QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Occidente Tutte le guerre di droga
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
William A. Byrd Raffaele Cazzola Hofmann Ferdinando Milicia Enrico Singer Maurizio Stefanini da pagina 12
Poste italiane spa • Spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in L. 27-02-2004 n.46) art. 1; comma 1 - Roma
Cari Silvio e Walter, inutile è solo la vostra guerra bileaderistica. La verità è che la Seconda Repubblica è fallita e voi fate finta di niente. Mentre l’Italia ha bisogno di una nuova storia politica di serietà e di responsabilità
l’italia al voto SIAMO IL PAESE DELLE PROMESSE MANCATE pagina 9
Gianfranco Polillo
olimpiadi
I giochi cinesi spengono la fiaccola Francesco Cannatà
pagina 10
alitalia GOVERNO E SINDACATI COSTRETTI A RIAPRIRE LA TRATTATIVA Francesco Pacifico
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sport PARLA MENNEA: «IL GIORNO PIÙ BELLO DELLA MIA VITA» Cristiano Bucchi
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alle pagine 2 e 3 9 771827 881004
MERCOLEDÌ 9 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
64 •
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19.30
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Il voto inutile? È al Pd e al Pdl
silvio e walter Le posizioni dell’Udc costituiranno per il futuro, e anche per un nuovo governo, un riferimento difficilmente eludibile
La scelta al centro
di Renzo Foa
di Arnaldo Forlani
l bilancio vero di una campagna elettorale è il suo esito, è la conta dei voti. In attesa, si può dire che le ultime giornate rivelano in modo impietoso la fragilità di una competizione che è stata impostata, anche con il favore del sistema mediatico, sul duello tra Berlusconi e Veltroni e che – una volta cancellate le coalizioni – ha trasformato un sistema politico bipolare in un bozzolo di sistema politico bileaderistico. Formalmente bipartitico, ma solo formalmente perché il Pdl è una sigla e perché il Pd è ancora una promessa, che solo una buona percentuale di consensi aiuterà a mantenere.
I
La polemica sulle schede elettorali, la continua litania sul «voto utile» e i preannunci di vittoria suonano come la controprova della debolezza dei due maggiori antagonisti. Al punto tale da lasciar spazio al sospetto che il vero voto inutile possa essere quello dato al Pd e al Pdl. Per una semplice ragione: la logica, le proposte, le visioni di Veltroni e di Berlusconi restano ancora tutte all’interno degli schemi di una Seconda Repubblica che non ha mantenuto le sue promesse, che è sostanzialmente fallita, trascinando l’Italia nella paralisi. Tutto è fermo, tutto resta in questa ottica. Non per caso ha avuto una discreta fortuna quella formula – «Veltrusconi» – che ci ricorda quotidianamente la difficoltà a cogliere vere differenze, soprattutto sui punti chiave che riguardano il futuro, nel momento in cui il Pdl ha rinunciato al suo programma di rivoluzione liberale e in cui il Pd cerca di affermarsi come l’erede di quella «forza di potere» che è stato l’Ulivo. A pensarci bene, i due partiti che aspirano a fare il pieno dei consensi rappresentano, con qualche aggiornamento e sotto altre spoglie, essenzialmente la continuità del bipolarismo iniziato nel 1994. Non ci sono, se non in modo marginale, culture aperte alle novità e ai problemi divenuti così urgenti in questo 2008. Ma quel che colpisce di più è l’idea proprietaria del sistema politico che trasmettono Berlusconi con continuità e Veltroni in modo un po’ più soft. Come se domenica e lunedì si svolgesse un referendum su loro due. Come se non ci fossero alternative. Addirittura, come se loro due fossero l’alternativa a se stessi. Come se non vedessero che in Italia ci sono altre idee e altre forze. Forse occorre riflettere un po’ su quel che è accaduto nei mesi scorsi.Veltroni era obbligato a rompere con la sinistra antagonista ed a chiudere una lunga storia in cui il riformismo era stato azzittito. Berlusconi non era obbligato a sciogliere la propria coalizione, ma lo ha fatto, dando anche delle spiegazioni. Entrambi si sono mossi contando sulla marginalizzazione degli esclusi e lavorando anche ad una legge elettorale ad hoc. Ma il dibattito e lo scontro, seguiti allo scioglimento delle Camere, hanno aperto scenari diversi, anche per la debolezza della proposta di Pd e Pdl. Paradossalmente Veltroni e Berlusconi hanno contribuito a creare un’offerta pluralista. L’elettorato ha dopo molti anni una più vasta possibilità di scelta. Soprattutto ha la possibilità di non consegnarsi mani e piedi ad un solo leader o ad una sola coalizione, come avvenuto nel 2001 e nel 2006. Questo discorso non riguarda solo la ragioneria contabile per la maggioranza al Senato, dove pure peseranno i voti raccolti da Casini, da Bertinotti, da Storace e anche da Boselli. È un discorso che invece riguarda più direttamente il dopo. Cosa accadrà se il Pdl non otterrà una vittoria piena? Quanto potrà pesare un centro politico? Quale sarà la capacità di attrazione, sul corpaccione dei due «colossi», di un’estrema destra e di un’estrema sinistra sopravvissute al tentativo di cancellarle? In sostanza, queste elezioni possono essere una svolta? Ci sono domande scomode, che molti si pongono. A renderle esplicite in questi giorni è stato soprattutto Casini, come ha scritto ieri sul Sole 24 Ore Stefano Folli. Sono domande che riguardano la possibilità che hanno gli italiani di dare il voto più utile per uscire dallo stallo, per evitare la paralisi e per impedire la continuazione di una inconcludente guerra tra due leader.
Pier Ferdinando Casini e Arnaldo Forlani a decisione dell’Udc di presentarsi da sola nel confronto elettorale ha naturalmente valutazioni diverse e anch’io ho già avuto occasione di esprimere alcune mie perplessità. Questo non può impedire alla vigilia del voto di dire con franchezza il proprio giudizio conclusivo e la scelta che esso comporta, per l’oggi ed anche in prospettiva.
L
L’iniziativa per un nuovo centro autonomo, libero da condizionamenti troppo personalistici, è nata per la consapevolezza di esperienze di governo poco positive. Nella prima repubblica, cosiddetta, avevamo cancellato le rovine della guerra e risalito la china di una secolare arretratezza, mentre ora in una classifica comunitaria europea siamo agli ultimi posti per dinamica di sviluppo economico-sociale; in termini sportivi possiamo dire che siamo in zona retrocessione. A Casini si è obiettato da più parti nella campagna elettorale che bisognava dire prima con chi il nuovo centro intende allearsi. Non sono d’accordo: alle elezioni si va per dire che cosa si è fatto nella legislatura conclusa e che cosa si vorrebbe fare nella prossima. Poi, sulla base dei risultati elettorali e di precisi punti programmatici, e proposte legislative, si decidono le formule di governo. Questa è la via più corretta in un sistema par-
lamentare. Ed è la ragione che porta a considerare scorretta la propaganda diretta a far credere inutile il voto all’Udc, propaganda che gran parte dei media tende ad assecondare. Se c’è larga insoddisfazione per i governi e per la politica in genere non vedo perché dovrebbe considerarsi inutile il voto per chi dimostra di avere maggiore consapevolezza di questa realtà e vuol favorire programmi più chiari, definendo anche la propria identità in modo più coerente. Credo che le suggestioni e la retorica di un certo presidenzialismo abbiano reso ora la politica italiana meno democratica
tuale confronto elettorale non hanno eguale linearità.
Ricordo infine che una condizione importante per il progresso civile e sociale del paese resta il rapporto di rispettosa e reciproca disponibilità dello Stato e della Chiesa a cooperare secondo le linee saggiamente ridefinite dal nuovo Concordato degli anni ottanta. Anche rispetto a questa esigenza, sempre più avvertita, per la crescente rilevanza di temi che interpellano la coscienza e la sensibilità di ogni cittadino di qualsiasi fede, l’Udc ha una posizione più chiara. Il suo programma e gli obiettivi di sviluppo e solidarietà mi sembrano meglio correlati alla cultura cattolica e alle grandi esperienze dei movimenti democratico cristiani che hanno accompagnato l’ammodernamento e la crescita dei paesi europei usciti decimati e distrutti dai mostruosi totalitarismi di un passato non troppo lontano. Questa rinascita è un’eredità che certo può essere ora assunta da tutti, ma l’Udc la propone in modo più conseguente e convinto. Con le revisioni che la globalizzazione e i nuovi scenari impongono, sia che si parli di liberalizzazioni o di tributi, di riequilibri o di energie alternative, di concorrenza o di mercato, credo che le posizioni dell’Udc costituiranno per il futuro e anche per un nuovo governo comunque un riferimento difficilmente eludibile.
Un’iniziativa nata dalla consapevolezza di esperienze di governo poco positive e partecipata, sempre più teatrante e ingannevole. Ma per fortuna siamo ormai radicati nel quadro comunitario europeo e spero che questo continui a condizionarci in modo positivo. Qui è, secondo me, la connotazione che deve caratterizzare in modo particolare la Udc. Una prospettiva nazionale di ripresa e di sviluppo infatti non esiste più al di fuori della Comunità europea e l’Udc è il partito italiano più chiaramente legato per identità e concreta esperienza alla forza maggioritaria dei popoli europei di ispirazione liberale, democratica e cristiana. Rispetto a questo orizzonte le coalizioni eterogenee dell’at-
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silvio e walter
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ROMA. «Siamo gli unici a dirlo: la Seconda Repubblica è fallita e si lascia dietro molte macerie. Le proprie e quelle ereditate dal quindicennio precedente. Da trent’anni in questo Paese non si vedono riforme. O se ne prende atto e si avvia una seconda ricostruzione o l’Italia non andrà lontano». Ferdinando Adornato descrive la situazione drammatica in cui si è cacciato il sistema e non dà per scontato un ravvedimento generale: «Servirebbe un patto costituente ma né Berlusconi né i suoi ex demonizzatori mi pare abbiano in mente questo». Non ha difficoltà a dire che «persino se l’Udc prendesse il 51 per cento non riusciremmo a venirne fuori: servono serietà, umiltà, etica della responsabilità da parte di tutti», ma rivendica anche «l’inizio di un percorso che il centro ha intrapreso e che potrà essere ulteriormente sostenuto con il voto». Dopodiché «bisogna che l’attuale schema si rompa, assolutamente». Si naviga allegramente verso l’iceberg, dunque. «Siamo alla conclusione di una fase storica, più tardi se ne prende atto e peggio sarà per l’Italia. Forse è il caso di ricordare come siamo arrivati a questo. E di riconoscere che i moderati hanno governato a lungo e bene nel dopoguerra, hanno fatto di questo Paese una potenza industriale, gli hanno consentito di crescere, fino a quando negli anni Ottanta si è rotto qualcosa. Si è persa quella che Aldo Moro definiva l’intelligenza dei governi, la capacità di una classe dirigente di prevedere per tempo gli avvenimenti e anticiparli con le riforme o nuovi assetti. In parte già negli anni Settanta c’erano state avvisaglie del disorientamento. Tangentopoli è stata semplicemente l’irruzione del giustizialismo in una crisi esistente». È venuta meno, questa intelligenza anticipatrice, anche rispetto a eventi che hanno cambiato la storia dell’Occidente, a cominciare dalla caduta del Muro. «Ma in nessun altro Paese occidentale si è verificato il crollo inaudito che è avvenuto da noi. Se l’Italia si fosse preparata come hanno fatto gli altri avremmo assistito a dei mutamenti, non a traumi. In quegli anni sono emerse questioni come la frattura Nord-Sud, da cui non a caso è nata la Lega. Abbiamo creduto che Berlusconi potesse risollevare l’Italia, ma questo non è avvenuto. Dall’altra parte si è creduto che bastasse demonizzare Berlusconi per acquisire la patente di modernizzatori, e il Paese non è cambiato di una virgola». Sono rimasti al loro posto tutti gli ostacoli. «Certo, il governo di centrodestra ha introdotto elementi nuovi come la legge Biagi, ha dato avvio alle infrastrutture. Ma è mancata comunque l’innovazione più importante, quella che riguarda la costruzione del consenso: Berlusconi ha sempre pensato che la chiave di tutto fosse nel voto degli elettori, ma non è così. Bisogna mettere in campo una classe dirigente, un sistema di mediazioni con i vari poteri, va assicurata la coesione tra le parti sociali. Possiamo dire
Adornato: «Sono trent’anni che accumuliamo macerie»
Seconda Repubblica fallita:cambiamo o si rischia grosso colloquio con Ferdinando Adornato di Errico Novi che si guardava a Forza Italia nel ’94, oggi siamo al ”Rialzati Italia”, ma insomma il Paese è sempre lì che si deve ancora rialzare». È un’analisi impietosa che nessuno ha il coraggio di fare. «E questo è drammatico. Se si sbaglia l’analisi viene male anche l’azione successiva. Noi dell’Udc siamo i soli a fare un discorso del genere ma non basta. La cosa più saggia sarebbe eleggere un’Assemblea costituente insieme con le Europee dell’anno prossimo, lavoriamo per questo percorso. Ci si arriva però se superiamo l’attuale bileaderismo coatto, fondato sull’illusione pubblicitaria». Alla fase costituente il centrodestra rischia di arrivare disorientato, se è vero che il Pdl nasce senza sapere ancora come sarà il dopo Berlusconi. «Continuo a credere nel grande partito dei moderati. Berlusconi aveva iniziato a costruirlo dopodiché ha scelto di seguire la strada del leaderismo. L’Udc nasce con l’obiettivo di fare da sponda a un processo alternativo per la casa dei moderati.Visto che non lo faranno gli al-
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tri ci penseremo noi». Casini ha annunciato che dopo il voto partirà una Costituente di centro guidata da Cesa, Buttiglione e Pezzotta. «È una grande prospettiva, quella che Casini sta indicando. I nomi non sono un problema, l’importante è che a comporre e a guidare questa Costituente siano i tre soggetti che danno vita all’Unione di centro: l’Udc, la Rosa bianca e il Movimento liberal». Si tratta di un percorso impegnativo, lungo il quale troverete macerie appunto. «Ai ritardi storici degli anni Ottanta si sono aggiunti gli altri. La prova è nella crisi dei rifiuti, che poteva essere evitata con i termovalorizzatori già dieci anni fa, o nel rischio fallimento Alitalia, pure noto da tempo». Si parla sempre di vicende che avrebbero richiesto il coraggio dell’impopolarità. «E infatti quando parlo di illusione pubblicitaria e incapacità di innovare la costruzione del consenso mi riferisco proprio all’idea sbagliata che tutto possa ridursi al rapporto tra leader e popolo. In
Il bileaderismo coatto non va oltre il compiacimento dell’opinione pubblica: così le riforme non si fanno, ma solo noi dell’Udc lo diciamo
”
un quadro del genere è evidente che le riforme non possono starci. Il punto è che l’offerta politica di Berlusconi e Veltroni è sempre la stessa. Il primo va avanti semplicemente rinunciando al centro, il secondo si libera della sinistra, e forse è una cosa sensata, ma poi asseconda la stessa scelta leaderistica del rivale». I programmi si sono avvicinati molto. «Cosa che non mi scandalizza perché, ripeto, il problema è nell’offerta politica: si può promettere tutto quello che si vuole, ma se l’unica preoccupazione è salvaguardare il rapporto diretto tra opinione pubblica e leader le scelte non si fanno mai». Sarà difficile modificare lo schema del bileaderismo. «Attenzione: la ricerca del consenso diretto ci vuole: semplicemente è il cinquanta per cento di quello che serve a un Paese coeso, il resto si trova con la rete di mediazioni, il rapporto col territorio. Certo i partiti coalizione sono lontani dal fare quest’analisi, gli unici ad avere il coraggio di farne parte del programma siamo noi dell’Udc, e adesso l’elettorato che lamenta l’assenza di riforme sa a chi rivolgersi». Molti segnali di questa campagna elettorale fanno pensare a una regressione infantile del sistema. «Torna a soffiare un vento di secessione del Nord. Quando Bossi parla di fucili annuncia un ritorno a una maggiore intensità della sua azione politica. Certo siamo tornati alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca. E c’è un’altro segnale di allarme straordinario, la perdita di unità tra le regioni: l’emergenza in Campania e il no di Lombardia o Veneto a dare una mano ci ricordano che questa non è più l’Italia dell’alluvione di Firenze, quando tutti corremmo in soccorso. Poi non c’è più il senso del dovere, nemmeno a scuola». Ed è difficile imporlo ai ragazzi quando la classe dirigente non lo considera una priorità. «Non c’è dubbio. Aggiungiamoci l’attacco anticlericale da parte dei laicisti, che in realtà colpisce l’unità spirituale del Paese. Per superare tutto questo non serve una grande coalizione ridotta a intesa di potere, ci vuole un vero governo di unità nazionale, il ritorno alla politica con la P maiuscola, la consapevolezza che l’Italia ha l’acqua alla gola. Per ora siamo alla chiamata alle armi dello zio Tom». C’è un deficit di cultura politica: in queste condizioni le prese di coscienza sono difficili. «Se noi dell’Udc ci richiamiamo ai valori cristiani e liberali non è per fregiarci di un orpello retorico: ci riferiamo alle grandi culture di governo di De Gasperi e Einaudi proprio perché vogliamo riportare i moderati alla guida dell’Italia. In fondo Berlusconi in questi quindici anni ha evocato un Dc liberale: un grande capolavoro politico che a un certo punto ha abbandonato. Ora siamo noi a dover riproporre le culture di governo dei moderati per ricostruire l’Italia».
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politica Gli italiani che vivono all’estero sono 2.623.382 e quest’anno per la seconda volta nella storia della Repubblica italiana hanno la possibilità di esprimere il loro voto. Hanno, infatti, ricevuto a casa le schede riprodotte qui sotto: per la Camera e per il Senato
L’esperienza di un italiano all’estero che ha ricevuto e spedito via posta le schede elettorali
Ho già votato a Parigi. A casa mia di Enrico Singer o ho già votato. A casa, ieri mattina davanti a una tazza di caffelatte, facendo attenzione a non macchiare le due schede: quella tutta grigia per la Camera dei deputati e quella azzurrina per il Senato. Ho messo le due X regolamentari con una penna a biro (blù o nera è lo stesso, dicevano le istruzioni) e mi sono anche lasciato tentare dalle preferenze. Il privilegio di poter scegliere guardando le facce – e le biografie – dei candidati che nei giorni scorsi mi avevano riempito la cassetta delle lettere con i loro volantini, ha avuto un effetto irresistibile. A questo punto lo avrete già capito: sono uno di quei due milioni e mezzo di italiani (per l’esattezza 2.623.382) che vivono all’estero e che, per la seconda volta nella storia della Repubblica, hanno avuto la possibilità di esprimere il loro voto per posta. Forse potevo aspettare qualche giorno. Per non perdermi qualche altra battuta della campagna elettorale. Ma mi sono convinto che l’ultimo termine utile per votare fosse proprio ieri perché la lettera del Consolato di Parigi che accompagnava il plico con le schede e tutto il resto – arrivato puntualmente già il 24 marzo – specificava al punto “g” delle istruzioni che “la busta con le schede deve essere spedita in modo che arrivi all’Ufficio consolare entro e non oltre le ore 16 del 10 aprile”. Le poste in Francia funzionano bene, ma un po’ di prudenza non guasta. Ci vuole sempre un margine di sicurezza. Anche perché il punto “h”, tutto scritto in neretto, era quasi minaccioso: “le schede pervenute successivamente al termine indicato non potranno essere scrutinate e saranno incenerite”. La prospettiva che il mio diritto-dovere di cittadino, per quanto trasferito all’estero ormai da diciotto anni, po-
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tesse finire “incenerito”più un giro di telefonate con gli amici italiani per scoprire come si comportavano, mi hanno convinto: per me le elezioni ci sono state ieri.
