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il papa negli usa di e h c a n cro di Ferdinando Adornato
Una scossa per i catholics pagina 8
Michael Novak
mondo IL VECCHIO CONTINENTE LABORATORIO CONTRO IL JIHAD pagina 11
Daniel Pipes
economia
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LA PRIMA PROMESSA NON MANTENUTA Polemiche su Napolitano e sui brogli, attacchi personali tra Berlusconi e Veltroni: gli insulti concludono la campagna elettorale. Va avanti così da quindici anni: ora basta
L’EREDITÀ DI PRODI: MANOVRE PER 30 MILIARDI pagina 18
Giuliano Cazzola
Di nuovo alla guerra civile
Socrate Regole, rigore e risorse per salvare l’Università Giovanni Donzelli Tommaso Gastaldi Francesco Toscano Guido Trombetti da pagina 12 Sergio Valzania
inediti THÉOPHILE GAUTIER E LA MODERNITÀ DEI “ROMANZI BEFFARDI“ Pier Mario Fasanotti
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alle pagine 2, 3, 4 e2 5e 3 alle pagine 9 771827 881004
GIOVEDÌ 10 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
65 •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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di nuovo alla
guerra
civile
La polemica accesa da Berlusconi su Napolitano cancella il progetto di un bipartitismo temperato e costringe anche Veltroni a immergersi nel clima del bipolarismo militarizzato
Lo spirito del ‘94 svuota Pdl e Pd di Renzo Foa a polemica non si è fermata alla richiesta veltroniana del «patto di lealtà alla Repubblica» e alla rappresaglia berlusconiana sui brogli, che è un vecchio tema molto caro al Cavaliere. Travolti gli argini, ecco che il leader del Pdl ha introtto il tema delle dimissioni di Giorgio Napolitano, pur con la precisazione che si tratta di un esempio «di pura scuola». Ma già l’averlo fatto, senza alcun bisogno, è altra benzina sul fuoco dell’incendio appiccato in questi ultimi giorni di campagna elettorale. Il bello è che il primo impegno preso da Walter Veltroni e Silvio Berlusconi, qualche mese fa quando avviarono il dialogo sulla legge elettorale, era stato quello di far transitare l’Italia dal bipolarismo blindato al bipartitismo temperato. Al dialogo. Ai possibili accordi. Si era addirittura teorizzato un governo di «larghe intese», non come soluzione opportuna dopo un pareggio il 13 e 14 aprile ma come strumento necessario per trovare le giuste terapie per la crisi italiana.
del bipolarismo militarizzato. È stato un ritorno all’indietro. Ma non è stato casuale. Il sospetto è che Veltroni e Berlusconi avessero fatto una promessa che non potevano mantenere, per la loro storia, per il loro Dna politico, per la natura delle loro alleanze. E anche per la fragilità della loro proposta politica. Al dunque, sono stati costretti a tornare ad essere se stessi.
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C’è da dire che è stata la prima promessa non mantenuta dai due aspiranti premier. Forse, evitato anche il confronto televisivo diretto, il clima del duello a distanza era un po’ troppo blando per una partita dal cui risultato non dipende soltanto chi andrà a Palazzo Chigi, ma anche il futuro del Pd e del Pdl. Forse i sondaggi – che continuano ad essere fatti, anche se non possono venir pubblicati – hanno cominciato a segnalare il rischio di qualche sorpresa. Certo è che nel giro di poche ore è cambiato tutto e i due principali antagonisti hanno abbandonato il bon ton e scelto di immergersi nel clima della «guerra civile» che ha contraddistinto, penalizzato e paralizzato il sistema politico italiano dal 1994 in poi. Uno con il suo stile un po’ soft, l’altro con la sua consueta verve. E attraverso gli argini saltati è dilagato di tutto: le schede elettorali, il linguaggio di Bossi, la reazione al linguaggio di Bossi, la «carta di fedeltà alla Costituzione», la rievocazione della storia del comunismo, fino appunto al tema delle dimissioni di Napolitano, la cui introduzione – aldilà delle precisazioni – è suonata come una sanatoria del biennio unionista 2006-2007. Così l’Italia è stata rigettata nel clima di guerra civile vissuto per quasi un quindicennio e del cui ritorno nessuno sentiva il bisogno. Cioè nel clima delle reciproca delegittimazione. E di quell’idea dell’alternanza in virtù della quale chi ha vinto ha cercato di imporre solo le proprie visioni, senza però riuscire a governare il Paese e continuando a dividerlo sempre di più. È un panorama desolante a poche ore dall’apertura dei seggi. Si può certamente dire che la gran parte della responsabilità di questo inaspri-
Silvio Berlusconi con Giorgio Napolitano (dietro a loro Fausto Bertinotti e Franco Marini) mento ricada su Berlusconi, che è tornato allo «spirito del 1994», senza tener conto del cambiamento dei tempi. Ma anche Veltroni ha fatto la sua parte. Soprattutto nel momento in cui, proponendo il «patto repubblicano», ha ripropo-
avevano preso corpo attraverso i punti programmatici, considerati in molti casi assai vicini, del Pd e del Pdl.Tutto questo è ora saltato. Per colpa della campagna elettorale? Dire di sì mi sembrerebbe una risposta incompleta. La vera ragio-
Continua il tormentone quotidiano del Cavaliere contro l’Udc; è l’ossessione che un centro moderato, per quanto piccolo, possa riuscire ad aprire nuovi scenari sto indirettamente il tema della «superiorità morale» del centrosinistra, ricadendo in un vecchio e pericoloso vizio, quello di presentare «lo schieramento a lui avverso» come eversivo. In altre parole, ha ricostruito un muro, ha riproposto una contrapposizione frontale che è stata per anni il principale strumento della battaglia antiberlusconiana. Anche lui, dunque, è tornato al 1994.
C’è molta materia su cui riflettere. La prima questione riguarda quella che si può ormai già considerare il fallimento del bipartitismo. Cioè dell’ambizione di Veltroni e di Berlusconi di superare il fallimento della Seconda Repubblica scommettendo non solo sulla nascita e non solo sul rafforzamento dei loro due partiti, ma su un loro ruolo totalizzante nel sistema politico. Arrivandoci attraverso un accordo di potere, che però aveva bisogno di una lunga fase di distensione e di comuni impegni per il futuro. La fase di distensione era stata annunciata, prima della caduta del governo Prodi, attraverso il dialogo a due sulla riforma elettorale. I comuni impegni
ne è che il progetto «Veltrusconi» era debole in partenza. Innanzitutto perché si reggeva solo sulla forza dei due leader e sul loro ruolo personale. Poi perché i due neo-partiti non si bene cosa siano davvero. Ma soprattutto perché l’aspirazione di entrambi era quella di escludere, subito o progressivamente, tutte le altre forze e di occupare ogni spazio. Senza tener conto della pluralità delle culture e di un pluralismo politico e sociale che la stagione bipolare non ha mai cancellato e che il fallimento della stagione bipolare sta invece riproponendo. L’unica chance di successo del progetto di Berlusconi e Veltroni consisteva nel saper proporre una transizione mite, senza scosse, destinata a raccogliere il massimo della fiducia dell’opinione pubblica, magari trasformando il voto del 13 e del 14 di aprile in un referendum non dichiarato a favore del bipartitismo. Facendo ritenere – come ha detto e ripetuto il Cavaliere – che gli altri erano inutili se non dannosi. Questa proposta soft è durata poche settimane. La prospettiva di un bipartitismo mite si è disgregata, riproponendo tutti i difetti
Questa campagna elettorale, per quanto brutta e asfittica, ha dunque avuto una qualche utilità. Ha intanto confermato – se queste polemiche hanno un significato – che il progetto bipartitico era essenzialmente un progetto di spartizione del potere. Non conteneva intenti politici comuni. Non prospettava un’uscita dalla crisi della Seconda Repubblica con metodi ed intenzioni all’altezza del problema. Il Pd e il Pdl, a pochi giorni dal voto, sono tornati ad apparire quel che sono stati per quindici anni, quando avevano un altro nome. L’elettorato avrà dunque domenica e lunedì un compito quasi improbo: gli era stato promesso un tuffo nel futuro con il «Veltrusconi», ma ora si trova davanti agli argomenti, alle polemiche, al clima da guerra civile del passato. Gli era stato spiegato che per scegliere la stabilità avrebbe dovuto scommettere tutto sulla sicurezza e sulla forza dei due «colossi» alla ricerca di un’armonia reciproca, ma oggi si trova davanti alle consuete ed inutili battaglia campali di un tempo. La domanda da porsi è se l’ultima speranza di una futura stabilità non consista in una scelta elettorale che apparentemente provocherebbe instabilità di governo, cioè quella di non votare nè per Veltroni nè per Berlusconi, ma che aiuterebbe a sanzionare la fine di una stagione che sta provocando solo danni. E a dare un colpo al progetto bipartitico che appare sempre più come la riesumazione del vecchio bipolarismo. Ieri il Cavaliere ha insistito ancora nella sua campagna quotidiana contro l’Udc, ha ripetuto che non raggiungerà l’8 per cento al Senato e che ha problemi a superare la quota di sbarramento del 4 per cento alla Camera. Questa ossessione raffigura la preoccupazione che un piccolo soggetto politico, come è l’Unione di centro, possa diventare nella prossima legislatura una forte architrave del cambiamento. La preoccupazione che un centro moderato possa rompere lo schema dell’assestamento bipartitico e aprire nuovi scenari. Si può capire questo timore, anche perché è lo scivolamento dell’Italia nella palude della crisi a proporre il tema di una mutazione profonda del sistema politico, a cominciare dal taglio delle vecchie culture estremiste che sopravvivono, tanto nel Pdl che nel Pd, in quel che resta di un bipolarismo fallimentare.
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Per dare ospitalità ai cattolici e ai liberali sempre più schiacciati all’interno di Pd e Pdl
«Sarà un centro aperto, oltre i partiti» colloquio con Savino Pezzotta di Errico Novi
ROMA. «Vedo in giro la voglia di un centro che sia diverso sia dalla destra-centro di Berlusconi che dal centrosinistra di Veltroni. Più incontro la gente nei mercati, nelle piazze, e più capisco che cattolici e liberali si sentono schiacciati, nel Pdl e nel Pd. Noi dobbiamo far nascere un partito aperto, costruito dal basso e capace di far partecipare davvero i cittadini». Così Savino Pezzotta vede la Costituente di centro, di cui occuperà «la cabina di regia» senza atteggiarsi a segretario, «altrimenti il discorso della partecipazione viene meno: quando è stato fatto l’accordo elettorale era chiaro che il coordinamento della Costituente sarebbe toccato al sottoscritto, ma dal 14 aprile troveremo con gli altri il modo di favorire la crescita dal basso. Ci sarà l’Udc, la Rosa bianca, il Movimento liberal ma ci rivolgeremo anche agli ex popolari della Margherita e a tante formazioni civiche che oggi non trovano rappresentanza nei partiti maggiori». Anche lei immagina dunque un disagio diffuso nel Pdl e nel Pd, e di poterne approfittare. «Dico che non bisogna perdere l’occasione. Siamo alla vigilia di una sfida elettorale importante e il voto ci rafforzerà, ma questo non deve spingerci a un percorso verticistico. La Costituente deve preparare un partito nuovo, non limitato appunto alle formazioni presenti nella lista, ma capace di accogliere quello che emerge dal territorio e di inventare una forma partito davvero innovativa: immagino una struttura a rete, in cui nessuno si sente in periferia. Serve un esempio?». Parliamo di un modello diverso dai partiti tradizionali, gli esempi servono. «Immaginiamo qualcosa che funziona come internet, un reticolo con dei collegamenti che però, anche ai livelli più alti, non si trasformano mai in vertice staccato dal resto. Subito dopo le elezioni dobbiamo lanciare un appello a tutti quelli che ci stanno, senza pensare di metterci il cappello sopra, e da lì aprire un dibattito». Benedetto XVI ha appena ricordato che chi ha responsabilità pubbliche de-
ve soprattutto ascoltare. «Ci prenderemo il tempo necessario, vedremo chi aderisce e insieme definiremo un manifesto programmatico, uno statuto che garantisce le regole, un codice etico per la selezione dei gruppi dirigenti secondo uno schema di partecipazione dal basso. Non possiamo più pensare ad aggregazioni leaderistiche, servono forme popolari». È proprio sul coinvolgimento diretto delle persone che Pdl e Pd sembrano avere limiti, e non tutto si può spiegare con la perdi-
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Serve un percorso costituente non verticistico e con una struttura a rete. Prima i comitati, poi manifesto, statuto e codice etico
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ta dei fattori di coesione sociale del Novecento. «Vengo via da Arcore, non ci sono andato per incontrare il Cavaliere ma per parlare al mercato: ho avuto ulteriore prova che la gente non è contro la politica, è la politica che non parla più con le persone. Se hai la pazienza di ascoltarle capisci cosa pensano, cosa vogliono, puoi anche trovare ostilità ma alla fine ti dicono: meno male che uno è venuto a parlarci». L’idea non è quella di costruire un nuovo partito dei cattolici. «Non parlo di un partito cattolico ma di una forza che contiene l’ispirazione cristiana, rappresenta le
radici di questo Paese e si incontra con la cultura liberale e democratica, secondo l’idea di Croce: riconosciamo che non possiamo non dirci culturalmente cristiani. Dobbiamo fare una battaglia perché non muoiano nostre le grandi tradizioni politiche, quella cattolica e quella liberale, oggi schiacciate nel Pdl e nel Pd. Così possiamo davvero rappresentare un fatto innovativo, ma ci riusciamo se non si riduce tutto a un’operazione leaderistica: Casini e Pezzotta devono esserci ma devono aprirsi a una partecipazione più larga possibile». In concreto come potrebbe essere formata la Costituente di centro? «Con dei comitati territoriali, a livello comunale e regionale, tutti invitati a pensare insieme la forma partito, che credo dovrebbe essere federativa, una forma civica, aperta alle associazioni sul territorio. Solo così avremo una capacità di penetrazione e di rappresentanza davvero forte». Anche il Pd è partito da discussioni sul territorio. Poi ha celebrato primarie con un risultato scritto in partenza. «E infatti per evitare una cosa del genere io dico che dobbiamo prenderci tutto il
Savino Pezzotta coordinerà la Costituente di centro proposta da Udc, Rosa bianca e Movimento liberal. «Dal 14 aprile inizieremo a studiare il modo di coinvolgere le realtà territoriali, secondo uno schema che dovrebbe essere federativo, civico»
tempo necessario. Non possiamo essere solo un partito d’opinione, dobbiamo rendere il cittadino protagonista e non suddito o cliente, né ridurci a chiamarlo una volta ogni tanto con le primarie, per eleggere un leader investito di una carica assoluta. Non è possibile che sia il vertice a decidere tutto, dalla composizione delle liste, dall’operaio della Thyssen da schierare all’occorrenza ai coordinatori locali. Le candidature si fanno con le indicazioni che arrivano dal basso. Il senso della Costituente per me e la Rosa bianca è questo». Coinvolgere l’associazionismo: strano che in Italia ci sia ancora un ”mercato” di questo tipo non ancora colonizzato. «Non è facile assecondare il passaggio dalle aggregazioni popolari o di classe al prevalere delle soggettività personali. Dobbiamo trovare nuove forme per mettere insieme le persone. Nella Costituente dovremo saper coinvolgere anche gli intellettuali che in genere restano alla finestra». I laicisti diranno che si vuole riproporre un partito confessionale. «E invece noi pensiamo a una nuova forma di laicità, una laicità positiva. Si tratta di separare Stato e Chiesa come peraltro abbiamo già fatto nel Novecento, anche con molte asprezze, e di riconoscere che nel mondo attuale le religioni hanno un ruolo sociale: basta vedere cosa accade con i fondamentalismi e gli integralismi. D’altronde se c’è una distinzione da fare non è tra laici e cattolici». Qual è invece? «È tra pluralismo etico e relativismo etico. Il primo consiste nel cercare comunque la verità, il secondo invece la nega, e questo come si può capire determina un condizionamento della democrazia». Appunto: i condizionamenti del relativismo non risparmieranno la Costituente di centro. «Noi partiamo dalla nostra visione del mondo e possiamo aprirci alla visione degli altri. Puoi farlo solo se ti riferisci con chiarezza a una cultura, a un pensiero, una tradizione. E nel confronto bisogna far rispettare il principio della democrazia: se non si riesce a trovare una conciliazione la maggioranza decide».
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Il Cavaliere tira in ballo il Quirinale. Esplode la rissa con il Partito democratico
Veltrusconi, comiche finali d i a r i o
d e l
g i o r n o
Maroni: «Via al federalismo fiscale» «Il federalismo fiscale è la madre di tutte le riforme perché obbliga chi governa a gestire oculatamente le risorse». Lo ha affermato il capogruppo della Lega alla Camera, Roberto Maroni, convinto che Veltroni abbia «tirato fuori il tricolore e l’inno di Mameli proprio per dire no al federalismo fiscale». Inoltre, secondo l’esponente del Carroccio, la decisione del ministero degli Interni di non ristampare le schede elettorali «è un grande errore. E serve urgentemente una direttiva precisa ai presidenti di seggio per evitare facili annullamenti che, in passato, hanno penalizzato soprattutto noi».
D’Alema: «Rifiuti, Pdl strumentalizza» Duro attacco ieri al leader del Pdl da parte di Massimo D’Alema, dal palco di piazza del Plebiscito a Napoli. Parlando dell’emergenza rifiuti e degli ultimi commenti di Silvio Berlusconi, ha tuonato: «La buona politica è quella che i problemi li affronta, e non quella che li strumentalizza per un pugno di voti. Dice che nell’eventualità di una sua vittoria alle Politiche, verrà qui a Palazzo Reale. Ma perché non lo ha fatto prima? Perché - ha incalzato - non ha risolto prima il problema avendo avuto cinque anni di governo?».
Aborto: l’attacco di Ferrara a Rosy Bindi
gimento del Colle da parte di Berlusconi cita volutamente una frase polemica di Gianfranco Fini nei confronti del Cavaliere: «Siamo alle comiche finali». Comiche con un copione già scritto secondo Casini: «Berlusconi voleva fare un Governo conVeltroni e poi ha cambiato idea quando il Pd si è alleato con Di Pietro». Poi, aggiunge ancora Casini, ha detto che voleva dare una camera alle opposizioni e oggi dice che Napolitano si deve dimettere». Insomma Berlusconi direbbe ormai tutto e il contrario di tutto.
«Cara Rosy Bindi, lei ha detto a Firenze che ci sono due libertà, quella di abortire e quella di coscienza dei medici che non collaborano. E ha aggiunto che vanno rispettate entrambe. Non so se la sua affermazione sia cattolica, so che non è giusta da un punto di vista laico». Lo ha dichiarato Giuliano Ferrara, promotore della lista elettorale ”Aborto? No, grazie”. ”Nel nostro paese, grazie alla legge 194 del 1978, il diritto - ha sottolineato il direttore del Foglio - riconosce la possibilità di interrompere volontariamente una gravidanza a certe condizioni, e soltanto nelle strutture pubbliche, allo scopo di arginare l’orrendo fenomeno dell’aborto clandestino. Che un ex ministro cattolico della sanità e della famiglia predichi la libertà di aborto, con un lapsus moralmente indifferente che in questi trent’anni ha ridotto a idolo libertario questa pratica arcaica e oscurantista, è molto peggio di qualsiasi pomodoro, uovo o sedia tirato alle mie manifestazioni».
