italia, che continua a detenere la “maglia nera”

ce, la sicurezza, la ricostruzione e la democrazia. Il ministero ovviamente ribatte, chiarendo che le conferenze nelle scuole non sono fatte allo scopo di propagandare il reclutamento, ma per rendere più consapevoli gli studenti del ruolo delle forze armate nella società. Se le informazioni fornite dal ministero non fossero fuorvianti e unilaterali – replica un rappresentante sindacale londinese – allora si dovrebbe anche dire «…arruolatevi, e noi vi manderemo a bombardare, a uccidere e probabilmente anche a torturare esseri umani in altri paesi…». Il riferimento a Irak e Afghanistan è sin troppo evidente, come è noto il fatto che nelle nazioni più impegnate su questi fronti, segnatamente la

Il disinteresse della politica nei confronti della Forze Armate non conosce colore politico. Si tratta di un problema culturale con il quale dobbiamo fare i conti

lo dei nostri “candidati premier”, che girano quotidianamente la penisola in lungo e in largo, esprimere una qualche ideuccia che riguardi lo stato delle nostre forze armate o il problema del loro impiego all’estero nel contesto delle alleanze sottoscritte? Io, no. Eppure, partecipiamo a quasi tutto, anche quando nessuno ce lo chiede – come in Libano – e facciamo dei nostri soldati il princi-

pale veicolo di politica estera. Parlare di cose militari in campagna elettorale evidentemente non paga. Identica cosa, a riprova, era accaduta anche prima delle elezioni del 2006. Ricordo che mi ero preso la briga di leggere i programmi dei due schieramenti, uno dei quali, in verità, assai ponderoso. Circa la difesa, nulla o quasi su quello più piccolo, e solo poche righe, inutili, banali e con-

Lezione di storia al generale Del Vecchio che fosse stato il segreto delAl generale Del Vecchio, candi Nicola Procaccini l’invincibilità, durata ben 33 didato del Partito Democratico, sommerso dalle critiche per le sue anni, del celebre «esercito d’amanti» della città dichiarazioni sull’inadeguatezza degli omoses- greca di Tebe. Quando giunse il momento della suali alla pratica militare, vien proprio voglia di sconfitta, durante la battaglia di Cheronea nel esprimere solidarietà. Ma siccome è candidato 338 a.C. il Battaglione Sacro, circondato dall’eper il Pd vien pure voglia di dare una lezionci- sercito di Filippo il Macedone e per nulla deciso na di storia. Racconta Plutarco che 150 coppie ad arrendersi, rimase sul campo e cadde in di omosessuali composero il più invincibile plo- battaglia. Plutarco narra che, alla vista dei catone militare della storia: il Sacro Battaglione daveri ammassati dei membri del Battaglione, e Tebano. Se combattere per il compagno sulla avendo capito chi fossero, Filippo esclamò: propria sinistra era la ragione di vita o di morte «Che sia messo a morte chiunque sospetti che all’interno di tutte le legioni dell’antichità. Bat- questi uomini abbiano fatto o subìto qualcosa tersi per l’uomo amato al proprio fianco sembra di indecente!».


società

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condotta “porta a porta” nelle ultime classi delle scuole superiori. Una volta si faceva, e ricordo che per noi, giovani piloti con tanto di aquila d’oro sulla divisa azzurra, a fine anni ’50 e primi anni ’60 era quasi un premio, il perché lo lascio immaginare trattandosi di “arruolare” in classi miste, girare per le scuole raccontando cose mirabolanti che davvero ci piacevano e nelle quali – eravamo in piena guerra fredda – effettivamente credevamo.

Il paradosso italiano

traddittorie, su quello di 270 pagine. Altra riprova del disinteresse, ma lo chiamerei “fastidio” della politica per le forze armate, è l’andamento dei bilanci per la difesa, ormai asfittici al punto di strozzare quasi completamente la funzione “esercizio”, compromettendo in modo difficilmente reversibile la vita quotidiana, l’addestramento e la funzionalità delle unità operative, cui, contraddicendosi, la stessa politica chiede ogni giorno qualcosa di più. Né c’è da mettere in croce questo o quel governo, oppure questa o quella forza politica. È un Paese, il nostro, dove un governo di qualsivoglia colore, trovandosi nella necessità di ridurre le spese correnti e dovendo scegliere tra ridurre i fondi alla sanità, alla scuola, alle pensioni o alla difesa, non c’è ombra di dubbio che sceglierà di “tagliare” la difesa. Nessuno si lagnerà, e forse ci scapperà anche qualche applauso. Certamente, nessuno mobiliterà la piazza o organizzerà marce reclamando più soldi per la difesa. Non c’è altro paese, dopo l’11 settembre, che si sia com-

portato così. La Gran Bretagna (forse i sindacati degli insegnanti non saranno stati d’accordo) e la Francia hanno accresciuto sensibilmente il proprio bilancio. La Germania, impegnata a risanare l’economia delle regioni orientali, ha comunque tenuto botta. Lo hanno fatto, seppure entro limiti modesti, persino la Norvegia e il Portogallo, seguiti dalla piccola Danimarca. Noi no, e continuia-

difesa potrebbe essere un problema genetico, o culturale, o tutte e due le cose assieme. L’assetto culturale di un popolo è un cocktail con molti ingredienti, non sempre e non tutti identificabili. Se è il nostro popolo che non va pazzo per i militari, e di riflesso la politica – tranne quando servono – può permettersi di considerarli dettaglio secondario, potremmo anche immagina-

Come nel 2006, anche quest’anno i candidati non sembrano molto interessati ai problemi dei militari e al loro utilizzo nelle missioni estere mo a mantenere, con malcelato orgoglio piuttosto che con vergogna, la maglia nera in termini di spese per la difesa, classificandoci all’ultimo posto in Europa e nell’Alleanza.

Un problema di cultura Se non è un problema di colore politico – anzi, sembrerebbe essere un’invariante – allora questa indifferenza per le cose della

re qualche giustificazione. In fondo, solo noi abbiamo avuto un memorabile otto settembre, che sulle nostre forze armate, ancorché incolpevoli, ha lasciato un effetto-alone certamente non esaltante. Poi, nel dopoguerra, assieme alla democrazia figlia della Resistenza, quando faticosamente cercavamo di guadagnarci la fiducia della Nato, ci distinguevamo per avere in casa

il partito comunista più forte dell’Occidente, con conseguenti lunghi anni di disinformàzia. Sempre di conseguenza, le nostre scuole dopo il ’68 hanno continuato a conservare visibilmente, ancora oggi ne sono affette, tutti i vizi e assai poche virtù di un’epoca che altri invece hanno superato. Non escluderei che, come nel Regno Unito, anche qui da noi, in alcune scuole ben note, insegnanti ideologicamente viziati, e un certo numero di studenti, non gradirebbero una propaganda ministeriale

Se in Inghilterra questo sistema è ancora in uso, credo che in Italia sia cessato o quasi da diversi anni. In primo luogo perché le forze armate hanno messo grande impegno per aprirsi alla società, in secondo luogo perché ormai si usano metodi e tecniche di carattere più moderno e “commerciale”, terzo, e qui viene il paradosso, perché la propaganda non serve più. Non perché l’informazione non sia ancora utile, ma perché, almeno in termini numerici, in Italia la domanda di arruolamenti eccede di molto l’offerta. Nel senso che se noi volessimo fare come il democratico Barak Obama, che nel programma elettorale ha promesso di incrementare l’Esercito di 65mila soldati, i Marines di 27mila e di aumentare la prontezza operativa della Guardia Nazionale – cosa difficile viste le difficoltà di reclutamento negli Usa – noi non avremmo problema di sorta, se non, ovviamente, quello finanziario. In ogni caso, ci stiamo accingendo a diminuire ulteriormente gli organici, aumentando il gap tra domanda ed offerta. Giorni or sono, ero presente al giuramento di un corso per piloti e ingegneri dell’Accademia Aeronautica: ebbene, per l’arruolamento di una cinquantina di allievi, i concorrenti sono stati oltre cinquemila. Multipli di varie grandezze anche per i sottufficiali e i volontari di tutte le armi. La stragrande maggioranza dei concorrenti, e, in proporzione, degli arruolati, proviene dal centro-sud, con Campania e Puglia che fanno la parte del leone. Quasi irrilevante la presenza di candidati del nord Italia. E non si può dire che il motivo sia solamente la ricerca del posto di lavoro, che, tra l’altro, per i volontari di truppa è sempre precario. Se vediamo il risultato finale, ci deve essere anche una buona dose di motivazione, considerando che storicamente il maggior numero di domande in assoluto – un raddoppio - si è avuto subito dopo l’eccidio di Nassiryia. Il paradosso? Mentre la politica si disinteressa delle forze armate, queste, per una ragione o per l’altra, attirano l’interesse di una porzione non indifferente della popolazione giovanile, che, a sua volta, si disinteressa totalmente della politica. C’è da riflettere…


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mondo

LHASA.

Le dimostrazioni e violenze esplose nelle scorse settimane a Lhasa, la capitale del Tibet, si sono rapidamente diffuse nelle vicine province. In queste zone, distanti dai riflettori dei media mondiali, gli scontri non sono avvenuti solo tra tibetani e Han cinesi, dai quali i locali si sentono colonizzati. Nel conflitto attualmente in corso sul “tetto del mondo” esiste anche una terza fazione, le popolazioni musulmane locali, alla quale è stata data poca attenzione. In Tibet tra islamici e tibetani è in atto, da secoli, un conflitto strisciante di cui sono responsabili le due etnie e che negli ultimi anni ha preso pieghe sempre più violente. «Se vuoi possiamo andare a cena insieme, ma non in un ristorante islamico», mi ha detto un’amica tibetana quando io, un paio di anni fa, sono stata a trovarla a Lanzhou, la capitale della provincia di Gansu. Era il momento in cui gli studenti tibetani della locale Università, iniziavano i sit-in di protesta che puntavano al boicottaggio di negozi e ristoranti musulmani. «Ce la dobbiamo vedere tra di noi. Dobbiamo sostenere le attività economiche tibetane».Ecco cosa volevano gli universitari, secondo quanto riferito dalla mia amica. Il via alla protesta lo aveva dato uno scontro finito a coltellate tra giovani dei due gruppi etnici, nel quale era stato ucciso un tibetano, nel piccolo centro di Qinghai. Ma la strategia studentesca intendeva andare oltre il semplice boicottaggio economico islamico. Pur sapendo che la tensione tra le due comunità avrebbe raggiunti livelli di guardia, occorreva contrastare il tam-tam di voci che agitava la comunità buddista e che agli occhi di molti giustificava misure di ritorsione. Si sussurrava che i cuochi musulmani versassero miscugli immondi nel cibo, ossa tritate di morti, allo scopo di convertire alla loro religione i tibetani che lo avessero assaggiato. Il fatto che l’Islam seppellisca e non pratichi la cremazione, non veniva preso in nessuna considerazione. Ovviamente, questo particolare raccapricciante non spiega i motivi degli scontri tra le due comunità. Fondamentali invece sono i rapporti di forza economici. Soprattutto a nord di Qinghai e Gansu, a lato della via della Seta, dove i due gruppi etnici sono costretti a vivere fianco a fianco, questi sono sfavorevoli alla comunità buddista. In quest’area gli scontri sono regolari e numerosi e riguardano - il più delle volte - l’acqua e il possesso delle poche terre

Reportage dal tetto del mondo, dove le violenze si allargano ad altre comunità

Commercio e religione, in Tibet si apre il fronte islamico di Nina Ritter che riescono a sfuggire alla siccità. Molti studenti trovano queste condizioni ingiuste e non fanno nulla per nasconderlo. «I musulmani mettono le mani sulle terre migliori della valle e continuano a spingerci verso le montagne», afferma un universitario di Xining. Nel suo villaggio è un minuscolo rigagnolo, fonte di tutte le risorse idriche della collettività, ad essere alla base dei rancori locali. Il paesino si trova a Xunhua, nella regione del Qinghai. Una zona che Pechino ha lasciato all’amministrazione del gruppo etnico musulmano dei Salar. Un altro tibetano del luogo ammonisce: «gli islamici dominano l’economia e l’amministrazione. Negli affari si sostengono l’uno con l’altro accaparrandosi tutto. Il resto, molto poco, spetta a noi». Altri affermano che i musulmani, avendo in mano tutto il commercio, non farebbero altro che imbrogliare. «Mio fratello voleva vendere delle capre - racconta un giovane nomade buddista - un paio di musulmani Hui le hanno

Per la popolazione nomade locale molti mestieri erano impuri. E i musulmani adesso li controllano

comprate, poi con una scusa si sono portati via gli animali dicendo che metà della somma l’avrebbero pagata in seguito. Naturalmente i soldi non li ha visti nessuno». Un professore islamico di etnia Salar cerca di giustificare i suoi correligiosi. «È possibile che vi sia chi cerchi di sfruttare l’ingenuità tibe-

tana nel campo degli affari. Ma si tratta di eccezioni». Se i musulmani della regione hanno preso il sopravvento nel campo degli affari, i tibetani non possono che rimproverare se stessi. Molti buddisti, che per tradizione erano nomadi o contadini, continuano a vivere così anche al giorno d’oggi. Gli islamici nei secoli precedenti hanno approfittato di questa mancanza di sedentarietà per accaparrarsi tutti i mestieri ritenuti bassi o impuri dai seguaci del Dalai Lama, per radicarsi nel settore imprenditoriale. I tibetani considerano il macello degli animali, i lavori manuali e, soprattutto, il commercio, occupazioni indegne. Quando, alla fine della fase della collettivizzazione, in Cina è iniziata la politica di apertura e l’attività privata è tornata legale, sono stati i musulmani ad approfittare per primi delle nuove possibilità e, grazie alla loro rete di vasti contatti, hanno surclassato i tibetani.