La busta è partita. Tutto secondo le regole. Tutto ad accezione del rispetto di un principio che, pure, è scritto bene in evidenza in un riquadro rosso delle istruzioni: “il voto è personale, libero e segreto”. Proprio come garantisce la Costituzione. Ma come segreto? Il voto per corrispondenza non prevede cabine elettorali. Io ho votato in cucina facendo colazione. Ma avrei potuto votare anche al bar o a casa di un
avrei potuto combinare con il mio prezioso plico. Nel 2006 – allora vivevo a Bruxelles – ci furono polemiche di fuoco sui possibili “brogli” consumati con il voto per corrispondenza. Si parlò di galoppini dei partiti che giravano per le case – soprattutto quelle degli italiani emigrati all’estero da decenni se non da generazioni – a chiedere se avevano davvero intenzione di votare offrendo agli incerti tra i 50 e i 100 euro in cambio del-
Continuano le polemiche sui possibili brogli: tra denunce di schede comprate o mai consegnate
amico. Magari anche di fronte a uno dei candidati. E come personale? Avrei tranquillamente potuto passare le mie schede a un altro senza che nessuno se ne accorgesse.Voto libero, questo sì. Anzi, liberissimo visto tutto quello che
le schede e dei certificati elettorali. Un servizio tv mostrò anche scatoloni di certificati elettorali in una stanza. Un candidato si autodenunciò ammettendo di avere comprato mille voti, ma di averne poi contabilizzati appena la metà come preferenze. E anche questa volta la storia si ripete come dimostra le denunce di compravendita di schede in Germania. A che punto stanno le indagini su questi presunti brogli, francamente non lo so.
E devo dire che da me nessuno si è presentato, né a Bruxelles, né adesso a Parigi, a chiedere schede o a comprare voti. Forse perché anche i galoppini più sfrenati si rendono conto che bussare alla porta di un giornalista può essere pericoloso. Ma è certo che, viste da qui, le dichiarazione barricadere di Umberto Bossi contro le schede poco chiare e le misure annunciate da Giuliano Amato per impedire di portare nelle cabine elettorali i telefonini che fanno foto o riprese tv, sembrano lunari. Se in Italia è così forte il pericolo del “voto di scambio” tanto che il ministro degli Interni sospetta che normali cittadini possano documentarlo fotografando le loro schede votate prima di infilarle nell’urna, allora bisogna dire che all’estero, con il sistema del voto per corrispondenza che si è scelto, questo pericolo è ancora più forte. Anche se Amato non ci pensa e nessuno ne parla.
Eppure più di due milioni e mezzo di voti “senza controllo” non sono poca cosa. Non solo: il meccanismo per rendere il voto degli italiani all’estero uguale a quello di tutti gli altri italiani non sarebbe, poi, così complicato. Anzi – stranezza delle leggi – è già usato per le elezioni europee che, tra l’altro, sono state le prime alle quali hanno potuto partecipare anche agli italiani all’estero a partire dal lontano 1989. Per le europee i consolati aprono dei veri e propri seggi nelle principali città e si vota nelle classiche cabine, con le schede e le matite. Certo, le elezioni per il Parlamento europeo si svolgono soltanto nei Paesi della Ue e non in America e in tutto il resto del mondo. Estendere questo sistema costerebbe probabilmente qualche milione di euro. Ma sarebbe più serio che vietare i videofonini nelle cabine elettorali.
politica
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Pagano tutto e decide tutto, senza coordinarsi con gli alleati ROMA. «Signori, da oggi il capo è Berlusconi. Se io sarò capogruppo in Senato non lo devo a Fini, ma al mio rapporto diretto col Cavaliere e ognuno si giocherà il suo futuro allo stesso modo. Senza far male a Gianfranco, per carità, però la situazione è questa». Maurizio Gasparri, in una riunione con alcuni colleghi della sua ex corrente (Destra Protagonista) tenuta a Roma qualche giorno fa, non ha usato giri di parole per raccontare la mutazione genetica del centrodestra seguita alla nascita del Partito delle libertà. Non è più solo Forza Italia, infatti, ma l’intera coalizione a vivere qualche passo alle spalle del suo leader. Alleanza nazionale, il terzo partito italiano per elettori, non fa eccezione: sembra essersi dissolta nella stessa quantità di tempo che Silvio Berlusconi ha impiegato a scendere dal predellino di San Babila. Impressione drammatica, ma avvertita dai suoi stessi iscritti e militanti. Quanto accaduto a Gianfranco Fini a Palermo riassume plasticamente questa dissoluzione: il capo di An si presenta per un comizio al cinema Imperia e la sala è pressoché vuota, mentre sulle poltrone trovano spazio una bella quantità di volantini che informano sugli impegni elettorali dei candidati siciliani di Forza Italia. Risultato: i vertici di zona del partito sono stati fatti fuori. «A volte bisogna avere la generosità di fare un passo indietro», ha spiegato in più di una occasione Gianfranco Fini durante questa campagna elettorale.
Eppure è forte l’impressione che all’ex ministro degli Esteri e probabile prossimo presidente della Camera riuscirà oramai difficile fare un passo in avanti quando lo riterrà necessario. Un partito è una macchina delicata, assai faticosa da costruire e molto facile a danneggiarsi definitivamente. Tornano in mente, ora che certe impressioni si rivelano esatte, le battute un po’ disperate di alcuni onorevoli di
Potenza del denaro: come An è stata invasa da Forza Italia di Marco Palombi
An al momento della composizione delle liste elettorali: quelli che cantavano l’inno di Forza Italia, quelli che chiedevano facendo l’occhiolino «ma
territoriale di Alleanza nazionale, la sua forte identità, la sua antica capacità organizzativa, in definitiva la sua superiore civiltà politica avrebbero
potenziando le sedi di An: Forza Italia organizza molti più eventi, paga i manifesti, ordina e gestisce i gadgets. E decide, ovviamente, nella più totale
Fini e i suoi scommettevano sul radicamento territoriale del partito. Ma in campagna elettorale la leva economica degli azzurri ha avuto la meglio sulla macchina organizzativa degli aennini tu ce l’hai il numero di Silvio?», quelli che «se c’erano le preferenze sai quante volte ce li avevo già mandati». La dissoluzione psicologica del partito, a questo punto, è avvertita anche da coloro che ne sono la spina dorsale: i militanti, i funzionari, gli uomini macchina. Gianfranco Fini e i suoi scommettevano che il radicamento
finito per soverchiare Forza Italia. «La Grecia conquistata, conquistò il feroce vincitore», secondo la formula oraziana. Ma la cosa è andata altrimenti. In tempo di elezioni, come dicono negli Stati Uniti, money talks, bullshit walks. Ovvero, eufemizzando, contano i soldi. Ed è proprio con la leva economica che gli azzurri stanno de-
mancanza di coordinamento con gli alleati. Senza contare che la macchina comunicativa forzista non ha rivali e a Palazzo Grazioli non ci pensano nemmeno a condividerla coi nuovi colleghi di partito. Non è un caso che i primi malumori espliciti dal territorio siano già cominciati ad arrivare a via della Scrofa. Ufficial-
mente i finiani negano e ufficiosamente tentano di mettere a tacere i dissenzienti confidando nel balsamo di una larga vittoria elettorale col suo carico di potere e visibilità: «Se non si vince, e bene, la strada verso il partito unico non sarà facile», ammettono candidamente dal quartier generale di An. Ma per infondere tranquillità alla base non basta un nuovo governo Berlusconi.
Già il 13 e 14 aprile si voterà anche per i comuni e le province e la preoccupazione, per i più, è che un intero, orgoglioso ceto politico locale - sopravvissuto semiclandestinamente durante la Prima Repubblica e giunto improvvisamente al potere nella Seconda - ora si trovi a rischio estinzione per essersi legato mani e piedi a un alleato tanto più grande e di spregiudicato lui. I casi sono molti, e più spinosi laddove la “concorrenza interna” tra azzurri ed ex missini è stata più forte in questi anni. La provincia di Latina, ad esempio, è una delle zone in cui più radicato è l’orgoglio missino e che, ai tempi in cui sindaco era l’ex Rsi Aimone Finestra, ha visto esplodere un duro scontro An-Fi sul piano regolatore: ora militanti e dirigenti di base vivono con più di una perplessità la dissoluzione nel Pdl, tanto che l’ultimo comizio di Gasparri in città si è svolto in un imbarazzante silenzio. Stessi sentimenti esplosi in queste settimane, per citare qualche caso, nella zona di Trieste, in Piemonte o in Sicilia. Un esempio di più. Sul Corsera di venerdì si poteva leggere questa frase rivolta da Roberto Menia, finiano di ferro, al suo presidente: «Ma davvero il nostro destino è finire nel Pdl?». Forse il loro destino, ab origine, è proprio questo: «Il passo delle oche di An - ha scritto Alessandro Giuli nel suo pamphlet - è un’andatura senza progetto, senza un obiettivo che coincida con la legittima aspirazione alla conquista del potere e con la sua amministrazione nel giorno per giorno».
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politica
Campagna elettorale agli sgoccioli. La ricerca di visibilità ossessiona i candidati
Caccia al voto “last minute” d i a r i o
d e l
g i o r n o
Elezioni: sui ricorsi decidono le Camere «Sui ricorsi in materia elettorale può decidere solo il Parlamento». Lo ha deciso ieri la Corte di Cassazione. Le sezioni unite civili della Suprema Corte hanno esaminato il ricorso circa l’ammissione alle elezioni della Dc di Giuseppe Pizza. Al termine, ha sancito che «anche per i ricorsi relativi alle procedure pre-elettorali, l’unico organo competente a decidere sono le Giunte delle elezioni di Camera e Senato», e non la giustizia amministrativa. Sempre di ieri la notizia che è decaduto definitivamente il rischio di rinvio delle elezioni politiche e amministrative dovuto proprio alla Dc di Pizza. Il consiglio di Stato ha infatti dichiarato estinta l’ordinanza con la quale la Dc era stata riammessa alle elezioni».
Casini: «Se Pdl non vince ok grande coalizione» «Se Berlusconi non riesce a vincere si farà da parte e si troverà una soluzione che potrebbe essere una grande coalizione alla tedesca, non un inciucio come quello voluto da Berlusconi e Veltroni». Lo ha detto il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini intervenendo a Porta a porta , aggiungendo inoltre «che lo stesso discorso vale anche per Veltroni, anche se l’ipotesi che vinca Veltroni non la prendo neanche in considerazione perché non la credo plausibile». Casini ha ribadito che quella di staccarsi dal centrodestra «è una scelta serena e fatta per difendere i valori».
di Nicola Procaccini
Berlusconi: «Mai detto che Bossi è malato» ROMA. A poche ore dal voto, la politica italiana sembra un frullatore impazzito. I leader in competizione, particolarmente Berlusconi e Veltroni, usano slogan e linguaggi esasperati perchè la conquista di una fetta di visibilità, ai loro occhi, conta più della descrizione di un’identità politica. Che, se c’è, ha bisogno di tempi lunghi per essere metabolizzata. La ricerca di scorciatoie per la conquista del consenso elettorale last minute pregiudica il racconto della loro “visione”. E’ sempre più difficile raccogliere in tv o sui giornali delle novità dirimenti sotto il profilo dell’economia, della società, della cultura. Si sparano dichiarazioni esplosive per strappare il titolo di un quotidiano e per farsi ricordare dall’elettorato. Della serie: «purchè se ne parli». Il problema è che la politica con la P maiuscola è stata quasi sempre assente in questa campagna elettorale. Ci sono stati alcuni sprazzi di luce come la discussione sull’aborto e la maternità, la polemica su libertà e protezionismo, ma per lo più si è andati avanti per improvvisazioni. Ad essere onesti, bisogna riconoscere che la brusca caduta del precedente governo ha spiazzato un po’ tutti, persino coloro che se lo sono augurati per venti mesi. Il diario della giornata di ieri, dunque, è il racconto di una lunga serie di affermazioni roboanti. La Lega Nord, in questo senso, ha dato per due giorni consecutivi. Per spegnere la tensione tra Berlusconi e Umberto Bossi, il
Pdl ha usato tutti gli estintori possibili. Ma resta nelle parole di Alemanno la sacrosanta recriminazione di doversi difendere anche dai propri alleati. «Quelle di Bossi sono battute sceme, fuori luogo, sicuramente censurabili ma non fanno la politica». Così Gianni Alemanno, candidato Pdl alla poltrona di sindaco di Roma, ha commentato la sortita di Umberto Bossi sull’intenzione di imbracciare i fucili contro i romani, colpevoli di aver stampato delle schede elettorali tali da indurre i
Si sparano dichiarazioni esplosive per strappare il titolo di un quotidiano e per farsi «ricordare» dall’elettorato cittadini all’errore. Dicevamo che la Lega ha tenuto un profilo basso nel corso della giornata, ma, evidentemente, nessuno ha avvisato Mario Borghezio: «L’unica chance per il Nord è la presenza di Bossi al governo – ha dichiarato l’europarlamentare leghista – se non c’è, tanto vale riprendere la lotta dura e pura. Come dico da sempre: ci vuole la secessione, l’unica via rapida e giusta per ottenere la libertà, senza se e senza ma».Veltroni, dal canto suo, ha continuato anche ieri a cavalcare la questione
Lega Nord ed ha chiesto a Silvio Berlusconi di fare insieme una sorta di giuramento di fedeltà istituzionale che riguarda quattro punti: «tutela dell’unità dello Stato italiano; rifiuto di ogni forma di violenza praticata o dichiarata; fedeltà alla Costituzione repubblicana; fedeltà alla bandiera tricolore e all’inno di Mameli. Ciascun candidato - ha detto Veltroni - prenda l’impegno solenne su questi quattro punti a nome della sua coalizione». Il candidato premier del Popolo della libertà ha fatto spallucce, per non farsi dettare l’agenda elettorale dal concorrente del Pd, e nella giornata di ieri si è scagliato contro la magistratura. «Il pubblico accusatore deve essere sottoposto periodicamente ad esami che ne attestino la sanità mentale» ha detto il leader del Pdl, nel corso di un comizio a Savona. Un’uscita destinata ad alimentare polemiche a non finire. D’altra parte, ci si chiede perché solo i giudici e non anche i medici o i poliziotti, data la delicatezza del loro mestiere, non dovrebbero sottoporsi a dei test di salute mentale. Berlusconi ha poi aggiunto nelo stesso comizio: «Innalzeremo il bonus per i bebè a 1500-2000 euro». Veltroni, a quel punto, non poteva essere da meno del candidato del Pdl ed ha dichiarato: «Al primo Consiglio dei ministri istituiremo il compenso minimo legale per ragazzi che fanno lavori precari o atipici». Insomma, la campagna elettorale italiana, ormai, scivola via così.
Il candidato premier del Pdl Silvio Berlusconi, intervenendo ieri a Sky Tg 24 è tornato sul caso Bossi e sulle frasi da lui pronunciate. «Leggo di un contrasto totalmente inventato. Ormai la Repubblica fa a gara con l’Unità nel gioco a disinformare». Berlusconi ha poi precisato: ”Disdico tutto. Non abbiamo mai parlato di ministri. Solo Tremonti e Prestigiacomo sono ministri certi. Non ho neanche mai detto che è malato. Sono stanco di domande postemi apposta per far sorgere un caso che non esiste».
Dal Viminale manifesti «per votare correttamente» «Un solo segno su un solo simbolo», è l’indicazione per le elezioni politiche che sarà riportata su migliaia di manifesti elettorali affissi all’interno di tutti i seggi d’Italia. Ne ha dato notizia il Viminale, impegnato a prevenire confusione al momento del voto e degli scrutini. «E’ uno slogan facile da ricordare», che il ministero degli Interni ha ritenuto necessario dopo le polemiche sorte negli ultimi giorni. In particolare, il Viminale ha precisato che gli annullamenti dovuti a un possible ”sconfinamento” della linea tracciata non sono comunque possibili: «La legge prevede infatti che, se il segno dovesse invadere altri simboli, il voto si intende riferito al contrassegno su cui insiste la parte prevalente del segno stesso. Il voto, dunque, è valido. In questo modo la volontà dell’elettore non è messa a rischio da eventuali errori materiali».
Bertinotti: «Crisi governo fu colpa dei moderati» Secondo il leader della Sinistra Arcobaleno, Fausto Bertinotti, «il governo Prodi è caduto per il logoramento con la sua base elettorale e perché è stato condizionato dai moderati». Bertinotti esclude dunque una diretta responsabilità della sinistra e attribuisce invece alle forze moderate un ruolo più decisivo: «La critica della sinistra ha segnalato uno stato di pre-crisi, ma il governo è stato condizionato dalle forze moderate, come Dini e Mastella. Ma anche il premier ha le sue responsabilità».
politica
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Bufera sulle nomine di dirigenti e sovrintendenti a via del Collegio romano
Beni culturali, l’ultimo blitz di Rutelli di Riccardo Paradisi
ROMA. «Le 216 nomine di dirigenti fatte al ministero per i Beni e le attività culturali da Francesco Rutelli rischiano di compromettere l’attività di tutela e di salvaguardia del patrimonio culturale italiano». La durissima accusa, rivolta al gabinetto del ministro Francesco Rutelli, proviene dai sindacati di via del Collegio romano, Uil e Unsa in testa, che non si limitano a denunciare la qualità delle nomine ma denunciano anche il metodo con cui sono state fatte. Gli uffici del gabinetto del ministro, dicono i sindacati, non hanno infatti tenuto nel minimo conto i criteri di competenza, capacità e rotazione con cui avrebbero dovuto essere fatte le nomine. Non solo: le nomine di dirigenti e sovrintendenti avrebbero un grave vizio di forma tanto da essere addirittura incostituzionali. I direttori generali del ministero che le hanno proposte non hanno, ancora ad oggi – dopo la loro nomina avvenuta lo scorso dicembre – il loro contratto regolarmente registrato alla Corte dei conti. Si chiude dunque con una polemica rumorosa un biennio che ha fatto registrare tensioni acutissime all’interno dei Beni culturali. Polemica che ci ha messo poco a estendersi da via del Collegio alle soprintendenze e alle direzioni di tutta Italia. Dove è apparso evidente che merito, competenza e capacità non sono stati certo i criteri guida delle scelte fatte.