Uno stato confusionale quello
Boselli: «Veltroni è un bugiardo»
del Cavaliere. E se invece fosse in atto un piano diabolico? Non manca nemmeno questa tesi tra le molte che circolano. Sentite qui: Angelo Bonelli, esponente della Sinistra Arcobaleno, sostiene infatti che «quella di Berlusconi non è fantapolitica ma un reale disegno politico che il leader del Pdl vuole perseguire» forse con la complicità e il gioco di sponda del Pd. «Non vorremmo che al progetto di Berlusconi», avvisa Bonelli, «ci possano essere sponde da parte del Pd. Noi della Sinistra Arcobaleno», rassicura comunque, «non asseconderemo mai un progetto di questo tipo». Mancano il deus ex machina, i putti e le nuvolette per rendere perfetta la plasticità barocca della situazione anche se nell’ultima settimana di questa campagna elettorale, come la maionese impazzita all’improvviso, potrebbe succedere di tutto. Mentre chi auspicava più mordente nel confronto tra Pd e Pdl ora forse si sta mordendo le mani.
«Veltroni è un bugiardo, nella trasmissione Porta a Porta ha fatto delle affermazioni che offendono la mia onorabilità e quella del partito che rappresento». Così il candidato premier del Partito Socialista, Enrico Boselli, ha replicato nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio al leader del Pd, Walter Veltroni, che ospite della trasmissione di Bruno Vespa, parlando dei socialisti, aveva detto che, dopo il mancato accordo, il partito di Boselli ha «prima bussato alla porta di Casini, molto meno naturale che stare con noi, poi a quella di Bertinotti». «Chiedo - ha dichiarato ai giornalisti - che ora la Rai mi dia la possibilità, come è nel mio diritto, di poter replicare». Boselli ha anche chiesto a Veltroni di accettare un confronto pubblico, «in modo da chiarire quali sono le differenze tra noi e il Pd».
di Federico Romano
ROMA. Ora anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano viene trascinato nell’incontro di wrestling in cui si è trasformata una campagna elettorale altrimenti sonnacchiosa fino a due settimane fa. Silvio Berlusconi dichiara che è improbabile che il centrosinistra, in caso di vittoria elettorale del Pdl, possa ottenere la presidenza di una delle due Camere. A meno che il presidente della Repubblica decida di dimettersi visto che il Colle è in quota alla sinistra. La reazione a queste dichiarazioni, non proprio anglosassoni in termini di aplomb istituzionale, è durissima. Veltroni, ormai da giorni in una trance agonistica paurosa che lo fa parlare con toni sempre più drammatici, lancia un nuovo allarme sulla tenuta democratica del Paese: «Berlusconi non può governare l’Italia. Dal ’94 parla di brogli che si realizzano solo se perde. Io gli propongo un patto per la realtà repubblicana e lui parla ancora di comunismo. È un altro mondo, generazionalmente diverso, che se vincesse farebbe altri disastri a questo Paese».
Berlusconi arriva a Pescara, deve parlare, lo avvisano che le sue dichiarazioni sulle dimissioni di Napolitano hanno scatenato un pandemonio. Lui stupisce: «No, no basta polemiche. Era solo un caso di scuola», dice schernendosi. «Siccome hanno tutte le istituzioni in mano loro», chiosa, «se avessimo un Capo dello Stato votato da noi sarebbe assolutamente doveroso dare la seconda carica dello Stato all’opposizione, cosa che loro non hanno fatto». Poi aggiunge per sdrammatizzare: «Lunga
vita al presidente della Repubblica. Io porto stima verso il presidente, con cui non ho mai avuto nemmeno un minuto di contrasto». Fonti interne a Forza Italia fanno sapere che qualcuno ha provato a spiegare al Cavaliere che si tratta di una questione di opportunità istituzionale, che i rapporti personali c’entrano poco o nulla. Ma Berlusconi scrolla le spalle. Lui è fatto così. Era solo un’ipotesi di scuola. Una battuta. Passata. Perchè tanti drammi? Solo che l’effetto domino ormai è partito: al Cavaliere leggono gli attacchi che continuano a piovere su di lui da sinistra. Come si fa a rinunciare a re-
Casini: «Berlusconi voleva fare un governo con Veltroni e poi ha cambiato idea.Voleva dare una Camera alle opposizioni e ora dice che Napolitano si deve dimettere» plicare? Il Cavaliere rilancia: lui non ha il senso dello Stato e delle istituzioni? Bene: allora, risponde, in Italia non c’è piena democrazia perché la sinistra ha costruito «un regime dove è assente un sistema di pesi e contrappesi». La dimostrazione è proprio il fatto che «anche il presidente della Repubblica è stato espresso dalla sinistra». Chi non vede il dramma ma piuttosto il lato comico della situazione è il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Che per commentare il coinvol-
Degrado: il tour di Sgarbi e Alemanno Un tour da più parti definito «provocatorio» quello messo a punto ieri, a Roma, da Vittorio Sgarbi e Gianni Alemanno, che hanno visitato gli«obbrobri culturali realizzati nella Capitale per colpa di Francesco Rutelli». La prima tappa del giro è stata il Vittoriano, dietro al quale sono stati costruiti due ascensori panoramici che per Sgarbi «spuntano come un grottesco preservativo». Altra tappa, l’Ara Pacis, «che da sempre ha dato l’idea di una pompa di benzina texana». Lapidaria la replica alla vicenda del candidato sindaco di Roma, Francesco Rutelli: «Quello che è accaduto è molto grave».
di nuovo alla ROMA. La promessa fatta martedì scorso dal senatore del Pdl Marcello Dell’Utri «I libri di storia adottati nelle scuole saranno revisionati se dovessimo vincere le elezioni» è suonata a sinistra come una pericolosa minaccia. Una campagna elettorale alle ultime battute e per giunta povera di temi è avida di fresca polemica. E così persino il ministro Giuseppe Fioroni ha voluto esserci alla piccola parata antifascista successiva alla sortita di Dell’Utri dettando alle agenzie un comunicato stentoreo contro ogni revisionismo storico. Per non farsi superare a destra invece Altero Matteoli ha tenuto a dire che invece è giusto: «i libri di devono essere revisionati. Dal momento in cui si è storicizzato il fascismo si è potuto scriverne bene e male. La stessa cosa può essere fatta per la resistenza». Déjà vu. Sono almeno dieci anni infatti che in Italia si parla di commissioni ministeriali, parlamentari o regionali per monitorare l’obiettività dei libri di testo scolastici senza che a queste intenzioni sia mai seguito, per fortuna, nessuna iniziativa concreta. Bagattelle da campagna elettorale dunque, rumori. Se non fosse che le dichiarazioni del senatore dell’Utri, peraltro uomo di buone letture e buona cultura, finiscono col reintrodurre nel dibattito pubblico questioni come il revisionismo storico, l’uso pubblico della storia, l’egemonia culturale della sinistra nelle scuole e nelle università italiane. Temi che meriterebbero un’attenzione meno strumentale di quella che di solito viene loro riservata. Sono questi infatti vecchi cavalli di battaglia della destra italiana che non da oggi, nella sua propaganda politica, denuncia la sproporzione tra i libri di testo adottati nelle scuole orientati a sinistra e quelli di orientamento cattolico liberale e nazionale. Una spropore zione peraltro evidente schiacciante e si potrebbe aggiungere anomala visto quanto è avvenuto nel mondo negli ultimi vent’anni. Come è difficilmente contestabile il fatto che ancora oggi esista un’egemonia della sinistra sui pensieri, sulla memoria e sui riflessi del Paese. Però a questo dato di fatto – e questo è il punto – oltre la denuncia, l’invettiva, il lamento la destra non va. Non sa rispondere dei motivi della pervasività culturale dell’avversario, della sua consumata abilità e chiarezza strategica. Quello che sa fare è promettere revisioni storiche per decreto legge, provvedimenti politici.
Francesco Storace, oggi leader della Destra ma già ministro della salute di An tenne a battesimo durante il suo governorato nel Lazio una commissione
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Invece di censurare i libri, non sarebbe meglio scriverli?
Il déjà vu revisionista di Dell’Utri di Riccardo Paradisi d’inchiesta sui libri di testo troppo filo-marxisti. Commissione che nasceva con queste motivazioni: «Dal momento che molti manuali di storia usati dagli studenti raccontano i trascorsi della nostra nazione mistificandone alcune pagine e omettendo di scriverne altre dando l’impressione di voler far prevalere una sorta di verità di Stato assai spesso incompatibile con la realtà… Il consiglio regionale del Lazio impegna presidente ed assessori a istituire una commissione di esperti che svolga un’attenta analisi dei testi evidenziandone carenze e ricostruzioni arbitrarie». Un anno prima Azione giovani si era distinta in una serie di raid, innoqui e
goliardici va detto, anche se non del tutto innocenti dal punto di vista del metodo, nelle librerie romane. Qui i ragazzi di An timbravano la copertina dei testi scolastici più di sinistra - soprattutto il“Camera Fabietti”accusato di negazionismo sulla tragedia delle foibe emersa in questi ultimi anni - con la scritta “Falso storico, vietata la vendita”. Sono questi, generalmente, i metodi con cui la destra combatte la battaglia contro l’egemonia culturale avversaria. Non le viene in mente che invece di censurarli, timbrarli, indicizzarli, sarebbe più efficace e magari più liberale, scriverli i libri. Lasciando crescere una nuova generazione di studiosi attraverso fondazioni, centri studi, laboratori culturali che non siano improvvisate ed estemporanee dependance politiche. Se infatti, come dice Dell’Utri, scuole e università sono in mano alla sinistra è per-
ché la maggioranza dei docenti che insegnano nelle scuole e nelle università hanno studiato e sono stati persuasi da libri di storia scritti da storici di sinistra, formatisi nella cultura di sinistra. Si dirà che proprio questo è il frutto dell’egemonia, della ghettizzazione della destra. Solo che questa argomentazione non funziona più nemmeno come scusa. Sono quindici anni che la destra è, a fasi alterne, al governo di questo Paese, che dispone di possibilità e mezzi per intervenire nel dibattito storico in termini costruttivi. Invece Dell’Utri dice che oltre scuola e università anche le case editrici sono nelle mani della sinistra. Si dimentica che la Mondadori, la maggiore casa editrice italiana, è di proprietà di Silvio Berlusconi, il presidente del Popolo della libertà e il capo indiscusso della destra italiana. «Io sono pronto a scrivere un manuale di storia se necessario ma prima dovrei trovare l’editore e un mercato», ha dichiarato ieri a proposito delle dichiarazioni di Dell’Utri
Il senatore dice che le case editrici sono in mano alla sinistra. Ma si dimentica che il proprietario della Mondadori è Silvio Berlusconi
Nella foto in alto, il senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. Qui a fianco, lo storico Renzo De Felice
lo storico Piero Melograni, deputato per una legislatura di Forza Italia, nella stagione dei professori.Tra gli ultimi libri che la Mondadori ha pubblicato c’è un romanzo di Luca Casarini, il no global veneto che dichiarò guerra al governo Berlusconi prima del G8 a Genova.
D’altra parte i libri di storia per le scuole non li hanno scritti solo i comunisti – a dimostrazione che anche per chi non era di sinistra è stato possibile in questi anni fare storiografia: lo dimostrano le opere di Armando Saitta, un liberale interessato ai movimenti politici; del cattolico Gabriele De Rosa, di Giorgio Spini, di Federico Chabod, di Rosario Romeo. Sta però di fatto che la ricerca storiografica che si è spinta oltre il conformismo e la vulgata resistenziale è stata proprio la storiografia di sinistra. È stato Renzo de Felice a inaugurare e imporre all’attenzione del mondo scientifico, malgrado la violenta contestazione al suo pensiero, il filone storico del revisionismo italiano. Ed è stato Romolo Gobbi, storico di sinistra dell’università di Torino a scrivere un libro intitolato Il Mito della resistenza dove in cento pagine l’autore demolisce i vari assiomi su cui vien fatto poggiare appunto il ”mito” della Resistenza intesa quale lotta spontanea, popolare e di massa contro fascismo e nazismo. Viene da domandarsi se sia un paradosso il fatto che a fare revisionismo storico in Italia contro i dogmi della sinistra sia la stessa storiografia di sinistra. Se si pensa però che l’ultimo vero esponente della storiografia italiana di destra, a parte la vecchia scuola liberale e crociana, è Gioacchino Volpe che ha offerto alla storiografia il suo massimo contributo negli anni ’40 e ’50 del Novecento il paradosso si spiega da solo. La realtà è che la destra italiana dal dopoguerra a oggi, tranne isolate eccezioni, ha sempre mostrato uno scarso interesse per le cose della cultura. Resta generalmente indifferente di fronte ai problemi dell’istruzione e della ricerca: la storia, la narrativa, il cinema sono ambiti che non conosce e non frequenta se non in termini di polemica e di denuncia. Ha difficoltà a comprendere l’ l’importanza dei libri – di quelli che si leggono e di quelli che si scrivono – e della battaglia delle idee. Per questo con gli intellettuali ha difficoltà e fastidio a interloquire, compiacendosi, in nome di un vitalismo che si risolve nella battuta e nel gesto, di coltivare una certa diffidenza verso il mondo della cultura. Salvo poi stupirsi, lamentandosene per giunta, che in Italia esiste ancora un egemonia culturale della sinistra.
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L’ITALIA AL VOTO
La comunicazione politica sotto esame
lessico e nuvole
Quei copioni degli amici di Veltroni
Il sesso secondo Dell’Utri (e la Brambilla) di Giancristiano Desiderio
di Arcangelo Pezza “Si può fare”, il motto principe di questa veltroniana campagna elettorale è stato subito catalogato come una maccheronica copia del barackato “Yes we can”e anche il fantasioso inno di riserva, “I’m PD” ha avuto più o meno la stessa sorte, chiosato da quasi tutti gli osservatori politici, a prescindere dall’eventuale giudizio di merito, come parente strettissimo di quel famoso manifesto “dal basso”con cui l’anonimo grafico statunitense, Shepard Fairey, ha voluto dare il suo endorsement alla leadership democratica del buon Obama, meritandosi addirittura il pubblico ringraziamento del suo nero cavaliere. Se a questo si aggiunge che il nostro, di Cavaliere, ha bollato il programma di governo del WV come una banale scopiazzatura di quello del Popolo della Libertà, quella contro l’originalità della comunicazione di Walter e soci pare quasi una congiura. A cui il nostro, però, porge l’altra guancia e l’altro fianco quasi senza accorgersene, rischiando del suo.“Tu vuò fa’ l’americano”, gli avranno detto dopo la presentazione del motto di cui sopra, e la cosa non deve essergli piaciuta affatto. Serviva qualcosa di più italiano, allora, di più glocale, di sapore internazionale ma vicino alla gente e al suo territorio, aperta all’Europa ma radicata nell’identità culturale di ogni
singolo elettore, casa per casa e regione per regione, un po’ come il gitante itinerario del suo pullman. Ed eccoli, allora, i suoi due nuovi gadget di campagna, una shopper di tela e una t-shirt a maniche corte con un bel “Si può fare” in grande e, sotto, la traduzione dello stesso in 22 italici dialetti. Ma anche la pazienza di Bossi avrà un limite, viene da pensare. Perché se sull’esproprio del verde padano per i manifesti il Senatùr non aveva detto niente, guai a toccargli dialetti e federalismo culturale!
Il sesso irrompe nella campagna elettorale, con il volto di Milly D’Abbraccio e i pensieri alati di Dell’Utri, Gasparri, Binetti e Grillini. La pornostar, candidata socialista a Roma, si fa pubblicità con manifesti che mostrano la sua parte migliore e dice: «Basta con le solite facce da c...». Pare che Boselli, che in questa campagna elettorale ha parlato soprattutto di laicità e diritti civili, sia entusiasta dell’iniziativa. Quasi eccitato. In controtendenza Marcello Dell’Utri che ha avuto il suo quarto d’ora di gloria con la proposta revisionista sui testi scolastici di storia: «Li riscriveremo». Ma le parole che qui contano sono altre: «I politici sono più lucidi se si astengono dal sesso; non attribuisco alcuna importanza a Michela Brambilla». Il nesso non è chiarissimo. Ma Gianni Baget Bozzo vi ha visto una relazione con la teologia di San Paolo: «Il corpo è fatto per aver un rapporto con il Signore». Forse la Brambilla è in allarme. Gasparri è più prosaico: «Siamo certi che la castità di Dell’Utri sia frutto di un percorso religioso?». Insinua un dubbio che forse può valere anche per lo stesso ex colonnello. Paola Binetti ascolta e - dicono le cronache - inorridisce: «Il sesso è un fatto privato. Forse credono che parlandone guadagnano voti?». Franco Grillini forse sì: «Io non ne parlo. Il sesso lo faccio». Ma si preoccupa di farlo sapere. Da vero sex symbol.
La campagna elettorale su Internet/ Berlusconi domina le classifiche del buzz
La Rete ossessionata dal Cavaliere di Andrea Mancia Piaccia o non piaccia, Silvio Berlusconi è riuscito ancora una volta a diventare l’epicentro della campagna elettorale. Anche su Internet. Il suo nome è stato il più “cercato” su Wikipedia (a marzo, gli utenti di questa enciclopedia online interessati al Cavaliere erano più di 70mila, contro i 57mila di Veltroni). E anche nelle speciali classifiche del buzz Berlusconi domina la scena. L’interessantissimo blog di Antonio Sofi (“Spindoc”), che tiene d’occhio periodicamente le citazioni dei personaggi politici su Internet, ha scoperto che Berlusconi “è stato presente in più del 50 per cento degli item totali considerati” nel mese di febbraio. Secondo Sofi, «il candidato leader del PdL è il prezzemolo delle conversazioni
personalizzate di Rete. Ovviamente, questo livello di analisi non esplicita se la presenza è accompagnata da un giudizio negativo o positivo. Facile però supporre che proprio questa
percentuale sia segnale di una forte accezione negative, contro. Di Berlusconi si parla nel bene o nel male».