Con i boicottaggi, iniziati nel 2003, i tibetani vogliono ora espellere i commercianti dai territori dove si sono insediati. Una strategia che non sempre funziona. Dalle vetrine dei ristoranti appartenenti in precedenza ai musulmani nella provincia del Qinghai da qualche tempo si può leggere, in tibetano, «zuppa tibetana, pane tibetano». In realtà i ristoranti islamici offrono le stesse ricette, ma cucinate meglio. Qualche giovane tibetano lo ammette. «Prima il cibo era più buono afferma - ma i tibetani devono mangiare nei propri ristoranti». Se si chiede ai musulmani della zona il loro parere sui tibetani, questi rispondono che si tratta per lo più di esseri tonti e incapaci. Specialmente nelle zone nomadi, dove i giovani annoiati non vedono l’ora di lasciare le capre al loro destino per andare ad ubriacarsi in città cercando spesso lo scontro: insomma, i tibetani non godono di una buona reputazione. Un tassista musulmano ha così commentato i recenti scontri: «sembrano aver perso il bene dell’intelletto». Questo quarantenne dal viso simpatico e la kippah bianca, segno di riconoscimento dei cinesi musulmani, racconta sogghignando tutto quanto sa di bizzarro sui tibetani. Poi, una volta finite le barzellette, aggiunge serio: «Nello Xiahe hanno incendiato la moschea, a Lhasa hanno fatto lo stesso. Si stanno spingendo un po’ troppo in la». Le autorità cinesi fanno poco per risolvere i conflitti etnici. Per le fonti ufficiali, i rapporti tra le diverse popolazioni della Cina sono armoniosi. Ma è propaganda del governo centrale. In realtà si vuole evitare ogni discussione al riguardo. A livello locale chi ha potere e denaro, si tratti di cinesi Han, musulmani o tibetani, si preoccupa solo di tenere la propria barca fuori da ogni possibile tempesta. In passato i tutori dell’ordine riuscivano rapidamente, ma solo momentaneamente, a spegnere ogni fiammata etnica. Ora che in quasi tutti i centri è esplosa la violenza tra i grandi gruppi etnici della regione, e con i militari sparpagliati in tutto il Tibet, la situazione è più complessa. Nel caso in cui calasse il livello dello scontro, il governo cinese farebbe bene ad abbandonare la visione idealizzata della “celeste armonia” per capire in quali condizioni vivono veramente il popoli dell’Impero di mezzo. © Neue Zürcher Zeitung- Il nome della giornalista, per motivi di sicurezza, è di fantasia.


mondo

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Restano 180 chilometri di “linea verde”, ma la divisione ha perso il suo simbolo

Cipro rinasce da Ledra Street d i a r i o

d e l

g i o r n o

Nato, Georgia e Ucraina in stand by Il vertice Nato di Bucarest non ha accordato a Georgia e Ucraina un Piano d’azione per l’adesione (Map), ma ha assicurato che in futuro diventeranno membri dell’Alleanza. La situazione sarà riesaminata alla riunione dei ministri degli Esteri della Nato di dicembre, dove ai due Paesi potrebbe essere assegnato il Map se ve ne fossero le condizioni. Dal summit è invece arrivato l’invito ad Albania e Croazia a entrare nella Nato, mentre per la Macedonia l’ingresso sara’ subordinato alla soluzione della “querelle” con la Grecia sul nome. Una scelta contestata dalla delegazione di Skopje che ha abbandonato il summit per protesta. Nel documento finale si sottolinea anche l’importanza dello scudo antimissile americano, avversato da Mosca, per la difesa degli alleati europei. E sarà, questo, un possibile elemento di tensione nei colloqui tra i leader dei 26 alleati e il presidente russo Vladimir Putin, arrivato ieri sera a Bucarest. Al summit, Stati Uniti e Repubblica Ceca hanno raggiunto un accordo per l’installazione nel Paese europeo del radar per lo scudo antimissile americano. Nicolas Sarkozy ha invece confermato che la Francia invierà 700 soldati nell’est dell’Afghanistan, permettendo quindi alle truppe americane schierate in quell’area di trasferirsi a sud e affiancare i canadesi nei combattimenti contro i talebani. È stato anche annunciato che il vertice del 2009 per i 60 anni della Nato si celebrerà tra Strasburgo e Kehl, a cavallo del confine tra Francia e Germania.

Cina 1/ Lhasa riapre al turismo di Maria Maggiore NICOSIA. I soldati delle Nazioni Unite sono rimasti, ma questa volta confinati in un angolo con i fucili abbassati, per controllare l’euroforico viavai delle persone. Dalle otto e mezza di ieri mattina Ledra Street, il serpente pedonale di Nicosia, simbolo della divisione tormentata tra greco-ciprioti e turco-ciprioti, è stata riaperta. Un’emozione immensa per gli abitanti di questa città che per quarantacinque anni sono stati abituati a vedere un muro a metà dell’antica via di traffico della città. Da una parte la ricca Nicosia dei greco-ciprioti, colma di banche, ville, negozi, da poco entrata nell’euro. Dall’altra il bazar dei turco-ciprioti, con i negozietti in fila uno dopo l’altro, i turbanti e i chador. E in mezzo il filo spinato, i mitra delle Nazioni Unite e una no man’s land di qualche decina di metri abbandandonata al degrado. Ieri, sopra Ledra street volavano i palloncini, uno striscione sventolato dai ragazzi turchi sbandierava lo slogan «Sì alla pace adesso», mentre centinaia di belle ragazze more bevevano birra attraversando su e giù la strada, curiosando l’altra parte del confine. Che si tratti di una giornata storica per Cipro, è innegabile. L’anno scorso i greco-ciprioti, in segno di distensione, avevano abbattuto il muro che separava la strada in due, sostituendolo con una sottile lamiera

col filo spinato senza l’esercito. La reazione turco-cipriota era stata nulla, dall’altra parte i soldati turchi non si erano mossi.

Quest’anno il vento è cambiato e molti credono sia la volta buona per riaprire i negoziati per la riunificazione dell’isola, sospesi bruscamente nel 2004, dopo il fallito referendum di Kofi Annan. Il 23 gennaio il premier greco Costas Caramanlis è andato in visita a Ankara. Non succedeva da 49 anni. Al termine dell’incontro il primo ministro turco, Recep Erdogan ha dichiarato: «il 2008 sarà l’anno di Cipro». I media l’hanno giudicato un evento storico. Poi in

zio. Ora si aspettano segni da Ankara. È la Turchia ad avere il pallino in mano. I suoi 60mila soldati ancora di stanza a Cipro, i 100mila coloni, spediti in questi anni a Famagosta dalla povera Anatolia per irrobustire le fila turco-cipriote, la mettono in una botte di ferro. E soprattutto, è la Turchia che deve riconoscere Cipro e consentire alle navi greco-cipriote di attraccare nei suoi porti e agli aerei di sorvolare i suoi cieli.

«Basterebbe un ritiro, anche parziale, dei soldati turchi e il riconoscimento di Cipro, per firmare l’accordo di riunificazione», spiega un diplomatico greco-cipriota a Nicosia. Ankara ha sempre usato Cipro come arma per il suo avvicinamento all’Europa. Ostile al suo ingresso nella Ue, ma favorevole al piano Annan del 2004 (che permetteva ai soldati turchi di rimanere ancora dieci anni nell’isola), Erdogan sa benissimo che il suo asso nella manica per entrare nell’Ue, è proprio Cipro. E, alla vigilia della presidenza francese, con un Sarkozy fermamente contrario a una Turchia europea, ha cominciato a sbandierare le sue rinnovate buone intenzioni per la riunificazione dell’isola. Intanto le due comunità si sono riavvicinate e il dialogo è aperto. Ora tocca alla Turchia. Il futuro di Cipro è nelle sue mani.

L’anno scorso i greco-ciprioti, in segno di distensione, avevano abbattuto il muro che separava la strada in due, ma i soldati turchi non si erano mossi febbraio è stato eletto a Cipro un presidente comunista, Dimitris Christofias, schierato a favore di una riunificazione rapida dell’isola, la cui parte nord è occupata dai turchi dal ’74 in risposta a un mancato golpe greco-cipriota teso a annettere Cipro alla Grecia. Cristofias ha incontrato il suo omologo turco il 21 marzo e si è concordata l’apertura immediata di Ledra Street. E’solo un gesto simbolico, i 180 chilometri di «linea verde» che dividono in due l’isola restano con tutto l’armamentario di caschi blu e check point. Ma è un’ini-

I turisti cinesi e stranieri potranno tornare a visitare Lhasa, la capitale del Tibet, dal 1 maggio. Lo ha annunciato il segretario del Partito Comunista del Tibet, Zhang Qingli. A Lhasa è previsto in giugno il passaggio della fiaccola olimpica, il cui viaggio intorno al mondo è stato disturbato fin dal suo inizio da contestazioni di gruppi per i diritti umani. Arriva intanto la richiesta di cancellare la fiaccola in Tibet perché sarebbe una “provocazione”: l’appello al governo di Pechino è arrivato da un emissario del Dalai Lama, nel corso di un’audizione al Congresso Usa.

Cina 2/ tre anni e mezzo a Hu Jia Confermando la linea dura verso i dissidenti e le minoranze, la Cina ha condannato l’attivista democratico Hu Jia a tre anni e mezzo di prigione. Il Tribunale lo ha riconosciuto responsabile di «istigazione alla sovversione dell’ordine pubblico» sulla base di sei articoli diffusi attraverso Internet e di due interviste rilasciate alla stampa straniera.Due settimane fa un altro dissidente,Yang Chulin, che aveva raccolto diecimila firme per una petizione intitolata “Vogliamo i diritti umani, non le Olimpiadi”, ha avuto per lo stesso reato cinque anni di prigione.

Turchia, il Pkk resta su lista nera Ue Nuovo allarme, al momento rientrato, per il premier turco Recep Tayyip Erdogan. Dopo lunedì, con la decisione della Corte Costituzionale di mettere sotto accusa il suo partito, Erdogan ha rischiato di dover affrontare un’altra sentenza, non meno insidiosa. Ieri tutte le televisioni turche hanno diffuso la notizia, sconvolgente per il Paese, che la Corte europea di giustizia aveva annullato la decisione di inserire il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, nella lista delle organizzazioni terroristiche. Successivamente, sono arrivate le delucidazioni che, in parte, hanno sollevato gli animi governativi ad Ankara. I giudici dei Lussemburgo hanno annullato la prima decisione dell’Ue ai danni del Pkk, risalente al 2002, ma non l’ultima revisione della lista nera del dicembre 2007, che include 48 organizzazioni tra cui Hamas e i Muhajeddin del popolo iraniani. In termini pratici dunque non cambia nulla, il gruppo rimane sulla lista.


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speciale approfondimenti

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Esce oggi il libro di Maurizio Stefanini sulla storia dei governi frutto di intese politiche tra opposti schieramenti. Liberal ne propone in anteprima alcuni stralci

FATTI E MISFATTI DELLE GRANDI COALIZIONI Il governo perfetto? Forse non esiste prefazione di Giulio Andreotti bituati alla ventennale monotonia del governo mussoliniano monocolore, quando il piccolo colpo di Stato del 25 luglio 1943 vi pose fine sarebbe apparso logico il tornare a un Gabinetto imperniato su diverse forze politiche. Il Quirinale scelse invece una specie di commissariamento del governo, affidandolo al maresciallo Badoglio. Non è molto chiaro se fu lo stesso Badoglio a decidere o se gli fu imposto di non imbarcare alcun politico. Forse si deve a questa apoliticità il modo disastroso con il quale fu pattuito e reso pubblico l’armistizio. Dopo la Liberazione di Roma si adottò la strada giusta, affidando il Viminale al presidente del Comitato di liberazione nazionale, il già primo ministro prefascista Ivanoe Bonomi, il quale volle che il governo fosse condiviso dagli esponenti dei sei partiti del Comitato liberatore. E’ sempre motivo di opinioni differenti la questione degli effetti della composizione ministeriale. Alcuni ritengono il monocolore garanzia di speditezza nelle decisioni, mentre la pluralità dei partiti – secondo altri – amplierebbe il consenso. Il governo della Liberazione durò pochi mesi (del resto era già previsto che dopo il ritorno del Nord vi sarebbe stato un governo nuovo). La cronaca illustra la rapida crisi del Bonomi I e l’identica breve durata del Bonomi II. Al Viminale, in omaggio all’Italia ormai interamente liberata, andò Ferruccio Parri come simbolo del Nord recuperato all’Unità nazionale. Un personaggio degnissimo, ma assolutamente ignaro degli apparati statali e diffidente verso tutti (vedeva pericolosi fascisti anche nei commessi). Non durò molto e per qualche anno la situazione governativa – pluripartitica – ruotò attorno alla figura eccezionale dell’onorevole De Gasperi. Merita notare che, per non poco tempo, i poteri effettivi del governo italiano erano molto limitati. E nulla era valido senza l’approvazione del governo militare alleato.Tra le decisioni con le quali gli Alleati annullarono provvedimenti del governo italiano vi fu la non approvazione al cambio della moneta. Erano forse troppo inebriati dalla facile stampa delle Am-lire. Sono passati molti anni e le formule di governo si sono alternate senza suscitare traumi. Non è difficile, ma è inutile il quesito sulla bontà dei ministeri monocolori rispetto agli altri. E’ tuttavia un tema da non archiviare del tutto. Sono ancora pendenti ricerche e proposte sui modi più idonei di strutturare lo Stato. Profondamente malinconico è quel che, secondo le memorie del commesso di Mussolini Navarra, il «duce» gli avrebbe detto: «Governare gli italiani, non è difficile: è inutile».Lo studio che viene ora offerto ai ricercatori – anche stranieri – descrive in termini oggettivi quello che è stato l’evolversi di una situazione sempre difficile e complessa. Noi superstiti tra quanti l’hanno vissuta dall’interno avvertiamo certamente anche lacune e passi non indovinati; ma con tutta obiettività possiamo trarre un giudizio positivo, molto positivo.

