QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Un allarme per il nuovo governo
Avanti così e la scuola finisce come l’Alitalia
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
di Giuseppe Bertagna asciando le cose come sono, il destino della scuola è l’Alitalia. Sì, in pubblico, si può fare la retorica del merito e inorgoglirsi dei 3.026 studenti che hanno conseguito 100 e lode nell’ultimo esame di Stato e dei tantissimi altri che prendono più di 90 su 100. O compiacersi degli oltre 300 mila laureati all’anno sfornati dalle università con votazioni che solo 4 volte su cento hanno votazioni inferiori a 90/110. In privato, però, senza ricorrere alle impietose ricerche Ocse Pisa o Iea, tutti sanno che il massimo che ci si può aspettare dallo stato attuale della nostra formazione è un grande manager a 844 mila annui che, senza scandalo altrui e senza arrossire in proprio, scambia compiaciuto Waterloo per Austerlitz. Non è disfattismo. È realismo. Ed è per realismo che bisognerebbe anche ammettere la crisi della scuola primaria. Non è vero che sarebbe l’unica senza problemi. Il contrario. Tutte le indagini empiriche congiurano nel riconoscere che se un bambino italiano è bravissimo fino alla terza classe (i bambini, del resto, sono tutti a modo loro intelligenti!), arrivato in prima media crolla nel rendimento, scivolando da otto decimi a quattro. Ovvio che non crolli l’intelligenza in generale, ma solo quella “scolastica”. Non si capisce, perciò, come, in queste condizioni, più di qualche politico abbia condotto la campagna elettorale sostenendo che non occorrono riforme nel comparto istruzione e formazione. A meno che, come spesso queste dichiarazioni siano state solo elettorali, ma sottintendessero un altro discorso. c on ti n ua a p ag in a 12 n el l ’i n se rt o S o cr at e
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GOVERNO E ISTITUZIONI: LE MANOVRE NEL PDL
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80417
Il futuro di Fini: presidente della Camera ma escluso da ogni leadership per cinque anni. La battaglia sul ruolo di Formigoni. Lo scontro sui ministri tra FI, An e Lega. E Bossi dice: «Ci vorrà un secolo»
Giochi di potere alle pagine 2, 3 e 4
Ci vuole un nuovo Patto per l’Italia
Caro Cavaliere non basta l’Ici di Giuliano Cazzola Silvio Berlusconi ha già individuato delle priorità. Il suo governo attuerà subito – da Napoli o da Malpensa ? - talune misure peraltro contenute nel programma. In primo luogo l’abolizione dell’Ici, poi il «bonus bebè» e, infine, l’intervento sulle pensioni.
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Barack alza un polverone in Pennsylvania
La verità su Obama? Uno snob marxista di Michael Novak pagina 8
GIOVEDÌ 17 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
70 •
Opposizione: prove di dialogo
Tempi lunghi e costi alti
Incontro tra Casini e D’Alema
La chimera di un’economia all’idrogeno
di Susanna Turco
di Carlo Stagnaro
All’indomani delle elezioni il Pd comincia a fare i conti con la propria sconfitta e l’Udc a misurare le sue forze all’interno di un quadro sbilanciato più del previsto verso il centrodestra.
L’idrogeno non esiste in natura in forma pura: deve essere estratto da combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) o l’acqua. Un processo costoso che richiede l’impiego di energia.
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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giochi di
potere
Berlusconi non riesce ad annunciare il suo quarto governo. L’ostacolo è il ruolo delle due maggiori personalità politiche del centrodestra
Rebus Fini e Formigoni di Renzo Foa i cominciano a sentire gli effetti collaterali della terza vittoria di Silvio Berlusconi sulla nuova maggioranza e sulle nuove opposizioni. Cominciamo dal primo effetto collaterale. Che poi, in realtà, corrisponde ad una giornata di grandi manovre e di giochi di potere. Dal vertice svoltosi a Palazzo Grazioli avrebbe dovuto uscire ieri l’elenco dei ministri, dodici in tutto con quattro donne, stando agli annunci dei giorni scorsi. Il Cavaliere ha però mantenuto un’insolita riservatezza. L’ha motivata come un atto di rispetto nei confronti delle prerogative costituzionali del presidente Napolitano. Il sospetto, però, è che qualcosa non sia andato per il verso giusto, che in realtà non ci sia stato un accordo fra gli alleati. Il modo in cui Umberto Bossi ha lasciato Roma ne fa fede. Forse è successo perché la coperta è corta, visto che c’era già stato l’annuncio ufficiale su Franco Frattini alla Farnesina, su Giulio Tremonti all’Economia, su Ignazio La Russa alla Difesa e su un dicasterochiave a Roberto Maroni, visto che era stata già fissata la «quota rosa» e visto, quindi, che restano appena quattro poltrone di prima fascia da assegnare, tra l’altro con la suggestione evocata ieri di inseguire il «modello Sarkozy», cioè di pescare tra qualche personalità di primo piano del centrosinistra.
S
Forse però ci sono altre ragioni, che stanno assumendo un peso preponderante. Di che si tratta? Molto probabilmente del ruolo futuro di due figure del calibro di Gianfranco Fini e di Roberto Formigoni. Del primo Berlusconi ha già detto più volte di vederlo bene nelle vesti di presidente della Camera. Cioè in un ruolo più istituzionale che politico. Circa il secondo, sono circolate soprattutto voci a proposito della presidenza del Senato o di un incarico ministeriale (al proposito l’interessato ha ripetutamente escluso di poter finire all’Istruzione, aspirando probabilmente agli Esteri). Ma il fatto è che la Lega, dopo il successo di domenica e lunedì, ha rivendicato esplicitamente tra l’altro anche la presidenza della Regione Lombardia. È come dire che, in qualche modo, il
Berlusconi vuole esorcizzare il pericolo di trovarsi di fronte un «sub-governo» Fini-Formigoni nuovo organigramma ruota tutto attorno al destino del presidente di Alleanza Nazionale e del leader di Comunione e liberazione, cioè di due ceppi importanti del centrodestra. Non si tratta comunque solo di un nuovo organigramma. Si tratta del ruolo che svolgeranno o non svolgeranno due delle maggiori personalità politiche del nascente Pdl. C’è così da chiedersi in primo luogo cosa sarà il nuovo soggetto politico se il numero 2 sarà chiamato a svolgere un ruolo istituzionale. A questa domanda si può rispondere con una certa facilità: in assen-
2006 con il «sub-governo Casini-Fini». Un discorso analogo riguarda anche Roberto Formigoni, che non è solo una figura di primo piano in Lombardia e che dal Pirellone ha continuato a svolgere un ruolo nazionale, essendo punto di riferimento di una componente politica e culturale particolarmente pesante nel passato e nel futuro del centrodestra. Una figura che, dopo queste elezioni, vive una condizione paradossale: risulta troppo forte tanto per continuare a restare al Pirellone, quanto per assumere un incarico in un gabinetto di soli do-
la stessa improvvisazione esibita a novembre a Piazza San Babila.
Il secondo effetto collaterale, vericatosi a meno di 48 ore dai risultati elettorali, riguarda il cambiamento di tono di Silvio Berlusconi. Forse un po’a causa delle accuse di demagogia che gli erano state mosse – per le priorità date alla soppressione dell’Ici sulla prima casa e per il ripristino del «bonus bebè» – e forse anche per un ripensamento dovuto alla carenza di risorse nelle casse dello Stato, ieri a sorpresa il vincitore ha parlato di «misure impopolari». Si trat-
Il presidente di An, andando alla presidenza della Camera, non avrebbe peso nel Pdl, mentre resta incerto il destino del governatore lombardo la cui poltrona è esplicitamente rivendicata dalla Lega za della presenza diretta di una figura forte, sarà certamente più leggero e molto probabilmente, come è già accaduto a Forza Italia, sarà un’entità in tutto «berlusconidipendente». Svolgerà il ruolo di macchina elettorale, di stampella del governo, ma non sarà un partito concepito come strumento di mediazione e di compensazione. Tutto ciò corrisponde alle visioni che il Cavaliere ha mostrato ripetutamente di avere. E – lo si può supporre – corrisponde anche al desiderio del neo-eletto presidente del Consiglio di non avere accanto personalità capaci di discuterne le scelte, come avvenuto tra il 2001 e il
dici ministri (o quindici se si tiene conto del presidente del Consiglio e dei due vice-premier annunciati). Per il 2008 (e per il dopo) sembrano al momento prefigurarsi un governo forte essenzialmente per due motivi di spettacolarizzazione (il basso numeri dei suoi membri e la quota femminile) e incentrato solidamente sulla figura di Berlusconi. E, accanto, un partito come il Pdl (chissà perchè si sente spesso declinarlo al femminile, la Pdl) privato delle maggiori personalità politiche della storia del centrodestra. Un Pdl che, al momento, sembra destinato a vedere formalizzata la sua costituzione con
ta certamente di una novità.Vedremo cosa succederà davvero, quando il governo si sarà insediato e quando saranno varati i primi provvedimenti. Quel che è sicuro, al momento, è che il Cavaliere, forte del ruolo personale ha giocato nella sua ennesima rivincita e forte del vuoto che si sta creando intorno, è diventato nel giro di poche ore il dominus della situazione.
Il terzo effetto collaterale riguarda le opposizioni. Nel Pd ci sono state le dimissioni di Romano Prodi dalla presidenza. Erano annunciate da tempo, ma sono state formalizzate all’indomani di una conferenza stampa in cui Walter Veltroni ha riversa-
to sul «biennio maledetto» la colpa principale della sconfitta. La coincidenza è quanto meno sospetta. L’impressione è comunque che il presidente del Consiglio ormai in scadenza non abbia troppe armi nel suo arsenale per contrastare la decisione, presa al loft, di considerare in ogni modo chiusa la stagione a cui appartiene il prodismo. Ben altri sembrano i problemi che devono affrontare «i democratici» e le leadership che continuano ad avervi un ruolo. Ci sono in primo luogo quelli urgenti, a cominciare dal ballottaggio fra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno per il Campidoglio. Il Pd è consapevole di non disporre da solo delle forze sufficienti per conservare l’amministrazione capitolina e per evitare che il risultato del 13 e 14 aprile si trasformi in una disfatta senza appello. Quindi si è subito aperta – e su una scelta molto concreta – la questione del rapporto con l’Unione di centro. Gli ostacoli non sono pochi, a cominciare dall’accordo preelettorale che Rutelli ha stretto con la Sinistra arcobaleno. Il dialogo tra Pd e Udc è comunque nell’ordine naturale della politica, dopo la schiacciante vittoria di Berlusconi. E in questo ordine naturale rientra l’incontro tra Casini e D’Alema. Entrambe le opposizioni hanno davanti il problema, vitale, di non scomparire. Per il Pd è il problema di non svolgere un ruolo totalmente subalterno nel dialogo che si aprirà con la maggioranza sugli argomenti della riforma elettorale (tenuta viva dal referendum) e della riforma costituzionale. Per l’Udc di non essere totalmente marginalizzata. Anche qui siamo alle prime difficili manovre.
In ogni modo la giornata di ieri ci dice che se il risultato elettorale è stato netto e ha proposto un Berlusconi dominus della situazione, il nuovo quadro politico resta in movimento. Dalle parti del Pdl alla ricerca di un assestamento interno, dove non è secondario il ruolo di Fini e di Formigoni. Dalle parti delle opposizioni alla ricerca di un ruolo che non sia solo quello di una lunga traversata nel deserto, nella sola speranza che il centrodestra si logori e in attesa che cambi il vento.
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potere
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ROMA. Umberto Bossi non dice mai sciocchezze. Non le dice neanche quando sbuffa per l’aria romana, opprimente, noiosa, fastidiosissima, almeno per lui. «Me ne vado in Insubria, dove fermarono Annibale. La lista dei ministri? Prima di fare l’elenco passeranno secoli». È vero, non è questione di ore e nemmeno di giorni: ci vorranno tutte e quattro le settimane che divino Silvio Berlusconi dal giuramento al Quirinale per avere la squadra di governo nella sua versione definitiva. Eppure ci sono pesi ben chiari, concordati ieri dai leader a Palazzo Grazioli, in un frenetico susseguirsi di vertici tra il Cavaliere, il Senatùr, Gianfranco Fini e, sorpresa dell’ultim’ora, Raffaele Lombardo, accompagnati da alcuni tra i dirigenti più in vista di Forza Italia, An e Lega, da Sandro Bondi e Renato Schifani a Ignazio La Russa e Roberto Calderoli. Sono chiare le quote azionarie, non ancora i nomi. Ha cambiato casella per esempio uno di quelli che fino a ventiquattr’ore prima sembrava certo del suo destino, Roberto Maroni. Non andrà al Viminale, e lo avevano avvertito in tempo, senz’altro prima del vertice di ieri. L’ipotesi più realistica per lui è il dicastero delle Attività produttive, meno probabile quello delle Infrastrutture. Il punto è che il destino di Bobo si incrocia con la vera, grande incognita di questo sudoku: la collocazione di Roberto Formigoni. Lo danno in corsa per tutto, il governatore lombardo. È ipotesi dell’ultim’ora, emersa ieri, che possa essere lui il successore di Giuliano Amato. Maroni slitta e lui subentra, schema facile. Ma è improbabile che vada così. I leader hanno stabilito che il Viminale spetta a Forza Italia, certo. Ma negli stessi minuti in cui Formigoni intravede questa promozione si fa strada un altro slittamento a sorpresa: Franco Frattini potrebbe non occuparsi più degli Esteri ma proprio dell’Interno. E allora Formigoni cos’altro può fare? A lui piacerebbe moltissimo invertire le posizioni con Frattini, ma alla Farnesina non è ben visto. A sua volta il presidente della Lombardia non gradisce un ministero come quello dell’Istruzione, troppo esposto agli umori negativi delle scolaresche in corteo, troppo impopolare. Al Welfare no, anche perché la casella verrà tenuta libera fino all’ultimo per assegnarla eventualmente a Gianni Alemanno, se non sarà sindaco di Roma. Alle Attività produttive sembra meglio piazzato Maroni, che ha visto sfumare il Viminale all’improvviso. Cosa resta? La presidenza del Senato, in teoria: ma in pratica Berlusconi non sembra innamorato all’idea che Formigoni diventi la seconda carica dello Stato. Una informatissima fonte leghista dice: «Non è fondamentale che Castelli faccia il presidente della Lombardia, Formigoni potrebbe restare dov’è». Lo ha capito anche il diretto interessato, che nel pomeriggio cerca di placare il diluvio di voci sul suo conto: «Tra una settimana vedremo se collaborerò all’affermazione del modello lombardo da Roma o da Milano». L’umiliazione di restare a metà strada fino all’ultimo proprio
Tanto più che c’è un’altra donna in procinto di entrare nell’esecutivo, la coordinatrice azzurra della Lombardia Maristella Gelmini: sarà quasi certamente lei la futura responsabile della Salute.
La battaglia si gioca sulla divisione dei ministri tra Fi An e Lega e sul futuro di Roberto Formigoni
Tutti contro tutti e il governo sta in alto mare di Errico Novi non vuole ingoiarla. Anche Bossi vuole evitare sorprese e ribadisce di aver chiesto quattro ministeri. In realtà sarà lui stesso a occupare una delle quattro caselle, in particolare quella di vicepremier. Oltre a Maroni ci sarà Calderoli, che ancora non è sicuro di occuparsi ancora di Riforme istituzionali. E il quarto leghista? Potrebbe essere una sorpresa assoluta: Gianpaolo Dozzo, trevigiano, ex sottosegretario alle Politiche agricole, destinato a sottrarre il ministero
ad Adriana Poli Bortone. Era lei una delle quattro gentili signore candidate a entrare nell’esecutivo, ma il suo posto dovrebbe essere preso da una coprotagonista in grande ascesa, Michela Vittoria Brambilla. Da viceministro all’Ambiente la presidente dei Circoli della libertà accarezza da ieri pomeriggio la promozione a ministro delle Politiche comunitarie. Dicastero che sembrava saldamente nelle mani di Stefania Prestigiacomo. Anche lei rischia di restare delusa.