E il punto è proprio questo: di Berlusconi si continua, nel bene o nel male, a parlare. Con una superiorità, almeno numerica, schiacciante. Dal 52,4 per cento del leader del PdL si passa al 32,5 di Walter Veltroni. Seguono, molto distanti, Pierferdinando Casini (con il 9,2 per cento), Bertinotti Fausto (4,2 per cento) e Daniela Santanché (1,3 per cento). Questo “sorprendente” vantaggio di Casini rispetto a Bertinotti, secondo Sofi ha due spiegazioni possibili: «lo strappo con gli ex alleati della Pdl che gli dato un surplus di notiziabilità anche online; la posizione istituzionale e
defilata del leader della Sinistra Arcobaleno». Restano, in ogni caso, i numeri impressionante raggiunti da Berlusconi. Un dato ancor più significativo se si considera che, analizzando il buzz sui partiti (e non sugli esponenti politici), il Pd è in netto vantaggio nella classifica delle citazioni. «L’impressione generale – scrive ancora Sofi è che online sembra confermarsi una certa immagine proiettata di unità del Partito Democratico, sulla cui denominazione confluiscono le discussioni d’area. Mentre dalla parte del Popolo delle Libertà c’è una parte di elettorato che non vuole rinunciare al proprio partito di provenienza, né sembra voler confluire (anche solo a livello nominale) nella nuova formazione». In questa specia-
le classifica, il Pd conduce con il 35,6 per cento delle citazioni, mentre il PdL insegue al 22,8 (con un altro 10 per centro abbondante, però, raggiunto separatamente da Forza Italia e Alleanza Nazionale). Mentre Berlusconi “unifica” l’elettorato (nel bene o nel male), il centrodestra sembra dunque ancora lontano dall’aver trovato nel PdL la propria casa comune naturale. Il partito, almeno su Internet, viene diffusamente percepito come «emanazione del suo leader», con la figura di Gianfranco Fini inevitabilmente schiacciata da questa “esuberanza digitale” del Cavaliere. Se questo, alla resa dei conti, rappresenti un vantaggio o uno svantaggio elettorale, solo la conta dei voti potrà svelarlo.
L’ITALIA AL VOTO grandi economisti del passato – Smith, Ricardo, Marx – conoscevano il valore del lavoro. Lo avevano posto a fondamento delle loro potenti costruzioni analitiche. I moderni – Keynes, in testa– ne avevano condiviso l’impostazione. Poi le tecniche si erano affinate e quel presupposto era scomparso dall’orizzonte teorico: pronto a riemergere, come un torrente carsico, nei momenti difficili. È da qui che bisogna partire per comprendere la situazione italiana: una lunga crisi, che dura ormai da 15 anni. Un ristagno prolungato che fa impallidire il ricordo di un antico sviluppo. Quando il Paese, nonostante le sue mille contraddizioni, crescendo ad un ritmo superiore alla media europea, era comunque in movimento. Purtroppo, da allora, si è fermato. Le cause sono numerose e le responsabilità diffuse. Ma se si torna ai classici, la diagnosi è immediata. In Italia si lavora poco e male. Male, perché la produttività, a differenza del passato, non cresce come in quegli anni. Le aziende non hanno più voglia di investire. Preferiscono ricorrere al precariato che garantisce loro adeguati saggi di profitto. Una grande collusione – quella tra il sindacato, ed i vertici aziendali – posta a protezione dei padri, si risolve a danno dei figli, che ne pagano le colpe. Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, l’ha detto con chiarezza. Il salario degli occupati più anziani è in linea con quello delle medie europee. Per i giovani le differenze arrivano fino al 30 per cento. Sono loro che sopportano il peso delle grandi disfunzioni del BelPaese.
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Se poi pensiamo al pensionamento, la discriminazione assume un carattere odioso. I padri vanno in pensione a 58 anni, quando in Europa la media è ormai di 65. I figli ne dovranno sostenere il relativo onere, nella più totale incertezza per il proprio futuro. E che dire del merito? Non c’è distinzione tra chi produce e chi si astiene. Il contratto collettivo nazionale non premia la fatica, ma toglie a chi lavora per dare agli altri. Come mostrano le retribuzioni dei dipendenti pubblici, ben più sostanziose dei privati. Per non parlare, infine, delle mille diversità locali. Nelle grandi città trovare un appartamento in affitto diventa un’impresa a costi proibitivi. Nei piccoli centri, l’alloggio è ancora alla portata dei redditi più bassi. Sarebbe logico differenziare. Tenere conto del diverso costo della vita. Ma solo a parlarne si rischia l’anatema sindacale e l’accusa di voler ripristinare le “odiose”gabbie salariali. Non è solo un mondo alla rovescia, che premia chi non merita. È un Paese dove al lavoro non si attribuisce più alcun valore. È visto come qualcosa da scansare: quasi fosse una malattia. Questo spiega perché, in Italia, a differenza degli altri grandi Paesi occidentali, si lavora poco. Non parliamo della Cina, ma di Paesi, come gli Usa o la Francia, ben più ricchi di noi. Dove appunto questa ricchezza è
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Le verità scomode/3 La bassa produttività è legata ad assenteismo e ferie
Dal diritto al posto fisso al potere di non lavorare di Gianfranco Polillo
Negli Usa e in Germania il periodo di riposo non va oltre i 20 giorni. In Italia il tempo dedicato al lavoro arriva appena a nove mesi anche il frutto di una maggiore dedizione. Che è balzata agli occhi nella vicenda di Alitalia.
Ma quanto si lavora, in media, in Italia? Prendiamo il contratto dei metalmeccanici, che è la madre di ogni altro accordo. Le ferie previste sono di 4 settimane. Ad esse dobbiamo aggiungere altri 13 giorni di permessi retribuiti. Che diventano 18 – altra odiosa discriminazione – per i lavoratori più anziani. Spalmati su
nali, provinciali ecc. – è di circa 30 giorni lavorativi. Un altro mese e mezzo, che sommato alle vacanze da contratto, porta il tempo dedicato al lavoro a 9 mesi scarsi all’anno. Si può crescere in queste condizioni? E’ vero il contrario. E già un miracolo mantenere il benessere che abbiamo. Ed, infatti, lo stiamo perdendo. Possiamo, pertanto, discutere all’infinito di bassa produttività, di mancanza di investimenti, di ricerca scientifica. Ma se non si risolve questo problema di fondo, ogni discorso successivo diventa astratto ed inconcludente. La produtti-
Il governatore di Bankitalia, Mario Draghi è stato chiaro: il salario degi occupati più anziani è in linea con quello delle medie europee, per i giovani le differenze arrivano fino al 30 per cento 5 giorni di lavoro: fanno altre 3 settimane e mezzo. Aggiungiamo un pizzico di assenteismo e tiriamo le somme. Il tempo di lavoro non supera i 10 mesi all’anno. Negli Usa o in Germania il periodo di riposo non va oltre i 20 giorni. Per 4 milioni di lavoratori, poi, anche questo impegno appare eccessivo. Il tasso di assenteismo dei pubblici – statali, comu-
vità valorizza il tempo di lavoro, ma se questa prestazione è insufficiente, l’equazione non funziona. Lavorare di più, quindi. Ma come? Una soluzione a portata di mano è quella degli straordinari, specie se agevolati fiscalmente. Ma il sindacato, e con esso la sinistra, è contraria. Si oppone, al punto tale, che se un padre di famiglia cerca di aumentare
la busta paga di fine mese deve chiedere loro un’autorizzazione preventiva. E correre il rischio di essere additato, come colui che cede alle pretese padronali. Conseguenza? Si lavora da un’altra parte: inevitabilmente in nero.
Ecco allora che scatta una seconda grande collusione, sempre a danno dei giovani non stabilizzati. Imprenditori a caccia di risorse umane, seppure temporanee, e lavoratori, spinti dal bisogno, si accordano per fare ciò che è proibito fare alla luce del sole. Il sindacato ne è consapevole, ma chiude gli occhi, pur di salvare il principio dell’intangibilità dell’orario di lavoro, contrattato a livello burocratico. Salvo poi inveire contro l’economia sommersa. E tutto rientra nell’ordine, anzi nel disordine, naturale delle cose. La rivolta giovanile, nel 1968, ebbe cause complesse. Portava le stimmate di una società cresciuta in fretta dal punto di vista economico, ma ancora povera civilmente e culturalmente. Oggi il problema si è capovolto: tanti diritti, ma solo sulla carta. Ci vorrebbe una scossa. Prevale, invece, la rassegnazione: è il preoccupante presagio di una mancanza di speranza che impedisce ogni possibilità di riscatto.
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il viaggio
Il 15 aprile comincia la missione del pontefice negli Usa. Fotografia dell’America che lo attende
Benedetto XVI una scossa per i catholics di Michael Novak uando Benedetto XVI arriverà in America, a metà aprile, troverà una chiesa americana molto bisognosa della sua forza e della sua cura pastorale, anche se il suo naturale istinto per la modestia e la gentilezza saranno probabilmente il segno più evidente della sua presenza. Ci sono alcuni problemi che il Papa presumibilmente vorrà analizzare: il cattolicesimo americano può essere una delle due o tre chiese nazionali più vitali al mondo; la sua rete di più di duecento scuole e università cattoliche è impareggiabile, anche se, nell’arco degli ultimi quarant’anni, alcune sono diventate meno visibilmente “cattoliche”. Inoltre, il numero di laici praticanti tra gli americani è uno dei più alti al mondo, così come la loro generosità e attitudine al dare, ma questo spirito religioso ha perso molta della sua forza appena prima del Concilio Vaticano II (1962-1965). Fino ad allora gli ordini religiosi di suore, frati e preti erano sommersi di richieste, e correvano a costruire nuovi conventi e seminari di dimensioni senza precedenti. Ora la maggior parte di questi ordini è in grave declino, e molti dei loro seminari sono usati in modo ridotto, oppure hanno dovuto chiudere. Il numero di suore è crollato da circa 180mila a circa 63mila; centinaia di sacerdoti hanno abbandonato il loro ministero; l’età media sia dei preti che delle monache è troppo alta, e il numero delle nuove vocazioni (a parte nella più grande e autodosciplinata comunità ortodossa) è insufficiente al ricambio. Ne consegue che i risultati della Chiesa Cattolica americana non sono nel complesso entusiasmanti. Un grande lassismo si è impadronito di lei, unito ad una perdita di fiducia nella propria fede. Anche nelle università cattoliche è sorprendente quanto poco i laureati sappiano della loro religione e delle loro cultura; più o meno a partire dal 1965, la cultura secolare ha
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sopraffatto quella cattolica tanto nel pensiero che nell’azione. Nelle ultime settimane, per esempio, il centro di ricerche sulla religione Pew Forum ha presentato un rapporto sul cattolicesimo americano, basato su una propria indagine dello scorso anno, secondo cui circa un terzo di coloro che sono stati cresciuti nel cattolicesimo hanno lasciato la Chiesa. In altre parole, significa approssimativamente che un adulto americano su dieci è un ex cattolico.
Sicuramente qualcosa del genere è successa un secolo fa con il fenomeno dell’immigrazione. Molte persone provenienti da Paesi europei cattolici - una volta arrivati in America si allontanavano dalla fede per il benessere, mentre quelli che venivano da Paesi in cui la maggioranza dei cattolici frequentava poco la chiesa, cominciarono proprio in America
compresi quelli che le seguono in televisione. Anche includendo la frequentazione della scuola, non c’è quasi nulla che gli americani facciano in un solo giorno in un numero maggiore che andare in chiesa, e oltretutto – la percentuale è piuttosto elevata se paragonata alla frequenza settimanale degli altri cristiani e degli ebrei. Di contro, poche cose sono più normali che un forte calo di presenza tra i giovani. Solo il trenta per cento dei giovani cattolici di età compresa tra i 18 e i 29 anni va a messa ogni settimana, ma la ricerca di Dio è un atto di libera volontà, ed è perfettamente normale che i giovani agiscano per un certo periodo come atei, o quantomeno che non abbiano interesse, ma non sorprende neanche che una parte significativa di loro si riavvicini ai Sacramenti con maggiore regolarità quando si sposano e hanno dei propri figli.Tuttavia, è vero che il 41 per
attingono dai film più recenti. Per fortuna, un gruppo di Domenicani, insieme ad altri, ha iniziato a pubblicare un interessante mensile tascabile, Magnificat, con ottime introduzioni alle liturgie di ogni domenica.Vi sono brevi e brillanti commenti ai testi biblici dei padri della Chiesa, agli scritti di grandi cattolici come Dante e di profondi pensatori moderni come John Henry Newman e Karl Adam. Questo piccolo, ottimo libro, dovrebbe migliorare i sermoni locali molto più di quanto non abbia già fatto, e comunque, in caso contrario, i fedeli possono rifugiarsi nella lettura di queste istruttive meditazioni.
Le due questioni di cui i fedeli si lamentano sono il basso livello di controllo pubblico e interno su un vasto numero di vescovi e la scarsa preparazione teologica della maggior parte dei preti ad essere praticanti. Il Pew Forum ha anche rilevato che il 41 per cento di coloro che oggi si definiscono cattolici negli Stati Uniti va a messa ogni settimana, ma il sondaggio non riguarda i Paesi europei, considerato che in città come Parigi e Londra sono più praticanti i musulmani che i cattolici. Il dato è comunque confortante. Secondo le rilevazioni del critico cinematografico Michael Medved, non più del tre o quattro per cento degli americani frequenta la chiesa la domenica (dato in linea con la visione del ruolo delle chiese cristiane nei film di Hollywood, molto più sgradevole di quanto non sia in realtà per la maggioranza delle famiglie americane). Ma la verità, dice Medved, è che ci sono più americani in chiesa ogni domenica di quanti se ne siano raccolti per un evento televisivo - come il Superbowl - e più, anche, di quanti vadano a tutte le partite di football ogni finesettimana,
cento di cattolici in chiesa ogni domenica significa circa ventinove milioni di presenze ogni settimana - bambini compresi e non molte comunità fanno altrettanto (i cristiani evangelici fanno meglio, i protestanti in linea di massima peggio), ma il problema è che la direzione presa dai cattolici li farà retrocedere all’ultimo posto. Giovanni Paolo II riuscì a rilanciare la qualità dei vescovi americani, ma non abbiamo ancora niente di paragonabile all’età dell’oro dei grandi leader come il vescovo Spalding o Gibbons. Le due questioni di cui i cattolici più si lamentano sono proprio il basso livello di controllo pubblico e interno su un vasto numero di vescovi, e la scarsa preparazione teologica della maggior parte dei preti, peraltro da loro stessi ammessa. Molti sacerdoti si sforzano di essere persone normali, prendono troppo spesso spunto dalla loro vita personale e - senza pensarci due volte -
Tornando alla visita di Benedetto XVI, una delle migliori qualità del Papa è il suo essere fedele a se stesso, senza cercare di somigliare al suo grande amico Giovanni Paolo II, con cui era solito incontrarsi una volta a settimana per lunghe, profonde conversazioni teologiche e filosofiche. Benedetto XVI è semplicemente se stesso, ed è a suo agio così. Ha studiato per essere un professore, ma - più che questo - è un insolito e chiaro pensatore di straordinaria cultura e dalla impavida forza intellettuale. Quando era Cardinale, Ratzinger sfidò uno dei più famosi intellettuali d’Europa, Jurgen Habermas - un ateo dichiarato - in un dibattito su fede e incredulità nell’Europa moderna. Nella sorpresa generale, Habermas ha elogiato il ruolo
dell’ebraismo e del cristianesimo nella creazione delle idee, delle abitudini e dei punti di vista che hanno innalzato la scienza moderna e l’Illumisnismo, mentre Ratzinger ha elogiato il ruolo della ragione nel limitare il danno provocato talvolta da un pensiero religioso troppo superficiale. I resoconti dell’incontro parlarono di un Habermas molto più disposto a riconoscere i meriti della religione di quanto non si fosse
il viaggio Il presidente George W. Bush si consulterà con il pontefice anche sul boicottaggio dell’apertura dei Giochi olimpici di Pechino. Benedetto XVI, che durante il suo viaggio pregherà a Ground Zero
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anni ’80, quattro pensatori americani, sia cattolici che protestanti, si trattennero a conversare per un’ora con l’allora Cardinale Ratzinger per discutere a 360 gradi della situazione della fede cristiana in Europa, negli Stati Uniti e nell’allora Unione Sovietica. Ratzinger insistette sul fatto che il comunismo era morto; la grande minaccia intellettuale del futuro, quella che lo preoccupava di più - disse tranquillo - era lo “gnosticismo”. Si pensò che con questo termine il Cardinale si riferisse ad un tipo di utopia astratta, un tentativo di fuggire i limiti umani. Lo gnosticismo punta su una irrealistica forma di perfezione che sempre si trasforma in un nemico del bene e dell’umanità; porta al disfattismo, all’indignazione, all’amarezza, all’alienazione, all’arrendevolezza al male e, abbastanza spesso, all’autodistruzione. Forse il Cardinale
lasciavano pensare che Ratzinger poteva essere il loro candidato. Perfino i gesuiti con cui ho parlato gli erano favorevoli, ed anche alcuni cardinali chiave dell’America Latina e, ovviamente, la maggior parte dei tedeschi. Il punto è che Joseph Ratzinger è stato conosciuto a lungo come un uomo modesto, buono e accessibile, un prete più che un cardinale - tra i quali era considerato la miglior penna - ma era anche il più erudito, la mente più brillante e la più proiettata ai pensieri elaborati successivamente, la maggior parte dei quali coincidenti con quelli di Papa Giovanni Paolo II. Quando è stato eletto, mi è apparso chiaro che le accuse lanciategli dai giornali “progressisti” di essere reazionario, autoritario e inflessibile erano false, determinate da personali pregiudizi. Ho conosciuto il giovane Joseph Ratzinger come con-
te e avanzata città della cristianità divenne una capitale musulmana. Nella storia le idee hanno una grande forza, specialmente in tempi cruciali come i nostri. Problemi ampi e profondi sono in ballo, e nessuno li vede più chiaramente di questo particolare Papa. Il suo discorso di Ratisbona è stato una delle punte della sua strategia: una pubblica asserzione che, per la vera religione, la ragione è molto simile a Dio, mentre la violenza è contro la natura divina. Una seconda punta è la sua enfasi sulla libertà religiosa, e qui tocca un argomento di stretta attualità. Le moschee si sono diffuse in tutta Europa, ma ora il Papa insiste sulla reciprocità. Insiste sul diritto di costruire chiese cristiane nei Paesi musulmani, e chiede la fine delle violenze contro le minoranze cristiane. Due mesi fa, in Qatar, e due settimane fa in Arabia Saudita, sono stati presi accordi per costruire una chiesa cristiana che, si spera, sia di auspicio per ulteriori progressi. In Arabia Saudita lavorano almeno 900mila cristiani provenienti dalle Filippine e da altri Paesi, e questa gente ha un disperato bisogno della libertà di praticare la propria religione. Benedetto XVI ritiene che ci sia molto da fare per proteggere i cristiani nei Paesi islamici, considerato anche come l’Europa cristiana apre le sue porte all’immigrazione musulmana. Il Papa è gentile, modesto e paziente, ma nessuno dovrebbe sottovalutare la sua determinazione e pervicacia. Cinque anni fa concordava con Giovanni Paolo II sul fatto che una guerra in Iraq avrebbe sollevato un enorme vespaio, ma ora il suo convincimento è che la libertà religiosa debba essere rispettata anche lì, e che la protezione dei cristiani debba essere garantita nello stesso modo in cui i musulmani godono della libertà di andare e venire nei Paesi cristiani. Certo, la questione più urgente dell’attuale visita è una energica scossa ai fedeli cattolici degli Stati Uniti. Si dovrà valutare attentamente il tenore delle sue parole ad una vasta platea di educatori cattolici, di vescovi, di clericali e - attraverso la televisione - di milioni di laici. Anche il testo del discorso che il Papa indirizzerà al Paese dovrebbe godere di un’attenzione speciale. Quelli che lo hanno letto, dicono che sarà un accurato riepilogo dell’insieme delle idee sul diritto naturale e sui diritti umani universali in nome dei quali furono concepite le Nazioni Unite. È proprio il momento giusto per Benedetto XVI di venire in America.