A

introduzione di Lodovico Festa eggete con attenzione questo saggio di Maurizio Stefanini sulle Grandi coalizioni (tutte quelle del globo sinteticamente raccontate, secondo lo spirito da fantastico archivista borgesiano dell’autore, minuto per minuto).

L

Si tratta della descrizione di come, in un lungo arco di storia e di mondo, si è regolato – e a tratti stemperato – il conflitto tra maggioranze e opposizioni parlamentari, che nelle situazioni di normalità è il sale di una democrazia. Ma, naturalmente, può esprimersi in forme assai differenziate. Stefanini ha il piglio del giornalista ma l’occhio dello storico: sa individuare il punto centrale di una questione e raccontarlo al lettore. Stefanini è anche un liberale, è dunque convinto della bontà delle regole democratiche, ma è consapevole del loro carattere umano e quindi inevitabilmente, almeno in parte, contraddittorio. Il suo lavoro è prezioso perché fornisce una grammatica per capire la politica in una fase, special-

mente in Italia, tormentata. L’autore mi ha chiesto di inquadrare il libro in una situazione politica italiana nella quale è tornato ad aleggiare il nome e lo spirito dei governi di unità nazionale.

Impegno non semplicissimo. Come direbbe un fotografo, non è facile oggi riprendere la situazione italiana: si muove troppo. Cercherò, dunque, di dare al lettore qualche coordinata perché la usi poi per comprendere l’ennesima «nuova fase»

quando questa si sarà stabilizzata. Di una cosa siamo sicuri: dopo il 14 aprile 2008 si dovrà formare un nuovo governo. Sarà un governo di unità nazionale, sarà prodotto da una di quelle Grandi coalizioni di cui in questo libro si racconta? Solo se al Senato non ci sarà una vera maggioranza del centrodestra. Altrimenti, come avviene abitualmente nelle democrazie occidentali, chi avrà la maggioranza dovrà assumersi l’incarico di governare. Ma lo spirito che aleggia di nuovo dialogo

andrà disperso? Non credo. C’è una spinta di fondo a un accordo sistemico che non mi pare possa regredire.Ma per capire la novità della situazione politica, va fatto un lungo passo indietro. Come spiega Stefanini, la nostra Repubblica nasce con lo stile da Grande coalizione durante la Seconda guerra mondiale, anche se è un’unità nazionale costruita contro una parte ampia – almeno fino a una certa fase – dell’Italia stessa, quella fascista. E matura, poi, in una situazione in cui una parte decisiva della politica italiana, il Pci, si pensa come componente di una rivoluzione mondiale guidata da Mosca. Certamente in breve tempo, tra il 1943 e gli immediati anni

del Dopoguerra, grande parte della popolazione italiana dà un giudizio definitivo su alcuni ideali di fondo del fascismo, dal razzismo allo spirito belligerante alla fondativa vocazione dittatoriale: però l’elaborazione del superamento della dittatura e della guerra civile lasciano tracce nella nostra storia. Così come le rigidità che al nostro sistema politica conferisce l’assetto determinato nel


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mondo dalla Guerra fredda: questa rigidità è chiaramente visibile nella nostra Costituzione. La Carta fondamentale della Repubblica, pur ricca di qualità, esprime per tanti versi più una logica da democrazia assediata, quasi impacchettata, che quella della promozione di una democrazia libera e aperta. La società italiana ha dal Secondo dopoguerra in poi uno sviluppo rigoglioso ma dentro istituzioni ingessate che rispondono male alle varie crisi che toccano le società occidentali: la contestazione giovanile, le rivendicazioni del lavoro operaio degli anni Sessanta e Settanta, la questione della legalità degli anni No“Grandi vanta. [...] Quello che tiene in coalizioni” piedi un sistema con tanti eledi Maurizio menti di inefficienza è il conteStefanini. sto della Guerra fredda che a Boroli sua volta consente all’Italia, Editore. Paese di frontiera, un forte gra14 euro do di protezionismo e statalizzazione dell’economia. La fine della Grande guerra civile europea con la caduta del Muro di Berlino e la successiva scomparsa dell’Unione Sovietica, che determinano di fatto una nuova fase di apertura dell’economia mondiale e spingono alla globalizzazione dei mercati, fanno saltare le basi materiali del no-

mercati, e premono sulla nostra società perchè si apra a nuovi equilibri. Questa pressione invece di essere gestita politicamente, attuando grandi riforme istituzionali, è guidata da parte decisiva della magistratura, innanzitutto dalla sua ala militante che ha elaborato per anni una cultura del ruolo salvifico della giustizia, non più solo strumento di controllo della legalità, ma vera e propria forza pedagogico-prescrittiva. [...]

Però pressioni internazionali e orientamento della magistratura non sarebbero stati decisivi senza il ruolo fondamentale di una forza centrale della storia della Prima Repubblica: il Pci in corso di trasformazione in Pds. Sotto la guida di un sostanziale demagogo come Achille Occhetto, i nipotini di Palmiro Togliatti per alcuni versi mimano la tattica antifascista, che nella prassi cominternista degli anni Trenta si era molto affinata, e indicano in Bettino Craxi il nemico pubblico numero uno, accettando in alcuni casi persino pubbliche convergenze con i missini, per più di un tratto ancora neofascisti (sia pure in via di superamento), pur di perseguire l’obiettivo di eliminare

La Costituzione esprime, per tanti versi, una logica da democrazia assediata

stro equilibrio istituzionale. Grandi forze internazionali, dalla Germania e dalla sua Bundesbank, al polo angloamericano, sia politico sia finanziario, chiedono che l’Italia garantisca maggiore libertà, solidità e trasparenza nella sua presenza sui

dalla scena politica il segretario del Psi. E’ la copertura del Pci-Pds convergente con la sinistra democristiana che impedisce una gestione politica della crisi con i governi Amato e Ciampi, e dà spazio alle derive plebiscitarie di un uomo senza visione come Mario Segni, che abbattono gli equilibri esistenti senza costruirne di nuovi secondo un progetto. Da qui il sistema elettorale Mattarellum, che se introduce una logica maggioritaria per il 75 per cento dei seggi par-

lamentari, la imbastardisce con il 25 per cento di quota proporzionale, regalando al sistema un elemento di fragilità decisivo come si è visto nel quindicennio successivo. L’operazione Craxi come nemico pubblico numero uno, se nell’immediato dà fiato agli ex comunisti che dovevano smaltire la crisi dei loro riferimenti internazionali, non riesce a costruire niente di solido per il futuro, e questo per diversi motivi. La pochezza di Occhetto e di Segni (e di Mino Martinazzoli), i comandanti che conducevano le operazioni sul campo. Il cinismo dei contenuti stessi della manovra: grande parte della società italiana aveva ben presente la corresponsabilità dei comunisti nella formazione del sistema della Prima Repubblica. Infine, per la proposta economico-sociale alla fine condizionata dalla base sociale degli ex comunisti e anche questa non accettata da un’Italia che ha il suo cuore in una piccola e media impresa le cui sorti, tra l’altro, sono intimamente intrecciate con parti rilevanti di mondo operaio. Da qui la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi contro cui, però, subito, sotto la guida di un leader più abile di Achille Occhetto, Massimo D’Alema, e sempre grazie al supporto della magistratura (coperta anche da un presidente della Repubblica come Oscar Luigi Scalfaro), viene organizzata una tattica ciellenistica, cioè da Comitato di liberazione contro il fascismo. Anche in questo caso la tattica

fondamentale è quella della convergenza delle forze più ampie (da settori rigidamente conservatori a punte di estremismo quasi delirante), per sconfiggere il nuovo nemico pubblico numero uno. Seguendo i principi di questa tattica, Massimo D’Alema costruisce convergenze prima con Umberto Bossi e Rocco Buttiglione, poi con Lamberto

Dini, infine trae dal cappello la candidatura di Romano Prodi. Questa tattica ha un certo effetto mobilitativo perchè poggia su una diffusa concezione dell’antifascismo, certo in una versione mitologica e senza più veri legami concreti con la realtà, ma in grado di suscitare la passione di settori molto ampi della società italiana. Quella dell’antifascismo-antiberlusconismo è una impostazione politica particolarmente potente che consente di mettere spalle al muro Rifondazione comunista quando incrina la compattezza della coa-

glio. Ed essere dominati da «pensatori» di questo tipo, alla fine condanna all’impotenza intellettuale. Ma al «beniamino del partito» manca quell’oncia in più di carattere e di coraggio che contraddistingue i veri innovatori: ogni volta si blocca all’ultimo momento e prevale in lui la tentazione tattica di pasticciare con il «centro», usando ancora una volta il diabolico strumento dell’unità antifascista-antiberlusconiana. A Piero Fassino, che dopo la sconfitta del 2001 assume la guida di un partito in grande dif-

Sulla criminalizzazione di Craxi non si riuscì a costruire niente di solido per il futuro lizione. Basta l’accusa «fate tornare il fascismo, fate tornare Berlusconi» per mettere in difficoltà qualsiasi rivendicazione economico-sociale o pacifista.

In questo senso si ripete un altro schema togliattiano, quello del riformismo dei fatti praticato al posto dell’iniziativa rivoluzionaria, «per non isolare l’Unione Sovietica». Al posto dell’Unione Sovietica, Rifondazione si vede imposta la «linea» della precedenza alla «lotta a Berlusco-

ni». ’Alema, l’unico dirigente ex Pci con un po’ di consapevolezza storica, cerca di superare, prima con la Bicamerale poi da presidente del Consiglio, una politica – pur da lui stesso messa a regime – che condanna all’arretratezza culturale chi la pratica: per sostenere che Berlusconi è il fascismo bisogna avere la finezza intellettuale di un Paolo Flores d’Arcais o di un Marco Trava-

ficoltà, dopo qualche tentativo innovativo per essere messo in riga basta, invece, un girotondo di Nanni Moretti. E la sinistra torna prontamente così allo schema antifascismo-antiberlusconismo: richiamando in servizio quel Prodi che rappresenta il marchio di fabbrica di questa politica. Decisivo nel perseguire questo obiet-

tivo alla fine suicida per la sinistra di governo è l’atteggiamento del piccolo establishment (quell’accrocchio di potere che, a partire dalle esigenze di risanamento della Fiat e di autodifesa della Banca di Roma, poi Capitalia, si è costituito intorno alla Confindustria montezemoliana e al «Corriere della Sera» mielista) che punta tutte le sue carte nel 2005 sulla vittoria del centrosinistra e l’uscita di scena di Silvio Berlusconi.

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speciale approfondimenti

segue da pagina 13 Il 9 e il 10 aprile rappresentano la sconfitta di questo disegno, ma Romano Prodi in preda a una disperata arroganza non vuole fare i conti con questa realtà. Massimo D’Alema, che potrebbe cercare altre soluzioni, è stato azzoppato dal caso Unipol-Bnl ed è diventato una figura di secondo piano. Per capire le radici culturali dell’ultima «svolta» vanno ricordati alcuni articoli di Barbara Spinelli sulla «Stampa», che di fronte a chi dice che «servirebbe un governo di unità nazionale per gestire la normalizzazione del nostro Paese», sostiene che la Grande coalizione c’è già, va dai Mastella e Dini ai Caruso e oltre per bloccare quel mostro di Berlusconi. Il disegno cinico dei postcomunisti, poi diessini, di costruirsi una prospettiva e un potere politici su una mitologia insostenibile, diventa per l’ala fanatica degli antiberlusconiani una verità rivelata. L’ultima raffica di Salò di questa linea è Paolo Flores d’Arcais, il quale un minuto dopo che tutto è finito propone a quelli del Partito democratico di candidare premier Montezemolo perchè «è l’unico modo di bloccare Berlusconi».

