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polemiche e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
Sull’Ucraina Solzhenitsyn ha torto pagina 8
Robert Conquest
politica BOSSI CONTRO TUTTI ROMA LO ATTACCA E IL PDL VA IN CRISI pagina 4
Nicola Procaccini
terza repubblica ANNIBALE MARINI: «SI È PERSO TEMPO ORA LA COSTITUENTE» pagina 7
Riccardo Paradisi
alitalia IL DURO SPINETTA E IL SINDACATO RICATTABILE pagina 10
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Giuliano Cazzola
La repressione in Tibet ha svuotato i Giochi dei loro valori universali e rende impossibile il viaggio della fiaccola nel mondo
Il tradimento di Olimpia alle pagine 2 e 3 MARTEDÌ 8 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
63 •
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NordSud expo 2015
In mostra il futuro dell’Italia
Carlo Secchi Lanfranco Senn Filippo Poletti Giuseppe La Tour Claudia Conforti da pagina 12 80408
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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olimpia
il tradimento di
Con Pechino 2008 i Giochi hanno perso la loro universalità La repressione in Tibet sta rendendo impossibile il giro del mondo al “fuoco della fratellanza”
La fiaccola senza valore… di Gennaro Malgieri ell’antichità le Olimpiadi fermavano le guerre più sanguinose. I popoli mettevano da parte ostilità ed incomprensioni, i guerrieri deponevano le armi e la pace scoppiava miracolosamente sotto lo sguardo benevolo degli Dei. Le porte dei templi si aprivano senza il timore che qualcuno osasse profanare gli altari e dai bracieri si levavano fumi sacri a gloria dell’Olimpo. Il sangue, miracolosamente, si tramutava in fiumi di pacifiche libagioni e la carne morta come per incanto rifioriva a nuova vita affratellando rivali che sapevano il loro destino comunque segnato dopo la tregua. L’ordine mondiale era difeso dalle coscienze libere e non dalle macchine belliche. Perfino le mura delle città si sguarnivano dei tradizionali guardiani, mentre dentro di esse fiorivano amori umani e divini.
ro. Il tempo dei giochi olimpici dovrebbe segnare, invece, l’inizio di una costrizione avvertita dalla Cina nelle pieghe più profonde della sua società in crescita disordinata con un’azione congiunta delle democrazie di tutto il mondo tesa a bloccare il flusso commerciale da Pechino all’Occidente e gli investimenti dall’Occidente alla Cina. Ma chi è disposto a mettere in gioco i consumi che attraggano un miliardo e mezzo di esseri umani e che garantiscono una prosperità un po’ pelosa ad economie in affanno? Di fronte a questo interrogativo i diritti umani possono anche finire nel gulag tibetano senza quel tanto di pathos a comando che poi i giornali ci trasferiscono quasi per farci sentire in colpa. Non c’entra niente, insomma, l’accanimento contro la fiamma olimpica e contro il movimento olimpico. C’entra, eccome, la cattiva coscienza occidentale nell’aver avallato la brutalità ai danni di un popolo inerme, immerso in una religiosità antica, custode di tradizioni svelate tanti anni fa anche agli italiani da uno studioso dimenticato, oltre che dai viaggiatori del Sei e del Settecento: da Giuseppe Tucci che è lì, con libri riposti del retrobottega della cultura non applicata al facile consumo, a ricordarci che il Tibet non sarà mai domato perché la sua anima non è riducibile alla alienazione per quante generazioni possano passare e per quanti cinesi possano installarsi su quell’altopiano dominato da spiriti pacifici più tenaci dei guerrieri di un’ideologia che davvero non merita di essere ancora tenuta in vita dal capitalismo occidentale.
N
Lo spirito di Olimpia si posava su tutte le sponde del Mediterraneo al punto che Esiodo immaginava perfino le onde placarsi davanti all’incedere degli atleti verso la conquista dell’alloro. L’età del ferro era lontana dal manifestarsi. I barbari si concedevano il piacere di praticare le virtù degli ospiti e si rafforzava la civiltà della tolleranza nella koinè dei liberi che nessun tiranno osava coartare. Sull’ara dove ardeva la fiamma olimpica si consumavano sacrifici incruenti a glorificare la forza e l’ardimento che con purezza si mostravano ai potenti della Terra. Il nomos della Bellezza travolgeva le passioni più impure e le soggiogava. Era il tempo in cui gli uomini giocavano con le divinità e nascevano i miti che avrebbero accompagnato lo sviluppo della civiltà europea. La quale ha saputo, nel corso dei secoli, trovare momenti e spazi per riconoscersi nella pacificazione necessaria dopo gli inevitabili bagni di sangue. Era la guerra civile che si combatteva incessantemente nel Mediterraneo a sospendersi quando i giochi olimpici fermavano la mano tesa nello sferrare il colpo mortale al nemico assoluto. Qualche millennio dopo ce lo avrebbe ricordato Henry de Montherlant di quale struttura fosse lo spirito degli antichi diversamente da quello dei moderni, ma avendo deciso di ricongiungersi ai suoi “cari Romani”nel 1972, il grande scrittore francese non ha fatto in tempo, per sua fortuna, a coprirsi il volto davanti allo scempio che delle Olimpiadi, come momento di pace, ne avrebbero fatto popoli, governanti, padroni del pensiero e sguatteri del giornalismo. L’oltraggio alla fiamma olimpica consumatosi nelle civilissime Londra e Parigi, ed in procinto di consumarsi altrove, segue l’oltraggio che a questa stessa fiamma hanno mosso le autorità cinesi con la repressione in Tibet, ma non ha giustificazioni. È un ulteriore colpo inferto alla sacralità negata della pace che il movi-
Bandiere con le manette al posto dei cerchi olimpici nelle manifestazioni che ieri a Parigi hanno accompagnato l’arrivo della fiaccola mento olimpico dovrebbe riassumere e rappresentare. Certo, non aiuta i disperati tibetani ad uscire dal gulag che i cinesi hanno da cinquant’anni approntato per loro. Il genocidio culturale, la repressione politica, lo sfregio alla dignità continueranno anche dopo dieci, cento, mil-
ni, che cosa fare per il Tibet in coincidenza con i giochi olimpici di Pechino. Risuona la più banale delle “soluzioni”: boicottaggio. Come se con questo espediente si riducesse alla ragione il regime comunista cinese. La verità è che il boicottaggio salverebbe le coscienze delle
L’8 agosto a Pechino sfilino orgogliosamente le bandiere di tutte le democrazie. Ma alla nomenclatura si faccia sentire il pronunciamento del mondo libero che è tutto tibetano le manifestazioni come quella di Trafalgar Square. Inevitabilmente. Ed incentiveranno, per di più, i dirigenti della Repubblica popolare a stringere le maglie del cattiverio tibetano facendo crescere la montagna di morti che finora ammonta a centocinquanta cadaveri, mentre i prigionieri sono migliaia. Si discute, con colpevole ritardo e con stupefacente avarizia di argomentazio-
classi dirigenti occidentali, ma non fermerebbe la crudeltà della nomenklatura della Repubblica popolare. La quale continuerebbe a fare affari con il cosiddetto “mondo libero” imponendo la sua ridicola e ad un tempo tragica economia socialista di mercato dietro la quale si cela l’ossimoro politico più devastante del nostro tempo che per comodità nessuno rileva da questa parte dell’emisfe-
Si metta fine, dunque, al balletto della partecipazione o meno ai giochi di Pechino. Nel solo modo possibile.Vale a dire dando la parola alla politica, alle diplomazie, se necessario ricorrendo al solo scontro che gli inquilini della nuova Città Proibita temono: la riduzione, se non proprio la cessazione, delle commesse economiche dall’Occidente che poi, in tutta franchezza, vorrebbe dire la fine dello schiavismo tollerato ed accettato dai fabbricanti delle nuove rendite fondate sullo sfruttamento dell’uomo ancorché “comunista”. A Pechino sfilino, orgogliosamente, tutte le bandiere di tutte le democrazie. Ma alla nomenklatura si faccia sentire il pronunciamento del mondo libero che oggi è tutto tibetano. Si pretenda dall’Onu, per esempio, da parte di coloro che parlano di boicottaggio, una forte presa di posizione davanti a ciò che sta accadendo. E si lascino stare i tedofori. Comunque la si pensi, sono gli epigoni di un tempo in cui la crudeltà sapeva cedere il passo all’armonia. L’età del ferro può quantomeno non dimenticare l’età dell’oro. Esiodo abbandonerebbe la smorfia di disgusto per sorridere ancora una volta volgendosi ai suoi Dei.
il tradimento di
olimpia
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Continua a essere un simbolo utile e va usato disertando la cerimonia di apertura. Come la Carta delle Nazioni unite che viene spesso ignorata, anche se non per questo la dobbiamo eliminare
…ma illuminerà la Cina colloquio con Pierre Hassner di Francesca Giannotti
PARIGI. È appena tornato dalla grande piazza dei Diritti Umani, al Trocadero, dove ha partecipato a una delle tante manifestazioni di protesta che hanno costellato il percorso della fiaccola olimpica a Parigi. «Non ho più l’età per andare a protestare» sorride Pierre Hassner. A 75 anni, questo docente di Relazioni internazionali all’Institut d’Etudes Politiques de Paris e all’European center dell’Università John Hopkins di Bologna, è uno dei pochi ad osare di avventurarsi sul terreno minato dei rapporti tra etica e politica. Lui rivendica la sua materia di studio: conciliare politica degli Stati e diritti umani è possibile. È giusto manifestare per i diritti umani, ma quale triste spettacolo vedere la fiaccola olimpica calpestata, insultata, fischiata. Lo spirito olimpico è morto e sepolto? Sì, da tempo e non soltanto a causa della repressione in Tibet o per il tradimento dello spirito universale di rispetto della persona umana. Lo spirito Olimpico è stato colpito prima dalla dello professionalizzazione sport, dal doping, dal denaro. E allora basta, cala il sipario su duemila anni di storia delle Olimpiadi?
Continuo sempre a considerarmi a metà strada tra gli intellettuali idealisti puri e duri e quelli che evocano la superiore ragione dello Stato. È inutile farsi delle illusioni, a breve termine è impossibile costringere la Russia o la Cina a cambiare le loro politiche di repressione. Non è certo a causa delle proteste al passaggio della fiaccola che la Cina accetterà il dialogo con il Dalai Lama. Ma a lungo termine sono sicuro che anche questa fiaccola fischiata avrà degli effetti e porterà più trasparenza. È per questo che non bisogna «chiudere» le Olimpia-
dei Giochi, così come mi ero già espresso contro la proposta di Ségolène Royal di boicottare le Olimpiadi di Pechino a causa della politica della Cina in Darfur. Innanzitutto possiamo e dobbiamo legittimamente chiederci cosa facciamo noi, per il Darfur. Al contrario trovo legittimo ed efficace guastare la festa della cerimonia d’apertura: è un segnale importante, forte e simbolico. Da questo punto di vista le Olimpiadi servono ancora. Bisogna distinguere i giochi dalla cerimonia d’apertura, che è un avvenimento sostanzialmente politico.
È vero, ma è inutile farsi delle illusioni: lo spirito olimpico è un mito. Questo spiega come il primo ministro Gordon Brown abbia potuto da una parte ricevere il Dalai Lama e dall’altra precipitarsi a dire che sarà seduto in prima fila alla cerimonia d’apertura, visto che Londra ospiterà le Olimpiadi nel 2012. Il Comitato olimpico ha già le sue difficoltà ad occuparsi di sport, figuriamoci di politica. Senza contare che il Comitato olimpico è strettamente legato agli Stati più potenti ed è portato a prendere posizione soltanto quando è sollecitato
“
La possibilità di un’etica applicata alle relazioni internazionali sta in uno sforzo di compromesso. Bisogna praticare l’apertura, verso la Cina, la Russia o Cuba, ma scambiare questa apertura con il rispetto di regole quali la trasparenza e la reciprocità
di ed è per questo che non condanno il principio di aver attribuito le Olimpiadi a Pechino. Dunque: lo spirito delle Olimpiadi è morto, ma non boicottiamole. Sono contrario al boicottaggio
”
Il Comitato Olimpico non è in teoria legato alle ragioni di Stato che vincolano i governi. Obbedisce ad una Carta olimpica che sostiene la dignità dell’Uomo e il rispetto dei principi etici.
da questi governi. E allora non sarebbe meglio spegnerla del tutto questa fiaccola? No, resta un simbolo che può essere utile. Sono sempre per una sorta di compromesso
permanente tra idealismo e realpolitik. Anche la Carta delle Nazioni Unite viene spesso ignorata, non per questo la dobbiamo eliminare. Ho partecipato una settimana fa ad un dibattito tra l‘ex ministro degli Esteri Hubert Vedrine, sostenitore della pura realpolitik, e Bernard Kouchner, attuale ministro degli Esteri e fondatore di Médecins sans Frontières, inventore del diritto di ingerenza. Il percorso di Kouchner è interessante perché oggi, da responsabile di governo, è costretto a scendere a compromessi. Forse ne accetta troppi, forse troppo pochi. La possibilità di un’etica applicata alle relazioni internazionali sta in questo sforzo di compromesso. Bisogna praticare l’apertura, verso la Cina, la Russia o Cuba, ma scambiare questa apertura, necessaria a tutti, per chiedere il rispetto di regole quali la trasparenza e la reciprocità. La rivoluzione della comunicazione non consente più a nessuno di mantenere segreti, né su azioni contrarie ai diritti umani in casa propria né sulle reazioni che provocano in termini di fiducia e prestigio, ma anche di progresso economico, tecnico e culturale.
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politica
Un’altra giornata dominata dalle polemiche scatenate dal leader del Carroccio
Lega Nord contro tutti d i a r i o
d e l
g i o r n o
Il Pdl insiste: ristampiamo tutto Le polemiche scatenate dal Popolo della libertà per la composizione delle schede elettorali non scalfisce il ministro dell’Interno. A maggior ragione dopo che ieri la Dc di Pino Pizza ha formalizzato il ritiro delle proprie liste dalla competizione: non c’è alcuno scudo crociato da aggiungere ai modelli già stampati (e già votati da buona parte dei militari italiani in missione all’estero). Eppure il Pdl ha continuato a chiedere di rifarli: secondo Silvio Berlusconi Amato non può scaricare il problema sulla legge elettorale approvata nel 2005 «perché quel sistema è stato concepito in un periodo politico molto diverso, quando c’erano molti partiti: adesso tutto è cambiato, si potrebbero mettere due strisciate di simboli, separate, ma senza incertezze».
Il ritiro di Pizza, il giudizio della Cassazione
di Nicola Procaccini
ROMA. S’impenna la tensione tra Umberto Bossi e Silvio Berlusconi, a poche ore dal voto. Ed il Partito Democratico ne approfitta. Le dichiarazioni del leader della Lega Nord hanno suscitato una serie di reazioni a catena che per il secondo giorno consecutivo hanno segnato la giornata politica italiana. «Se necessario, per fermare i romani che hanno stampato queste schede elettorali, una vera porcata, potremmo anche imbracciare i fucili». Questa affermazione di Bossi, più di altre, ha scatenato il fuoco della polemica tra opposti schieramenti. Walter Veltroni ha avuto gioco facile nel minacciare lo spauracchio di Bossi ministro per le riforme. Al punto che Berlusconi, suo malgrado, è dovuto intervenire dicendo: «A me non ha chiesto niente e poi le sue condizioni di salute sono quelle che sono...». Dunque una netta presa di distanze da parte del Cavaliere, ma, soprattutto, un’affermazione poco elegante che ha suscitato una certa irritazione all’interno del quartier generale della Lega Nord. Lo stesso Umberto Bossi, ieri, è intervenuto con una dichiarazione orgogliosa: «Io sto benissimo! E fare il ministro è il mio ultimo pensiero, non lo bramo. Ma se me lo chiedono, lo faccio». Walter Veltroni in serata, parlando ad un comizio ha ripreso in mano il boccino della polemica, tornando a colpire il suo obiettivo primario: «il candidato del Pdl contro Bossi ha usato l’argomentazione peggiore, anche umanamente, che si possa usare».
Naturalmente, si tratta di una polemica che non avrà ancora per molto una vasta eco nel paese, destinata a spegnersi senza grandi rivoluzioni nel consenso elettorale. Ma nella capitale italiana le parole di Bossi assumono tutt’altro peso specifico. In particolare la dichiarazione del leader leghista: «contro la canaglia romana» è stata accortamente utilizzata da Francesco Rutelli che l’ha inserita prontamente, appena battuta dalle agenzie giornalistiche, nella sua agenda elettorale. «C’è un solo modo con cui la destra di Berlusconi e Alemanno può dimostrare di non stare a rimorchio delle pretese di Bossi e
A Roma, le parole di Bossi assumono un evidente peso specifico. La dichiarazione del leader leghista «contro la canaglia romana» infiamma la corsa al Campidoglio della Lega. Portino Bossi in persona, e non qualche compiacente candidato ministro, al Colosseo a concludere la campagna elettorale del Pdl, smentendo tutte le sue dichiarazioni contro Roma e giurando solennemente fedeltà a Roma, capitale della Repubblica, e rispetto ai romani». L’abile dichiarazione del candidato sindaco del Pd ha messo in crisi il Pdl laziale costretto a difendersi
tra imbarazzi e difficoltà. La corsa al Campidoglio romano ha vissuto ieri una delle sue giornate più intense. L’immagine di Bossi che chiede scusa ai romani davanti al Colosseo, rappresenta un colpo di teatro ben riuscito da parte di Rutelli che Alemanno ha dovuto incassare con malcelato dolore.
Il rapporto tra Lega Nord e Pdl, in queste ore, viene criticato da diversi punti di vista e da tutti gli avversari in corsa per la presidenza del Consiglio. Pierferdinando Casini, per esempio, ha spostato il tiro dalle parole di Bossi al futuro di un eventuale governo Pdl-Lega: «Io non ho paura dei fucili di Bossi – ha dichiarato il leader dell’Udc perchè sono scemate che fanno parte del folclore non della politica: gli italiani devono però sapere che come Bertinotti ha strangolato Prodi, così Bossi ricatterà, la prossima legislatura, Berlusconi e il suo governo». Daniela Santanchè, invece, ha furbescamente lasciato la ribalta, nella giornata dell’orgoglio capitolino, al suo leader politico Francesco Storace il quale ha domandato per mezzo stampa: «Quello a Bossi è un voto utile, cavalier Berlusconi?». «L’Italia non ha bisogno di ministri che minacciano – ha continuato Storace - e gli italiani hanno bisogno di una classe dirigente seria, che non faccia capricci per una scheda elettorale». Già, la scheda elettorale, l’altro tema caldo della campagna elettorale, su cui c’è grande fermento in queste ore. Non esattamente il centro dei problemi degli italiani.
