QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Trionfo di Ratzinger a Washington
Benedetto XVI è diventato il Papa “americano”
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
di Michael Novak In una bella e soleggiata mattina di aprile, su un folto prato verde reso ancora più brillante dalla pioggia dei giorni scorsi, migliaia di americani hanno aspettato per quasi tre ore, felici, anche in piedi, l’inizio della cerimonia per la visita del Papa alla casa Bianca, applaudendo alle dichiarazioni “a caldo” del Presidente e di Benedetto XVI. Le loro parole erano sobrie e intrise di filosofia politica. Si sono soffermati sui principi filosofici che sono alla base dell’atteggiamento religioso nella vita pubblica, sul rapporto quotidiano con Dio di milioni di persone nel Paese, e sull’impatto sociale che ne consegue; hanno ragionato sulla necessità che il sentimento religioso si concretizzi nella compassione verso i deboli e i bisognosi - e questo è uno dei criteri filosofici fondamentali di una società giusta - ed entrambi hanno posto l’accento sulle radici della libertà come dono di Dio agli esseri umani, creati a sua libera immagine. Era evidente, appena sotto la superficie dei loro discorsi, il riferimento ad una filosofia dei diritti e della natura umana, della dignità di ogni singola persona, e dell’importanza della “cultura della vita”. Sia il Papa che il Presidente hanno esposto i propri pensieri con un calore inusuale, personale, il calore di due “fratelli” che hanno scoperto, con un po’ di sorpresa, di piacersi davvero. co nt i nu a a pa gi n a 1 0
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Palla al Centro
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80418
Rutelli e Alemanno lo corteggiano per il voto di Roma. Intanto decide con Veltroni un coordinamento delle opposizioni. Come si muoverà Casini tra Pd e Pdl?
alle pagine 2, 3, 4 e 5
nell’inserto Carte
Il successo della Lega
La secessione dolce di un Nord mai domo di Giuseppe Baiocchi Non può non apparire farsesca la sorpresa che esprime l’intero circuito mediatico (e accade ormai da vent’anni) per la riesplosione del voto alla Lega. Senza inseguire analisi sofisticate bastava leggere almeno il libro Così perdiamo il Nord dell’ex governatore Riccardo Illy.
pagina 8
A sessant’anni dalle prime elezioni libere d’Italia
Ricordate quel 18 aprile... di Aldo G. Ricci Attilio Piccioni Arturo Gismondi da pagina 12
VENERDÌ 18 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
71 •
Un governo difficile da formare
Enrico e Gianni Letta trattano
Lega ed Europa le prime spine di Berlusconi
Alitalia, corsa (a due) contro il tempo
di Antonella Giuli
di Giuseppe Latour
All’indomani della roboante vittoria, il leader del Pdl è alle prese con le richieste della Lega Nord e la grana del commissario Ue da nominare al posto di Franco Frattini.
Nella giornata di ieri, un vertice tra Gianni ed Enrico Letta, emissari di Pd e Pdl, per trovare una soluzione al prestito ponte vietato da Bruxelles per salvare la compagna di bandiera.
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pagina 19
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 18 aprile 2008
palla al
centro
Viaggio all’interno dell’Udc. Qual è il futuro del partito dei moderati?