Giovanni Paolo II riuscì a rilanciare la qualità dei vescovi, ma ancora nulla è paragonabile all’età dell’oro dei grandi leader, come il vescovo Spalding o Gibbons stava già allora elaborando le sue riflessioni più recenti sul relativismo e il nichilismo, l’ingegneria genetica e il romanticismo politico come gli odierni principali nemici della libertà.
abituati a sentire da lui, e di una impressionante cordialità tra i due. Benedetto XVI è un Papa più amato di quanto non si creda. Sono più le persone che presenziano alla sua udienza settimanale nella sala Paolo VI di quante non fossero solite andare a sentire Giovanni Paolo II; si dice che gli italiani, in particolare, siano calorosi nei suoi confronti perchè ne apprezzano la buona conoscenza della
lingua e il suo amore per l’arte e la cultura. Il Papa, inoltre, ha sempre colpito per la timidezza e la modestia nonostante il suo grande sapere. È il tipo di professore che preferisce lasciare che la chiarezza del suo pensiero parli per sé, piuttosto che fare appello alla scontata preminenza di un cattedratico. Lontanissimo da qualsiasi manifestazione di arroganza, si presenta ad ogni conversazione informale come chi deve costantemente cercare e imparare. Nei primi
Vorrei ora portare la mia personale testimonianza. Circa dieci anni fa, io e mia moglie stavamo cenando in una delle più grandi trattorie italiane - un posto semplice a gestione familiare - quando entrò un gruppo di preti che circondava un anziano sacerdote, tutti vestiti con il consueto abito nero. Sorpreso, mi sono avvicinato per presentarmi, e lui, con un sorriso, mi ha abbracciato e ha dato a me e mia moglie il benvenuto a Roma, poi si è ricongiunto al gruppo. Era il Cardinale Ratzinger, e il suo staff - composto da persone di molti Paesi - lo portava a festeggiare il compleanno con una semplice cena. Ai funerali di Giovanni Paolo II, in un momento tremendamente toccante e appassionato, prima che si raccogliesse la più vasta folla umana che si sia mai vista in una grande città del mondo, il Cardinal Ratzinger fece una eloquente predica, un sermone intellettualmente potente, poetico e, ovviamente, segnato dall’amicizia, dall’affetto e dall’ammirazione per l’uomo. Quando finì, uno del nostro gruppo disse: «abbiamo appena sentito il prossimo Papa». La maggior parte degli altri non gli credette, le probabilità sembravano davvero poche, ma in quei giorni, a Roma, più di una dozzina di interviste rilasciate dagli altri cardinali
sulente teologico al Concilio Vaticano II, ed era ben conosciuto come un leader dei progressisti.
Il Papa è un uomo paziente, persistente e profondo. Non molti di quelli che hanno sentito o letto il suo famoso discorso di Ratisbona - quello sul dialogo del 1391 tra l’imperatore Manuele II Paleologo e un filosofo islamico suo amico, un dialogo sul ruolo della ragione nella religione in opposizione alla violenza - hanno capito il messaggio implicito alla compiaciuta Europa contemporanea. Questo grande imperatore ha respinto il terribile saccheggio di Costantinopoli da parte delle orde del Sultano per lunghi anni. Non molto dopo la sua morte, infatti, la città fu travolta; tutte le sue chiese distrutte o trasformate in moschee, i cristiani uccisi o costretti in cattività. Solo pochi decenni dopo questo famoso dialogo - e precisamente nel 1453 - la più grande, poten-
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mondo Marek Sobczyk, ritratto di Jaruzelski, 14 dicembre 1981 di proprietà dell’artista
n Polonia il 1980 era stato segnato da quell’agosto sfolgorante in cui aveva vinto la composta ribellione della società al regime, consacrata negli accordi di Danzica. Il potere era stato costretto ad accettare la legalità di un sindacato autonomo e indipendente, Solidarnos´c´. Ma all’euforia dell’agosto era poi subentrato il gelo del lungo inverno. Con lo stato di guerra, introdotto nella notte fra il 12 e il 13 dicembre 1981, il regime comunista aveva nuovamente dichiarato la sua aperta ostilità all’intera società. La repressione fu dura: internamenti, arresti, licenziamenti. E poi ancora censura e coprifuoco. I reparti speciali antisommossa operarono con brutalità. E le vittime, un centinaio. Con l’introduzione dello stato di guerra, sulla scena politica si presentò un Consiglio militare di salvezza nazionale, composto da militari e membri del partito. Il loro leader era il generale Wojciech Jaruzelski. Lo stato di guerra venne sospeso il 31 dicembre 1982 e poi revocato il 22 luglio 1983. Una parte delle norme repressive comunque rimase in vigore negli anni successivi; saranno cancellate solo con la caduta del regime comunista nel 1989.
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Con la nuova Polonia si è aperto un acceso dibattito: Jaruzelski ha sostenuto di essere stato responsabile del male minore, di essere stato costretto a introdurre lo stato di guerra (ad autoinvadersi) per evitare una invasione da parte delle truppe sovietiche e del Patto di Varsavia. Insomma, il generale dagli occhiali neri sarebbe stato in qualche modo un “patriota”. La sua versione venne contestata nel 1992 dal generale sovietico Anatolii Gribkov (già capo di stato maggiore del Patto di Varsavia). I successivi documenti declassificati dagli archivi di Mosca non confortano Jaruzelski. È vero che il generale polacco era stato messo sotto accusa dai capi del Cremlino per la sua debolezza nei confronti di Solidarnos´c´ (movimento “controrivoluzionario”) e per le sue continue richieste di aiuti alimentari, economici e finanziari a Mosca. Dalle carte di archivio emerge che l’Unione Sovietica impegnata pesantemente in Afghanistan non aveva intenzione di intervenire in Polonia. Washington, che aveva già boicottato le Olimpiadi di Mosca, minacciava altre pesanti ritorsioni. Insomma, i polacchi avrebbero dovuto
Polonia, al via il processo contro il generale che introdusse lo stato di guerra nel 1981
Le responsabilità di Wojciech Jaruzelski di Fernando Orlandi cavarsela da soli. Ma Jaruzelski prometteva alla dirigenza del Pcus di introdurre provvedimenti di emergenza, ma poi non si decideva. Da qui le pressioni del Cremlino. Ad una importante
chiedendo se poteva fare affidamento sulle truppe sovietiche nel caso la situazione fosse divenuta “critica”. Poiché la risposta del Cremlino fu negativa, Jaruzelski riformulò la richiesta
“L’imputato” dice essere stato costretto “ad autoinvadersi” per evitare l’arrivo delle truppe sovietiche e del Patto di Varsavia, ma Mosca era impegnata in Afghanistan e non voleva intervenire conferenza che si tenne a Jachranka nel novembre 1997, Viktor Anoshkin, aiutante di campo del maresciallo Viktor Kulikov (già comandante in capo del Patto di Varsavia), che nel dicembre 1981 si trovava in Polonia, rivelò che alcuni giorni prima dell’introduzione dello stato di guerra Jaruzelski telefonò a Leonid Brezhnev informandolo di quanto stava per intraprendere e
con un telegramma trasmesso per mezzo dell’ambasciata sovietica di Varsavia. La risposta fu netta: niente truppe.
Nel corso degli anni in Polonia si è ritornati molte volte su questa vicenda, anche sul piano giudiziario. Nel 1996 il Sejm, il parlamento all’epoca dominato dai post-comunisti, si pronunciò contro l’incriminazione del generale. Ma intan-
to era iniziato un altro processo contro di lui, quello che lo vede imputato per avere fatto sparare sugli operai di Danzica in sciopero nel dicembre 1970 (allora ricopriva l’incarico di ministro della Difesa). Nel marzo 2006 l’Istituto della memoria nazionale (un organismo statale che si occupa degli archivi della polizia segreta ma anche dei crimini commessi dai totalitarismi) ha accusato Jaruzelski di avere violato la stessa Costituzione comunista nell’introdurre lo stato di guerra e di avere avuto un ruolo dirigente «in un gruppo criminale organizzato di natura militare», finalizzato a commettere reati «consistenti nella privazione della libertà mediante internamento». Ora il processo è iniziato. Per la prima volta un tribunale di Varsavia esaminerà questa vicenda. Sul banco degli imputati oltre a Jaruzelski vi sono anche l’ex ministro degli interni Czeslaw Kiszak e il capo del partito Stanislaw Kania. La prossima udienza si terrà il 24 aprile. In gioco è una pagina importante della recente storia polacca, non il portare in carcere l’ottantaduenne generale, che rischia una pena fino a undici anni di detenzione. Jaruzelski ha reagito sostenendo che milioni di polacchi lo hanno sostenuto, che lo sta giudicando una “corte morale” e si è detto «profondamente convinto, oggi ancora più di prima, che era necessario» fare quello che ha fatto.
Che cosa sia in gioco lo spiega lo storico Pawel Machcewicz: «La situazione internazionale era molto tesa. I sovietici erano impegnati nella guerra in Afghanistan e volevano evitare un altro conflitto nel cuore dell’Europa. Questo significa, secondo me, che il generale Jaruzelski disponeva di molto spazio di manovra e che non si trovava sotto il pericolo diretto di un intervento sovietico. Egli avrebbe potuto cercare un accordo con Solidarnos´c´. Certo, non possiamo essere sicuri di cosa sarebbe accaduto se lo stato di emergenza non fosse stato introdotto, se i sovietici avrebbero cambiato il loro atteggiamento. Di sicuro, secondo i documenti sovietici, nel dicembre 1981 non esisteva alcuna minaccia diretta di intervento militare sovietico. Questo significa che la responsabilità di Jaruzelski per lo stato di emergenza è ancora maggiore di quello che pensavamo prima di conoscere i documenti sovietici».
mondo
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Islamizzazione strisciante, aumenta l’insofferenza del vecchio continente
Un laboratorio contro il jihad d i a r i o
di Daniel Pipes
d e l
g i o r n o
Continua la prigionia di Betancourt Il tentativo francese di liberare Ingrid Betancourt da anni nelle mani delle Farc, Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, si è concluso in un fiasco. Il ministero degli Esteri di Parigi ha deciso di riportare a casa l’equipe di pronto intervento civile-militare arrivata in Colombia qualche giorno fa. Il capo della diplomazia transalpina, Bernard Kouchner, ha comunque garantito che l’ostaggio franco-colombiano non verrà abbandonato. Kouchner si recherà ben presto nella regione per tentare di riprendere le trattattive. Un compito difficile per il ministro poiché per il rilascio di Betancourt la guerriglia pretende il ritiro delle forze armate di Bogotà da due distretti del Paese e la liberazione di centinaia di detenuti.
Il regista olandese 44enne Geert Wilders, autore del contestato lungometraggio Fitna e, a fianco, Magdi Allam
L’
Europa occidentale, sostengono alcuni analisti, non potrà eludere il suo destino eurabico poichè la tendenza degli ultimi cinquant’anni continuerà fino a quando i musulmani non saranno maggioranza e la legge islamica della Shari‘a non regnerà. Non sono d’accordo. Il continente può percorrere un’altra strada: resistere all’islamizzazione e riaffermare i propri valori. Gli europei autoctoni – il 95 per cento della popolazione del continente – possono tornare alle consuetudini storiche. Se lo facessero nulla glielo impedirebbe e nessuno potrebbe fermarli.
Gli europei mostrano segni di insofferenza verso la strisciante Shari‘a. In Francia, la legislazione che vieta l’uso dell’hijab nelle scuole pubbliche evidenzia la riluttanza ad accettare gli usi islamici come pure i tentativi a proibire i burqa, le moschee e i minareti. In tutta l’Europa occidentale, i partiti politici contrari agli immigrati stanno generalmente acquistando popolarità. La scorsa settimana questa resistenza ha preso una nuova piega con due eventi plateali. Il primo, datato 22 marzo, ha visto Papa Benedetto XVI in persona battezzare, cresimare e impartire l’eucaristia al 56enne Magdi Allam, scrittore e vice-direttore ad personam del Corriere della Sera, un insigne musulmano di origine egiziana che da tempo vive in Italia. Allam ha assunto il nome di Cristiano. La cerimonia di conversione alla religione cattolica non avrebbe potuto avere un profilo più alto, celebrata nella Basilica di San Pietro nel corso della veglia pasquale è stata seguita dai media vaticani e da molte altre emittenti televisive. Allam ha dato seguito alla sua conversione con una pungente dichiarazione in cui ha argomentato che al di là del «fenomeno degli estremisti e del ter-
San Francisco blindata per la fiamma olimpica rorismo islamico a livello mondiale, la radice del male è insita nell’Islam,fisiologicamente violento e storicamente conflittuale». In altre parole, il problema non è l’islamismo, ma l’Islam. Un commentatore di Asia Times, che si firma con lo pseudonimo di «Spengler», arriva al punto di asserire che Allam «costituisce una minaccia esistenziale per la vita musulmana» poiché egli «è d’accordo con i suoi excorreligionari sulla necessità di ripudiare la degradante cultura dell’Occidente moderno», ma offre loro qualcosa del tutto differente: «una religione fondata sull’amore». Il secondo episodio, datato 27 marzo, ha visto il 44enne Geert Wilders far uscire il suo attesissimo lungometraggio di 15 minuti dal titolo Fitna, che consta di alcuni dei più bellicosi versetti coranici, cui fanno seguito atti conformi a quei versetti messi in pratica dagli islamisti
La conversione di Magdi Allam, e Fitna, il film di Geert Wilders, sono la prova che l’Europa non si appresta a perdere i propri valori negli ultimi anni. L’ovvia insinuazione è che gli islamisti stiano semplicemente agendo conformemente alle loro scritture. Con le parole di Allam, Wilders argomenta altresì che «la radice del male è insita”nell’Islam».
Contrariamente ad Allam e Wilders, io opero una distinzione tra Islam e islamismo, e reputo indispensabile che le loro idee siano ascoltate con imparzialità, senza vituperi e punizioni, e che dovrebbe aver luogo un onesto dibattito sull’Islam.
Se la conversione di Allam è stata una sorpresa e il lungometraggio di Wilders ha avuto una fase preparatoria di tre mesi. Secondo il Los Angeles Times, la polizia olandese ha contattato gli imam per sondare le reazioni delle moschee rilevando che, come asserito dal portavoce della polizia Arnold Aben, «oggi la situazione è più tranquilla del solito. È una specie di festa». In Pakistan, una manifestazione di protesta contro il film ha visto l’esigua partecipazione di alcune decine di manifestanti.
Queste reazioni relativamente innaturali fanno pensare che le minacce musulmane siano bastate a imporre la censura. Il premier olandese Jan Peter Balkenende ha biasimato Fitna e, dopo che 3,6 milioni di visitatori hanno visionato il sito web britannico LiveLeak.com, la compagnia ha annunciato che «in seguito alle serie minacce ricevute dal nostro staff (…) Liveleak non ha avuto altra scelta se non quella di rimuovere Fitna dai nostri server». (Ma due giorni dopo LiveLeak ha ripostato il film.) Sono tre le similitudini degne di nota: sia Allam (autore di un volume intitolato Viva Israele) che Wilders (il cui film sottolinea la violenza musulmana contro gli ebrei) prendono le parti di Israele e degli ebrei; le minacce musulmane cui sono stati oggetto li costringono da anni a vivere giorno e notte sotto scorta; e cosa ancor più importante, i due condividono una passione per la civiltà europea. In effetti, Allam e Wilders potrebbero rappresentare l’avanguardia della riaffermazione cristiana/liberale dei valori europei. È troppo presto per prevederlo, ma questi integerrimi individui potrebbero fornire un ottimo incoraggiamento a coloro che sono fermamente intenzionati a mantenere l’identità storica del continente.
Dopo l’Europa è l’ora dell’America. Dopo Londra e Parigi tocca è la volta della città californiana a far sentire la propria voce. Tra i manifestanti a favore del Tibet vi sono pure personalità come l’attore Richard Gere e il Vescovo sudafricano Desmod Tutu. Quando, alle 13 ora locale, la marcia del tedoforo avrà mosso i primi passi, la tensione nella città del Golden Gate sarà massima. A San Francisco esiste una delle più forti comunità cinesi degli Usa e si attendono anche manifestazioni a favore di Pechino.
Ma Il Cio non osa Il presidente del Comitato olimpico internazionale, Jacques Rogge, ieri è volato a Pechino per incontrarsi col primo ministro cinese, Wen Jiabao. Nel vertice, durato un’ora, si sarebbe parlato solo della preparazione dei giochi olimpici che inizieranno l’otto agosto. In un’intervista alla televisione belga, Vrt, Rogge ha detto che l’enorme pressione fatta in questi giorni sulla Cina, rischia di rafforzare solo la tradizionale tendenza isolazionista del Paese.
La Cina primo produttore d’oro mondiale Con un aumento di 33 tonnellate della quantità del metallo prezioso estratto, la Cina ha superato il Sud Africa, detentore centenario del primo posto in questa classifica, nella produzione di oro. I dati sono stati forniti dal centro specializzato Gfms, durante la presentazione del rapporto 2008 sulle prospettive del metallo prezioso.
Pressione internazionale su Mugabe La crisi delle presidenziali in Zimbabwe ha spinto il confinante Zambia a convocare un vertice per tentare di risolvere le tensioni che in Zimbabwe continuano a dividere governo e opposizione. Secondo informazioni fornite da Lusaka l’incontro avrà luogo domenica prossima. Non è ancora certo se Mugabe vi prenderà parte.
Scontri ad Haiti Migliaia di persone sono scese ieri in piazza nella capitale dell’isola caraibica, Port-au-Prince, per protestare contro il crescente aumento dei prezzi dei beni alimentari. I manifestanti hanno attaccato il palazzo del presidente Rene Preval, e l’aeroporto internazionale. Polizia locale e caschi blu dell’Onu sono schierati a difesa delle zone più a rischio della città. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha duramente condannato le violenze.