Le 17 nomine che all’interno delle 216 erano di competenza diretta del ministro d’altra parte escludono e non confermano funzionari di rilievo che all’interno del ministero sono considerati universalmente di grande levatura. Vengono esclusi dal novero delle nomine ministeriali figure come Maurizio Galletti,
sovrintendente di lungo corso a Genova, Perugia, Roma l’Aquila; Francesco Paolo Cecati, sovrintendente a Cosenza, Marina Messina, non confermata alla soprintendenza di Milano che peraltro resterà scoperta e andrà un sostituto ad interim. Fonti interne a via del Collegio romano garantiscono che in queste decisioni non hanno minimamente contato i curriculum, la loro comparazione, le cose fatte e le capacità dimostrate. La logica seguita sarebbe quella denunciata dai sindacati: squisitamente politica e preelettorale. Sulle nomine per le soprintendenze locali stessa musica. In Toscana il sindacato Uil ha per esempio duramente contestato la nomina a soprintendente di Arezzo di Vittoria Garibaldi, già bocciata ai concorsi da diri-
nistero. Se la loro nomina non è stata ratificata dalla Corte dei conti le nomine che a loro volta fanno i dirigenti – ammesso, come dice Marcucci che siano all’altezza delle esigenze di conservazione e tutela – sono esse stesse regolari? Secondo Gianfranco Cerasoli, segretario generale Uil Beni e attività culturali la risposta è «No» «Le nomine dei direttori generali centrali e regionali», spiega infatti l’esponente sindacale, «non sono ancora registrate sicchè esiste il rischio concreto che tutti i loro atti, compreso questo diluvio di nomine, siano impugnabili da parte di terzi. Un’eventualità grave naturalmente, ma che vista la qualità delle nomine, fatte salve alcune eccezioni, costituirebbe il male minore». Cerasoli la pensa molto
Denuncia dei sindacati: dettare le promozioni nelle soprintendenze e nelle direzioni, non sono state le competenze o il principio di rotazione, ma solo la logica di appartenenza politica gente e malgrado questo nominata, dai piani alti di via del Collegio romano, direttore regionale dell’Umbria. «È vergognoso e gravissimo», ha commentato a questo proposito la Uil toscana, «che non vengano nominati i vincitori di regolari concorsi ma si ricorra a nomine esterne come nel caso di Vittoria Garibaldi». Ma quella che per il sindacato è un’ingiustizia per il sottosegretario dei Beni culturali Andrea Marcucci è una scelta oculata: «Le nomine firmate dal direttore regionale Mario Lolli Ghetti sono all’altezza delle esigenze di conservazione e tutela della nostra regione». Punto. Però è sulla nomina dei direttori regionali, Lolli Ghetti, che restano i dubbi sollevati dai sindacati del mi-
diversamente dal sottosegretario Marcucci anche sul merito delle nomine naturalmente.Tanto da rivolgere un appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «affinché intervenga per evitare che queste nomine compromettano l’attività di salvaguardia del patrimonio culturale italiano. La nomina di dirigenti incaricati della tutela dei patrimoni infatti», continua l’appello, «non può essere considerata come un esercizio burocratico ma deve rispondere al principio costituzionale dei Beni culturali. Si sono invece varate delle nomine senza alcun rispetto dei criteri di competenza, capacità e rotazione dopo cinque anni di permanenza nella stessa sede. Vengono mantenuti invece in molte
soprintendente archivi e biblioteche dirigenti che hanno dimostrato una totale incapacità di gestione e di spesa delle ingenti risorse che sono state assegnate e ancora giacciono in cassa – circa 500milioni di euro – per le quali, è bene ricordarlo, lo Stato in mancanza di liquidità, emette Bot e Cct sui quali tutti i cittadini pagano le tasse. Una cosa grave, tanto più se si pensa che la scelta dei dirigenti determinerà le sorti del nostro patrimonio per i prossimi anni».
Ma non c’è solo il problema del criterio e della qualità delle nomine. La stessa logistica della riorganizzazione del ministero appare bizzarra: restano infatti scoperte soprintendenze importanti quali quelle di Napoli ma anche quelle a competenza mista della Toscana mentre la Calabria, dove non c’è nemmeno un direttore generale, è totalmente abbandonata al suo destino, mentre a Milano così come in tante altre soprintendenze – L’Aquila, Trieste, Ancona, Reggio Calabria, Latina – ci saranno degli interim. Il ministero presenta poi una spaventosa carenza di architetti, storici, tecnici, restauratori, ingegneri, fisici, chimici: un deficit di organico per cui non è pronta nessuna strategia di risposta malgrado il fatto che per poter applicare il nuovo Codice dei Beni culturali, che prescrive l’obbligo di risposte sulla tutela paesaggistica in 15 giorni rispetto ai 60 precedenti, i tecnici servono. È questo quello che accade, dicono all’interno dei Beni culturali, quando si pretendono di fare delle riforme con l’invarianza della spesa e senza considerare gli oneri indiretti. Chiunque fra qualche settimana prenderà in mano il dicastero di via del Collegio romano avrà un’eredità molto pesante da gestire.
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L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Il Cavaliere e le domande retoriche
Quella telefonata a casa del Senatùr di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza «C’è davvero bisogno di domande retoriche?»: secondo noi questa è la migliore tautologia che spiega una domanda retorica. Ovviamente si tratta di un esempio inventato da Umberto Eco che è stimato direttore del Dipartimento di Tetrapiloctomia, della Facoltà di Irrilevanza Comparata. C’è davvero bisogno di domande retoriche? Cioè - come insegna qualsiasi dizionario – di domande che sotto il profilo sintattico e semantico, non presuppogono risposta? Anzi che non sono formulate per ottenere un’infomazione, semmai per ottenere una risposta predeterminata, o al limite per eliminare tutte le affermazioni che contrasterebbero con l’affermazione implicita nella domanda stessa? Boh! Secondo noi no. Così non la pensano gli speech writer di Silvio Berlusconi. I discorsi pubblici di questa campagna elettorale sono tutti costruiti intorno a questa figura retorica. Berlusconi arringa la folla proponendo una serie di domande la cui risposta è un «sì» urlato. Per esempio: «ne avete abbastanza di chi predica bene e razzola male?», «ne avete abbastanza di chi predica i tagli dei costi della politica e poi si prende i soldi della pensione a cinquant’anni?» e così via in un crescendo che alcuni siti di spindoctor paragonano alla comunicazione sacra.
Ed infatti impressiona pure il nuovo look,“noir limite”, adottato dal Cavaliere, un misto tra il prete e il giovine discotecaro agghindato simil Prada. La liturgia spesso funziona, ed è scontato che gli accoliti si scaldino potendo in massa gridare «sì» a domande che prevedono, di fatto, solo la risposta «sì». Forse è l’inveramento di una nuova democrazia senza pensiero. Forse l’applicazione di una cattiva retorica senza un redivivo Quintiliano. E’ difficile stabilirlo. Per questo preferiamo infinitamente domande aperte e con risposte complicate tipo: Qual è il contrario del contrario? Se qualcuno vi dice di essere un bugiardo cronico, voi gli credete? Adamo aveva l’ombelico? Perché “separato” si scrive tutto insieme quando “tutto insieme” si scrive separato? Perché “abbreviazione”è una parola così lunga?
Squilla il telefono a casa di Umberto. «Pronto, sono Silvio. Umberto è in casa?». «Ah, Cavaliere, come sta? Sta bene? Mi fa piacere, un attimo che le passo Umberto». Silenzio, si sente qualche passo, poi la voce roca dell’Umberto che dice alla moglie: «Dai, continua tu, metti un po’ di olio nel grilletto che è ancora troppo duro». «Pronto, Silvio, ma che cavolo dici sulla mia salute, lo sai che sto benone. Piuttosto, a me pare che tu e Gianfranco siate un po’ di giù di corda. Come state? Su, forza, rialzatevi». «Senti Umberto, ti ho chiamato per dirti che non volevo offenderti. Ho parlato delle tue condizioni di salute solo per rispondere alla domanda di un giornalista. Lo so che sei in forma. E per i ministri vedremo, non ne abbiamo ancora parlato». «Caro Silvio, stai tranquillo, adesso si vota, dopo si fa il governo. Hai visto quel che dice il sindaco di Venezia? Dice che non ci sto con la testa perché sono sofferente. In pratica dice quello che hai detto tu. Pensa un po’: sto come sto e ho fatto un accordo che ha messo te e Gianfranco con due piedi in una scarpa, e se stavo benissimo cosa avrei fatto?». Silvio un po’ preoccupato: «In tutta sincerità devo dirti che sei quello che ha la testa che funziona meglio. Stammi bene, devo andare, che non mi sento tanto bene». Clic.
La campagna elettorale su Internet/ Il flop “obamiano” dei democratici
“I’m Pd” imbarazza il popolo della Rete di Andrea Mancia Le elezioni politiche (su Internet) del 2008 saranno certamente ricordate come l’anno dei video. E la causa di questo fenomeno è piuttosto semplice da rintracciare: l’esplosione – tutto sommato recente – di siti web come YouTube, che permettono ai loro utenti di condividere video amatoriali (e non solo) con tutti gli utenti della Rete. Negli Stati Uniti hanno fatto scuola, sempre in quest’ultimo ciclo elettorale, i video della “Obama Girl” che, sculettando, invita a votare per il senatore dell’Illinois a ritmo di un hiphop molto soft. Avendo copiato a Obama lo slogan della campagna elettorale (e la vaghezza, per così dire dei contenuti), è naturale che ai democratici (e in particolare alla sezione lom-
barda del partito) sia venuto in mente di copiare anche questo video, che in pochi mesi era diventato un fenomeno “cult” a livello planetario. Purtoppo per il Pd, però, l’operazione - che si
è cnretizzata nel video “I’m Pd” - si è rivelata un vero e proprio boomerang mediatico. Immaginate il remix di un immortale inno della comunità
gay (la canzone “Ymca” dei Village People) montato su una parata di improponibili – e spesso imbarazzanti – volti di esponenti della “società civile”. Un tentativo poco riuscito, insomma, di mostrare il proprio lato autoironico. La reazione di disgusto dei blog vicini alla sinistra è stata immediata. Suzukimaruti è perfido: «Ai tempi del Pci un’operazione simile sarebbe finita con un bel processone politico, una lettera indignata ai compagni della federazione di Milano, un sano commissariamento della suddetta e una polemica culturale contro i giovani su Ri-
nascita. E niente viaggio in delegazione sull’Oder per i colpevoli di tale affronto. Per certe cose era meglio quando c’erano gli Squallor». Ed Emmebi rincara la dose: «più si è trash e meglio è», aggiungendo che «gli autori rischiano di subire anche delle pesanti penali dagli aventi diritto del brano dei Village People per non aver chiesto nessuna autorizzazione». Cosa che puntualmente si è verificata pochi giorni più tardi, portando alla “rimozione” del video da YouTube. Ormai, però, gran parte del danno era stata fatta. E i sostenitori del Pd, anche quelli innocenti, avevano fatto la stessa figura barbina che era toccata ai berlusconiani quando era stato diffuso l’inno “Meno male che Silvio c’è”.
Questo episodio di cronaca dovrebbe far riflettere chi ha intenzione di utilizzare la diffusione “virale” delle informazioni durante le campagne elettorali. Internet è uno strumento potentissimo, ma è in grado di provocare danni con la stessa velocità di quando provoca benefici. Quando Romano Prodi decise di aprire un blog, per poi abbandonarlo a se stesso dopo poche settimane, il danno di immagine fu superiore ai presunti vantaggi per l’entrata del Professore nel cyberspazio. È lo stesso principio che si applica dai tempi in cui nacque Internet: meglio nessun sito web che un brutto sito web; meglio nessun indirizzo email che un indirizzo email a cui non risponde nessuno.
L’ITALIA AL VOTO stato il trionfo del post–moderno. Una campagna elettorale segnata da una profonda frattura. Le formazioni minori, di centro, di destra e di sinistra hanno cercato di evocare le proprie appartenenze storiche. Un mondo di valori le cui radici affondano nella storia nazionale. Quelle maggiori mostrano strategie diverse. Se Berlusconi trova legittimazione nel grande oceano della tradizione liberale e rivendica continuità con la sua precedente azione di governo. Walter Veltroni si presenta come il nuovo che avanza, nel disperato tentativo di nascondere sotto il tappeto questi ultimi 20 mesi di vita italiana. Come se la memoria potesse essere azzerata e ripartire da una pagina bianca. Per il resto le sue sono solo promesse. Alberi di natale in cui ogni giorno si accende una candelina, si appende un nuovo cioccolatino, si deposita un piccolo cadeau. È la logica cinica e gaglioffa della comunicazione? Sarebbe un’analisi superficiale. È solo pubblicità subliminale. Che vende un prodotto enfatizzando qualità che non reca. Che sponsorizza un detersivo, i cui principi attivi sono ormai banali, ma che dovrebbe “lavare più bianco che più bianco non si può”. Può funzionare? Vedremo i risultati. Nel frattempo registriamo un tasso di disaffezione e noia senza precedenti. Ed una reale difficoltà di scelta da parte di quell’elettore mediano, che secondo la sociologia di stampo anglo–sassone, dovrebbe deciderne gli esiti a favore dei singoli canditati. O meglio dei singoli leader.
È
Perché questo è stato un altro tratto distintivo di questa campagna: riflettori accesi solo sul vertice delle singole formazioni elettorali. Gli altri hanno fatto da spettatori, curando, quando hanno potuto, i loro piccoli collegi elettorali. Consolidando la rete di interessi. Legandosi ai candidati locali, nella speranza di realizzare qualcosa che vada oltre la congiuntura puramente elettorale. Vedremo se questi tentativi avranno successo nel momento in cui i leader dei due schieramenti dovessero, in qualche modo, declinare, aprendo il capitolo spinoso della successione. Che sarà allora del Popolo delle libertà, che vive soprattutto grazie all’infungibilità del suo leader? E del Pd, nato da una fusione fredda, di due formazioni che hanno storie, valori e culture profondamente diverse? Il collante degli interessi sarà sufficiente a mantenerle in vita? O non vi sarà un big bang destinato a cambiare ancora una volta la mappa degli equilibri politici italiani? Ma questo vale per il domani. Oggi l’imperativo è vincere. E per conseguire questo risultato era necessario ricorrere alla tecnica più efficace. Il linguaggio potente della televisione, la sua istantaneità, la sua capacità di far dimenticare il contesto: la necessità di quel retroterra che è il presupposto dell’agire politico. La cosa che più colpisce è la rapidità con cui Walter Veltroni, nonostante la sua diversa storia politica, si sia omolo-
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Le verità scomode/2 Non basta promettere cose irrealizzabili solo per vincere
Siamo il Paese delle promesse mancate di Gianfranco Polillo
gato al modello Berlusconi. Ne abbia seguito i passi ed imitato i comportamenti. Che fosse quella la cultura di un tycoon mediatico, come il Cavaliere, era scontato. Che divenisse la sirena del Pd
taria – un nero alla presidenza – che si trasforma nella classe dirigente del più forte Paese occidentale. Nel secondo una caricatura, visto che il governo Prodi è ancora in carica. Che i principali ministri di quel governo sono tutti candidati nelle liste del Pd. Se si poteva fare, perché non si è fatto? Il Ds, prima di sciogliersi nel Pd, non era forse la più forte formazione politica della coalizione governativa? I riformisti, allora, si sono dimostrati impotenti. Sorgeranno a nuova vita dopo il bagno salvifico della campagna elettorale?
Le tecniche mediatiche americane applicate al sistema italiano si trasformano in caricature e non funzionano come negli Usa, dove i candidati non possono mentire è stata, invece, una scelta che potrebbe avere conseguenze imprevedibili sul futuro prossimo venturo.
Un dato non è stato attentamente valutato. Fuori dal contesto americano, quelle tecniche rischiano di cambiare di segno. Subiscono un processo di banalizzazione. Si pensi al doppio slogan: il “we can” di Barack Obama ed il “si può fare” del leader del Pd. Nel primo caso evocativo del sogno di un’etnia minori-
Non funziona. Come non funziona il populismo, in salsa italiana, che ne fa da complemento. Quello americano è nato con Roosevelt e la sua machine elettorale, che spazzò via la vecchia struttura partitica, conseguenza della prima immigrazione. Che un sistema costituzionale, profondamente diverso da quello italiano, ha reso sostenibile, grazie ad un bilanciamento dei poteri che impedisce ogni deriva oligarchica. Dov’è in Italia il check and balance, la rigida divisione dei
poteri, il controllo della politica da parte degli organi indipendenti? Negli Usa i candidati non possono mentire. Scoperti sono costretti alle immediate dimissioni.
In questo, i media hanno un’importanza straordinaria. Sono i censori di un’etica pubblica che non ammette distrazioni. Saggiano le proposte dei singoli uomini politici, ne analizzano le intime contraddizioni, ne valutano la credibilità alla luce dei dati forniti da centri di ricerca, la cui affidabilità – il termine intraducibile è accountability – è fuori discussione. E, scoperte le magagne, colpiscono duro. Senza guardare in faccia ad alcuno. Che siano democratici o repubblicani: non importa. Quel che conta è che la classe dirigente, comunque si formi, sia all’altezza dei compiti assegnati. Nel nostro piccolo, abbiamo cercato di seguire quell’esempio. Cercheremo di parlare delle cose scomode. Non di quello che si dice in questa campagna elettorale. Ma di quello che si occulta. Che si nasconde. Forse non sarà popolare, ma l’Italia vera non è quel Paese di panna montata dove tutto sembra possibile. Dove l’unico problema è sparare alla luna, e promettere qualcosa in più. L’Italia vera vive una crisi profonda. Ed è da lì che dobbiamo partire, per capirne il futuro.
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ra che, a cinque mesi dall’inizio delle Olimpiadi, anche il Cio ha pensato fosse giunto il momento di esprimersi sul brutale comportamento cinese in Tibet, si può dire che qualcosa sta per essere boicottato veramente. E forse per sempre. Prima della sacra fiamma, al capolinea potrebbe essere giunta l’ipocrita affermazione che i giochi olimpici non abbiano nulla a che fare con la politica. In realtà la politica ha sempre pensato allo sport come a un giocattolo da tenere a portata di mano e usare nei momenti di necessità. Boicottaggi, ricatti, sequestri conclusi con la morte degli atleti, scontri tra bandiere e nazionalità, dimostrazioni della superiorità di un sistema su un altro: con Olimpia si è sempre cercato di fare politica. Persino la maratona della fiaccola che passa tra mani di popoli diversi e supera le frontiere senza mostrare passaporti è legata alla politica. È stato il regime nazionalsocialista con la sua paranoia del classicismo e la Grecia antica, a riproporre il “rito”della marcia della fiamma olimpica. Berlino di giorno onorava le parole di Pierre de Coubertine e di notte organizzava gli ultimi dettagli della persecuzione antiebraica. In ambedue i casi la gloria sarebbe dovuta spettare alla razza ariana.