Oggi la Sezioni riunite della Cassazione stasbiliranno se sui ricorsi in materia elettorale sono competenti a pronunciarsi anche i giudici amministrativi (Tar e Consiglio di Stato) o solo il Parlamento. La sentenza potrebbe anche non essere comunicata subito, e in ogni caso non avrà effetti sul voto di domenica prossima: il caso della Dc di Pino Pizza infatti è stato già superato ieri con la decisione della Democrazia cristiana di ritirare le proprie liste dalla competizione. Resta in piedi comunque il ricorso proposto dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui il piccolo partito che si professa erede della Balena bianca non avrebbe comunque potuto rivolgersi al Tar per ottenere la riammissione della propria lista.
Casini: sì alle riforme, no a Veltrusconi «Il futuro di questo Paese non si governa con il 51 per cento». È una delle considerazioni svolte da Pier Ferdinando Casini nell’intervista rilasciata al direttore di TgCom Paolo Liguori. «Oggi stabilisco un nuovo patto con gli elettori che mi pone in una posizione di centro moderato che non è il Pdl e nemmeno il Pd. Le alleanze si fanno prima del voto ma in Parlamento avremo un ruolo costruttivo, voteremo le leggi giuste, non saremo sfascisti», dice il candidato premier dell’Udc, «dopo le elezioni sarò con Berlusconi e Veltroni per modificare le regole per il bene del Paese, non sarò con un Veltrusconi: se ci sarà un accordo virtuoso io daro’ una mano».
Il sorteggio di Matrix Stamattina alle 10 e 45 nello studio di Matrix a Roma si terrà il sorteggio che stabilirà la sequenza delle interviste ai candidati premier. Alla presenza di un notaio e sotto gli occhi delle telecamere, dei Tg di Mediaset verrà sorteggiato l’ordine di apparizione delle coppie di leader previsti per le serate di martedi’ 8 aprile (Boselli e Santanchè), mercoledi’ 9 aprile (Bertinotti e Casini) e venerdi’ 11 aprile (Berlusconi e Veltroni). Il leader del Pdl ha già detto che preferirebbe essere collocato dopo il candidato del Pd «per vedere cosa dirà e replicare».
E Bassolino disse: tra un anno vado via Ancora un anno «di impegno e di lavoro», poi in Campania si potr andare al voto anticipato. È la prima volta che il governatore Antonio Bassolino indica una scadenza temporale, delinea «l’orizzonte giusto», elenca gli obiettivi, tra i quali l’uscita definitiva dall’emergenza con il passaggio dei poteri alle istituzioni locali, e soprattutto il programma per lo sviluppo, con la presentazione a Bruxelles dei programmi per la nuova stagione dei fondi europei. Poi al voto, «ben in anticipo sulla scadenza naturale». Un voto al quale, secondo Bassolino, si deve arrivare, utilizzando quest’anno di tempo, «governando la transizione e preparando una nuova stagione politica per portare avanti le sfide che sono davanti a noi. Sarebbe terribile se le abbandonassimo all’incertezza».
politica
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Sanza vede un elettorato meridionale «allarmato dalla campagna di Pdl e Pd» ROMA. C’è qualche equivoco di troppo in questa campagna elettorale. Il più imbarazzante? «È nell’idea che Pdl e Pd si sono fatti dell’elettorato: loro lo immaginano narcotizzato dalla rassegnazione, pronto ad accettare qualsiasi inganno. E invece c’è scoramento, sfiducia nella politica, ma non passività: qui in Puglia incontro tanta gente e molti giovani che vogliono una campagna elettorale vera, non ridotta allo spettacolino televisivo. E sicuramente si sottovaluta la preoccupazione degli elettori meridionali per il peso che la Lega potrà avere in un eventuale governo Berlusconi». Angelo Sanza è un’eccezione. Capolista al Senato per l’Udc in Puglia, è uno di quelli che incontrano le persone da vicino e non vivono immersi in una caccia al voto virtuale. Che non si adeguano alla banalizzazione e all’insensatezza. Con le frasi di Bossi sui fucili e la carogna romana abbiamo la definitiva conferma: il bipolarismo italiano va a marcia indietro, è in una regressione infantile. «Attenzione perché i toni del capo leghista non servono a reclutare rivoluzionari in camicia verde ma a condizionare il futuro del Paese. Torneranno dopo le elezioni, quando il Carroccio sarà probabilmente decisivo per il governo e imporrà di destinare al Nord le poche ricchezze disponibili». Non è folclore, insomma. «Vogliamo prendere alla lettera Berlusconi? D’accordo: dice che Bossi non è in salute, mi pare una cosa gravissima. Un partito che fa riferimento a una persona in queste condizioni sarà decisivo per i futuri equilibri, con i suoi senatori la Lega sarà comunque determinante. Come si fa a dire con tanta leggerezza che il suo capo ”ha avuto quello che ha avuto”e che può permettersi di parlare così?». Lei dice che l’elettorato meridionale non è ingenuo e nemmeno distratto. «È in allarme perché si rende conto che con un esecutivo guidato da Berlusconi e condizionato dal senatùr cadrebbe dalla padella alla brace. All’inizio della campagna elettorale c’era la consolazione di poter mandare a casa Prodi. Adesso il ricordo dei danni provocati dall’esecutivo uscente comincia a sfumare, e riaffiora quello del quinquennio 2001-2006, di una fase che non
«Bossi rialza la voce per portare al Nord la ricchezza che resta» colloquio con Angelo Sanza di Errico Novi ha lasciato tracce sempre rassicuranti per il Mezzogiorno». D’altra parte anche Veltroni sembra cercare soprattutto il consenso dei settentrionali, sono loro i protagonisti del dibattito. Dalla polemica su Alitalia e Malpensa è nato uno dei pochi momenti di vera tensione tra Pdl e Pd. «Diciamo pure che è stata l’unica volta in cui si è vista una dif-
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È già svanito il sollievo per la fine del governo Prodi, Berlusconi e Veltroni guardano solo al Settentrione e la gente lo ha capito
”
ferenza tra i due partiti. Per il resto non c’è distinzione e questo innervosisce la gente, riaccende anche il sentimento dell’antipolitica». Il Palazzo è visto con occhio sempre più diffidente. «Ma non vuol dire che la gente si è arresa. Anzi è proprio questo il fatto più importante che emerge dalla mia campagna elettorale. Qui in Puglia gli elettori non si lasciano ingannare
dai talk show, vengono agli incontri organizzati dall’Udc e ci chiedono com’è possibile che Berlusconi e Veltroni dicano le stesse cose. Parlano, ascoltano, i giovani in particolare pongono molte domande per capire davvero cosa c’è dietro le comparsate televisive». Il centro rappresentato dall’Udc può fare dunque da antidoto: mentre gli altri ”semplificano” e però allargano anche la distanza tra ceto politico ed elettori, può spingere per il recupero della politica vera, fatta guardando i problemi da vicino. «Con Casini, Buttiglione, Adornato veniamo ripagati da una voglia di partecipazione imprevista.Troviamo sezioni di partito piene, credo dipenda anche dal fatto che i cattolici capiscono di essere in pericolo». Non sembrano sentirsi in pericolo, per la verità, quelli che rappresentano i cattolici nel Pdl. «E qui c’è la prova che una forma di inciucio è già abbondantemente in corso». Vuole dire che l’ala cattolica dei due partiticoalizione ha deposto le armi? Sanza guida in Puglia la lista Udc per il Senato: «C’è già un inciucio e riguarda il silenzio dei partiticoalizione sui temi cattolici. Pensano che la gente sia rassegnata e invece in giro c’è una ritrovata voglia di partecipazione»
«Voglio dire che Berlusconi e Veltroni obbediscono all’intesa non scritta di escludere dalla campagna elettorale i temi cattolici. Non è un caso che noi ci siamo ritrovati con De Mita: ciascuno avvertiva ormai un disagio nel rispettivo campo». Martinazzoli e Cossiga hanno sostenuto tesi opposte, dalle colonne di liberal: il secondo contesta l’ipotesi di una ricomposizione dei cattolici in politica, ipotizzata dal primo. «Risuonano sempre le previsioni di Morosui tempi oscuri che sarebbero arrivati per la Dc.Viene da pensarci con l’assurdità del caso Pizza, per fortuna rientrato, e anche con la difficoltà del centrodestra di passare dalla fase carismatica di Berlusconi a un nuovo corso basato sulla democrazia interna al partito, come sarebbe giusto per le forze che si ispirano al Ppe. Eppure qualcosa comincia a cambiare, anche in Puglia è così». Secondo lei dunque Vendola non ha mutato il dna della regione. «Dopo la parentesi di accettazione del Vendola cattolico bipartisan c’è un ritorno di attenzione verso la storia democristiana e proprio verso quella parte ispirata all’esperienza di Aldo Moro. La democrazia italiana vive tempi oscuri ma noi dell’Unione di centro ci impegniamo a esserne i custodi». Tre cose per cui bisogna battersi subito. «Difendere i valori cattolici, che oltretutto sono parte costitutiva della storia d’Italia: certo non ci si può aspettare che sia il Pdl a sostenere la battaglia di questo Papa contro il relativismo, per i valori non negoziabili. Secondo: farsi paladini di un Sud che gli altri emarginano dal dibattito e che invece ha bisogno di investimenti e sviluppo. Terzo: obbligare tutti gli altri partiti a fare subito le riforme utili a ridurre i costi della politica e una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere i parlamentari». Si annuncia una stagione caotica, non sarà una battaglia facile. «Basta guardare le liste di Pdl e Pd per capire quanto dovremo batterci per difendere le istanze cattoliche. Sono due partiti-coalizione disomogenei, noi invece abbiamo ben chiaro il principio della solidarietà insegnato da De Gasperi: in una Nazione civile i territori più forti devono sostenere la crescita di chi rischia l’emerginazione».
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L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
La gaffe di Franceschini
Umberto Bossi fa paura anche senza fucili di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza Non c’è nulla di più sadico che rimestare nell’ignoranza altrui. E non c’è politico più sadico - e per questo noi gli attribuiamo il Telegattone della campagna elettorale in corso – di Giulio Tremonti. Perfido, burbero, talvolta saccente come si conviene a un primo della classe,Tremonti è quello che in gergo corrente si usa definire “un osso duro”. L’altra sera durante un sonnolento e sonnacchioso Ballarò, mentre la puntata scivolava via sull’ovvia discussione “meno tasse più sviluppo”,Tremonti con una sciabolata degna dei rilanci di Pirlo, ha infilzato e fatto stramazzare il povero Dario Franceschini che sussiegoso continuava a far battutine. «Ti faccio una domanda» – ad un certo punto ha interrotto Tremonti. «Dimmi, Fransceschini a quanto ammonta il Pil italiano?». Silenzio in studio, Franceschini abbozza, Tremonti lo incalza «se non sai neppure queste cose è inutile parlare… torna in sezione a studiare…» e via in un crescendo che neppure la provvidenziale ironia di Floris («niente foglietti o suggerimenti dalle seconda file…») ha saputo smorzare. Franceschini è rimasto basito quanto il suo irreprensibile ciuffo ben tenuto sulla fronte. All’asilo avremmo potuto intonare il più infamante ritornello: “sbiancato, sbiancato, sbiancato”. In Francia i ragazzini avrebbero detto “cassé”. Cioè sei stato pesato, misurato, trovato mancante,“cassato”. Sarà stata una dimenticanza, ma fa certo stupore vedere l’impreparazione di molti candidati al Parlamento, anche autorevoli. Se uno non sa cosa è il Pil e a quanto ammonta, dovrebbe evitare di parlare di politiche economiche. Ma forse, parafrasando il grande Kraus, «Non avere un pensiero e saperlo esprimere: è questo che fa di uno un politico». O an-
che un grande manager, visto che impazza in rete su you-tube lo svarione di Luca Luciani, alto dirigente Telecom, il quale in una convention ha esaltato (sbagliando) Waterloo come il capolavoro di Napoleone. Più che la gaffe, ripetuta tre volte (segno indiscutibile di quanto Luciani non maneggiasse per nulla la materia), è la postura a rendere indifendibile il giovane manager, una sorta di Gordon Ghecco riletto alla luce di Sordi e con un pizzico di Corrado Guzzanti: macchietta che getta sull’azienda una sorta di involontario comico discredito difficile da riparare. Al contrario di Luciani che non pare redimibile nel breve tempo, Franceschini non ha cadenze da caricatura e per questo la lezione potrebbe servirgli, almeno per non fare la figura di Luciani a Waterloo.
Nel governo Pdl più Lega c’è già un piccolo giallo, e ancora non c’è il governo: Umberto è pronto a fare il ministro per fare in due mesi il federalismo fiscale ma Silvio dice di non saperne nulla e si appella alle “condizioni di salute che sono quelle che sono”. Brutte parole, lo diciamo - per una volta senza ironia. La malattia diventa un argomento politico. L’Umberto, infatti, è stato chiaro e senza equivoci: “Per quanto riguarda le riforme ho molte buone idee che sarebbe bene realizzare” per questo “bisogna vincere, prendere un sacco di voti per portare a casa il federalismo fiscale in un paio di mesi”. Fucili o non fucili, sparate o non sparate l’Umberto è chiaro, come sempre. E dice cose che sono scritte nere su bianco nel programma sottoscritto da Pdl e Lega. Dunque, tutto normale. Eppure, Silvio la spara grossa e dice di non sapere nulla: “A me non ha chiesto niente nessuno e le condizioni di salute sono quelle che sono”. Insomma, orecchie da mercante. Tanto che le parole del Walter, anche se riferite ai fucili, rischiano di essere vere: “La cosa peggiore è il silenzio dei leader: Berlusconi e Fini se la fanno sotto, non hanno il coraggio di reagire”. Umberto fa paura. Anche senza fucili.
La campagna elettorale su Internet/ Usa 2004 – Italia 2008
Quando la Rete fa vincere (o perdere) di Andrea Mancia Ormai se ne sono accorti pure i sassi: Internet è un “luogo”sempre più strategico per la politica. Soprattutto durante le campagne elettorali. I più attenti se n’erano resi conto durante la lunga corsa verso la Casa Bianca del 2004, quando negli Stati Uniti il ruolo crescente della rivoluzione digitale nel sistema dell’informazione (e di quella strana cosa chiamata “blogosfera”) ha letteralmente provocato un terremoto politico di proporzioni inimmaginabili. I blog della destra americana, come avevano fatto le talk-radio negli anni Ottanta, hanno avuto la forza di rimescolare gli equilibri di un sistema mediatico che si era allontanato sempre di più dal comune sentire di una larghissima parte della popolazione. I mainstream media,
improvvisamente, si sono trovati con milioni di occhi addosso, pronti a verificare ogni singola notizia, mettere in dubbio ogni interpretazione e smascherare ogni tentativo di manipolare la realtà. Milioni di redattori ed editori, ogni giorno e a qualsiasi ora, hanno cominciato a mettere in dubbio l’au-
torevolezza dei media tradizionali e sono riusciti più di una volta a cambiare il corso degli eventi politici. Nell’estate del 2004, è stato grazie alla testardaggine di un pugno di blogger repubblicani che le bugie raccontate da John F. Kerry sul suo passato in Vietnam, denunciate dagli Swift Boat Veterans for Truth nel libro “Unfit for Command”, hanno superato il muro difensivo dei media tradizionali. E i network televisivi, dopo un mese di tempesta digitale nella blogosfera, sono stati praticamente costretti ad affrontare l’argomento. Dan Rather ha perso la conduzione di “60 minutes” dopo che i falsi documenti che accusavano Bush di aver goduto di un trattamento di favore durante gli anni del
Vietnam sono stati messi in discussione dai blog filo-repubblicani. E denunciati sulla pubblica piazza da migliaia di “esperti”, molti dei quali più affidabili di quelli interpellati dalla Cbs. L’offensiva degli Swifties e il flop della Cbs, secondo un buon numero di analisti, sono stati due dei fattori principali della sconfitta di Kerry. Episodi simili, naturalmente, sono accaduti anche dall’altra parte della barricata. Il movimento d’opinione che ha costretto Trent Lott a rinunciare alla leadership dei repubblicani al Senato è nato nella trincea sinistra della blogosfera (anche se molti blogger di destra hanno partecipato all’offensiva), dopo che il vecchio Lott si era lasciato andare a nostalgie di sapore razzista. E cosa dire dei
milioni di dollari raccolti via Internet nel 2004 da Howard Dean e nel 2008 da Barack Obama? Non è ancora abbastanza per interrogarsi sull’impatto della Rete nella politica e nell’informazione? In Italia, per la verità, il panorama è differente. E nei giorni che ci separano dall’ormai vicinissimo appuntamento elettorale proveremo ad esplorare questa realtà in crescita, per cercare di capire a che punto si trova il nostro Paese nella sua marcia di avvicinamento verso le “cyberdemocrazie” occidentali. Magari per sfatare il mito, propagandato da un sistema sempre più obsoleto dei media tradizionali, che il fenomeno dei blog politici e di informazione – in Italia – sia tutto riconducibile a Beppe Grillo.