Maroni dal Viminale alle Attività produttive,Bossi lascia infastidito il vertice con Berlusconi, Fini e Lombardo:«Ci vorrà un secolo per completare l’elenco»
È l’effetto domino, bellezza. Forse dal vertice di Palazzo Grazioli non hanno inviato proprio un messaggio del genere a Maurizio Lupi, ma la sostanza è quella. Del modello lombardo doveva essere trapiantato nel nuovo governo anche l’impeccabile meccanismo dell’assistenza sanitaria. Sarà così, semplicemente non sarà un formigoniano a occuparsene. Altro segnale che il presidente della Regione è fermo con le sue truppe ben lontano dalla Capitale. C’è una quarta casella destinata a colorarsi di rosa e almeno questa non ha cambiato titolare nelle ultime ore: si tratta della Giustizia, rimasta assegnata a Giulio Bongiorno. In suo nome Gianfranco Fini ha speso ieri un comunicato: «Sarebbe un ottimo ministro». Messaggio indirizzato ai suoi colonnelli, più che a Berlusconi. Anzi, l’interpretazione più attendibile è la seguente: Fini ha voluto ricordare ai suoi che certe delicate decisioni non sono un affare interno, dipendono a questo punto anche dal futuro premier. Dentro An c’è più di una perplessità sulla promozione a un ministero così delicato di una semi-esordiente come la Bongiorno. Conta poco, a questo punto. Chi è certo della propria presenza nel governo è Altero Matteoli: indirizzato fino a ieri alle Infrastrutture sembra ora intravedere un ritorno all’Ambiente. Paolo Bonaiuti viaggia sempre più spedito verso il dicastero dei Beni culturali, Sandro Bondi conserva qualche chance per l’Istruzione, Gianni Letta è l’unico possibile vicepremier, a parte Bossi. Un azzurro che resterà in Parlamento è invece Claudio Scajola, da ieri praticamente certo di fare il capogruppo del Pdl alla Camera. A Palazzo Madama, come si diceva, c’è ancora un’opzione di Formigoni, ma sembra debole. Renato Schifani è il nome più soldo, mentre la guida del Popolo della libertà a Palazzo Madama resta nelle mani di Maurizio Gasparri. C’è pur sempre un quarto partito, nella coalizione uscita trionfante dalla tornata elettorale: è il Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo, per il quale Berlusconi ha speso ieri molti elogi. Avrà un viceministro e due o tre posti di sottosegretario. In lizza non è il leader del partito ma addirittura l’ex capo del Viminale Enzo Scotti, proposto insieme al deputato Giovanni Pistorio. Da An arrivano reazioni assai perplesse sulle lombardiane, ma il neogovernatore ha fatto notare che in base allo statuto siciliano lui stesso dovrebbe partecipare al Consiglio dei ministri ogni volta che si discute dell’Isola. Berlusconi ha dedicato un passaggio della conferenza stampa anche all’ipotesi Sarkozy, vale a dire alla disponibilità ad accogliere nel governo figure provenienti dall’opposizione. È un’ipotesi, per ora, mentre sembra certo che un ruolo almeno da sottosegretario spetterà a Daniele Capezzone e che Mara Carfagna avrà un ministero senza portafoglio.
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giochi di
potere
Berlusconi lo vuole Presidente della Camera: ma così lo esclude per cinque anni da ogni leadership politica
È scontro sul futuro di Fini di Nicola Procaccini
ROMA. Per i vincitori del 13 e 14 aprile sono ore convulse di strategie e tattica, di programmazione, concertazione e di pugni sul tavolo. Inevitabile d’altra parte. Tra le poche certezze emerse da Palazzo Grazioli dove si svolgono i vertici tra i maggiorenti della coalizione vincitrice c’è quella di Gianfranco Fini alla presidenza della Camera dei Deputati. Si tratta di una scelta, quella fatta dal leader di An, che, se confermata, sarà gravida di conseguenze a tutti i livelli. Personale, di partito, e di nuovo partito. Già, perché il Popolo della Libertà durante la stagione di governo, diversamente da quanto avvenuto al Partito Democratico, sarà chiamato a darsi una struttura, a celebrare dei congressi, selezionando la propria classe dirigente. Dare forma di partito all’intuizione elettorale di Silvio Berlusconi, sarà una delle sfide più importanti per An e Forza Italia, non meno rilevante di quella che si svolgerà al governo della nazione. In questa doppia partita dentro e fuori dal Palazzo, entra pure, giocoforza, l’annosa questione della successione al Cavaliere. Per quanto riguarda Alleanza Nazionale, il suo destino è legato a doppio filo a quello del suo attuale presidente. Un ruolo istituzionale per Fini gli garantisce visibilità ed aura da terza carica dello Stato, ma può comportare anche la dismissio-
sino banale constatarlo. Ha fatto una scelta, quella di confluire nel Popolo della Libertà, entrerà da subito nel Partito Popolare Europeo e dall’ingresso principale, ma è chiaro che la sua cultura politica sparisce nella nuova formazione politica. Non si può pretendere di avere la botte piena e la moglie ubriaca». Per Edmondo Berselli, politologo di rango ed editorialiEdmondo Berselli: sta de La Repubblica: «Si «E’ una scelta tratta di una scelta ririschiosa anche schiosa anche perché Fiperché Fini da ni da l’impressione di l’impressione di aver conferito le forze aver conferito le strutturate di An a Berluforze strutturate sconi in cambio del prodi An a Berlusconi prio personale, ancorché in cambio del prestigioso, strapuntino. proprio D’altra parte la mia impersonale, pressione è che ancorché Fini abbia fatto prestigioso, una scelta di sano strapuntino» realismo – continua Berseli – Risità di Bologna è piuttosto deci- tiene evidentemente che so: «se io fossi in Fini non avrei l’erede di Berlusconi non alcun dubbio: si tratta della scel- sarà lui, ma uno di coloro ta migliore. Ha poco più di cin- che facevano già parte quant’anni, e guadagnando la del corpo di Forza Italia, terza carica dello Stato diventa penso a Tremonti, Formiuno statista di livello. Quando goni, Frattini. Dunque si poi, tra un quinquennio, uscirà inabissa come leader, e da Montecitorio potrà giocarsi quando scadrà il mandatranquillamente le sue carte co- to parlamentare sarà per me candidato del centrodestra lui difficile tornare ad alla carica di presidente del una posizione preminente nel Consiglio». Per quanto riguarda Pdl. Certo mi rendo conto che il il destino dell’identità politica e Pdl è una grande incognita, biculturale di An, Pasquino non è sognerà vedere come si struttuparticolarmente tenero: «direi rerà e se lo farà». Sul partito di che non ha più una propria Fini Berselli è tranchant: «nel identità politica. Mi sembra per- medio periodo An è destinata a ne dei panni del leader politico, con grave nocumento per Alleanza Nazionale. Abbiamo chiesto ad alcuni politologi italiani di giudicare questa scelta di Fini e le opinioni sono state piuttosto diversificate, non meno dei parallelismi con i più recenti presidenti di Montecitorio. Gianfranco Pasquino, docente di Scienza Politica all’Univer-
stemperarsi nel Pdl, come è già successo nella campagna elettorale. E’un percorso giunto a conclusione ormai quello di Alleanza Nazionale, sotto ogni punto di vista. Gianni Baget Bozzo è da sempre un attento osservatore del profilo di Gianfranco Fini: «A voler essere obiettivi credo il destino di An gli interessi poco o nulla; d’altra parte ormai An è confluita nel nuovo Pdl. Ritengo invece che le sue doti migliori di riflessività ed autorevolezza sarebbero premiate dal ruolo di presidente della Camera. E può mettere a frutto negli anni a venire un capitale importante di visibilità in Italia e nel mondo». Sulla presunta incompatibilità tra ruolo politico e ruolo
Su questa linea è d’accordo Alessandro Campi, politologo che spesso ha anticipato (o suggerito) le mosse di Fini: «Si possono interpretare entrambi i ruoli di rappresentante politico e delle istituzioni, come ha fatto prima di lui non solo Bertinotti, ma anche Pierferdinando Casini. Naturalmente cambierà il registro stilistico delle dichiarazioni, i tempi e le modalità di intervento sulla scena politica di tutti i giorni. Ma è questione che attiene al galateo istituzionale, non ci sarà nessuna paralisi politica per Fini, e potrà dare il suo contributo alla costruzione del nuovo partito». Campi, per storia personale ed attitudine di pensiero si sofferma più dei suoi colleghi sulla scomparsa della identità politica e culturale di An Baget Bozzo: «Penso che le sue all’interno del Pdl, a prescindere dal ruolo di Fini. doti migliori di «Bisogna abituarsi a rariflessività ed gionare in termini di Pdl autorevolezza – spiega Campi – smettesarebbero re di vestire i panni di premiate dal una parte soltanto. Bisoruolo. E può mettere a frutto gna accettare la sfida senza riserve; certamennegli anni a venire un capitale te si perderà qualcosa del patrimonio identitario di importante di An, ma si guadagnerà in visibilità» prospettiva l’identità di un grande contenitore istituzionale, Baget Bozzo è del moderatismo italiano ed eupiuttosto scettico: «si può fare ropeo. Sul piano culturale – politica anche e soprattutto oc- conclude Campi – finisce un’ecupando un ruolo di prestigio poca e si ridefiniscono le coorcome quello di presidente di dinate culturali per tutti, da Montecitorio. Bertinotti non ha qualunque parte provengono. mai smesso di farla». An compresa».
politica
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Prove di dialogo tra opposizioni mentre Prodi si dimette da presidente del Pd ROMA. Prove di dialogo tra opposizioni e forti tensioni nel partito democratico. All’indomani delle elezioni, mentre comincia una sequela tendenzialmente infinita di incontro-più-conferenza-stampa a palazzo Grazioli, il Pd comincia a fare i conti con la propria sconfitta e l’Udc a misurare le sue forze all’interno di un quadro sbilanciato più del previsto verso il centrodestra. E in questa situazione, per quanto la cosa faccia esultare il Cossiga che preme perché «Casini segua Follini», stupisce, ma non più di tanto, che le due opposizioni facciano prove tecniche di dialogo. Ieri Massimo D’Alema, impegnato nel puntellare “quel che resta” del Pd nel dopo elezioni, ha voluto incontrare Pier Ferdinando Casini nella sua casa romana dei Parioli. Un «giro d’orizzonte post elettorale», fanno sapere dal quartier generale Udc. Argomento principe, capire i margini di collaborazione nell’attività parlamentare, anzitutto per quel che riguarda la riforma elettorale sul modello tedesco. Un tema al centro dell’incontro, come si fa capire da entrambe le parti. Scrive infatti la dalemiana Velina rossa che «oggi la novità politica principale è l’iniziativa presa nei confronti dell’onorevole Casini per avviare un discorso serio per quel che riguarda la costruzione di progetti in comune tra Pd e Udc. Il discorso con il leader centrista non può limitarsi però soltanto all’attività parlamentare, ma proprio in vista dell’urgenza di alcune riforme sarebbe necessario tenere conto dell’atteggiamento dei centristi soprattutto sulla legge elettorale». Insomma, bisogna lavorare a una convergenza sul sistema di voto, e D’Alema si sta spendendo per il tedesco anche perché «non si può pretendere che Casini aderisca con entusiasmo al modello francese»: che Veltroni faccia altrettanto, è soltanto un auspicio della Velina rossa.
Incontro a sorpresa tra Casini e D’Alema di Susanna Turco
«I nostri iscritti gli chiederanno anzitutto se vuole essere il continuatore di Veltroni, in caso di risposta affermativa sceglieranno l’alternativa», ha detto infatti l’ex senatore centrista.
Tema dell’incontro tra D’Alema e Casini, la collaborazione nell’attività parlamentare e il dialogo sulla riforma elettorale (modello tedesco)
D’altra parte, non pare che questo genere di avvicinamento possa preludere a un abbraccio più stretto, tra Udc e Pd. «Casini non ha sponde a destra, mentre è ancora in tempo a trovare un accordo concreto con il Pd: e questo dipende molto da chi sarà eletto sindaco di Roma», dice Francesco Cossiga. Eppure proprio la partita romana non pare avviata verso un sostegno uddiccino a Rutelli. Anche se formalmente un «orientamento ancora non c’è», perché a scegliere tra l’ex mi-
Sul fronte interno del Pd, invece, continuano a essere forti le tensioni del dopo sconfitta. Serpeggia stupore nel loft per la tempistica scelta da Prodi per rendere pubbliche le sue dimissioni da presidente del partito. E, nonostante le smentite di Ermete Realacci, è difficile pensare che la cosa non sia legata alla circostanza che proprio due giorni fa Walter Veltroni aveva spiegato che sulla sconfitta elettorale avrebbe pesato l’eredità del governo del professore. È vero infatti che la vo-
lontà di lasciare la guida del Pd, Prodi l’aveva comunicata a Veltroni già a Pasqua, concordando di riparlarne dopo le elezioni. Nessuna sorpresa, dunque. Ma il concordato incontro tra segretario e presidente è stato di fatto bruciato dalle dichiarazioni di ieri del Professore creando qualche tensione. Ed ora chi ricoprirà il ruolo di Prodi? La scelta del premier uscente viene considerata infatti definitiva e, sebbene si dica a destra e sinistra che è prematuro parlarne, sembra che si stia già accreditando un nome su tutti: quello di Franco Marini. Figura «super partes» ideale, si spiega dal Pd, visto che il presidente del Senato non si è nemmeno “sporcato le mani” correndo alle primarie dell’ottobre scorso.
nistro della Cultura e Gianni Alemanno saranno direttamente gli iscritti, di fatto quanto dichiarato a Sky da Francesco D’Onofrio non sembra il preludio per un sostegno convinto a Rutelli:
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politica Amarcord della firma del Patto per l’Italia, nel luglio del 2002. Da sinistra: Stefano Parisi e Antonio D’Amato, allora direttore e presidente di Confindustria, Giulio Tremonti e Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Roberto Maroni (che sostennero fino in fondo l’iniziativa) e, infine, la leadership sindacale del 2002, Luigi Angeletti, Guglielmo Epifani e Savino Pezzotta
Consigli al Cavaliere. Le prime mosse annunciate possono essere utili per i redditi delle famiglie, benché ci sia un problema serio a reperire le risorse
La priorità non è l’Ici. Ma un nuovo Patto per l’Italia di Giuliano Cazzola ilvio Berlusconi ha già individuato delle priorità. Il suo governo attuerà subito – da Napoli o da Malpensa ? - talune misure peraltro contenute nel programma. In primo luogo l’abolizione dell’Ici, poi il «bonus bebè» e, infine, l’intervento sulle pensioni (di cui non si sono comprese le modalità, dal momento che un sistema di rivalutazione automatica rispetto al costo della vita, modulato in relazione all’importo del trattamento, esiste ed è operante da almeno quarant’anni). Questi provvedimenti saranno senza dubbio utili, anche perché – sulla carta – coprono una platea diffusa e articolata di famiglie: le giovani coppie, quelle anziane, i proprietari della casa d’abitazione che in Italia sono più dell’80%. Ovviamente occorrerà reperire le risorse; e non sarà facile, visto che il surplus fiscale andrà ad assottigliarsi sempre più.
S
Sicuramente le prime misure proposte sembrano ispirate a preservare il clima da «luna di miele» con l’elettorato (che è
stato così generoso con il PdL, tanto avaro con il Pd e spietato con la Sinistra arcobaleno) piuttosto che a realizzare, in chiave di anticipo, provvedimenti da carattere strutturale. Dare consigli a Silvio Berlusconi è difficile, anche perché l’esperienza è lì a dimostrare che, in fondo, nessuno è migliore di lui a capire gli umori di questo Paese. Diversamente dal suo «principale competitore». Sia detto per inciso: non ci voleva
dualità necessaria – la realtà indirizzandola verso obiettivi di carattere strategico.
Ecco perché ci permettiamo di avanzare qualche «ragionevole dubbio» sulle priorità del Cavaliere. Se avessimo un po’ di voce in capitolo ci sentiremmo di suggerire un diverso percorso, partendo da un ragionamento che è bene esplicitare con chiarezza. Il governo – al pari di tutte le compagini
ni. Deve mettere in conto l’opposizione pregiudiziale della Cgil (la Vecchia Guardia dei Napoleoni della gauche) con gli effetti di trascinamento sulle altre organizzazioni (soprattutto in anni, come quelli appena trascorsi, in cui la Confindustria aveva una sola idea forte riassumibile nello slogan «mai senza la Cgil»). Tanto valeva, allora, intraprendere subito la seconda fase della battaglia verso l’obiettivo della
All’inizio della terza esperienza di governo, è bene ricordare che il punto più alto dell’iniziativa politica nella stagione della Casa delle libertà fu la stipula nel luglio del 2002 dell’accordo con le parti sociali molto ad intuire che gli operai del Nord non avrebbero gradito di avere come capilista degli esponenti della Confindustria. Ma chi governa non deve limitarsi solo a «compiacere» il proprio elettorato (lo ha fatto – e puntigliosamente - anche il centrosinistra, per giunta con la prosopopea di lavorare per l’interesse generale). Deve perseguire degli obiettivi in grado di modificare – con tutta la gra-
di centrodestra - ha un problema visibile con i sindacati. Ha quindi l’esigenza di capire quale sarà la linea di condotta delle grandi confederazioni dei lavoratori e della Confindustria (dove è in arrivo il nuovo gruppo dirigente dopo la gestione - disastrosa ed orientata a sinistra - di Luca Cordero di Montezemolo). A un governo moderato, in Italia, non è sufficiente vincere le elezio-
possibilità di governare. Come? Sarebbe bastato che il governo andasse direttamente al confronto con le parti sociali, mettendo a disposizione delle loro richieste (sgravi fiscali sulle retribuzioni, riduzione della tassazione sulle imprese) l’ammontare del «tesoretto» (una volta verificatene l’esistenza e la consistenza senza creare problemi ai conti pubblici) ad una precisa condizio-
ne: che entro quaranta giorni le parti fossero capaci di avviare e concludere un negoziato sulla riforma degli assetti contrattuali, orientato a valorizzare il più possibile gli elementi della retribuzione collegati alla produttività e la contrattazione decentrata. Sarebbe stato un modo per giocare di anticipo, dando forza e ruolo alle componenti più ragionevoli e meno strumentalizzabili tra le organizzazioni sindacali e per mettere alla prova la nuova presidenza di viale dell’Astronomia.