Operazione “mani libere” di Errico Novi
ROMA. C’è un patrimonio appena acquisito a costo di sacrifici, e buttarlo via sarebbe insensato. È questa la considerazione fatta dalla maggior parte dei dirigenti dell’Udc. Il centro indipendente ha resistito all’uragano elettorale, ora bisogna difenderlo. Le lusinghe che arrivano dalle due coalizioni maggiori in vista del ballottaggio di Roma pongono una questione da risolvere, certo, ma rappresentano anche il segnale che l’area moderata può essere decisiva, che il tesoro accumulato è prezioso e non può essere sperperato un minuto dopo
l’autonomia politica del centro Mentre il Pdl e il Pd chiedono i voti centristi per il ballottaggio romano abbia un prezzo non irrilevante: «Pensiamo al ballottaggio Rutelli-Alemanno. Sappiamo che se dessimo un’indicazione per Rutelli direbbero che siamo diventati un partito di sinistra, se chiedessimo di sostenere Alemanno parlerebbero di riROMA. «L’opposizione sarà dura», avverte sostegno ad Alemanno e Antoniozzi, impegno torno all’ovile. Sono due letture Walter Veltroni. E sarà un’opposizione ragion- a favore di Rutelli e Zingaretti o indicazione fuorvianti, che non vanno avata, nel senso che Pd e Udc terranno una vig- agli elettori per la libertà di scelta. È quest’ulvalorate, ma abbiamo ben chiailanza comune sulle scelte del Pdl. «Abbiamo tima ipotesi quella preferita da Luciano Ciocro quanto sarebbe gratificante parlato della necessità di un coordinamento chetti, candidato sindaco che ha riportato essere decisivi, ed è chiaro che nei lavori parlamentari», ha detto il leader del oltre il 3 per cento dei consensi al primo turno. una forza di centro è decisiva Pd al termine dell’incontro di ieri con Pier Fer- Sul primo contatto Veltroni-Casini il Pd regisquando sceglie». Agli elettori si dinando Casini. Il quale ha spiegato a sua vol- tra comunque un avvio positivo, vista la popuò chiedere però solo una cota che non si può «andare avanti con i furori sizione condivisa sulle presidenze delle sa, sostiene Buttiglione: «Non ideologici» e nello stesso tempo ha espresso a Camere, che per entrambi i leader sarebbe un compromettiamo Veltroni la disponibilità a collaborare sulle bene se non fossero appannaggio della magla chiarezza della questioni per le quali in Parlamento bisonerà gioranza ma figure di garanzia, così come per Buttiglione: posizione di cenfronteggiare eventuali rigidità della maggio- la nomina del successore di Frattini a Brux«Ci siamo tro indipendente ranza. Nel faccia a faccia si è parlata molto elles, dove l’Udc vedrebbe benissimo Mario guadagnati che abbiamo guaanche del ballottaggio per il Comune di Ro- Monti.Veltroni incassa il primo sì di Casini sul una posizione dagnata. In quema. Anche Veltroni, come ventiquattr’ore pri- lavoro comune: «Noi abbiamo una posizione di centro sta fase dobbiama D’Alema, ha chiesto al leader dell’Udc di diversa, siamo nel Ppe, abbiamo una linea alindipendente, mo consolidarla e sostenere Francesco Rutelli. Casini ha ribadi- ternativa sia a Berlusconi che anche a Velnon possiamo rafforzarla, dal to quello che aveva già detto al vicepremier troni, ma oggi la campagna elettorale è finita comprometterla. voto è venuto fuouscente: «Saranno i nostri della Capitale a de- ed è naturale che si pensi a un coordinamento In questa fase ri un sistema non cidere con le primarie». L’appuntamento del- delle opposizioni», ha detto il leader dell’Udc. dobbiamo con due ma con l’Udc è stato spostato da venerdì a sabato Non un patto di consultazione ma un primo lavorare prossimo all’hotel Aran: nella mattinata ci contatto, un avvicinamento per iniziare a per consolidarla tre variabili. Hanno tentato l’elimisarà il dibattito, dalle 14 alle 19 gli ottocento gettare le basi di un confronto su come coore rafforzarla» nazione della delegati voteranno per una delle tre opzioni: dinare l’azione parlamentare. specie e non ci sola traversata. Ne è convinto Lo- no riusciti». renzo Cesa, che mette al di so- Luca Volontè ricorda innanzi- un’alternativa di centro alla si- dizioni della sua parte, assiste- dai problemi economici, che remo a un processo analogo». guarda a Silvio Berlusconi copra di tutto «l’obbligo che ab- tutto che «le alleanze si fanno nistra». L’Udc ha «messo la prima pie- me a una manna provvidenziabiamo nei confronti degli elet- prima del voto, a partire dai vatori: proseguire nel rafforza- lori programmatici. Nel caso Michele Vietti usa una chiave tra del centro moderato», dice le. Ma si aspetta anche che il mento e nell’ampliamento del- delle amministrative è indi- semantica simile a