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L’ITALIA AL VOTO ROMA. Annibale Marini, professore ordinario di diritto civile presso l’ Università degli studi di Roma Tor Vergata è stato presidente della Corte Costituzionale. Si conclude con lui il dibattito aperto da liberal sulle riforme istituzionali nel nostro Paese a cui hanno partecipato Augusto Barbera, Tommaso Frosini e Gianfranco Pasquino. Riforme improrogabili a detta di ogni osservatore e degli stessi attori politici italiani. Un’urgenza cui finora però non è seguita una conseguente prassi riformista. Professor Marini tutti le vogliono le riforme istituzionali ma nessuno le fa. Perché? Guardi io sono molto cauto quando si parla di riforme costituzionali. Perché vede noi usciamo da una lunga stagione dove si è parlato moltissimo di riforme senza che poi le riforme siano andate in porto. Peraltro un disegno organico di riforma costituzionale è stato tentato, ma è stato bocciato dal referendum con un risultato inequivocabile. Quel tentativo di riforma costituzionale è stato pesantemente sconfitto. Questo può piacere o dispiacere ma occorre tenerne conto. Quando l’elettorato boccia un referendum come questo non è che si possa pensare di riprendere da dove si era rimasti, ripetere ex novo quell’esperienza. Dunque? Dunque dobbiamo cambiare strada. Limitando le ambizioni e concentrando le riforme ad alcuni aspetti. Quali? Focalizziamone tre. Primo obiettivo: una riduzione significativa del numero dei parlamentari italiani. Mille deputati sono un numero oggettivamente eccessivo. Su questo mi sembra ci sia accordo tra tutte le forze politiche, per non parlare del favore dei cittadini per un’iniziativa di riduzione dei parlamentari. Il secondo obiettivo è la riforma del bicameralismo perfetto. Noi abbiamo due camere che sono una la fotocopia dell’altra: è assurdo. È un’anomalia che potrebbe essere risolta facendo del Senato una camera a carattere regionale. Oltre alla camera federale lei pensa anche al federalismo fiscale? Si ma il federalismo fiscale va coniugato con la solidarietà. Perché è vero che il federalismo fiscale, metterebbe in moto come si ripete spesso, un processo di responsabilizzazione, ma se le migliori università, i migliori ospedali, le industrie restano al nord viene a mancare un criterio d’equità in questo discorso. Per responsabilizzare il mezzogiorno occorre anche dargli una possibilità di sviluppo. È difficile responsabilizzare il sud senza che lì sia possibile un’economia reale. Mancava un punto alle tre riforme che lei indicava tra le più urgenti. Si, la riforma di questa legge elettorale che presenta un deficit di democraticità evidente a tutti e che giustamente non piace a nessuno. Ai partiti non dispiace. Ai partiti non dispiace perché dà ai lo-
Terza Repubblica. Le riforme istituzionali/5 Annibale Marini
Si è perso troppo tempo, ora Assemblea costituente colloquio con Annibale Marini di Riccardo Paradisi
Secondo l’ex presidente della Corte Costituzionale Annibale Marini (foto a sinistra), in questi anni il Parlamento ha perso troppo tempo e non è stato capace di fare le riforme
“
Quando vedo che un giornale presenta la lista dei nomi di coloro che verranno sicuramente eletti resto sbigottito. Si potrebbe dedurne che allora è inutile andare a votare ro capi il potere assoluto di decidere il parlamento italiano. Sa, quando io vedo che un giornale nazionale presenta la lista dei nomi di coloro che verranno sicuramente eletti resto sbigottito. Si potrebbe dedurne che allora è inutile andare a votare e che esiste un problema sostanziale di democrazia. C’è però una via per uscire da questa impasse. Il referendum. Il referendum di Giovanni Guzzetta. Certo, sono state raccolte le firme per poter celebrare quel referendum e i cittadini hanno il diritto di votarlo per modificare la legge elettorale e migliorare questo bipolarismo. È improbabile che si voterà quest’anno, a caldo dopo le elezioni, ma fra un anno, con la dovuta calma bisognerà pur celebrarlo. Lei dice che è bene essere cauti nelle riforme. In Italia però lo si è anche troppo. Si parla di modifiche istituzionali da anni ma dalla bicamerale in poi c’è da registrare solo una lunga teoria di fallimenti.
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Quando parlo di cautela mi riferisco proprio a questo. Si deve essere molto attenti a scegliere le vie per le riforme, a individuare i percorsi reali, altrimenti si fa retorica, si alzano cortine fumogene e si contribuisce a sfiduciare ancora di più il Paese. Si parla di abolizione delle provincie: sono tutti convinti che si tratti di enti inutili, carrozzoni, doppioni rispetto alle regioni. Bene: da quando si è cominciato a parlare di questa riforma le provincie sono raddoppiate. Sembra un paradosso invece è una costante della politica italiana. La retorica, la verbalizzazione. Se non c’è la volontà politica di sopprimerle queste provincie allora non se ne parli. E così se le riforme non si vogliono fare è inutile e dannoso proporle. Forse il rapporto asimmetrico tra la retorica e la prassi riformista delle riforme è dovuta al fatto che la politica non vuole riformare se stessa. Lo abbiamo chiesto a tutti quelli che sono intervenuti in questo dibattito: perché il Senato per esempio dovrebbe votare il suo depotenziamento? Ragionan-
do all’interno di una logica di potere è illogico. Certo il punto è proprio questo: il nodo sta qui, in questa ragnatela di veti incrociati che sta ormai paralizzando il Paese. Perché ormai siamo alla paralisi, ed è illogico anche questo se ci pensa. Ma ci rendiamo conto che in Italia non si riesce a nominare un senatore a vita senza che si scateni un inferno di polemiche, che è impossibile nominare il quindicesimo giudice della Consulta? Il nodo è proprio questo l’incapacità della politica di autoriformarsi. Un nodo che dovrà però essere sciolto. Ce lo imporrà l’Europa probabilmente, come è accaduto per l’euro. A meno che, in un sussulto di coscienza e senso di responsabilità, non si decida di percorrere la strada maestra verso una riforma organica delle istituzioni. Quale? Una nuova Assemblea costituente. Centocinquanta persone tra studiosi, giuristi, politici interni ed esterni al Parlamento che per sei sette mesi lavorino a una compiuta riforma della Costituzione italiana. Questa le sembra l’unica soluzione? È la soluzione verso la quale, dopo avere assistito al naufragio parlamentare di tante iniziative legislative, mi vado convincendo ogni giorno di più. Si è perduto molto tempo fino ad oggi. Troppo.
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polemiche Botta e risposta tra Aleksandr Solzhenitsyn e Robert Conquest sulle cause della grande carestia e sull’uso politico che se ne fa ora
Gli ucraini hanno torto Gli ucraini hanno ragione Per il Nobel russo non si deve parlare di genocidio
Come i bolscevichi Kiev fa solo della propaganda Il premio Nobel per la letteratura Aleksandr Solzhenitsyn è intervenuto nei giorni scorsi sul quotidiano russo Izvestia accusando le autorità ucraine di “revisionismo storico” per il tentativo di far riconoscere la carestia degli anni Trenta come un genocidio russo contro l’Ucraina. A suo giudizio, infatti, i politici di Kiev sembrano aver superato le selvagge suggestioni della macchina propagandistica bolscevica. Riportiamo qui alcuni stralci del suo intervento e nell’articolo a fianco la risposta di Robert Conquest, l’autore di Raccolto di dolore (liberal edizioni) - il primo completo e sconvolgente atto d’accusa sulle responsabilità del gruppo dirigente sovietico nella tragedia ucraina in cui morirono milioni di persone.
«Già dal 1917 noi cittadini sovietici avevamo abbastanza bugie da ascoltare e inghiottire in silenzio. Ad esempio che l’Assemblea costituente bolscevica non era un tentativo democratico ma un complotto controrivoluzionario (e che per questo fu sciolta). O che il colpo di Stato di Ottobre non fu affatto (magnifica manovra di Trockij!) un’insurrezione, ma una difesa dall’aggressivo Governo provvisorio (tentato dagli intellettualissimi cadetti). Ma le mostruose distorsioni di quei fatti storici, né allora né in seguito arrivarono agli abitanti dei Paesi occidentali, che quindi non ebbero mai modo di rafforzare le difese immunitarie contro la smisurata grandezza e sfacciataggine di queste menzogne. E la Grande Fame del 1921, che iniziata negli Urali attraversò il Volga e si spinse nel profondo della Russia europea, sconvolgendo il nostro Paese? Annientò milioni di persone, ma ai gerarchi comunisti sembrò sufficiente attribuire la fame alla siccità, mentre non si faceva nemmeno cenno della crudele confisca ai contadini, da parte degli squadroni incaricati, delle riserve di grano. E anche negli anni 1932-33, quando la carestia si ripresentò in Ucraina e nel Kuban’, i gerarchi del Partito comunista (dove si contavano non pochi ucraini) se la cavarono con un simile silenzio e una simile chiusura. A nessuno allora venne in mente di dire agli illuminati attivisti del Partito comunista bolscevico e della Gioventù comunista che si trattava della distruzione pianificata proprio degli ucraini. Le provocatorie denunce di “genocidio” hanno cominciato a levarsi solo decenni dopo, prima pian piano, nelle menti scioviniste degli ucraini, maliziosamente istigati contro i “moscoviti”. Mentre ora si levano dagli stessi circoli governativi dell’attuale Ucraina, come se ripetessero le malefatte degli agitatori politici bolscevichi. “Ai Parlamenti di tutto il mondo!” E alle orecchie occidentali questa flautata bugia suonerà liscia liscia, loro non si sono mai immischiati della nostra storia, gli puoi servire qualsiasi favola, anche la più folle».
di Robert Conquest
STANFORD. Come afferma giustamente Solzhenitsyn, per il quale ho sempre nutrito un profondo rispetto, la terribile carestia del 1933 non fu inflitta alla sue vittime in base ad un principio etnico. Il mio libro a riguardo (Raccolto di dolore, ndr) descrive dettagliatamente il problema delle vittime al di fuori dall’Ucraina: sul Don, sul Volga, nel Kuban, anche se più della metà della popolazione colpita era ucraina. E, un po’ prima, la catastrofe kazaka. Certo nessuno potrebbe contestare, sostenendo che anche gli zingari ne furono oggetto, che l’Olocausto non riguardasse sostanzialmente gli ebrei, nemmeno prendendo in considerazione il numero di polacchi e di altre nazionalità che furono uccisi ad Auschwitz. Nei primi anni Trenta, le vittime principali del mondo agricolo facevano parte del gruppo non etnico dei kulaki, categoria che rappresentava gli elementi meno assimilabili allo stalinismo. E più le zone rurali erano prospere, più duramente venivano colpite. Per questo, non fu una politica su base nazionale quella che la classe contadina dovette subire, ma il fatto di essere abitanti delle campagne dell’Ucraina o del Kuban. Detto questo, è evidente che i presupposti della carestia furono scientificamente creati. I confini con la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa furono bloccati; i contadini che cercavano di entrare in zone della Russia meno affamate non riuscivano a tornare indietro e spesso venivano arrestati dalla polizia politica. Nel libro questi fatti sono ampiamente documentati. Nella stessa Ucraina, la proporzione di grano requisito - con la conseguente moria di persone messe alla fame - era la più alta. Nel 1932-33, tale maggiore carenza significò che una già quasi letale confisca del grano
provocò un innalzamento del tasso di mortalità. La quantità di vittime fu di conseguenza più alta in Ucraina (e Kuban) che in tutta l’Unione Sovietica, e non può esserci dubbio che questo fu l’inevitabile e prevedibile risultato della paranoica ed eccessiva politica di confisca del grano voluta da Stalin.
Questo non significa che le considerazioni nazionali staliniste non ebbero un ruolo. Il criterio nazionale fece davvero mostra di sé, per esempio, nel periodo del Grande Terrore del 1937-38. Le politiche su base nazionale (spesso determinate da identificazioni irreali), colpirono solitamente i tedeschi, i polacchi ed altre nazionalità, ma anche le più piccole minoranze dell’Urss, come quella greca, e certamente il criterio etnico per i nemici del sistema fu evidente nel 1944 con le deportazioni di massa di mongoli, ceceni, inguscezi, ecc. Andrei Sakharov ha parlato di una fobia di Stalin per l’Ucraina, e Kruscev condivise questo giudizio affermando che dopo la seconda guerra mondiale Stalin voleva deportare tutti gli ucraini come aveva fatto con i ceceni, ma erano troppi. Che il regime coltivasse sentimenti antiucraini è d’altronde ampiamente dimostrato dalla dimensione delle purghe nella vita intellettuale e istituzionale del Paese che accompagnarono e seguirono la carestia. Mentre interi villaggi venivano distrutti e tagliati fuori dagli aiuti esterni, sull’altro fronte interi dipartimenti universitari e istituzioni culturali ucraine subivano le purghe. Ve ne furono nel Commissariato del popolo per l’Istruzione, l’Agricoltura e la Giustizia; nell’Istituto ucrai-
Nel 1932-33 le vittime in Ucraina furono le più alte dell’Urss e il risultato della paranoica politica di Stalin
no del Maxismo-Leninismo, l’Accademia dell’Agricoltura e l’Istituto Shevchenko di Letteratura (vi furono certamente purghe simili a Mosca, ma senza la caratterizzazione nazionale).
Molti altri centri culturali furono colpiti, tra cui le case editrici. Al XII congresso del Partito comunista ucraino queste furono pubblicamente denunciate in una violenta campagna contro i cospiratori nazionalisti nel governo, nei media, nelle arti e nella cultura, e furono spesso liquidati con l’abolizio-
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Una squadra del partito requisisce il grano nascosto. Tutti i contadini ai quali veniva scoperto un nascondiglio per il grano erano automaticamente considerati kulaki e come tali deportati o giustiziati. Ma sottrarre il cereale era indispensabile per sopravvivere
ne dei loro istituti. Altre vittime si ebbero tra la maggior parte dei funzionari dell’Istituto ucraino degli Studi orientali, la redazione dell’Enciclopedia Sovietica Ucraina, la Camera di Commercio, la Compagnia Cinematografica e la Conferenza Ucraina per la creazione di una nuova ortografia. Ma i “nemici dello Stato” erano dovunque: nella redazione del principale giornale di letteratura, il Chervonny Shlyakh, nei trasporti pubblici, nel Consiglio Geodetico, nelle case editrici (quattro delle quali furono sciolte). Anche l’Istituto Ucrai-
no di Filosofia subì le purghe, e i suoi più insigni esponenti, i Professori Yurynets e Nyrchuk, furono successivamente arrestati - il secondo con l’accusa di essere a capo di un fantomatico Centro Terrorista Trotskista-Nazionalista. Pavel Postyshev ha così riassunto la purga culturale del 19 novembre 1934: «La scoperta della deviazione nazionalista di Skrypnyk ci ha dato l’opportunità di liberare la struttura del socialismo - ed in particolare la struttura della cultura socialista ucraina - di tutti i Petliuraist, Makhonist e gli altri elementi nazionalisti.
Un grande lavoro è stato fatto. Abbastanza per dire che in questo periodo abbiamo spazzato via 2000 nazionalisti - tra cui circa 300 scienziati e scrittori dal Commissariato del Popolo per l’Educazione. Otto istituzioni sovietiche centrali sono state ripulite da più di 200 nazionalisti che hanno occupato posizioni di dirigenti di dipartimento e simili. Secondo le mie personali informazioni, il sistema delle cooperative e quello delle riserve di grano sono stati purgati di oltre 2000 nazionalisti e guardie bianche». È rilevante notare che, dopo la
carestia, l’insegnamento della lingua ucraina è stata abolita dalle scuole, e molti centri culturali furono chiusi. Nessuno, che io sappia, ha criticato la Russia o i russi per il destino dell’Ucraina. Non ci sono ragioni per negare che è stato commesso un enorme crimine.
Ho sempre sostenuto che la parola “genocidio” non sia la più adatta in questo caso, ma è significativo che il rispettabile Museo dell’Olocausto di Washington consideri la carestia del terrore un evento paragonabile.
Non ci sono dubbi che la carestia del 1933 fu la conseguenza di decisioni indifendibili prese dalla dirigenza sovietica e portate avanti anche dopo l’evidenza dell’errore. Né si può negare che il risultato fu un’enorme perdita di vite umane, che avrebbe potuto essere inferiore se le autorità non avessero imposto speciali misure da fame per schiacciare la popolazione e la generale reticenza (soprattutto ucraina) del mondo agricolo, e nessuno può sostenere che sollevare questa questione storica possa danneggiare le relazioni internazionali.
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mondo
È la patria delle banche e dell’alta finanza, ma sempre più spesso al centro di scandali internazionali
Svizzera, l’ora del declino fa cucù? di John Fund
BERNA. Per anni, la ricca e pacifica Svizzera è stata sottovalutata. Piccola e di successo è - universalmente - considerata noiosa. Una battuta per tutte: quella di Orson Welles ne Il terzo Uomo, quando nelle ovattate e grige atmosfere da spy movie dice: «In Italia, sotto i trent’anni dei Borgia ci sono state cospirazioni, guerre, terrore, morte, ma anche Michalenagelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, 500 anni di pace hanno prodotto un solo risultato: l’orologio a cucù». A voler essere ancora più acidi, il cucù è stato inventato in Germania. In realtà, la Svizzera ha ottenuto grandi risultati con “piccoli gadget”: cioccolato, orologi e coltelli. Acquistati praticamente da ogni turista. Hanno una delle economie mondiali più stabili, una forza lavoro altamente specializzata, aziende floride e internazionalmente conosciute, una moneta sonante e servizi bancari e finanziari di altissimo livello. Tutto questo, si somma a una qualità della vita alta, quattro lingue e una grande diversità religiosa. Non solo: il Paese gode di un alto livello di libertà, collegato a un sistema di governo decentralizzato in cui sono gli elettori ad avere l’ultima parola grazie a un elaborato sistema di democrazia diretta - i cittadini possono sia proporre direttamente leggi che modificare o abrogare quelle già emanate dal governo. Nel 2005 l’Eiu (Economist Intelligence Unit) ha stilato una classifica sulla qualità di vita di 111 nazioni e la Svizzera è risultata la stella polare dei nove elementi analizzati: benessere materiale, sanità, stabilità politica, vita famigliare e collettiva, clima, sicurezza sul lavoro, libertà politica ed uguaglianza dei sessi. Anche per quel che riguarda la competitività l’insieme di politiche e istituzioni che de-
terminano la produttività nazionale - la Svizzera, stando all’ultimo rapporto del Forum Mondiale dell’Economia, è seconda solo agli Stati Uniti. Secondo il Forum, il successo è determinato dalla combinazione di innovazione e radicata cultura degli affari. L’attività economica gode di un sistema istituzionale ben sviluppato, caratterizzato da rispetto per le leggi, efficiente sistema giudiziario, alto livello di trasparenza e senso di responsabilità delle istituzioni pubbliche. Mercato del lavoro flessibile ed eccellenti infrastrutture completano il quadro, ma non è stato sempre così. Solo un secolo fa, la Svizzera era molto più povera dell’Argentina, mentre oggi il suo ruolo nell’economia mondiale è
che da qualsiasi altro Paese eccetto la Germania), e la Svizzera è il sesto maggiore investitore negli Usa. Altro importante fattore di crescita è l’assenza di conflitti nel mondo del lavoro. Nel 1937 fu stipulato uno storico accordo con cui lavoratori e imprenditori si impegnarono a risolvere le proprie dispute senza distruggere l’economia. Le vertenze sono risolte grazie a 600 accordi sulla contrattazione collettiva tra datori di lavoro e sindacati che riguardano stipendi, vacanze, orari e scadenze contrattuali. Questi accordi esistono in quasi tutti i campi dell’economia e sono firmati per un periodo limitato in cui la pace va rispettata; per questo gli scioperi sono sempre stati molto rari, e il numero di
Tempi duri per la riservatezza bancaria, l’immigrazione, la ricerca farmaceutica e biotecnologica, con tanto di industrie trasferite negli Usa e un’Unione Europea meno disponibile molto più grande delle sue dimensioni geografiche e del numero dei suoi abitanti. La passione per la qualità ha elevato gli standard globali in campi come la farmaceutica, la biotecnologia e gli apparecchi medici; è tra i 20 maggiori Paesi esportatori, e se si considerano solo i servizi, sale al dodicesimo posto. Proprio il commercio, grazie alle industrie, è stato essenziale allo sviluppo economico; a parte il suo discutibile protezionismo agricolo, il mercato del Paese è relativamente aperto, e le sue leggi bancarie ne fanno una destinazione esclusiva per gli investimenti stranieri. L’Europa è il suo principale partner commerciale, ma anche i legami con gli Stati Uniti sono intensi, essendo l’America il maggiore investitore straniero in Svizzera (e importando da qui più beni
ore di lavoro perse è tra i più bassi di tutti i Paesi industrializzati. La formula del successo, secondo gli stessi svizzeri, si riassume in pochi concetti: rispetto per l’individuo a tutti i livelli, uomo al centro del sistema, ordine sociale (che non è percepito come illegittimo, non ci sono mai state rivoluzioni, e il benessere è sempre stato rispettato e protetto). Altro punto di forza è la legislazione fiscale. Le tasse per le imprese sono riscosse sia a livello cantonale che federale, ma l’aliquota nazionale è fissata all’8,5 per cento, cui i cantoni aggiungono una propria tassa che può variare così tanto da aver creato una sorta di competizione fiscale all’interno del Paese. Tutto perfetto dunque? No, anche la Svizzera ha il suo lato oscuro, come lo scandalo del 1990 sui conti bancari aperti da-
gli ebrei prima e durante la seconda guerra mondiale che furono impropriamente “requisiti”. La questione danneggiò molto l’immagine pubblica del Paese, ma dopo le sentenze risarcitorie degli scorsi anni, le istituzioni finanziarie hanno recuperato credito. Zurigo è un centro internazionale di bond trading; Ginevra è sia il terzo centro più grande al mondo - dopo Londra e New York - di transazioni petrolifere, che uno “spettacolare”centro di private banking, facilitato dalla logica secondo cui se sei ricco, vuoi ridurre gli oneri fiscali, e non vuoi esporre la tua ricchezza, la Svizzera è il posto giusto.