O
Anche i primi giochi dell’età moderna, Atene 1896, si sono svolti sotto la forca caudina dei rapporti di forza internazionali. Col permesso di de Coubertine l’Ungheria, per mostrare autonomia verso l’Impero austroungarico, riusciva a presentare una propria squadra. Lo stesso è avvenuto nel 1912 con la Finlandia occupata dai Romanov. Come in passato anche oggi è difficile dire chi stia facendo
mondo
Potrebbe finire per sempre il viaggio della fiamma olimpica
I giochi cinesi spengono la fiaccola di Francesco Maria Cannatà più politica con i giochi. È il messianismo cinese che vuole dimostrare al mondo di essere la vera superpotenza del XXI secolo ad aver iniziato la partita a scacchi olimpica? Oppure il primo passo lo ha fatto il pragmatismo creativo del Dalai Lama che sembra volere ripercorrere le orme di Martin Luther King e del Mathma? O sono i militanti tibetani che affermando che il fuoco si combatte col fuoco poiché, solo «chi impugna la spada può veramente mordere», puntano a sfidare la realpolitik globale? La sola cosa comprensibile, è che oggi è soprattutto Pechino a temere la fine dell’ipocrisia dello “sport per lo sport”. Le autorità cinesi sospettavano che il passaggio in Francia potesse diventare il simbolo della marcia pre-olimpionica.L’ultima tappa prima dell’addio alla vecchia Europa e a tutti i suoi “crucci” umanitari sarebbe stata quella più delicata. Gli appelli di Pechino ad accogliere degnamente la fiamma olimpionica, non hanno raggiunto lo scopo. Alla fine è avvenuto quello che angosciava di più i dirigenti comunisti. Parigi e i suoi manifesti contro i “signori degli anelli”, hanno messo in discussione la “verginità” della mar-
Sarkozy fa dipendere la sua presenza ai Giochi dal dialogo col Tibet. San Francisco pensa al blocco della ”marcia sacra”
cia. Nonostante le fredde parole dell’agenzia ufficiale cinese, «si è tentato di disturbare il percorso della fiamma», per Pechino le manifestazioni nella capitale francese rischiano di diventare il vero simbolo dei giochi del prossimo agosto. L’immagine della torcia spenta ricorderà che l’Olimpiade perde ideali e valori se questi si separano dal rispetto dei più elementari diritti della persona. Non è certo un caso che i media dell’Impero di mezzo, si siano concentrati sul simbolismo della torcia fredda cercando di convincere i cinesi che la fiamma non ha mai smesso di ardere. Il Renmin Ribao, l’organo del Partito comunista, ha utilizzato le parole del Centro per la torcia, per affermare che «la fiamma sacra olimpica ha bruciato dall’inizio alla fine» e che solo per qualche minuto se ne è fatto a meno. La televisione pubblica cinese, Cctv, sul suo sito web, informando del «caloroso sostegno del pubblico francese e del tedoforo» che hanno «vivacemente criticato» le velleità dei simpatizzanti dell’indipendenza del Tibet, ha fatto però il passo più lungo della gamba. Insomma anche non passando completamente sotto silenzio le manifestazioni, i me-
dia cinesi non hanno fatto capire cosa sia successo in Europa. Gli avvenimenti più importanti come lo sventolio delle bandiere tibetane non sono stati nemmeno citati. Vista da Pechino, l’Odissea francese della torcia sembra quasi un “viaggio nell’armonia”, per usare le parole con cui si insiste a chiamare la marcia olimpica attraverso il mondo.
Solo il sito ufficiale dei giochi cinesi si avvicina alla verità dei fatti affermando, che «è stato necessario mettere in fretta al riparo per quattro volte la fiamma olimpica», mentre «il bus di scorta si è trasformato in una sorta di cassetta di sicurezza di fronte all’assalto dei manifestanti». Ieri comunque Francia e Cina subivano ancora le scorie di quanto accaduto a Parigi il giorno precedente. Sarkozy e polizia transalpina sono finiti sotto il fuoco della critica per ragioni diverse. Il presidente francese è stato accusato di aver completamente sbagliato «strategia olimpica», la polizia per eccesso di repressione. Pechino fa invece la voce grossa. «Nessuno pensi di utilizzare i giochi per minacciare la Cina», questo il ruggito che arriva dall’Impero di mezzo, ma le difficoltà sono evidenti. Anche in Cina vi è chi si chiede perchè in Tibet le forze di polizia hanno ceduto il passo all’esercito entrato inoltre in azione, quando il rischio della strage era quasi inevitabile. Se, come riferisce il San Francisco Chronicle dalla città del Golden Gate, la marcia non proseguirà il suo percorso e la fiaccola per essere protetta dovesse andare a finire in un luogo segreto, la sconfitta della strategia di Pechino sarebbe completa. Ma c’è chi teme che questo non significherà affatto la vittoria del Dalai Lama.
mondo
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Usa 2008: perché quando si tratta di sicurezza e difesa i due democratici la pensano come McCain
Le armate di Obama e Hillary d i a r i o
di Mario Arpino
d e l
g i o r n o
Petraeus, stop al ritiro dall’Iraq «Dobbiamo ricostruire il nostro assetto militare e prepararlo alle missioni future, riguadagnando la capacità di sconfiggere rapidamente ogni minaccia al nostro Paese ed ai nostri interessi… Dobbiamo incrementare l’Esercito di 65mila soldati e i Marines di 27mila, reclutando il meglio ed investendo perché ciò sia possibile». Barack Obama acendo d’ogni erba un fascio, a livello di massa in Italia si tende a identificare i democratici americani con il nostro centrosinistra e i repubblicani con il nostro centrodestra. In verità, è una semplificazione eccessiva, perché chiunque conosca solo un po’ gli Stati Uniti sa che quando si tratta di sicurezza, difesa o anche solo di interesse nazionale, oltre oceano il pensiero delle due parti differisce assai poco. Le dichiarazioni del candidato democratico Barack Obama su temi come Afghanistan, guerra al terrorismo e istituzioni militari non lasciano dubbi in proposito.
F
Sicurezza, difesa e interesse nazionale secondo Barack Obama. Sul primo argomento, Obama se la cava in breve: «Dobbiamo concentrare i nostri sforzi su Afghanistan e Pakistan - il fronte centrale della nostra guerra contro al-Qaeda - in modo da confrontarci con i terroristi laddove le loro radici sono più profonde. Il successo in Afghanistan è ancora possibile, ma solo se ci muoviamo rapidamente, con giudizio e decisione. È necessario porre in essere una strategia integrata che rinforzi le nostre truppe e rimuova le limitazioni poste alle proprie forze da alcuni nostri alleati della Nato». Per quanto riguarda la posizione nei confronti delle forze armate e del ruolo globale degli Stati Uniti, il suo pensiero è ancora più esplicito. «Per rinnovare la leadership americana nel mondo, dobbiamo immediatamente metterci all’opera per rivitalizzare il nostro assetto mili-
tare. Più di ogni altra cosa, per sostenere la pace è necessario disporre di forze armate robuste…. Oggi, il Pentagono non è in grado di certificare alcuna nostra unità come pienamente rispondente ad affrontare nuove crisi che si aggiungano a quella irachena, mentre la quasi totalità della Guardia Nazionale non sarebbe in grado di proiettarsi oltremare. Dobbiamo allora ricostruire il nostro assetto militare e prepararlo alle missioni future, riguadagnando la capacità di sconfiggere rapidamente ogni minaccia al nostro Paese ed ai nostri interessi…. Questo è il motivo per cui dobbiamo incrementare l’Esercito di 65mila soldati e i Marines di 27mila, reclutando il meglio ed investendo perché ciò sia possibile. Il loro addestramento dovrà essere il migliore, e così pure il loro equipaggiamento…. Parallelamente, dovre-
fesa, per assicurare una stabilità globale, per aiutare gli amici, per partecipare ad operazioni di stabilizzazione e ricostruzione o per opporci a crimini contro l’umanità…».
Novembre 2008: chi saranno i delusi? È con questi pensieri che il soave e democratico Obama, personaggio cui molti progressisti di casa nostra ammiccano sopra tutto in ragione dei suoi programmi sociali e delle posizioni sulla tutela dell’ambiente, cerca di delineare il futuro della politica di sicurezza e difesa, e, di riflesso, della politica estera americana nel caso divenisse capo dell’Esecutivo. Ma nulla cambierebbe anche se venisse eletta la durissima Hillary, o addirittura il repubblicano McCain. Ricordiamoci che siamo negli Stati Uniti, Paese delle regole. C’è ne è una, aritmetica, che vale anche là: invertendo i fattori, il prodotto non cambia. Sopra tutto se si tratta di sicurezza, difesa e interessi nazionali. Così, comunque vadano le elezioni Usa del novembre 2008, sono in molti ad avere la netta impressione che i nostri iridati tifosi, eroi delle marce e delle piazze, siano destinati a rimanere ancora una volta delusi. E, tra costoro, ci saranno anche quei nostri candidati democratici che, credendo di essere Obama, ne hanno assunto in proprio, oltre gli atteggiamenti, persino il motto. “Se po’ fa…” Tuttavia, su sicurezza, difesa e interessi nazionali non se la sono sentiti di imitarlo e, sinora, hanno preferito tacere…
Pur distinguendosi su politiche sociali e ambientali, i tre candidati alla Casa Bianca convergono sul ruolo globale del Paese: gli interessi Usa vanno difesi ad ogni costo mo impegnare sufficienti fondi per consentire alla Guardia Nazionale uno stato di prontezza adeguato». Circa l’uso della forza, il programma di Obama, cosi come sintetizzato in un articolo rintracciabile su Foreigns Affairs, recita che egli non esiterà ad usare questa rinnovata capacità, se necessario anche unilateralmente, per proteggere il popolo americano ed i suoi interessi vitali ovunque questi siano attaccati o anche solo minacciati. Per fare ciò «dobbiamo anche considerare l’uso della forza militare in circostanze diverse da quelle di auto-di-
«Gli Stati Uniti dovrebbero sospendere il ritiro delle truppe dall’Iraq dopo luglio al termine delle operazioni di rientro degli ultimi rinforzi (20mila uomini) inviati lo scorso anno». Lo ha dichiarato il generale David Petraeus, comandante in campo del contingente americano, nel corso dell’audizione di fronte alle commissioni Difesa e Esteri del Senato. Petraeus ha proposto una pausa di 45 giorni per consentire ai comandanti sul campo di valutare la situazione.
Mille miliardi di dollari di perdite Per il Fondo monetario internazionale le perdite legate alla crisi americana dei subprimes sono aumentate considerevolmente negli ultimi sei mesi raggiungendo al cifra di mille miliardi di dollari. Solo le perdite per il deprezzamento degli immobili si aggirano attorno ai 565 miliardi. Nella sua relazione l’Fmi accusa le lacune del sistema finanziario mondiale e invita a trasformazioni decisive a questo riguardo. A preoccupare il Fondo è sopratutto la stabilità di tutto il sistema che è stata messa ancora di più a dura prova dai crolli in singoli settori finanziari.
Apre l’ambasciata americana in Kosovo Ieri a Pristina è stata inaugurata l’ambasciata Usa in Kosovo.Alla festa era presente anche il presidente dell’ex provincia serba a maggioranza albanese, Fatmir Sejdiu, che ha lodato i «legami particolarmente solidi» che esistono tra Washington e il Kosovo. Oltre agli Stati Uniti hanno già una rappresentanza diplomatica Germania, Francia, Gran Bretagna e Svizzera.
Danimarca, si a donne con velo In Danimarca è stato deciso di consentire alle donne musulmane di portare il velo islamico nel Folketing, il parlamento danese, e di prendere la parola sul podio tenendo il velo. Lo ha disposto la presidenza dell’Assemblea, con un solo voto contrario, quello di Soeren Espersen rappresentante del Partito del Popolo Danese. L’ unica condizione che viene posta per partecipare alle attività parlamentari è quella di essere riconoscibili.
Dopo Annapolis, nuovo vertice a maggio Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, incontrerà i leader arabi e israeliani il prossimo mese di maggio in Medio Oriente. L’annuncio di un nuovo summit, dopo quello di Annapolis nel novembre scorso, è stato fatto da Yossi Beilin, parlamentare israeliano. Fonti palestinesi hanno confermato che Washington sta organizzando un vertice per il 17 e il 18 maggio prossimi, tra Bush, il presidente dell’Anp, Abu Mazen e il primo ministro israeliano, Ehud Olmert, in Egitto o in Giordania. Nello stesso periodo il presidente Usa sarà in Israele per partecipare alle celebrazioni per il 60 anniversario dello Stato ebraico.
Medvedev rilancia adesione Wto La Russia è determinata a fare il suo ingresso nella Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 2008, ma non come «un parente povero». Parola del neoeletto presidente russo Dmitri Medvedev, che rilancia sull’adesione per ora non ancora raggiunta da Mosca. Dopo una serie innumerevole di negoziati e rimandi. «Siamo pronti ad aderire al Wto, siamo totalmente in grado di completare il processo (di ingresso) quest’anno», ha detto Medvedev nel corso di una riunione con i rappresentanti dell’Unione degli industriali e imprenditori di Mosca. Ma «dobbiamo aderire, in normali condizioni e a condizioni adeguate, non come parenti poveri».
Kenya, sospesi negoziati, si avvita crisi L’opposizione keniana ha annunciato oggi la decisione di sospendere i negoziati con il presidente Mwai Kibaki per un governo di grande coalizione, come previsto dagli accordi siglati il 28 febbraio scorso.
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speciale esteri
Occidente
Due fronti caldi, Afghanistan e Colombia. Un grande snodo, l’Africa. E un chiaro obiettivo, Europa e Stati Uniti
TUTTE LE GUERRE DI DROGA di Enrico Singer a combattono anche con i bazooka, gli elicotteri, i mortai, le imboscate e gli attentati. Ma non è una guerra come le altre. Non ne arrivano le immagini dalle montagne dell’Afghanistan o dalla foresta amazzonica del Sud della Colombia. Perché è una guerra segreta e, soprattutto, parallela ai conflitti che ogni giorno entrano nelle nostre case con la tv e i giornali. È la guerra della droga che spesso si sovrappone alle ideologie e i nazionalismi, s’intreccia all’estremismo fondamentalista, alimenta eserciti irregolari, forag-
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valgono mille volte di più di quanto entra nelle tasche dei contadini pashtun o dei campesinos che li coltivano. Come dire che è una guerra che rende più di qualsiasi altro business sporco del pianeta. Anche perché si collega al mercato clandestino delle armi, altro colossale giro illegale che muove miliardi: lungo la via della droga uno degli snodi-chiave è proprio il momento del baratto tra le partite di stupefacenti e quelle di armi che avviene quando i trafficanti locali passano la loro merce ai corrieri incaricati di farla arrivare alle basi di smi-
È il disordine politico il vero concime dei campi di papavero e di coca gia terroristi. Ma ha anche una sua strategia autonoma che risponde agli ordini di stati maggiori spesso lontani dai campi in cui si coltivano i papaveri da oppio e le piante di coca.
Oggi questa guerra ha due fronti caldi: l’Asia centrale e l’America latina. Ha trovato una nuova retrovia che serve da porto dei traffici: l’Africa. E ha un solo, grande bersaglio: l’Occidente. Dove un grammo di eroina o di cocaina – finali e micidiali trasformazioni di quel lattice bianchiccio che si ricava dai papaveri da oppio o dall’impasto delle foglie della coca –
stamento da dove proseguirà il suo viaggio per l’Europa, gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone o l’Australia. Ma la condizione necessaria e indispensabile perché tutto questo meccanismo continui a funzionare e a fare vittime (l’Onu calcola duecentomila morti per droga ogni anno), è che i luoghi di produzione rimangano fuori dal controllo delle autorità statali dei Paesi in cui si trovano. Il disordine politico è il vero concime dei campi di papavero o di coca. Per i signori della droga l’instabilità è l’obiettivo più importante da mantenere e alimentare. Gli esempi
più eclatanti, naturalmente, sono quelli della Colombia e dell’Afghanistan. Il Paese latinoamericano ha il primato mondiale nella produzione della coca. Una volta i narcos dei cartelli di Medellin, di Calì o di Norte del Valle controllavano anche il traffico.