In fondo, il punto più alto dell’iniziativa politica dell’ultimo governo Berlusconi fu la stipula del Patto per l’Italia del luglio del 2002. Tutto ciò premesso, si spiega anche perché sarebbe importante che al Dicastero del Welfare andasse una personalità competente, magari individuata tra quelle che, a fianco di Roberto Maroni, nella trascorsa legislatura, portarono a compimento, in quel ministero, talune delle riforme grazie alle quali quell’esperienza governativa merita di essere ricordata.
politica
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Compagni addio. Viaggio nella sinistra scomparsa/2 Rina Gagliardi
Così vicini, così lontani dagli operai colloquio con Rina Gagliardi di Riccardo Paradisi
ROMA. Rina Gagliardi è senatore uscente di Rifondazione comunista ed è stata per anni caporedattore del quotidiano Liberazione. Con lei liberal prosegue la riflessione sulla devastante sconfitta elettorale che ha di fatto cancellato la sinistra socialista e comunista dal Parlamento italiano. Come diceva ieri Cesare Salvi è la prima volta, fatta salva la parentesi del regime fascista, che questo accade. Il giorno dopo il crollo elettorale della sinistra Piero Sansonetti ha scritto su Liberazione che non c’è niente di peggio ora che abbandonarsi al lamento. Conviene semmai porsi due domande: quali sono le cause della sconfitta? E: che fare ora? Lei Gagliardi a queste domande che risponde? Non è così facile capire i motivi di quello che è successo, tanto più che questo tsunami che si è abbattuto sulla sinistra non era stato previsto da nessun sondaggio e da nessun analista. Io ero tra i pessimisti, prevedevo un risultato non eccelso, però non pensavo a una Caporetto. Siamo di fronte a una crisi profonda che viene da lontano. Quello che ora serve è un’analisi di fondo molto più appuntita di quella siamo in grado di fare a caldo. Sta di fatto che il progetto di Sinistra Arcobaleno è fallito. Il progetto della Sinistra Arcobaleno è apparso improvvisato, non chiaro. È stato percepito come un cartello elettorale le cui prospettive non erano definite. La nostra gente non ha capito il progetto che offrivamo e soprattutto ha colto il fatto che a questa battaglia non tutti ci hanno creduto fino in fondo. Se poi si aggiunge che le liste sono state fatte col manuale Cencelli, lottizzate tra le diverse componenti, il quadro è quasi completo per quanto riguarda le cause soggettive della sconfitta. La sinistra ha perso le sue roccaforti tradizionali – in Toscana avete preso solo il 5 per cento – e il voto operaio: a Mirafiori sud la partecipazione al voto è scesa dall’82,63 per cento al 76,42 per cento. Di questo dato che analisi fa? Non siamo stati capaci di mantenere il consenso che avevamo in territori e tra i ceti che fino a ieri sceglievano noi. Però anche in questo caso non vorrei improvvisare delle risposte. Anche perché io non so quanti voti operai abbiamo perso due anni fa. Sta di fatto che sono diversi anni che gli studi della Fiom ci dicono che gli operai
del nord non votano più a sinistra e che il voto operaio alla Lega è continuato a crescere. L’analisi che si può fare è che quando tra gli operai si diffonde la convinzione che la sinistra non li tutela più si concentrano sulla forza che appare loro più efficace per difendere la loro condizione. Le propongo una riflessione: e se la sinistra avesse perso il voto operaio perché ha perso di vista i bisogni primari della società inseguendo i bisogni secondari – le esigenze di libertà sessuale e diritti civili – di esigue minoranze? Non potrebbe essere questa una delle chiavi di lettura della vostra sconfitta? Non condivido la sua interpretazione, non penso sia questo il problema. Gli operai non sono disinteressati ai problemi dei diritti civili. Ci può essere anche dentro il mondo operaio una com-
ponente omofobica… No, mi scusi: io non ho parlato di omofobia operaia. Ipotizzavo che le priorità del ceto operaio non siano la tutela delle differenze di genere ma per esempio il salario o una politica per le famiglie. Ma la sinistra non ha mai posto la questione operaia dopo i diritti civili. Se questo è apparso è perché i media spesso deformano la realtà. Dai nostri programmi e dai nostri comportamenti
“
Non siamo stati capaci di rappresentare il conflitto e il disagio dei ceti che tradizionalmente erano vicini a noi. Ora il rischio per i comunisti è la nicchia e l’avventurismo
”
parlamentari non abbiamo mai derubricato la questione operaia, l’abbiamo sempre tenuta al primo posto. Poi è vero: non siamo stati capaci di essere dentro il popolo operaio, di rappresentare il suo conflitto e il suo disagio, ma questo è un altro discorso. Dopo questa sconfitta non sarà facile costruire l’unità della sinistra. L’esercito sconfitto tende a scomporsi. Però ricostruire la sinistra è un compito fondamentale. Da svolgere in termini più umili, facendo tesoro delle analisi che riusciremo a fare. E facendo di necessità virtù: ossia l’uscita dalla casta parlamentare può agevolare il fatto che i dirigenti della sinistra non potranno più essere percepiti come tutti gli altri. A proposito di fuoriuscita dal Parlamento due ex presidenti della Repubblica, Cossiga e Ciampi, hanno manifestato preoccupazione per la scomparsa dei partiti che offrivano un riferimento per le frange politiche più estreme. Non sono d’accordo sull’allarme lanciato da Cossiga sul pericolo del terrorismo. Lo trovo strumentale, pericoloso. Detto questo se da una parte va ricordato che noi una presenza sociale continuiamo ad averla va anche detto che i conflitti sociali, che noi abbiamo malamente cercato di rappresentare, ci sono e sono molto forti. E si esprimeranno con forza. D’altra parte tra i frutti di questo bipolarismo c’è anche questo. L’esclusione delle rappresentanze dalle istituzioni e la messa a rischio della civiltà del confronto e del conflitto. A sinistra ora si inseguono le soluzioni più diverse. Diliberto chiede il ritorno alla falce e martello, Pardi promette che torneranno i girotondi, Caruso che è stato eletto in parlamento parla di «sradicare una cultura elettoralistica che ha avvelenato la sinistra». C’è molta confusione sotto il cielo per citare il presidente Mao. Identitarismo e spontaneismo sono gli effetti magari inconsapevoli dell’americanizzazione della politica italiana. Nella società statunitense esiste di tutto, anche un certo numero di partiti comunisti, che però non contano nulla. D’altra parte quando si perde gli effetti sono questi. Si tratta però di mantenere la testa fredda, di immaginare una sinistra che non ceda né alle nostalgie né agli avventurismi; che sia capace di essere nel tempo presente, che non si riduca a un fenomeno gruppusculare di nicchia.
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Il leader democratico cade sulla Pennsylvania (al voto il 22), alza un polverone e rischia di essere battuto da Hillary
La verità su Obama? È un insopportabile snob marxista di Michael Novak
arack Obama e molti analisti continuano a parlare della “dissestata” economia della Pennsylvania. Io sono cresciuto in due piccole città di questo Stato, Johnstown e McKeesport e, trattandosi di zone rurali, sono sempre rimasto colpito dalla brillante funzionalità e dall’equipaggiamento dei suoi pick up. Durante le partite di football delle scuole superiori o dei college - specialmente a Penn State, che si trova nelle alture della “Valle Felice”- i furgoncini si riempiono di prelibatezze culinarie. Certo non saranno i banchetti dei ricchi, ma neanche il segno del declino della classe media o della povertà della plebe; le persone che conosco sono dure, forti, e sanno come spremere il centesimo per tirarne fuori tutto il possibile prima di lasciarlo andare.
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Il basso costo dei beni di consumo consente a tutti di possedere una televisione, una lavastoviglie, una lavatrice, buone radio, telefoni cellulari e i Pods, ma qualsiasi cosa venga loro in mente risparmiano e la comprano. Dunque non si può credere alla stampa riguardo l’economia della Pennsylvania. Si potrebbe pensare che ai democratici piacerebbe enfatizzare il cattivo andamento dell’economia per costringere i repubblicani alle dimissioni, ma questo stonerebbe con la lettera scritta la scorsa estate dal governatore Ed Rendell un importante esponente democratico, nonché capo della campagna elettorale della Clinton in Pennsylvania - che riproduco integralmente: «L’economia della Pennsylvania è forte e in crescita, e gli ultimi
dati della settimana confermano il nostro costante successo e progresso. Maggio è stato il quarto mese consecutivo in cui l’andamento della nostra economia ha superato quella nazionale, il tasso di disoccupazione al 4,2 percento è stato in-
qualità della nostra manodopera ed ampliare il clima imprenditoriale stanno dando i loro frutti, ma per una valutazione completa della forza economica della Pennsylvania bisogna considerare quattro fattori: 1. il nostro tasso di disoccupa-
Gli abitanti del Penn State amano la caccia e la pesca, e dedicano tutto il tempo libero a queste attività perché li legano ai loro antenati in un rapporto di fedeltà che si trasmette di generazione in generazione feriore di tre decimi di punto rispetto alla media, ed è stato pari o inferiore a quello nazionale 43 mesi su 53, dunque per più dell’80 percento della durata del mio incarico. Questo, unito alla forza e alla crescita del nostro lavoro, è la conferma che gli sforzi fatti per migliorare la
zione è basso; solo gli analisti più cinici possono sostenere che il record trentennale che abbiamo registrato quest’anno sia altro che una buona notizia, e - come ho sottolineato precedentemente - il nostro tasso di disoccupazione rimane considerevolmente al di sotto di
quello nazionale. 2. siamo leader dell’accessibilità al lavoro; in questo campo la Pennsylvania è davvero al di sopra degli standard. Secondo il dipartimento di statistica del lavoro, per nove degli ultimi dieci mesi abbiamo superato il nostro record per l’alto numero di occupati. L’aumento globale dell’occupazione - 168.000 posti in più negli ultimi quattro anni - ci rende leader tra gli stati industrializzati. 3. siamo una calamita per l’espansione del commercio; secondo uno studio del 2006 presentato dalla Ibm Global Consulting,“nel 2005 la Pennsylvania è salita al primo posto come miglior destinatario dei progetti d’investimento”. Nel 2004 la società non ha stilato questo elenco, ma per i progetti manifatturieri la Pennsylvania è passata dal terzo al primo posto. 4. le rendite statali sono notevoli; la crescita dell’economia ha prodotto un extragettito di circa un miliardo di dollari alla fine del 2006 e quando, tra poche settimane, si concluderà l’anno fiscale 2007, ci aspettiamo di
proseguire in questa crescita e di produrre altri 500 milioni di dollari in più.
Nonostante questi quattro dati siano prove inconfutabili della solidità della nostra economia, c’è ancora un importante lavoro da fare. La mia proposta al Fondo d’investimento Jonas Salk e il Programma di indipendenza energetica sono esempi di come stiamo continuando a cercare nuove vie di crescita economica. Gli investimenti derivanti dal progetto con la Jonas Salk rafforzeranno molto la reputazione
Il popolo del Midwest? Triste, gretto e frustrato
La parole sotto accusa OBAMA In Pennsylvania il basso costo dei beni di consumo consente a tutti di possedere una televisione, una lavastoviglie, una lavatrice, radio, telefoni cellulari e gli iPod: tutto comprato risparmiando e pagato in contanti
PARLAVA due giorni fa davanti a un gruppo di ricchi sostenitori di San Francisco, nel corso di una normale iniziativa di fundraising per la sua campagna elettorale, quando - in maniera del tutto inaspettata - è “scivolato”sulla classe media del Paese. Una gaffe che ha sollevato un vero
e proprio coro di critiche, mettendolo in grave difficoltà.
«La verità è questa: noi dobbiamo persuadere la gente di essere in grado di portare dei cambiamenti significativi nella loro vita di tutti i giorni. Cambiamenti necessari perché loro non ne hanno nem-
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Tutti contro la crisi
L’economia torna al centro delle primarie entre i due candidati democratici scaldano i motori in vista del prossimo turno delle primarie del ventidue aprile, la situazione economica americana e i provvedimenti da prendere per contrastare il deteriorarsi del livello di vita di molte famiglie Usa si impone sempre più nel dibattito presidenziale. Il dibattito di oggi al National Constitution Center a Philadelphia tra Hillary Clinton e Barak Obama, non potrà ignorare la “gaffe” del senatore della Pennsylvania ma i pretendenti democratici per la nomination alla Casa Bianca, saranno costretti ad affrontare anche la patata bollente della crisi del mercato immobiliare Usa. L’economia è stata per mesi la preoccupazione numero uno degli elettori Usa, ma i candidati dei due schieramenti hanno preferito affrontare temi, primo su tutti quello della sicurezza e la guerra in Iraq, dove si sentono a loro agio avendo opinioni ed esperienze più definite.
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della Pennsylvania come centro internazionale per la ricerca e lo sviluppo della biotecnologia, e l’iniziativa per l’indipendenza energetica, che ha già creato più di 2.500 posti di lavoro nella produzione e tecnologia dell’energia rinnovabile, è progettata per creare 13mila nuovi posti di lavoro e tre miliardi e mezzo di dollari in investimenti privati». Così ha parlato il Governatore democratico!
Certo, la Pennsylvania rimane una zona rurale. La gente ama la caccia e l’intero territo-
meno contezza.Tu vai in queste piccole città della Pennsylvania, e - come in tante piccole città del Midwest - vedi non solo che non c’è più lavoro da almeno 25 anni, ma che nessun provvedimento è stato preso. La situazione ha continuato a peggiorare sia durante l’amministrazione Clinton che in quella di Bush, e a dirla tutta anche con ogni altra amministrazione che ha detto di sostenere un cambio di rotta a favore di queste comunità. Ecco perché non ci deve sorprendere che diventino sempre più tristi, che rimangano fedeli solo ai loro fucili da cac-
rio è praticamente una enorme foresta, interrotta da poche città industriali e belle aree agricole a perdita d’occhio; ci sono più cervi e orsi in libertà oggi di quanti ce ne fossero al tempo di George Washington, e negli ultimi anni il governatore ha prolungato la stagione di caccia per preservare gli armenti dalla sovrappopolazione e dalla fame. Gli abitanti della Pennsylvania amano i propri fucili e la propria attrezzatura da pesca, e trascorrono tutto il tempo libero a cacciare e pescare perché
cia o alla religione, che provino antipatia verso i diversi, verso chi non è come loro, verso gli immigrati, o che coltivino un sentimento di rifiuto dell’economia di mercato come valvola di sfogo alle loro frustrazioni». In uno schema di questo tipo, una domanda resta senza risposta: come spiega Obama il suo sentimento di diffidenza nei confronti dell’economia di mercato? E la sua antipatia per chi non è come lui? e sarebbero gli altri quelli tristi?
queste attività li legano ai loro antenati in un rapporto di fedeltà che si trasmette di generazione in generazione. La campagna elettorale di Obama si è imbattuta in un problema che durerà parecchi giorni. Ha dato l’impressione
di essere un insopportabile snob, mentre raccontava a qualche ricco californiano che la gente delle piccole città sfoga le proprie frustrazioni per la mancanza di lavoro e per il declino economico rivolgendosi a Dio e alle antiche tradizioni. Puro marxismo. Pura scuola di Harvard. Pura ignoranza della realtà della vita delle persone normali attaccate alla propria terra. Manca una sola settimana alle primarie della Pennsylvania. Obama è stato molto vicino alla Clinton nei sondaggi per parecchio tempo, ma la strada si è fatta tutta in salita grazie alle sue inopportune riflessioni marxiste. Dato comunque che entrambi rischiano di cadere sulla linea di traguardo, dovranno sostenersi reciprocamente e confidare sull’errore fatale dell’altro.
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Obama si era detto favorevole a una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari e aiuti ai proprietari di case pari a trenta miliardi di dollari mentre la sua rivale intende utilizzare una cifra più bassa, dodici miliardi di dollari, per la riqualificazione dei lavoratori che hanno perso l’impiego. A sua volta McCain ha ribadito che ogni forma di aiuto federale dovrebbe essere limitato alle famiglie che rischiano di non poter «realizzare il sogno americano». Sui temi economici il senatore repubblicano ha dovuto però parare il colpo della Clinton che attraverso Bush accusa i repubblicani di trascurare l’economia, cercando inoltre di ridicolizzare le affermazioni di McCain che avrebbe dichiarato di non capire di economia quanto il suo ruolo gli imporrebbe.
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mondo
I retroscena dell’incontro fra il generale e Bush e la conseguente decisione di non ritirare truppe dall’Iraq
Sostiene Petraeus di Stranamore er quanto ancora i nostri soldati dovranno restare in Iraq? Questa è la domanda, comprensibile quanto fintamente ingenua che i congressmen rivolgono regolarmente al generale David Petraeus, comandante delle truppe statunitensi nel Paese, ed all’ambasciatore Ryan Crocker. Le risposte che arrivano sia dal canale ufficiale sia dal diplomatico non sono certo musica per i politici, specialmente in un anno elettorale. Non basta una strategia, si vorrebbe un calendario definito per il ritiro delle truppe ed una assicurazione sul passaggio di responsabilità alle autorità irachene. Ma molto assennatamente il generale Petraeus continua ad adottare un atteggiamento prudente. Anzi, durante il suo tour a Washington ha suggerito al presidente George W. Bush di non spingere sull’acceleratore imponendo una diminuzione della presenza militare statunitense al di là di quanto previsto, ovvero un ritorno, entro fine luglio, a quota 140mila soldati, con 15 brigate operative, riportando a casa soltanto quei soldati che sono stati schierati in Iraq per realizzare la ormai famosa surge temporanea, durata circa 12 mesi. Il potenziamento del contingente, 20mila truppe combattenti ed 8mila di supporto, ha funzionato, combinato ad una nuova strategia politica e militare ed al parallelo potenziamento delle forze di sicurezza locali. Anzi, avrebbe sicuramente prodotto risultati positivi se fosse stato prolungato ancora per qualche mese. Ma né Bush né il Pentagono si sono azzardati a chiedere niente del genere. Si era parlato di incremento momentaneo e a scadenza definita. Il presidente poi ha annunciato che i turni di servizio delle truppe in Iraq ed Afghanistan torneranno ad essere di 12 mesi, alleviando così la pressione sullo US Army, giunto al limite malgrado l’incremento graduale degli organici e la riorganizzazione in corso.