Ci sono tuttavia segnali preoccupanti. L’immigrazione è diventata il tasto dolente del dibattito politico, a causa delle sempre maggiori richieste da parte di rifugiati politici e di lavoratori stranieri che vorrebbero insediarsi stabilmente e il malcontento popolare che ne è conseguito si è palesato con la spettacolare crescita di consensi al partito conservatore, favorevole a leggi restrittive in materia di immigrazione. Inoltre, gli antichi primati della ricerca farmaceutica e dello sviluppo stanno svanendo. Le industrie mediche si sono spostate negli Stati Uniti a causa dei limiti legislativi, e lo stesso sta accadendo nel settore della biotecnologia, danneggiata tre anni fa dal divieto per cinque anni dell’uso in agricoltura di organismi geneticamente modificati. E non è finita. Famosa per la sua neutralità e riservatezza, la Svizzera ha prosperato senza essere parte dell’Unione Europea, ma i governanti si sentono sotto pressione, e avanza il dubbio che il Paese possa aggirare per sempre il problema del commercio con gli europei attraverso gli accordi bilaterali, rimanendo un“buco”nella ciambella della centralizzazione europea.
mondo
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Zimbabwe: in esclusiva un breve stralcio dell’ultima intervista al presidente
«Sono Robert Mugabe e non ho alcun rimpianto» di Luisa Arezzo l tira e molla che affossa sempre di più lo Zimbabwe non accenna a terminare. E mentre l’Alta Corte ha appena stabilito di rinviare a domani la decisione se costringere la Commissione elettorale a rendere noti i risultati delle elezioni presidenziali di due settimane fa, il partito del presidente (Zanu-Pf) chiede di ripetere lo spoglio su tutto il territorio del Paese africano. Dunque non solo nelle sedici circoscrizioni in cui aveva riscontrato presunte irregolarità. La risposta del Movimento per il cambiamento democratico, guidato dal leader dissidente Morgan Tsvangirai, non si è fatta attendere: «È una richiesta illegale e irrealizzabile» ha affermato Nelson Chamisa, portavoce del partito. Dal quartier generale di Mugabe, nel frattempo, si alzano i toni dello scontro: «La terra è nostra, non bisogna permettere che finisca nelle mani dei bianchi». A dirlo, secondo il quotidiano di Stato Herald, sarebbe stato proprio Mugabe, a commento delle notizie diffuse secondo cui alcuni «ex farmer bianchi» stanno cercando di riprendersi le terre. L’intervento del presidente giunge dopo che i veterani della guerra di indipendenza, a lui fedeli, hanno cominciato da sabato a invadere fattorie di bianchi nell’area di Masvingo. Come dire, il presidente ha “benedetto” l’operazione. A parte
questo intervento, Mugabe continua a non parlare. Ha fatto una rara eccezione nel dicembre 2007, concedendo dopo due anni di richiesta e 5 settimane di attesa ad Harare, due ore di intervista alla giornalista sudafricana Heidi Holland (vedi liberal 3 aprile). L’intervista è oggi un libro, ancora non pubblicato in Italia ma acqusitabile su www.dinnerwithmugabe.com. Per gentile concessione dell’autrice, ne pubblichiamo poche ma significative righe.
La copia cinese batte l’originale russo Che l’industria-fotocopia cinese sia ormai in grado di riprodurre, a prezzi molto più competitivi, quasi tutti i prodotti dei Paesi più industrializzati è cosa nota. E anche l’Italia ne sa qualcosa con la guerra dei falsi o con quella, ancora più pesante, del tessile. Ma questa volta il colpo messo a segno dai cinesi è molto particolare. Per il settore: gli armamenti. E per il Paese che ne è rimasto vittima: la Russia. La Cina, fino al 2006, è stato il primo importatore di materiale bellico e il 90 per cento delle forniture dirette allo Zhuonggúo Rénmín Jiefàng Juon (l’Esercito popolare di liberazione) è stato acquistato per decenni prima dall’Urss, poi dalla Russia. L’anno scorso le importazioni sono crollate del 60 per cento e per Mosca c’è stata una perdita secca di tre miliardi di euro. E il futuro non lascia presagire nulla di buono: la commis-
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Fbi: allarme frodi internet Le frodi su Internet, tra finte adozioni, beneficenza, trasferimenti di denaro, annunci per cuori solitari,vendita di animali e furti di identità, ammontano negli Stati Uniti a 240 milioni di dollari soltanto nel 2007. Si tratta della cifra più alta mai registrata in fatto di crimini online dall’avvento del web. L’Internet Crime Complaint Center dell’Fbi ha ricevuto lo scorso anno 206 mila denunce da parte di cittadini truffati. In un rapporto pubblicato sul proprio sito, il Federal Bureau descrive le frodi piu’ frequenti nelle quali incorrono i cittadini ignari delle mille trappole che nasconde la rete, e come lavorano i cosiddetti artist scam, ossia gli esperti dell’imbroglio via internet.
Iraq, ultimatum ad Al-Sadr
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Presidente Mugabe, se dovesse descriversi in poche parole, come si definirebbe? Io credo che dentro di me ci sia una disposizione caritatevole verso gli altri così come ricevo la stessa disposizione verso di me dagli altri. Io non mi faccio nemici, ma gli altri mi rendono un loro nemico. In alcuni casi ho pietà di loro. Lei è una persona propensa al perdono? Certo, altrimenti avrei massacrato molte persone … Qual è la sua visione per l’Africa? La mia visione per l’Africa è che vorrei che diventasse un Paese completamente libero, noi non siamo liberi, non abbiamo l’indipendenza, la maggioranza dei nostri Stati non riesce a trovarla, molti dei nostri Paesi sono abituati ad essere governati da padroni coloniali e non sono liberi nel verso senso della parola. Noi dobbiamo tradurre la libertà letterale in libertà economica, e finché rimaniamo produttori di prodotti primari, non abbiamo capacità di industrializzarci, e rimarremo servi dei nostri ex padroni coloniali. Ha qualche rimpianto? Su cosa? In politica... No. quando si è in politica si entra in una lotta, che comporta quindi sacrifici. Anche grandi.
Il primo ministro dell’Iraq, Nouri al-Maliki, ha minacciato oggi di vietare la partecipazione alle prossime elezioni al movimento sciita dell’imam Muqtada al-Sadr. L’ultimatum segue combattimenti sanguinosi in diverse zone del Paese tra le forze governative e i seguaci del religioso, protagonista nel 2004 di un’estesa rivolta contro gli ”occupanti” anglo-americani.«È stato deciso - ha dichiarato al-Maliki, nel corso di un’intervista all’emittente Cnn che non abbiano piú il diritto di partecipare al processo politico o alle prossime elezioni se non scioglieranno l’Esercito del Mahdi».
Cecenia, 11 milioni di euro della Ue La Commissione europea ha stanziato un pacchetto finanziario pari a 11 milioni di euro per le vittime del conflitto in Cecenia. «La Cecenia sembra in via di riassestamento dopo un lungo periodo di devastazione, oscurantismo e disperazione. La Commissione intende dimostrare la sua solidarietà con le popolazioni vulnerabili che restano bisognose di aiuti umanitari per ricostruire le loro esistenze e fondare un nuovo avvenire», afferma in una nota diffusa a Bruxelles il commissario europeo allo Sviluppo e agli aiuti umanitari, Louis Michel. Il nuovo pacchetto sarà destinato agli aiuti alimentari, alla ristrutturazione di abitazioni e servizi medici, ma anche al sostegno degli sfollati in Georgia e Azerbaijan, le cui condizioni di vita sono «spaventose».
Israele, pronti ad annientare l’Iran A un attacco dell’Iran, Israele replicherebbe in modo talmente duro da causare la «distruzione» della nazione iraniana. Lo ha affermato il ministro israeliano per le infrastrutture Binyamin Ben Eliezer. Il ministro ha detto di non ritenere che «l’Iran intenda attaccare perché si rende conto delle conseguenze» e dunque preferisce agire contro Israele in modo indiretto, armando organizzazioni come gli Hezbollah libanesi e Hamas.
vi si dirà di Enrico Singer
sione mista governativa russo-cinese per le forniture di armi, che tradizionalmente si riuniva due volte l’anno, nel 2007 non è stata nemmeno convocata. Il rapporto dello Stokholm International Peace Research Institute appena pubblicato sottolinea un caso in particolare. Per quasi vent’anni la Cina aveva importato e parzialmente assemblatro nei suoi stabilimenti, il Sukhoi Su 27, un caccia intercettore per superiorità aerea ognitempo che gli esperti considerano migliore anche dell’F15 Eagle americano. Bene: ormai la copia cinese del Sukhoi, battezzata J-11B ha superato l’originale quanto a prestazioni ed è prodotto in ogni sua parte, compresa l’elettronica e l’armamento, in Cina. L’abilità nel replicare e nello sviluppare la tecnologia russa ha
suscitato una polemica anche al Cremlino sull’opportunità di continuare a vendere a Pechino quel 40 per cento di forniture militari che è rimasto e che è costituito da mezzi di punta come, per esempio, il Mig 29/M2, ultima generazione del caccia che potrebbe essere la prossima vittima delle copie cinesi. L’ASTON MARTIN AL KUWAIT
Anche l’auto di 007 passa a un’ex colonia Tutti hanno parlato del passaggio di Jaguar e Land Rover nelle mani del magnate indiano dell’auto Ratan Tata e molto si è commentato a proposito dell’ex colonizzato che si prende la rivincita sul colonizzatore strappandogli
due simboli della potenza industriale british ormai in gran parte perduta come l’Impero. Ma pochi sanno che l’Aston Martin, altro monumento della tradizione di auto sportive e di lusso inglese, è stata conquistata da un gruppo finanziario del Kuwait. Guarda caso anche questo un Paese che, insieme all’Iraq, è stato tra i possedimenti coloniali di Sua Maestà britannica nella zona del Golfo. L’operazione è passata attraverso la Nbk - National Bank of Kuwait - che è una delle più attive istituzioni della finanza islamica che opera anche in Europa. L’immagine della Aston Martin - in particolare quella di un modello DB4 Vantage - è legata a filo doppio all’agente segreto James Bond che la utilizzava, imbottita di micidiali gadget, nei suoi primi film contro i perfidi emissari della Spectre in difesa dell’Occidente. Così, se l’agente 007 ha salvato più volte il mondo da ogni tipo di cattivi, adesso sono stati i finanzieri islamici a salvare almeno la sua mitica auto.
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Istituzioni e business community fanno gioco di squadra per portare a Milano l’Esposizione universale
EXPO 2015, IN MOSTRA IL FUTURO DELL’ITALIA di Carlo Secchi a decisione presa a Parigi il 31 marzo di assegnare a Milano l’Esposizione Universale (Expo) del 2015 rappresenta un grande successo che corona dedizione, sforzi importanti e un gioco di squadra portato avanti sin dall’indomani dell’elezione di Letizia Moratti a sindaco di Milano.
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Al risultato hanno contribuito gli sforzi del comune di Milano, della Provincia, della re-
di grande importanza. In particolare, Milano conferma la sua vocazione internazionale, non solo quale trait d’union fondamentale tra gli interessi economici del Paese con l’Europa e il mondo, ma anche nell’essere una metropoli in grado di fronteggiare la concorrenza delle altre grandi aree metropolitane per svolgere ruoli di primo piano nei suoi vari ambiti di eccellenza. Dell’Expo e dei risultati positivi attesi beneficerà non solo la
La sfida più importante è creare strutture che restino dopo l’evento gione Lombardia e del governo, quanto l’impegno di altre Istituzioni (come la Camera di Commercio di Milano e la Promos, la sua Agenzia specializzata per l’internazionalizzazione) e della business community milanese e lombarda. Si apre una nuova delicatissima fase di adeguata preparazione all’evento, da cui sono attese ricadute economiche, occupazionali e di immagine per Milano e per l’intero Paese
città, ma tutta l’area circostante a Est (sino a Brescia e oltre) e a Ovest (sino a Torino, con cui sono in atto importanti forme di cooperazione in vari ambiti, note come progetto “Mi-To”). L’occasione è preziosa per un sistema di interessi variegato, che dovrà essere adeguatamente coinvolto per ottenere ricadute a beneficio del Nord, e conseguentemente del Paese. Sarà di grande importanza avere come bussola di riferi-
mento il miglioramento della attrattività e della competitività di Milano e di tutta la vasta area potenzialmente coinvolta, al fine di conseguire risultati duraturi nel tempo in termini di sviluppo e di posizionamento internazionale. Ciò richiederà non solo una efficiente preparazione, ma anche azioni di “marketing territoriale”, consolidando l’esperienza maturata sino al 31 marzo per un approccio sistematico e duraturo che mantenga Milano e l’area di riferimento al centro dell’interesse di tutti i potenziali interlocutori nel contesto non certo facile della competizione globale.
La sfida più importante, tenuto conto di quanto già accennato, riguarda non solo il prepararsi in modo adeguato a tale storico appuntamento, ma anche e soprattutto il pensare al “dopo 2015” e quindi agire coerentemente in tal senso. La storia di eventi simili in varie città del mondo è costellata di successi – se è stata fulcro di un processo di modernizzazione e cambiamento proiettato verso il futuro – ma anche di fallimenti, nell’aver realizzato “cattedrali nel deserto” e sprecato in risultati effimeri un’occasione preziosa e per molti versi irripetibile.
Milano non deve correre questo rischio, bensì approfittare degli sforzi da compiere e della straordinaria positiva tensione collettiva instauratasi in vista dell’appuntamento del 31 marzo scorso, per definire e attuare un progetto di consolidamento delle sue eccellenze e di rilancio dell’intera area metropolitana proiettato verso ruoli di soddisfazione nei decenni a venire. Tutto questo richiede non solo di valorizzare appieno il sistema di eccellenze già disponibili in vari settori (non solo economici, ma anche università e istituti di ricerca e sviluppo del “capitale umano”, cultura, sistema dei media), compresi quelli basati sul trinomio “creatività, ingegnosità e imprenditorialità”, come moda, design, alta tecnologia, e altri ancora, ma anche di colmare le carenze in materia di infrastrutture materiali e immateriali. E questo riguarda non solo quelle viarie, ferroviarie e per il trasporto urbano ed interurbano, ma anche i collegamenti
con il resto della Lombardia e con il Nord Italia, e le infrastrutture aeroportuali, tra cui in primo luogo l’aeroporto di Malpensa. Quest’ultimo, dopo i tentativi di ridimensionamento subiti negli ultimi tempi, è tra i veri vincitori della decisione del 31 marzo, in quanto i circa trenta milioni di visitatori attesi non potranno che avvalersi di tale scalo, in sinergia con gli altri aeroporti del Nord.