La caduta di Prodi, che ha numerose cause – la centrale è quella economico-sociale: l’idea concordata con quei due geni di Montezemolo e Gugliemo Epifani di tartassare i ceti medi per finanziare un compromesso tra grande impresa e sindacati ha fatto letteralmente saltare le basi sociali del governo – segna la fine del frontismo antiberlusconiano. E avrà effetti profondi nella prospettiva. Walter Veltroni è un politico che con l’antiberlusconismo ci

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di un bel niente. Però senza dubbio un recipiente vuoto è utile per versare del vino novello. E Veltroni questo vino novello l’ha accettato: aiutato non poco da Fausto Bertinotti che vuole riprendere a battersi contro la Nato e per i salari, come fa la sinistra massimalista di tutta Europa, invece che contro la pretesa dittatura di Berlusconi. Questa è la situazione attuale e in questa situazione il ritorno della riflessione su una possibile «unità» non ha più i segni deteriori dell’immediato passato: non si tratta più di un’unità nazionale per far fuori Berlusconi. Non si tratta più di un’unità nazionale appaltata a chi la userebbe per aumentare il proprio potere personale, come sarebbe sicuramente successo affidandosi a uno come Luca Cordero di Montezemolo. Non si tratta di un’unità nazionale per svuotare il potere democratico che, per quanto sbuffante e complicato, resta il metodo più ragionevole per guidare una nazione. Se risarà un governo di unità nazionale, sarà tra i due partiti che hanno preso più voti, che concordano un limitato programma di riforme e si preparano ad alternarsi alla guida del Paese nel futuro. Comunque le scelte di governi di unità nazionale hanno i loro inconvenienti – come si comprende bene leggendo il libro di Stefanini – e sono giustificate solo dall’emergenza (o da conflitti interreligiosi o etnici che la impongono). Speriamo dunque che in Italia non si determinino le condizioni che la rendano necessaria. E se questo succederà speriamo che si riesca a gestirla senza creare eccessive tensioni nella società (e troppe «tentazioni» ai vertici del potere). Molto più interessante sarebbe se dopo il voto e dopo

Le scelte di governi di unità nazionale hanno i loro inconvenienti ha marciato a lungo: è l’inventore del referendum che voleva azzoppare Mediaset a metà degli anni Novanta, ha bloccato D’Alema prima in Bicamerale e poi a Palazzo Chigi ogni volta che questi voleva aprire sulla pacificazione del Paese, si è alleato con Fabio Mussi per bloccare ogni processo di modernizzazione della linea dei Ds proposto – sia pure confusamente – da Fassino, è probabilmente l’ispiratore delle mosse girotondine del suo amico Nanni Moretti, con cui poi ha litigato. Insomma, è un anticipatore

l’acquisizione di una maggioranza netta di una delle due coalizioni alla Camera e al Senato, si formasse un governo con la propria maggioranza e parallelamente si avviasse un processo di riforme costruite grazie al dialogo: una «distensione nazionale» più che «un’unità nazionale». In questi primi mesi del 2008, in questo senso, ho avanzato alcune proposte che mi paiono interessanti. Da una parte riguardano sicuramente compiti di governabilità, che però richiedono un serio confronto bipartisan per vince-

Veltrusconi, l’eventuale coalizione tra Berlusconi e Veltroni è il leit motiv della campagna elettorale in corso re le resistenze corporative della società e gli intricati nodi del potere italiano. Si pensi solo alla questione dell’industria televisiva: mettere le mani in questo tema significa toccare nodi nevralgici del potere italiano e non so se in questo campo pesano più i conflitti di interessi di Berlusconi o quelli del potere politico italiano con il partito Rai. L’industria televisiva nel mondo si integra sempre di più con quella della comunicazione tout court : l’Italia che ha capacità e qualità di rilievo sia in Rai sia in Mediaset corre rischio di non diventare un attore globale perchè il sistema è tale che per preservarlo non si può toccare neanche una tessera del mosaico.

La scelta razionale da fare sarebbe quella di privatizzare la Rai, dando così una vocazione televisiva a gruppi editoriali che, impegnati nella carta stampata, non hanno molto futuro: dal gruppo Espresso-Repubblica a Rcs. Nel contempo vanno favorite le sinergie tra industria delle telecomunicazioni e televisiva, come voleva fare Corrado Passera facendo entrare Mediaset e Colaninno in Telecom Italia, e fu bloccato da Romano Prodi e dal «Corriere della Sera». E’ evidente che un governo Berlusconi vivrebbe con il massimo imbarazzo (e il massimo degli attacchi) qualsiasi proposta organica di riforma di questo settore. Che cosa fare

allora? Rinunciare a modernizzare un settore fondamentale per la nostra economia o accettare di essere attaccati frontalmente per il conflitto di interessi? La mia idea è che si potrebbe procedere se il governo desse vita a una task force gui-

in questo caso ho due suggerimenti: andrebbe primo, nominata una consulta per la riscrittura della Costituzione e la definizione di alcune riforme istituzionali di sistema (per esempio quelle connesse al sistema elettorale e al sistema giudiziario). Compito di questa consulta che dovrebbe ospitare personalità dal carattere forte (tipo Giovanni Sartori) e anche funzionari dello Stato, incompatibili con funzioni politiche ma utilizzabili per «un’alta consulenza», sarebbe scrivere con sicura competenza (per non dire dello stile, che nel riscrivere la Costituzione vuole la sua parte) proposte da affidare poi all’approvazione del Parlamento. Non sarebbe male che su alcuni temi si proponessero soluzioni differenziate, ma comunque «organiche» e ben scritte. E non sarebbe male che su alcune soluzioni (per esempio «separare» definitivamente le carriere di giudici e magistrati inquirenti) alla fine, senza un accordo comune, si sentisse «il popolo»

Punto primo, andrebbe nominata una consulta per la riscrittura della Costituzione data da una personalità indipendente (sul «Foglio» ho proposto per esempio l’ex senatore Franco Debenedetti), in rapporti stretti anche con le commissioni competenti di Camera e Senato. Ovvero, in questo modo, creando un consenso ampio non solo parlamentare ma anche economico-sociale. E così su altre questioni vitali: dal ruolo delle fondazioni bancarie alle iniziative di liberalizzazione del sistema economico. Da questioni delicate come l’uso giudiziario delle intercettazioni telefoniche a un piano per l’alienazione di una grossa fetta del patrimonio pubblico. Oltre alle questioni di competenza governativa ma da affrontare con spirito bipartisan, vi sono poi alcune riforme istituzionali che richiedono un’aperta collaborazione tra maggioranza e opposizione. Anche

con un apposito referendum consultivo. Anche da un rapido esame delle proposte che ho avanzato in vari articoli apparsi innanzitutto sul «Foglio», si comprende che sono ottimista sulla prossima fase. Al fondo questo spirito positivo si basa sul fatto che è stato sconfitto il tentativo di emarginare Silvio Berlusconi dalla scena politica: rendendo finalmente «libero» il dibattito politico. Certo anche con il rischio che poi Berlusconi faccia errori che poi pagherà: ma nel caso meritatamente, non a causa di un venefico accordo ad excludendum. E’ proprio questa nuova aria di apertura e libertà che sento in giro a rendermi ottimista sulla possibilità che eventuali iniziative di unità nazionale, del tipo di quelle preziosamente descritte da Stefanini, possano essere veramente feconde.


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Coabitazione o larghe intese. Formule diverse, stessi problemi

Beato il Paese che non ha bisogno di grandi coalizioni di Maurizio Stefanini l cancelliere dimenticato. Così quando il 6 aprile del 2004 arrivò il centenario della sua nascita fu definito Kurt Georg Kiesinger, capo del governo tedesco dal primo dicembre 1966 al 21 ottobre 1969. Nella memoria collettiva giganteggiano Konrad Adenauer il ricostruttore, il padre dell’Unione Europea assieme a Schuman e De Gasperi. E Ludwig Erhard, l’artefice del miracolo economico. E Willy Brandt, che di Kiesinger era stato il Ministro degli Esteri, l’uomo della Ostpolitik. E Helmut Schmidt, il grande pragmatico. E Helmut Kohl, l’eroe della riunificazione. E Gerhard Schröder, il Blair tedesco, quello che portò i Verdi al governo. E, ovviamente, Angela Merkel, la prima cancelliere donna, e anche la prima cresciuta nell’ex-Ddr (anche se in realtà era nata all’Ovest: il padre pastore luterano si era spostato in territorio comunista perché lì gli avevano assegnato una parrocchia…). Ma non lui. La ragione? In parte, anche per qualche imbarazzo sul suo passato. Iscritto al partito nazista dal 1933, nel 1940

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al suo fianco come vice-cancelliere e Ministro degli Esteri l’antinazista Brandt, che nel 1940 era stato perfino preso prigioniero dagli uomini della Wehrmacht mentre indossava una uniforme norvegese.“Willy il Rosso”, come lo avrebbero poi soprannominato, aveva dovuto fingere di non capire una parola di tedesco, per non essere messo immediatamente al muro come traditore. Ed era stato sempre Kiesinger, certo con Brandt, a iniziare la Ostpolitik, aprendo le relazioni diplomatiche con Jugoslavia, Cecoslovacchia e Romania. Paradossalmente, proprio la delicatezza della sua biografia lo spingeva a mostrarsi più a sinistra che non un antinazista adamantino come il vecchio Adenauer, che era finito due volte in galera durante il regime hitleriano. O lo stesso Erhard, che aveva perso il posto di lavoro, ed era stato in contatto con l’opposizione clandestina. [...]

Nel frattempo, c’è stato il miracolo economico. E il consolidamento della democrazia. E la normalizzazione dei rapporti con

In Germania fu proprio l’abbraccio tra i due partiti a favorire l’inizio del terrorismo aveva iniziato a lavorare alla radio per il Ministero della Propaganda di Goebbels, e nel 1945 era pure finito per un po’in un campo di internamento, prima di essere prosciolto da un tribunale sulla denazificazione, che aveva attestato come in quell’incarico avesse fatto il possibile per sabotare dall’interno la campagna antiebraica. Ma nel 1968 la famosa “cacciatrice di nazisti” francese Beate Klarsfeld lo avrebbe preso a schiaffi in pubblico durante un congresso della Cdu, dandogli del nazista, e lasciandolo il lacrime. Per tutta la vita Kiesinger, avrebbe rifiutato di commentare quell’incidente. E al suo funerale, nel 1988, non sarebbero mancate poi rumorose contestazioni. Certo, questo ex-nazista aveva poi avuto

l’Occidente, attraverso l’ingresso della Repubblica Federale nella Comunità Europea e nella Nato. Insomma, l’elettorato ha recepito che veramente la democrazia dell’alternanza assicura stabilità e progresso. D’altra parte, l’esperienza del triennio 1966-69 non passerà senza qualche pesante strascico negativo. È proprio l’atmosfera di mancanza di opposizione per il grande abbraccio tra i due principali partiti, in concomitanza con la grande radicalizzazione del ’68, a favorire l’inizio della sanguinosa avventura terrorista della Banda BaaderMeinhof. Eppure, proprio l’anno successivo al centenario dimenticato di Kiesinger, nel 2005 la Grosse Koalition è tornata. Con la cancelliera Angela Merkel, alla

Angela Merkel e Gerard Schroeder testa di un governo con sei ministri della Cdu, due della Csu e sei dell’Spd, tra cui il Vice-Cancelliere e Ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Al tempo di Kiesinger la proporzione era stata di otto Cdu, tre Csu e nove Spd. Come mai queste due clamorose eccezioni? In effetti, in entrambi i casi l’origine del problema è di mera aritmetica parlamentare: il che serve già a individuare la grande differenza tra la Grosse Koalition e i casi visti in precedenza. Non c’è infatti in linea di principio né un Paese frammentato da tenere assieme, né un’emergenza bellica da affrontare, né uno Stato da ricostruire o nuove regole del gioco condivise da affermare. C’è solo una maggioranza che non si riesce a formare, e i due maggiori contendenti che si stufano del ricatto dei piccoli e si stringono la mano direttamente, per levarseli di torno.