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speciale educazione
n profondo disagio investe tutto il mondo della formazione. La lettera aperta di quindici personalità ai partiti e ai candidati è solo l’ultima manifestazione del problema. Ciò che i 15 chiedono è apparentemente ovvio: una scuola più esigente. Sul piano dei risultati e del comportamento. Chi non sottoscriverebbe una proposta del genere? Ma quando è l’ovvio ad essere richiesto allora il problema è serio. Vuol dire che la malattia è profonda. Non risiede in aspetti tecnici. È una malattia che si chiama “delegittimazione”. Negli ultimi decenni il ruolo della scuola nella società è stato costantemente ridimensionato. A prescindere dalla volontà di singoli, di partiti, di associazioni. Questo è un dato di fatto. La formazione culturale e professionale non viene percepita dai giovani come il mezzo primario per realizzare i propri sogni e le proprie ambizioni. Per alimentare fenomeni di mobilità sociale. Perchè sudare per guadagnare merito? Se il lavoro è precario, se la precarietà può durare anni, allora la formazione è un gioco fine a se stesso, senza un punto di riferimento esterno. Uno spazio d’azione dove l’aspetto formale tende a prevalere su ogni discorso di sostanza. In questa trincea stanno i docenti. Delegittimati nel ruolo, assediati da genitori rivendicativi, deresponsabilizzati da una pletora di organismi collettivi. La richiesta di una scuola più rigorosa e più responsabile appare un estremo tentativo per aprire gli occhi su un settore delicatissimo della nostra società. L’unico da cui dipende veramente il futuro del nostro Paese. E non si tratta di salvare questa o quella scuola eccellente. Si tratta di elevare la qualità media del sistema scolastico. Sburocratizzando.
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Dando prestigio ed autorevolezza al docente. Evitando di confondere demagogicamente il diritto alla formazione col diritto al risultato (il voto garantito, la promozione garantita…). Una seria formazione esige impegno e responsabilità. Da parte di tutti. Degli studenti, dei docenti, delle famiglie. Ed un governo che abbia poche idee chiare. Gli altri paesi, e non so-
Socrate Le parole d’ordine sono: regole, rigore e risorse. Il merito e la selezione non sono valori reazionari
Le tre “erre” che salvano l’Università dal disastro di Guido Trombetti lo quelli sviluppati, stanno investendo moltissimo nella formazione. Prima e meglio di noi hanno capito che la competizione nei prossimi decenni si gioca tutto sulla qualità del “capitale umano”. Un capitale fatto di persone consapevoli, motivate e competenti. Disponibili ad apprendere tutta la vita. Senza questo capitale anche il paese economicamente più sviluppato imboccherà ben presto la via del declino. L’investimento nella scuola è quindi la nostra assicurazione per il futuro. Non sarà facile porre riparo a decenni di equivoci. Per cui è facile far passare ogni proposta di rigore per reazionaria. Dove la responsabilità individuale del docente viene guardata con sospetto. Come un tentativo di elusione delle regole burocratiche. Comunque occorrerà pro-
varci. Presto e con decisione. E veniamo all’università. Ripeto cose già dette molte volte. I discorsi qui non sono molto diversi da quelli fatti per la scuola. Il nostro paese ancora non ha chiarito cosa vuole farsene dell’università. Se è una istituzione necessaria a sostenere lo sviluppo.
Oppure è un’istituzione dove parcheggiare un po’ di giovani che non trovano sbocchi sul mercato del lavoro. Nel secondo caso è sufficiente continuare come ora. Dotando l’università di quel minimo di risorse sufficienti appena appena a sopravvivere. Se si vuole fare della formazione superiore uno dei perni intorno a cui costruire il futuro modello di sviluppo, allora è necessario un profondo rinnovamento della politica universi-
taria. Una politica che deve avere tre parole d’ordine: regole, rigore, risorse. In altri termini più risorse a fronte di un sistema di valutazione rigoroso su come esse vengono impiegate. Per qualificare i servizi formativi l’università deve muoversi lungo tre direzioni. Primo, deve potenziare il grado di internazionalizzazione sia della didattica che della ricerca. Significa che servono accordi di collaborazione con atenei stranieri per lo scambio di studenti. E serve, di conseguenza, potenziare i servizi di accoglienza di studenti e docenti stranieri. Internazionalizzare i programmi di dottorato. Insomma, gli atenei italiani devono diventare i terminali di una rete internazionale, entro cui devono circolare persone, idee, conoscenze, progetti. Secondo, l’università
deve potenziare i rapporti a monte, con la scuola media superiore, e a valle, col mondo del lavoro. Sviluppando i servizi di orientamento in collaborazione con gli istituti scolastici. Potenziando i programmi di stage e tirocini. Creando laboratori congiunti con le imprese. Incentivando le attività sperimentali.Terzo, l’università deve potenziare i servizi alla formazione, facendo leva sulle opportunità fornite dalle nuove tecnologie. La formazione non si esaurisce nelle aule. Internet ci permette di sperimentare un’enorme gamma di servizi alla formazione per cui sono necessari investimenti. Sarà possibile tutto ciò? Rettore Università Federico II, Presidente CRUI
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L’università di Oxford, modello internazionale di formazione accademica, capace di coniugare da sempre valorizzazione delle eccellenze, progetti educativi di alta qualità e riconoscimento del merito sulla base dei risultati
La scuola migliore è quella più ordinata
Attenti, la severità non risolve tutto di Sergio Valzania ono un tipo all’antica. Quando si affronta un argomento penso per prima cosa si debba interrogarsi sulla sua natura e sulla sua storia. Forse vale la pena di comportarsi così anche davanti al problema di una scuola che funziona sempre peggio. Invocare maggior severità, bocciature, repressione, selezione non é una
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strada utile se questo non avviene all’interno di un contesto di consapevolezza e di finalizzazione. Vanno bene le lacrime e il sangue, ma per fare cosa, a qual fine? Proprio la scuola, quella all’antica, dovrebbe aver insegnato a progettare, a distinguere i mezzi dai fini, a studiare un tema o problema prima di affannarsi a buttar giù le prime frasi che passano per
la testa o sommare e sottrarre numeri a caso. Allora guardiamo che cos’é questa scuola pubblica che ci viene consegnata dalla storia degli stati nazionali e quale é stata la sua funzione nella società italiana, quali i suoi successi e quali i suoi fallimenti. Quando la borghesia liberale costruì il sistema scolastico italiano lo fece con due obbiettivi: togliere alla Chie-
sa il monopolio dell’istruzione e creare uno strumento mirato alla formazione dei cittadini italiani, cancellando le tradizioni locali, prime fra tutte quelle linguisticodialettali, a favore di una nuova ideologia unitaria. I risultati non furono esaltanti. Certo la lotta condotta dallo stato laico contro le istituzioni della Chiesa conobbe qualche risultato, ma per formare una coscienza nazionale e dare agli italiani un qualche senso unitario si rivelò più utile il massacro della Prima Guerra Mondiale. Neppure sul fronte della lingua le cose andarono troppo bene. I dialetti resistettero ad ogni sforzo scolastico e sono rimasti in uso nelle case italiane fino all’avvento della televisione, che li ha debellati in pochi anni di sceneggiati e caroselli, realizzando il lavoro fra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Più efficace si dimostrò la scuola nell’intento, più o meno palese, di conservare la struttura sociale del paese, tenendo distinti ricchi e poveri, ragazzi di buona famiglia e figli del proletariato. Del resto Pasolini avvertiva che il vero insegnante non é il docente, ma il compagno di banco. Basta tenere distinti i giovani sulla base del ceto di provenienza e tutto il resto viene da solo. Sul terreno dei contenuti non c’era da sforzarsi troppo. Gentile aveva rimesso in sesto un corpus di conoscenze che negli anni Trenta potevano rappresentare un universo di saperi e con quelli si é andati avanti fino a quando la modernità ha travolto gli steccati e mescolato le carte in modo tale da rendere impossibile la definizione di un insieme di nozioni essenziali e irrinunciabili piccolo a sufficienza da poter essere condiviso. Questo ha reso impraticabile il nozionismo in quanto tale. Ormai é chiaro a ogni persona di media cultura che l’importante é saper organizzare la conoscenza, non disporre di un numero maggiore di suoi frammenti impazziti. Per questa ragione l’uomo é ancora in grado di giocare a scacchi col computer, che pure dispone di moltissime informazioni più di lui. È al termine di questo percorso che la scuola italiana entra in crisi. Rabbiosa con la televisione che ha insegnato a tutti una lingua comune, anche se un po’ diversa da quella proposta dagli autori delle grammatiche, impotente di fronte al collasso di ogni possibile nozionismo e piena di sensi di colpa per il suo passato di garante delle divisioni sociali. Da qui bisogna ripartire. Immaginare che un’iniezione di severità possa risolvere tutto é ingenuo. Proviamo invece a partire dalla parte giusta, riflettendo innanzi tutto su quali siano gli obiettivi che una scuola moderna si deve proporre. Per strano che possa sembrare essi non sono
cambiati per nulla da quelli che hanno portato alla nascita di una scuola pubblica nazionale, ossia la creazione di un concetto di cittadinanza e la formazione di cittadini ad esso omogenei. Semmai la differenza sta nel diverso concetto di cittadinanza e cittadino che abbiamo oggi rispetto al momento della costituzione del Regno d’Italia, quando ogni italiano era un suddito e doveva essere pronto a dimostrare il proprio spirito patriottico imbracciando il fucile. L’efficienza del sistema venne dimostrata nel 1915 e negli anni a seguire. Per fortuna non é più quello l’obiettivo che ci interessa venga perseguito dalla nostra scuola. Oggi la cittadinanza si riconosce nella capacità di convivere fra diversi, nel prepararsi all’individuazione di una formula condivisa per uscire dalle sacche nelle quali il nazionalismo ci aveva costretto. Oltre naturalmente alla partecipazione consapevole al progetto culturale che sta a fondamento della nostra comunità. La condivisione di un’esperienza di vita é il modo migliore per sviluppare una sensibilità alla convivenza. In questo campo la scuola é forse l’unica istituzione che dispone di occasioni reali di formazione. Lo stare insieme, lo scambiare conoscenze, emozioni e saperi si sono ritratti dalla vita familiare, ridotta sia nel tempo che nel numero dei componenti, e si perpetuano in ambiti diversi, spesso pero’ non caratterizzati dalla dimensione comunitaria. Diventa quindi decisivo, in vista di una pratica di convivenza e di una partecipazione alla vita democratica del paese a tutti i livelli, che l’ambito scolastico addestri al confronto, all’ascolto, alla tolleranza, prima che all’apprendimento di saperi astratti o, peggio, alla conflittualità concorrenziale. Riguardo a quali siano poi le modalità attraverso le quali un gruppo sociale arricchisce il proprio sapere complessivo, il proprio livello culturale, non sembra esistano dubbi. Sono in pochi a non credere che le strade percorribili siano solo quelle dello studio, della riflessione e, per chi condivide alcuni valori, della preghiera. La questione sta semmai su chi debba misurarsi in queste pratiche. Immaginare che solo i discenti debbano studiare, sotto lo sguardo di occhiuti controllori, é assurdo. La scuola, di ogni livello, dalla materna all’università, deve essere luogo di creazione culturale. Per la semplice ragione che la cultura non é statica, se non cresce regredisce. Allora dobbiamo essere consapevoli del fatto che la scuola migliore non é in nessun modo la scuola più severa, ma, come é facile capire, quella più ordinata, frequentata dagli insegnanti più disponibili a studiare con i loro allievi e più curiosa del futuro.
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Socrate «Ingegno e sapere, virtù da riscoprire» speciale educazione
Maggiore selezione e una politica basata sui risultati
di Giovanni Donzelli ialogo tra casalinghe con il numerino in mano in attesa di essere servite dal fruttivendolo? Purtroppo non solo. E’ lo scambio di frasi più ricorrente tra i giovani che, aspirando ad intraprendere la carriere accademica, commentano i concorsi universitari. I concorsi per ricercatori e docenti sono ormai una sorta di rito fittizio, utile a nascondere una vera e propria cooptazione mascherata. Non soltanto a Bari, ma in molti Atenei esistono dipartimenti con corridoi interi in cui tutte le targhette dietro le porte dei docenti recano lo stesso cognome: padri e figli, zii e nipoti, nonni e mogli… Famiglie intere, in alcuni casi allargate anche alle amanti e alle fidanzate dei figli, gestiscono e spartiscono i concorsi accademici. Capita così che ricercatori giovani e preparati siano costretti ad invecchiare aspettando il proprio turno, senza nemmeno partecipare ai concorsi per evitare di indisporre il protettore del fortunato unico aspirante. Il Prof. Quirino Paris dell’Università della California, uno dei tanti famigerati cervelli in fuga, si è sbizzarrito nell’elaborare un sistema matematico che dimostrerebbe scientificamente che truccare i concorsi accademici in Italia non è eccezione ma è prassi. Lo studio del Prof. Paris parte dall’analisi statistica dei concorsi per le cattedre ad economia agraria. “L’evidenza matematico-
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statistica presentata in questo studio per tutti i 27 concorsi tenutisi nell’arco di tempo 1999-2003 conferma l’ipotesi di un disegno preciso e di un ferreo pilotaggio delle votazioni al fine di dichiarare idonei dei già predeterminati candidati.”Afferma il Prof. Paris nelle conclusioni del suo documento. Oltre la curiosa dimostrazione matematica del Prof. Paris, purtroppo abbiamo anche la riprova empirica dell’attuale stato dell’Accademia italiana. Ormai nel mondo produttivo ha più valore l’esperienza lavorativa del titolo di studio.
Sintomo del livellamento verso il basso della qualità della didattica, dello svilimento della meritocrazia e dell’abiura della trasparenza. Il mondo accademico, troppo spesso trincerato dietro una mal interpretata autonomia, necessita di interventi profondi, di contaminazioni del mondo produttivo, di confronto e concorrenza con il sistema privato. E’ impensabile che l’avanzamento di carriera e la remunerazione economica dei docenti siano completamenti slegati dai risultati ottenuti, dalle capacità di insegnamento e dalla disponibilità verso gli studenti. Un professore bravo e disponibile, deve avere maggiori soddisfazioni. Un docente svogliato, distratto e incapace deve guadagnare meno e se necessario deve poter essere licenziato. La stessa selezione di
merito deve avvenire per gli studenti. Fino ad oggi si è confuso il diritto alla studio con il diritto al titolo di studio, oggi i laureati non sono una elite, ormai tutti sono capaci prima o poi di raggiungere la laurea. Con il conseguente svilimento del valore reale del titolo di studio. Una Accademia seria dovrebbe mirare ad una selezione “ad imbuto”: accesso garantito a tutti, ma traguardo disponibile solo per l’eccellenza. Purtroppo l’egualitarismo lasciatoci in eredità dal sessantotto ha inquinato pesantemente il sistema. La riforma didattica detta del “tre più due”, l’ultima fatta in Italia, ha poi addirittura peggiorato la situazione, creando cattedre inutili e limando i programmi di studio in base al peso accademico dei docenti e non alle reali esigenza didattiche. La nostra Italia è una nazione limitata nella fornitura di materie prime, ma sarebbe particolarmente fortunata per abbondanza di ingegno e conoscenza. E’ necessario non disperdere questa nostra peculiarità, è urgente quindi che la classe politica concentri le proprie attenzioni sul mondo accademico per aprire una seria e condivisa stagione di rilancio. E’ improcrastinabile un tavolo riformatore, aperto a tutte le forze accademiche e politiche, un tavolo capace di progettare una rivoluzione meritocratica dell’Università
italiana. Nella società postglobalizzata la differenza si misura su l’ingegno e le conoscenze: carbone del nuovo millennio per le fabbriche del futuro.
Perdere competitività accademica oggi, vuol dire sganciarsi dallo sviluppo per i prossimi decenni. L’Italia non può permettersi ancora riforme universitarie fatte e corrette a colpi di maggioranze instabili e variabili. E’necessario quindi uno sforzo comune per riprogettare completamente la formazione di massimo
livello della nostra nazione intorno a quattro pilastri: trasparenza, meritocrazia, qualità, ed efficienza. Chi oggi gestisce sacche di potere cooptando ricercatori e manovrando concorsi difficilmente rinuncerà spontaneamente ai privilegi acquisiti. E’prevedibile e comprensibile. La politica dovrà trovare la forza di superare queste resistenze, ed impegnarsi per salvare il futuro dell’Università e della competitività della nostra Italia. Presidente nazionale Azione Universitaria
LETTERA DA UN PROFESSORE
SE IL PRESIDE FACESSE LEZIONE di Giancristiano Desiderio na volta si diceva preside, oggi si dice dirigente scolastico. Chi è un dirigente scolastico? Un burocrate. Persona seria, per carità. Svolge con scrupolo il suo lavoro fatto di carte, leggi, circolari. Insomma, burocrazia. Se potesse anche valutare il lavoro dei docenti e magari scegliere i migliori professori per la scuola che guida sarebbe per davvero un “dirigente scolastico”. Diciamo pure, per utilizzare una parola impegnativa un educatore. Perché il punto è proprio questo: a capo delle scuole italiane - dunque degli istituti educativi dell’Italia - ci sono per legge dei burocrati, non degli educatori. Gli esempi permettono di capirsi meglio. Da quanto tempo i presidi che dirigono le scuole non entrano in classe a svolgere una lezione? La
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stessa domanda sembra stravagante. Come se fosse incomprensibile. Perché mai un preside dovrebbe fare lezione? C’è stato un tempo, tanto tempo fa, in cui il preside veniva dall’aula e all’aula ritornava. Sostituiva l’insegnante assente, faceva lezione, faceva sentire la sua presenza nelle classi. Funzioni e lavori che gli consentivano di far sentire la sua autorevolezza sia sugli alunni sia sui docenti, oltre ad avere un più sicuro polso della situazione della vita della sua scuola. Oggi il preside è confinato in presidenza e da quel luogo extra-scolastico - quasi extra-territoriale - ha il compito di dirigere la scuola valutando numeri, iscrizioni, pre-iscrizioni, abbandoni, bocciature, promozioni, debiti, crediti, Pof e Popoff. Perché la scuola, si dice, è autonoma.
La scuola è soprattutto vita scolastica: insegnamento. E’ l’insegnamento che forma sia gli allievi sia i professori. Il preside per essere effettivamente un “dirigente scolastico” deve essere il primo degli insegnanti. Il compito di un preside non può essere quello di ritenersi un manager, bensì quello di controllare il lavoro dei professori, di valutare i risultati, di favorire il merito, sia degli alunni sia dei docenti . Non c’è un“piano dell’offerta formativa”senza una verifica della qualità delle lezioni e un controllo dei risultati. Ma verifiche e controlli non possono avvenire attraverso consigli, collegi, scartoffie ma solo con l’unico mezzo che l’uomo ha inventato per la scuola: assistere alle lezioni.
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indirizzo politico che devono indicare al più presto una via di uscita possibile e coerente in grado di rilanciare il sistema universitario nel nostro Paese. Un primo passo non può che essere quello di destinare maggiori risorse alle Università e alla ricerca, visto che l’Italia è uno dei paesi dell’area euro che destina meno ricchezza in proporzione al Pil al settore della conoscenza. Quello seguente non può che essere di vigilare affinchè i fondi non siano assegnati “a pioggia” e in maniera indiscriminata ma premino le reali eccellenze, incentivando così una effettiva e auspicabile competizione al rialzo. Bisogna infine avere il coraggio di scegliere una via chiara su quale tipo di università vogliamo.