Sul piano del metodo, occorre valorizzare tutte le opportunità di collaborazione pubblico-privato (già in atto per molti importanti realizzazioni e progetti pronti per la fase attuativa) e dimostrare la stessa efficienza di cui si è dato prova in alcune recenti realizzazioni, tra cui in primo luogo la nuova Fiera di Milano a Rho-Pero (due Comuni dell’area metropolitana dove si è verificata un’ottima convergenza di intenti con quello di Milano, oltre che con la Provincia e la Regione). Milano non è nuova a un appuntamento come quello del
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Il maggiore ostacolo è il gap infrastrutturale
Senn:«Una rivincita per Malpensa» colloquio con Lanfranco Senn di Alessandro D’Amato nsieme con Milano, i delegati della Bie che hanno scelto la sede dell’Expo 2015, hanno finito anche per premiare il bistrattato aeroporto di Malpensa. «È ora di rivalutarlo. Perché l’Expo, che porterà nel capoluogo lombardo qualcosa come 30 milioni di visitatori, non può essere disconnesso da uno scalo intercontinentale». Lanfranco Senn, professore dell’Università Bocconi di Milano e presidente del Centro di economia regionale e dei trasporti (Cert) dell’ateneo, non può che gioire per l’arrivo dell’Expo, ma sa che ora c’è da fronteggiare l’ampio gap infrastrutturale che colpisce il Nord. Intanto c’è un budget di partenza di 4,12 miliardi. È adeguato? Credo di sì, quanto preventivato è sufficiente sia per costruire i padiglioni sia per provvedere alla filiera alberghiera che ai luoghi di incontro. E non bisogna dimenticare che, dopo l’Expo, tutte le costruzioni rimarranno per aumentare la dotazione di spazi della città: così è stato fatto in tutte le metropoli dove è arrivata la fiera. E tutte ne hanno tratto molto giovamento. E per le infrastrutture? Per questo capitolo, non dimentichiamo, che a parte gli investimenti diretti ci sono altri 10 miliardi da spendere. E parliamo di un ambito che oggi vive un gap non indifferente. Partiamo dal sistema viario. Ma le istituzioni si sono mosse. E infatti i lavori sulla BreBeMi o sulla Pedemontana Tem erano necessari a prescindere dall’Expo. I processi sono stati avviati: Cipe, governo, Regione e Comune hanno fatto la loro parte. E possiamo tranquillamente dire che tra qualche anno staremo comunque meglio. Le priorità non finiranno qua? Certo che ce sono altre. C’è da completare la Tav sulla Novara-Milano, per rendere più agevole lo scorrimento delle merci e il trasporto delle persone verso Torino e Bologna, e di lì fino a Roma. E poi c’è la linea del Gottardo. Dove i ritardi sono la normalità. Anche troppo. Non siamo ancora arrivati alla fase della programmazione preliminare. Così come siamo lontani dall’optimum dal punto di vista infrastrutturale per la dorsale Milano-Venezia: tutte necessità che ancora non sono state soddisfatte, e che sarebbero fondamentali per il trasporto merci. Idem per interporti e piattaforme logistiche. E penso anche a Genova e alla Liguria, che meriterebbero di trovare uno sbocco, soprattutto in prospettiva, visto che la crescita del trasporto marittimo è sotto gli occhi di tutti.
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Milano è scesa in piazza per festeggiare l’assegnazione dell’Expo 2015. Un evento che porterà benefici in tutto il Paese
2015, avendo ospitato nel 1906 l’Esposizione Internazionale, e a oltre un secolo di distanza, conferma il proprio ruolo internazionale preparandosi ad ospitare di nuovo l’Expo. Il tema scelto è coerente con i grandi problemi del nostro tempo; infatti, è possibile sperare in una pace duratura ed in uno sviluppo sostenibile solo dopo soddisfatto i bisogni di base del mondo e dei suoi abitanti. “Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita”intende promuovere l’elaborazione di risposte concrete ed efficaci, in un contesto di sviluppo sostenibile, ai complessi problemi inerenti l’alimentazione, sia in termini di food safety (sicurezza alimentare, cioè cibo ed acqua sani, salubri e sicuri), che di food security (certezza alimentare, cioè cibo e acqua sufficienti e facilmente accessibili per tutte le popolazioni). Il tema centrale e i messaggi di fondo mostrano un evidente legame con l’Esposizione Internazionale del 1906, essendo come allora centrati sullo svilup-
po, sulla vocazione internazionale e sul proprio potenziale tecnologico e produttivo, alla luce anche del ruolo tradizionalmente svolto dal nostro Paese di “cerniera” fra le civiltà e in particolare di “ponte” tra l’Europa e il Mediterraneo, l’Africa e il Medio Oriente.
Il tema proposto, infine, ha un legame profondo con Milano e la Lombardia, dove l’industria agro-alimentare e la ricerca scientifica in materia godono di indiscussa reputazione internazionale e si sono sviluppate in equilibrio con la convivenza civile e il rispetto della natura, in un contesto economico, sociale e culturale particolarmente vivace e portato all’innovazione. Così, se da un lato vi sono specificità, conoscenze e risorse per fare da fulcro a un impegno corale a livello mondiale, dall’altro l’ambizione è aggregare tutte le risorse pubbliche e private disponibili a dare un concreto contributo allo sviluppo dell’umanità.
Tra la direttrice Nord-Sud e quella Est-Ovest, su quale bisognerebbe puntare con più convinzione? La stupirò dicendo che la priorità è l’asse che va dal Settentrione al Meridione. Intendendo con questo la direttrice che va dal Gottardo fino al Centro-Sud d’Italia. L’opzione Est-Ovest, nonostante le criticità di cui si è detto, è meno deficitaria rispetto all’altra, perché i traffici sono già significativi, e con un impatto già oggi molto forte sul collegamento con Francia, Spagna e Inghilterra. In ogni caso, lo sviluppo del porto di Genova diventa centrale? Infatti, un’area dal forte potenziale è l’entroterra di Genova: il flusso delle merci verso il centro Europa è fondamentale. Purtroppo, la dorsale su cui bisognerebbe puntare è anche quella che oggi gode di una minore convergenza dal punto di vista operativo. Eppure parliamo del vecchio triangolo industriale. Si scontano le molte obiezioni ideologiche che arrivano dal mondo ambientalista sull’attraversamento delle Alpi (il Frejus e la Tav). Questo rallenta la realizzazione dei progetti. Più a est le cose migliorano? Anche la direzione Milano-Venezia, tutto sommato, presenta ancora nodi irrisolti, per motivi simili. Se si va verso verso Trieste, poi, dobbiamo fare i conti con colpe non soltanto nostre: mentre nel triangolo Germania-Austria-Italia su collegamenti e direttrici c’è un ampio consenso, l’Est Europa va ancora avanti con il freno a mano tirato. Specialmente la Slovenia non è ancora particolarmente attiva da questo punto di vista. Cosa dovrebbe fare la politica per sbloccare la situazione? Innanzitutto, superare la logica partitica e di contrapposizione sulla questione infrastrutture, preferendo un approccio pragmatico al problema, pensando al fabbisogno e al futuro più che al consenso presente. Ma stando alle dichiarazioni d’intenti, vedo novità dalle principali forze politiche. Basterà? No, perché c’è la questione dei tempi d’attuazione: è inaccettabile che passino anni tra le valutazioni d’impatto ambientale e procedure autorizzative per arrivare alla messa in opera. Bisogna ridurre i tempi persi per i ricorsi, dirimere più velocemente i conflitti e rimuovere tutte le norme che si sovrappongono. Riformare la legge obiettivo, implementando la rimozione delle procedure ridondanti e riducendo al minimo i contrasti tra i livelli istituzionali, potrebbe essere un buon viatico.
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I delegati del Bie premiano, e rivalutano, la produzione alimentare della Regione
Alla fiera dell’eccellenza agricola di Filippo Poletti i voleva l’Expo per scoprire che la Lombardia è la prima regione italiana per contributo alla produzione agricola nazionale. Questo, infatti, è uno degli aspetti più sorprendenti del successo della candidatura di Milano per l’esposizione universale del 2015. L’Expo tornerà a Milano dopo 109 anni di assenza (l’ultima volta fu nel 1906) ma non per parlare – come successe nel Novecento – dei mezzi di trasporto su acqua, ma bensì dell’alimentazione in tutti i suoi molteplici aspetti. Perché l’alimentazione nella principale regione della Pianura Padana diventa, si scandisce in convivialità, educazione al mangiar sano, solidarietà e cooperazione, studio e implementamento di nuove tecnologie per l’agricoltura e la biodiversità, innovazione nella catena di approvvigionamento alimentare per arrivare alla scienza per l’alimentazione.
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Dalla Lombardia partirà un segnale preciso diretto a tutto il mondo: Milano è la capitale del lavoro capace di produrre il 21 per cento del Pil nazionale (con
luogo hanno sede 3 mila associazioni di volontariato che rappresentano il 17,2 per cento del totale nazionale e impiegano circa 25mila addetti oltre che 80mila volontari. Non a caso qui proprio poi è nato e si è sviluppato a livello nazionale il Banco alimentare. Quest’ associazione non profit, in collaborazione
Le oltre 60mila aziende realizzano il 22 per cento del Pil in questo campo un reddito procapite che è quasi il doppio di quello nazionale e un tasso di disoccupazione che è la metà di quello italiano) e di contribuire alla produzione agricola nazionale con circa 62mila aziende agricole e 73mila occupati. Ma serve ancora qualche dato di fondo per capire appieno come Milano sia riuscita a suscitare l’interesse generale per l’Expo 2015: la Lombardia contribuisce per il 22 per cento all’export italiano nel settore agricolo. Detto in altre parole, e a differenza a qualsiasi altra parte del Paese, questa regione realizza per ciascun ettaro coltivato un valore quasi doppio di produzione rispetto alla media nazionale. Un altro aspetto giova, oggi, essere valorizzato. Milano si caratterizza per la ricchezza e la vivacità delle esperienze di volontariato e di condivisione e redistribuzione del cibo: nel capo-
con l’industria alimentare, provvede a fornire alle famiglie e alle persone meno abbienti in tutta Italia cibo di qualità.
L’Expo è, sotto questo aspetto, il riconoscimento di un’eccellenza nel comparto agroalimentare e della solidarietà alimentare, che rappresenta le fondamenta del tema sviluppato da Milano sull’alimentazione. Un’eccellenza – è bene ricordarlo – che il mondo intero ha riconosciuto, ma sulla quale l’Italia ha in passato chiuso un occhio: è il caso, per esempio, dell’assegnazione a Parma dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) anziché a Milano. Al capoluogo lombardo, infatti, è arrivata – grazie al governo Berlusconi – l’agenzia per l’innovazione (mai decollata nel corso degli anni del governo Prodi), ma la storia d’oggi ha voluto che
Milano si sia aggiudicata l’Expo non con un progetto articolato sull’hi-tech ma sull’alimentazione. In Lombardia torna l’Expo con la sua energia e il suo fiume di investimenti: se nel 1906 furono una manciata di milioni di lire quelli messi a disposizione, per il 2015 sono previsti 97 milioni di euro di risorse messi a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per incoraggiarne e favorirne la partecipazione.
Per Milano l’Expo sarà una straordinaria vetrina, ma soprattutto un’occasione di sviluppo: ci saranno investimenti sul territorio per 3 miliardi di euro con dotazione di nuove e grandi infrastrutture, e si creeranno 60mila nuovi posti di lavoro per 5 anni. Ma l’eredità lasciata da questa rassegna sarà anche – per non dire soprattutto – immateriale: quella, cioè, di riconoscere finalmente alla Lombardia la sua leadership per il Paese nel settore agroalimentare. Dare a Cesare quel che è di Cesare è importante perché solo riconoscendo l’eccellenza è possibile costruire un nuovo futuro di sviluppo. L’Expo sarà l’“Olimpiade” della comunicazione nel mondo, un evento irripetibile, un vero e proprio “brand universale”: grazie a iniziative mirate sarà possibile riposizionare l’immagine della Lombardia e del Paese in tutto il mondo, proponendo a tutto il mondo il “modello lombardo” capace di coniugare sviluppo e ambiente, lavoro e convivialità, patrimonio storico e innovazione tecnologica, efficienza nei servizi e atmosfere
del passato, grandi città e splendide aree verdi.
Con le sue centinaia di testate giornalistiche (132) e la sua leadership a livello nazionale nel settore della comunicazione (con 10mila società che operano), la Lombardia – primo polo di comunicazione in Italia con più di 200 mila persone attive (pari al 90% del totale nazionale) – ha le carte in regole per fare di Expo 2015 una sorta di“Olimpiade della comunicazione”. Fare sapere, dunque, sarà un passaggio importante per una realtà territoriale – quella lombarda – che rappresenta una delle aree più industrializzate d’Europa, con un’economia non priva di grandi gruppi ma tipicamente basata sulle piccole e medie imprese. Nella Regione hanno sede, infatti, quasi 800mila realtà, il 15,5 per cento del totale italiano, metà delle quali localizzate in 16 distretti industriali e 5 metadistretti, cioè sistemi produttivi territoriali dove i rapporti di collaborazione e di competizione fra imprese sono in grado di stimolare l’innovazione e lo sviluppo. All’Expo il compito di illuminare il saper fare dell’Italia. Quel saper fare bene che qualcuno sembra aver dimenticato di fronte alle città campane in balia dei rifiuti. All’Expo il compito di comunicare ai 30 milioni di visitatori che arriveranno in Lombardia nell’arco di 6 mesi che Milano è una capitale del settore agroalimentare. Occorrerà farlo sapere al mondo intero, Italia inclusa.
i convegni ROMA Martedì 8 aprile 2008 Teatro dei Dioscuri Il ministero dell’Ambiente e Il Borgo della conoscenza organizzano un convegno dedicato a “Metropoli e clima. Le grandi metropoli rispondono alla sfida dell’efficienza energetica e della sostenibilità”. Tra gli altri, ne discutono Corrado Clini, direttore generale ministero Ambiente; Sara Romano, direttore generale energia del ministero Sviluppo economico, e Piero Torretta, vice presidente dell’Ance. ROMA Martedì 8 aprile 2008 Palazzo delle Poste Sguardo al futuro nell’incontro “Verso il 2010. Nuovi modelli e nuove tecnologie per l’e-government”, promosso dall’Associazione nazionale utenti italiani di telecomunicazioni-Anuit. Partecipano, tra gli altri, Massimo Sarmi, amministratore delegato di Poste italiane, e Fabio Pistella, presidente del Cnipa. ROMA Mercoledì 9 aprile 2008 Palazzo Altieri L’Abi fa il punto sul rapporto tra istituti e correntisti nel workshop “Dimensione Cliente 2008. Il Cliente Retail - le risposte delle banche e le sfide aperte”. Intervengono, tra gli altri, Giuseppe Zadra, direttore generale Abi e Pietro Modiano, direttore generale di Intesa. MILANO Giovedì 10 aprile 2008 Hotel Principe di Savoia Confimprese dedica una giornata al “ruolo del sistema creditizio per lo sviluppo del commercio moderno”. Con il presidente Mario Resca ne discute, tra gli altri, Corrado Passera, consigliere delegato di IntesaSanpaolo. UDINE Venerdì 10 aprile 2008 Palazzo Torrioni Confindustria si sofferma sull’“innovazione nei processi di internazionalizzazione”. Tra gli ospiti del convegno il vicepresidente per l’innovazione di viale dell’Astronomia, Pasquale Pistorio.
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Dal mattone al high tech fino al turismo: il maxi giro d’affari della kermesse
Business da 45 miliardi per il motore Lombardia di Giuseppe Latour
MERCATO GLOBALE
Se l’Europa deve trainare l’America di Gianfranco Polillo
uova linfa per infrastrutture, servizi alle imprese, manifatturiero, turismo. Un effetto-Expo quantificabile in quasi 45 miliardi di euro, 70mila posti di lavoro, 30 milioni di visitatori attesi. Ci sono tutti i motivi per capire perché Milano fa festa da giorni. L’Esposizione universale del 2015 sarà un’occasione di rilancio per tutto l’anello che racchiude il capoluogo lombardo. E guai a ricordare pubblicamente quanto avvenuto per l’Expo di Hannover nel 2000: si aspettavano numeri e perfomance simili a quelle che oggi sbandiera Milano; arrivarono 18 milioni di visitatori durante tutto il periodo della fiera. Appena. Subito dopo l’assegnazione, tutti sono concordi che il settore più avvantaggiato sarà quello delle infrastrutture. Fiera Milano e Astaldi avevano segnato impennate a Piazza Affari (anche del 20 per cento): segno di certezza dei mercati sulle possibilità future delle costruzioni, che riceveranno un bonus da almeno 3,7 miliardi di euro.
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Saranno molte le opere ad avere un’accelerazione. E in queste ore si stanno analizzando prima degli altri i dossier di Pedemontana, metropolitana M4 per Linate, M5 da Garibaldi a San Siro. Senza contare i grattacieli e le strutture in arrivo nel quartiere della Fiera di Milano. Oppure le opere di preparazione del sito, quelle di connessione, le strutture ricettive, tra le quali un gigantesco villaggio da 2mila posti letto, e gli interventi tecnologici, principalmente telecomunicazioni e infrastrutture web. Tutti questi progetti avranno un costo che si aggira intorno ai 3 miliardi di euro. Che verranno pagati per metà in parti uguali da cordate di privati e dagli enti locali; per la restante parte dallo Stato. Insomma, un colossale affare per chi lavora con il mattone. E ai beneficiari già citati vanno aggiunti, almeno, quelli di Brioschi, Aedes, Bastoni, Ipi, Uni Land, Igd, Pirelli RE, Beni Stabili, oltre ai costruttori del calibro di Italcementi, Buzzi, Cementir, Impregilo e Caltagirone. Il secondo grande business riguarderà il turismo. Per alberghi e ristoranti si attende realisticamente una crescita quantificabile in un +25 per cento, con un incremento del giro d’affari di quasi 2 miliardi di euro. E se sono circa 10 milioni i visitatori che ogni anno arrivano nella città meneghina, gli addetti ai lavori sperano che questo numero arrivi addirittura a triplicare. Complessivamente, pioveranno in Lombardia almeno 8 milioni di stranieri. Con una rimodulazione sostanziale della domanda. Spiega l’economista Magda Antonioli Corigliano, direttore del Met della Bocconi: «Il turismo nell’area è caratterizzato da una motivazione di spostamento prevalentemente “business”. In oc-
casione dell’Expo saranno riempite fasce tipicamente non milanesi, come le famiglie, i giovani o i gruppi organizzati, scolaresche e associazioni della terza età». Una domanda gigantesca, poco meno di 30 milioni di persone, alla quale Milano sembra pronta a far fronte. «Bisogna ragionare non soltanto sul capoluogo», nota Antonioli Corigliano, «ma sulle città limitrofe in un raggio di 100 chilometri. Ipotizzando uno sviluppo assolutamente fisiologico di qui al 2015, e oltre alla sostituzione di alcune strutture ormai vecchie, Milano è tranquillamente in grado di accogliere tutti». I posti letto a disposizione a 90 minuti dal capoluogo lombardo entro il 2015, infatti, saranno qualcosa come 511mila. Tanti da sopportare tranquillamente i picchi di domanda. Ma non sarà da meno l’agroalimentare. Il tema dell’esposizione, in questo senso, è destinato a giocare un ruolo-chiave e a portare il comparto a un surplus di 200 milioni di euro, con una crescita stimabile nel 15,5 per cento. A fare da guida per il settore ci sarà la Borsa Agro Alimentare Telematica (Bat), progetto sperimentale presentato a sostegno della filiera dal Comune e dalla Camera di Commercio locale. Un progetto che sta molto a cuore al vicesindaco, Riccardo De Corato: «Grazie alla Bat metteremo in contatto il consumatore italiano con le realtà mondiali più lontane». Il suo obiettivo è ridurre le intermediazioni, a danno soprattutto di quelle speculative, garantire una maggiore sicurezza, grazie alla rintracciabilità costante dei prodotti, e dare opportunità nuove ai produttori più piccoli, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Il modello sarà quello di Bmti, la Borsa delle merci che nel 2007 ha movimentato più di 200 milioni di euro. E alla Sogemi, la società che gestisce il Centro agroalimentare integrato della città, si stanno già sfregando le mani.