Ritorno al presente. Dopo aver creato il 22 gennaio 2005 il nuovo partito Alternativa Elettorale-Lavoro e Giustizia Sociale (Wasg), Lafontaine ha sfidato la conventio ad excludendum della politica tedesca verso il Pds, appena ribattezzatosi Partito della Sinistra, per presentare invece con esso una lista comune che il 18 settembre 2005 ha preso l’8,8% e 52 seggi: contro 180 Cdu, 46 Csu, 222 Spd, 61 Fdp, 51 Verdi. E l’intesa si è ulteriormente intensificata nel 2006 con la fusione in un nuovo partito che si chiama semplicemente La Sinistra: Die Linke. Di 308 seggi è la maggioranza. Spd e Verdi 273; Cdu-Csu-Fdp 287; Spd-Fdp 283. Esaurite le formule già sperimentate, sarebbe stato possibile formare qualle coalizione nuova. Ad esempio la Semaforo, dal colore rosso della Spd, giallo della Fdp e Verde, appunto, dei Verdi: 338. Oppure la Giamaica, dai colori della

bandiera dell’isoletta caraibica, resi popolari dai cantanti reggae: nero di Cdu e Csu, più giallo Fdp, più Verdi, uguale 324. O un Fronte Popolare Spd-Verdi-Sinistra: 324. Ma i liberali dissero subito che preferivano stare all’opposizione piuttosto che mettersi assieme a Spd e Verdi, contro il cui governo avevano condotto una durissima campagna. E anche Joschka Fischer, che come leader Verde era stato Vicecancelliere e Ministro degli Esteri di Schröder, definì“impossibile”l’ipotesi di sedere allo stesso tavolo con Stoiber: leader di quella Csu che tradizionalmente ha un’immagine ancora più a destra della Cdu. Ugualmente abissale, ormai, la distanza tra Schröder e Lafontaine. Alla fine, la Grosse Koalition è rimasta l’unica soluzione possibile, una volta superato l’ultimo scoglio. Cioè, la tesi della Spd che Cdu e Csu andavano contati come due partiti diversi, e che dunque toccava a un socialdemocratico la cancelleria, come primo partito. In effetti l’Unione Cristiano-Sociale è formalmente un partito autonomo, che esiste solo in Baviera dove non c’è invece l’Unione Cristiano-Democratica. Ma stavolta Cdu e Csu hanno trovato conveniente agire come un partito solo, e alla fine l’hanno spuntata. L’accordo del 14 novembre 2005 è stato poi ratificato dal voto del Bundestag del 22 novembre. L’impegno principale di Angela Merkel è stato quello di ridurre la disoccupazione. E in effetti i primi risultati si sono già visti, tant’è che l’economia ha ripreso a correre. Si potrebbe dunque pensare che il compito della Grosse Koalition di oggi sia quello di procedere alla riforma del modello renano. In realtà gli economisti avvertono che la crescita di oggi è il risultato del lavoro già fatto dal governo rosso-verde, e d’altra parte per formare la coalizione con l’Spd la Merkel ha rinunciato a nominare ministro quell’economista Poul Kirchof che aveva fatto la proposta più radicale: la flat tax, aliquota fiscale unica. Piuttosto che stabilire nuove regole, l’obiettivo dell’alleanza sembra piuttosto quello di resistere alle spinte a tornare indietro. D’altronde forti, specie nella Spd.

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speciale approfondimenti

Carte

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L’INFATUAZIONE CILENA Ma come si era arrivati all’idea di Compromesso Storico? Come in Italia molti sanno, fu una lunga riflessione sui fatti dell’11 settembre 1973 in Cile a convincere Berlinguer che «sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti, questo fatto garantirebbe la sopravvivenza o l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento… Per aprire finalmente una via sicura di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico è necessario che la componente comunista e quella socialista si incontrino con quella cattolica, di cui è perno la Dc, dando vita a un nuovo grande compomesso storico». E in senso lato, l’osservazione è, più che giusta, lapalissiana. Non solo per costruire il socialismo: anche per smantellarlo, per fare una guerra, per fare una pace, per qualunque riforma di struttura ci vuole la maggioranza più ampia possibile. Un possibile, che però va letto con due avvertenze. Primo, che questo grado di possibilità può variare anche di molto a seconda del contesto. Come abbiamo visto, gli Stati Uniti riescono a ottenere anche con un governo di parte il tipo di consenso per cui il Regno Unito o la Germania hanno invece bisogno di larghe intese, e che in Italia non arriva neanche con quelle. Secondo: quando una maggioranza va però oltre certi limiti, anch’essi variabili l seconda del contesto, la riforma di struttura diventa impossibile lo stesso; semplicemente perché il suo contenuto è diventato troppo annacquato.

Come in Italia molti non sanno, e a quanto pare non sapeva neanche Berlinguer, o fingeva di non saperlo, il socialista Salvador Allende Gossens però in Cile non aveva mai ottenuto il 51 per cento dei voti. Il 4 settembre 1970 aveva invece avuto il 36,61%: addirittura meno del 38,93% di sei anni prima. Nel 1964, però, centro e destra avevano votato in blocco per il democristiano Eduardo Frei Montalva, che era stato eletto con il 56,09%. Frei sarebbe stato sicuramente rieletto, ma la Costituzione vietava una ricandidatura immediata. E d’altra parte, proprio per questo motivo la destra si era trovata nell’impossibilità di rivotare per il presidente uscente Jorge Alessandri Rodríguez. Nel 1970, però, Alessandri c’era di nuovo, mentre era la Dc a dover puntare sullo scialbo Rodomiro To-

mic. Il primo prese il 35,27%, con appena 39.175 voti in meno di Allende; il secondo il 28,11%. E qui entrava di nuovo in scena la complicazione della Costituzione cilena, secondo la quale se nessuno aveva la maggioranza assoluta la scelta passava al Congresso. Stessa clausola, d’altronde, della Costituzione Usa. Solo che negli Stati Uniti un’evenienza del genere si è verificata una sola volta in 220 anni di storia elettorale: nel 1824, quando tra l’altro la Camera dei Rappresentanti aveva preferito John Quincy Adams al più votato Andrew Jackson. In Cile, invece, era ad esempio successo anche nel 1958: 31,6% di Alessandri contro il 28,9% di Allende, il 20,7% di Frei e il 15,6% del radicale Luis Bossay Leiva. La scelta con cui allora il Congresso si era poi pronunciato per il candidato con la maggioranza relativa derivava da prassi, non da obbligo. Anche al Congresso alle politiche del 1965 e 1969 (il Senato era rinnovato parzialmente ogni quattro anni) il Paese era

Nella foto in alto Salvador Allende, presidente del Cile destituito da un colpo di Stato nel 1973. A sinistra Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista

Chile, mierda!», gridò all’annuncio il deputato socialista Mario Palestro. Azione Popolare Unitaria (Mapu), che si era staccato subito dopo il voto dal Pdc; un senatore dell’Azione Popolare Indipendente (Api); un senatore del Partito Social Democratico. E c’erano poi un senatore della Democrazia Radicale e uno dell’Unione Socialista Popolare (Usopo), che si erano staccate da destra rispettivamente dal

Per Berlinguer, bisognava dar vita al compomesso storico con la Dc. Proprio come in Cile uscito spaccato in tre. Aveva infatti 55 deputati e 21 senatori il Partito Democratico Cristiano (Pdc). Aveva 33 deputati e 5 senatori al Partito Nazionale (Pn) di Alessandri. Aveva 62 deputati e 22 senatori la coalizione di Allende: 24 deputati e 7 senatori radicali; 22 deputati e 6 senatori comunisti; 15 deputati e 5 senatori socialisti; un deputato e 2 senatori del Movimento di

Partito Radicale e da quello Socialista. Assieme, Pdc e Pn avrebbero bloccato Allende. Ma i democristiani preferirono aprire a sinistra, offrendo il loro voto al candidato di Unidad Popular in cambio di uno Statuto di Garanzie Costituzionali che avrebbe dovuto servire a blindare il pluralismo. Si votò il 24 ottobre: Allende 153, Alessandri 35, schede bianche 7. «Viva

Allende, però, era stato eletto sulla base, più ancora che di un programma, di una mitologia rivoluzionaria, in base alla quale il popolo di sinistra si sentiva ormai entrato nel suo Palazzo d’Inverno. «Il popolo unito non sarà mai vinto!», scandiva lo slogan del famoso inno della campagna elettorale, cantato dal complesso dei Quilapayun (anche se in Italia lo portarono gli Inti Illimani…). «Vinceremo, vinceremo/ socialista sarà l’avvenire!», aveva promesso l’altro inno, questo sì degli Inti Illimani. «Perché questa volta non si tratta/ di cambiare un presidente/ sarà il popolo che costruirà/ un Cile ben differente»: altra canzone degli Inti Illimani, veramente esemplare. Quando vide infatti che in Congresso le leggi sulle nazionalizzazioni e la riforma agraria non passavano perché non c’era la maggioranza per farle passare, fu il popolo di sinistra a iniziare a occupare campi e fabbriche, col governo che lasciava fare. Ovviamente, la radicalizzazione da una parte innescò una radicalizzazione in

campo opposto: con gli attentati del gruppo di estrema destra di Patria y Libertad; le marce delle donne che battevano casseruole: la gente che buttava granturco ai soldati per insultarli come “galline” se non si sbrigavano a intervenire; gli scioperi anti-nazionalizzazioni dei camionisti e dei minatori del rame. Dimenticata l’intesa con Allende, il Pdc si collegò alla destra nella Confederazione della Democrazia, che alle politiche del marzo 1973 andò al muro contro muro. La Code ebbe 87 deputati e 29 senatori: 50 deputati e 20 senatori il Pdc; 34 deputati e 9 senatori il Pn; 2 deputati la Democrazia Radicale; un deputato il Partito della Sinistra Radicale, che se ne era andato dai radicali a governo Allende iniziato. Unità Popolare ebbe invece 63 deputati e 25 senatori: 28 deputati e 8 senatori i socialisti; 25 deputati e 9 senatori i comunisti; ridotti a 5 deputati e 6 senatori i radicali, malgrado avessero nel frattempo assorbito i socialdemocratici; due deputati e due senatori il Mapu; due deputati l’Api; un deputato la Sinistra Cristiana, che si era staccata dal Pdc nel 1971. Più il senatore dell’Usopo. Risultato peggiore non poteva esserci. La Code aveva infatti puntato a raggiungere i due terzi che le sarebbero serviti per mettere il Presidente in stato d’accusa e rimoverlo in modo legale; Unidad Popular aveva cercato di strappare la maggioranza assoluta, per riuscire a governare. Ci fu invece il semplice passaggio di un deputato dal centro-destra verso il fronte allendista. Un fronte allendista al cui interno, peraltro, i più estremisti socialisti e Mapu si rafforzavano rispetto ai più moderati: in seguito al crollo dei radicali, non compensato da una modesta avanzata di comunisti il cui nome comunque continuava a mettere paura, malgrado la prassi pragmatica. Insomma, la continuazione dello stallo, in un contesto dove però entrambe le parti percepivano che la spinta “progressista” stava continuando: gli uni con entusiasmo; gli altri con terrore. E entrambe le parti si sentirono spinte dunque a continuare l’escalation di illegalità: la sinistra blaterando di dare le armi al popolo, e anche mandando i militanti in piazza a fare ostentazione di preparazione paramilitare; il centro-destra facendo votare dalla Camera il 22 agosto contro il presidente, per non avere il presidente promulgato tre riforme approvate dal Congresso, una protesta contro la «rottura dell’ordine costituzionale» che chiamava apertamente i militari a intervenire. L’11 settembre ci sarà il golpe.


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economia

Riparte l’inflazione e crescono i timori per l’economia

Cina e Usa, relazioni pericolose di Pierre Chiartano

ROMA. Quando Washington è triste, Pechino non ride e i venti di crisi sembrano essere arrivati anche nella terra degli Han. Se l’inflazione si muove, le briglie monetarie vanno tirate? Come può essere gestita questa fase così delicata dell’influenza subprime/derivati nell’economia americana e le possibili conseguenze in quella cinese, visti i rapporti e gli equilibri molto complessi - surplus produttivo compreso - che le legano e che richiedono una straordinaria cautela? Il confronto fra le due potenze economicamente legate, ma competitor a livello politico-strategico potrebbe cambiare pelle. L’inflazione in Cina pare stia galoppando all’8,7 per cento, trainata dall’esplosione dei prezzi al consumo dei generi

mento medio dei prezzi sul food è stato del 23 per cento, con punte del 46 per cento sui vegetali e del 63 per cento su un alimento base per i cinesi, la carne di maiale (per quest’ultimo c’è stato un concorso di cause). Al contrario sul no food l’inflazione ha inciso poco, solo per l’1,6 per cento. Una prima spiegazione di questa asimmetria inflattiva potrebbe essere legata a una stagione particolarmente rigida che ha danneggiato i raccolti e soprattutto mandato in tilt il sistema dei trasporti. Si spiegherebbe dunque l’aumento vertiginoso dei prodotti alimentari causato da un difetto d’approvvigionamento. Seguendo questa traccia l’aumento dei prezzi dovrebbe essere prima o poi assorbito e non si renderebbe ne-

rezza interna. Anche sul fronte azionario non ci sono buone notizie, lo Shangai composite index ha perso circa il 40 per cento del suo valore, dal 16 ottobre 2007, quando aveva raggiunto il picco di 6.124 punti.

È utile, per aver un quadro più completo, fare un breve riassunto delle relazioni economiche fra Usa e Cina. Semplificando molto, potremmo affermare che in questo momento la proverbiale capacità statunitense di assorbire il surplus produttivo cinese stia per venire a mancare. Nel passato molte crisi sono state superate con l’ipertrofia americana, che suppliva alle prime crisi globali. Come quelle degli anni Novanta dove i «tre moschettieri» Alan Greenspan, Lawrence H.