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Bush però ha accettato la richiesta di Petraeus di stabilire una pausa di riflessione di 45 giorni dalla fine di luglio prima di valutare se sia possibile procedere ad ulteriori ridimensionamenti del contingente. In questo modo si è garantito al-
Il generale David Petraeus, comandante delle forze americane in Iraq dal 5 gennaio 2007, è famoso per il suo carattere e la finezza intellettuale e psicologica. L’avvio del suo incarico è contrassegnato dalla scelta di circondarsi di ufficiali di altissima competenza strategica soprannominati i “Petraeus’ Thinkers” meno fino a ottobre la necessaria flessibilità, grazie al numero di soldati a disposizione, per rispondere ad una eventuale crisi o deterioramento di una situazione che mostra costanti segni di miglioramento, ma che è tutt’altro che consolidata. Saranno mesi cruciali per valutare se i progressi compiuti dalle forze irachene e l’evoluzione della situazione sul campo consentiranno davvero un alleggerimento. In ogni caso una roadmap definita a priori sarebbe
ticolare dalle formazioni che godono del supporto diretto ed indiretto iraniano. Petraeus è stato molto tranchant nell’evidenziare il ruolo dei famigerati Gruppi Speciali iraniani, emanazione delle unità Al Quds dei pasdaran, nel supportare, armare, addestrare varie formazioni, in particolare l’esercito Mahdi che fa capo a Moqtada Sadr. Questa milizia, dopo aver sofferto faide interne a seguito del troppo prolungato “esilio” del suo leader, con i vari luogo-
politica, in vista delle elezioni autunnali.
La decisione del primo ministro Nouri Al-Maliki di scagliare le sue truppe contro i miliziani di Moqatada Sadr a Bassora e nel resto del Paese è stata per certi aspetti avventata ed ha suscitato non poche perplessità tra i mentori statunitensi. I sanguinosi combattimenti non sono risultati affatto decisivi, anzi i successi sono stati parziali e pagati a caro prezzo. Di-
I prossimi mesi saranno cruciali per valutare se i progressi compiuti dalle forze irachene consentiranno un ridimensionamento delle truppe. In ogni caso una roadmap definita a priori sarebbe un regalo troppo grande per gli avversari un regalo troppo grande per gli avversari. Che sono ancora numerosi ed agguerriti. Si, al Qaeda è sicuramente in difficoltà e anche se continua ad essere pericolosa e ad effettuare attacchi sanguinosi, specie nel nord del Paese e nell’area intorno a Mosul, non è più il pericolo principale. Che è costituito invece dalla guerriglia di matrice autoctona ed in par-
tenenti che hanno cominciato a fare di testa propria e a lottare per il potere, ha comunque beneficiato di una riorganizzazione e miglioramento addestrativi. Tutto ciò è emerso chiaramente nel corso dell’operazione avviata, con scarsa preparazione e pessima gestione, dal governo di Bagdad con l’obiettivo di distruggerne le capacità militari e ridurne la rilevanza
verse formazioni dell’esercito e della polizia irachene sono andate molto vicine a sfasciarsi a causa del prolungarsi e dell’intensità dei combattimenti, come conferma il fatto che quasi 2mila militari e poliziotti siano stati congedati a seguito della pessima prova fornita sul campo di battaglia. Tuttavia l’operazione, che ha beneficiato di supporto intelli-
gence, logistico e di fuoco statunitense/britannico, ha avuto anche alcuni effetti positivi: è servita a spuntare gli artigli dell’esercito Mahdi prima che potesse raggiungere un livello di pericolosità militare significativo approfittando del cessate il fuoco unilaterale (ma rispettato anche da forze Usa e governative) di Moqtada Sadr. In secondo luogo ha fatto comprendere al governo iracheno quanto sia pericolosa ed estesa l’influenza iraniana negli affari interni iracheni, al di là del supporto militare alla guerriglia. E anche a Washington il nuovo allarme è stato utile, anche se tutti si sono poi affrettati a dire che la soluzione può essere diplomatica e nessuno ha intenzione di scatenare un conflitto con Teheran. Certo l’attenzione intelligence, la sorveglianza dei confini porosissimi con l’Iran e le azioni controguerriglia sono state riorientate per fronteggiare una minaccia persino più grave di quanto già non si pensasse. Il Pentagono poi ha visto confermata la necessità di insistere nella preparazione delle forze di sicurezza irachene, ancora ben lontane dall’aver raggiunto una consistenza ed una qualità sufficienti per consentire un maggiore affrancamento dalle truppe statunitensi. Si, il totale degli effettivi è salito a 540mila uomini, ai quali si aggiungono i 91mila uomini delle milizie sunnite di autodifesa. Altri 50mila soldati con 16 battaglioni e 23mila poliziotti con 8 battaglioni saranno arruolati entro fine anno, mentre il flusso di volontari rimane consistente. Tuttavia le capacità di truppe, comandanti e reparti lasciano a desiderare e molte unità sono state declassate in seguito a quanto visto a Bassora e Bagdad. I miglioramenti ci sono, come no, ma sono molto più lenti e parziali di quanto non si pensasse e sperasse. Queste salutari lezioni sono giunte al momento giusto ed è sperabile che condizionino le scelte che la nuova amministrazione statunitense vorrà prendere sull’impegno in Iraq. Decisioni radicali non arriveranno comunque prima di febbraio, concedendo quindi ancora un po’ di tempo a Petraeus e soprattutto all’Iraq. C’è solo un problema. Anche a Teheran sanno perfettamente che i prossimi mesi saranno decisivi.
mondo
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Mosca si prepara a integrare nella federazione russa Abkhazia e Ossezia del Sud
Molto bastone e poca carota per Tbilisi d i a r i o
d e l
g i o r n o
Serbia alla pari filoeuropei e nazionalisti Nuovo testa a testa fra filo-europei e nazionalisti in Serbia, a meno di un mese dalle elezioni politiche anticipate in programma l’11 maggio. Un sondaggio dell’istituto Strategic Marketing accredita il 34,8 per cento dei consensi al blocco liberal-moderato del Partito democratico (Ds) del capo dello Stato, Boris Tadic, nella lista “Con Tadic per l’Europa”. Al Partito radicale (Srs) di Tomislav Nikolic, forza cardine dell’opposizione ultranazionalista fondata dall’imputato per crimini di guerra Vojislav Seselj, andrebbero il 34,7 per cento dei consensi. Crescono fino a sfiorare un inatteso 9 per cento gli ultraliberali dello Ldp di Cedomir Jovanovic, possibile stampella di Tadic e tiene, oltre il 13 per cento dei suffragi, anche il blocco conservatore del Partito democratico di Serbia (Dss) del premier uscente, Vojislav Kostunica fresco di rottura col Ds, ritenuto da molti osservatori ormai prossimo a un’intesa con lo Srs di Nikolic.
Nucleare, niente accordo con l’Iran
di Fernando Orlandi on era difficile osservare come la Georgia rischiasse di pagare il conto del Kosovo. Quello stato, infatti, rimane uno dei banchi di prova su cui il Cremlino esperimenta una serie di operazioni attive. L’esito del vertice Nato di Bucarest, giunto nel momento della transizione dei poteri da Vladimir Putin a Dmitrii Medvedev, ha messo altra carne al fuoco. Per l’opposizione, guidata dal cancelliere tedesco Angela Merkel, il presidente George W. Bush non è riuscito a fare accedere Georgia e Ucraina al Membership Action Plan.
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Ora la nuova mossa del Cremlino. La Nezavisimaya Gazeta, ha rivelato che Putin si appresterebbe a firmare un decreto elaborato dal ministero degli Esteri “Sulle direzioni fondamentali dello sviluppo delle relazioni della Federazione Russa con Abkhazia e Ossetia del sud”. Uno degli ultimi atti siglati da Putin prima della scadenza del suo incarico presidenziale. A breve distanza dal riconoscimento dell’indipendenza (per quanto sotto tutela) del Kosovo, Mosca ritiene essere arrivato il momento, sfruttando cosi anche la fine del mandato di Bush che intende uscire dalla scena con le relazioni americano-russe al bello. Per i tre candidati alla Casa Bianca la questione non è di nessun rilievo. L’Iraq è uno dei pochi temi di politica estera delle primarie. Il decreto del presidente russo prevede l’autorizzazione ad aprire rappresentanze dei ministeri e degli organi dello Stato russo nelle due repubbliche secessioniste. Il pretesto sarebbe la protezione dei propri cittadini,
ma è stata la Russia stessa a creare il casus belli. I peacekeepers russi, invece di assumere il ruolo imparziale a cui sono preposti, rilasciano il passaporto russo alla maggior parte dei cittadini.
Gli scenari elaborati a Mosca per impedire l’accesso della Georgia alla Nato sono molteplici. Il ministro degli esteri Sergei Lavrov ha ammesso candidamente che non si rinuncerà ad alcuna mossa possibile (provocando tra l’altro una inusuale richiesta di precisazioni e spiegazioni da parte della Nato). Fra le possibili iniziative vi è la stipula di un accordo di
Entro il sette maggio, un decreto presidenziale permetterà a Mosca di creare legami di fatto con l’amministrazione delle due entità separatiste difesa militare con i due territori secessionisti ricalcato su quello in essere fra Washington e Taipei; l’aumento dei cosiddetti peacekeepers (potrebbero triplicare il loro numero); il ridispiegamento di truppe russe nella base di Gudautu (al momento inattiva, ma le cui infrastrutture e l’aeroporto sono intatte) e la riapertura della base navale (che può anche ospitare sommergibili) di Ochamchire. Ma se questi sono scenari allo studio, nelle ultime ore Mosca ha intrapreso varie azioni, un attivismo su molti fronti che non
preannuncia nulla di buono per il piccolo vicino. Dopo un duro scambio fra il rappresentante di Mosca e quello di Washington, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con Risoluzione 1808, ha rinnovato ancora una volta, fino al 15 ottobre, il mandato alla più che decennale missione dei propri osservatori in Georgia (Unomig). A margine del dibattito, l’ambasciatore americano Zalmayy Khalilzad ha dichiarato alla stampa che è elevata la preoccupazione di Washington per le azioni Mosca che bypassano il legittimo governo di Tbilisi e minano la sovranità e l’integrità territoriale dello stato. A queste dichiarazioni ha risposto l’omologo russo Vitalii Churkin: gli Usa non comprendono il conflitto che oppone Akhazia e Georgia e i due territori secessionisti hanno il diritto legittimo di ottenere il riconoscimento dell’indipendenza.
In contemporanea il Ministero degli esteri russo ha annunciato (peraltro il testo non risulta accessibile nel sito web) quanto ci si stava attendendo: l’inizio dei rapporti formali di Mosca con Abkhazia e Ossetia del sud, al fine di «prestare assistenza giuridica alle loro popolazioni e ai cittadini russi che vi risiedono», cioè a coloro cui i militari russi hanno fornito i passaporti. A decidere l’iniziativa è stato Putin. Il presidente georgiano, Mikhail Saakashvili, ha convocato una riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza per discutere della “provocazione” di Mosca. Alla Georgia, in realtà, non restano che reazioni verbali. Che altro potrebbe fare Tbilisi? La Nato e l’Unione Europea, invece, che faranno?
I colloqui sul programma nucleare dell’Iran che si sono tenuti a Shanghai fra i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania, non hanno raggiunto un accordo su un piano in grado di far ripartire i negoziati con Teheran. «Possiamo dire che abbiamo raggiunto un accordo sui contenuti principali - ha detto ai giornalisti il viceministro degli Esteri cinese He Yafei - ma non tutti i problemi sono stati risolti». Era la prima volta che un incontro simile si teneva in Cina, Paese corteggiato dall’Iran, che finora si era tenuto lontano dai riflettori.
Parigi, cittadinanza onoraria al Dalai Lama Il Dalai Lama “cittadino onorario” di Parigi. A volerlo è il sindaco socialista Bertrand Delanoe che lunedì lo proporrà al consiglio della città per «rendere omaggio a un combattente per la pace». Delanoe intende così salutare «il sostenitore instancabile del dialogo tra i popoli». Il capo spirituale dei tibetani in esilio ha vinto nel 1989 il Nobel per la pace.
Gas iracheno per l’Europa Rifornimenti iracheni per cinque milioni di metri cubi all’anno a partire dal 2010-2011. Questo il risultato di un incontro tra il presidente Ue, Barroso, e il primo ministro di Bagdad Nuri al-Maliki. Il capo della commissione europea ha detto che l’Unione punta al «partenariato startegico» con Paese del golfo. Quest’anno l’Ue ha fornito 76 milioni di euro di aiuti tecnici a Bagdad.
L’Aja smentisce Carla Del Ponte L’ex procuratore capo del tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia ha ricevuto una nuova critica per quanto affermato nel suo libro apparso recentemente. Non vi sarebbero prove del traffico di organi cui, secondo Carla Del Ponte, sarebbero coinvolti importanti uomini politici del Kosovo. Questa dichiarazione è stata fatta dal portavoce del nuovo procuratore del tribunale, Serge Brammertz, agli organi di stampa olandesi.
Calorosa accoglienza di Bush al Papa Benedetto XVI e George Bush hanno messo l’accento sul fatto che fede e religione devono essere alla base dell’agire politico. «Una democrazia senza valori corre il rischio di perdere l’anima», ha affermato il Pontefice. Mentre Bush con la mente rivolta alla lotta contro il terrorismo ha detto che in un mondo dove «si utilizza il nome di Dio per giustificare atti di terrore e morte», dobbiamo ribadire che Dio significa amore.
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speciale educazione
s e gu e da l l a p r i m a
n particolare, il riconoscimento, dopo anni di denegazione ideologica, che le riforme non servono più perché, in teoria, sarebbero già state varate. Il problema è soltanto avere la forza e la competenza di tradurle in pratica. Per la verità, infatti, nell’ultimo decennio, si sono approvate riforme di struttura molto importanti: l’autonomia (1997), la parità giuridica tra scuole pubbliche statali e non statali (2000), il rinnovato Titolo V della Costituzione che rivoluziona il tradizionale quadro dei poteri sulla scuola, la prima legge repubblicana dal 1948 di “norme generali sull’istruzione e di livelli essenziali di prestazione per l’istruzione e formazione professionale” (n. 53/03), l’unica legge che ha preso sul serio il Titolo V. Ma tra deformazioni, ostruzioni, ritrattazioni e furori di parte troppo è rimasto soltanto sulla carta. Cosicché oggi ci troviamo in mezzo al guado di un fiume impetuoso. Con il brivido di non poter più tornare alla vecchia riva, ma con la paura di non riuscire a guadagnare la nuova.
I
C i t r o v i a m o i n m e z z o al guado per gli aspetti istituzionali. Sembrava che il sistema di istruzione e di formazione dovesse, come era lecito aspettarsi dopo 60 anni di democrazia repubblicana, congedarsi dallo statalismo centralistico prima liberale ottocentesco e poi fascista per improntarsi al principio di sussidiarietà (artt. 2, 5 e 118 della Costituzione e legge n. 53/03). Il centro che governa e controlla. La periferia, ovvero le scuole e gli enti locali che gestiscono con le rispettive, riconosciute autonomie. Il cammino si è interrotto. Ormai siamo alle furbizie del centro per continuare a mantenersi il monopolio della gestione di tutto il sistema, per nascondere la propria letterale incapacità tecnica a governare per “norme generali e livelli essenziali di prestazione” e, soprattutto, a controllare la qualità del sistema e degli apprendimenti degli studenti. Ci troviamo in mezzo al guado, inoltre, anche per gli
Socrate
Il nuovo governo non può tenere l’istruzione in mezzo al guado. È tempo di vincere tutte le resistenze e di procedere verso il cambiamento
Avanti così e la scuola finisce come l’Alitalia di Giuseppe Bertagna aspetti ordinamentali. Sembrava che si dovesse costruire un sistema educativo di istruzione (liceale e universitario) e di istruzione e formazione tecnico-professionale (secondario e superiore) tra loro di pari dignità educativa e culturale, nonché interconnessi. Con le ultime due finanziarie, siamo invece tornati alle tradizionali filiere gerarchiche del secolo scorso a livello secondario (licei, istituti tecnici, istituti professionali e formazione professionale) e, nel segmento superiore, si è fatto abortire il tentativo di costruire, a fianco dell’università, una solida alta formazione professionale legata al territorio e alle imprese, di cui peraltro cresce sempre più il bisogno. Ci troviamo in mezzo al guado, infine, anche per gli aspetti organizzativi e didattici.
Sembrava che dovessimo abbandonare i paradigmi centrati sulle rigidità e sulle uniformità delle disposizioni per l’insegnamento per passare a quelli centrati sulla flessibilità e sulla diversità personalizzata dei percorsi d’apprendimento sebbene per raggiungere risultati formativi equivalenti, da accertare con rigore. Invece, non è così. Si continua come prima.