Italia è ferma. Gli ultimi dati riguardanti la crescita economica nel nostro Paese sono inequivocabili e non inducono all’ottimismo. Nell’area euro siamo uno dei paesi che cresce meno ed i nostri salari sono tra i più bassi d’Europa. Da troppi anni una classe dirigente non sempre all’altezza elude i problemi reali e strutturali che impediscono all’Italia di fare un balzo in avanti sulla via della modernizzazione preferendo la via comoda dell’analisi superficiale e populista. Troppi anni di politica urlata hanno fatto arretrare paurosamente il paese, mentre i nodi principali da affrontare per ripartire rimangono irrisolti. In primo luogo: l’università. Un paese vale ed è forte nella misura in cui conosce. Siamo, purtroppo, costretti ad assistere ad un progressivo imbarbarimento del sistema universitario che pare aver abbandonato il fine principale della sua missione rischiando di scivolare lentamente all’interno di un circuito corporativo ed elitario che allontana le intelligenze vere e preparate mentre alimenta e rende legittimi diritti ereditari e privilegi consolidati. Sarebbe ora di invertire la rotta e di rimettere al centro del sistema la formazione degli studenti piuttosto che i desideri campanilistici di una miriade di città più o meno grandi che pretendono di far aumentare a dismisura le sedi uni-
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Ridotta a feudo del potere, l’Università soffoca il merito
«Basta baronie avanti i migliori» di Francesco Toscano versitarie senza che la collettività ne abbia un effettivo vantaggio. Negli anni infatti abbiamo assistito a una proliferazione incontrollata di università e corsi, a volte eccentrici, funzionali spesso molto più alle esigenze dei pochi operatori che dei potenziali fruitori.
Il merito è il grande assente delle università italiane. Una diffusa cultura pseudo-egualitaria, figlia di una errata interpretazione delle istanze di libertà proprie del movimento sessantottino, ha impedito ed impedisce ancora oggi un completo affermarsi di un principio all’apparenza banale e scontato che al contrario fatica ad imporsi nel panorama italiano: quello secondo cui chi più merita più fa
strada. In ogni università anglosassone che si rispetti c’è scritto:”non dirmi chi sei, dimmi che cosa sai fare”. In Italia siamo lontani anni luce da una visione del genere. Non è casuale infatti la massiccia emigrazione intellettuale delle migliori giovani intelligenze del nostro Paese, costrette a cercare all’estero ciò che da noi non possono trovare, rispetto cioè per il merito e la professionalità. In Italia si fa carriera quasi esclusivamente per anzianità o per diritti di casta acquisiti alla nascita. Il tasso di nepotismo acritico che caratterizza la scelta del personale docente è molto alto come ha dovuto amaramente ammettere l’attuale ministro Mussi in un’ intervista rilasciata al Messaggero il 21 Giugno del 2007. Ma se
abbondano le analisi che fotografano le situazioni di criticità, difettano gli interventi tesi a rimuoverle. Una politica debole che fatica a perseguire un’idea di interesse generale e rincorre e asseconda tanti particolarismi non è buona politica e non può risolvere i problemi. Al più si limita all’invettiva, come le famose comari cantate da De Andrè.
Non tutti i problemi, è vero, sono di facile risoluzione ma se l’incuria e l’ignavia di fronte a fenomeni degenerativi che possono sfociare in situazioni di squallore e di degrado come quelle salite agli onori della cronaca in questi giorni a Bari sono intollerabili, ben altra cosa sono le scelte di fondo e di
Oggi anche gli osservatori più attenti ammettono che l’università italiana vive una situazione di ambiguità, sospesa tra la tentazione di difendere uno status quo volto a tutelare una finta concezione egualitaria, che si traduce in un appiattimento verso il basso dei saperi e delle conoscenze, e un desiderio di innovazione e di modernità che imponga finalmente una nuova era fondata sull’affermazione del merito. I difensori dello status quo guardano con sospetto ad ogni tentativo di modernizzare il sistema universitario paventando il rischio sotteso di escludere larghe fasce sociali dal diritto alla conoscenza. In realtà accadrebbe proprio il contrario. Un sistema pietrificato come quello attuale, che premia le baronie e penalizza i migliori è perfettamente funzionale agli interessi di poche élite. Un sistema aperto e competitivo invece che metta al centro il merito, permette a chiunque di affermarsi in virtù del proprio valore e del proprio impegno. I giovani di oggi guardano al futuro con molta preoccupazione perché comprendono perfettamente che a loro, a differenza dei padri, non basterà studiare per affermarsi socialmente e conquistare di conseguenza una certa serenità economica. La scarsa correlazione tra università e mondo delle imprese, la crisi economica con la conseguente precarizzazione del mondo del lavoro e la sostanziale svalutazione del titolo di laurea sono tutti fenomeni palpabili che minano nel profondo le certezze e le speranze di intere generazioni. In un quadro del genere gli unici garantiti finiscono con l’essere soltanto le fasce più ricche della popolazione. Per questo è necessario una rapida inversione di tendenza figlia di una efficace rivoluzione culturale che spinga i giovani di oggi ad investire su se stessi con rinnovato entusiasmo nella consapevolezza che una nuova stagione di diritti e di benessere potrà nascere soltanto se accompagnata da un rinnovato e convinto senso di responsabilità. Vicepresidente Cids
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speciale educazione
Socrate
«Bisogna spezzare i legami occulti tra centri del potere politico e roccaforti accademiche»
«Chi sbaglia deve pagare» colloquio con Tommaso Gastaldi di Francesco Lo Dico emuto e ammirato per la straordinaria franchezza e la veemenza morale che lo distingue,Tommaso Gastaldi, docente associato presso la Facoltà di Scienze Statistiche all’università La Sapienza di Roma, balzò agli onori delle cronache un anno fa per aver denunciato un concorso pilotato. Da quel giorno, diventato un punto di riferimento per giovani e docenti che combattono la malauniversità e invocano il ritorno al merito, raccoglie ogni giorno sul suo blog (concorsopoli.fiberia.com) e su un sito, sorto in collaborazione con Raieducational (cityzenblog.wordpress .com), centinaia di segnalazioni, denunce e commenti. I docenti universitari del Gruppo di Firenze, hanno promosso un appello per il ripristino del merito. Dopo l’annus horribilis dei nostri atenei, non è il caso che analogo discorso si faccia anche per le nostre università? Credo che il male debba essere eradicato all’origine. Partendo innanzitutto dal reclutamento in politica. Le linee generali di indirizzo dell’Università sono indicate dal Ministero ed è chiaro che se non si utilizzano dei criteri di merito per la “testa”e gli apparati di controllo, non si possono poi pretendere per il resto del “corpo”. I due problemi, quello del reclutamento politico e quello universitario, sono legati a doppio filo. Basta una sola persona “inadeguata” in un punto chiave, per generare, a cascata, una corposa genia di incompetenti largamente indegni dei posti che ricoprono. Mi pare chiaro il riferimento alla classe docente. Sulla funzione essenziale degli “asini a comando” nell’università le racconto un aneddoto. Parlando con il mio relatore del sistema universitario, me ne uscii, dall’alto della mia presuntuosa ingenuità, tipica della giovane età, con una domanda naïve: «Come mai si mettono in cattedra così tanti asini?». Lui mi diede una risposta, di cui, lo confesso, all’epoca non colsi la geniale profondità, incamerandola come una battuta estemporanea di cui in qualche modo mi sfuggiva il significato. Mi rispose: «Perché ragliano bene». Si tratta quindi, se ben capisco, di un problema squisitamente politico.
T
Non possiamo non attribuire parte della responsabilità a chi i posti di responsabilità li occupa. Di chi entra con fanfare proclami, ma esce poi, alla verifica dei risultati conseguiti, puntualmente seguito dal nobile verso di Don Ersilio nell’Oro di Napoli. Allo stesso modo, nei giovani, valori come coerenza, onestà intellettuale, il tenere fede alla parola data e agli impegni presi, un senso nobile ed alto della vita, tramontano all’orizzonte. Molte delle facce eterne della politica appaiono sempre più come affabili e disponibili sotto elezioni, ma
quanto si tratta spesso di abusi e sprechi. Nuove ondate di giovani, nel frattempo, anche incalzati dal precariato, perdono il giusto anelito a realizzare sogni e progetti e spesso pragmaticamente abbandonano la strada della ricerca del valore e dell’eccellenza. E ritrovano naturalmente nel proprio bagaglio culturale meccanismi assorbiti, seppure indirettamente,in epoca formativa. La carenza di risorse e il taglio drastico dei fondi sospinge sempre più le università italiane verso la
megaspot pubblicitario. Insomma, invece di dotarsi e di valorizzare studiosi di chiara fama, si improvvisano campagne di marketing simili a quelle che un comunicatore professionista proporrebbe per vendere ricariche telefoniche. Naturalmente al fine di richiamare iscrizioni e studenti in atenei ormai massacrati dalla micidiale combinazione di relativa scarsità di finanziamento e sfacciate ruberie. Togliendo spazio e riconoscimento anche alla ricerca. Fare ricerca in Italia significa svolgere un duro lavoro in silenzio, nell’indifferenza generale, e quasi sempre senza alcuna gratificazione. Da una parte si razionano carta e penne per fare ricerca e dall’altra la magistratura apre inchieste per ruberie di milioni di euro. È chiaro che poi non si assume perché mancano i fondi. Però si organizzano migliaia di master in tutta Italia. Crescono ad un ritmo preoccupante, perché in molti casi sono diventati le teste di ponte per far transitare soldi pubblici fuori da istituzioni o società pubbliche. Denaro che puntualmente rientra in tasca ai decisori stessi dei finanziamenti in forme varie, come ad esempio l’insegnamento remunerato nei corsi master. Ne esistono alcuni retribuiti a 500 euro l’ora. Per non parlare di presidenti di compagnie primarie che presiedono i Master universitari, anche se formalmente la figura del presidente, nella gestione dei master non è prevista. Il punto però è un altro. E’ l’arroganza e la presunzione di impunità con la quale si portano avanti questi giochi. Spesso sulle spalle di qualche ignaro e ingenuo studente, che magari i 10.000 euro per il master li mette di tasca propria, credendo nella bontà dell’iniziativa e nella fiducia che dovrebbe ispirare un’istituzione universitaria sana. Va inoltre detto che alcuni docenti non fanno altro che riproporre nei master la medesima frittata ava-
«Manifesti etici inutili Occorre restaurare la legalità»
totalmente immerse nei propri interessi personali, una volta assicuratesi poltrone e pensioni, intenti a trasformare, con talento analogo ma contrario a quello del mitico Re della Frigia, in immondizia qualunque valore passi tra le loro mani. Insieme ai valori, spariscono però, corsi di studio seri ed efficaci per i nostri giovani, Molti ritengono che la riforma del 3+2 abbia appiattito l’iter di studi in un nozionismo privo di centro, costellato di corsi bizzarri. I corsi di laurea bizzarri non sono necessariamente una conseguenza del 3+2. La proliferazione di cattedre assurde di nome e inutili di fatto è spesso una conseguenza del reclutamento scellerato e del “dovere”di cui alcuni personaggi si sentono investiti di mettere in cattedra parenti, amici, schiavetti e serve al seguito. Certi insegnamenti son del tutto risibili, ma la questione è invece tremendamente seria, in
strada del business e della promozione di eventi mediatici, volti a fare cassa e attrarre nuovi iscritti. Non è opportuno un ritorno alla sobrietà? Negare un giusto riconoscimento, come la laurea honoris causa, a personalità del calibro di Mike Bongiorno, Vasco Rossi, Giovanni Rana, Josè Manuel Barroso, Michelle Bachelet, Renzo Arbore non è in discussione. Piuttosto, desta perplessità il fatto che la funzione, o meglio l’effetto finale, non è quello di attribuire un riconoscimento a persone eccezionali nei rispettivi campi di attività, ma al contrario quello biasimevole di richiamare l’attenzione associando il nome degli atenei a quello di personaggi largamente popolari, che dunque vengono strumentalizzati e fatti lavorare a titolo gratuito per un
riata scodellata nei corsi ordinari. Un fenomeno che io, non troppo scherzosamente, chiamo “riciclo dell’ignoranza”. Inutile dire poi che se qualche mosca bianca tentasse di proporre un master genuino e serio, verrebbe prontamente bloccata dai gruppi di potere che gestiscono questo business con ostacoli burocratici di varia natura. Il caso di Bari è l’esempio limite della logica baronale e del mercimonio del sapere. È sufficiente l’adozione di un manifesto etico, per tornare a trasparenza e merito? Mi pare chiaro che un manifesto etico sia soltanto un vigliacco tentativo di evitare le conseguenze legali degli abusi perpetrati. Il problema non ha un precipuo fondamento etico. O meglio, lo ha, ma dovrebbe essere irrilevante. Si tratta in primo luogo di rispettare la Legge. La legge dice che il reclutamento dei professori deve essere basato su precisi criteri di merito e indica i criteri e parametri internazionali per valutare i titoli dei candidati. Il tentativo di ricondurre invece pratiche che sono illegali a un dominio di semplice riprovazione morale, è la speranza, per questi personaggi ipocriti che si ammantano di ermellini e parlano di merito nelle occasioni ufficiali, di sfuggire alle conseguenze degli abusi. E invece a me pare che ci vogliano, quando opportuno, le interdizioni dai pubblici uffici e e condanne esemplari. Una questione fin troppo italiana. Credo che in un sistema sano e correttamente governato, non vi dovrebbe essere alcuna necessità di risolvere i problemi universitari col ricorso all’autorità giudiziaria. Cosi’ come dovrebbe risultare fuori luogo nello stesso contesto invocare forme estreme di intervento di tale autorità. Tuttavia è inevitabile che in condizioni di emergenza e in presenza di “vuoto politico spinto”, l’azione giudiziaria abbia una funzione “sostitutiva”, con tutte le conseguenze positive e negative che tale intervento comporta. D’altra parte, mi pare che sia già accaduto in tempi non remoti in politica. Se non si provvede prontamente a una regolamentazione rigorosa, la Storia, sotto forma di farsa, potrebbe ripetersi con l’Università.
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Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein
C A M PA G N A
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DELLE IDEE
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economia Da sinistra, il ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, e il premier, Romano Prodi. La loro politica del tassa e spendi ha bloccato sul nascere i segnali di ripresa che pure si sono registrati nell’ultimo biennio
Il prossimo governo dovrà fare i conti con congiuntura difficile tra bassa crescita e aumento dell’inflazione
Manovre per 30 miliardi,l’eredità di Prodi di Giuliano Cazzola i promesse elettorali se ne sono fatte tante. E nonostante i buoni propositi iniziali, il Partito democratico è riuscito persino a surclassare – il che è tutto dire – Silvio Berlusconi. Il quale – ma in pochi se ne sono accorti – continua imperterrito a giurare che, una volta tornato al governo, garantirà la copertura piena, rispetto all’inflazione, alle pensioni di importo fino a mille euro mensili, quando già oggi gli assegni sono rivalutati al 100 per cento fino a 2.500 euro e fino al 75 per cento per le quote ulteriori (salvo il blocco, voluto dal governo Prodi, dell’indicizzazione per gli importi superiori a 3.500 euro per tutto il 2008).
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Il Cavaliere è consapevole della situazione che il suo governo e la sua maggioranza dovranno affrontare in caso di (probabile) vittoria elettorale: perché l’economia italiana si troverà nel mezzo di un «triangolo delle Bermuda», nel quale rischia il naufragio. Innanzitutto, c’è l’affievolimento, fino alla quasi scomparsa, della crescita economica. Tutti gli osservatori concordano nel riconoscere al Belpaese un incremento del prodotto interno lordo nel 2008 pari a qualche decimale di punto (tra lo 0,3 e lo 0,4 per cento).
Dunque, siamo di fronte a una stima ben al di sotto non soltanto delle previsioni assunte a riferimento della manovra di bilancio, ma anche delle performance medie degli altri partner dell’Unione.
Nello stesso tempo – ecco un altro lato del «triangolo» – il deficit dell’anno in corso salirà – bene che vada – al 2,6 per cento, aprendo così dei seri problemi nel percorso verso il pareggio di bilancio nel 2011 definito da Tommaso Padoa-Schioppa un «obiettivo non negoziabile con la Ue».
cessità, rende ancora più critica la condizione dei lavoratori e dei pensionati, ai quali diventa ogni giorno più difficile dare una risposta sul terreno fiscale alle esigenze di maggiori disponibilità reddituali, visto il cul de sac in cui stanno infilandosi i conti pubblici. Del resto, il basso profilo della produttività del lavoro sconsiglia una rincorsa salariale che potrebbe risolversi solamente in un’ulteriore impennata inflazionistica, con la conseguenza di rendere effimeri gli eventuali miglioramenti retributivi conseguiti.
piatto dell’economia per effetto di una delle più lunghe e gravi crisi internazionali dell’epoca recente.
Questa linea di condotta – resa possibile unicamente grazie alla moderna legislazione del lavoro, dal pacchetto Treu alla Biagi – ha determinato una minore produttività rispetto al periodo precedente, quando l’Italia aveva il primato negli investimenti «sostitutivi» e a risparmio di lavoro (il cosiddetto labour saving) e l’occupazione diminuiva anche in presenza di una dinamica economica più
Per il successore del Professore sarà oneroso rispettare gli impegni sottoscritti da Padoa-Schioppa con la Ue per tenere sotto controllo il deficit. La soluzione? Coniugare alleggerimento fiscale e spinte alla produttività Tanto che lo stesso ministro dell’Economia ha dichiarato in tempi non sospetti che saranno necessari interventi per 30 miliardi di euro nel prossimo triennio, se vogliamo mantenere gli impegni assunti con Bruxelles. E come se non bastasse, è ripartita anche l’inflazione (già adesso oltre il 3 per cento), spinta da fattori strutturali come il costo della bolletta petrolifera e quello dei generi alimentari. L’aumento dei prezzi, segnatamente dei generi di prima ne-
Sul tema della produttività è necessario qualche approfondimento, dal momento che – dopo la doccia fredda dell’Ocse – gli esponenti del Partito democratico hanno attribuito la responsabilità del cattivo andamento della produttività in Italia al centro destra.
È bene, invece, ricordare che dal 2001 al 2006 il governo Berlusconi è riuscito ad aumentare l’occupazione (mediamente dell’1,4 per cento all’anno) nonostante l’encefalogramma
sostenuta. Il fatto è che il governo Prodi è riuscito a tagliare le gambe ai primi segnali di ripresa della crescita con la sciagurata legge finanziaria del 2007. E tutto per realizzare un risanamento già predisposto dalle ultime misure varate dal ministro Tremonti nella manovra di bilancio dell’anno precedente, scritta in stretta collaborazione con la Unione europea. Il deficit del 4,4 per cento, in quello stesso anno, dipendeva poi dall’insorgere imprevisto
dell’obbligo di restituire l’Iva per le auto, un’operazione che non era affatto obbligatorio caricare su di un solo anno, come ha fatto Tps. Tornando, però, ai problemi di oggi e di domani, è possibile sottrarsi all’accerchiamento delle solite minacce? Il nuovo governo dovrà necessariamente individuare e indicare delle priorità, allo scopo di contenere la recessione e promuovere la crescita. Sicuramente vi sarà l’esigenza prioritaria di sostenere le imprese. Ma, allo stesso tempo, non sarà consentito di ignorare i problemi dei lavoratori.