Ormai il governo di Bogotà, con il presidente Andres Pastrana, prima, e poi con Alvaro Uribe, ha dato un colpo pesante ai narcotrafficanti. Ma non è riuscito a ridurre la produzione. Anzi, almeno 80mila ettari sono coltivati a coca nelle zone più impervie del Paese che sono anche quelle in cui è più attiva la guerriglia delle Farc (Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia) e dell’Eln (Ejercito de liberacion nacional). Non solo: negli ultimi anni alla coca si è aggiunto il papavero da oppio nelle regioni andine, tanto che la Colombia è diventata anche il terzo produttore di eroina. Lo smercio degli stupefacenti, però, è passato in mano a bande peruviane e messicane. Anche qui vale la regola generale della via della droga: il primo passaggio è quello che va dal coltivatore ai trafficanti locali che, spesso, sono gli stessi guerriglieri delle Farc o dell’Eln quando non, addiritttura, le milizie paramilitari delle Auc (Autodefensas unidas de Colombia) o l’esercito regolare che li combattono. Poi entrano in gioco i veri trafficanti internazionali che fanno uscire la droga dal Paese. Il caso di Ingrid Betancourt, l’ex candidata alla presidenza pri-
Un agricoltore afghano raccoglie alcune piante di papavero. Il cadavere di un leader delle Farc ucciso dai militari colombiani
gioniera delle Farc da sei anni, nelle ultime settimane ha riacceso i riflettori su quello che succede in Colombia: sulla quarantennale guerriglia e sul narcotraffico. Ma sarebbe semplicistico ridurre la guerra della droga sul fronte latino-americano allo scontro tra guerriglieri e governo. L’esercito che combatte la guerra della droga è più vastro trasversale: ne fanno parte, certo, anche le Farc e l’Eln che rendono pressoché impenetrabili certe zone del Paese e che si finanziano, oltre che con i riscatti dei rapimenti le pesche miracolose, come le chiamano - anche con il pizzo imposto ai contadini sulle coltivazioni di coca e oppio, ma ne fanno parte anche i nuovi cartelli criminali peruviani e messicani, corrieri di ogni tipo compresi ex piloti dell’aviazione americana - che fanno arrivare la cocaina e l’eroina ai mercati di smercio. Tra l’altro, lungo nuove rotte. Peruviani e messicani sembrano essersi spartiti le aree di vendita: i primi l’Europa, con passaggi intermedi nei porti di Argentina e Cile, i secondi gli Stati Uniti data la vicinanza geografica. Nei mercati finali, poi, l’esercito della droga indossa nuove casacche: spesso si tratta di elementi delle comunità dei Paesi di provenienza della droga. Ma non è una regola. E ad ogni passaggio
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Un intreccio tra mafie, narcotrafficanti e governi
Un fiume di denaro di Ferdinando Milicia l commercio internazionale delle droghe presenta delle specificità proprie. La prima è l’escalation degli utili per ciascuna delle fasi: dalla produzione, alla trasformazione, alla vendita, i margini dei profitti sono elevatissimi. Ognuna di queste fasi costituisce, secondo il politologo francese Alain Joxe, «un luogo di accumulazione del potere, della forza militare, poiché, quando ci sono dei surplus, si possono nutrire soldati». Una seconda caratteristica di questo commercio è la possibilità di utilizzare diverse modalità. Per esempio il baratto di armi con droga si sostituisce spesso al pagamento in contanti. Così la nostra polizia ha provato che la camorra e la ’ndrangheta, nella metà degli anni Novanta, pagava le armi acquistate nell’ex Jugoslavia con l’eroina o la cocaina e successivamente scambiava con i trafficanti sudamericani queste armi con la droga. La terza e più singolare caratteristica è la vendita al cliente sia delle armi che della droga. L’escalation dei profitti fa sì che il venditore di armi abbia la garanzia che il suo cliente lo pagherà con i proventi della vendita di hashish, di cocaina o di eroina che gli ha fornito. In questo caso il rivenditore di droga è un trafficante di armi, quindi il fornitore di narcotici all’ingrosso ha ugualmente ogni interesse, per ragioni di sicurezza, a non dividere le reti di vendita di armi e di droga. Questa pratica spiega come nei primi anni Novanta siano stati sequestrati sulla rotta dei Balcani missili Stinger e eroina sugli stessi convogli provenienti dall’Afghanistan. Dalle guerre della coca a quelle del ”Triangolo d’oro”, la droga ha contribuito al finanziamento di numerosi conflitti. Fino agli anni Settanta, queste guerre si svolgevano su larga scala, come la rivoluzione cinese o le guerre di Indocina e del Vietnam dove i responsabili del traffico erano soprattutto ufficiali superiori o agenti delle grandi potenze, in particolare della Francia e degli Stati Uniti. Il nuovo fenomeno è che l’uso del denaro della droga si è “democratizzato”. Il denaro sporco finanzia ormai tutto ciò che illegale e “sporco”. Dai conflitti etnici al sostentamento di regimi corrotti per mantenerli al potere. Questo cambiamento di scala implica che i “belligeranti”si interessino dapprima al livello più elementare della produzione delle droghe. Per i contadini produttori, il guadagno derivante dalla coltivazione della coca o del papavero è inferiore all’1 per cento del valore del prodotto finito venduto nelle strade dei Paesi ricchi. In Afghanistan, durante il conflitto tra i signori della guerra, una fatwa aveva annullato il divieto di coltivazione del papavero. L’effetto di questa disposizione è stato che nell’Helmand, una regione al sud, i fratelli
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il prezzo degli stupefacenti sale. Per evitare i sequestri, che si fanno tanto più numerosi quanto più la droga comincia a circolare in Paesi in cui i controlli sono efficaci e la corruzione è ridotta, i trafficanti stanno sperimentando nuove rotte. Apparentemente più lunghe e tortuose, ma molto più sicure. Ecco che entra in scena l’Africa. In particolare la Nigeria, la Somalia, l’Etiopia, il Sudan e il Kenya. Qui la droga arriva per mare dall’America latina e via terra dall’Asia, attraverso lo Yemen, realizzando così una specie di ”hub”internazionale degli stupefacenti e la saldatura tra le vie della droga che partono dagli altri due Continenti: l’America del Sud, appunto, e l’Asia.
Quando si parla di Asia, torna in mente il mitico triangolo d’oro tra Birmania, Laos e Thailandia che produceva il 70 per cento dell’oppio che arrivava in Occidente. Adesso il triangolo d’oro è soltanto un ricordo. Soppiantato dall’Afghanistan dove, ormai, è coltivato l’80 per cento dei papaveri da oppio. Anche qui nelle zone fuori dal controllo del governo di Kabul e delle forze militari Nato e americane: nella sola provincia meridionale di Helmand si produce la metà di tutto l’oppio afghano. Secondo il rapporto dell’Unodc (United Nation Office on Drugs and Crime) che è diretto dall’italiano Antonio Maria Costa, nel 2007 in Afghanistan sono state prodotte 8200 tonnellate di oppio: il 34 per cento in più del 2006 e questo dimostra, purtroppo, che l’azione del governo
Karzai contro la coltivazione del papavero non ha avuto effetti positivi. C’è un distretto Musa Qala - che è saldamente in mano ai talebani e che è stato ribattezzato lo smugglers district: il distretto dei contrabbandieri. E’ qui che, sotto il controllo del capo locale, il mullah Hassan, si raccoglie il tariak, l’oppio grezzo, che viene ormai raffinato in eroina all’interno di laboratori controllati sempre dagli stessi talebani che fanno poi arrivare la droga fuori dal Paese - in Pakistan, in Uzbekistan o in Tagikistan - dove entrano in scena altri corrieri che, in molti casi, pagano le partite di stupefacenti con armi. Il ruolo dei talebani nella guerra della droga è centrale. Durante gli anni in cui il loro regime ha governato l’Afghanistan (dal 1996 al 2001), la produzione di oppio era sottoposta a due tasse di ispirazione coranica: l’usher (una specie di decima) e la zakat, l’elemosina obbligatoria per ogni musulmano che è pari al 2,5 per cento dei guadagni. Proventi che, allora, alimentavano il regime e che adesso alimentano la guerra. Con la differenza che alla fine degli Anni Novanta la produzione di oppio era attorno alle quattromila tonnellate e ora è più che doppia. Per i talebani, un grosso affare. Ma non solo: nella strategia di al Qaeda la droga è un’arma in più per combattere l’Occidente. E c’è il sospetto che proprio l’organizzazione di Osama bin Laden sia riuscita a entrare anche nello snodo africano del traffico e nella grande “cupola”della droga.
mollah Akuunzanda, del partito Harakat-i enquelab-i islami, percepivano dal 5 al 10 per cento del prezzo di vendita dell’oppio, ossia, nel 1994, dai 35 ai 70 milioni di dollari ricavati dalle 1.500 tonnellate prodotte in questa regione. Una somma servita a equipaggiare un’armata di 5mila uomini. Questo è uno dei tanti esempi utile a spiegare che la connessione tra coltivazioni illecite e guerriglia è presente, nelle stesse modalità, in altri scenari dove esiste un’instabilità statuale: vige in Perù, Colombia (con le Farc), Bolivia, Filippine (Fronte di liberazione di Aceh Sumatra), India (separatisti Tamil e Consiglio nazionale socialista del Nagaland), in Senegal, in Liberia e in Kenya. Durante la guerra in Kosovo, le reti di albanesi dell’ex provincia serba vendevano l’eroina nei Paesi dell’Europa per acquistare armi per la causa. Sequestri effettuati in Turchia come in Germania e nei Paesi Bassi, dove è presente un’importante comunità curda, hanno confermato nel tempo che la droga ha contribuito e contribuisce ancora al finanziamento di attività militari del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). L’investimento delle organizzazioni armate nella distribuzione sul mercato dei Paesi consumatori è non solamente un fattore di criminalizzazione, ma anche una fonte di confini su un territorio straniero. Così l’area Schengen è diventato il teatro di una concorrenza spietata che degenera talvolta in scontro. Militanti del Pkk e organizzazioni turche di estrema destra come i Lupi grigi, reti algerine e marocchine legate ai fondamentalisti islamici e spalleggiate da afgani, azeri e reti libanesi, kosovare e turche, sono in continua rinegoziazione per il controllo degli spazi di distribuzione, arrivando spesso al conflitto armato. E Per evitare che conflitti di questo tipo degenerino i network si servono sempre più spesso di donne e bambini. Le interazioni tra i conflitti conducono talvolta a risultati inattesi: è stato notato, per esempio, che gran parte delle armi sequestrate in Kosovo provenivano da stock libanesi. In realtà queste sono state scambiate dal Pkk, attraverso gruppuscoli islamici dell’Anatolia, e poi consegnate nella regione serba a maggioranza albanese. Un altro esempio: alcuni carri T-34 e T-85, consegnati da ex ufficiali dell’Urss nella regione di Agri in territorio turco, sono stati ritrovati in Bosnia e nello Yemen. La loro consegna è stato il risultato di un accordo tra i separatisti ceceni e la mafia russa, composta in parte da ex funzionari del Kgb e delle forze speciali (Omon). In tutti questi esempi la droga finanzia, stimola, produce essa stessa dei conflitti ma crea allo stesso tempo contatti, connivenza e legami tra diverse organizzazioni armate dalle caratteristiche differenti o addirittura opposte.
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speciale esteri
Occidente
Focus: l’economia del papavero analizzata in un rapporto della Banca Mondiale
Afghanistan, l’eldorado dell’oppio di William A. Byrd Le previsioni dell’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga sono eloquenti: nel 2008 l’Afghanistan produrrà l’80 per cento dell’oppio mondiale. Nonostante la presenza occidentale e le promesse del governo di Hamid Karzai, il Paese asiatico rimane un “eldorado” dell’oppio. Dalla caduta dei Talebani avvenuta nel 2001 in poi, la produzione ha visto un’autentica impennata: tra il 2005 e il 2006 era già cresciuta del 49 per cento e la superficie coltivabile lo era stata del 59 per cento. Mentre la comunità internazionale sta rinnovando il dibattito sul futuro della missione militare occidentale e all’interno della Nato si analizzano i risultati finora raggiunti, insomma, il problema dell’Afghanistan come serbatoio mondiale dell’oppio diventa sempre più insolubile. Che il dibattito sulla presenza politico-militare dei Paesi occidentali in Afghanistan non possa essere considerato estraneo alla lotta alla produzione di droga è un fatto certificato non solo dall’Onu. La Banca Mondiale ha infatti pubblicato un rapporto dedicato proprio al problema dell’oppio. Le conclusioni del documento, di cui si riproducono nei prossimi paragrafi alcuni dei brani più significativi, sono sconcertanti. Lì dove ci sono le aree più insicure e a più alta presenza talebana anche l’oppio domina le povere economie locali. Il nesso tra insicurezza e droga, insomma, è più attuale che mai nell’Afghanistan di oggi.
er molti l’Afghanistan è diventato sinonimo di produzione di papavero da oppio. L’ufficio delle nazioni Unite contro la droga (Unodc) ha stimato in 193mila gli ettari coltivati a papavero tra il 2006 e il 2007. L’incremento rispetto al 2005/2006 è stato del 17 per cento e addirittura del 50 per cento rispetto a quattro anni fa.
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Produzione concentrata in cinque province del Sud Una volta disaggregati, i numeri evidenziano una crescente concentrazione della coltiva-
una riduzione significativa sull’estensione della superficie coltivabile dedicata all’oppio.
Le coltivazioni fioriscono nelle zone più insicure La coincidenza tra l’alto livello di insicurezza nelle regioni meridionali e la crescita della coltivazione di papavero da oppio evidenzia il dato che ci troviamo di fronte a coltivazioni a basso rischio che fioriscono in un contesto ambientale ad alto rischio. L’oppio può generare profitti relativamente alti per i contadini. Ma il motivo principale del suo successo è che l’e-
Da Kabul passa l’80 percento del prodotto mondiale, ma i campi sono tutti a Sud zione di papavero da oppio nelle province meridionali dell’Halmand, di Kandahar, dell’Uruzgan, del Dai Kundi e di Zabul che da sole rappresentano il 69 per cento della coltivazione totale del 2007: una quota maggiore rispetto al 61 per cento dell’anno precedente. La situazione nel sud contrasta con quella registrata nelle zone settentrionali, nord-orientali e centrali. Risalta il caso della provincia di Balkh dove la coltivazione si è azzerata nel giro dell’ultimo anno. Anche nella provincia del Badakhsan, che dal 2001 in poi era stata un grande produttore, c’è stata
conomia dell’oppio funziona bene nelle aree remote con infrastrutture molto limitate e in cui prevale l’insicurezza. I commercianti di oppio danno acconti in denaro ai contadini e in cambio acquistano direttamente nelle fattorie. Inoltre pagano i costi del trasporto e offrono mazzette ai posti di controllo. Infine si assumono il rischio fisico di tragitti in aree pericolose. Queste favorevoli condizioni di accesso al mercato dell’oppio per i contadini non esistono in nessun altro tipo di coltivazione agricola. Il ritorno della coltivazione di massa lungo i distretti del Nangarhar e la
I militari distruggono tonnellate di stupefacenti alla periferia di Kabul. Circa 7mila chili di oppio, eroina, morfina e hashish. Per il Paese si tratta di una modestissima quantità crescente insicurezza nella provincia evidenziano il legame tra insicurezza, mancanza di vie alternative al sostentamento e produzione di oppio. La riduzione delle aree coltivabili non è risultata sostenibile lì dove mancano la sicurezza e soprattutto delle valide alternative per assicurarsi il sostentamento in modo legale.
tre la coltivazione dell’oppio crea una vasta domanda di lavoro itinerante per sarchiare il terreno e fare la raccolta. Secondo l’Unodc tra il 2006 e il 2007, quando 193mila ettari sono stati coltivati, l’economia dell’oppio ha generato circa 70 milioni di giornate lavorative, un terzo delle quali sono state dedicate al solo lavoro agricolo.
È forte l’impatto sull’occupazione
Le differenze dei guadagni tra proprietari e mezzadri
L’oppio non è solo un tipo di coltivazione che dà alti profitti perfino nelle aree in cui c’è scarsità di acqua per irrigare i campi adattandosi così alle difficili condizioni climatiche dell’Afghanistan. Infatti esso è anche fonte di nuove opportunità economiche sia per i proprietari delle fattorie che per i loro braccianti. Per questo ha accresciuto il livello generale delle attività nelle aree rurali. Il valore totale dell’oppio coltivato nel 2007 è stato stimato in circa un miliardo di dollari (dati dell’Unodc). Ad ogni gradino della scala produttiva e commerciale corrispondono sufficienti ritorni economici. Nonostante le cattive condizioni delle infrastrutture afgane, ci sono molti mercati dell’oppio che risultano ben collegati tra loro in termini di credito, di prestito, di trasporto e di lavorazione. Secondo alcune stime, ad ogni ettaro di terra coltivato a papaveri di oppio corrispondono in media 5,6 posti di lavoro. Inol-
In un quadro generale in cui a livello economico tutti gli attori della produzione dell’oppio hanno di che guadagnarci, tuttavia, c’è una certa differenza tra un possidente terriero che avendo venti ettari di terreno ne può dedicare almeno quattro all’oppio con l’aiuto di 24 membri della sua famiglia e di due trattori e un fattore che invece, impiegando solo un mezzadro (più i suoi familiari), può coltivare appena mezzo ettaro sul terreno che appartiene al suo padrone (e dando comunque a quest’ultimo la maggior parte del raccolto come pagamento per aver potuto lavorare la terra e per il credito ricevuto l’anno precedente per avviare la coltivazione). I proprietari terreni che concedono la loro terra ai coltivatori di oppio possono alla fine ricevere almeno due terzi del raccolto finale benché abbiano contribuito ad appena il 20 per cento dei costi di produzione. Inoltre arrivano ad ottenere guadagni superiori
del 1.400 per cento rispetto ai mezzadri.
È l’unico mezzo di accesso al credito Il tradizionale sistema del credito afgano, conosciuto col nome di “salaam”, che prevede il pagamento anticipato su una coltivazione futura, ha favorito il papavero da oppio su altri tipi di coltivazioni. Nelle aree in cui la coltivazione di oppio è ormai diventata recintata, l’accesso al credito dipende dalla disponibilità dei proprietari di terra a coltivare l’oppio. La disponibilità a coltivare e il possesso dell’abilità richiesta ha accresciuto progressivamente l’accesso alla terra per i contadini. L’ammontare dell’affitto della terra è determinato dal valore del potenziale raccolto di oppio più che da quello effettivo dei raccolti di frumento che da essa si possono ottenere. In condizioni del genere non esiste altra attività in grado di assicurare lo stesso livello di benefici. Quando le coltivazioni diventano meno produttive o vengono chiuse, le opportunità di guadagno dalle attività agricole precipitano guidando la gente fuori dalle terre o costringendole in stato di povertà. Per questo, a Vienna, la Commissione sulle droghe e i narcotici ha concluso che «sradicare le coltivazioni illegali dei contadini senza offrire loro valide alternative significa minare alle fondamenta le possibilità di sviluppo».
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a strategia attuata in Afghanistan per sradicare la coltivazione del papavero da oppio è stata, fino a questo momento, fallimentare. E l’errore più grave commesso dal governo afgano è risultato quello di aver attuato politiche e programmi che non fanno distinzione alcuna fra i vari coltivatori di oppio. La Banca mondiale su questo è molto esplicita: il problema va affrontato a seconda che ci si trovi nelle aree più stabili e urbanizzate o in quelle più insicure e remote. Perché nella prime il processo di conversione alle coltivazioni agricole lecite è relativamente agevole, mentre nelle seconde il quadro muta radicalmente: «La scarsità di terra e di acqua, combinata all’assenza di infrastrutture che rende costosi i trasporti, preclude il passaggio a produzioni agricole tradizionali in grado di fornire ritorni economici adeguati». Problema a cui si aggiunge la facile strumentalizzazione dei potentati locali ad ogni interferenza esterna. Se questa è la diagnosi della malattia che più affligge l’Afghanistan - cioè la dipendenza, che in alcune aree particolarmente depresse e decentrate è addirittura totale, dell’economia locale dall’oppio - la ricetta proposta dalla Banca Mondiale invoca un “approccio differenziato” a seconda delle realtà su cui si vuole intervenire. Limitarsi a distruggere i campi di oppio e tutt’al più fornire gli strumenti base
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Solo finanziando i migliori è possibile un cambio di rotta
Pochi ma buoni gli altri seguiranno di Raffaele Cazzola Hofmann per avviare coltivazioni agricole tradizionali è perfino controproducente. Nelle fattorie e nei singoli campi più arretrati (individuati nelle colonne 2 e 3 della tabella qui riprodotta, ndr) «la scelta della coltivazione da sviluppare è obbligata» in direzione dell’oppio.