S t a r e a l u n g o in mezzo al guado, però, è la scelta più pericolosa che si possa fare. Si è sicuri di essere travolti dalla corrente e di affogare. Tornare indietro non si può più, anche a volerlo. Non resta che andare avanti. Ma come, viste le resistenze esistenti non solo sorde e perfide, ma anche rumorose e dichiarate? La prima leva per arrivare a riva, in ordine di
importanza e di priorità, è l’immediata funzionalità di un Sistema Nazionale di Valutazione degno di questo nome e davvero indipendente. La cosa forse peggiore della politica scolastica degli ultimi due anni è stata la sospensio-
rotto. Adesso diventa urgente concluderlo bene. E con alti livelli di scientificità, perché sia percepito come una risorsa affidabile per i compiti di tutti: Stato, scuole autonome, Regioni, famiglie, società. La seconda leva sembra,
Le tre proposte per arrivare a una riva sicura riguardano le famiglie e gli insegnanti ne dei provvedimenti varati a questo scopo dal governo di centro destra. Per fortuna, lo stesso centro sinistra, con il Quaderno Bianco, è poi giunto, in articulo mortis, a pentirsi, e a riprendere un cammino improvvidamente inter-
adesso, proprio per dare un colpo d’ala al cambiamento, quella di assicurare alle famiglie le condizioni economiche per scegliere liberamente tra scuola pubblica statale e scuola pubblica non statale. I ricchi già lo possono fare. È
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LETTERA DA UN PROFESSORE
LA LEZIONE COME PRESUPPOSTO DELL’APPRENDIMENTO di Giancristiano Desiderio na volta si diceva preside, oggi si dice dirigente scolastico. Chi è un dirigente scolastico? Un burocrate. Persona seria, per carità. Svolge con scrupolo il suo lavoro fatto di carte, leggi, circolari. Insomma, burocrazia. Se potesse anche valutare il lavoro dei docenti e magari scegliere i migliori professori per la scuola che guida sarebbe per davvero un “dirigente scolastico”. Diciamo pure, per utilizzare una parola impegnativa un educatore. Perché il punto è proprio questo: a capo delle scuole italiane - dunque degli istituti educativi dell’Italia - ci sono per legge dei burocrati, non degli educatori. Gli esempi permettono di capirsi meglio. Da quanto tempo i presidi che dirigono le scuole non entrano in classe a svolgere una lezione? La stessa domanda sembra stravagante. Come se fosse incomprensibile. Perché mai un preside dovrebbe fare lezione? C’è stato un tempo, tanto tempo fa, in cui il preside veniva dall’aula e all’aula ritornava. Sostituiva l’insegnante assente, faceva lezione, faceva sentire la sua presenza nelle classi. Funzioni e lavori che gli consentivano di far senti-
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per le famiglie sotto un certo reddito che è urgente renderlo possibile. Può essere intelligente, al proposito, impiegare il modello lombardo della dote assegnata ad ogni studente per i libri, per le rette, per i trasporti e così via.
Si p o s s o n o p e rf i n o assumere altre strade più ‘statalistiche’ care al centro sinistra, se fossero le uniche su cui può convergere la mediazione politica. Come diceva Mao, tuttavia, è indispensabile che finalmente il gatto mangi il topo. Questo provvedimento, infatti, otterrebbe quattro effetti strategici. Da un lato, responsabilizzare le famiglie e spostare la loro attenzione sulla qualità della formazione più adatta ai figli. Non c’è del resto scuola che tenga senza esplicita cooperazione e collaborazione della famiglia.
Dall’altro costringere lo Stato progressivamente più a governare e a controllare, che a voler continuare a gestire in proprio la scuola. In terzo luogo, spingere le scuole pubbliche statali e non statali ad una reale competizione sul merito dell’offerta formativa e degli apprendimenti degli allievi. Infine, stimolare l’iniziativa sociale sussidiaria. L’Italia ha troppo poche scuole pubbliche non statali rispetto a tutti i paesi Ocse. È necessario che la società civile (cooperative di genitori, privati, enti locali e morali) torni ad interessarsi di educazione e ad investire risorse ed energie in essa. La terza leva è costituita dall’emergenza “formazione iniziale e reclutamento dei docenti”. Anche qui è stato poco sensato eliminare nell’ultima finanziaria l’art. 5 della legge
n. 53/03 senza dire come si intendeva sostituirlo. Si è assistito, infatti, all’incredibile decisione di affidare la definizione di una tra le più importanti “norme generali sull’istruzione” non al Parlamento della Repubblica, ma al capriccio del Ministero di turno. Speriamo che ora il nuovo Governo usi con saggezza questo potere, magari proprio reintegrando la sostanza dell’abrogato art. 5 che, per la prima volta, avrebbe permesso ai migliori laureati magistrali per l’insegnamento di entrare in ruolo a 25 anni, non alla media di 42 come accade oggi; avrebbe creato le condizioni per istituire, inoltre, sempre per la prima volta, una carriera dei docenti e, per ultimo, avrebbe potuto avviare il meccanismo per la chiamata diretta dei docenti da parte delle scuole autonome.
re la sua autorevolezza sia sugli alunni sia sui docenti, oltre ad avere un più sicuro polso della situazione della vita della sua scuola. Oggi il preside è confinato in presidenza e da quel luogo extrascolastico - quasi extra-territoriale - ha il compito di dirigere la scuola valutando numeri, iscrizioni, pre-iscrizioni, abbandoni, bocciature, promozioni, debiti, crediti, Pof e Popoff. Perché la scuola, si dice, è autonoma. La scuola è soprattutto vita scolastica: insegnamento. E’ l’insegnamento che forma sia gli allievi sia i professori. Il preside per essere effettivamente un “dirigente scolastico” deve essere il primo degli insegnanti. Il compito di un preside non può essere quello di ritenersi un manager, bensì quello di controllare il lavoro dei professori, di valutare i risultati, di favorire il merito, sia degli alunni sia dei docenti . Non c’è un “piano dell’offerta formativa” senza una verifica della qualità delle lezioni e un controllo dei risultati. Ma verifiche e controlli non possono avvenire attraverso consigli, collegi, scartoffie ma solo con l’unico mezzo che l’uomo ha inventato per la scuola: assistere alle lezioni.
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Socrate La ricerca muore senza investimenti speciale educazione
L’Università ha bisogno di risorse e rigore nei conti
di Pier Luigi Calzolari i sono due questioni che ogni discorso sull’università italiana deve assumere come punti di partenza. La prima è la qualità della ricerca italiana, che in massima parte è il prodotto dei dipartimenti universitari e che è eccellente: il numero dei lavori con alta citazione nelle riviste mondiali più qualificate riferito a quello dei ricercatori vede il nostro paese nella pattuglia di testa. Almeno sotto questo profilo, dunque, l’università italiana assolve con molta dignità il suo compito primario. Lo fa in condizioni di lavoro sfavorevoli sotto il profilo sia delle risorse ad essa dedicate sia dell’attenzione che il paese generalmente dedica alla ricerca scientifica. Ancora per qualche tempo, tuttavia, l’università potrà essere considerata una delle fondamentali risorse per un progetto di fuoruscita dallo stato di torpore in cui versa l’Italia. Ancora per qualche tempo, si deve dire, perché la cro-
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ricerca. Non credo che siano chiare a molti le dure conseguenze delle non-scelte operate in questi anni in tema di università e ricerca: diciamo la verità, quanti sanno e quanti, sapendolo, sono preoccupati per il fatto che non riusciamo a trasferire in Italia la conduzione di grandi piani europei per l’impossibilità di garantire adeguate infrastrutture di accoglimento? Quanti sanno che in tema di infrastrutture per la ricerca tutti i paesi europei ci hanno già ampiamente superato? E soprattutto quanti hanno capito che il corpo forte della ricerca italiana è fornito dalle università e dagli enti pubblici di ricerca e che prescindere da questi è soltanto una colpevole illusione? E’ a valle di queste premesse che deve svilupparsi una severa analisi dello stato delle nostre università. Nello scorso agosto avevamo salutato con sincera speranza la presentazione del Patto per l’Università ad opera dei Ministri Mus-
In tema di infrastrutture gli atenei italiani sono i più arretrati d’Europa nica assenza di una qualche attenzione, salvo il continuo e vano rovistare attorno a stati giuridici e ordinamenti didattici, condannerà al ripiegamento anche i centri più brillanti della ricerca nazionale.
So bene che l’argomento delle risorse viene considerato da molti poco polite e rapidamente archiviato con la giaculatoria che “il problema sta altrove”. Invece, il problema sta innanzi tutto qui: c’è bisogno urgente di investimenti nella ricerca, nelle infrastrutture per la ricerca, nel sostegno ai centri più attivi nei programmi europei, anche per arrestare il drenaggio dei nostri giovani migliori da parte dei paesi più avvertiti, fenomeno che diventerà imponente tra breve quando gli Stati Uniti dovranno rimpiazzare i ricercatori asiatici richiamati nei loro paesi da possenti piani di sviluppo della
si e Padoa Schioppa, ma è bastato qualche mese e l’assedio collettivo alla Finanziaria per ridurre a un simulacro quella nobile intenzione. Il principio di risorse aggiuntive a fronte di un impegno per la qualità e il rigore è rinviato a data da destinarsi. Pur in una condizione che le costringe ad arrampicarsi sugli specchi per far fronte alle esigenze più immediate le università non possono ignorare l’appuntamento col tema del rigore e della qualità. Non basta più proclamare la disponibilità a sottostare alla valutazione di un’agenzia indipendente, anche perché è difficile rimuovere il sospetto che in realtà si speri sui tempi eterni delle decisioni politiche. Non basta più, perché siamo stanchi di assistere come puri spettatori all’elaborazione di piani non di rado stravaganti cui siamo chiamati a contribuire a cose fatte e con chio-
se di pura decorazione esterna. C’è l’assoluto bisogno che il sistema universitario italiano assuma una decisa funzione pro-attiva, anticipando con coraggio e severità ipotesi di riforma sulle questioni strategiche del futuro dell’educazione superiore in Italia, delle forme di governo, della ricerca scientifica e dei giovani, dell’eliminazione degli squilibri nella ripartizione delle risorse, nonché delle garanzie sul rigore dei conti. Aquis (Associazione per la Qualità delle Università Italiane e Statali) nasce per sollecitare il sistema universitario – e innanzi tutto la Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) – a muoversi in questa direzione. Non intende contrapporsi alla Crui, di cui rispetta pienamente il ruolo istituzionale. Non sono un buon sintomo, invece, le risentite reazioni di molti rettori sorpresi per l’instaurarsi di una franca dialettica all’interno di un organo che non ha tratto gran vantaggio finora dalle compattezze cerimoniali.
È arrivato il momento di discutere le questioni fondamentali della riforma – a partire da quelle più spinose del rigore dei bilanci e della qualità di tutti i nostri servizi - di contarci, di decidere e di anticipare la politica con analisi e proposte. Chi è seriamente preoccupato per lo stallo in cui versa l’università e per il declino di una risorsa essenziale al riscatto del nostro paese non può vedere in Aquis una minaccia, bensì un’opportunità da sfruttare. Aquis non si è appuntata medaglie e non si è mai definita come “gruppo di eccellenza”, un’espressione dedotta dai titoli della stampa e quindi utilizzata per suscitare antipatia. Viceversa, proprio perché ci proponiamo di studiare e di avanzare proposte, era indispensabile aggregarci verificando l’esistenza di qualche significativa omogeneità. Che cosa succederebbe se Crui si mettesse alla testa di un ardito e rigoroso disegno di anticipazione della politica, mettendo in campo la competenza professionale che essa sola possiede? Accadrebbe che Aquis avrebbe raggiunto il suo obiettivo. Rettore Università di Bologna
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gionale per l’assolvimento dell’obbligo scolastico fuori dal monopolio berlingueriano dei licei, in base alle precorse Intese firmate da tutte le regioni (con le varianti tosco-emiliane) che la gestione Fioroni aveva riportato alla precarietà, assegnandogli solo una corta vita ad exhauriendum. Ora, se è vero che le elezioni dei giorni scorsi hanno realizzato il bipolarismo perfetto sognato da Galli Della Loggia da almeno trent’anni, è anche vero che le riforme Moratti e Berlinguer erano figlie della stessa stagione bipolare riformista, dividendosi lo stesso merito di restituire al Parlamento la parola sulla scuola che aveva voluto perdere, che la burocrazia e le riforme caotiche per via amministrativa gli avevano tolto e grazie alle quali ancora oggi contiamo oltre due milioni di studenti “sperimentali”, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, dell’Ocse per prima.
a vittoria della Casa delle Libertà alle elezioni del 13 e 14 aprile consente di prevedere ciò che sarà della scuola nel prossimo futuro.Va da sé che la prima preoccupazione di chi andrà alla Minerva sarà quella di adottare provvedimenti, anche empirici, per rispondere all’emergenza denunciata dall’Ocse, per riportarci in Europa con una pagella almeno pari a quella che, scorporando i dati, hanno incassato Lombardia e Trentino Alto Adige.
Differenze e similitudini delle riforme Berlinguer e Moratti
Per il resto, la politica scolastica del PDL, mutatis mutandis, parrebbe restare quello scritto nel pentagramma Moratti-Bertagna-Aprea. Nella pratica spetta al nuovo governo Berlusconi: consolidare l’applicazione della legge Moratti, già solidamente in corso nella scuola di base, e cominciare ad applicare la parte che riguarda l’istruzione secondaria superiore, sulla quale spenderemo qualche parola fra poco, per evidenziare come per una destra liberale e cattolica e un centrosinistra depurato dalle ideologie i punti di incontro, se non alla base, esistono nel percorso. Non dimentichiamo che sia la riforma Moratti sia la riforma gramsciana in versione Raicich di Luigi Berlinguer appartengono alla stes-
di Nicola D’Amico
L
I passi indietro di Fioroni sa stagione parlamentare riformista, che ben altri buoni frutti avrebbe potuto dare se non fosse stata inquinata da ideologie e campagne d’odio mediatiche che si spera condannate dalla storia per sempre, anche se bene hanno fatto Tremonti ed Aprea a spendere una parola di rispetto per i movimenti di fatto extraparlamentarizzati, che nella scuola hanno un consistente brodo di coltura. Al Pdl si presenta una priorità, sul piano “architettonico” dell’ordinamento scolastico: sciogliere, con opportune varianti, il nodo dell’istruzione tecnica, la cui licealizzazione, comune ai due schieramenti politici principali del Paese, non piace alla
Confindustria, che, mentre per altre materie è rimasta a guardare, per la scuola non ha fatto mancare, in campagna elettorale, il suo sostegno morale ai competenti esponenti del Partito delle Libertà, certa di incontrare una sponda disponibile a un incontro delle idee.
In quanto alla sindrome da “Lega Nord”che sta generandosi nel milieu politico, non si sa quanto per l’“al lupo, al lupo”tipico di chi perde, in materia di scuola teoricamente non dovrebbero esserci sorprese: la riforma del titolo V della Costituzione mette nelle mani dei federalisti un potenziale di intervento non solo potente, ma an-
che chiaro: a cominciare dal trasferimento alle regioni dell’organizzazione alla implementazione della sussidiarietà, cioè del potere delle autonomie, da quella amministrativa locale a quella scolastica dei singoli istituti; alla gestione del personale. L’unica novità potrebbe essere il contrario: che le Regioni siano tutt’altro che bramose del piatto che, da tempo, del resto, hanno davanti. E ciò non tanto per frugalità di potere, ma per la paura di assumersi responsabilità morali e finanziarie “ch’anco tardi a venire, non siano gravi”. Intanto, si potrà satabilizzare quel “secondo canale”, quello dell’istruzione professionale re-
Non stiamo dicendo che le riforme Berlinguer e Moratti siano simili. Ci mancherebbe. Berlinguer, come Gramsci, si preoccupava più di formare il “cittadino” che delega a uno Stato taumaturgico, la Moratti rispondeva con l’educazione integrale della “persona”, che allo Stato delega solo quando non può farne a meno, ultimo cerchio della sussidiarietà. Berlinguer rileggeva le Carte laiche dei diritti umani, la Moratti sillabava il Vangelo senza citarlo e metteva la parola fine sulla risorgimentale querelle circa la cosiddetta “libertà di insegnamento”, letta come libertà delle famiglie di scegliere tra scuola statale e scuola non statale diventate veramente, anche finanziariamente, pari. Berlinguer, come da Quaderni di Gramsci, accorciava la scuola elementare tradizionale per prolungarne la vita oltre misura nella secondaria, Moratti non poteva starci: lo stesso Berlinguer era rimasto vittima di “fuoco amico”, anche per questo. Ma nelle due riforme analogo il mantenimento dell’esame di Stato, al termine del primo come del secondo ciclo, analoga l’attenzione per i disabili e per il reclutamento e la formazione degl’insegnanti, con preoccupazioni maggiori nella riforma Berlinguer per il mantenimento dei posti di lavoro nello stesso tempo in cui li tagliava. Analoga l’attenzione per l’educazione degli adulti, per le nuove tecnologie, per le lingue comunitarie. Presenti, più sviluppate e incidenti nella riforma Moratti, forme di stage e di alternanza scuola-lavoro. Non è molto, ma è sempre qualcosa per degli uomini (o donne) di buona volontà.
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economia
Troppi ostacoli per quella che per gli ambientalisti è l’unica alternativa al petrolio (e al nucleare)
La chimera di un’economia all’idrogeno di Carlo Stagnaro idrogeno energia del futuro? No, we can’t. A dispetto di grandi (ed eccessive) aspettative, è improbabile che nel medio termine conosca una diffusione commerciale.