Dallo scorso anno l’aumento medio dei prezzi sul food è stato del 23 per cento, con punte che hanno raggiunto quote critiche per la stabilità sociale del gigante asiatico alimentari e molti esperti vedono nell’apprezzamento dello yuan (renmimbi) l’unica soluzione praticabile per non provocare una crisi economica. Dinamiche simili a quelle innescate nei bienni 1987-88 e 199394; allora fu un eccesso di liquidità a farle partire, secondo le tesi più accreditate (The Economist). Dallo scorso anno l’au-

cessario un intervento della People’s bank of China (PboC) su tassi d’interesse, che molti temono, perché potrebbero causare, come in passato, un tonfo dell’economia. Da non sottovalutare anche le ricadute sulla stabilità sociale di una risalita dei prezzi, che in Cina hanno sempre avuto conseguenze pericolose per la sicu-

Sono 900 i miliardi di dollari ”cinesi”

Il ricatto dei Tbond ROMA. Ammonterebbero a circa 900 miliardi di dollari, i Treasury bond e altri prodotti finanziari made in Usa, che il governo cinese deteneva fino all’estate scorsa. Poi, a giugno 2007, ne sono stati restituiti sul mercato 48 miliardi, col forte sospetto che su gran parte di questa operazione ci sia lo zampino delle istituzioni finanziarie cinesi. Le riserve di valuta in mano a Pechino sono impressionanti, ammonterebbero a 1.340 miliardi

Summers e Robert E. Rubin (gli ultimi due si alternarono come segretari al Tesoro) diedero prova di saper governare l’elefante dell’economia globale

di dollari e crescerebbero ad un ritmo di 20 miliardi al mese (fonte Lehman Brothers). Il piano sarebbe quello di diversificare gli investimenti obbligazionari – in gran parte negli Usa – con un paniere più ampio, come quello garantito dal nuovo sovereign wealth fund da 300 miliardi di dollari, messo in cantiere nello stesso periodo. L’operazione era stata considerata tanto scorretta che il Congresso Usa aveva paventato la possibilità di introdurre dazi sulle merci cinesi, come ritorsione. Il prezzo dell’oro schizzato alle stelle ha dato presto una risposta su dove fossero finiti quei soldi. Ma è possibile che Pechino possa utilizzare i Tbond come pistola

con una foglia d’ortica. Soprattutto di saper mettere le pezze, dove certe “rigidità” dell’International monetary fund e World bank avevano causato degli strappi. Oggi i tempi sono cambiati e sembra di parlare di tempi lontanissimi, le capacità di governance sono aumentate, ma forse è il sistema che ha bisogno di alcune modifiche strutturali. E se l’accordo fra Cina e Usa può essere sintetizzato, grossolanamente, in «io compro il tuo debito – con i Treasury bond – tu compri le mie merci», tanto da poter affermare che negli ultimi anni la

alla tempia di Washington? Sarebbe difficile piazzare d’un colpo sul mercato tutti quei titoli, e una loro graduale alienazione provocherebbe solo una forte svalutazione del rimanente credito in mano cinese. Poco probabile quindi, ma è più semplice che venga usato come arma finanziaria per future “guerre”economiche con gli Usa. Comunque i dati ufficiali del dipartimento del Tesoro americano, registrano a gennaio 2008, un totale di 492,6 miliardi di dollari nella “casella” «China, mainland», (586 mld sono le obbligazioni in mano al Giappone).

Cina abbia finanziato i consumi interni Usa - che in parte assorbivano anche il suo surplus produttivo - oggi le cose sono cambiate.

Il debito pubblico in mano cinese ha sollevato dubbi e perplessità nella politica americana. Hillary Clinton, candidata democratica alla Casa Bianca, poco tempo fa, aveva preso carta e penna per scrivere al segretario al Tesoro, Henry M. Paulson di ridurre l’indebitamento verso Pechino. Fatica sprecata, perché, già dall’estate scorsa, l’interesse cinese verso i Tbond era diminuito, prendendo la strada degli investimenti nei fondi sovrani, con cui fare shopping fra i “gioielli” dell’economia occidentale e riducendo la liquidità per i consumi interni americani. «Hanno intenzione di essere più aggressivi nell’utilizzo delle loro riserve valutarie», è stato il commento fatto filtrare, di recente, dalla Lehman Brothers di Hong Kong. In più, è da tempo che Washington preme su Pechino affinché rivaluti la propria divisa e quest’onda inflattiva, che rischia di espandersi ad altri settori di merci e servizi, potrebbe dargli una mano, essendo la rivalutazione del renmimbi vista dagli esperti come soluzione migliore rispetto all’aumento del costo del denaro. Ma la Cina è un mondo a parte.


economia

4 aprile 2008 • pagina 19

L’eccessivo protezionismo del commissario Ue alla concorrenza

La Kroes nel paese delle meraviglie d i a r i o

di Alberto Mingardi

g i o r n o

Unicredit: conferiti 34 master Private banking

on l’insediamento della Commissione Barroso, sono stati in molti a pensare che a Mario Monti succedesse un commissario più attento alle ragioni della “concorrenza reale”. Neelie Kroes però sembra costantemente impegnata a superare il proprio predecessore, dimostrandosi fedele ad una concezione assieme libresca e politica della libera competizione. Libresca perché poco attenta all’effettivo funzionamento dei mercati, e pertanto agli unici indubbi segni che segnalano la presenza di un monopolio: la barriere legali all’entrata. Politica perché orientata a realizzare risultati spettacolari, con l’ambizione di vantarli innanzi ai cittadini europei. Costringendo un gigante del software come Microsoft a dichiarare la resa, nella battaglia che Monti aveva ingaggiato, Kroes ha cercato di incassare un dividendo politico della “gestione precedente”- e di fare dimenticare i rumors sul suo profilo da lobbista, che l’avevano accolta a Bruxelles.

C

In un recente discorso innanzi alla “American Bar Association Section of Antitrust Law”, Kroes ha rivendicato alcuni successi della politica della concorrenza dell’Ue sostenendo pure come vi sia una sostanziale convergenza fra l’approccio in voga negli Usa e quello adottato dalle istituzioni europee. La cosa più eclatante è forse che il suo discorso sia cominciato con un attacco frontale al Wall Street Journal, quotidiano che ne ha criticato in più d’una occasione le mosse. A nessun politico piace essere contestato, nondimeno esiste - e a ragione - una sorta di tabù, rispetto all’ostentare astio verso la stampa indipendente. L’ipotesi della convergenza di approccio fra Usa e Ue è suffragata da più fonti, ma un conto è considerare un’ “istantanea”delle decisioni, un conto invece guardare le cose in prospettiva. L’Antitrust in America resta più plurale e flessibile, per questioni che attengono la sua natura e la sua storia. È anche più facilmente permeabile dalle evoluzioni della teoria economica. L’approccio europeo è di necessità più tecnocratico. In un altro breve discorso, di alcuni giorni prima, la Kroes ha voluto invece porre all’attenzione pubblica i suoi “successi”. Fra questi, ha citato 3,3 miliardi di dollari di multe inflitte nel 2007, e otto decisioni sfavorevoli a presunti “cartelli”. Il commissario europeo ha

d e l

A due anni dall’avvio, si sono conclusi i primi 34 master Private banking promossi da Unicredit. Nato dalla collaborazione con la facoltà di Economia dell’Università di Torino e Escp-Eap European School of Management, è il primo Master Private Banking in Italia a essere dedicato alle risorse interne di una banca. L’obiettivo, valorizzarne le professionalità attraverso un percorso completo di sviluppo delle competenze di private banking, wealth management e gestione professionale della clientela.

Legacoop: la politica sostenga le imprese «Una forte preoccupazione per il rapido deterioramento della situazione economica nazionale, la riduzione della competitività del sistema economico, la mancanza di dinamismo della società e la paralisi decisionale delle istituzioni politiche». E’ questa la premessa del documento con cui Legacoop ha presentato le proprie proposte alle forze politiche in vista delle prossime elezioni. «Compete alla politica - ha spiegato il presidente Giuliano Poletti - spezzare il circolo vizioso che si è determinato. La politica deve guardare al futuro con coraggio e sollecitare tutti i soggetti in grado di concorrere ad una crescita sostenibile in termini ambientali e sociali, cioè imprese, lavoratori, consumatori».

Telecom: per Telco patrimonio di 5,12mld Telco ha concluso il 2007 con una perdita di 36 milioni, un patrimonio netto di 5,12 miliardi e asset totali per 8,76 miliardi. L’indebitamento a fine anno, stando ai bilanci 2007 di alcuni soci della finanziaria, ammontava a 3,64 miliardi. Sopra il Commissario Ue per la concorrenza, Neelie Kroes; a sinistra Manuel Barroso

Le sue battaglie: multe per 3,3 miliardi di dollari inflitte nel 2007 e otto decisioni sfavorevoli a presunti cartelli precisato di non considerare le multe un bene in sè (ci mancherebbe), ma di valutarle come una prova del fatto che le regole della concorrenza in Europa vengono prese sul serio. Nella stessa relazione, ha citato con compiacimento l’avvio dell’istruttoria sui presunti accordi di cartello nell’ambito della farmaceutica. Un caso che pare fantascientifico, nel momento in cui si immaginano intese volte non solo ad arginare l’offensiva dei farmaci generici, ma anche un accordo di massima fra produttori per ritardare l’immissione di nuove medicine innovative sul mercato. Come se fosse veramente ipotizzabile l’inte-

resse di chi ha speso tantissimo in ricerca e sviluppo, a dilazionare nel tempo il ritorno dalla spesa. Kroes vuole per gli europei assieme più farmaci innovativi e farmaci più a buon mercato: ma fra le due cose pare esserci della tensione. Più medicine nuove significa più investimento in R&D (Ricerca e sviluppo), quindi maggiori costi per i produttori.

Quest’indagine è davvero rivelatrice, della mentalità ancora dominante a Bruxelles. Confrontandosi con un settore nel quale non vi è libertà d’entrata, a fronte delle anche comprensibili cautele regolatorie che vi si applicano, e nel quale lo Stato fa sentire tutto il suo peso non solo come percettore di entrate fiscali, ma anche come principale consumatore, pianificatore dei prezzi e regolatore dell’offerta, la Kroes riconduce i ritardi nell’innovazione a qualche immaginifico cartello. Essendo “politica”anche la politica della concorrenza, è inevitabile che vi domini una componente irrazionale. Ma il mondo dell’Antitrust finisce troppo spesso per sembrare quello di Alice nel paese delle meraviglie, in cui niente è ciò che sembra.

Nessun rincaro per i farmaci da banco Prezzi stabili per i farmaci da banco. Nonostante la revisione dei listini industriali, con aumenti che vanno dall’1% al 5%. «Non si sono avuti effetti significativi di questi piccoli rincari sui consumatori per effetto della concorrenza legata alla liberalizzazione della vendita di questi prodotti». A dirlo, il Garante per la Sorveglianza dei prezzi, Antonio Lirosi, che ieri, al ministero dello Sviluppo economico, ha incontrato rappresentati dell’industria, della distribuzione e delle istituzioni per fare il punto sul mercato dei farmaci di libera vendita.

Immobiliare: Imminence sbarca in Italia La società francese Imminence sbarca in Italia e punta a mettere in rete le agenzie immobiliari attravesro la sua piattaforma informatica Mls Emulis. La società ha iniziato nel 2007 a operare a Genova e adesso è approdata a Milano per allargarsi entro l’estate anche a Torino, Bologna e Firenze. L’agenzia immobiliare che aderisce al programma Emulis, pur mantenendo la sua totale autonomia, inserisce nel database i suoi incarichi esclusivi e, a sua volta, può proporre ai propri clienti anche quelli delle altre agenzie che aderiscono al sistema non solo in Italia ma anche all’estero. Quando una vendita si realizza tramite la piattaforma, le provvigioni vengono divise fra le due agenzie. Grazie alla piattaforma, Imminence promette una maggiore visibilità delle offerte con l’accorciamento dei tempi di vendita.

Eni: nuovo giacimento nel golfo del Messico Nuova scoperta nelle acque statunitensi del Golfo del Messico per Eni. Il pozzo esplorativo Kodiak-1 è situato nel permesso Mississippi Canyon 771, a circa 95 km dalle coste della Louisiana, in acque profonde circa 1.500 metri. Perforato a una profondità di 9.500 metri, ha evidenziato oltre 150 metri di idrocarburi distribuiti su diversi livelli sabbiosi. Eni detiene in Kodiak una quota del 25%, gli altri partner sono BP (63,75%, operatore) e Marubeni (11,25%). Il blocco Mississippi Canyon 771 fa parte del portafoglio esplorativo che Eni ha recentemente acquisito dall’americana Dominion.


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cultura

In un libro dei missionari della Fraternità San Carlo, i rischi del relativismo in Germania e Stati Uniti

Occidente, la sfida della nuova Chiesa di Irene Trentin I primi preti che nell’89 iniziarono l’avventura negli Stati Uniti, Don Michael Carvill, don Vincent Nagle e don Luca Brancolini, si trovano a fare i conti con una parrocchia, quella di Saint Louis, disorientata dopo l’allontanamento di un parroco del “dissenso”. C’è la grave crisi educativa nelle scuole, il rischio incombente è il relativismo e la scelta di una confessione religiosa solo per motivi di convenienza. Ma la speranza non è perduta. Nel 2000 aprono una casa della Fraternità San Carlo ad Attelboro, nel Massachussets. Racconta lo spagnolo don Antonio López: «Non è facile dire qualcosa a chi è nel dolore, nella vecchiaia, nella solitudine, ma bisogna portar loro Gesù. Andare da loro con lui cambia me, perché lui ha scelto me per poterli raggiungere».

a sfida della Chiesa del terzo millennio deve ripartire dall’Occidente, che rischia di dimenticare le proprie radici. Dopo l’Asia, e soprattutto alla Cina, difficile terra di missione, dove è ancora forte il problema della chiesa ufficiale cinese. E la delicata questione del dialogo interreligioso con il mondo islamico, che spesso fraintende la chiarezza del messaggio evangelico. Ora, più che mai, la nuova evangelizzazione si deve rivolgere verso l’Europa e gli Stati Uniti, dove il rischio del relativismo e del “dissenso” sembra a volte smarrire gli stessi pastori. Bisogna ripartire da qui. Il lavoro spesso è duro, lungo, ma porta poi a frutti inaspettati. Lo testimoniano le lettere dei missionari in Germania e negli Stati Uniti della Fraternità san Carlo Borromeo, nata nell’85 dal carisma di Comunione e liberazione, con sede a Roma, un centinaio di sacerdoti sparsi in venti Paesi del mondo e una trentina di seminaristi, con la regola della vita comune e della missione. Lettere raccolte ora in un libro edito dalla San Paolo, Il nuovo Occidente (168 pagg., 10 euro). Così il dialogo sincero che si dipana giorno per giorno, dal 1993 al 2007, attraverso il carteggio con il loro superiore, don Massimo Camisasca, fondatore della Fraternità, diventa il racconto del fiorire di comunità e identità nuove, che si aprono faticosamente un varco tra popoli ricchi ma poveri di speranza.