Ma i veri protagonisti dell’Expo rischiano di essere il software e i servizi all’impresa. Per loro si stima un indotto extra di 8,1 miliardi di euro. Cifra che stima una crescita del comparto a un ritmo del 10 per cento. È fiducioso Giorgio Rapari, presidente Assintel e consigliere della Camera di commercio di Milano: «Con l’arrivo dell’Expo tutti saranno costretti a superare il digital divide, attrezzandosi in maniera adeguata: alberghi, ristoranti, negozi». Quindi, un forte valore aggiunto rappresentato dai piccoli, ma anche tanti soldi in arrivo dai grandi: «Per la viabilità, per la logistica e per il commercio non si potrà prescindere dalla creazione di adeguate infrastrutture elettroniche». Quello dell’Ict è un settore che sta per vivere un“rinascimento”. Soprattutto a Milano.
anti dubbi e un’unica certezza: la recessione negli Stati Uniti è già iniziata. Disoccupazione in aumento, consumi in calo, stato delle aspettative orientato al peggio. La grande sbornia di una vita consumata a debito non è ancora un ricordo del passato, ma i segni del ravvedimento fanno capolino. Il cittadino americano guarda al futuro con meno ottimismo e più preoccupazione. Spende meno e cerca di risparmiare per ricostituire, su basi diverse, quella ricchezza patrimoniale garantita fine a ieri dalla continua rivalutazione degli immobili. Quanto durerà questo processo non è dato sapere, ma il 2008 sembra compromesso. Se ne parlerà, forse, l’anno venturo.
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I dubbi riguardano soprattutto l’Europa. L’Italia, in particolare. Il Fmi ha gettano, in questi giorni, un sasso in piccionaia, rivedendo al ribasso le stime per l’economia mondiale. Crescerà del 3,7 per cento: lo 0,4 per cento in meno rispetto a quanto diagnosticato qualche mese fa. E c’è già chi parla di un pericolo generalizzato. Si calcola infatti che una crescita dell’economia mondiale al 3 per cento sarebbe da considerare già come recessione. Una iattura che pesa, come una spada di Damocle, soprattutto sull’economia europea, che perde lo 0,5 per cento, passando da un tasso di crescita dell’1,8 all’1,3, secondo le stime. Ma non tutti sono d’accordo. Non lo sono i vertici europei: da Jean-Claude Juncker, presidente dell’Eurogruppo a Joaquin Almunia, commissario europeo agli Affari economici. Troppo pessimismo: dicono per tranquillizzare i mercati, nella speranza di evitare il willful thinking. Quei desideri – in questo caso gli incubi – che spesso si realizzano dopo
essere stati evocati. Più prudenti i banchieri della Bce, che per il momento tacciono. Sono preoccupati – a differenza degli Usa – delle tensioni inflazionistiche, ben superiori a quelle d’Oltreoceano. L’ipotesi di una gelata dell’economia avrebbe sulle loro prossime decisioni un effetto ambivalente. Da un lato, li spingerebbe a ridurre i tassi di interesse, venendo incontro alle garbate pressioni della comunità internazionale. Dall’altro, contribuirebbe a contenere le pressioni sindacali, specie in Germania. Dove il sindacato si appresta a rinnovare i contratti di lavoro. Se lo spettro è quello della crescente disoccupazione, meglio non insistere troppo sui salari. Sullo sfondo è, comunque, l’ipotesi del “decoupling”. Gli economisti del Fmi insistono affinché l’Europa faccia da traino all’economia internazionale, visto che la locomotiva americana è ferma alla stazione. Insistono quindi sui pericoli della recessione per spingere la Bce a una politica pro-growth. Che darebbe tono al resto del mondo, accelerando il superamento della crisi Usa.
In questo contesto, dove brilla l’incertezza, le previsioni per l’economia italiana sono le peggiori. L’asticella è posta sullo 0,3 per cento. Appena la metà, rispetto a quanto stimato soltanto 15 giorni fa dalle proiezioni del Tesoro.“Crescita zero”, quindi, e un incerto viatico per il nuovo governo all’indomani delle elezioni. Un triste lascito di Romano Prodi, il cui limite maggiore, nella sua azione di governo, è stato quello di non aver saputo approfittare di una pallida ripresa dell’economia mondiale. La sua politica del “tassa e spendi” ne ha gelato in anticipo le potenzialità, lasciando, ancora una volta, ai posteri il difficile compito di coniugare sviluppo e risanamento finanziario.
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libri e riviste
ei giorni dell’impasse sul caso Alitalia, esce un’inchiesta approfondita di Stefano Livadiotti sui privilegi e gli abusi del sindacato, L’altra casta. Il giornalista svela i meccanismi con le quali i confederali gestiscono un giro d’affari superiore ai 3,5 miliardi di euro. E che grava non poco sul contribuente italiano, se «i delegati delle tre centrali sindacali sono 700mila, sei volte più dei carabinieri. I loro permessi equivalgono a un milione di giornate lavorative al mese. E costano al sistema-paese 1.854 milioni di euro l’anno». Da non perdere l’analisi costi-benefici sulle prebende imposte nel pubblico impiego, che hanno garantito agli statali stipendi più alti del 37 per cento rispetto al privato. Stefano Livadiotti L’altra casta Inchiesta sul sindacato, Bompiani, pagine 224, euro 14
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Direttrici e spazi alternativi: ridefinire la città e la sua area metropolitana e rivitalizzare l’architettura italiana
Cantiere Milano, fucina di idee e di nuove identità di Claudia Conforti ella società preindustriale l’architettura delle singole città era costruita con materiali locali, secondo locali tecniche del costruire, gestite da maestranze locali, e l’architetto era l’interprete privilegiato di quelle stesse realtà culturali locali. Il progetto di architettura era pertanto radicato nel luogo, in sintonia con l’edilizia minore che, frutto delle stesse tecniche e della stessa cultura, veniva a sua volta influenzata dalle architetture “alte”. La città storica si è così formata attraverso la lenta e capillare stratificazione di un processo dialettico costantemente giocato tra emergenze architettoniche innovative e consolidate tradizioni tecniche e culturali locali; tra aspirazione rappresentativa di un committente coniugata alla volontà espressiva di un architetto, e istanze simboliche e funzionali collettive. Ne deriva pertanto che nella città preindustriale l’estro individuale del progettista, ancorato saldamente alla realtà culturale del luogo, si stempera nell’interpretazione di un sentire collettivo, materializzato nel tempo dalla città nel suo complesso.
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Tutt’altre considerazione richiede la città contemporanea. La cultura architettonica oggi è tendenzialmente la stessa per i progettisti di tutto il mondo, indipendentemente dal luogo di formazione: essa prescinde sostanzialmente dalle radici locali, proprio come ne prescindono le tecniche costruttive. In tutte le città del mondo, da Shanghai a Lione, da San Paolo a Berlino, si costruiscono le stesse architetture: prodotti di grandi imprese plurinazionali e di modelli tipologici e funzionali che hanno
L’esposizione è l’occasione per concludere il lungo processo di riqualificazione cittadinanza planetaria. In questo contesto l’opera di architettura si attesta tendenzialmente come espressione di creatività individuale piuttosto che come contributo all’identità urbana collettiva.
Tuttavia questo non significa che la qualità delle nuove opere di architettura sia irrilevante ai fini della definizione di nuovi spazi urbani o a quelli della riqualificazione di luoghi amorfi o degradati, come lo sono talvolta le periferie e le conurbazioni metropolitane. Questa premessa può essere utile per ogni riflessione sulle potenzialità dell’Expo 2015, riflessione che riguarda non solo Milano, intesa come città fisica e come città sociale, ma la cultura architettonica, urbanistica e di impresa dell’Italia intera. L’Expo, con i suoi 4,1 miliardi di investimenti, è l’occasione per il capoluogo lombardo di accelerare la riqualificazione delle aree industriali dismesse che circondano il centro storico: dai vecchi impianti Montedison a Santa Giulia, rifigurati da Norman Foster, alle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni, che cederanno il passo agli eleganti edifici di Renzo Piano. È anche l’occasione di dotarsi di nuove e adeguate strutture e infrastrutture metropoli-
tane, che creino nuove reti di comunicazione e allarghino al territorio le potenzialità positive della grande città. Con l’Expo Milano può ritrovare lo slancio e il ruolo di centro artistico e produttivo di idee e di progetti che caratterizzò la città nei primi decenni del secondo dopoguerra. Dall’impegno politico in senso lato di Milano può partire la rinascita culturale e operativa dell’architettura italiana, se essa saprà approfittare virilmente di questa opportunità internazionale e cosmopolita, per riemergere dall’asfissia localistica e dall’autocommiserazione consolatoria.
Ma attenzione: si tragga insegnamento dalla disgraziatissima esperienza dei Mondiali del 1990, la cui una sciagurata eredità sopravviveva, fino a ieri, nell’albergo fantasma di San Giuliano Milanese, lasciato sul campo proprio dai mondiali del ’90 e fatto saltare il 6 aprile scorso. Per evitare una replica, che potrebbe essere catastrofica, di quell’avventura, occorre una strategia di pianificazione a largo raggio e ad ampio coordinamento, che sappia costruire consensi e partecipazione e suscitare iniziative; una programmazione tempestiva e razionale, che preveda, tra gli altri, dispositivi di assegnazione di incarichi equi e trasparenti. In ultima analisi occorre una massiccia dose di democrazia, un’entusiasta cultura politica e un impetuoso ottimismo sociale.
in uscita l’ultimo numero di Economia & management, la rivista della Sda Bocconi dedicata alla direzione aziendale. L’economista Severino Salvemini descrive la rivoluzione in atto nei distretti industriali e le ripercussioni per l’economia locale. Da Dolly Pedrovic un’interessante mappatura su tutti gli attori che si muovono nel mercato dell’arte. Maurizio Costa, amministratore delegato della Mondadori, racconta in un’intervista le aspettative del settore. Roberto Ruozi analizza «validità e limiti» della direttiva Mifid. Luana Carcano si sofferma sulle ripercussioni per il mercato orafo italiano dovuto all’attivismo cinese. Economia & management Etas, 127 pagine, 19 euro
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Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein
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DELLE IDEE
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economia
L’errore dei rappresentanti dei lavoratori è stato quello di non capire di avere davanti un manager vero e non un politico
Spinetta, finalmente un duro alla Magliana di Giuliano Cazzola ean-Cyril Spinetta è pronto a riprendere le trattative per Alitalia. Ma ha risposto da par suo al «grido di dolore» proveniente dai sindacati (più o meno tutti) e dai lavoratori italiani: cioè senza fare concessioni. Il Cda di Air France ieri ha ribadito che il suo piano è l’unico possibile per consentire ad Alitalia il ritorno a una crescita redditizia. «Ma spetta adesso alla compagnia», come si legge in una nota, «ai suoi dipendenti e alle organizzazioni sindacali rappresentative del personale di esprimersi su come vedono il futuro dell’azienda». Tutto porta a credere che Spinetta abbia imparato la lezione e che il negoziato vero si farà con il prossimo governo. Nel frattempo, la compagnia e i sindacati cercheranno soluzioni per tirare avanti ancora un po’, senza incappare nel commissariamento (che resta la soluzione più congrua).
J
Dopo gli ultimi avvenimenti la vertenza ha conosciuto una svolta, generalmente interpretata come un dietrofront delle organizzazioni sindacali. Alcuni tra i più autorevoli commentatori hanno evocato il caso della Fiat dell’autunno del 1980 paragonando la sconfitta delle confederazioni di allora a quella subita adesso (Roberto Ma-
nia su Repubblica ha parlato persino di Caporetto del sindacato). Esiste davvero un filo rosso tra la vertenza Fiat e l’attuale agonia dell’Alitalia? In verità gli ingredienti di una comune «disfatta» emergono tutti: aziende sul lastrico, soffocate da un sindacalismo incapace di comprendere le trasformazioni intervenute nel modo di produrre e nell’economia; maestranze che finalmente si rendono conto della gravità della situazione e scendono in campo (nel 1980 vi fu la celebre Marcia dei Quarantamila di cui si è occupata la cinematografia recente) contro quelle confede-
certo andazzo del sindacalismo industriale che non aveva capito la natura della crisi che il Lingotto (al pari dell’industria mondiale) stava vivendo, tanto da sottovalutarne i contenuti reali che non lasciavano margini di scelta al management.
La ristrutturazione era necessaria per la sopravvivenza dell’azienda; gli esuberi non erano l’espressione di un «attacco padronale al potere del sindacato» ma una dolorosa esigenza per riportare un minimo di equilibrio nei bilanci e risalire la china del declino. Una parte dei lavoratori (i capi e i
esitarono a sottoscrivere le condizioni poste dalla Fiat. Davanti agli hangar di Alitalia sta per essere sconfitto – quasi trent’anni dopo – il sindacalismo dei servizi, immanicato con la politica (nel senso deteriore del clientelismo e del sottogoverno), arrogante e tronfio, viziato dalla protezione dello Stato-padrone per sua natura incapace di dire no quando è il momento di farlo. La linea di condotta dei sindacati nella vertenza Alitalia è stata ed è incomprensibile. I dirigenti di Cgil, Cisl e Uil non vivono sulla luna. Dopo la sconfitta alla Fiat del 1980 sono di-
Troppo facile il parallelo tra la Marcia dei Quarantamila e la Caporetto delle sigle in Alitalia: nel 1980 iniziava la riconversione dell’industria pesante, oggi all’Alitalia termina soltanto il rapporto improprio tra sindacati e Stato razioni, tradizionali o recenti, che hanno continuato a fare promesse sempre più insostenibili, fino ad uccidere un’impresa che già non se la passava troppo bene. Ma la storia non si ripete. E se dà l’impressione di tornare di nuovo sugli stessi passi, in realtà mette in scena una farsa quale rifacimento di una tragedia, travestendo gli antichi eroi con costumi da pagliacci. Nel 1980 – davanti ai cancelli della Fiat – venne sconfitta un
quadri, benchè fossero le prime vittime annunciate della ristrutturazione) lo avevano capito ben prima dei dirigenti sindacali (e di partito), i quali pensavano di poter fermare ancora una volta il corso degli eventi piegandone gli eventi ai loro interessi di potere. Assistendo alla Marcia dei Quarantamila i grandi leader di allora (Luciano Lama della Cgil, Pierre Carniti della Cisl e Giorgio Benvenuto della Uil) compresero che era finita e non
ventati dei protagonisti insostituibili dei grandi processi di riconversione produttiva che hanno rovesciato come calzini centinaia di gruppi e stabilimenti, coinvolgendo parecchie centinaia di migliaia di lavoratori costretti a cambiare impiego o finiti nel tunnel degli ammortizzatori sociali e dei prepensionamenti. Che nel caso Alitalia vi sia stato un atteggiamento di intransigenza assoluta nei confronti di quei tagli che restano indispen-
sabili è talmente assurdo da lasciare esterrefatti. I sindacati, sicuramente in malafede, hanno una sola attenuante: la condizione d’impotenza a cui la politica costringeva gli amministratori della compagnia. I quali, ovviamente, non trovavano nulla di meglio che intascare laute prebende e «legare l’asino dove voleva il padrone».
Camminando per anni lungo un crinale di irresponsabilità parallele, l’Alitalia è finita sul baratro. L’ultima spinta gliela ha data di nuovo la politica. E hanno sbagliato tutti: Romano Prodi nell’autorizzare un negoziato, durante la campagna elettorale, con Air France-Klm che poteva chiudere soltanto il nuovo esecutivo; Silvio Berlusconi a inventarsi una cordata di imprenditori «nostrani» in nome di una discutibile italianità (che odora di morte e non fa onore a nessuno). I sindacati – consapevoli dell’inesistenza di valide alternative - hanno sbagliato a trattare Jean-Cyril Spinetta come un qualunque boiardo di Stato italiano, messo «nella vigna a far da palo» per conto di un partito. Salvo poi spaventarsi quando il patron di Air France (altro che Luca Cordero di Montezemolo!) ha abbandonato il tavolo e sbattuta la porta.
economia
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Prende forma la ristrutturazione dell’ex monopolista. Alcuni soci chiedono progetti più aggressivi
Bernabè pronto a snellire Telecom d i a r i o
di Alessandro D’Amato
d e l
g i o r n o
Marchionne: in Fiat fino al 2012 Chiarezza sul futuro di Sergio Marchionne, che attraverso Repubblica annuncia di restare in Fiat fino al 2012. La notzia è stata accolta bene da Piazza Affari, dove il titolo del Lingotto riagguanta la soglia psicologica dei 15 euro (segnando un +2,63 per cento). Nonostante questo l’ex Ceo di Ubs, Luqman Arnold, ha chiesto al manager abruzzese di intervenire, in qualità di vicepresidente non esecutivo, per migliorare le condizioni della banca svizzera. «Non crediamo che Ubs», ha spiegato, «possa stare nella sua attuale situazione senza un presidente indipendente ed esperto».