L’
L’idrogeno, pur essendo un elemento molto abbondante, non esiste in natura in forma pura: deve essere estratto da altre sostanze, quali i combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) o l’acqua. Questo processo non soltanto è molto costoso, ma richiede l’impiego di una certa quantità di energia. Quindi – e questo è il primo,
nella sua estrazione, trasporto, stoccaggio, distribuzione e utilizzo. In ciascuno di questi passi le conoscenze tecniche sono abbastanza avanzate, ma ancora non è stato trovato l’“uovo di colombo” che possa farne, per esempio, una reale alternativa al petrolio nei trasporti. Probabilmente le celle a combustibile sono destinate ad acquisire sempre più rilevanza nei motori delle nostre automobili, ma la strada è ancora lunga. Fossilizzarsi sulle soluzioni esistenti, e insoddisfacenti, sarebbe un errore. Inoltre, anche la sicurezza non può passare in secondo piano, ed è tutto da di-
che pochi potrebbero permettersi, e forse nessuno sarebbe disposto a farlo. Senza significativi progressi sotto questo profilo, l’idrogeno non ha alcuna speranza: anche perché per cavarlo da altre sostanze occorre spendere energia, una parte della quale non sarà restituita, e quindi l’equazione sarebbe in perdita. Terzo, per produrre idrogeno occorre disporre di grandi quantità di energia. E non può essere di natura fossile, altrimenti si replicherebbe a monte il problema che si intende risolvere a valle (la dipendenza dai combustibili fossili).
del diesel, a parità di contenuto energetico». Sareste disposti a spendere per una quantità di idrogeno equivalente a un litro di carburante, una cifra tra 6,5 e 40 euro? Ovviamente c’è una via d’uscita: l’idrogeno da nucleare. Ammesso che vengano superati i limiti impliciti dell’idrogeno, e che la barriera principale sia dunque a monte, il nucleare è l’unica fonte primaria di energia che è, al tempo stesso, economicamente competitiva e sostenibile dal punto di vista ambientale (in quanto priva di emissioni di gas serra). Se fosse
I tempi sono molto lunghi e i costi alti. Servono tecnologie più efficienti per l’estrazione, lo stoccaggio e la distribuzione. E necessità di grandi quantità di energia per la produzione. A meno che non si usi come vettore l’atomo maggiore e più radicato mito da sfatare – non è una fonte primaria di energia, ma un vettore: non può sostituire altre fonti, ma rimpiazzarle in certi usi. E perché ciò avvenga, devono verificarsi almeno tre condizioni, su cui dovrebbe concentrarsi l’attenzione. La prima è lo sviluppo di tecnologie più efficienti in tutti gli stadi della filiera dell’idrogeno:
mostrare che un’economia all’idrogeno potrebbe garantire le stesse condizioni di un’economia al petrolio. In secondo luogo, e specularmente, occorre lavorare sugli aspetti economici. Oggi l’idrogeno, anche al netto dei problemi di diffusione, non rappresenta un’opportunità vantaggiosa. In ragione degli alti costi, viaggiare a idrogeno è un lusso
La tesi secondo cui idrogeno e costituirebbero rinnovabili un’accoppiata perfetta, molto comune tra gli ecologisti, non tiene: le rinnovabili sono inefficienti e costose e non potrebbero garantire condizioni di economicità. «L’idrogeno da rinnovabili», scrive Leonardo Maugeri in Con tutta l’energia possibile, «costerebbe da cinque a trenta volte più della benzina e
L’economista americano Jeremy Rifkin
possibile disporre di una vasta capacità di generazione di elettricità atomica, allora la contraddizione di fondo dell’idrogeno sarebbe rimossa. Tuttavia, ciò appare improbabile: sebbene gli orientamenti dell’opinione pubblica stiano cambiando, le ostilità contro il nucleare sono ancora troppe. E perfino i pochi che sostengono apertamente questa tecnologia, devono fare i conti con la consapevolezza che, al momento, il tema non è ancora nell’agenda. Quindi, neppure preso in considerazione dalle imprese. E questo finisce per gravare anche sull’idrogeno.
Il grave limite dell’idrogeno, infatti, non è economico o tecnologico ma, per così dire, ideologico. Se una fonte energetica non viene valutata per le sue caratteristiche economiche e tecniche, ma soltanto perché – in un dato periodo – incrocia qualche confusa rivendicazione politica, si finisce per danneggiarla. Finché questa tara non sarà rimossa, l’idrogeno difficilmente potrà rappresentare un’opportunità reale, anche nel lungo termine, perché sarà sempre al centro di una contesa elettorale tra supporter e avversari.
economia
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Mirafiori, Powertrain e Pomigliano: si acuisce il conflitto tra Fiat e tute blu, che chiedono migliori condizioni
La primavera calda di Marchionne d i a r i o
d e l
g i o r n o
Alitalia, Berlusconi riapre ad Air France Dopo gli annunci bellicosi delle scorse settimane, Silvio Berlusconi riapre le porte ad Air France, come possibile acquirente di Alitalia. Il premier pectore, pur non citando il vettore transalpino, ha spiegato di guardare ancora con interesse, a un’ipotesi in cui la nostra compagnia entri in un’alleanza internazionale senza essere penalizzata. Nessun commento da Parigi, intanto continuano a studiare il dossier Bruno Ermolli, superconsulente incaricato della cosa dal Cavaliere, Carlo Toto di Air One e la russa Aeroflot.
Europa nella morsa di inflazione e supereuro Le uscite di alcuni membri del board della Bce – che hanno smentito tagli ai tassi – non hanno certamente aiutato. Fatto sta che l’Europa deve fare i conti con due allarmi non da poco: l’euro che ieri ha sfiorato quota 1,60 dollari e l’inflazione che a marzo, stando alle rilevazioni di Eurostat, ha toccato il 3,6 per cento. Ben oltre le previsioni dello stesso istituto statistico (3,5) e il 3,2 registrato a febbraio. Il commissario all’Economia, Joaquin Almunia, ha invitato i governi a non accendere la spinta salariale.
di Vincenzo Bacarani
TORINO. Il periodo aureo di Sergio Marchionne in Fiat sta conoscendo un appannamento. Anche perché l’azienda sembra dover fare i conti con un problema che sembrava superato: la tensione sindacale. E l’esplosione delle proteste finisce per accentuare problemi che il Lingotto non ha risolto: la bassa produzione e la mancanza di nuovi modelli se si fa eccezione per l’Alfa MiTo (unica novità per il 2008 e riproposizione mascherata di un modello base del Biscione) o progetti di nicchia (per il 2009) come la nuova mini-Cinquecento e la nuova Lancia Delta. Per non parlare dell’ambizioso progetto di produrre il Biscione negli Stati Uniti (secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt, la Chrysler sarebbe interessata a un accordo con Fiat in questo senso).
Dopo aver “resuscitato un morto”, come tengono a sottolineare alcuni esponenti sindacali, l’amministratore delegato del Lingotto si trova di fronte a una serie di problemi non indifferenti. Il primo è rappresentato proprio dai sindacati che non sono disposti a fare sconti sull’introduzione dei turni il sabato e la domenica per sfruttare al massimo gli impianti. Non solo, a Pomigliano le organizzazioni dei lavoratori hanno aperto un altro fronte di conflitto con veri e propri blocchi degli ingressi per la merce, dopo la decisione dell’azienda di esternalizzare la logistica mettendo fuori 300 dipendenti. Alla Powertrain di Mirafiori l’accordo sui sabati lavorativi approvato dai sindacati è stato bocciato con
un referendum dai lavoratori e ora la Fiat a Torino da un lato è costretta a ricorrere a giovani con contratto interinale e dall’altro a organizzare i turni in maniera diversa (è previsto dal contratto) per applicare le sue disposizioni. Insomma, dopo il “flirt” dell’anno scorso i rapporti tra vertici Fiat e sindacati si vanno deteriorando. «Diciamo», spiega Bruno Vitali, responsabile settore auto della FimCisl, «che si stanno verificando tensioni a macchia di leopardo. Ma non tutto va in senso negativo perché ad esempio abbiamo raggiunto un importante accordo a Termini
I sindacati temono l’uscita del manager e gli chiedono di terminare il risanamento dell’azienda. Prossimo banco di prova le trattative sull’integrativo Imerese sui turni di notte con ben 250 assunzioni». Ma più che di cauto ottimismo, in questo caso si può parlare di cauto pessimismo.
C’è poi un altro fronte all’orizzonte: il rinnovo dell’integrativo che interessa 80mila persone. «Entro giugno», aggiunge Vitali, «presenteremo la piattaforma all’azienda e chiederemo soldi, parecchi soldi, visti gli ottimi risultati conseguiti l’anno scorso e resi pubblici nell’assemblea degli azionisti». Al momento Fim, Fiom, Uilm e Fi-
Le tute blu dell’Ilva bloccano Genova smic stanno cercando di presentare una piattaforma unitaria e non vogliono sbilanciarsi sulle richieste economiche che presenteranno all’azienda, ma tanto per dare un’idea dell’aria che tira alla Piaggio la richiesta dei sindacati per il rinnovo dell’integrativo è di 2.200 euro all’anno (183 euro al mese).
Si preannuncia una primavera calda per il Lingotto, sempre che le diverse anime del sindacato riescano a mettersi d’accordo sulla piattaforma: il problema è rappresentato dalle richieste – spesso massimaliste – della Fiom. Ma ci sono anche altre questioni sul tavolo: lo spin-off del settore auto, cioè lo sganciamento totale dal gruppo con una propria identità e una propria quotazione in Borsa. Per i sindacati può essere positivo se servirà, per esempio, a valorizzare Iveco. «Il problema principale», continua Vitali, «è rappresentato da un calo consistente del mercato dell’auto, cui fa da contrappunto un salario medio basso dell’operaio metalmeccanico. Montezemolo e Calearo si lamentano per gli stipendi dei loro lavoratori. Beh, tutto questo sembra proprio paradossale». Nonostante i conflitti in corso, i sindacati sperano che Marchionne non si faccia affascinare da Ubs e dalle sirene svizzere. L’Ad di Fiat «deve» secondo le organizzazioni dei lavoratori, completare il rilancio dell’azienda. «Anche perché», conclude Vitali, «facciamo fatica a vedere in prospettiva un ricambio in grado di assicurare una continuità alla sua gestione».
Ancora tensioni all’Ilva di Genova Cornigliano. I lavoratori ieri hanno di nuovo incrociato le braccia e bloccato alcune importanti direttrice del capoluogo ligure. Le proteste sono scaturite dopo la sospensione dela trattative tra aziende e sindacati. Alla base del contendere la non conferma di sette contratti di apprendisti ad altrettanti giovani lavoratori.
Mediaset: cresce la raccolta pubblicitaria L’assemblea dei soci di Mediaset ha votato ieri il bilancio del 2007, che ha registrato con un utile netto di 481,6 milioni di euro. Deliberata la distribuzione di un dividendo di 0,43 euro per ciascuna azione. Nominato come presidente del collegio sindacale, Alberto Giussani, rappresentante dei fondi italiani. L’Ad Giuliano Andreani ha annunciato che «nel primo trimestre la raccolta pubblicitaria è cresciuta del 3 per cento». Intanto Fedele Confalonieri e Piersilvio Berlusconi hanno confermato il nome di Riccardo Ruggiero tra i candidati alla guida di Endemol.
Al Ram di Roma Ontani e Benassi Al RAM-radioartemobile di Roma si conclude la mostra "Camere #5" che, nelle tre stanze del progetto, presenta, da gennaio, le opere: Ready Made Mistico (2007) di Vettor Pisani, RagaRugaRogo(1998/2006) di Luigi Ontani e Il vuoto (2007) di Emilio Prini. In occasione del finissage della mostra, i tre protagonisti del quinto appuntamento di Camere ospitano, nelle loro rispettive sale, i lavori di due importanti artiste Elisabetta Benassi e Donatella Scalesse e della poetessa Mimma Pisani.
La conferma di Faissola divide l’Abi L'esecutivo dell'Abi ha designato per la presidenza il numero uscente Corrado Faissola. Ma non è stata una decisione unanime: si sono astenuti i rappresentanti di Unicredit (Carmina Lamanda) e di Bnl (il suo presidente Luigi Abete). Nei mesi scorsi, il numero uno di Piazza Cordusio, Alessandro Profumo, aveva chiesto pubblicamente una riforma di Palazzo Altieri, quindi ieri il suo rappresentante si è mosso di conseguenza. Questa scelta avrebbe spinto Abete a chiedere una soluzione condivisa. E ottenuto un diniego a un rinvio, si è astenuto.
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omenica scorsa, 13 aprile, non è stato soltanto il giorno delle elezioni politiche italiane, ma anche quello in cui il sesto canale nazionale della tv spagnola ha mandato in onda Viva la Repubblica, un programma diverso dal solito per ricordare la fine della guerra civile nel 1939. Diverso perché la conclusione è diversa: invece di vincere i nazionalisti di Franco, vincono i repubblicani, la coalizione della sinistra. Insomma, un interessante e intelligente esperimento di ”ucronia”, così come tempo fa ne fece un paio la nostra Rai Educational. Su questo tema giovedì 10 aprile si è sviluppata una trasmissione su Radio Rai nel programma Radio3 Mondo, da cui sono emersi alcuni spunti che meritano un commento. Intanto, uno generale: la possibilità ormai accettata da numerosi storici accademici di poter prendere in considerazione come ipotesi di lavoro e di verifica la “storia fatta con i se”. Un bel passo avanti rispetto al rigetto aprioristico che aveva tenuto banco sino a poco tempo fa quando imperava il famoso detto “la storia non si fa con i se”. Stranamente non è stato d’accordo un ascoltatore che l’ha buttata sul drammatico: fare di queste ipotesi alternative è addirittura “pericoloso” perchè mette in discussione la storia codificata: quel che è fatto è fatto, inutile riparlarne, starci ad arzigogolare sopra. Posizione eccessiva e demagogica voler impedire, quasi criminalizzandole, le speculazioni su quel che avrebbe potuto accadere e invece non accadde, un vero soggiacere alla dittatura del Fatto Compiuto, un accettare la visione hegeliano-marxista di una predestinazione scritta nei cieli che spinge inesorabilmente la Storia (con la esse maiuscola) verso un destino immutabile da sempre.
cultura suo specifico sviluppo economico e alla fine, secondo gli autori, ci si sarebbe trovati negli anni Duemila con Aznar presidente della repubblica e Zapatero come primo ministro…
D
Ecco il secondo punto. L’ucronia, cioè il non-tempo, così come l’utopia è il non-luogo, è un termine ed una ipotesi avanzati prima nel 1857 e poi nel 1876 dal filosofo francese Charles Renouvier proprio in nome dell’anti-storicismo e dell’anti-idealismo, e come tali aspramente redarguiti a suo tempo da Benedetto Croce. Ma è proprio questo il senso di fondo di un nuovo modo di osservare la Storia, come conferma uno storico inglese moderno, Niall Ferguson, che presentando una sua antologia sul tema (Virtual History, 1997, inedita in Italia) ha detto: «Il no-
Dalla Spagna all’Italia, ecco la moda di rileggere il passato immaginando percorsi alternativi
Ucronia: la storia che si fa con i se di Gianfranco de Turris A sinistra una delle immagini simbolo della guerra civile spagnola: la foto di Robert Capa che immortalava un miliziano repubblicano; a sinistra i bombardieri italiani chiamati i ”Falchi dele Baleari” mentre sorvolano il cielo di Tarragona nel dicembre del 1937
Come sarebbe il mondo oggi se Giulio Cesare fosse sfuggito all’agguato? Se avesse vinto Hitler? O i repubblicani in Spagna? Sono le sliding doors della storia. Una materia affascinante stro è un approccio non deterministico, anti-marxista: cerchiamo di ricreare la natura caotica della esperienza umana per dimostrare che il corso della Storia non è mai certo». Passato in mano ai romanzieri questo approccio ha assunto anche vesti narrative intriganti, affascinanti e molto coinvolgenti, ma per esprimere che cosa? Spesso, infatti, molte di queste opere sono contraddittorie: in realtà sostengono che è meglio che la stopria non sia
andata diversamente perché l’alternativa sarebbe stata peggiore. Si tratta quindi di una falsa ucronia perché per così dire essa “parteggia”per il Fatto Compiuto. Invece si dovrebbe essere o neutrali ed oggettivi, o addirittura prospettare che gli effetti sarebbero stati in un certo senso migliori (ma non certo in base alle categorie morali attuali, ma rispetto a quelle imparziali della Storia stessa) in confronto alla realtà nota. E’ quanto hanno fatto gli spagno-
li: una Spagna Repubblicana alla scoppio della secondo guerra mondiale si sarebbe trovata a fianco della Francia e contro la Germania, sarebbe stata invasa, avrebbe subito l’occupazione, la guerra si sarebbe conclusa come si sa, l’avrebbe vista seduta al tavolo dei vincitori ed avrebbe ottenuto l’abbandono da parte degli inglesi della Rocca di Gibilterra, il dopoguerra avrebbe visto un
Infine, il terzo problema è lessicale: si è detto di ucronia e si è detto di Storia Virtuale, ma ci sono anche altri termini usati dagli anglosassoni: ImaginarY History, Alternate History, Counterfactual HistoRy e anche Allohistory (dal greco). Radio3 Mondo ha scelto Storia Controfattuale, la traduzione di un termine lessicalmente brutto, cacofonico, un neologismo molto english. Personalmente preferisco Storia Alternativa che è da tempo usato soprattutto in ambito fantascientifico ed è lineare ed efficace. Il professor Gabriele Ranzato, lo storico presente alla trasmissione, è del parere che “controfattuale”, facendo riferimento all’andar contro i fatti assodati, rispecchi meglio la situazione perchè in realtà nei vari esperimenti saggistici e narrativi non vi è mai stata descritta una vera Storia alternativa a quella che conosciamo. Non sono d’accordo perché, nei limiti di una trattazione breve o lunga, ben precise situazioni alternative alla nostra realtà sono state descritte con grande minuzia e precisione. Certo, non vi potrà mai essere una alternativa esatta tanto quanto il Reale, altrimenti correremmo il rischio dei cartografi di Borges che per essere precisissimi crearono una mappa grande quanto il territorio da mappare! “Alternativo”, ma anche “virtuale” indica invece bene l’immagine della possibilità, dell’evento ipotetico, del fatto diverso da quello noto, e non solo l’andare contro di esso, senza troppe astruserie. Al di là delle pignolerie, però (ognuno poi scelga quel che sembra meglio), l’importante è che questa mentalità non schiava del determinismo e del Fatto Compiuto prenda piede e che simili esperimenti continuino in Italia, anche a livello editoriale.
cultura
17 aprile 2008 • pagina 19
Esce Tradizioni in subbuglio, il saggio di Mary Ann Glendon sui pericoli del nichilismo
Senza comunità la democrazia muore di Francesco Rositano
Nella foto, con Benedetto XVI, Mary Ann Glendon docente di diritto comparato all’Università di Harvard, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e neo-ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede
radizioni in subbuglio (Rubbettino, 2007) è la prima raccolta in lingua italiana degli scritti di Mary Ann Glendon, docente di diritto comparato all’Università di Harvard, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e neo-ambasciatrice degli Stati Uniti presso la Santa Sede. Il libro era stato dato alle stampe quando nessuno, nemmeno l’editore, immaginava che la Learned Hand Professor of Law si sarebbe trasferita da Harvard a Roma per un ricoprire un incarico tanto prestigioso. Il volume è composto da una serie di saggi pubblicati in tempi diversi su riviste americane e trattano temi di grande complessità: i supporti culturali della democrazia, il fondamento dei diritti umani, la libertà religiosa, i diritti delle donne, l’egemonia dei giudici, la funzione delle leggi. Uno sguardo attento e critico ai temi giuridici che non tralascia mai l’attenzione per aspetti ad essi molto legati come il contesto culturale, sociale e politico dei paesi in questione.