quella di l’ex sottosegretario all’Econo- Cavaliere faccia presto a risoll’area moderata di centro. Pos- spensabile anche una valuta- Buttiglione: parla di «investi- mia, «e se non raVietti: «Tutti siamo partire da una buona ba- zione sulle reali capacità del mento». E come tutti gli investi- gionassimo sul gli investimenti seri se, edificata grazie a persone candidato di attuare il pro- menti seri, dice, «anche il no- medio-lungo tervanno gestiti che hanno creduto nel nostro gramma. Ma in generale», dice stro va impostato sul medio- mine finiremmo sul medio-lungo progetto e che ci hanno pre- il deputato, «è indispensabile lungo termine. Abbiamo scelto per non dare sentermine. Teniamo miato, diversamente da quanto restare indipendenti: se l’eletto- di essere indipendenti e alter- so a quanto abil punto, è accaduto alla Sinistra arcoba- rato non fosse stato d’accordo nativi a Pdl e Pd e non possia- biamo fatto finonella maggioranza leno». Le scelte per le elezioni con questa nostra scelta ce lo mo disinvestire dopo le elezio- ra. Avremmo poemergerà amministrative sono un discor- avrebbe fatto intendere com’è ni. Anzi, dobbiamo avere pa- tuto saltare sul la divisione zienza». La pro- carro del vincitoso diverso, nel senso che «ci soCesa: «Abbiamo spettiva a cui re e passare subitra destra populista no valutazioni da fare di volta un obbligo e quel centro guarda l’Udc, to all’incasso, se in volta sulle persone», e il balverso gli elettori: moderato continua Vietti, «è fosse stata questa lottaggio nella Capitale fa anrafforzare l’area la costruzione fu- la nostra intendi cui noi siamo cora più storia a sé: «Stiamo semoderata la prima pietra» tura del centrode- zione: adesso guendo l’evolversi della situae vigilare stra, che com’è dobbiamo tenere zione», dice il segretario delsui valori vere i problemi. Se non dovesse avvenuto per il il punto». l’Udc, con con Pier Ferdinando per i quali riuscirci, il sistema tornerebbe centrosinistra fiCasini e gli altri vertici del parabbiamo chiesto nirà per dividersi A osservare con attenzione a essere instabile». E il centro tito ha fissato per sabato le priil consenso. in due tronconi: l’orizzonte ci si accorge che deve guardare proprio a quemarie con gli iscritti romani. In Sui temi etici da una parte la sulla legislatura incombe qual- sto, dice il deputato appena rieParlamento e fuori delle Camele coalizioni destra populista, che nuvola in più del previsto, letto, «alla tenuta dell’assetto re la linea è chiara: «Lavorare si sfalderanno, dall’altra il centro argomenta Francesco Pionati: bipolare o bipartitico che dir si per il centro indipendente, fare vedrete» moderato. Noi «C’e stato un voto che potrem- voglia: se dovesse reggere la da sentinella ai valori per cui ci siamo battuti: sui temi etici le coalizioni si sfalderanno, vedrete, e noi avremo modo di difendere i nostri principi», dice Cesa.
Non ha dubbi Rocco Buttiglione, che pure spiega come
Colloquio tra Pier e Walter su un coordinamento delle opposizioni
avvenuto per la sinistra radicale, ci avrebbe lasciato fuori dal Parlamento. Gli italiani vogliono sì meno forze politiche, ma chiedono anche che una di queste sia fuori dalle coalizioni. Adesso tocca a noi costruire
siamo quel centro moderato, ed è evidente che il discorso di prospettiva riguarda il dopo Berlusconi. A sinistra ci si è divisi tra radicali e riformisti. Quando salterà il tappo che ora il Cavaliere rappresenta rispetto alle contrad-
mo definire di disperazione: il successo così ampio del centrodestra, la punizione così severa inflitta alla Sinistra di Bertinotti, sono il segnale di un’Italia che vuole essere tirata fuori dai guai. C’è un Paese esasperato dalle difficoltà del quotidiano,
nostra posizione si indebolirebbe. Ma se abbiamo la pazienza di attendere, se restiamo sereni e tranquilli, potrebbero arrivare scosse ora inimmaginabili: tra i cittadini c’è un’attesa enorme, se il centrodestra dovesse tradirla l’attuale sistema entre-
palla al rebbe rapidamente in crisi». Sulla disponibilità di tempo c’è anche un altro punto di vista. È quello di Anna Formisano, che considera indispensabile «convocare il prima possibile una direzione nazionale e fare tutti insieme una riflessione: nel nostro partito abbiamo sempre ragionato a più voci, e ora dobbiamo comprendere insieme come comportarci ai prossimi
centro
fondo all’agenda mentre cose superflue o discutibili diventavano priorità. Se dovesse verificarsi una cosa del genere, sarà giusto per noi sollecitare la maggioranza a cambiare registro. questo significa fare un’opposizione costruttiva».