Suggeriamo quindi una «mossa» al nuovo governo in grado di rispondere a due esigenze diverse ma concorrenti a realizzare il medesimo obiettivo: racimolate – se sarà possibile – le risorse per un «tesoretto», l’esecutivo dovrebbe mettere impegnarsi a erogarle per migliorare i redditi tramite l’alleggerimento della pressione fiscale sulle buste paga, soltanto se le parti sociali riusciranno a negoziare in breve tempo un nuovo assetto della contrattazione collettiva, in grado di favorire la contrattazione decentrata e quindi le forme retributive legate alla produttività del lavoro e alla competitività delle imprese.
economia
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Il vettore studia un’alleanza con la Virgin di Branson per rafforzarsi sui collegamenti da Heathrow
Lufthansa, sfida a British sull’Atlantico d i a r i o
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g i o r n o
Bankitalia: sale il debito pubblico Torna a salire in gennaio il debito pubblico italiano in valore assoluto. Come certifica il Bollettino Statistico della Banca d’Italia, a gennaio 2008 si è attestato a 1.621,880 miliardi, contro i 1.596,762 del dicembre dello scorso anno, segnando una crescita dell’1,5 per cento. Questo incremento interrompe un trimestre all’insegna di continue riduzioni. Intanto si registra una crescita a due cifre per le entrate di cassa nel primo bimestre del 2008: hanno toccato i 59.173 milioni di euro contro i 53.507 milioni dello stesso periodo del 2007.
Marcegaglia: lo stato frena l’economia Il suo predecessore, Luca Cordero di Montezemolo, aveva parlato di «socialismo municipale». Ma sul peso del pubblico anche Emma Marcegaglia, presidente designato di Confindustria, non ha idee diverse. «Lo Stato e la burocrazia in Italia bloccano le riforme e frenano l’economia», ha spiegato ai quotidiani El Pais e Le Figaro, «Abbiamo un settore pubblico molto pesante, costoso e inefficace». La Marcegaglia ha auspicato un taglio della Bce sui tassi e minore spesa sulle pensioni a favore di interventi per giovani e donne.
di Alessandro Alviani
BERLINO . Tirata in ballo in ogni ipotesi alternativa ad Air France, non è che Lufhtansa guardi con molta attenzione alla Magliana. Certo, sta alla finestra: perché l’Italia è sempre il suo terzo mercato di riferimento, perché è sempre bene pungolare il concorrente diretto. Ma sono altre le direttrici che il vettore tedesco sembra seguire. Soprattutto tre: più voli cargo, più cooperazioni nel settore del lowcost e nuove partnership, puntando soprattutto all’Atlantico, pronta a sfidare anche la British in casa sua.
Così a Berlino sono in pochi a scommettere su un intervento di Lufthansa in Alitalia. «Le chance sono abbastanza scarse. Anche se in questo settore non si può mai sapere, lo considererei piuttosto improbabile», spiega a Liberal il professor Karl-Hans Hartwig, direttore dell’istituto di scienze dei trasporti all’università di Münster, in Nordreno-Vestfalia. Del resto, è il ritornello che circola tra i corridoi di Francoforte: le condizioni che hanno portato la compagnia di Wolfgang Mayrhuber a non presentare un’offerta per Alitalia non sono affatto cambiate. Ci sono troppe incertezze, troppe resistenze, troppi rischi di veder intaccata la propria solidità finanziaria in caso di ingresso. Ciò non toglie che il mercato italiano resti “interessante”, come ripetono senza sosta i portavoce del vettore tedesco. Il che lascia ipotizzare che, in caso di fallimento delle trattative con i francesi, Lufthansa possa tornare a farsi avanti e aggiudicarsi la compagnia di bandie-
ra a prezzi stracciati. Nel frattempo Mayrhuber ha iniziato a muoversi su altri scacchieri. E non più soltanto su quello spagnolo. «Il mercato sudamericano di Iberia è interessante per ogni compagnia europea», ha ricordato recentemente a un quotidiano tedesco. Ma adesso l’interesse potrebbe spostarsi sul mercato della Gran Bretagna. Virgin Atlantic, la compagnia di Richard Branson, ha avanzato nei giorni scorsi una chiara proposta ai tedeschi: fondere la loro controllata britannica Bmi con Virgin. In tal modo Lufthansa diventerebbe un
Remota l’ipotesi di un’offerta per Alitalia: troppi i rischi finanziari. A meno che la rinuncia di Air France non permetta un acquisto a prezzi stracciati serio concorrente di British Airways proprio nella sua roccaforte, l’aeroporto londinese di Heathrow.
Finora i tedeschi non hanno voluto commentare quest’ipotesi, eppure si presenta molto allettante. Stando agli esperti, le due società si integrerebbero alla perfezione: mentre Virgin Atlantic offre soltanto collegamenti a lungo raggio da Heathrow, BMI si concentra sulle tratte inglesi ed europee. Lufthansa ha inoltre un accordo con l’attuale
Alitalia, vertice tra governo e sindacati azionista di maggioranza di BMI, Michael Bishop, per rilevare entro la metà del 2009 la sua quota del 50 per cento (attualmente i tedeschi detengono quasi il 30). Senza contare poi che BMI è seconda soltanto a British Airways per numero di slot a Heathrow.
Le mosse di Lufthansa non si fermano qui. La compagnia sta infatti portando avanti i colloqui col gruppo turistico Tui, avviati nelle scorse settimane, per una possibile fusione della controllata Germanwings con Tuifly. L’obiettivo, in tal caso, è la creazione di una forte compagnia low-cost capace di far concorrenza in questo segmento ad Airberlin, il vettore che è diventato rapidamente il numero due in Germania, ma che attraversa difficoltà finanziarie. Finora, comunque, le trattative non hanno condotto ad alcun risultato concreto. Il terzo asse lungo il quale i tedeschi si muovono è quello delle attività cargo. Un settore su cui Lufthansa punta da tempo e che è destinato a essere potenziato, dopo la cooperazione decisa recentemente con Dhl (controllata di Deutsche Post). Dal 2009 AeroLogic, la nuova joint venture tra Lufthansa e Dhl, inizierà a volare dal rinnovato hub di Lipsia, nell’est della Germania, collegando l’Europa con l’Asia e gli Stati Uniti. Ed è proprio su questo fronte che potrebbe rispuntare l’interesse dei tedeschi verso l’Italia. Non sembra infatti esclusa l’ipotesi di un tentativo di Lufthansa di estendere le sue attività cargo nell’aeroporto di Malpensa.
Il ritorno a Piazza Affari, dopo quattro sedute, non è stato dei migliori per Alitalia: il titolo chiude con un tonfo del 21 per cento, quotando a 0,395 euro. Sono passati di mano 4,2 milioni di pezzi. Intanto l’azienda ha convocato i sindacati per il 15 aprile, anche se si aspettano novità dal vertice di oggi tra il governo e le 9 sigle che rappresentano i lavoratori.
Intesa tra Finmeccanica e Severstal Si rafforza in Russia Finmeccanica. Il gruppo di piazza Montegrappa sta negoziando con Severstal la creazione di una joint venture in Russia per costruire centrali elettriche, nella quale gli italiani avrebbero una quota del 25 per cento più un’azione. Lo ha annunciato a New York il presidente e amministratore delegato, Pier Francesco Guarguaglini. Il quale, sull’interesse di Severstal a un ingresso nel capitale di Ansaldo Energia, ha detto a Bloomberg Television: «C’è interesse da molte aziende, abbiamo la possibilità di scegliere il miglior partner». Intanto Finmeccanica smentisce ripercussioni per lo slittamento del primo volo del Boeing 787.
Petrolio record a 112 dollari al barile Riprendono le fiammate per il presso del petrolio. Il prezzo del greggio ha sfondato quota 112 dollari a New York spinto dal calo a sorpresa delle scorte Usa. Secondo i dati diffusi dal dipartimento dell’Energia americano, le scorte nella settimana conclusasi lo scorso 4 aprile sono calate di 3,2 milioni di barili a 316 milioni, mentre gli analisti attendevano un aumento di 2,7 milioni di barili. Ripercussioni per gli automobilisti americani, con un gallone di benzina che sfiora il prezzo record di 3,343 dollari.
Contratti, Montezemolo chiede svolta Luca Cordero di Montezemolo chiede una stretta sulla riforma dei contratti. «Non possiamo permetterci altri quattro anni d’immobilismo. Aspettiamo da mesi un accordo tra i sindacati, ma se questo non avvenisse è nostro dovere andare avanti con chi è disponibile». Replica il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni: «Montezemolo sa bene che è sconveniente ipotizzare accordi separati su una materia complessa e delicata come la riforma contrattuale. Piuttosto Confindustria convochi Cgil, Cisl e Uil, perché l’accordo comunque si farà».
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cultura Escono i “Romanzi beffardi” inediti in Italia: una critica ai Jeunes-France
erto, ogni editore è libero di fare quello che vuole. Ci mancherebbe altro. Però viene spontaneo chiedersi perché nessuno finora abbia mai tradotto in italiano i Romanzi beffardi di Théophile Gautier. Forse perché il nome sa di naftalina? Grande errore: la sua prosa è modernissima, arguta, graffiante. Per fortuna sugli scaffali pieni di libri che riassumono gli sgangherati e noiosissimi turbamenti erotici di neolaureate alle prese col tanga e il reggiseno a balconcino, in continuo outing manco avessero scoperto il sesso l’altro ieri, troviamo in questi giorni l’inedito in questione: I JeunesFrance, Romanzi beffardi di Gautier, edito da Le Lettere (194 pagine, 19,50 euro, a cura di Anna Lia Franchetti ed Elena Del Panta). Gautier è noto ai più come autore di Capitan Fracassa (1863). I Jeunes France erano scatenati artisti parigini delusi dall’ascesa del «Re cittadino», ossia Luigi Filippo di Orléans, ai quali il Figaro concesse celebrità cronistica. Rivoluzionari? Insomma. Scrisse Gautier: «Cos’è la rivoluzione? Gente che si spara per strada: molti vetri rotti, ci guadagnano solo i vetrai. Il vento spazza via il fumo: quelli che son rimasti sopra mettono sotto gli altri; l’erba cresce più bella la primavera successiva; un eroe fa crescere ottimi piselli». Lo scrittore prende le distanze. Il suo è un comico disincanto verso quei goguenards e quel loro frénétisme facile, una vera calamita per tipi mediocri. La penna velenosa di Gautier li descrive e li classifica: il byroniano, il medievale, l’artista, l’hoffmanniano, l’appassionato, il viveur. E la sua prosa, come dicevamo prima, è modernissima in quanto ibrida: che diventa un gioco continuo tra prosa, teatro, aforismi, incursioni tra i personaggi. L’umorismo prende a braccetto la profondità, il sarcasmo s’affianca a una lucida pietas. Splendido è il romanzo breve intitolato Questa e quella: riferimento alla donna, che la si vorrebbe così unica a tal punto da non trovarla da nessuna parte. Si narrano le giornate svogliate del giovane Rodolphe, la cui ossessione è quella di trasformare la prosa della sua vita in poesia, ovviamente secondo gli schemi più logori del romanticismo. Ha idee fisse: la sua amata dev’essere o italiana o spagnola -
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Quei giovani, mediocri francesi invisi a Gautier di Pier Mario Fasanotti
Anticipazioni/ L’incipit di “Questa e quella”
Una passione scapigliata di Théophile Gautier l 31 agosto, a mezzogiorno meno cinque, Rodolphe, più mattiniero del solito, si buttò giù dal letto e andò subito a piazzarsi davanti allo specchio del camino, per vedere se per caso non avesse cambiato fisionomia nel sonno, e per far constatare a se stesso di non essere un altro; cerimonia preliminare a cui non rinunciava mai, e senza la quale non avrebbe potuto vivere convenientemente la giornata. Assicuratosi di essere proprio il Rodolphe della sera precedente, di avere solo due occhi o pressappoco, come d’abitudine, che il naso era al solito posto, che non gli erano spuntate le corna durante il sonno, si sentì sollevato da un gran peso, ed entrò in una meravigliosa serenità di spirito. Dallo specchio, i suoi occhi si portarono per caso su un almanacco appeso a un chiodo dorato sulla boiserie, e vide, con sua grande sorpresa, giacché era il personaggio meno
«I
questo è infatti il tipo erotico per eccellenza - e sicuramente non francese, sinonimo di noia e di pallore. Va oltre: «sopracciglio arcuato nella maniera più feroce possibile, le palpebre orientali, il naso ebraico, la bocca sottile e fiera e i capelli in armonia col colo-
cronologico che ci fosse al mondo, che era precisamente il giorno della sua nascita, e che compiva ventuno anni…. ….pensava di essere un bel ragazzo, maggiorenne e poeta, e da questi tre pensieri un unico pensiero scaturì vittoriosamente come una conseguenza obbligata: gli occorreva una passione, non una passione bottegaia e borghese, ma una passione d’artista, una passione vulcanica e scapigliata: gli mancava soltanto questo per completare la sua immagine e presentarla al mondo in maniera adeguata…». Incipit di Questa e quella, in I Jeunes-France, Romanzi beffardiLe Lettere, 194 pagine, 19,50 euro
Una prosa moderna, arguta, graffiante, dove l’umorismo prende a braccetto la profondità e il sarcasmo la pietas
re della pelle». E, perché no, anche «un piede da Andalusa». La pelle è importantissima: guai se fosse di quel bianchiccio tedesco che fa ribrezzo. Dopo una bella bevuta col il suo amico Albert, il nostro eroe scova l’amata - che è maritata, e pare an-
Un ritratto di Théophile Gautier, autore il cui nome è sopratutto legato alla sua opera più celebre, “Capitan Fracassa” (1863). In alto, la copertina dei “Jeunes-France, Romanzi beffardi”, in questi giorni in libreria edito da Le Lettere
che bene - su un soffice scranno dell’Opéra, in mezzo a «petti seminudi che si modellavano audacemente sotto le trine di seta e i diamanti, le piccole mani guantate di bianco che agitavano i bruciaprofumi smaltati e si posavano civettuole sul parapetto rosso dei palchi… faccini capricciosi e spiritosi…». Inebriato dall’ondata di femminilità, Rodolphe vorrebbe quasi afferrare pezzi sparsi di donne e metterli insieme, a suo piacimento. Ma appare lei, Madame di M., sintesi d’amore. Comincia la e seduzione, anche il rimprovero dell’autore alla sua creatura letteraria: «un abominevole farabutto», «un immorale… mi viene voglia di abbandonare la tua storia…». Il vorgiovane rebbe essere Byron, invece è un borghesuccio che riscuote successo nei salotti solo per un gioco di parole e perché balla bene. Ha in mente la donna, come si direbbe oggi, orizzontale: «L’Oriente è, a mio avviso, l’unico paese al mondo in cui le donne stanno al loro posto: in casa e a letto». Scopre che la sua dama, che si chiama Cyprienne, è nata non a Napoli o a Istanbul, ma a Chateau-Thierry. Orrore, orrore. Però è bella, ed è piacevole sedurla sul divano denudandole il seno. L’autore è in agguato e gli dice: «Vi è un’ineffabile dolcezza a essere serviti da una donna alla quale serviamo». Sono sentimenti, questi, ma lui vorrebbe una scena drammatica: lei che si dimena, che si rifiuta, che urla. No, lei cede e dopo è spettinata e ha il viso arrossato. Altro che Byron. È un adulterio da «impiegatuccio da tribunale». Continua a vivere nella «grettezza del secolo», circondato «dall’epidemia dominante», ovvero la melassa borghese. Siamo in un mondo in cui «le donne ascoltano con gravità soltanto le futilità e le sciocchezze». Il marito, poi! Fino all’ultimo non crede d’essere cornuto. Manco il barlume di un duello. Il povero Rodolphe torna a casa. E sarà lì che… Non lo diciamo, per rispetto del lettore.