Conti (Consob): non c’è crisi finanziaria
Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom, sta studiando una riorganizzazione interna che si profila non indolore
ROMA. Il piano di riorganizzazione c’è. Al netto delle polemiche suscitate dalla Waterloo di Luca Luciani (ieri il manager si è scusato con i colleghi, in Telecom si è sempre più concentrati sulla ristrutturazione dell’azienda, mirata a ridurre i costi, puntando anche a ritoccare i microprocessi che creano ridondanza e burocrazia. Due sono i livelli che verranno toccati: quello della direzione generale e quello dell’organizzazione a livello territoriale. Riguardo la prima, ai piani alti si pensa di riunire a Roma i vari nuclei – con le rispettive competenze – che adesso si suddividono fra la capitale, Milano (sede legale) e Torino (Bilancio). A Roma lavorano circa 6 mila persone, il 10 per cento della forza lavoro di Telecom, mentre altre 2 mila unità si trovano nelle altre due sedi. Il piano Bernabé punterebbe a ridurre il personale nell’ordine dei 2500 lavoratori, basandosi sia sul pensionamento sia sulla riconversione di alcuni di essi – impiegati e quadri – in operatori di call center e forza vendita.
Dal punto di vista organizzativo, invece, ci sono due possibilità: la prima di dimezzare gli otto punti territoriali; la seconda è di porre fuori dal perimetro dell’azienda tutta la struttura dei call center, portandola sotto l’egida di Telecontact (100 per cento Telecom Italia), che già oggi gestisce gran parte dei numeri del servizio clienti. La soluzione radicale incontrerebbe maggiori resistenze da parte dei sindacati, ma Bernabé potreb-
be mettere sul tavolo anche l’obbligo a scorporare i servizi richiesto, anche se in modi diversi tra di loro, sia dall’Agcom sia da Bruxelles. E farebbe notare che la separazione di quelle attività risponderebbe alle richieste di divisione tra attività commerciali e di gestione della rete.
Sul fronte degli azionisti si registra il moderato nervosismo dei Fossati. «Ai prezzi attuali, il 4,45 per cento di Telecom dichiarato dalla Findim vale poco più di 850 mln euro contro il miliardo circa investito, pertanto non ci dispiace-
L’A.d. studia il taglio di 2.500 dipendenti e di alcuni punti territoriali e non esclude lo scorporo delle attività dei call center, da portare fuori dall’azienda rebbe un titolo più frizzante ma per questo è fondamentale che il presidente e l’A.d. diano una scossa all’azienda, presentando, possibilmente entro l’estate, un vero piano strategico di crescita, anche per linee esterne», ha dichiarato ieri Marco Fossati a Milano Finanza. E non contento, ha poi aggiunto che «Telecom vale almeno 40 miliardi, ma deve riemergere dal torpore per superare lo choc del 7 marzo scorso, quando il mercato si aspettava molto di più di quello che il management ha presentato,
sebbene avesse a disposizione poco tempo». Dichiarazioni di stimolo per un management che gode ancora delle aperture di credito degli azionisti, i quali stanno anche scaldando i muscoli in vista dell’assemblea che si terrà la prossima settimana. Dove verranno nominati i dodici uomini Telco, ma anche i tre consiglieri di minoranza: la stessa Findim ha presentato una propria lista, e rischia di fare il sold out se i fondi non riusciranno a raccogliere tra l’1,5 e l’1,8 per cento del capitale. Sul piede di guerra, poi, i piccoli azionisti dell’Asati. «L’A.d. ci dica cosa ha trovato dentro Telecom», ha tuonato il loro rappresentante, Franco Lombardi.
Oggi, intanto, c’è sciopero di 4 ore proclamato da Slc-Cgil e FistelCisl, che segue l’interruzione della trattativa con Telecom, dopo che l’azienda aveva dato disponibilità ad aumentare del 10 per cento diversi importi economici e i budget di spesa per il 2008 erano già stati approvati per aumentare l’occupazione in Telecontact. Dichiarano i sindacati: «L’azienda non può chiedere sacrifici ai lavoratori dopo che, per anni, i dipendenti di Telecom hanno mandato avanti l’impresa mentre i manager pensavano esclusivamente alla finanza. Ora che il nuovo management dice di voler tornare ad occuparsi del core business dell’azienda e di voler investire sugli asset strategici, ci attendiamo un riconoscimento della principale risorsa dell’impresa: migliaia di tecnici, informatici, ricercatori, addetti ai servizi di customer».
Vittorio Conti, commissario della Consob, tranquilizza sul rischio che la crisi finanziaria internazionale colpisca anche l’Italia. «Non ci sono evidenze di criticità», ha spiegato. Per poi aggiungere: «Ci sono rischi di credito che vanno in giro, garantiti da beni immobiliari, il cui valore fa da cuscinetto. Fin quando il valore dei sottostanti non riprende la sua dimensione normale, ci dobbiamo aspettare che questo processo di deterioramento progressivo continui».
Bpm: a giugno risposta a Mutuel «La Banca Popolare di Milano deciderà entro giugno» sulla proposta di matrimonio avanzata dai francesi del Credit Mutuel per le attività sul credito al consumo.A ribadire la scadenza è il direttore generale dell’istituto, Fabrizio Viola. «L’ultima missiva dei francesi», ha spiegato, «è una lettera che non fa che ribadire l’interesse verso il gruppo, ripuntualizza alcuni aspetti del progetto di collaborazione, ma non aggiunge niente di nuovo rispetto ai contenuti dell’ultimo documento».
Generali, Benetton smentisce Algebris Il gruppo Benetton smentisce l’esistenza di conflitti d’interessi in Mediobanca dopo la presentazione di una lista per il collegio sindacale delle Generali. Su richiesta della Consob, e dopo un esposto del fondo Algebris, Edizione Holding ribadisce che «ha reso la dichiarazione di insussistenza di rapporti di collegamento rilevanti ai fini di quanto disciplinato del regolamento emittenti emanato da Consob». In pratica i Benetton non possono determinare «le politiche finanziarie e gestionali di Mediobanca», controllante di Generali.
Meridiana: nessuna fusione con Eurofly Meridiana smentisce di avere «allo studio alcun progetto di fusione» con la controllata (al 46,1 per cento) Eurofly. La compagnia ha invece «conferito un incarico alla società di consulenza Roland Berger al fine di valutare il posizionamento strategico e operativo del Gruppo Meridiana effettuando al contempo ulteriori approfondimenti sulle strategie di integrazione tra le due società per consolidare la posizione del gruppo nel mercato del trasporto aereo». Fatto sta che la smentita ai rumors non ha impedito al titolo Eurofly di guadagnare ieri in Borsa il 17 per cento.
Ipi studia fondo per Porta Vittoria Scontro in Ipi sul futuro di Porta Vittoria. Con l’appoggio di IntesaSanpaolo, il presidente Franco Tatò proporrà all’assemblea del 2& e del 22 aprile di inserire il progetto di riqualificazione milanese in un fondo immobiliare. E pare che sia stato già sottoscritto un protocollo con Bnl Fondi Immobiliari per creare l’apposito ”Fondo mattone”, con durata decennale e aperto a investitori qualificati. Valore dell’operazione fino a 80 milioni di euro. Contrari i due azionisti forti, Bim e Danilo Coppola. L’immobiliarista ha fatto sapere tramite il suo legale: «Chi compra Ipi compra anche Porta Vittoria».
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biopolitica
Presentato dal presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini, un dossier dopo trent’anni dalla 194
Aborto, genocidio silenzioso di Riccardo Paradisi
ROMA. Malgrado il tentativo dei due maggiori partiti italiani di tenere fuori il tema dell’aborto dalla campagna elettorale non si è mai parlato così tanto di legge 194 come si è fatto in queste settimane. In parte grazie all’iniziativa di Giuliano Ferrara – che continua a subire nelle piazze italiane contestazioni selvagge – in parte perchè proprio in questo periodo ricorrono i trent’anni dell’approvazione in Italia della 194 ma soprattutto perchè è impossibile silenziare i temi della biopolitica in un epoca in cui la biopolitica è il tema vero e centrale del dibattito politico e culturale dell’intero Occidente. È in questo contesto che ieri Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, ha presentato in una conferenza stampa alla Camera dei deputati un dossier sull’aborto in Italia a trent’anni dalla 194. Un tempo sufficiente, dice Casini, per rivisitare la legge: «Trent’anni rappresentano una generazione. Più di un terzo della popolazione italiana è nata dopo la legge e non conosce la temperie in cui essa fu emanata. Inoltre, a differenza di allora, oggi il principio di preferenza per la nascita rispetto all’aborto è quasi universalmente accettato». Ma non è solo Casini a parlare della necessità di rivedere la 194. Trent’anni fa Giovanni Berlinguer nel suo intervento conclusivo alla Camera alla vigilia dell’approvazione della 194 parlò dell’opportunità di un’impegno «di tutti i gruppi promotori a riesaminare, dopo un congruo periodo di applicazione, le esperienza positive e negative di questa legge. Dovremmo riesaminare le esperienze pratiche, le acquisizioni scientifiche e giuridiche...Rivedere le posizioni ciascuno alla luce delle esperienze, idee e concetti che sembrano ora acquisiti e quasi cristallizzati». Ma se nel senso comune l’aborto ha assunto sempre di più in questi anni le forme di una tragedia l’estabilishment politico culturale resta cristallizzato, tranne qualche eccezione, alle concezioni di trent’anni fa. Con l’aggravante, secondo Casini, che su questa legge si continuano a dire delle grandi bugie. Anzi tutto, dice il presidente del Movimento per la vita, non è vero che questa legge abbia ridotto il numero degli aborti. Lo dimostrano i dati dell’abortività nel nostro Paese: dal 1978, anno in cui entra in vigore la 194, gli aborti legali registrati in Italia sono 70mila. Nel 1979 sono 187.752, nel 1980 220mila263, nell’82 234mila 594, nel 1984 227mila 809. Il 1984 è il picco più alto di aborti in Italia, poi la cifra comincia a scendere per attestarsi sulla media ei 130mila aborti annui dell’ultimo decennio. Ma questa flessione potrebbe
Il presidente del Movimento per la vita, Carlo Casini, auspica una revisione della normativa sull’aborto a trent’anni dalla sua introduzione. Lo Stato, dice, deve tutelare la vita sin dal concepimento appunto trarre in inganno: essa infatti non va imputata alla bontà della 194, alla prevenzione o alla diffusione della cultura contraccettiva, quanto al crollo di natività che comincia proprio a metà degli anni Ottanta. È in questi anni infatti che cominciano a nascere meno figli e che l’età della maternità si alza. D’altra parte, a dimostrazione che le normative abortiste non riducono il numero degli aborti vale il dato che nei Paesi europei che hanno sull’aborto una legislazione molto simile a quella italiana come Francia e Gran Bretagna l’abortività fa registrare autentiche impennate, allarmanti per gli stessi promotori
guardato una minima percentuale delle complessive interruzioni volontarie di gravidanza: lo 0,5 per cento nel 1979 e il 2,6 per cento nel 2006. La cifra complessiva al 31 dicembre 2006 è di 4milioni 740mila interruzioni di gravidanza, un numero, commenta Casini nel dossier, di autentico genocidio che testimonia la realtà di un aborto sostanzialmente libero, non limitato esclusivamente a casi estremi e particolari, quanto meno in presenza di rischi sanitari per la donna davvero seri e verificati». Ecco perchè secondo il Movimento per la vita la 194 lungi dall’essere una legge immodificabile, una legge che non si tocca, come continua a
In Italia sono più di 5 milioni i feti abortiti dal 1978, anno in cui è entrata in vigore la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. Da allora il numero di aborti, malgrado quanto si continua a dire, è continuamente aumentato delle leggi che hanno legalizzato l’aborto in quei Paesi. Nel 2007 nel Regno Unito ci sono stati 207mila aborti, in Francia 210mila: e in questi Paesi la contraccezione è molto più diffusa rispetto a quanto non lo sia in Italia.
Dunque non è vero che in Italia si abortisce di meno grazie alla 194. Anzi, le maglie di questa legge, secondo Casini, sono diventate via via sempre più larghe: «L’aborto terapeutico in Italia ha sempre ri-
dire la vulgata, Per ottenere questo risultato, spiega Casini, «va segnalata l’ingiustizia presente in quelle parti della legge che presentano un’equivocità altissima, tale da consentire la cosiddetta cattiva applicazione della legge». In sintesi quello che il Movimento per la vita chiede è la modifica degli articoli cosiddetti buoni della 194, quelli che consentono i più grandi margini di equivocità. All’articolo 1, si parla dell’inizio della vita umana – che la Repubblica italiana tutela – ma
nello stesso articolo non si chiarisce quando la vita umana comincia. L’inizio della vita secondo Casini va identificato nel concepimento e nell’articolato della legge questo concetto va chiaramente specificato. Inoltre va affrontato il problema dei consultori. «L’intervento dei consultòri è previsto come facoltativo, non come obbligatorio. Inoltre la legge 194 prevede la possibilità (non l’obbligo) di una collaborazione mediante apposite convenzioni tra i consultori famigliari e le associazioni di volontariato che hanno lo scopo di assistere la maternità in difficoltà sia prima che dopo la nascita. Questa opportunità, denuncia il dossier di Casini, non è stata utilizzata».
Ma non si può affidare la difesa della vita solo al volontariato. Occorre anche un impegno dello Stato volto a tutelare la vita fin dal concepimento. Il nascituro infatti, secondo il Movimento per la vita, gode dell’indistruttibile dignità di ogni essere umano: «Se nemmeno il delinquente può distruggerla del tutto, cosicchè resta insopprimibile il suo diritto alla vita, com’è possibile non rispettare la dignità e il conseguente diritto alla vita che le è inerente nel concepito?». Al Movimento per la vita tutte le forze politiche hanno garantito, a prescindere dalle posizioni sulla 194, un impegno fattivo per la tutela della vita. Ma alla conferenza ieri, nella sala stampa della Camera dei deputati, dei politici non c’era nemmeno l’ombra.
memorie
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anno molte cose in comune padre Romano Scalfi, una vita spesa per testimoniare il cristianesimo in Russia, e Giovanni Paolo II, il papa polacco che ha offerto un grande contributo alla caduta del muro di Berlino e al collasso dell’Unione Sovietica. Entrambi hanno puntato il dito non tanto contro il comunismo in sé, ma contro il vuoto spirituale che ne derivava. «Ma il comunismo non ha vinto, dopo settanta anni di lotta non è riuscito a cancellare Dio dal cuore dell’uomo».
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Padre Romano Scalfi, 84 anni, parla con la fermezza di uno che sa cos’è l’essenziale. «Anzi – prosegue - oggi questo desiderio riappare in modo più forte. Questo perché nessun potere, nemmeno il più forte, può determinare l’uomo, può rispondere alla sua domanda sul senso della vita». Tutto comincia a Trento, dove svolge il seminario. Poi studia a Roma all’istituto Russicum, specializzato appunto nella tradizione orientale. Qui impara la lingua e approfondisce la tradizione russa. Nel 1960 il primo viaggio in Russia, nel ’70 incontra don Luigi Giussani e aderisce al Movimento di Comunione e Liberazione. Ma perché proprio la Russia? «Ai tempi del seminario – racconta – i preti in Italia abbondavano, non sapevano più dove metterli. Ecco perché volevo andare missionario. Ho scelto l’Unione sovietica per caso, affascinato dalla bellezza della liturgia bizantina». Quasi per uno scherzo del destino, però, padre Scalfi in Russia non ha mai vissuto. «Dal 1960 al 1970 andavo con una certa libertà, poi nel ’70 mi hanno detto che ero una persona non gradita e che non mi sarei più dovuto far vedere. Ho dovuto aspettare 19 anni prima di avere il permesso. Così ho cercato di far qualcosa dall’Italia, portando in Occidente la bellezza della liturgia bizantina, tenendo i contatti con le persone, affidando loro le bibbie, testi religiosi che aiutavano quei pochi uomini a mantenere salda la fede. Diffondendo in Italia la traduzione del samizdat, i fogli clandestini dei dissidenti, che documentavano la persecuzione dei cristiani e la lotta per affermare il valore della persona umana. Lo scopo dei dissidenti del regime sovietico non era tanto quello di far crollare il comunismo ma di ricreare l’umano distrutto dal totalitarismo. Tutto il nostro lavoro era concentrato sul valore della persona, forti della certezza che neanche il potere più forte possa determinare l’uomo. Oltre all’avversità del sistema comunista ci siamo dovuti paragonare anche con una cer-
«Il comunismo non ha cancellato Dio dal cuore dell’uomo»
Padre Romano Scalfi pastore della Russia cristiana di Francesco Rositano ta incomprensione di certi ambienti cattolici. Ci dicevano addirittura che esageravamo i dati sulle persecuzioni antireligiose e, facendo in questo modo, avremmo ostacolato il dialogo ecumenico». La persecuzione contro la Chiesa cattolica e ortodossa era stata spietata. Molte chiese erano state distrutte, trasformate in appartamenti, o in condomini. I sacerdoti perseguitati, uccisi, costretti a lasciare la Russia. Cita dati alla mano, padre Scalfi: «Le chiese in Russia nel 1917 erano 100mila, quando morì Stalin erano 15mila. Krusciov le dimezzò. E poi soprattutto cambiò la struttura interna della parrocchia: il capo non era più il prete ma un uomo democraticamente eletto, dal partito, si intende».
Nella sua analisi però non si respira tanto l’amarezza per lo smantellamento delle chiese, ma per il vuoto che questo regime totalitario ha creato: «Mi colpisce – continua - che il comunismo abbia sempre chiacchierato di moralità. In realtà la situazione oggettiva che ha la-
Nel 1960 il primo viaggio: «Scelsi l’Unione sovietica per caso, affascinato dalla bellezza della liturgia bizantina»
Un’immagine di padre Romano Scalfi. In alto, mentre celebra la santa Messa assieme a don Giussani
sciato è disastrosa: i divorzi sono all’ordine del giorno, la percentuale di aborti che viene praticata è altissima.