L

«L’Occidente rappresenta la nuova terra di evangelizzazione - spiega don Camisasca -. Si tratta di due Paesi segnati da crisi contrapposte: in Germania il rischio è un eccesso di burocrazia e formalismo, negli Stati Uniti quello del relativismo». Il libro ne completa un altro, Sentieri d’Asia illuminati (San Paolo editore), che raccoglieva le lettere dei missionari in Siberia e a Taipei, capitale dell’isola di Taiwan, dove dal 2001 è presente una casa della San Carlo. La presenza instancabile qui dei missionari della Fraternità san Carlo, dove ci sono diocesi grandi anche sette fusi orari e

Sopra, Benedetto XVI a Colonia in occasione della XX Giornata Mondiale della Gioventù. A sinistra, don Massimo Camisasca, superiore della Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo dall’85 a San Pietroburgo, è stato nominato arcivescovo metropolita di Mosca. Ma oggi sono l’Europa e l’Occidente a sembrare attraversati

una sintesi fra progresso scientifico-tecnologico-culturale e avanzamento dell’uomo verso una pienezza di sé? Riusciranno a scoprire il senso della pro-

Don Massimo Camisasca: «Dopo aver avuto per secoli grande peso storico, l’Ovest, attraversato dal male oscuro del dissenso, è la terra della nuova evangelizzazione» d’inverno si arriva a meno cinquanta gradi, ha portato risultati insperabili anche nel rapporto con la Chiesa d’Oriente e il regime comunista. E da qualche mese, uno dei sacerdoti ciellini nella Federazione russa, don Paolo Pezzi, fino ad allora rettore del seminario maggiore

da un male oscuro. «Due Paesi in cui il cristianesimo ha avuto un peso storico importante – continua don Camisasca – Ha un’importanza anche nel presente? Riusciranno questi popoli, ambedue segnati dalla convivenza di cattolici e protestanti, a ritrovare la strada di

pria storia, il dialogo con chi li ha preceduti, il coraggio di educare, di trasmettere ai loro figli una speranza vitale che li renda a loro volta creativi? Le voci dei missionari ci portano i problemi, le contraddizioni, e anche le ragioni per restare in quei Paesi».

Ma una grave crisi scuote anche la Germania, che dopo aver raccolto l’eredità del movimento cattolico dell’Ottocento e Novecento e della resistenza nazista ai cattolici tedeschi, negli ultimi decenni è costretta a fare i conti con il cattolicesimo “progressista”. Nel 1995, nella città di Emmendingen, caratterizzata dalla convivenza di cattolici e protestanti, don Gianluca Carlin, don Georg del Valle e don Santo Merlini devono orientare i fedeli alle prese con una raccolta firme per una “Chiesa democratica”, che chiede libertà di coscienza, abolizione del celibato, sacerdozio alle donne e nomina dei vescovi. Nel 1997, il Comitato centrale dei cattolici tedeschi prende una dura posizione contro un documento di Giovanni Paolo II che chiede ai consultori cattolici di non rilasciare più certificati per l’aborto. Eppure, anche qui, i frutti di una paziente testimonianza si vedono. Don Carlin il 30 novembre 1997 racconta di una ragazza evangelica che, dopo aver conosciuto il futuro marito organista a St. Johannes, ha chiesto la cresima e la prima comunione. Oppure di un ateo, cattolico uscito dalla Chiesa, conosciuto al funerale della madre, che lo ha invitato a un caffè in cui si è sfogato ripetendo i suoi pregiudizi sulla Chiesa. Ma «dopo un paio d’ore ha accettato d’iniziare una “catechesi” con me». E la sua vita è cambiata.


personaggi

4 aprile 2008 • pagina 21

Nei negozi l’ultimo album ”Keep it simple”. L’11 e 12 aprile, a Milano, le uniche due tappe del tour italiano

Van Morrison un alieno del pianeta Musica di Alfredo Marziano eep It Simple, cerca di semplificare le cose. Facile, se ti chiami Van Morrison, hai una voce che muove le montagne e fare musica ti viene naturale come respirare. George Ivan è nato a Belfast 63 anni fa e i cieli d’Irlanda, il folk celtico, i miti di Avalon e di Caledonia non lo hanno mai abbandonato. Il padre lo sottopose fin dall’infanzia a una dieta ferrea di jazz e gospel, soul e blues: Jelly Roll Morton e Mahalia Jackson, Sonny Boy Williamson e Sam Cooke, Leadbelly e l’inarrivabile Ray Charles. Quando l’onda d’urto del rhythm&blues tornò a spazzare le coste delle isole britanniche, nei primi anni Sessanta, era pronto a cavalcarla, e con i Them fu subito Gloria. A Woodstock, stato di New York, dove si trasferì agli albori del nuovo decennio, imparò a cercare se stesso modellando una personalissima forma di ballata intrisa di misticismo e di poesia romantica e visionaria, Eliot, Blake,Yeats, Joyce, Donne, Wordsworth e Coleridge sempre invocati in cerca di ispirazione e di illuminazione, all’inseguimento di una sua personale Beautiful Vision.

K

C’è di nuovo tutto questo, nel nuovo album Keep It Simple appena uscito nei negozi, perché “Van the man” è una locomotiva che non deraglia e non tentenna, impermeabile al clima e al paesaggio che lo circonda: questa volta anche più del solito, avendo registrato quasi in presa diretta e con una strumentazione essenziale una manciata di canzoni da lui interamente composte, arrangiate e prodotte facendo affidamento sui collaboratori fidati di sempre (il chitarrista John Platania era con lui già ai tempi di Moondance, 1970).

Qualche maligno ama ripetere che il nostro abbia inciso in tempi lontani un unico, interminabile nastro da cui, periodicamente, taglia un frammento da consegnare alle stampe. E se si trattasse più semplicemente di coerenza? Morrison non è un trasformista alla Elvis Costello, questo è sicuro, niente a che vedere con un camaleonte come David Bowie. E nel suo tragitto disco-

«Non sapevo che sarei diventato famoso. D’improvviso mi sono ritrovato scaraventato in questo maledetto circo»

grafico non si è mai vergognato di confessare l’immutabilità dei suoi amori musicali, flirtando con le cornamuse dei Chieftains e l’organo Hammond del vecchio sodale Georgie Fame, il piano jazz di Mose Allison e il trombone di Chris Barber, lo skiffle di Lonnie Donegan e le leggende del rock’n’roll, sir Cliff Richard e Jerry Lee Lewis (ha inciso un album con la sorella di mr. Great Balls of Fire, Linda).

Un pozzo di scienza musicale, la cui collezione privata deve assomigliare molto alla vetrina di quel negozio di dischi vintage immortalato sulla copertina di Down The Road, sei anni fa. Fuori dal tempo e dallo spazio, Morrison è un alieno del pianeta musicale. Maltratta i giornalisti, anche quelli che lo portano in palmo di mano come i redattori delle riviste inglesi Mojo e Uncut, che lui – proprio lui, che ha l’orologio fermo sugli anni Cinquanta… – accusa di guardare nostalgicamente al passato. Fa ammattire i discografici, a cui non concede mai un’unghia del suo tempo (un aneddoto ormai antico narra di quella volta che la sua etichetta italiana provò a sottoporgli timidamente un piano promozionale in occasione di una imminente visita dalle nostre parti: la sua replica fu un fax in cui aveva scritto di suo pugno, e a caratteri cubitali, due parole soltanto: no way, non se ne parla proprio). E anche gli spettatori dei suoi concerti hanno talvolta dovuto portare pazienza, incrociare le dita e sperare che quella sera il loro eroe fosse di luna buona: ma è sempre valsa la pena rischiare, e chi il 10 e 11 aprile prossimo si recherà a vederlo al Teatro degli Arcimboldi di Milano per le uni-

che due date nazionali del nuovo tour sa di potersi godere uno spettacolo indimenticabile. Ha sposato donne bellissime, miss e top model, lui che è basso, goffo e grassottello. Ha vagabondato irrequieto alla ricerca di un Dio, avvicinando la cristianità mistica ed esoterica, il buddismo, l’induismo e anche scientology (a Ron L. Hubbard, fondatore della “chiesa” americana, dedicò un disco nel 1983, Inarticulate Speech of the Heart) prima di rendersi conto di non avere bisogno di «nessun guru, nessun metodo e nessun insegnante». Si considera un solitario e un outsider («lo sono diventato per forza, l’unico modo di sfuggire alle sciocchezze del music business»), aborre le iperboli («Genio io? Ma andiamo, non ce ne sono più stati dopo Bach e Beethoven, Wagner e Mozart»), e resta sempre e comunque a disagio nei panni della celebrità.

«Quando ho cominciato», raccontò una volta al dj/fotografo/giornalista BP Fallon, irlandese e bizzarro come lui, «non sapevo che sarei diventato famoso. Non sapevo che avrebbero scritto su di me, che mi avrebbero scrutato da vicino. Improvvisamente mi sono ritrovato scaraventato in questo maledetto circo». Dalle cui false illusioni continua a prendere le distanze e a metterci in guardia: «Mi prendevano in giro/ quando cantavo canzoni/cercando di tornare a qualcosa di più semplice/Mi prendevano in giro perché dicevo le cose come stavano», ruggisce nella canzone che intitola Keep It Simple. Sarà per questo che la sua musica è universale, e mai in sintonia come oggi con lo spirito dei tempi.


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO

LA DOMANDA DEL GIORNO

Firenze, pugno di ferro contro i mendicanti? LA REPRESSIONE NON RISOLVE I PROBLEMI, PRIMA OCCUPIAMOCI DELL’IMMIGRAZIONE Come in ogni cosa, la repressione non risolve i problemi che, invece, dovrebbero essere affrontati alla radice. Quello che giunte di sinistra, come quella di Firenze, non dicono è che i veri problemi sono l’immigrazione e lo sfruttamento dei clandestini. Non basta togliere dalle strade dei poveretti che vivono di espedienti. Bisogna fare in modo che queste persone non debbano più vivere così, creando le condizioni per una vera e sana integrazione. Intanto, però, bisogna bloccare i nuovi ingressi.Va bene con la solidarietà, ma l’Italia non può purtroppo aiutare tutti. Cordialità.

Stefano Tucci - Bologna

LA MOSSA DI CIONI È FORSE ELETTORALE, MA A CONTI FATTI SENZ’ALTRO NECESSARIA Sì, sono completamente d’accordo. E questo sia per quanto già disposto a proposito dei lavavetri, sia per quel che Cioni intende fare nei confronti dei mendicanti. Non se ne può proprio più, non c’è angolo della città - io sono di Roma - che non sia occupato da accattoni che si fingono storpi, che invocano Santi o lanciano maledizioni a chi passa sen-

LA DOMANDA DI DOMANI

Expo 2015, a voi piacerebbe la torre di 200 metri a Milano? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

za cedere ai loro piagnistei. Mi rendo conto di apparire cattivo ed egoista, ma non è così. In verità ho imparato ad aiutare in concreto. Aiuto, quando so e quando posso, anziani con pensioni di fame, oppure famiglie rimaste senza casa e senza lavoro. Ma basta con i Rom che chiedono elemosina e poi cercano di derubarti, basta con immigrati che implorano aiuto e poi spacciano droga e mettono bombe come e dove possono. La mossa di Cioni a Firenze è certamente elettorale, ma a Roma neppure le elezioni riescono a rinsavire i nostri amministratori. A questo punto meglio Firenze.

Claudio De Santis - Roma

MI SEMBRA UNA PERICOLOSA ESAGERAZIONE, LE INIZIATIVE CONTRO I POVERI NON PAGANO MAI Mi sembra che a Firenze si cominci ad esagerare. Sicuramente lavavetri e accattoni costituiscono una piaga da cui le città devono guarire, però, come dicevano i nostri Padri, c’è sempre un modus in rebus. Credo insomma che le norme vigenti siano già sufficienti a eliminare o quanto meno a limitare comportamenti plateali come quelli lamentati dai Fiorentini: clochard stesi per terra, mendicanti appollaiati agli angoli delle strade con tanto di cane e bastoni che in realtà non servono. Invero l’iniziativa dell’assessore Graziano Cioni ha tutte le caratteristiche della mossa elettorale tesa a conquistare quei consensi che a quanto sembra la Giunta fiorentina sta perdendo. Ma è una mossa producente? Ne dubito, iniziative contro i poveri, o sedicenti poveri, in genere non pagano.