Serve un atteggiamento «di apertura, non pregiudiziale. Adesso siamo svincolati dalla coalizione e posFormisano: siamo esercitare «Credo si debba una vigilanza anconvocare cora più efficace. il prima possibile Questo significa una direzione anche che sarenazionale mo chiamati non per decidere solo a cercare insieme cosa fare. delle convergenTra un anno ze, ma anche a faavremo altre vorirle». Al diamministrative scorso del mare stare fuori chigiano Forlani dalle coalizioni è assai assimilaè difficile» bile quello del siciliano Francesco appuntamenti elettorali. Anda- Saverio Romano, secondo il re da soli sarà difficile», dice la quale «non sussistono ipotesi parlamentare del Lazio, «a co- di abbraccio né con la destra né minciare dalle Regionali che con la sinistra, ma si può valusaranno provocate dalla quasi tare nel merito come votare sui certa candidatura di Marrazzo provvedimenti in Parlamento, e al Parlamento europeo. I nostri fare così un’opposizione coelettori si chiedono giustamen- struttiva, senza pregiudizi. Noi te cosa faremo, e l’esito delle siamo alleati con Raffaele elezioni ci dice che le coalizio- Lombardo in Sicilia», ricorda il ni sono forti e tenersene fuori è segretario regionale dell’Udc, impresa titanica». Con la Co- «e condividiamo con lui un distituente di centro d’altronde il scorso che ha valore nazionale: futuro dei moderati si giocherà bisogna assolutamente froninnanzitutto nel contatto diret- teggiare l’asse nordista sul quato con le persone. Questo non le il nuovo governo rischia di vuol dire, spiega Alessandro spostarsi. Sappiamo che di Forlani, che si debba rinuncia- fronte a un’alternativa tra il rire a costruire l’edificio anche lancio di Malpensa e il ponte con la quotidianità parlamen- sullo Stretto, la Lega cerchetare: «Partiamo da un elemen- rebbe di condizionare il goverto di chiarezza: in campagna no, promuovere solo gli intereselettorale ci siamo posizionati si del Settentrione. Ecco, di su programmi e priorità che fronte a una simile prospettiva siamo tenuti a testimoniare l’autonomia del centro è imporcon coerenza. Ci è sembrato tante», dice Romano, «dopodigiusto diffidare di entrambe lo ché dovremo mantenere un atcoalizioni. Ora abbiamo con- teggiamento non pregiudiziale, servato una patForlani: «Essere tuglia parlamenautonomi tare abbastanza ci permetterà nutrita, e questo di sollecitare ci consente di lala maggioranza vorare ai nostri tutte le volte obiettivi. Nel senin cui non dovesse so che in tutti i obbedire alle casi in cui la priorità del Paese. maggioranza Possiamo cercare presenterà prove anche favorire vedimenti comle convergenze patibili con le nosui temi che stre posizioni, poci interessano» tremo senz’altro sostenerli». Di materie sulle quali ci si può trovare in sintonia ce ne sono eccome, sostiene Forlani, «dalle infrastrutture all’energia, dalla politica fiscale a quella per le famiglie: dobbiamo augurarci di non trovarci di fronte allo stesso paradosso a cui abbiamo assistito nel quinquennio 2001-2006, quando questioni importanti finivano spesso in
valutare giorno per giorno se sostenere i provvedimenti della maggioranza in Parlamento. L’importante è fare in modo che al Sud arrivino le infrastrutture, la fiscalità di vantaggio e tutto quello che è necessario. L’ha ricordato il presidente Napolitano: senza lo sviluppo del Mezzogiorno non c’è futuro per il Paese».