Ecco il motivo per cui è necessario offrire ai piccoli contadini quegli strumenti economici a cui oggi essi possono aspirare solo grazie alla loro disponibilità a produrre oppio: l’accesso al credito e l’opportunità di avere entrate economiche al di fuori dell’attività agricola. È proprio su questo fronte, fa capire il rapporto, che finora la strategia della lotta all’oppio è stata più carente. Ma questa grave lacuna non è l’unica. L’altro lato della medaglia di una strategia finora insufficiente riguarda le aree più ricche e urbanizzate dell’Afghanistan. Secondo la
DIPENDENZA DELLE FATTORIE AFGANE DALL’OPPIO 1) NON
DIPENDENTE DALL’OPPIO
2) DIPENDENTE
DALL’OPPIO
3) MOLTO
DIPENDENTE DALL’OPPIO
Accesso a mercati e ai servizi
• Vicino a centri provinciali
• Accessibile ma con infrastrutture limitate
• In aree remote • Aree in cui sono assenti strutture governative
Terra coltivabile
• Più di 15 jerib
• Tra 7,5 e 15 jerib
• Meno di 7,5 jerib
Irrigazione
• Canale o accesso a un fiume principale
• Canale o accesso a un fiume • Sorgenti di montagna
• Sorgenti di montagna
Status giuridico
• Proprietario terriero • Coltivatore autonomo
• Coltivatore in proprio • Affittuario
• Coltivatore in proprio • Mezzadro
Numero di coltivazioni
• Doppie
• Doppie, ma solo in estate
• Singole tutto l’anno
Tipi di coltivazione
• • • •
• Almeno 50% di oppio • Grano • Ortaggi e frutta, ma solo in parte destinati alla vendita
• Almeno 70% di oppio • Ortaggi solo per il proprio consumo
Densità
• 1-1,5 per ogni jerib
• 2-3 per ogni jerib
• 3,5-5 per ogni jerib
Bestiame
• Vendita di prodotti lattieri e di bestiame
• Vendita di prodotti lattieri
• Pecore o capre • Il latte prodotto basta solo per il proprio consumo
Manodopera
• Dipendente
• Lavoratori giornalieri nel periodo della raccolta di oppio
• Lavoratori giornalieri nel periodo della raccolta di oppio
Accesso al credito
• Piccoli debiti • Varie fonti di credito • Concede prestiti
• Debiti accumulati • Varie fonti di credito
• Debiti accumulati di grossa entità • L’oppio è l’unica garanzia per ottenere prestiti
Vendita di oppio
• Occasionale dopo il raccolto
• Dopo il raccolto, ma in rari casi con un surplus commerciale
• Dopo il raccolto
N.B.
IL “JERIB”
Diversificate 30%-50% di oppio Grano Ortaggi e frutta da vendita
È UN’UNITÀ DI MISURA UTILIZZATA IN
ASIA
CENTRALE PARI A CIRCA
1.900
METRI QUADRATI
Banca Mondiale l’aver voluto applicare un’azione uniforme e indifferente alla diversità di un Paese tanto complesso sul piano sociale e su quello geografico - oltre al non far comprendere che ai contadini, una volta portate via le coltivazioni di oppio, sarebbe stato necessario fornire strumenti economici per ovviare alla perdita degli vecchi introiti si è rivelata infelice anche lì dove le condizioni economicosociali sarebbero di per sé più favorevoli. La raccomandazione è che «un particolare sforzo dovrebbe essere offerto per creare le condizioni economiche in grado di trainare l’economia proprio nelle aree che pure hanno già un potenziale di sviluppo e crescita». Per questo «sia dal punto di vista del controllo sulla droga che su quello delle prospettive economiche vanno analizzate le porzioni di aiuti allo sviluppo da concedere alle diverse aree dell’Afghanistan».
Sostenendo di fatto che è più utile intervenire proprio lì dove già oggi esiste un relativo sviluppo economico e sociale, la Banca Mondiale si espone a inevitabili critiche perché il messaggio che viene dal rapporto sembra suggerire che le regioni più marginali dell’Afghanistan debbano essere abbandonate al loro destino quasi fossero una zavorra di cui liberarsi. Il rapporto sottolinea prudentemente che «ciò non equivale a dire che quelle regioni e quelle popolazioni debbano essere lasciate a loro stesse». Ma la sostanza non cambia. Il motivo di questa visione controcorrente è semplice: «Solo così sarà possibile accrescere le condizioni di vita anche di coloro che emigreranno dalle regioni più povere a quelle più sviluppate». Le emigrazioni di massa dalle aree depresse a quelle più ricche sono state un fenomeno nella storia di tutti i Paesi del mondo: dall’Inghilterra della rivoluzione industriale all’Europa uscita dalla seconda guerra mondiale, fino alla Cina del boom economico che assiste all’esodo di massa dei contadini delle povere regioni centrali verso la ricca costa orientale. Interpretando l’analisi della Banca Mondiale neanche l’Afghanistan, una volta ottenuta l’auspicata stabilità politica, farà eccezione. Ed è bene che la comunità internazionale prepari il terreno affinché, quando ciò accadrà, gli ex coltivatori d’oppio emigrati verso le città non si trovino nelle condizioni di dover rifare le valige per tornare ai loro vecchi campi di oppio.
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speciale esteri
Occidente
Escobar trattava “merce” coltivata in Perù e Bolivia. Morto lui, la Colombia si è messa in proprio. Non è la sola
Farc, Tijuana e il teorema dell’Idra di Maurizio Stefanini otremmo definirlo “il teorema dell’idra”, la storia del narcotraffico in America Latina. Negli anni ‘80 la rotta della coca era principalmente quella dei grandi “Cartelli” colombiani “apolitici”: di Medellín e Cali, i più noti, ma anche di Bogotá e della Costa. Il loro ruolo era di tramite: compravano la foglia di coca in Perù e Bolivia, la portavano in Colombia, la trasformavano in cocaina e infine la smerciavano negli Usa. Una sorta di “empia alleanza” tra governo colombiano, autorità Usa e Cartello di Cali fece fuori il Cartello di Medellín, in un intervallo temporale che può essere fissato tra l’uccisione nel 1989 di Gonzalo Rodríguez Gacha e quella nel 1993 di Pablo Escobar, mentre Carlos Lehder finì in carcere e ai tre fratelli Ochoa fu consentito di sparire in cambio della loro resa. Il Cartello di Cali si impadronì dunque dell’80 per cento del business, ma a quel punto scoppiò lo scandalo dei suoi finanziamenti che erano finiti alla campagna elettorale di Ernesto Samper, dovenuto presidente della Colombia nel 1994. Col Paese messo sotto sanzioni da Washington, lo stesso Samper fu costretto ad agire nel modo più energico, e nel 1995 anche i due fratelli Rodríguez Orejuela finirono dentro. A quel punto, la rotta fu interrotta.
cordato con Washington un Plan Mexico, sul modello del Plan Colombia. Solo che questa “strategia congiunta” non prevede l’invio di soldati e poliziotti, su cui i messicani sarebbero gelosi e di cui comunque non c’è gran disponibilità con quanto accade in Afghanistan e Iraq; ma di qualche centinaio di milioni di dollari in forniture, sotto forma di radar, sistemi di comunicazione a tecnologia militare in genere. In effetti l’Onu ha dato atto che dal 2006 per la prima volta il consumo di cocaina negli Stati Uniti è diminuito.
P
Ma appunto, come l’idra mitologica, al posto della testa tagliata ne spuntarono altre due. In Colombia la riduzione degli aiuti militari Usa come rappresaglia per lo scandalo Samper permise infatti uno spettacolare ritorno di fiamma per la guerriglia delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia (Farc), che individuarono nelle coltivazioni di narcotici un formidabile strumento di autofinanziamento. E diventarono così la prima impresa colombiana, con entrate stimate in 2 milioni di dollari al giorno, in cui il ruolo del narcotraffico è passato dal 15 per cento nel 1980-85, al 35 per cento nel
libri e riviste
la vera storia che ha ispirato le leggendarie pagine di Kim, di Rudyard Kipling, raccontata da un celebre giornalista del Times. La storica sfida tra i servizi segreti zaristi e quelli britannici, nel grande scacchiere dell’Asia centrale: Turkmenistan, Tagikistan e Afghanistan. Le battaglie per il controllo dei passi Khyber e Bolan, porte d’accesso all’India che l’Inghilterra vittoriana vedeva minacciata dall’impero dello zar. Uno splendido racconto del passato che richiama spesso le cronache del presente, come la descrizione della tragica fine del capitano Arthur Connolly, emissario della Compagnia delle Indie a Buchara - è suo il termine «Grande Gioco». Giunto lì per liberare il colonnello Stoddart, prigioniero dell’emi-
È
1985-90, al 55 per cento nel 199095, al 60 per cento nel 1995-2000. Dopo l’inizio del Plan Colombia a sponsorizzazione Usa, con la sua pur contestata strategia di pesticidi sulle coltivazioni, questa quota si è un po’ ridotta, ma resta comunque attorno al 50 per cento. Così, la Colombia da Paese di transito è diventata Paese di produzione. E il ruolo di tramite che avevano prima i Cartelli colombiani li hanno invece ora quelli messicani: di Tijuana, del Golfo, di Sinaloa, di Juárez. L’attuale presidente Calderón appena insediato ha subito inviato 24mila soldati nelle zone più infestate dai narcos, ed ha poi con-
ro. Le loro teste che rotolano sono, forse, delle immagini meno cruente di quelle dei “mozza teste” contemporanei. Dalle cime nevose del Caucaso a ovest, attraverso i deserti e le catene montuose fino al Turkestan cinese e al Tibet a est, questi i confini del «gioco». All’inizio erano i timori di un’alleanza fra Napoleone e lo zar Alessandro I a togliere il sonno a Londra, ma la storia li cancellò. Poi, nel 1865, Tashkent si arrese ai russi e il «torneo d’ombre», fatto di cartografi travestiti da nomadi e pastori e di spie, ricominciò. Peter Hopkirk Il Grande Gioco Adelphi – 624 pagine – 33 euro
«
È però aumentato il consumo in Europa, proprio per effetto della seconda rotta: quella che prende la materia prima di Perù e Bolivia e la porta nel Vecchio Continente attraverso la mediazione dei nuovi cartelli brasiliani e nigeriani. Di qui, in particolare, i problemi del governo Lula, che ha dovuto mandare più volte l’esercito nelle favelas di Rio de Janeiro e San Paolo, per fare fronte alle continue sommosse di Comando Vermelho, Amigos dos Amigos, Primeiro Comando da Capital. Anzi, di recente si è scoperto che anche il Brasile come la Colombia è diventato a sua volta Paese produttore, con la comparsa delle prime piantagioni di coca in Amazzonia. La realtà è in evoluzione continua. Le Farc, ad esempio, oltre che con i Cartelli messicani hanno
l denaro, la proprietà, il matrimonio sono stati creati e vengono mantenuti dal comportamento cooperativo umano. Se cancellate tutte le rappresentazioni umane dovrete cancellare anche denaro, proprietà e matrimonio», è questo uno de concetti portanti dell’analisi di Searle sulla tradizione «logocentrista» occidentale. Con Socrate si è introdotta la critica, l’approccio «implacabile» e argomentativo verso qualunque filosofia o teorema. Dopo aver demolito l’accettazione acritica nella fede in Dio, ci staremo preparando a distruggere l’accettazione acritica dell’esistenza di una realtà fuori dalla percezione dei singoli. «La tradizione razionalista occidentale non diventa autocritica, ma autodistruzione». È la ragione che uccide se stessa. John R. Searle Occidente e multiculturalismo Luiss, Sole24Ore – 84 pagine – 10 euro
I
sviluppato contatti anche con i brasiliani, in modo che ora la loro coca finisce a sua volta in Europa. E un’altra rotta di cocaina Colombia-Europa è quella stabilita dai paramilitari di destra delle Autodifese Unite di Colombia (Auc) attraverso i contatti con la ‘ndrangheta del loro capo, l’oriundo calabrese Salvatore Mancuso, che peraltro si è arreso nel 2006. C’è poi il sempre maggior ruolo di tramite che sta esercitando il Venezuela, da quando Chávez nel corso della sua escalation verbale anti-Usa ne ha espulso gli agenti della Dea. A parte poi la simpatia manifestata dal regime bolivariano per le Farc, dei due importanti alleati di Chávez il presidente boliviano Evo Morales è tuttora leader del sindacato dei piccoli produttori di coca, mentre il padre di quello ecuadoriano Rafael Correa fu condannato come corriere. E lui infatti ai piccoli corrieri in carcere ha concesso un’amnistia. Ufficialmente, però, la linea Chávez-Morales è quella “cocaina zero, non coca zero”: cioè, consentire la coltivazione libera della coca per farne prodotti alternativi alla cocaina. Prodotti alternativi che lo stesso Chávez ha dichiarato più volte di gradire particolarmente. Per questo, è stata annunciata la realizzazione di due stabilimenti per il processamento della coca in Bolivia, con denaro venezuelano e tecnologia cubana.
he si chiami Fitna oppure Persepolis, poco importa, che sia un film, il primo, proiettato nelle sale di un Paese libero come l’Olanda o sia una pellicola d’animazione libanese, il secondo, che parla della repressione sotto lo scià e Khomeini, importa ancora meno.Vanno censurati, peggio meritano una fatwa del grande imam d’Egitto, Mohamad Sayyed Tantawi. Antiblasfemia è il nome del “cappio”che il radicalismo islamico mette al collo di molti autori, nel tentativo di condizionare altrettanti Paesi. La peggiore cultura orwelliana ha fatto poi scomodare l’Onu con una risoluzione contro la «diffamazione religiosa», che si sarebbe alleato con gli “estremisti”, con i nemici della libertà. Michael J. Totten Blasphemerers, Unite! Commentary – April 2008, web exclusive
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a cura di Pierre Chiartano
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Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein
C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia
Escamotage delle amministrazioni centrali e locali dopo che la Finanziaria ha vietato l’utilizzo di contratti flessibili
Statali:fuori i precari,dentro gli interinali di Marco Palombi
ROMA. Come si nasconde la polvere sotto il tappeto? Se non sapete rispondere a questa domanda l’indirizzo giusto a cui rivolgersi è quello del ministero della Funzione pubblica e chiedere sul precariato degli enti pubblici. Cominciamo dal principio. Il governo Prodi, pressato dalla componente di sinistra della coalizione, ha avviato un processo di stabilizzazione di decine di migliaia di precari storici della Pubblica amministrazione, soprattutto tra quelli in servizio presso le amministrazioni centrali. Poca roba (circa 150mila) rispetto alle dimensioni del fenomeno (quasi 2 milioni), pompato da anni di blocco del turn over. Sarebbe servita, e il ministro Luigi Nicolais ne era conscio, una riforma complessiva della macchina, che mettesse mano in maniera razionale anche alla pianta organica: puro esercizio di fantasia per un esecutivo debole come quello dell’Unione. La soluzione trovata è, a suo modo, un classico e può essere esemplificata appunto con l’azione di chi, invece di far pulizia, nasconda la polvere sotto il tappeto.
Tutto ha inizio con una petizione di principio destinata a essere smentita dai fatti. Il governo, con l’articolo 36 della Finanziaria per il 2008, sancisce che «le pubbliche amministrazioni assumono esclusivamente con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato e non possono avvalersi delle forme contrattuali di lavoro flessibile previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa se non per esigenze stagionali o per periodi non superiori a tre mesi», peraltro non rinnovabili.
l’associazione dei comuni, che chiarisce a Nicolais che saranno mandati a casa migliaia di lavoratori esclusi dai piani di stabilizzazione e che saranno chiusi parecchi servizi. Quisquilie tipo gli asili o l’assistenza agli anziani.
Al ministero non si perdono d’animo. Emanano tre circolari interpretative della norma e, nell’ultima, a fine marzo, individuano una serie di categorie di precari che possono continuare a lavorare nel pubblico in deroga alla legge. In soldoni,
di prestazione è importante quanto per la scuola. L’Anci, tanto per capire quanto contano le regole in Italia, ha commissionato un parere giuridico secondo il quale la norma della Finanziaria – contratti trimestrali solo ai laureati - non vale se le assunzioni vengono fatte sulle base di graduatorie concorsuali stilate nel 2007, ovvero prima dell’entrata in vigore della legge. La risposta della Funzione Pubblica – forte anche di un geniale ordine del giorno dei senatori Legnini (Ds) e Tibaldi
Stabilizzati 150mila ex Co.co.co su quasi 2 milioni. Ma di fronte alle ire degli enti, che lamentano scarso personale, il governo ha acconsentito di riassumere quelli in esubero attraverso agenzie di lavoro temporaneo Di più, i contratti atipici possono essere stipulati solo con «esperti di particolare e comprovata specializzazione universitaria», ovvero gente con competenze assenti negli uffici pubblici. Fantastico: un deciso stop alla precarizzazione di Stato e alla gestione clientelare della cosa pubblica. Non proprio: a lanciare l’allarme, insieme con il sindacalismo di base, è l’Anci,
chi ha un contratto di formazione lavoro o di inserimento, i docenti delle scuole materne e delle scuole gestite dagli enti locali nonché il personale educativo degli asili nido. Restano fuori, però, decine di servizi nati grazie all’autonomia organizzativa degli enti locali: servizi alla persona (assistenza) o quelli destinati all’impiego o agli sportelli turistici. Tutte cose per cui la continuità
(Pdci) approvato a marzo - è perfetta nella sua semplicità. La Finanziaria vorrebbe impedire un rapporto di lavoro precario tra amministrazioni e dipendenti, ma nulla vieta di ricorrere alla cosiddetta «somministrazione di lavoro». In altre parole, lo Stato, fautore del contratto a tempo indeterminato, demanda a una agenzia interinale il compito di far lavorare nello Stato i precari.
Un’altra soluzione è quella indicata, con un certo pudore, dalla circolare del 10 marzo: ci sono le deroghe, c’è la somministrazione di lavoro, se non basta «si dovrà ricorrere principalmente alle risorse interne alle amministrazioni o ad altri istituti, quali le assegnazioni temporanee di personale, o valutare, con l’opportuna prudenza, l’eventualità di ricorrere a strumenti diversi, quali gli appalti di servizi».