Ma non è tanto il problema della moralità che mi preoccupa. Anzi uno dei più grandi rischi che pervade sia l’Occidente che la Russia è proprio il moralismo. D’altra parte la coscienza è una fisarmonica che, se non è alimentata dalla verità, si allarga e si restringe come vuole. Quindi, bisogna affermare la verità, cioè Cristo. Dalla verità poi derivano comportamenti morali. Non accade però viceversa: dall’affermazione di comportamenti morali non sgorga la verità. La gente, d’altra parte, ha bisogno di ragioni, ha bisogno di capire perché l’aborto non vada praticato, perché il matrimonio cristiano è indissolubile. È necessario combattere il moralismo in nome della verità, perché è la verità che ci rende liberi dal peccato». Si ferma un attimo, poi cita un grande scrittore russo, Dostoevskij: «Se Dio non esiste, tutto è permesso». La consapevolezza che i libri pote-
vano tener viva la fede in quel popolo che non poteva incontrare personalmente, spinge padre Scalfi a fondare a Seriate, in provincia di Bergamo, l’associazione culturale “Russia Cristiana”. È il 1957. Lo scopo di questa iniziativa era quello di diffondere in Occidente la tradizione spirituale, culturale e liturgica dell’ortodossia e promuovere il dialogo ecumenico. «Ad ottobre – racconta il sacerdote - abbiamo festeggiato cinquant’anni dalla nascita di “Russia Cristiana”. Abbiamo una biblioteca specializzata di oltre 25 mila volumi che raccolgono i classici della spiritualità cattolica e ortodossa, un centro di documentazione, una rivista, La Nuova Europa e la casa editrice Matriona». Nel 1993 anche a Mosca è nata un’altra associazione culturale,“La Biblioteca dello Spirito”, che ha il grande merito di essere animata sia da cattolici e ortodossi che si sono messi insieme per promuovere l’annuncio cristiano. Ultima iniziativa del centro è stata, il 25 marzo scorso, la presentazione in lingua russa della Spe Salvi, l’ultima enciclica di Benedetto XVI. All’incontro hanno partecipato l’arcivescovo di Mosca, monsignor Paolo Pezzi, e padre Vladimir Shmakij, segretario della Commissione teologico-sinodale del Patriarcato. Per padre Scalfi questo incontro «è il segno che cattolici e ortodossi possono collaborare insieme per annunciare Cristo. Abbiamo un nemico comune: il relativismo e il nichilismo. Non possiamo permettere che passi l’idea che non esiste alcuna verità. La verità è Cristo, l’unico che può dar veramente senso alla vita». Attualmente in Russia le cose sono cambiate dai primi anni in cui con qualche amico e una Volksvagen varcava la frontiera, e per parlare con le persone era costretto a dire che si era rotto il motore della macchina. Non è più necessario parlare di nascosto.
All’epoca negli appartamenti c’erano le microspie. Eppure padre Scalfi è saldamente convinto che l’uomo debba continuare a lottare per l’ideale che lo anima e non sedersi sugli allori. «Tutta la battaglia culturale portata avanti da noi durante il regime consisteva nell’affermare che non bisognava dare la colpa a fattori esterni. Lo stato di declino in cui la Russia era scivolata si doveva ricondurre alle persone. Ecco, quindi, la nostra rivoluzione: partire dall’uomo e dal suo desiderio di dar senso alla vita». Poi cita ancora Dostoevskij: «Il campo di battaglia è il cuore dell’uomo». E chiude con un motto personale: «Tutto dipende da Dio, tutto dipende da me».
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Il cibo italiano è ancora genuino? ORAMAI NON LO È PIÙ DA MOLTI ANNI, DI GENUINO RIMANE IL PANE E POCO ALTRO Vino allungato, olio che di extravergine non ha proprio niente, mozzarella alla diossina, prosciutto, parmigiano e altri alimenti ”Doc”importati dalla Cina. Evviva la cucina italiana! E’ ancora possibile mangiare in modo genuino in Italia? E come no! Forse rimane il pane e poco altro. Ma costa pure tanto caro. Negli anni Sessanta Bruno Martino cantava: ”Nel duemila noi non mangeremo più, né bistecche né spaghetti con ragù...”. Preconizzando che avremmo mangiato pillole al loro posto.
Lorenzo Pinti - Firenze
IN ITALIA SI MANGIA ANCORA ABBASTANZA BENE, DIOSSINA E VELENITALY NON SONO UNA MINACCIA Mozzarella alla diossina e vino taroccato. Si mangia ancora genuinamente in Italia? Sembrerebbe proprio di no. La dieta mediterranea - si obietta - è la migliore del mondo, la più sana. Sì, però se insieme alla mozzarella ingeriamo diossina, la dieta mediterranea va comunque a farsi friggere. Tuttavia sicuramente si è esagerato, perché poi abbiamo appreso che solo in alcune piccole aziende si è trovata diossina in eccesso e comunque in misura tale da non ri-
LA DOMANDA DI DOMANI
sultare dannosa. E per quel che riguarda il vino, è vero credevamo di aver bevuto un ottimo Brunello, avremo pure pagato come se avessimo bevuto Brunello anziché un vino un po’ così, ma non abbiamo esposto a gravi danni la nostra salute. Insomma in Italia, io credo, si mangia ancora abbastanza bene, buoni sapori e prodotti sufficientemente genuini.
Camillo Lonardi - Roma
OGGI PURTROPPO DOBBIAMO VERGOGNARCI DI UNA TRADIZIONE CHE UN TEMPO ERA SUPREMA Assolutamente no. In Italia ormai non possiamo più dire di mangiar buono e genuino. Potevamo andar fieri un tempo della nostra suprema tradizione mediterranea, ma oramai siamo riusciti a inquinare quasi tutti i nostri prodotti. Addirittura, se non avessimo avuto nella scorsa legislatura un ministro delle Politiche agricole come Gianni Alemanno avremmo iniziato a esportare (e mangiare) cibi Ogm. E non dimentichiamoci che per un periodo di tempo abbiamo anche rinunciato alla bistecca Chianina. Insomma, credo che ormai da qualche anno ci troviamo nella brutta situazione di ”retrocessione culinaria italiana”, e pochissime voci fuori dal coro della politica si adoperano per far fronte alla decadenza della nostra genuinità. La diossina nella mozzarella di bufala o il Brunello ”allungato” sono solo alcuni dei più eclatanti esempi.
Flavia De Santis - Napoli
I NOSTRI PRODOTTI SONO ANCORA COMPETITIVI, PER CAPIRLO BASTA FARE UN GIRO ALL’ESTERO
Secondo voi andrebbero cambiate le schede elettorali? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Ma sì, adesso non esageriamo. In Italia possiamo eccome vantarci ancora di detenere il primato (quasi) assoluto della genuinità dei nostri prodotti. E’vero, la diossina nelle mozzarelle di bufala certamente non depone a nostro favore, ma fortunatamente non è un fenomeno così esteso da giustificare l’allarme che è stato lanciato dai Paesi esteri. Anche la questione del ”Velenitaly”, del Brunello ”taroccato”, non implica necessariamente che i vitigni delle nostre campagne siano scivolati in serie B. Facciamoci un giro fuori dall’Italia. Poi ne riparliamo.
LA NOSTRA PRESENZA, UNA CERTEZZA Il giorno in cui mi è stata offerta l’opportunità di conoscere e far parte dei liberal, senza alcuna esitazione ho ritenuto un mio diritto-dovere intraprendere un percorso così importante. Ho affrontato ciò con lo stesso spirito con il quale ho servito lo Stato nella Benemerita Arma dei Carabinieri. Nella nostra esistenza terrena è importante essere al servizio del cittadino per costruire e condividere pensieri e percorsi comuni, umanitari e sociali, poiché oggi è una esigenza richiesta dalla collettività. Occorre avere la disponibilità e la responsabilità culturale, sociale e politica e soprattutto dimostrare concretamente la volontà di essere promotori e portatori di idee, progetti e soluzioni a favore del cittadino. Oggi la società civile chiede di dialogare e confrontarci a iniziare da ciò che ci unisce, i valori, di cui molti si manifestano come portatori ma in pochi prendono concretamente iniziative per mostrare cosa e come fare per comunicare e condividere in modo concreto. I liberal, nel corso di questi anni hanno dimostrato cosa è possibile e co-
NON SOLO SABBIA Sulle coste francesi di Le Touquet fino ad agosto è possibile vedere la singolare esposizione di 200 statue di sabbia, tracce del popolo Masai e dell’Africa intera, dedicata ai Mille volti del Continente nero IL PARTITO DEMOCRATICO E LE PROMESSE ELETTORALI Non riesco proprio a mandarla giù. In campagna elettorale, sui manifesti, nei siti internet e altrove, il Pd, con Veltroni in testa, Franceschini a ruota e gli altri... scomparsi (ritorneranno al momento delle poltrone), dicono, scrivono e cantano ”faremo questo, quello e di più”. Non c’era un programma di 282 pagine, propagandato come il Vangelo del futuro? I successivi 12 punti di Prodi? Perché non si sono realizzate le belle cose di questa campagna elettorale? ”5000 leggi in meno entro il 2008 e 1000 leggi speciali entro il 2010. Un’impresa in un giorno”. Ma come, sapete che c’è tutto questo da realizzare e per 20 mesi vi siete persi dietro i Pacs, i dico, il bagno per i parlamentari transgender, il conflitto
dai circoli liberal Susanna Conti - Milano
me è possibile realizzare concretamente le idee. Tale nobile opera può e deve essere proseguita grazie soprattutto alla nostra volontà, determinazione e perseveranza, avente come stella polare sempre impressa in ognuno di noi l’intento di formare pensieri comuni intesi ad aggregare l’essere umano per cui tanto è stato fatto ma tanto è ancora da fare. Per costruire un pensiero comune e condiviso è fondamentale il dialogo e il confronto con la collettività. In questa era in cui la nostra società non riesce ad essere ai tempi con la “globalizzazione”abbiamo il diritto- dovere morale e civile non solo nei confronti dei nostri figli ma soprattutto delle future generazioni di porre in essere le condizioni per ergere le fondamenta di una nuova e tanto desiderata società. La determinazione che sino ad oggi ha contraddistinto il nostro operato deve continuare ad essere una nostra “prerogativa esclusiva”. E’ fondamentale, soprattutto in questo momento storicopolitico, ritrovare quella continuità di pensiero e di intenti che, attraverso il dialogo ed il confronto, possa contribuire ad una maggiore crescita dell’indivi-
d’interessi mai risolto, eccetera? Ora di nuovo faremo, vedremo, risolveremo, daremo: il treno è passato, non ve ne siete accorti e perdete un giro, la giostra va e voi restate a terra. Buona sosta all’aperto.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
IN ITALIA LA MAGISTRATURA RISPONDE SOLO A SE STESSA Da www.repubblica.it di venerdi 4 aprile: ”Mafia, otto anni per una sentenza. Il Csm non sospende il giudice”. E poi i nostri politici (non tutti in verità) vanno dicendo che i cittadini devono avere fiducia nella Giustizia. Se ci fosse giustizia! La verità è che tra le varie Caste, la Magistratura è la più pericolosa, perché non risponde che a se stessa.
Giulio De Mauro - Ancona
duo e quindi della società. La crescita personale e di gruppo, passa anche attraverso l’accettazione e la condivisione (anche se parziale) della realizzazione di grandi progetti sociali. Auspico che dopo il 15 aprile possa ritrovarsi quella volontà, quella forza e quella volontà ed unità di intenti comuni che, sono certo, porterà i liberal al raggiungimento di grandi ed ambiziosi obiettivi. Anche questa è democrazia. Giuseppe Fierro CIRCOLO LIBERAL ROMA
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione mensile nazionale di tutti i Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog D’estate ci aspettiamo meraviglie orientali Caro Max, è molto facile all’inizio dell’estate essere allegri. Si ha un cuore vivace, un passo discreto e si è alquanto ben disposti verso la vita futura. Ci si aspetta meraviglie orientali e poi le si nega con un inchino buffo e con un discorso che ciondola, un gioco mosso che rende spensierati e tremanti. Si sta seduti tra le lenzuola buttate in disordine e si guarda l’orologio che indica la tarda mattinata. Noi però ci dipingiamo già la sera con colori ben smorzati e con panorami che si distendono lontano. E ci sfreghiamo le mani finché non diventano rosse di gioia perché la nostra ombra si fa lunga e così incantevolmente serale. Ci adorniamo nell’intima speranza che l’ornamento divenga la nostra natura. E se ci chiedono dei nostri progetti di vita, in primavera siamo soliti fare un ampio movimento della mano che, dopo un po’, ricade come se fosse così ridicolmente superfluo giurare su cose già certe. Tuo. Franz Kafka all’amico Max Brod
SE L’EXPO 2015 SI FA A MILANO IL MERITO È DEL CENTRODESTRA Il masochismo politico della sinistra non ha mai fine, pur di attaccare Berlusconi. Leggo su l’Unità del 4 aprile che questi ha poco da vantarsi della vittoria di Milano per l’Expo 2015, in quanto nel 2004 perse la ”gara” con Trieste a vantaggio di Saragozza. Per dovere d’informazione meglio chiarire l’episodio: una mezza verità fa una mezza bugia, dipende dal punto d’osservazione.Vi sono Expo ed Expo: quella di Milano appartiene alla ”categoria” delle Universali, mentre quella di Sarazozza a quelle Internazionali. La prima categoria comprende Expo di durata più lunga (normalmente un semestre) e di argomenti più vasti, mentre la seconda Expo è di durata più breve (tre mesi) e di tema più specifico. Basti anche dire, spero per completezza sull’importanza della manifestazione, che prima di Milano gli ultimi nomi sono stati Giappone (Aichi), Hannover, Shanghai. Facendo il classico esempio ”terra-terra”, se c’è un vantaggio d’immagine ed economico esso è doppio: almeno questo sarà incontestabile? Spero che questo sia sufficiente e basti per amplia-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
8 aprile 1271 Siria: Il sultano mamelucco Baybars conquista presso Homs il castello dei Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, oggi noto come Krak dei Cavalieri 1848 Risorgimento: il Battaglione San Marco ha il suo battesimo del fuoco a Goito, durante la Prima guerra di indipendenza italiana. Lo stesso giorno entra in azione anche il neonato corpo dei Bersaglieri 1867 Francia: a Parigi inaugurazione della prima Esposizione Universale 1904 Francia e Gran Bretagna sottoscrivono la cosiddetta Entente Cordiale (intesa cordiale) 1957 Egitto, si riapre il canale di Suez 2005 Città del Vaticano: si svolge il funerale più grande e seguito della storia, le esequie di Giovanni Paolo II. La città di Roma per quel giorno raddoppiò la sua popolazione e in città arrivò il più grande numero di capi di stato mai presente nel medesimo posto (più di 200 delegazioni ufficiali)
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
re la cultura e l’intellighentia di sinistra. Per quanto riguarda i meriti, Moratti, Berlusconi o Prodi, noi ”italiani” li abbiamo fin troppo chiari. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
il meglio di
L. C. Guerrieri - Teramo
I PRIVILEGI DELLA CASTA E IL VOTO (DAVVERO) UTILE
MINISTRI DE NOANTRI
Non è necessario essere qualunquisti per ricordare i privilegi della Casta, tra stipendi, liquidazioni, pensioni, auto blu, nepotismi, familismi, affitti e lo scandalo delle case di lusso e di pregio storico-artistico acquistate, a prezzi stracciati, dai nostri già privilegiati sindacalisti, burocrati e politici. Se mettiamo al bando le fedi indiscusse, i luoghi comuni politici e le convenienze travestite da princìpi, risulta elementare, vero e insopprimibile rilevare che per troppi sindacalisti, burocrati e politici (purtroppo anche dell’opposizione cosiddetta ”liberale”) la proprietà degli altri è un furto; la loro, mai. Ne terremo conto alle prossime elezioni. Grato per l’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
PUNTURE Dice Bossi: “Contro le schede-porcheria potremmo imbracciare i fucili”. Da una legge porcata non poteva che uscire una porcheria.
Giancristiano Desiderio
“
Sono convinto che anche all’ultimo istante della nostra vita ognuno di noi può cambiare il proprio destino GIACOMO LEOPARDI
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
Le indagini su “Viaggiopoli”, secondo il ministro Pecoraro Scanio, avrebbero avuto inizio nel 2005, cioè quando l’agenzia di viaggio Visetur, sulla quale è incentrata l’inchiesta in corso, avrebbe operato con il ministero (fin dal 2003), ben prima però del mandato del leader dei Verdi, ora nella Sinistra Arcobaleno. In realtà l’inchiesta ha avuto la sua escalation pochi mesi fa, cioè quando il ministro dell’Ambiente avrebbe richiesto a Lele Mora alcuni attori della sua scuderia, per fare da testimonial ad iniziative del ministero. (...) Il Pm dei vip, tale Woodcock, sarebbe entrato per caso in una faccenda assai più torbida. Si ipotizza infatti un presunto scambio di favori tra imprenditori del settore dello smaltimento rifiuti e il ministro. In particolare sulla concessione di favori e appalti da parte di Pecoraro Scanio in cambio di viaggi gratuiti fatti sia in Italia sia all’estero. (...) Tralasciando il fatto che l’immunità per i ministri non esiste perché il giudizio per loro è affidato al Tribunale dei ministri, Pecoraio Scanio, di buona lena, si è subito messo a disposizione della magistratura, contrattaccando però senza remore:” L’indagine, che è stata resa nota poco prima del voto, danneggia la mia immagine e quella del mio partito”. Acuto il ministro non c’è che dire. Ed anche i suoi legali lo sono:” Si tratta di una tempistica ad orologeria”. (...) Ora sarebbe interessante vedere la reazione dell’ormai ex ministro dell’ambiente, qualora saltassero fuori intercettazioni telefoniche con lui da protagonista. All’epoca delle intercettazioni
di Berlusconi con un dirigente rai, il ministro non perse tempo, ed abbracciando la tesi di Di Pietro, invocò persino la riforma del sistema radiotelevisivo. Cosa succederebbe nel suo caso? Facile immaginarselo. (...) La Visentur, per ovvie ragioni nega i favori al ministro, come anche l’assunzione del fratello di Fella (titolare della Visentur) come consulente al ministero. Tutto deve essere dimostrato, ed anche in questo caso si aspetta il giudizio della magistratura ma, fa quantomeno riflettere, come i casi della vita facciano cambiare i lupi in agnelli e viceversa. Evidentemente lo scontro perpetuo politica-giustizia esiste solo quando fa comodo.
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C’È UN BEL FILM SENZA PRECARI, È NEOCON Ho visto ”Amori, bugie & calcetto”, un bel film italiano ben scritto, ben girato e soprattutto molto divertente. Siccome i protagonisti scelgono di tenere il figlio, si sposano e tornano a casa i recensori del Corriere scrivono: ”Commedia neocon: non si abortisce e si rinnega il divorzio”. Il recensore non è Caretto e nessuno rinnega il divorzio, semplicemente un ex marito e una ex moglie si rimettono insieme. Fateci caso: il Corriere usa a sproposito la parola ”neocon” (ovvio) che nel gergo di Via Solferino vuol dire ”spregevoli stronzi”. Questo significa che per il Corriere una commedia è spregevole e stronza solo perché due ragazzi scelgono di tenere un figlio. E poi dicono che Giuliano Ferrara è impazzito.
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