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Stefano Folli ragiona sulle mosse immediate e future dei centristi
Ecco che cosa non deve fare Casini colloquio con Stefano Folli di Nicola Procaccini
ROMA. E adesso? Che cosa fa l’Udc? Ci sono i ballottaggi, a Roma e non solo, e Pierferdinando Casini è tornato ad essere un “bel figliuol” che non piace solo alle elettrici, ma anche ai leader di Pd e Pdl. La giornata di ieri è stata tutta un lungo corteggiamento nei confronti dell’ex presidente della Camera. Per lui si sono mosse le diplomazie ufficiali con Massimo D’Alema da un lato e Gianni Letta dall’altro. Per lui si sono esposti Silvio Berlusconi e Walter Veltroni con messaggi di stima e di vicinanza politica. Casini, per il momento, delega la scelta alle primarie romane del suo partito. Ma che non sembri sottovalutare l’importanza del momento: la verità è che l’Udc, uscita viva dalle elezioni politiche, ma sofferente, sa bene che schierarsi ora equivale a decidersi per il futuro. La pensa così anche Stefano Folli, editorialista di punta del Sole 24 ore. In questa intervista Folli analizza la situazione dell’Udc nell’immediato, e prova a lanciare uno sguardo un po’ più in lontananza, provando ad immaginare quali saranno le mosse di Pierferdinando Casini nel medio e nel lungo periodo. «Penso che in questo momento ci sia una convenienza a mantenersi neutrali rispetto ai contendenti romani. Non conviene schierarsi all’Udc. Nell’immediato, una scelta di neutralità corrisponde sul piano politico generale alla conferma di un partito che si tiene al di fuori della logica bipartitica». Ma lei ci crede a queste primarie? Non le sembra un po’ azzardato affidare un’opzione così rilevante ad una consultazione generale? Mah! Con il massimo rispetto per le primarie, io penso che non sia una scelta che si possa affidare ad un voto perché si tratta di una questione troppo delicata, gravida di conseguenze politiche. Casini e Cesa dovranno valutarne attentamente il significato perché una scelta di campo fatta adesso comporta inevitabilmente l’adesione ad uno schieramento nazionale. Secondo lei come si orienterà l’elettorato centrista nel ballottaggio capitolino? Secondo me, il voto dell’Udc è meglio disposto a votare per Rutelli. Mi spiego: l’elettore di Casini che è andato a votare per lui ha già resistito alla tentazione del voto utile, e penso che sia piuttosto risentito nei confronti di Berlusconi. Magari mi sbaglio, ma non credo che saranno in molti a votare per Alemanno. La votazione amministrativa è ancor di più, in un certo senso, ispirata dal pragmatismo. L’attrazione del voto utile in questa competizione è ancora più forte. Si tratta di un elettorato con una tendenza decisa a mantenersi autonomo e a non riconoscersi in Berlusconi. Per questo, ritengo che il suo appello, se non ha fatto breccia prima, non potrà farlo adesso. Va poi detto che in molti non andranno a votare, d’altra parte, è anche fisiologico al secondo turno. Comunque a Casini convie-
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ne non dare indicazioni, siamo troppo vicini alle elezioni e ci sono troppi occhi puntati sulle sue mosse.Vanno bene i segnali di disponibilità ad ascoltare tutti: D’Alema, Letta, Rutelli, sono atteggiamenti che mantengono l’attenzione alta sull’Udc. Questo deve fare Casini: studiare mosse, iniziative, gesti per conservare centrale il suo partito e la sua immagine dal punto di vista mediatico, rinviando una eventuale scelta di schieramento politico. Rinviare la scelta, ok, ma fino a quando? A proposito non mi ha ancora dato un giudizio sul risultato di Casini alle elezioni. Casini ha vinto una sfida elettorale difficile perché riuscire a prendere quasi il sei per cento in un momento come questo, caratterizzato da un processo brutale di polarizzazione, è un notevole risultato. Significa che c’è una fetta ampia di elettorato non contento dei due partiti, e dunque sceglie una soluzione che non offre uno sbocco concreto nel breve periodo. Diciamo che si tratta di un voto che si colloca nell’attesa di futuri sviluppi. Casini ha conquistato una fetta consistente del popolo moderato. Naturalmente non ne ha l’esclusività, ma può rappresentarlo a buon diritto. Nel medio periodo dovrebbe tentare di mantenere alta la propria capacità di attrazione, magari nei confronti di quella parte di voto al Pdl che si interroga sul rapporto con la Lega. Indubbiamente Casini è riuscito a tenersi stretta una parte di centro moderato in un momento difficilissimo. E dall’analisi dei flussi sembrerebbe aver sottratto al Pd una parte importante di voti. Questo significa che può pescare in entrambi i partiti. Nel lungo periodo, cosa dovrebbe fare Casini per non essere schiacciato da Berlusconi e Veltroni? Diciamo che in un momento in cui tutto congiurava contro il voto al centro. Con un Pd tutto proteso a caccia del voto moderato, Silvio Berlusconi in grande spolvero, e la Lega sempre più radicata, Casini è riuscito a difendere il suo fortino. Ora, il futuro non dipende solo da lui, ma anche da fattori esterni, come la legge elettorale. Se cambia si apre una partita politica nuova, ma dubito che cambierà. Nei prossimi mesi Casini dovrà operare molto per riempire di contenuti la sua presenza in parlamento. Contenuti liberali, soprattutto. Deve essere più liberale della maggioranza di governo. Direi: liberaldemocratico, a fronte di una maggioranza che potrebbe diventare populista. Il comportamento del suo gruppo a Palazzo Madama e Montecitorio dovrebbe orientarsi caso per caso. Al tempo stesso, Casini deve mantenersi su un piano di grande fair play con Pd e Pdl. Mantenendo ferma la propria autonomia, ma ben attento a non isolarsi troppo. Sempre propositivo, e consapevole dell’assoluta necessità di una presenza costante sui mass media italiani.