Con una formula che avrebbe fatto invidia al cancelliere Ferrer (“adelante… ma con jucio”), la Funzione Pubblica tenta di risolvere il problema del precariato nel Pubblico esternalizzando i servizi e cioè, semplicemente, spostando il precariato al di fuori del suo perimetro. Scelta politica legittima, ma che andrebbe almeno dichiarata e discussa pubblicamente. Il primo ad adeguarsi, a quanto risulta alle Rdb-Cub (il sindacato di base), è stato il comune di Firenze, che la scorsa settimana ha emanato il bando per l’esternalizzazione di servizi ai bagnanti, anche disabili, nelle piscine comunali. E poi si dice che la burocrazia fatica a mettersi in moto.
economia
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Domani vertice a Palazzo Chigi. Veltroni teme un blitz di Berlusconi
Alitalia:Prodi e sindacati costretti a tifare Air France di Francesco Pacifico
ROMA. Di cordate alternative ancora non c’è traccia, ma a Palazzo Chigi (come nel loft del Circo Massimo) si aspettano un rilancio di Silvio Berlusconi su Alitalia a poche ora dal voto. Un colpo di teatro simile a quello con il quale, alla fine dell’ultimo faccia a faccia con Romano Prodi, il Cavaliere annunciò il taglio dell’Ici sulla prima casa, lasciando l’attuale premier inebetito e balbettante. I sindacati, invece, temono che dopo il 14 aprile il loro potere d’interdizione alla Magliana sia destinato a scemare tra un governo uscente che ha gestito l’operazione (e vorrebbe vederla chiusa) e uno in entrata che non ha ancora chiare le idee sul da farsi. È in questo clima che domani mattina si incontrano a Palazzo Chigi governo e sindacato. Che si incontrano due debolezze, le quali mai come in questa fase hanno bisogno uno dell’altro per superare una situazione ormai ingestibile. Difficilmente l’operazione Alitalia si chiuderà prima dell’insediamento del prossimo esecutivo. Lo sanno i vertici di Air France, che attendono gli eventi forti di un’offerta ri-
tenuta l’unica credibile, se lo sono ripetuti ieri mattina in un vertice Romano Prodi, Tommaso PadoaSchioppa ed Enrico Letta, preparando l’incontro di domani. Proprio Letta, che presiederà il tavolo con i sindacati, ha mandato un duro monito: «Bisogna pensarci bene prima di dire no ad Air France». Ma in realtà il governo non lancerà altri ultimatum. Complici le pressioni di Veltroni,
Prodi,Tps e Letta hanno concordato che non è il caso di esacerbare gli animi, tanto che l’esecutivo si è imposto di non parlare più di commissariamento, che spaventa i sindacati quanto Air France. Soprattutto i tre si sarebbero soffermati sulle ripercussioni elettorali che sta avendo la faccenda e sulla necessità di non chiudere la
campagna elettorale all’insegna di Alitalia, della svendita agli stranieri e della penalizzazione del Nord attraverso l’indebolimento di Malpensa. Argomenti che potrebbero essere micidiali per l’esito elettorale se Berlusconi tirasse fuori dal cappello qualcosa in più di un semplice auspicio per una cordata italiana. Proprio questi fattori hanno spinto in questi giorni Palazzo Chigi a riannodare il dialogo con il sindacato. Così, domani, il governo e il suo rappresentante Letta potrebbero mostrarsi malleabili di fronte a una richiesta che i lavoratori fanno da tempo: convergere su una comune analisi delle criticità dell’operazione Air France, nella quale far presente la necessità di nuovi investimenti sulla flotta o per Malpensa così come l’auspicio che lo Stato partecipi in una qualsiasi forma (anche minima) alla fase di lancio della nuova compagnia. Nulla di vincolante per Air France, ma un’indicazione alla quale Spinetta dovrà attenersi in cambio del riconoscimento di politica e sindacati, che solo la compagnia francese può salvare Alitalia.
Forti nei call center e nelle attività amministrative, gli autonomi non vogliono sentir parlare dei francesi
Cub, una scheggia di duri e puri alla Magliana di Vincenzo Bacarani
ROMA. Domani saranno davanti a Palazzo Chigi, mentre i loro colleghi tratteranno con il governo il futuro di Alitalia. Non meno dei piloti che fanno lo sciopero della fame o gli addetti di terra che strappano le tessere sindacali, ci sono anche gli iscritti del Cub a rendere più ingestibile la situazione alla Magliana. E se le altre 9 sigle si fanno una ragione dell’ipotesi Air France, questi lavoratori non hanno alcuna voglia di svestire i panni dei duri e puri. Il primo aprile, mentre le trattative sembravano a un punto morto, i delegati del Cub erano quelli che occupavano la stazione della Muratella. Domani saranno a Palazzo Chigi per rivendicare il diritto a partecipare alle trattative. «Non veniamo ammessi ai tavoli», ricorda il responsabile nazionale del settore trasporti, Antonio Amoroso, «dal 2004. Da quando abbiamo rifiutato il piano del governo Berlusconi sulla privatizzazione (il piano Cimoli, ndr). Di questo rifiuto abbiamo pagato il prezzo persino con il governo Prodi che a ottobre del 2006 non ha smentito Berlusconi e non ci ha convocati».
La Cub rivendica una forte presenza nei settori che verrebbero più penalizzati da Air France: call-center, informatica e amministrativo. «Rappresentiamo oltre il 60 per cento dei lavoratori di questi comparti e, nonostante questo, veniamo ignorati», aggiunge Amoroso. E qui i tagli sono pesanti: quasi 3mila esuberi che vanno aggiunti agli oltre 2mila tra piloti, tecnici e assistenti di volo. «Una cosa assurda», nota Amoroso, «perché il mercato in quei settori non è decotto in quanto il costo del lavoro è molto basso e la qualità elevata». In particolare nel principale call-center di Alitalia Servizi (che si occupa della clientela d’élite) operano circa 300 persone di cui 150 con contratti a tempo determinato, rinnovati in maniera costante. Ma per la Cub è possibile affrontare il problema complessivo della compagnia di bandiera. «Riteniamo», dice Amoroso, «che sia più che mai necessario un investimento dello Stato in Alitalia che come trend di crescita è tra le prime compagnie al mondo. Air France pone condizioni troppo dure».
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Fmi: crisi subprime costerà mille miliardi La crisi dei subprime potrebbe costare all’economia mondiale intorno ai mille miliardi di dollari. A lanciare questa stima è stato il Fondo monetario internazionale nel suo Global Financial Stability Report, diffuso ieri. Soltanto il mercato dei mutui potrebbe risentirne per 565 miliardi di dollari. Serie ripercussioni per il livello di credit crunch, visto che la «crisi di fiducia rischia di protrarsi per un lungo periodo». Tanto che l’organismo ha chiesto maggiore controlli da parte delle autorità centrali sulle banche.
Marghera, capitale dell’idrogeno Enel e l’Unione industriale di Venezia hanno inaugurato a Marghera il cantiere per la prima centrale mondiale all’idrogeno. L’impianto, a regime, avrà una potenza di 12 megawatt, più 4mw derivanti dall’uso nell’impianto a carbone esistente dei gas caldi prodotti dalla turbina alimentata a idrogeno, con un rendimento elettrico complessivo pari al 43 per cento. L’investimento previsto è di di 47 milioni di euro, l’entrata in produzione è prevista per il 2009, sarà in grado di soddisfare il fabbisogno di 20mila famiglie, evitando l’emissione in atmosfera di oltre 17.000 tonnellate di CO2.
Ocse: Italia maglia nera per produttività L’Italia conquista la maglia nera per produttivitià tra i Paesi industrializzati. È quanto denuncia l’Ocse nel Factbook 2008 pubblicato ieri. Il Belpaese è ultimo per la produttività pro-capite da lavoro che risulta quasi nulla, inferiore allo 0,5 per cento, tra il 2001 e il 2006. E questo nonostante i progressi effettuati nell’ultimo periodo con la produttività passata dal -1,2 del 2002 al +0,4 per cento del 2005. Bassa l’occupazione femminile: con il suo 46,3 per cento nel 2006 il tasso è lontano dalla media Ue (58,5).
Nuovo bando per “Industria 2015” Via libera ieri dal ministro dello Sviluppo, Pier Luigi Bersani, al terzo bando del piano “Industria 2015”. Il programma mette a disposizione 190 milioni di euro, di cui 25 milioni di euro a disposizione esclusivamente delle piccole e micro imprese, per l’innovazione nel Made in Italy. Ciascun programma dovrà essere il frutto della collaborazione tra imprese ed organismi di ricerca, deve comportare una spesa complessiva minima pari ad almeno 7 milioni di euro.
Borsa stabile, recupera Seat Stabile Piazza Affari, dove il Mibtel ha ceduto lo 0,1 per cento, mentre lo S&P/Mib ha guadagnato lo 0,16.Recupera Seat (+5) e balzi in avanti anche per Parmalat (+1,1) alla vigilia dell’assemblea.
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musica Il maestro Claudio Abbado insieme con i protagonisti del Fidelio ricevono l’omaggio degli spettatori alla fine dello spettacolo; in basso una scena della prima assoluta di Reggio Emilia (foto di Alfredo Anceschi)
a decadenza inarrestabile che negli ultimi decenni ha colpito l’eleganza, vuoi maschile vuoi femminile, nel campo degli accessori impedisce a tutti noi oggi di rendere il dovuto omaggio a Claudio Abbado per l’alta impresa compiuta sul Fidelio di Beethoven. Purtuttavia, il segno di rispetto prescritto da Schumann nei confronti di Chopin sarà bene rivolgerlo al direttore milanese, almeno in via metaforica. Dunque: giù il cappello, signore e signori; se non è un genio, poco ci manca. Quest’uomo di cristallo ovvero contesto d’una placenta opalina, muove le mani ossute con gesti d’eleganza suprema e quintessenziata, le sue dita adunche tracciano nell’aria carezze immaginarie e tenerissime, nei suoi movimenti da e verso lo sgabello poggiato sul podio si ravvisa la stessa impercettibile levità con la quale dalla sua persona scaturisce la musica. Che l’Orchestra da camera Mahler e il Coro Arnold Schoenberg (cui s’affianca il Coro de la Comunidad di Madrid) meritino d’essere issati sulli scudi non è certo una scoperta, quantunque in quest’occasione il flauto della Tonelli, l’oboe della Yoshii, il fagotto di Zucco e il corno di Allegrini superino ogni aspettativa. No, la meraviglia di questo Fidelio risiede altrove, nel mirabile lavoro di concertazione, nel rapporto di reciprocità instaurato tra fossa e palco.
L
Scorrendo una delle due interviste rilasciate da Abbado prima dell’andata in scena al Valli di Reggio Emilia (abilissimo amministratore della propria immagine e formidabile centellinatore d’idee e parole, il maestro in Italia parla sempre e solo con gli stessi quotidiani: i due più venduti, si capisce), ero trasalito nel leggere un elogio della scrittura vocale beethoveniana, notoriamente ostica. Certo, egli tendeva a inquadrarla nell’ottica sua prediletta dello storicismo progressi-
Il maestro ha orchestrato mirabilmente l’opera di Beethoven
Il genio di Abbado esalta il Fidelio di Jacopo Pellegrini sta, come spia d’una ‘modernità’ a venire: l’uomo che a Cajkovskij ha sempre preferito il ‘problematico’ Musorgskij, che in Verdi punta sui titoli sperimentali (Macbeth e Simon Boccanegra) e sui postremi (da Aida in poi), che non s’è mai accostato a Puccini o a Richard Strauss (eccezion fatta per l’‘audace’ Elektra), liquidati, immagino, come campioni d’una drammaturgia borghese e tradizionalista, non poteva smentirsi. Pure, questa lode alla vocalità del Fidelio, una volta pronunciata, costituiva, per così dire, un precedente.
Ad ascolto dell’opera concluso, occorre riconoscerlo: aveva ragione lui. Nessuno dei cantanti scesi in campo appartiene alla categoria dei pesi massimi; nessuno, d’altro canto, compromette l’esito complessivo. Clifton Forbis, Florestano, fatica molto a sollevare verso l’alto la sua voce soffocata, ma, in una parte micidiale, non lesina impegno e buona volontà; Anja Kampe, Fidelio/Leonora dai bei capelli biondi, vanta figura prestante, carattere e sensibilità per la parola, peccato arrivi un po’ a corto di fiato sui picchi della tessitura; Giorgio Surjan è un
Il risultato ottenuto è importante quanto inatteso: il canto assurge a veicolo drammaturgico al pari del ritmo e dell’armonia Rocco dal canto solido, punto caricaturale; la coppia dei giovani, Marzelline e Jaquino, trova in Julia Kleiter e Jörg Schneider due interpreti squisiti, due porcellane di Capodimonte; e se il Don Fernando di Randes risulta debole, i due prigionieri-solisti (Arcayürek e Pall) potrebbero, al contrario, servire da testimonial dell’Abbado pensiero, per il modo in cui alitano le loro poche ma fondamentali frasi. Tutti, insomma, salvo ovviamente Pizzarro, il cattivo che più cattivo non si può (Albert Dohmen, il quale compensa
colla personalità scenica e il timbro scuro un’emissione non proprio irreprensibile), perseguono un canto sfumato, mai plateale, con un percepibile fondo liederistico, intimo, sorgivo: vertici massimi, il Quartetto a canone «Mir ist so wunderbar» (spogliato d’ogni ieraticità, colmo d’una grazia alata, ineffabile) e, appunto, il Coro dei prigionieri (cosa sono state le battute introduttive: il si bemolle pressoché inudibile dei contrabbassi sul quale s’innesta la scala degli altri archi in pianissimo e senza vibrato, il tutto concluso dall’accordo dei due corni sempre sottovoce). Questa impostazione perviene a un risultato importante quanto inatteso: il canto assurge a veicolo drammaturgico basilare, al pari del ritmo e dell’armonia.
Con Abbado Fidelio non è solo leggerezza e chiaroscuro oppure lirismo lancinante, sprigiona anche violenza feroce (Pizzarro), angoscia piena (inizio atto II) e corsa sfrenata alla gioia (principio del Finale ultimo): la bacchetta segue tutte le svolte della musica, né si può dire privilegi il ”dramma di idee” (la la prigionia, giustizia e l’ingiustizia umane, la fratellanza, l’abnega-
zione e il coraggio della sposa nel difendere il proprio consorte) rispetto al ”dramma di carattere”, alle eredità del Singspiel mozartiano (Ratto dal serraglio e, soprattutto, Flauto magico). Anzi, semmai il comico finisce per intrufolarsi nel patetico, investendolo di nuova luce (interventi di Rocco nel Finale I). Ad assicurare l’unità dell’edificio Abbado delega un elemento non appariscente ma essenziale: l’uso massiccio di certi profili ritmici nell’accompagnamento strumentale, ostinati, note ribattute con o senza tremolo, note tenute (negli archi volentieri risolte col tipico espediente abbadiano della nota che cresce per subito spegnersi).
Sul programma di sala, Esteban Buch, il sociologo francoargentino specializzato in tematiche musicali, disquisisce da par suo di Fidelio come ”opera politica”, lasciando però in ombra la componente sonora. Qualcosa di simile fa, nella messinscena, il regista cinematografico tedesco (debuttante all’opera) Chris Kraus: per tre quarti assistiamo a un Fidelio molto ben confezionato, senza eccentricità, gesti accurati, luci magnifiche, scena fissa (un anfiteatro di celle con dentro i prigionieri incappucciati) sul nero di Maurizio Balò, costumi fine Settecento di Annamaria Heinreich, alcune sottolineature molto indovinate (l’opportunismo del carceriere Rocco, lo scontro Pizzarro-Leonora nelle segrete); poi, alla fine, il ministro liberatore si presenta in abiti cardinalizi (l’alleanza trono-altare, sai che novità!) e, mentre libera l’amico Florestano, condanna gli altri prigionieri alla ghigliottina. Che la storia dell’umanità sia punteggiata di misfatti e che, più o meno, finisca sempre così, non fa una grinza. Purtroppo per Kraus, però, Beethoven credeva nella palingenesi universale, o almeno ci sperava. Privarlo, e noi con lui, di quest’illusione è da veri screanzati.
sport
9 aprile 2008 • pagina 21
Nel suo libro «19’’72» Mennea ripercorre i 200 metri che lo innalzarono al record mondiale nel settembre del 1979
«Il giorno più bello della mia vita» colloquio con Pietro Mennea di Cristiano Bucchi ROMA. Quando Mennea alzò le braccia al cielo per salutare il record del mondo sui 200 metri era l’estate del 1979. L’Italia viveva un periodo particolarmente drammatico: l’inflazione al 22%, lo scandalo del Banco Ambrosiano che avrebbe provocato un terremoto anche dentro la Banca d’Italia, e il nuovo governo (Dc-Psdi-Pli) nato tra mille difficoltà il 5 agosto e guidato da Francesco Cossiga. Dall’altra parte del mondo e più precisamente a Città del Messico si celebravano le Universiadi. A quasi trent’anni di distanza, Pietro Paolo Mennea classe 1952, ha deciso di raccontare la sua gara perfetta, quel record che per diciassette anni è appartenuto solamente a lui. 19’’72 è il titolo del suo nuovo libro. Cosa ricorda di quel 12 settembre del 1979? Nella mita vita agonistica ha inseguito soprattutto due risultati: il record del mondo sui 200 metri e la vittoria ai Giochi olimpici che ho ottenuto nel 1980 a Mosca. Ho iniziato a correre guardando in televisione il grande Tommy Smith che nel 1968 a Città del Messico stabilì il record con 19’’83. Allora avevo sedici anni e vedendo quella gara mi sono innamorato della corsa. Quel 12 settembre mi tornarono in mente tanti momenti. Probabilmente è stato il giorno più bello della mia vita. Non lo scorderò mai. Nel libro scrive che la persona più felice del record fu suo padre. Che cosa le disse? Mio padre era una persona molto riservata. Seguiva con grande attenzione la mia carriera ma sempre con rispetto e distacco. Mi ha sempre lasciato fare anche perché conosceva bene il mio senso di responsabilità. Ogni volta che vincevo una gara andava al bar dagli amici e mostrava i giornali che parlavano di me. Quando tornavo a casa dopo una gara mi accoglieva sempre con un tono molto scherzoso. Le posso dire in tutta tranquillità che è stato un punto di riferimento indispensabile. Lei ha corso per circa 20 anni in oltre 500 gare. Qual è stato il momento più difficile? Di momenti difficili ne ho avuti tanti. Uno su tutti è stato nel 1976 la vigilia di Montreal. Partivo favorito e invece arrivai solo quarto. I dirigenti della Fidal allora mi invitarono a lasciare Vittori, ma io risposi di no. In quel momento ho preferito salvaguardare un’amicizia anziché privilegiare il lavoro. Si è mai pentito di quella scelta? Mai. Tornassi indietro la rifarei. Avrebbe potuto fare a meno del prof. Carlo Vittori? Probabilmente sì. Avevamo studiato assieme il metodo di allenamento. Il nostro era veramente un lavoro di equipe; la sera ci sedevamo at-
torno a un tavolo e analizzavamo assieme i risultati. Probabilmente avrei potuto vincere anche con un altro preparatore. Ma con Vittori era tutto più semplice; per alcune cose mi conosceva meglio dei miei genitori. Lei racconta allenadi menti al limite della sopportazione umana.