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La prassi metodologica che permea tutti gli scritti della Glendon è quella comparativa: immergersi in ambiti di riferimento diversi e a partire da questi tornare a guardare con uno sguardo critico e fresco a sé e al proprio Paese. D’altra parte, come spiega nel testo, citando una frase di Fernand Braudel: «Vivi a Londra per un anno e non saprai molto degli inglesi. Tuttavia, grazie al confronto, capirai subito e con una
certa sorpresa alcune delle caratteristiche tipiche della Francia che prima non avresti mai potuto comprendere perché la conoscevi fin troppo bene». Tra le pagine si respira una grande predisposizione alla scrittura, frutto dell’esperienza giornalistica maturata dalla Glendon nei luoghi della sua infanzia, nel Massacchussetts dell’Ovest, quando lavorava nel quotidiano locale. L’uso di metafore, la chiarezza espressiva, il guizzo creativo e l’uso occasionale di forme colloquiali inserite al punto giusto, facilitano la comprensione dei concetti più difficili. Inoltre, nonostante i saggi siano stati scritti in epoche diverse e solo in seguito raccolti in questo volume, c’è una sorta di fil rouge che lo attraversa. Una domanda silenziosa, ma allo stesso tempo insistente: può esistere una democrazia senza valori? Aveva ragione o no il filosofo Alasdair MacIntyre: «Credere nei diritti umani è come credere nelle streghe e negli unicorni». E ancora: il diritto è solo un semplice strumento per promuovere il potere o gli interessi personali? Una serie di interrogativi permeati dalla sensibilità cattolica dell’autrice, dalla spinta ideale che da anni
L’assenza di verità comuni è un rischio per la tenuta delle società occidentali
l’ha portata ad impegnarsi prima come avvocato volontario nel movimento dei diritti civili, poi come rappresentante diplomatico della Santa Sede in vari forum internazionali. Ciò che in questo libro la Glendon constata con una certa preoccupazione è l’indebolimento dei cosiddetti «vivai delle virtù civiche», quelle istituzioni intermedie della società – come la famiglia, il vicinato, le organizzazioni di volontariato, le chiese, i condomini, ecc – nelle quali si coltivano le virtù necessarie ad una sana vita civica: l’empatia, il sacrificio di sé, la solidarietà, la cooperazione ed un giusto equilibrio tra responsabilità e libertà. Nelle sue parole riecheggia il pensiero di Alexis de Tocqueville, autore del famoso saggio La democrazia in America. Per la Glendon i diritti, ancor prima di essere inseriti in norme scritte, nascono dalla cultura, non possono reggersi senza sostegni culturali e per essere effettivi devono diventare parte dello stile di vita di ciascun popolo. Eppure, nota con una certa amarezza l’autrice, queste tradizioni culturali, sale della democrazia, sono sempre più «messe in subbuglio» dall’oligarchia, dall’espansione del mate-
rialismo, dalla presenza di lobby e gruppi di interesse che giocano un ruolo decisivo nella formazione delle leggi, senza tener conto della volontà della maggioranza dei cittadini.
Ecco il rischio individuato dalla neoambasciatrice americana in Vaticano: gli uomini e le donne che detengono posizioni chiave nell’amministrazione, nei partiti politici, nelle imprese, nei media, nelle fondazioni e così via sono spesso distanti dalle preoccupazioni del cittadino medio. I legami forti a persone e luoghi, fedi religiose, l’attaccamento alla tradizione e persino la vita familiare sono valori che tendono ad essere meno rilevanti per chi è al vertice piuttosto che per gli uomini e le donne la cui vita questi influenzano. Ciò provoca un aumento sostanziale della distanza tra governanti e governati, mettendo in pericolo anche l’esistenza stessa della democrazia, intesa come partecipazione di tutto il popolo alla vita pubblica. Il pericolo più grande resta, comunque, il nichilismo, cioè dell’assenza di un tessuto di verità comuni alle quali possano richiamarsi uomini di differenti origini e cultura. Verità comuni sulla base fondare dei diritti universali. Contro il nichilismo, la Glendon propone la sua ricetta: «Continuare a cercare, a battersi per questa fondamentale causa. E l’unica ragione affinché la ricerca possa proseguire è questa: nell’uomo esiste qualcosa di nobile che lo spinge a cercare».
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musica
17 aprile 2008 • pagina 21
Sempre più complessi i rapporti tra musicisti e case discografiche, tacciate di seguire «un modello di business superato»
Nasce il fai da te delle star di Alfredo Marziano era una volta l’artista sprovveduto e naïf. Quello che firmava a occhi chiusi contratti che lo buggeravano e che, in cambio di un piccolo anticipo in contanti, una chitarra nuova o una bella automobile abdicava spensieratamente a qualsiasi diritto sulle sue canzoni. Salvo pentirsene amaramente col passare degli anni. Episodi così stanno nella biografia di qualunque bluesman che si rispetti ma anche nel curriculum di grandi rocker come Springsteen, Tom Petty o John Fogerty dei Creedence, invischiati per anni in ragnatele legali che ne hanno messo a dura prova nervi e carriera. Acqua passata.
C’
Oggi anche l’ultimo degli esordienti si presenta al primo appuntamento in casa discografica fiancheggiato da manager e avvocato, e molti Dr. Jekyll del pop sono anche dei Mr. Hyde dallo spregiudicato senso degli affari. Il valore economico e commerciale di una rockstar, nel mercato globale, va ben oltre i dischi e i biglietti venduti: come ha capito il colosso della musica dal vivo Live Nation, capace di scippare all’industria discografica, in rapida sequenza, Madonna, gli U2 e Jay-Z con la promessa di farseli soci in joint venture che promettono di diventare altrettante macchine da soldi. In cambio di una compartecipazione agli introiti che derivano dalla loro attività, la multinazionale americana ha aperto generosamente i cordoni della borsa: 120 milioni di dollari per la Material Mum, 150 per il rapper afroamericano, 70 al quartetto di Dublino: non perché quest’ultimo valga di meno, ci mancherebbe, ma perché nel caso di Bono e compagni l’accordo si limita alla gestione dei tour mondiali, del merchandising, del fan club, del sito Internet e di altre attività di “marketing digitale”, ma esclude dischi e diritti d’autore che restano alla Universal Music. Proprio la casa discografica che Jay-Z si appresta a lasciare per intraprendere la nuova avventura. «I soldi non c’entrano, è questione di prospettive» ha spiegato, chissà quanto sinceramente, il re Mida dell’hip hop. «E’ che mi sono stufato di buttare dischi in un ingranaggio che non funziona più», ha aggiunto. «Quello che cerco og-
Come molti altri illustri colleghi, gli U2 (in alto) e il rapper Jay-Z (in basso) hanno deciso di «cambiare rotta» e lanciarsi nell’industria musicale che conta, mettendo in piedi nuove Case discografiche o diventando soci di Etichette già avviate gi è un nuovo modello di business». Eccolo accontentato, dal momento che Live Nation gli finanzierà album e concerti, gli pagherà l’uso dei copyright e lo sosterrà nelle sue molteplici attività imprenditoriali (un’etichetta discografica, una catena di locali, una marca di vodka) in cambio di una equa spartizione dei profitti: ed ecco spiegata, anche, la cifra monstre che la corporation di Beverly Hills si appresta a versargli senza battere ciglio. «Con Live Nation eravamo fidanzati da
dell’industria musicale è cambiato. Come artista e come donna d’affari, dovevo muovermi di conseguenza».
Qualcosa di simile fece anche Robbie Williams nel 2002, siglando un patto d’acciaio da 80 milioni di sterline con la EMI che oggi scricchiola in seguito al cambio di management ai vertici dell’azienda: il prototipo dell’artista pop che travalica il suo ruolo tradizionale per diventare un brand buono per tutte le occasioni (cinema, tv, pubblicità,
se pazze per il suo ranch dei sogni, Neverland, anche il paperone Michael Jackson è precipitato sull’orlo della bancarotta, costretto a ipotecare la quota di edizioni Sony/ATV che proprio grazie ai diritti sulle canzoni di Lennon & McCartney avrebbe dovuto garantirgli una pensione dorata. Ma oggi anche i divi sono scesi dalle nuvole, e i businessmen che li incrociano ai party e nei salotti del jet set hanno imparato a prenderli sul serio: nella City londinese è nata una
Passati i tempi degli sprovveduti ingenui e un po’ naïf, oggi anche l’ultimo degli esordienti si presenta già al primo appuntamento dai produttori con a fianco manager e avvocati tanti anni, era ora che convolassimo a giuste nozze» ha spiegato invece Bono. Che dal canto suo, nei ritagli di tempo che gli concedono i suoi impegni di musicista e di portavoce delle cause del Terzo Mondo, siede nel consiglio di amministrazione di una venture capital che prende il nome proprio da una canzone degli U2, Elevation Partners. Ancora più pragmatica Madonna, che nell’ottobre scorso ha aperto la strada e gli occhi ai colleghi annunciando l’inversione di rotta: «Il paradigma
sponsorizzazioni), generatore multiplo di introiti da condividere con i partner finanziari e commerciali. I Beatles, primi in tutto, lo furono anche nel cullare un sogno imprenditoriale ammantato di idealismo hippy e per ciò stesso votato al fallimento: l’etichetta Apple, e l’omonima boutique londinese all’angolo tra Baker e Paddington Street, affondarono in fretta. Lo stereotipo della pop star spendacciona e dilapidatrice ha resistito ancora fino a pochi anni fa: a forza di processi, operazioni di chirurgia plastica e spe-
finanziaria, Ingenious Media, che investe nei progetti musicali di artisti come Peter Gabriel, i Prodigy o gli UB40, abbandonati dalla discografia tradizionale o vogliosi di autodeterminazione economica. Tanto che diventa sempre più improbabile un aneddoto come quello che Nick Mason, batterista dei Pink Floyd, racconta nel libro auto-
biografico Inside Out (Rizzoli libri illustrati, 2004). Desideroso di acquistare una casa nuova, nel 1973 il musicista inglese si recò in banca per chiedere un prestito. Alla domanda di cosa potesse offrire a garanzia del mutuo, Mason fece cenno alle royalty di The Dark Side Of The Moon, l’hit album che in quel momento era numero uno in America.“Niente di più concreto?”, replicò lo sprovveduto funzionario squadrando il capellone dai baffoni spioventi che gli si parava davanti. Oggi lo licenzierebbero in tronco.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Quali donne vorreste nel nuovo esecutivo? AL DI LÀ DELLE UFFICIALI PRESCELTE, CHE GIOIA NON VEDERE PIÙ BINDI E MELANDRI Dunque saranno quattro i ministri donna del prossimo governo Berlusconi. A prescindere da quali saranno le prescelte, che piacere sapere di non veder più pontificare Rosy Bindi e le ”chicchissime” Pollastrini,Turco, Melandri e Lanzillotta. Ma veniamo al quesito di liberal. Quali vorrei? Subito dico Giulia Bongiorno al ministero di Grazia e Giustizia. So che essendo la Bongiorno avvocato la cosa darebbe molto fastidio alla Magistratura, ma considerando che tanto la casta giudiziaria ricomincerà comunque a protestare e ad ostacolare l’operato di un qualsiasi Guardasigilli nominato da Berlusconi, tanto vale incaricare un ministro di polso. E la Bongiorno mi pare all’altezza sia dal punto di vista del carattere sia da quello della professionalità. Altra ministra la Prestigiacomo. Dopo il buon comportamento nel precedente governo Berlusconi, la siciliana merita una promozione: al ministero della Salute. Lì la vedrei proprio bene. Alla energica Mariastella Gelmini, in verità io assegnerei il ministero degli Interni, ma poichè tutti i giornali dicono che il posto è già occupato da un maschietto (Pisanu?) diamole quello della Istruzione. La sua energia è
LA DOMANDA DI DOMANI
Quali scenari si aprono adesso con la scomparsa della sinistra dal Parlamento? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
una garanzia; i nostri ragazzi dovranno sudare se vorranno andare avanti e questo mi sembra giusto. Infine confesso di avere un debole per Michela Vittoria Brambilla. E’ talmente operosa e simpatica,nonché intelligente, che qualsiasi ministero Berlusconi voglia affidarle, opererà bene. Ne sono sicuro. Grato per l’attenzione concessa, ringrazio e saluto cordialmente.
Luigi Moretti - Torino
VORREI BRAMBILLA, BONIVER, CARFAGNA E CINQUE ANNI DI GOVERNO STABILE Evviva ”le ministre”. Soprattutto perché non saranno di sinistra. Il futuro ma ben individuato presidente del Consiglio ha promesso che saranno quattro. Ma non ha detto quali saranno (a parte la Prestigiacomo) e quali saranno i dicasteri loro assegnati. Allora divertiamoci a dare consigli a Berlusconi. Caro Silvio, alla Prestigiacomo affida il ministero dell’Istruzione. E’ giovane e carina e quindi saprà convincere gli studenti, anche quelli bardati di kefiah, che bisogna studiare e sudare per avere un domani lavorativo. Alla Carfagna, anche lei giovane e carina, affida il ministero del Lavoro. Alla sua grazia, chissà, qualche concessione potrebbe arrivare anche da quel cerbero di Epifani. Magari qualche ora di sciopero in meno. Alla Brambilla il ministero delle Attività produttive. Nessuno più di lei è dinamico e produttivo. Ha doti organizzative da vendere. Alla Boniver infine, potresti affidare il ministero della Difesa; con quel ”cipiglio” metterà sull’attenti tutti. Questi sono consigli, certo scherzosi, di un elettore del ”Silvio Nazionale”, che spera in un quinquennio un po’ meno tormentato.
Riccardo Romiti - Latina
SALTAMARTINI ALLE PARI OPPORTUNITÀ, BONGIORNO ALLA GIUSTIZIA, MELONI AI GIOVANI Giorgia Meloni al ministero dei Giovani e dello sport. Stefania Prestigiacomo alla Famiglia. Giulia Bongiorno, Grazia e giustizia. Adriana Poli Bortone al ministero della Salute. E perché no, Barbara Saltamartini alle Pari opportunità.