cultura
10 aprile 2008 • pagina 21
Ballerina, coreografa e insegnante di tecnica Graham all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, Elsa Piperno ha mosso i primi passi da bambina, in Somalia, dove è nata e vissuta per i primi anni della sua adolescenza. Certa che il ballo sia «un’arte con una sua speciale tradizione», nella vita dice di avere come principale missione quella di far capire che «la danza italiana è cultura, e che la cultura italiana è storia»
«L’essenza del sapere non te la può togliere nessuno, ed è questa la cosa che più di tutte va trasmessa agli altri»
«Vi racconto la danza in punta di piedi» colloquio con Elsa Piperno di Diana Del Monte
BOLOGNA. Che Elsa Piperno abbia una personalità forte lo si capisce non solo vedendola danzare, ma anche dal tono fiero che assume mentre spiega che «l’essenza del sapere non te la può togliere nessuno, ed è questa la cosa che più di tutte va trasmessa agli altri». Ballerina, coreografa e insegnante di tecnica Graham all’Accademia Nazionale di Danza di Roma, ha mosso i primi passi da bambina, in Somalia, dove è nata e vissuta per i primi anni della sua adolescenza. Anni fondamentali e formativi, perché «in Africa, per fortuna, la danza scandisce tutti tutti i momenti importanti della vita di un uomo. A Mogadiscio, ad esempio, potevo danzare ovunque e in qualunque momento». Quando si parla di danza si sente spesso parlare di un grande amore, quasi una predestinazione. La sua infatti prosegue anche in Italia… (Sorride). È proprio così. Quando tornai a Roma, con i miei genitori, continuai a vivere la danza in quello stesso modo. Per togliersi dall’imbarazzo si videro costretti a iscrivermi all’Accademia. Dopo di che studiai con Marie Rambert e successivamente partii per Londra, dove studiai e lavorai a lungo. Mai una crisi? Crisi personali no. Amo dire che è stata la danza a scegliere me, non il contrario. Dunque la «danzatrice Elsa» viene prima della «persona Elsa», anche se è impossibile scinderle real-
mente in modo netto. La mia crisi in realtà consiste nel vedere troppa indifferenza verso il mondo della danza. Proprio per questo, da sempre, la mia battaglia è quella di far capire che cultura vuol dire storia. Il ballo è un’arte con una sua storia, dei movimenti artistici, dei nomi. Andrebbe insegnata nelle scuole. Proprio come vengono insegnate l’arte figurativa o la musica. Da oltre 30 anni lei è un punto di riferimento per chi studia danza contemporanea in Italia: prima con il suo centro a Roma, dove hanno studiato molti danzatori che oggi calcano le scene con successo, poi dal ’91 come insegnante di tecnica Graham all’Accademia Nazionale di Danza. Cosa accade alla scuola italiana? Le rispondo con un esempio. Durante un incontro che si è svolto il primo febbraio scorso al Teatro Valle di Roma, si è affermato che «la danza moderna è arrivata in Italia con Carolyn Carlson negli anni ’80». Il fatto che io, un’italiana, abbia aperto il primo e unico centro in cui si studiava la modern dance dalla A alla Z, nel 1972, è stato ignorato. Sulla danza italiana siamo così poco intelligenti da negarla e finire così alla mercè di tutto ciò che viene importato dall’estero. Il mondo della danza contemporanea lamenta da
sempre una mancanza di attenzione e di fondi… La situazione è disperata. Alla mia compagnia, nell’arco di dieci anni, sono stati dimezzati i fondi. Ad oggi io non sono più in grado di assicurare a un ballerino più di 20, 25 repliche all’anno. Che equivalgono a niente. Perché questa situazione? La danza italiana sta dando una pessima immagine di se stessa. Non riceve fondi perché non ha
inventato la ruota e si ricomincia a inventarla, non si andrà mai avanti. L’ignoranza è la madre di tutte le idiozie e ha fatto sì che una parte della storia della danza fosse quasi completamente cancellata. Proprio come la tecnica che propongo io: chiunque insegni Graham, oggi viene etichettato come datato. Ma cosa vuol
«Il ballo in Italia? Siamo così poco intelligenti da negargli una storia e finire alla mercè di quello che proviene dall’estero. È un peccato: da noi i talenti non mancano»
storia, identità, né nome né cognome. Viene addirittura considerata «cialtrona». Un giudizio fondato nell’80 per cento dei casi… Ma i talenti ci sono. Lei usa spesso la parola “storia”. Pensa che la soluzione sia lì? Se si nega che qualcuno ha già
dire datato? Non si deve più studiare Bach perché datato? Fino a quando l’uomo respirerà e sarà soggetto alla forza di gravità, questo atteggiamento sarà sinonimo di ignoranza, mistificazione e poca onestà intellettuale. Perché questa disattenzione nei confronti di tecniche storiche come la
Graham? Perché sono tecniche difficili che richiedono molto studio e, visto che la tendenza è impegnarsi sempre meno e ottenere risultati in breve tempo. Ma per comporre una frase, anche breve, si deve conoscere tutto l’alfabeto. Diversamente da mille anni fa, oggi si può contattare un amico a New York nell’arco di pochi secondi, ma si impiega lo stesso tempo di mille anni fa per digerire una bistecca. C’è bisogno di tempo per comprendere l’essenza del lavoro e per seguire le necessità fisiche e logiche del corpo. Di cosa ha bisogno oggi la danza contemporanea italiana? Di uno sguardo critico nei confronti della società. Nel cinema, ad esempio, a fronte del mondo dei «Film di Natale» esiste anche quello di Cannes. Intorno alla danza questo non avviene e ciò mi spaventa: sembra che i giovani coreografi ormai abbiano accettato l’omologazione, la superficialità, la fretta di fare e di ottenere. Questo non fa parte dell’arte. Soprattutto non della danza, che ha bisogno di tanto lavoro sul corpo e di tempo e pazienza per trovarlo. Questo è il lavoro da fare. Ha ancora senso? Non lo so, ma se oggi non avesse più senso allora meglio esser drastici ed eliminare la danza. La rinnovata struttura dell’Accademia Nazionale di Danza può fare qualcosa? È un inizio, ma c’è bisogno ancora di tanto lavoro e di molto tempo.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Olimpiadi, è giusto far procedere la fiaccola? IL MONDO POLITICO SI OSTINA A CHIUDERE GLI OCCHI, MA LA VERA IPOCRISIA LA RAGGIUNGE PROPRIO IL CIO
LA FIACCOLA OLIMPICA ANDAVA BLOCCATA, PROVIAMO A BOICOTTARE LA CERIMONIA AUGURALE
Il Cio esclude che la fiaccola olimpica possa essere spenta. Ebbene io non lo ritengo giusto. Il Tibet è illecitamente invaso dai cinesi che non esitano a reprimere ogni anelito di indipendenza con cruda brutalità, e il mondo politico - nella quasi totalità - si ostina a chiudere gli occhi, a parte qualche piccolo e ipocrita invito a non infierire sui manifestanti tibetani. E’ sciocco e vile affermare che lo sport non deve entrare nell’agone politico. Anzi vale esattamente il contrario se è vero che esso rappresenta un veicolo molto efficace di fratellanza e pace. La verità è che la Cina non è un Paese qualunque, è un colosso militare che incute paura, ma è soprattutto un enorme mercato a cui le grandi potenze economiche non vogliono rinunciare. Ma davvero il massimo dell’ipocrisia l’ha raggiunto il signor Kevan Gosper, responsabile delle comunicazioni del Cio, che ha definito i manifestanti pro Tibet «guastafeste professionisti che non hanno alcun rispetto per gli sforzi compiuti dalla Cina per organizzare i Giochi». Vergogna, vergogna, vergogna. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità. Distinti saluti e buon lavoro.
Ed ora, dopo Nicolas Sarkozy - seppure ci siano state timide smentite - anche Hillary Clinton scende in campo contro la Cina,invitando il presidente George W. Bush a disertare la cerimonia inaugurale dei giochi olimpici 2008 che si terranno a Pechino dal prossimo 8 agosto. Intanto il Cio ha escluso che si possano cancellare alcune tappe del percorso mondiale della fiaccola olimpica. E’veramente giusto non intervenire presso il governo cinese lasciando al loro destino i poveri Tibetani invasi e violentemente maltrattati? La coscienza mi dice no, non è giusto. Il mondo ha manifestato tante volte contro «gli invasori americani », perché non manifestare contro gli invasori cinesi? Il discorso che lo sport è una cosa e la politica un’altra, non mi convince. Vogliamo ugualmente partecipare ai giochi di Pechino? E va bene. Ma un boicottaggio alla cerimonia augurale sarebbe davvero opportuno e dovuto.
Giulio del Bello - Torino
LA DOMANDA DI DOMANI
I libri di storia vanno davvero riscritti? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Enzo Calamante - Verona
IL CIO APPOGGERÀ SEMPRE I CINESI, IL PRESIDENTE È STATO ELETTO CON I LORO VOTI Francamente mi ritengo indignata per una simile decisione. Far proseguire il tour mondiale della fiaccola olimpica è l’ennesima conferma della non volontà di intervenire in difesa del popolo tibetano. Possibile che, al di là delle spontanee (o anche organizzate) contestazioni popolari, quasi tutto il mondo politico e istituzionale taccia o comunque non si impegni concretamente per fermare quello che, a mio avviso, sta diventando quasi un genocidio? L’olocausto del Tibet sembra proprio non contar nulla di fronte al colosso della Cina, interlocutore commerciale cui nessuno pare disposto a rinunciare. Ho letto su liberal di ieri l’intervista a Mennea. E credo sia l’unico, in questo momento, ad aver detto qualcosa di intelligente: «C’è un particolare di cui nessuno parla: l’elezione di Jacques Rogges alla presidenza del Cio è stata possibile perché la delegazione cinese gi ha portato in cambio dell’assegnazione dei giochi i voti asiatici. E’ chiaro che oggi Rogges non può mettersi contro chi lo ha votato».
IL PARLAMENTO IN ROSA Si fa un gran parlare della numerosa presenza delle donne in Parlamento. Tutti rivendicano a sé questo dato, ma a me sembra che si sono messi in atto propositi, anche sbagliati, solo per accaparrare i voti delle donne. Come si può pensare che una intromissione forzata, con scelte spesso casuali, oppure relegate al concetto maschilista delle donne, possa emancipare la condizione femminile in Italia? Forse i nostri leader applicano il famoso detto di Machiavelli: «Governare è far credere». Leggo le candidature di questa tornata elettorale, ebbene sono aumentate, ma i criteri di scelta sono stati ancora quelli vecchi, se non peggiorati. Berlusconi dice che nominerà ben quattro ministri donne, forse per imitare Sarkozy che ne ha messe sette su quindici. Eppure scorgendo le liste del Pdl, si evince che il metodo scelto è ancora una volta atto a relegare le donne a funzione di comparsa marginale. Non mi sembra di trovare, tra le papabili Inn and Glamour, qualche rappresentante veramente all’altezza. Alcune di loro usano il sistema infallibile di
COMPAGNO DI GIOCO L’ormai famoso e amatissimo cucciolo d’orso polare Flocks si concede attimi di gioco con il suo amico Horst Maussner, in un’aiuola del giardino zoologico di Norimberga, nel sud della Germania SILVIO BERLUSCONI E LA SALUTE DEI MAGISTRATI La proposta di Berlusconi, «il pubblico accusatore deve essere sottoposto periodicamente ad esami che ne attestino la sanità mentale», è la migliore proposta «sociale». Come cittadino ho sempre pensato che giudicare gli uomini e decidere dei loro interessi e della loro libertà fisica sia tra le azioni più delicate e difficili da compiere. Qui, al contrario, sembra si tratti di «lesa maestà». Esempio: un giudice, nel corso degli anni, perde la sua serenità per motivi famigliari, economici, affettivi. Chi dovrebbe tutelare il cittadino sotto processo, nel caso si verifichi una conseguente ripercussione nel comportamento del magistrato? Non diciamo che si tratta di burocratica applicazione della legge, perché non è vero, molte di queste sono applicate a discrezione o con pene entro minimi e
dai circoli liberal Antonella Savelli - Roma
non dir niente perché nessuno ti chiederà di ripetere. Altre invece ammettono la loro incompetenza. Esempio: Madia Maria Anna, lanciata come grande promessa del futuro Pd e futura onorevole, che candidamente dichiara: «Metterò al servizio del Pd la mia inesperienza». Invece persone come Maria Burani Procaccini, che tanto si è data da fare in questi anni al Senato, sono state lasciate in disparte. Questi sistemi di scelta sono ancora più deleteri alla causa delle donne di quanto non lo sia la loro scarsa presenza. Se non si instaura quel sistema democratico di selezione, dove anche la political woman faticando, togliendo tempo alla famiglia, sacrificandosi, emerge per assoluta qualità inconfutabile, difficilmente potrà apportare un contributo reale al dibattito politico. Soltanto noi donne, nella libertà di esprimere le potenzialità, possiamo crearci quelle condizioni e quella cultura politica che si tradurranno in presenza qualificata sia in Parlamento, sia nella società. Prendiamo spunto dalle parole del filosofo francese Deleuze: «Non è il caso né di avere paura né di sperare, bisogna cercare nuove ar-
massimi. Allora, se il giudice non è attaccabile nei sentimenti, affidiamoci ad un computer, introduciamo i dati ed estraiamo la sentenza.
L. C. Guerrieri - Teramo
ANTONIO DI PIETRO, IL GUARDASIGILLI MANCATO Non è un uomo qualunque, Antonio Di Pietro. Ha studiato, e quando gli va può parlare come un libro stampato. Alcuni potranno trovarlo un po’ermetico e ripetitivo, ma il Nostro non delude mai. Parla a tutti e di tutto con semplicità e senza mai banalità. E’ acuto, coraggioso e pieno di valori, poi. Per quanto si sforzino per rubargli il primato, resta di gran lunga il migliore. Eppure Veltroni non lo vuole come Guardasigilli. Non ne capiamo appieno i motivi, ma al solo pensarci, ci sentiamo ringiovaniti e ci scappano tanti sorrisi.
Pierpaolo Vezzani
mi». Faccio appello a tutte le donne presenti nei Circoli liberal per formare un organismo e promuovere iniziative sugli argomenti più spinosi delle problematiche femminili. Coinvolgeremo anche il presidente Adornato, nella nuova veste che va assumendo, certe che recepirà le nostre intenzioni, i suggerimenti e le prese di responsabilità. Loana Jakimenko PRESIDENTE CIRCOLO LIBERAL FIRENZE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione nazionale dei Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog PDL E UDC DI NUOVO INSIEME?
Dio ti benedica, mia birichina naso a punta Carissima, amatissima mogliettina, avessi una tua lettera! Se ti potessi raccontare quel che faccio con il tuo caro ritratto ti faresti un bel po’ di risate. Ad esempio: quando lo tiro fuori dalla sua progione dico: «Dio ti benedica birichina, Dio ti benedica naso a punta», e nel rimetterlo a posto: «buona notte topolino, dormi bene». Ecco, penso proprio di aver scritto qualcosa di molto stupido, certo per il mondo; ma per noi, che ci amiamo tanto profondamente, non è ovviamente stupido. Oggi è il sesto giorno che sono lontano da te, e mi sembra già un anno. In molti punti dovrai forse faticare non poco per leggere questa lettera, perché scrivo velocemente e quindi un po’ male. Adieu, cara, unica! Stai bene e amami eternamente come io t’amo; ti bacio un milione di volte nel modo più tenero e sono eternamente il tuo sposo che ti ama teneramente. Wolfgang Amadeus Mozart a Costanze Weber
ZINGARETTI NASCONDE LA SINISTRA ARCOBALENO Mentre Walter Veltroni, in una lettera agli anziani di Roma e provincia, spiega le ragioni che hanno indotto il Partito democratico a correre da solo a livello nazionale, definendo la coalizione legata a Prodi disomogenea e litigiosa, Zingaretti omette sui suoi manifestati di rendere noto che la Sinistra Arcobaleno è sua alleata. La coalizione che sostiene Rutelli e Zingaretti è la riproposizione sciagurata della maggioranza prodiana, quella maggioranza che alla fine si è sfaldata e che non può offrire garanzie di una stabilità di governo. Non si può essere allo stesso tempo coalizione di lotta e di governo, essere divisi sulle tematiche ambientali in modo diametralmente opposto, unire battaglie per pseudo diritti civili e strizzare l’occhio all’elettorato cattolico: tutto questo non potrà che portare all’incoesione governativa e all’impossibilità di garantire stabilità politica e amministrativa, un’efficace compromettendo programmazione per lo sviluppo del territorio e per una migliore qualità della vita.
Fabrizio Di Lorenzo - Viterbo e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
10 aprile 1583 Nasce Ugo Grozio, giurista, filosofo e scrittore olandese
Lo ripeto ancora. Sono amareggiato per la rottura tra Berlusconi e Casini e mi auguro che, dopo le elezioni, possa ripartire un processo costituente della sezione italiana del Ppe, che a mio modo di vedere potrebbe, se del caso, avere una struttura federativa (dal mio punto di vista, conta più il contenuto programmatico di un partito che la sua organizzazione). Lo Scudocrociato dovrebbe essere comunque richiamato nel simbolo, accanto ad un riferimento al Partito Popolare Europeo. Sarebbe negativo che non si ricreasse una collaborazione tra i moderati italiani e tra partiti che a livello internazionale siedono fianco a fianco! In questo contesto, mi piacerebbe credere in uno scenario difficile, ma non impossibile, che vedesse accanto ad una vittoria del Pdl una buona affermazione dell’Udc del Presidente Casini e degli amici centristi Cesa, D’Onofrio, Sanza, Buttiglione, Adornato... Questa è la mia posizione, senz’altro scomoda nella sua almeno apparente logicità.
Matteo Prandi
1896 Grecia: Spiridon Louis vince la maratona della I Olimpiade 1919 Rivoluzione messicana: Emiliano Zapata viene ucciso dalle forze governative a Morelos 1924 Nasce Aldo Giuffré, attore, comico e doppiatore italiano 1941 Nasce lo Stato indipendente di Croazia 1948 Nasce Massimo D’Antona, giurista e docente italiano. Fu assassinato nel 1999 1970 Paul McCartney annuncia lo scioglimento dei Beatles 1979 Muore Nino Rota, compositore italiano 1991 Italia: fuori da Livorno un traghetto italiano, il ”Moby Prince”, si scontra con una petroliera per cause incerte, provocando 140 morti 1998 Belfast/Irlanda del Nord: firma del Belfast Agreement, noto anche come Accordo del Venerdì Santo (Good Friday Agreement)
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
PUNTURE Walter ha detto che il Pd è come la Nazionale del 1982: “Abbiamo vinto contro Argentina, Brasile e Polonia e il 13 aprile c’è la finale”. Dunque, Walter sarebbe Bearzot. Gli manca solo la pipa.
Giancristiano Desiderio
“
Tutti dovremmo preoccuparci del futuro, perché là dobbiamo passare il resto della nostra vita CHARLES FRANKLIN KETTERING
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di UÒLTER, OSSIA: L’ANTIPOLITICA È mattina, chiami un amico e lui ti accoglie con un “allora lo firmiamo questo patto di fedeltà alle istituzioni?”. L’amico è sulfureo. Lui sarebbe pure un elettore del Pd: storico sostenitore delle liste radicali, già nel 2006 votò per Prodi (coperto di contumelie dal sottoscritto, prima durante e dopo le elezioni) per sostenere la sua Emma Bonino. Quest’anno è molto dubbioso: la sua idea sarebbe di andare alle urne e disegnare un bel fallo sulle schede. Ogni tanto però sente la Bonino su Radio Radicale, e allora si lascia commuovere dal passato ed è tentato di ridarle il voto. Poi per fortuna sente Uòlter-mai-stato-comunista, e allora riprende a esercitarsi su un quadernetto, per disegnare quel fallo nella maniera migliore. Non aspetta i miei insulti, per riprendere subito lo sfogo. “Tutti e due si candidano per guidare il Governo, tutti e due sperano di andare a giurare nelle mani del Presidente della Repubblica, e lui se ne esce fuori con questa storia del patto da firmare davanti alle telecamere, ma che senso ha?”. E questa riflessione contiene in sé qualcosa di dirompente. Il leader dello schieramento che accusa Berlusconi di fare spettacolo e non politica ha in un colpo solo delegittimato uno dei più sacri momenti della nostra democrazia, il giuramento di fedeltà alla Costituzione nelle mani del Capo dello Stato, per sostituirlo con una scrittura privata tra i candidati, da
firmarsi davanti alle telecamere. Addio istituzioni, benvenuta televendita. Vincino dice di Veltroni che è “il Berlusconi del giorno dopo”, senz’altro, ma anche del giorno prima, perché con i suoi gesti rivela la strumentalità di tutti i principi che lui e la sua parte vanno declamando da sempre. Veltroni è l’antipolitica, perché è nel suo Dna intendere la politica non come arte del governo, ma come strumento del partito, unico protagonista della vita dello Stato. Può dire quel che vuole, può improvvisare tutti i balletti di questa terra, ma pur non essendo mai stato comunista, la filosofia di quel partito gli appartiene.
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L’ITALIETTA AL VOTO Walter Veltroni (la vittima sacrificale): «Contro di me è stata imbastita una campagna di odio», Silvio Berlusconi (il paladino della giustizia): «Occorre sottoporre i pm ad esami di sanità mentale». Marcello Dell’Utri (il docente imparziale): «Riscriveremo i libri di storia», Rosy Bindi (l’eterna realista): «Se Berlusconi ci batterà, dovremo lasciarlo governare». Sergio De Gregorio (il buon pastore): «Sono indagato per associazione a delinquere di stampo mafioso, soltanto per una cena elettorale». Clemente Mastella (il capro espiatorio): «Caro Prodi, non sono stato io a tradirti». Ebbene sì, questa è l’impietosa immagine dell’Italia odierna.
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