Qual è stato il sacrificio più grande che ha dovuto sopportare? Non ho mai considerato gli allenamenti un sacrificio o una fatica. Mi piaceva molto allenarmi, affrontare quell’impegno fisico e mentale. Solo attraverso il sacrificio, l’impegno, la dedizione e la grande passione si possono raggiungere certi risultati. Purtroppo oggi lo sport guarda troppo al business e questo non aiuta gli atleti. Che sensazione provava quando correva? Provavo piacere. Mi piaceva la competizione, la possibilità di confrontarmi con altri atleti. Sono stato sempre molto concreto nella mia carriera agonistica, ed è grazie a questo che sono riuscito ad ottenere determinati risultati. In pista mi sentivo libero. Una sensazione
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Don Quarry ma in generale ce ne sono stati tanti. Cosa le ha fatto dire basta? Mi sono ritirato per la prima volta dopo Mosca; ero stanco mentalmente più che fisicamente. Erano 15 anni che bevevo acqua naturale, non ce la facevo più. Alla fine sono tornato perchè avevo ancora qualcosa da dire. Parliamo di doping. Lei ha più volte ripetuto che bisognerebbe togliere la competenza sull’antidoping agli organismi sportivi. Un appello però caduto nel vuoto. Perché? Nel momento in cui gli organismi sportivi come la Uada, il Cio o le Federazioni perdono potere, non possono più governare i grandi eventi sportivi che a loro volta si reggono sulle sponsorizzazioni e sulla cessione dei diritti televisivi. Chi investe a sua volta vuole il ritorno e solo la grande prestazione agonista può assicurare tutto questo. Così chi scegli la scorciatoia, vale a dire il doping, ha più possibilità di ottenere la grande prestazione. Ma lo sport è un altra cosa. Le Olimpiadi di Pechino sono state soprannominate i giochi del silenzio: per partecipare gli atleti della nazionale inglese dovranno sottoscrivere un documento che li obbliga al silenzio sui temi politici. Reputa corretta questa clausola? Secondo lei sarebbe giusto boicottare i giochi cinesi? Ho sempre detto che un boicottaggio può scaturire degli effetti solo se è totale altrimenti è inutile. Credo che l’errore sia stato tutto del Cio. Il Comitato Olimpico ha sbagliato ad assegnare i giochi alla Cina. C’è un particolare di cui nessuno parla; l’elezione di Jacques Rogges alla presidenza del Cio è stata possibile perchè la delegazione cinese gli ha portato su un piatto d’argento in cambio della candidatura i voti asiatici. E’ chiaro che Rogges oggi non può mettersi contro chi lo ha votato. Il dato più preoccupante è il silenzio del Cio. E pensare che la carta olimpica parla di pace, di solidarietà e di diritti. Guardando al futuro, quanto pensa dovremo aspettare per un nuovo Mennea? Purtoppo lo sport italiano non è fatto di programmazione ma di individualità. Ci sono strutture che non funzionano, i talenti ci sono ma quando si esprimono non restano impigliati nella rete, così si perdono. In questo modo è tutto più difficile.
Amavo correre perché mi piacevano la competizione e il confronto con altri atleti. E mi sentivo libero. Una sensazione che porto ancora dentro che porto ancora dentro. Il 23 giugno del 1996 il ventinovenne texano Michael Johnson ha ottenuto il nuovo record sui 200 metri con 19’’66. Cosa ha provato in quel momento? Quello è stato il record più tentato al mondo, anche perché erano passati sedici anni e nessuno era riuscito a cancellare quel 19’’72. Johnson era forse l’atleta più accreditato. Quando stabilì il nuovo record è andata via una parte di me anche perchè avevo inseguito quel risultato per tanti anni. Non ho mai invidiato i miei avversari. E fu così anche allora. Vorrei comunque ricordare che 19’’72 rappresenta ancora il record europeo. Chi è stato il suo avversario numero uno? Valeri Borzov all’inizio, poi è arrivato
A destra l’arrivo di Pietro Mennea ai 200 metri delle Universiadi di Città del Messico il 12 settembre del 1979, che vinse in 19’’72, stabilendo in quell’istante il nuovo record mondiale
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opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Le schede elettorali vanno cambiate? VOTIAMO CON QUELLE GIÀ STAMPATE ALTRIMENTI PD E PDL SARANNO FAVORITI Io non credo che, arrivati a questo punto, sia davvero un bene cambiare le schede elettorali. Il rischio non potrebbe essere quello di creare ulteriormente confusione tra i cittadini? Cittadini che, oltre tutto, potrebbero anche essere tratti in inganno nel vedere i simboli dei partiti maggiori, popolo della libertà e Partito democratico, in una posizione più grande e privilegiata rispetto ai simboli dei diversi partiti minori. Credo abbia ragione il leader dell’unione di Centro, Pier Ferdinando Casini: «Le schede non vanno toccate».
Gaia Miani - Roma
UN CAMBIAMENTO SAREBBE INCOSTITUZIONALE VISTO CHE NEI GIORNI SCORSI C’È GIÀ CHI HA VOTATO Andrebbero cambiate se però fosse possibile, perché questa volta si rischia davvero un annullamento record. Ma ormai è tardi e forse Amato, che comunque resta il responsabile di questa indegna farsa, ha ragione quando afferma che la ristampa sarebbe anticostituzionale dal momento che molti residenti all’estero hanno già votato con questa scheda. Al punto in cui siamo quindi sarebbe il caso di
LA DOMANDA DI DOMANI
Siete d’accordo con la decisione del Cio di non sospendere il giro della fiaccola olimpica? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
farla finita con questa assurda quanto sterile polemica e dedicare il tempo che resta per spiegare bene, in tivù e sui giornali, come votare per evitare le possibilità di annullamento del voto. Resta il fatto che questo governo non ha perso l’ultima occasione per far ridere gli Italiani e gli osservatori stranieri. Veramente il Professore non ne ha azzeccata una in questi due anni. E pensare che mira ancora a diventare Presidente della Repubblica post Napolitano.
Oliviero Carpentieri - Napoli
I CITTADINI NON NE POSSONO PROPRIO PIÙ, TROPPA CONFUSIONE E TROPPI SOLDI SPRECATI E’ indegno dover votare con una siffatta scheda. Non era già abbastanza rischioso votare per elezioni politiche e amministrative nello stesso giorno? Ebbene il nostro ministro degli Interni ha pensato bene di rendere difficilissimo il difficile. E’ veramente ora di avviare il ricambio generazionale perché, sarà l’età avanzata di gran parte della nostra classe politica, sarà lo stress che il far politica procura, fatto sta che il governo ancora in carica non tralascia occasione per massacrare noi poveri cittadini. Tartassati dalle tasse, dagli scioperi, dalla ”monnezza”, dai cibi taroccati, dai viaggi a sbafo di Pecoraro Scanio e via dicendo, dobbiamo pure fare i conti con il voto difficile. Vorrei dire meno male che questo governo ha i giorni contati, stando almeno ai sondaggi, ma non riesco a dimenticare che chi arriverà a reggere le sorti d’Italia non è certo un giovanotto.
Marco Valensise - Milano
SE ACCETTIAMO LE SCHEDE COSÌ COME SONO NON LAMENTIAMOCI POI DEGLI ANNULLAMENTI Vanno cambiate. Ed è l’unico modo per evitare gli annullamenti delle schede che invece riportano una chiara scelta ma magari con una piccola sbavatura sul simbolo del partito che è a fianco a quello realmente scelto. Ma vi sembra poco? Già in Italia, purtroppo, si verificano ad ogni elezione dei presunti brogli elettorali, se poi si offre anche la possibilità di annullare delle schede, di cosa poi ci lamentiamo?
BOSSI E LA ”CASSA DEL MEZZOGIORNO” L’ultima ed ennesima uscita di Bossi su “Roma ladrona” e la possibilità dell’uso dei fucili non possono lasciare indifferenti. L’Umberto Nazionale dovrebbe sapere che ho un figlio che si chiama Enrico perché questo era il nome del nonno, il quale a sua volta lo aveva ereditato dal fratello del padre morto nella grande guerra ’15-’18. Un contadino della pianura della Valle del Sacco, il cui nome è scolpito sul monumento ai caduti di Anagni, morto sulle Alpi, migliaia di chilometri dal suo paese che prima del tragico evento non aveva mai lasciato e si è fatto ammazzare perché lo avevano convinto che difendere la pianura padana significasse difendere casa sua. Potete immaginare se per un caso del destino i tanti contadini delle regioni centromeridionali avessero disertato l’appuntamento e gli austriaci avessero riassunto il controllo su Venezia e Milano, oggi ci saremmo evitati gli spettacoli dei neo-Alberti da Giussano, le sagre di Pontida e le stupidaggini sulla nazione padana. Vorrei ricordare al prode Umberto che mi è toccato nascere e vivere a ridosso
OMBRE ROSSE Ogni anno, nel Wyoming, il rodeo ”Cheyenne Frontier Days”: turisti e cittadini incontrano cowboy, ascoltano musica country e alloggiano in veri saloon. Il tutto in perfetto stile western, abbigliamento compreso PIENA SOLIDARIETÀ A GIULIANO FERRARA Scrivo per porgere a Giuliano Ferrara le mie più sentite scuse per gli avvenimenti accaduti al suo comizio di Bologna. Mi sono vergognata profondamente perché tra le persone che lo hanno contestato c’erano parecchie donne (femministe) oltre che uomini (maschi pentiti che si fanno abbindolare dalle femministe). E’ proprio a nome delle donne, quelle serie, che porgo le mie scuse. Scrivo innanzitutto per esprimere la mia solidarietà e per far sentire vicina la presenza di chi come me si è indignato nel vedere una contestazione così dura nei confronti di chi invece andrebbe premiato e sostenuto per il suo impegno su un tema importante come l’aborto.Voglio inoltre far sapere che sono veramente riconoscente a Ferrara per aver portato sotto i riflettori un problema etico così impor-
dai circoli liberal Amelia Giuliani - Potenza
della linea di demarcazione della defunta “Cassa del Mezzogiorno”, che invece di rappresentare un’occasione di sviluppo per le aree depresse del sud è stata una grande occasione per molti imprenditori del nord per ricevere prebende dallo Stato, acquisite con il falso scopo di impiantare opifici nuovi nel meridione ma che in verità sono servite a rimodernare gli apparati produttivi delle aree già industrializzate ed il sud ha visto solo i vecchi ed obsoleti impianti dismessi nel nord che hanno fatto finta di produrre solo per qualche anno. Oggi il panorama della Valle del Sacco, l’inizio delle aree soggette alla “Cassa del Mezzogiorno” è rappresentato da un enorme cimitero di capannoni dimessi, tanto che la Regione Lazio ha dovuto varare una legge per il loro riutilizzo. Se fossi Bossi non eccederei nel dibattito sull’immondizia in Campania perché è vero che vi è un gravissimo problema legato allo smaltimento, responsabilità, tutta, delle giunte campane e napoletane, ma lo stesso è uno scherzo in confronto a quello che l’eco-camorra ha combinato con le discariche abusive di rifiuti tossici e nocivi
tante, che negli ultimi anni sembrava essere stato sepolto, nascosto. La donna si deve responsabilizzare su certi temi e il portare alla luce il problema favorisce chi vuole prenderne coscienza, ma anche chi non vuole (vedi le contestazioni forti). Mi auguro che in futuro non succedano più cose di questo tipo e che la gente prenda esempio dall’iniziativa per avere coscienza delle proprie azioni. Rinnovandole tutto il mio sostegno e quello delle donne che hanno una visione della vita diversa da quelle che frequentano i centri sociali, e che forse dovrebbero svegliarsi e capire che non sono altro che delle vittime del femminismo, porgo i miei saluti, augurando al direttore del Foglio buona fortuna per le sue iniziative: spero continui a portare nelle piazze il suo pensiero, sicura che tanta gente sarà disposta ad ascoltarlo.
Sonia C.
e i maggiori “clienti” della camorra erano le industrie del nord che negli anni Settanta e Ottanta hanno utilizzato la Campania quale pattumiera. Quindi l’Umberto nazionale ha legittimità di parlare di federalismo e difesa del patrimonio storico-culturale delle regioni settentrionali. Ha meno legittimità nel voler a tutti i costi scaricare responsabilità ad altri sconvolgendo la storia. Alberto Caciolo COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL LAZIO
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione nazionale dei Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Voi siete Paracelso, io una reclusa martoriata Ogni volta che tardo a scrivervi, state certo che non mi prendo dei «momenti di svago», ma soccombo ai miei momenti peggiori. E’ stato cortese da parte vostra voler sapere come stavo, e non è stato scortese da parte mia tenere in sospeso la risposta, non avevo molta voglia di parlarne. Questo tempo implacabile! Questo vento di levante che sembra soffiare con il sole e con la luna! Chi può star bene con un vento simile? Aprile sta arrivando. Ci saranno sia maggio sia giugno se vivremo abbastanza per vederli, e forse, dopotutto, è possibile. Vi vedrò quando un tempo mite mi avrà rinvigorita e avrà rimesso a posto il mondo. Se pensate che non voglia vedervi vi sbagliate. All’inizio avrò paura di voi, benché non ne abbia adesso, mentre scrivo queste parole.Voi siete Paracelso, e io una reclusa i cui nervi sono stati martoriati sulla gogna. E ora vacillano al vento, sussultando a ogni passo e fiato. Elizabeth B. Barrett a Robert Browning
DAL 15 FERRAIO SCORSO NIENTE TAC AL FORLANINI Più volte è stata lanciata l’emergenza da parte dei cittadini, dei comitati, delle istituzioni, del personale medico e paramedico, dei partiti politici e dei mass media in merito ai bilanci quanto mai a rischio dell’ospedale Forlanini di Roma, che non rispondono in modo adeguato alle esigenze sanitarie dei cittadini, e poi di punto in bianco sono stati spesi 2,5 milioni di euro per l’acquisto di una Tac da installare presso la radiologia quando è stata smantellata una Tac già esistente, installata nel 2002, che risultava ancora funzionante per lo studio delle patologie polmonari. La decisione di installare una nuova Tac ha creato disagio sia ai ricoverati che agli utenti esterni. Dal 15 febbraio, infatti, non si eseguono Tac al Forlanini. Forse non tutti sanno che a causa della carenza di apparecchiature assai meno costose i tempi di attesa per eseguire un esame mammografico sono di circa 12 mesi, per una ecografia ci vogliono oltre 11 mesi, per una eco-mammaria un anno e otto mesi e per un Moc più di tredici mesi. L’acquisto delle apparecchiature sanitarie dovrebbe ri-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
9 aprile 1553 Muore François Rabelais, scrittore e umanista francese 1626 Muore Francesco Bacone, filosofo, politico e saggista inglese 1868 Bologna: Giosuè Carducci, titolare della cattedra di letteratura italiana all’università, viene sospeso per 75 giorni, per aver sottoscritto una lettera diretta a Mazzini e Garibaldi 1965 Nel Regno Unito esce il singolo dei Beatles dal titolo Ticket to Ride 1975 Los Angeles: Federico Fellini vince il quarto Oscar con il film Amarcord 1979 Italia: La Rai manda in onda i primi episodi dei cartoni animati giapponesi Capitan Harlock e Atlas Ufo Robot 1989 Eugenio Scalfari e Carlo Caracciolo vendono il pacchetto azionario dell’Editoriale L’Espresso alla Mondadori di Carlo De Benedetti. Comincia uno scontro con l’azionista Silvio Berlusconi per il controllo della casa editrice. La partita si concluderà due anni dopo, il 30 aprile 1991
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
spondere al bisogno di salute dei cittadini e tenere conto del rapporto costi/benefici. Dinanzi a questo stato di degrad, bisognerebbe attuare uno smantellamento dell’ospedale stesso che entro breve verrà chiuso per lasciare spazio alle poltrone dei governanti della Regione Lazio, poiché diventerà sede del Consiglio Regionale. Sono personalmente disgustato da simili politiche sociali, che saranno la causa della chiusura di uno degli ospedali più prestigiosi di Roma.
Francesco Lupi - Roma
LA SINISTRA E LA DIVERSITÀ ETICA Dinnanzi ai tanti e ripetuti casi di prìncipi della sinistra, di austeri e all’apparenza rigorosi moralisti tosco-emiliani, di zelanti e per parvenza sobri azionisti torinesi e di ossequianti del Pci, dei Verdi, delle Coop rosse e dell’Unipol colti in fallo, osserviamo, con un piccolo barlume di speranza, che la tesi della diversità etica ed antropologica della sinistra assomiglia sempre più ad una candela ridotta a una minima striscia di sego che lancia gli ultimi bagliori e guizzi di luce prima di spegnersi per sempre.
Pierpaolo Vezzani
PUNTURE A Londra spopola il musical “Via col vento”. In Italia, nel Pdl, spopola il musical bossiano “Via col vento del Nord”.
Giancristiano Desiderio
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La vera generosità verso il futuro consiste nel donare tutto al presente ALBERT CAMUS
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Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di CHI CONDUCE LA MIGLIORE CAMPAGNA? Se l’Italia fosse un paese normale gli ultimi giorni che precedono il voto sarebbero spesi dai candidati in un lungo rusch finale, di quelli che caratterizzano, ad esempio, le campagne statunitensi, francesi e persino spagnole. Ci sarebbero più di un faccia a faccia televisivo in cui i candidati spenderebbero le loro migliori cartucce per spiegare il programma e mettere, per quanto possibile, in imbarazzo l’avversario di turno. In Italia non stiamo assistendo ad uno spettacolo edificante. (...) I maggiori leader dei partiti hanno scarsa voglia di confrontarsi con i problemi reali del paese. Si evitano quegli argomenti che, chiunque vinca, dovrà affrontare quando sarà al governo. Si cercano, invece, delle scorciatoie per garantirsi titoli ad effetto sui quotidiani attraverso l’esplosione (...) di scandali e polemiche. Anche se tutti gli altri partiti, quelli piccoli ed intermedi, sono comunque chiamati a spendere più di una battuta su quanto accade, spesso con malavoglia, si nota come siano questi ultimi a toccare i temi caldi che interessano agli italiani. Dalla Sinistra Arcobaleno con i continui richiami alla precarietà, alle morti bianche, all’ecologia; all’Udc fortemente identitario che si richiama ai valori puri del populismo cattolico, alla Destra col suo mutuo sociale e le sue campagne contro l’immigrazione; ai socialisti di Boselli che non perdono occasione per richiamare l’attenzione sui diritti civili, il laicismo e le unioni di fatto. In sostanza ognuno, facendo riferimento ai dettami ideologici, tenta di far capire la propria ricetta. Si capisce allora come questi possano avere più di qualche freccia al loro arco. Stanno arrivando (...) dritto al cuore dei cittadini.Vedremo cosa accadrà soprattutto se al Senato vi sarà quel tanto te-
muto pareggio. Se così fosse non devono sorprendere quelle voci che ventilano le grandi intese, che per ora nessuno dà l’impressione di accreditare nei maggiori partiti, ma alle quali tutti cominceranno a pensare dopo la fatidica data del 14 aprile.
L’osservatore ”del” Romano giusva1.iobloggo.com
L’UMBERTO SENTE ODORE DI PAREGGIO Che nel repertorio del buon Umberto ci fossero pezzi di un certo peso era noto da tempo a tutti. Non stupisce quindi l’uscita sui fucili da imbracciare per l’ordine delle liste sulle schede. Uscita che fa il paio con quella di qualche anno fa secondo cui i fucili si sarebbero dovuti imbracciare per andare a snidare, casa per casa, quelli che secondo lui erano i fascisti e che oggi sono grossa parte della sua coalizione. Cosa bolle in pentola? L’Umberto sente odore di pareggio, intravede la possibilità di accordo tra Pdl, Pd e magari anche Udc e sa che se la cosa andrà in porto non ci sarà spazio per la Lega. Così come il Pd ha potato i cespugli, al centro destra si chiederà un biglietto d’ingresso rappresentato dal benservito al carroccio. Per tentare di frenare questa tendenza, l’Umberto tenta di avvelenire il clima per scavare un solco quanto più ampio possibile tra i due schieramenti. Da un punto di vista tattico gode di un vantaggio visto che Silvio, oltre a discettare dell’età e della salute dell’Umberto, non può concedersi uscite più velenose ed incisive. Tuttavia più che un solco servirebbe un fossato per escludere fin d’ora l’esito dell’accordo. E non è detto che possa bastare visto che i pontieri sono già alacremente al lavoro da tempo.
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