Silvia La Marca - Livorno

PERCHÉ PRIMA DI LAVAVETRI E MENDICANTI NON PENSIAMO A STUPRATORI E SPACCIATORI? Non sono d’accordo con le misure repressive, mai. Perché sono antidemocratiche e, proprio come nel caso di Firenze, non tengono conto della dignità e dei diritti della persona. Perché accanirsi contro i mendicanti? O meglio, perché non usare il pugno di ferro prima con spacciatori, stupratori e pedofili, e solo dopo, in caso, con lavavetri e mendicanti?

GLI EFFETTI DELLA CAMPAGNA ELETTORALE La situazione della campagna elettorale è ora caratterizzata da due punti. Primo: la propaganda del voto utile ha prodotto un effetto, credo marginale, di trascinamento di voti dal centro all’alleanza elettorale Fi-An (così dovrebbe essere chiamata e non “Popolo delle Libertà”). L’effetto principale invece probabilmente è stato una maggiore attrazione dell’elettorato di centro verso il Pd. Secondo: resosi evidente l’effetto controproducente elettoralmente, secondo i sondaggi, abbiamo assistito ad una grande sterzata della propaganda di Berlusconi verso il concetto di voto disgiunto come rimedio al primo errore. Il primo errore richiama alla memoria il Montanelliano invito di “turarsi il nato”: votate l’alleanza Fi-An altrimenti favorite gli ex comunisti. Non è passato minimamente per la testa agli “Yes Man” Berlusconiani che nel moderato di centro l’ipotesi di un voto appunto al centro, era un “non ti sopporto più” a Berlusconi e che pertanto nella logica del voto utile, se è inutile votare Udc, la scelta scivola verso Veltroni. Le trasmissioni televisi-

PROFONDO ROSSO A migliaia di anni luce dalla Terra, la ”Red Square Nebula”, a oggi unica stella così simmetrica. Per catturarla ci sono voluti i telescopi incrociati del Palomar Obsevatory, in California, e il Keck Telescope delle Hawaii UOVA E POMODORI ANTIDEMOCRATICI Pomodori contro Giuliano Ferrara a piazza Maggiore di Bologna. Non si è trattato di un episodio circostcritto perché a contestare Ferrara c’erano un migliaio di persone. Secondo quanto riferiscono i testimoni, in un primo momento sono volati pomodori, quadretti di mortadella, uova e bottigliette d’acqua. Ma poi s’è vista volare anche anche qualche sedia, presa da un bar che affaccia sulla piazza. La tensione è cresciuta, per culminare nel momento in cui Ferrara ha preso la parola. A quel punto alcuni dei contestatori hanno cercato di salire sul palco e sono stati respinti dagli agenti di polizia. Lo stesso candidato premier ha rilanciato alla folla un pomodoro che era stato gettato sul palco. Un gesto

dai circoli liberal Carlo Pirro - Firenze

ve di queste ore confermano il tentativo del Pd di approfittare di quest’opportunità insperabilmente creatasi. Sul secondo errore del voto disgiunto, ancora una volta si evidenzia il fatto che appare inconcepibile per qualcuno l’idea semplice che un moderato possa ritenere insopportabile la pretesa di Berlusconi di non modificare la sua visione monarchica. Se l’analisi è corretta, la proposta del voto disgiunto potrebbe rafforzare la tendenza e quindi l’effetto boomerang per l’area moderata nel suo complesso. Come rispondere a questo atteggiamento? L’area di centro dovrebbe modificare dal punto di vista comunicativo il suo profilo amplificando con toni molto forti il fatto che chi vota al centro, vota un nuovo progetto politico di uscita definitiva dall’epoca Prodi-Berlusconi. E’ troppo limitativo propagandare un messaggio che vede nell’area di centro solo la nuova coscienza critica politica, un Pri alla Ugo La Malfa o meglio, per la visione del superamento della divisione tra laici e cattolici, alla Spadolini. Un uomo che proprio sul tema dovrebbe essere inserita tra le figure ispiratrici per una

lecito, a mio avviso. Perché quello che accaduto a Bologna credo sia un danno oggettivo per la città e per la sua storia di democrazia e tollerenza, proprio come ha detto il sindaco Cofferati. È inaccettabile che una piazza venga trasformata nel luogo dell’intolleranza. Tutti devono essere in condizione di poter sostenere pubblicamente le proprie tesi e le proprie opinioni e a nessuno deve essere impedito di parlare. Trasformare la campagna elettorale da confronto tra idee in scontro è una responsabilità grave che si assumono tutti coloro che praticano l’intolleranza. Non condividere un’idea non deve mai diventare azione ostile contro chi la sostiene. Grazie per l’ospitalità. Cordialmente, distinti saluti.

Amelia Giuliani - Potenza

Nuova Italia nella fase costituente del Centro. Spadolini, proprio per le sue caratteristiche moderate come tipo di azione e linguaggio politico in un attimo un pomeriggio, fu distrutto politicamente da Berlusconi non eleggendolo alla Presidenza del Senato nel lontano1994 per un voto, guarda caso, di un senatore transfuga nel Parlamento diventato da allora sempre più la “Piazza del mercato”. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

APPUNTAMENTI BATTIPAGLIA - SABATO 5 APRILE 2008 Ore 11: comizio di Ferdinando Adornato al cinema teatro Bertoni. NAPOLI - SABATO 5 APRILE 2008 Ore 17.30: assemblea regionale di tutti i Circoli Liberal della Campania al Grand Hotel Excelsior.


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog ALEMANNO CONTRASTI IL DEGRADO ROMANO

Le mie opere fremono per la vostra musica Caro Maestro, un giorno lontano Gabriel Mourey mi parlò di voi e di Tristano con accenti profondi.Vi conoscevo già allora. Frequentavo un piccolo cenacolo fiorentino dove qualche artista serio professava un vero culto per la vostra opera e si appassionava alla vostra ’riforma’. Allora come oggi, soffrivo di non poter scrivere la musica delle mie tragedie. E pensavo alla possibilità di incontrarvi. Quest’estate, mentre stendevo un Mistero lungamente meditato, un’amica mi cantava le vostre canzoni più belle con quella voce interiore che richiedono. La mia opera nascente a volte ne fremeva. Vi piace la mia poesia? Vi chiedo di ricevermi e di ascoltare ciò che vorrei dirvi della mia opera e del mio sogno. Scrivetemi soltanto una parola e sarò da voi. Avrò almeno la gioia di dirvi tutta la mia riconoscenza per i bei pensieri che qualche volta avete cullato e nutrito nell’anima mia senza pace. Gabriele D’Annunzio a Claude Debussy

MILANO EXPO 2015: UNICO VANTO ITALIANO Un elenco delle ultime perle italiane. Dalla monnezza alle mozzarelle di bufala alla diossina, dalla fallimentare trattativa Alitalia interrotta alle schede in commercio per il voto estero, dal proscioglimento totale dell’ex Ministro Mastella alla vecchia Dc riammessa alle elezioni, dal possibile slittamento di quest’ultime al mancato confronto in Tv. Sembra poco in due-tre mesi? Una domanda viene spontanea e spero sia lecita: in questo Paese c’è un governo e se c’è in che mani siamo? Per fortuna gli italiani hanno le elezioni e se non sanno esercitare il potere dato loro dalla Costituzione, non vengano a lamentarsi. Unico raggio di sole, in questo caos, la vittoria per Expo 2015, merito soprattutto della Moratti, tanto osteggiata dalle sinistre: risanò la Rai, da Ministro impostò una riforma della scuola, combattuta dalla fascia degli insegnanti ignorante e ”progressista” (la maggioranza) ed ora sta rilanciando Milano ed il Nord: il Sud continui ad affidarsi agli statalisti e resterà sempre al palo. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

L. C. Guerrieri - Teramo

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

4 aprile 1581 Francis Drake viene nominato baronetto per essere stato il primo inglese a completare la circumnavigazione del mondo 1758 Nasce Pierre Paul Prud’hon, pittore francese 1877 Al teatro Apollo di Roma prima dell’opera lirica Mefistofele di Arrigo Boito, grande successo dopo il fiasco del 5 marzo a Milano 1909 Nasce Leone Ginzburg, letterato italiano 1949 12 nazioni firmano il North Atlantic Treaty, che dà vita alla Nato 1968 Uccisione di Martin Luther King 1981 Arrestato Mario Moretti, brigatista sospettato di coinvolgimento nel rapimento di Moro 1991 Pubblicazione da parte dei Nirvana dell’album Nevermind incluso il successo planetario Smells Like Teen Spirit 1933 Muore Libero Andreotti, scultore e illustratore italiano 1994 Muore Kurt Cobain, cantante e chitarrista statunitense 1995 Muore Paola Borboni, attrice teatrale italiana

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Sembra che Alemanno si sia impegnato a costituire una Consulta che consentirà di formulare proposte e progetti per la riqualificazione dell’area tra piazza di Spagna, via della Croce e vie limitrofe di Roma. È un impegno importante, anche rispetto al degrado e all’orrendo urbano che versa a causa della cattiva gestione da parte delle amministrazioni di centrosinistra, oltre alla presenza di ambulanti in sovranumero nelle vie in questione. Sull’urbanistica mi sento di attaccare frontalmente il governo Veltroni-Rutelli, che nella Capitale ha prodotto solamente il pessimo risultato per cui si è arrivati ad avere strade come via della Vite e piazza di Spagna con i sampietrini, e altre come via Condotti deturpate dall’asfalto. Con Alemanno verrebbe applicato un modello di “sussidarietà”, che consentirebbe di non avere più “figli e figliastri”. Distinzione che purtroppo hanno subito quelle associazioni che non si sono umiliate nel chiedere di riqualificazione dovuti, e la cui mancanza ha segnato un divario tra strade di serie A e strade figlie di nessuno.

Alessandra Forti - Roma

PUNTURE A Bologna contro Giuliano Ferrara sono stati lanciati pomodori, uova, arance. A Silvio è andata meglio: solo una Pizza.

Giancristiano Desiderio

Una lingua tagliente è l’unico strumento acuminato che migliora con l’uso costante WASHINGTON IRWING

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di LA PERESTROJKA DI CUBA Ennesima svolta democratica a Cuba. Abolendo una precedente disposizione emanata dal fratello Fidel, il presidente Raul Castro ha infatti stabilito che i cubani ora potranno entrare negli alberghi fino ad oggi riservati ai turisti. E, già che ci sono, anche rifare i letti, lavare i pavimenti e dare una spolverata.

Fard Times fardtimes.splinder.com

PER LA CINA A RISCHIO L’OPERAZIONE-OLIMPIADI Continuano a giungere da Pechino segnali in evidente contraddizione con gli impegni presi con il Cio come condizione per l’asssegnazione dei Giochi olimpici. Hu Jia, 34 anni, il più celebre attivista umanitario della nuova generazione, è stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per «incitazione alla sovversione dello Stato». Noto per il suo impegno in favore dei malati di Aids e della causa tibetana, per la tutela dell’ambiente e il rispetto della libertà religiose. Una conferma delle denunce di Amnesty International, secondo cui con l’approssimarsi dei Giochi si registra addirittura un arretramento degli spazi di libertà in Cina. «Costernati» gli Usa, per la condanna di Hu Jia, mentre l’Ue chiede la sua liberazione.Anche la Norvegia, intanto, ipotizza di boicottare la cerimonia d’apertura delle Olimpiadi, che verrebbe disertata dai vertici politici. Certa l’assenza dell’imperatore giapponese Akihito. La decisione è stata presa dal governo, a cui spetta gestire l’agenda ufficiale dell’imperatore, proprio in risposta alla repressione avvenuta in Tibet. Ulte-

riore motivo di attrito nei rapporti mai distesi tra Giapppone e Cina. Un’umiliazione particolare per Pechino prendere lezioni sui diritti umani proprio dal Giappone, da cui subì l’invasione della Manciuria e il massacro di Nanchino. Ma l’appuntamento olimpico rischia sempre più di trasformarsi in un boomerang per Pechino. Uno stillicidio di proteste e rivolte potrebbe anche far fallire la gigantesca operazione di propaganda volta a mostrare al mondo l’immagine di una società ”armoniosa” proiettata verso il progresso, diffondendo invece esattamente l’immagine opposta. Altro che armonia, dopo i tibetani, infatti, anche gli uiguri, il popolo turcomanno di religione islamica che abita nella vasta regione dello Xinjiang, si sono sollevati chiedendo la scarcerazione dei prigionieri politici e la libertà religiosa. Sugli scontri del 23 e 24 marzo le autorità cinesi hanno saputo mantenere il segreto fino a ieri, per cercare di attenuare la sensazione del propagarsi in tutto il paese dei focolai di rivolta delle minoranze oppresse. Un territorio geostrategico quello dello Xinjiang: per il petrolio, gli oleodotti e i gasdotti da cui è attraversato, e per la difesa militare. Ma il caso degli uiguri è molto di verso da quello dei tibetani. Intanto sono molti di più: 16 milioni. Non hanno un leader unico che professa la nonviolenza ma diversi leader e gruppi, alcuni democratici, altri legati al fondamentalismo islamico. La Cina è avvertita: non sarà facile incassare con le Olimpiadi il pieno successo d’immagine che si aspetta.

JimMomo jimmomo.blogspot.com

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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