LA GRANDE FUGA DEI VOTI Nell’Udc l’effetto Prodi ha prodotto da una parte una perdita di voti verso l’alleanza elettorale del Popolo della Libertà per effetto della propaganda del voto utile, e dall’altra un guadagno di voti di chi al centro, pur non votando Veltroni, non se la sentiva di votare la coppia Berlusconi e Fini, che durante la campagna elettorale per questo motivo si è nascosto. Nel microcosmo dell’Udc in buona sostanza c’è tutta l’evoluzione avvenuta nel macrocosmo generale dei movimenti di voto del Paese. In parte anche il successo della Lega può essere attribuito a questo movimento da sinistra all’area moderata, come per il Pd, da cui la sconfitta della Sinistra radicale. Ha funzionato la tecnica del genocidio ideologico mascherato dal bisogno di semplificazione politica. Prova ne sia al nord l’elettore ha potuto “sfogare“ il suo voto non sul partito principale ma sull’alterativa pur all’interno della stessa coalizione. Lo stesso commissario Ghedini di Fi in Veneto ha ammesso questo risultato negativo e pare si sia per questo dimesso: Pdl e Lega alla pari al 27-28%. In Friuli
DANZA PER L’ACQUA I sei guerrieri Masai che la scorsa settimana hanno partecipato alla maratona di Londra con lo scopo di raccogliere fondi per un villaggio in Tanzania colpito da siccità, indossando abiti tradizionali, scudi e lance
LA LEGA VOLA ALTO E L’UDC HA RETTO BENE I risultati li sappiamo qui da noi a Treviso la Lega ha travolto tutto e tutti togliendo voti anche alla Pdl che ha diversi punti in meno rispetto alla somma Fi e An di due anni fa. Di una cosa mi rallegro: la scomparsa dal parlamento della sinistra massimalista. Avrei preferito che l’Udc potesse essere decisiva ma almeno ha retto all’urto dello scontro con i due grandi contenitori. Sono convinto che la scelta veltroniana di accogliere i radicali abbia influito sulla clamorosa sconfitta del Pd. Era l’occasione buona per togliersi dai piedi i vari Pannella che inquinano, con le loro battaglie anti-vita, il nostro Bel Paese. Spezzo una lancia in favore della Lega Nord: nella nostra regio-
dai circoli liberal Katia Bordasco - Milano
la stessa situazione. Fi e An sommavano il 40% nel 2006 rispetto il 33% delle regionali vittoriose del 2008 e il calo sarebbe stato ancora più ampio se la Pdl non avesse espresso il candidato di FI Presidente. Tondo ha vinto su Illy per merito di Udc (6,15%) e Pensionati (1,56%) pari a 7,71%: 53,82% Tondo contro 46,18% Illy per un delta del 7,64%. Naturalmente il voto “governativo” in fuga da Berlusconi dove non c’era la Lega non poteva essere così evidente perché l’elettore non aveva scelta. L’elettore quindi è stato chiuso dentro un recinto dove qualsiasi fosse il suo movimento, difficilmente poteva scappare dall’elite politica responsabile degli ultimi 15 anni di governo. L’Udc si è trovato in mezzo a questo crocevia di flussi elettorali e per l’impegno profuso si è salvato con caparbietà, a parte un pizzico di sfortuna e la scarsa convinzione nel progetto della Costituente di Centro, che deve essere largamente inclusiva di tutte le tradizioni cristiane, democratiche e liberali, a condizione che condividano una base comune di virtù e valori universali per l’uomo. Nel territorio durante la campagna elettorale questo
ne il partito sta cambiando sostanza, con l’estromissione della vecchia guardia ”dura e pura” in favore di una più giovane realtà. La democratizzazione procede, lenta e difficile, ma c’è.
Luca Rossetto ”Arcade TV” - Treviso
NON C’È ALCUN LIMITE ALLO ”STUPORE BINDIANO” La Bindi ha detto di essere sorpresa dal successo della Lega Nord; dopo la sorpresa che aveva provato per il suo poco più che 10 per cento alle primarie del Pd ormai possiamo dire che non c’è limite allo strampalato stupore bindiano. La Francescato non entrerà in Parlamento e di questo ci dobbiamo dispiacere, perché i suoi angeli eco-compatibili ci sarebbero potuti tornare utili.
Massimo Bassetti
progetto speranza non è arrivato. Ma il voto comunque in fuga da FI, ad esempio al Nord, verso la Lega si allenterà al nascere delle prime delusioni governative, com’è stato nel passato. Rimane insomma da dimostrare che il nuovo corso politico nel centrodestra sia adeguato a risolvere il “male oscuro” del nostro Paese o, per la sua struttura politica, addirittura non ne diventi invece nuova linfa vitale. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione nazionale dei Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Un titolo indegno i «Fiori del male» Signore, vi ho letto e riletto e ho bisogno di dirvi quanto questi «Fiori del male» siano per me dei Fiori del bene e mi affascinino, e dirvi anche come vi trovi ingiusto verso quei fiori, spesso così delicatamente profumati da odori primaverili, per avergli dato un titolo indegno. E che ve ne voglio per l’aria a volte avvelenata da non so quale emanazione dal cimitero di Amleto. Se la vostra salute vi permettesse di venire a vedere come sono impegnato a nascondere le mie ferite, venite mercoledì 29 alle quattro del pomeriggio. Saprete, leggerete, toccherete con mano come vi ho letto, ma quel che non saprete è con che piacere leggo ad altri, a poeti, le vere bellezze dei vostri versi, ancora troppo poco apprezzati e giudicati con troppa leggerezza. Venite da me. Alfred de Vigny a Charles Baudelaire
SCIENZIATI PAZZI E SENATORI A VITA Metti la bioscienza sul piedistallo e i tenaci biotecnologi senza limiti e vincoli ed ecco la conoscenza dedita al catastrofismo. Pare che ora vogliano resuscitare i mastodontici re della preistoria: i mammut. I positivisti, gli scientisti e gli illuministi di casa nostra già esultano. Al posto dei bestioni ancestrali, avremmo preferito che i dottori della scienza si fossero esercitati in un’impresa davvero titanica, quella della ricerca della perduta serietà e delle giuste priorità. Se poi proprio avanzasse loro del tempo libero e volessero giocare, potrebbero pensare a come riattivare il respiro e il pensiero in quei giganti dei nostri senatori a vita. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani
IL BALLOTTAGGIO A ROMA È COMUNQUE UNA VITTORIA Dunque è ballottaggio tra Rutelli e Alemanno. La vittoria del centrodestra acquista quindi sempre più valore politico, dato che nella Capitale si dava per stravincitore il (ri)candidato del Pd già al primo turno. Da elettrice del Pdl, ovviamente, non posso che esultare
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
17 aprile 1521 Martin Lutero viene scomunicato
per questo testa a testa romano. Anche se confesso di non nutrire poi questa grande simpatia o profonda stima nei confronti dell’ex ministro delle Politiche agricole. Il mio voto è stato più un’attestazione di protesta, un vero e proprio voto ”contro” il centrosinistra, che in particolar modo a Roma ha dimostrato di non saper amministrare senza produrre effetti collaterali devastanti per cittadini residenti e cittadini extracomunitari. Insomma, ho una tiepida speranza che Alemanno, se vincerà il ballottaggio, possa risollevare la città. Se dovessimo al contrario avere di nuovo Rutelli come sindaco, spero in un’opposizione dura in Campidoglio. E comunque, aver fatto trascorrere a Rutelli e al suo staff romano una nottata non proprio serena, già questa, a Roma, rappresenta una vittoria dall’enorme valenza politica. Proprio come il ballottaggio tra Antoniozzi e Zingaretti in Provincia. Nessuno avrebbe mai davvero immaginato che il centrosinistra non potesse conquistare lo scranno più alto di palazzo Valentini. Eppure. Cordialmente ringrazio.
Alessia Melia - Roma
1524 Giovanni da Verrazzano raggiunge il porto di New York 1790 Muore Benjamin Franklin, scienziato e politico statunitense 1885 Nasce Karen Blixen, scrittrice e pittrice danese 1912 Nasce Benigno Zaccagnini, medico e politico italiano 1918 Nasce William Holden, attore statunitense 1924 Viene fondata la MetroGoldwyn-Mayer (MGM) 1961 Crisi dei missili di Cuba/Baia dei porci: inizia l’invasione di Cuba 1964 La Ford Motor Company presenta l’auto Mustang 1969 Il presidente del Partito Comunista Cecoslovacco, Alexander Dubcek, viene deposto 1986 Muore Marcel Dassault, ingegnere francese 1991 Muore Giovanni Francesco Malagodi, politico italiano 2003 Il Santo Padre Giovanni Paolo II pubblica la Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia sull’Eucarestia nel suo rapporto con la Chiesa
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
PUNTURE Con la nascita del Pd riformista, la sinistra è scomparsa in maniera radicale.
Giancristiano Desiderio
“
Il mondo sta prendendo una direzione delirante, forse è il caso di assumere un punto di vista delirante JEAN BAUDRILLARD
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Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di ISRAELE - 60 ANNI: IL DIRITTO A ESISTERE A chi domanda come si possa negoziare con Hamas, che non riconosce lo Stato di Israele, Sergio Romano risponde dicendo che il diritto ad esistere di Israele è appunto la materia del contendere, per cui non può pretendere che venga concesso prima del negoziato (così al Tg de La 7 del 13.03.08): sarebbe come pretendere che gli interlocutori «arrivino nudi al tavolo delle trattative» (Corriere della Sera, 27.03.08). Dunque ciò che è in discussione non è – come noi ci illudevamo – la legittimità come interlocutore di un movimento stragista, apertamente antisemita e dalla vocazione genocida qual è Hamas. Ciò che è in discussione è il diritto ad esistere dello Stato ebraico nato sessant’anni fa, in base a una decisione della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite, sulla terra dove «il popolo ebraico nacque», dove «si era formata la sua identità spirituale, religiosa e politica». (...) Dunque secondo Romano, lo Stato di Israele deve ancora guadagnarsi il diritto di esistere. La brutta notizia è che probabilmente ha ragione. «Il punto da capire – si legge in un editoriale del Jerusalem Post (24.03.08 ) – è se il conflitto ruoti intorno alla questione dei confini o a quella dell’esistenza. Se è sui confini, allora si tratta di premere sulle parti perché arrivino a un accordo negoziato. Se invece al cuore della questione c’è ancora un rifiuto di accettare Israele entro qualunque confine, allora il vero ostacolo che blocca la pace è questo rifiuto». D’altra parte, se fosse solo questione di concordare un confine tra Israele e stato palestinese, come si potrebbe spiegare la rabbiosa aggressività anti-israeliana di un movimento
libanese, e non palestinese, come Hezbollah? Come si potrebbe spiegare lo stolido rifiuto dei leader sauditi e di altri stati arabi di incontrare i leader israeliani quando il presidente palestinese Abu Mazen li incontra normalmente? E come si potrebbe spiegare il rifiuto arabo del 1948 e la conseguente ventennale occupazione araba di territori palestinesi? (...) Chi detesta l’esistenza stessa di Israele e vuole tutta la terra, perché mai dovrebbe negoziare un ritiro israeliano dai territori, oggi che Israele si è già ritirato dalla striscia di Gaza e ha già accettato la soluzione due popoli-due stati? Ecco perché, oggi, al centro della polemica anti-israeliana non figura più tanto il reato di “occupazione”, cui anche gli israeliani vorrebbero porre fine, bensì l’accusa di “apartheid”. La denuncia di un’occupazione, nota Sever Plocker (YnetNews, 3.01.08), evoca naturalmente il ritiro dell’occupante all’interno dei suoi confini, quali che siano. Viceversa, la denuncia di un apartheid invoca automaticamente un ribaltamento istituzionale. L’occupazione si risolve spartendo il territorio fra due stati; un regime di apartheid non si risolve spartendo la terra, si risolve capovolgendo gli assetti di potere. I nemici d’Israele hanno tentato invano di distruggere la sovranità ebraica in Medio Oriente con mezzi militari, economici, propagandistici, diplomatici, terroristici. Ora, a sessant’anni dalla quell’indipendenza legalmente proclamata e strenuamente difesa, vorrebbero vendere a Israele qualcosa di cui semplicemente non dispongono: il diritto ad esistere come stato sovrano e democratico, sede nazionale del popolo ebraico.
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PAGINAVENTIQUATTRO L’ansia di matrimoni sempre più sontuosi e bizzarri
L’invidia manda i vip di Roselina Salemi una nuova malattia. Si chiama “sindrome da competitive wedding”, ovvero l’ansia di organizzare un matrimonio fastoso più originale degli altri. Basta pensare a Cécilia Ciganer-Albeniz (ex Sarkozy) e al neo-marito, il pubblicitario Richard Attias, per capire che nessuno si salva: matrimonio newyorkese nella Raimbow Room del Rockfeller, tutti vestiti in Versace Atelier, gli accessori di lui e dei vari figli intonati agli abiti di lei, un trionfo di rimandi violetto e cipria. Cocktail e cena di Cipriani per 150 invitati, obbligati a salire su limousine dai vetri oscurati per tutelare la privacy. Uno sfarzo che le sbrigative nozze di Sarkò con Carla Bruni non hanno avuto. La sindrome non è uno scherzo. Può provocare ansia, insonnia, nausea. Può far evaporare l’aspetto romantico della vicenda. Può essere economicamente rovinosa, tanto da rendere accettabili le follie narrate da Sophie Kinsella nel suo “I love shopping in bianco”. Il virus, inglese, è stato isolato dalla “TK Weddings”, società specializzata nel far convolare a nozze nel modo migliore. E, dopo aver contagiato il 59 per cento delle sposine nel Regno Unito, si è rapidamente diffuso. Primo effetto collaterale: i matrimoni, sempre più rari, devono essere veri e propri eventi e non possono costare meno di 90 euro al minuto.
È
Tanto per cominciare, in assenza di un’isola di proprietà, anche piccola (è il caso della famiglia Borromeo), ci vuole almeno un castello, come dimostra il matrimonio fra Gian Arturo Ferrari, direttore generale Libri del gruppo Mondadori ed Elena Bardin, festeggiato nella reggia sabauda di Venaria. Poi, i testimoni eccellenti. Benedetta Geronzi, (figlia di Cesare) e Bernabò Bocca (dinastia di albergatori), ne hanno schierati otto: per lei, tra gli altri, Francesco Cossiga. Obbligatorie le celebrity, anche se non tutti possono permettersi Elton John. Geronzi-Bocca avevano, oltre al gotha dei banchieri, Lorella Cuccarini, Edvige Fenech e Massimo Giletti. La marcia in più? Farsi un wedsite, il sito che racconta la storia d’amore e, oltre ad aggiornare gli invitati sui dettagli pratici, registra opinioni e raccoglie filmati. Per ora è davvero un’idea tecno-glamour, riservata a una cinquantina di coppie all’anno, ma Anna Bellezza, creatrice di nozzeweb.it, ci scommette. L’idea spiazzante? Il matrimonio eco-compatibi-
Elisabetta Gregoraci sposerà a giugno Flavio Briatore che le ha regalato un anello corredato da un diamante di 6 carati e smeraldi
A NOZZE
le, firmato Lifegate. Per neutralizzare l’impatto della cerimonia si mandano gli inviti su carta riciclata e si piantano alcuni ettari di foresta in Costarica. Il tradizionale però ha ancora il suo fascino e si presta a innesti creativi: strascichi lunghi sette metri, tulle, strass, torte multipiano tuttigusti, come le caramelle di Harry Potter, bouquet alla Christian Tortu, con rose e cavolfiori, fuochi d’artificio, curiosi accostamenti gastronomici, (sushi e caciocavallo alle nozze di Pellegrino Mastella, figlio di Clemente, e Alessia Camilleri), tonnellate di camelie, gar-
reggia, tenuta, isola degna dell’irripetibile occasione.
Chi si impegna veramente sono gli indiani. Il modello mediatico è il matrimonio tra la modella Liz Hurley e il miliardario Arun Nayar, con due settimane di festeggiamenti tra il Gloucestershire e il Rajastahan. Ma Lakshmi Mittal, il miliardario re dell’acciaio resta imbattuto: per il party di nozze della figlia Vanisha ha voluto addirittura Versailles. Anche se John Gray, psicologo-star, avverte che proprio i matrimoni più costosi sono drammaticamente a rischio: “Non resistono alla fine della fiaba, alla vita reale”. E fiaba significa location. Il Castello di Vincigliata? Quello di Cicognola? Di Bracciano? (Prezzi da capogiro, dopo Tom Cruise). Andrea Tessitore, amico e socio di Lapo Elkann, si è fatto andar bene Pantelleria. Matteo Fabiani , figlio del consigliere Rai e Irene Grazioli, sposi a Roma, hanno optato per un pranzo a Palazzo Taverna e un post-party serale alla Limonaia di Villa Torlonia. Lo chef Filippo La Mantia progetta le sue nozze in barca, al largo delle isole Eolie. La showgirl Elisabetta Gregoraci è in piena sindrome da competitive wedding. Sposerà Flavio Briatore, pare, il 13 giugno, e la cerimonia non può essere qualsiasi. Sta zitta, ma va per santuari in Calabria. Tanto che il sito “Soveratonews” ha lanciato un sondaggio: “Dove vorreste vedere Elisabetta in abito bianco? Risposte: “a Soverato” (ci è nata), “a Satriano, a Torre Ruggiero, Altro”. Chissà che ansia.
Lo sposalizio modello è quello tra la modella Liz Hurley e Arun Nayar, ma Lakshmi Mittal, il miliardario re dell’acciaio resta imbattuto: per il party di nozze della figlia Vanisha ha voluto Versailles. In Italia grande attesa per Briatore denie e gelsomini. Tre camion di solanacee e fiori d’aglio arabo per il matrimonio di Ilaria Tronchetti Provera con Anselmo Guerrieri Gonzaga a Capalbio. Un intero vagone di orchidee e gigli bianchi per Nicole Kidman, arrivata in Rolls per sposare Keith Urban. Va molto anche l’esotico, tendenza immortalata nel cinepanettone “Matrimonio alle Bahamas” dei fratelli Vanzina. Tobey Maguire, ex star di Spiderman, si è sposato in gran segreto alle Hawai, con la storica fidanzata Jennifer Mayer. Beyoncé e Jay-Z hanno scelto i Caraibi: pensano a “un evento hip hop”. Mentre la coppia Shakira-Antonio De la Rua, lei icona musicale, lui figlio dell’ex premier argentino, sposta di anno in anno la fatidica data perchè non c’è