Nei prossimi mesi dovrà operare molto per riempire di contenuti la sua presenza in parlamento. Contenuti liberali, soprattutto
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Visto dal Pdl. Cicchitto: definiamo una collaborazione sull’emergenze del Paese
«Udc,riavvicinarsi è necessario» colloquio con Fabrizio Cicchitto di Irene Trentin
ROMA. È toccato a Fabrizio Cicchitto, numero due di Forza Italia, lanciare un segnale distensivo agli ex alleati dell’Udc. «È auspicabile la ripresa di rapporti politici - ha detto - per l’esistenza di alcuni elementi comuni a partire dall’affiliazione al Ppe e da un elettorato moderato e di centro largamente presente sia nel Pdl che nell’Udc». In molti, dopo lo scontro sul voto utile e anche alla luce della delicato ballottaggio di Roma, hanno visto nelle sue parole un invito a un percorso comune, per non finire «nel braccio della morte del Pd». Lei ha lanciato un appello per una ripresa del dialogo con l’Udc. È un confronto che, nelle vostre intenzioni, può avvenire anche con un partito che mantiene posizione e identità chiare o che dovrà necessariamente confluire nel Pdl? La mia non è una provocazione ma un invito a una riflessione serena che deve avvenire da parte di entrambi, dopo che l’esito delle elezioni ha placato i toni a volte duri della campagna elettorale. È chiaro che l’Udc non può cambiare immediatamente posizione e dovrà mantenere la promessa con gli elettori di svolgere il ruolo di opposizione. Si tratta di un processo a medio-lungo termine, a partire dalla sua natura fondamentalmente moderata e di un atteggiamento non pregiudiziale nei nostri confronti che può portare a qualche avvicinamento. La comune appartenenza al Ppe può essere di aiuto in questa fase? Anche il processo di unificazione tra Forza Italia e An dovrà avvenire lungo il crinale del Ppe. Questa scelta moderata e riformista non potrà che favorire i rapporti con l’Udc, contribuendo ancora di più a portarlo su posizioni condivise. Ma occorrerà ancora un lungo percorso politico. Quali dovrebbero essere le prime tappe? Una collaborazione immediata sul programma e i provvedimenti del governo. Mi auguro che ci sia la possibilità d’inaugurare da subito un confronto sereno e costruttivo in merito alle questioni urgenti del Pae-
se, in grado di vincere pregiudizi e resistenze. Su quali temi, ad esempio? I primi provvedimenti riguarderanno il problema urgente dell’Alitalia e l’emergenza rifiuti in Campania. Credo che l’Udc non sia molto distante da noi sulle soluzioni auspicabili. E poi, la condivisione della politica estera, la necessità di realizzare le grandi infrastrutture, come il Ponte di Messina. D’altra parte, avevamo già preparato assieme un programma comune. Che dite a Pier Ferdinando Casini, che certo non ha voglia di svendere l’identità del suo partito? Casini ha già marcato un punto, ottenendo una rappresentanza in Parlamento, a differenza di altre forze come la Sinistra l’Arcobaleno. Ma il risultato elettorale ha dimostrato anche che la sua analisi sull’esaurimento di Silvio Berlusconi era completamente sbagliata. La realtà gli impone di mi-
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lettorato di centrodestra l’unica alternativa identitaria alla Lega? Visto il risultato elettorale chi ha sbagliato non è stato Bossi ma Casini, che poteva ritrovarsi ora in un grande partito, portando un considerevole contributo con le proprie posizioni e sensibilità. Un errore che prima di lui ha fatto Follini. Non avete lasciato così troppo spazio alla Lega, col rischio di farla diventare troppo forte da dettarvi delle condizioni? La vicenda della Lega è legata al diffuso disagio che sta attraversando l’intera società, non dipende dalla nostra scelta. Il voto alla Lega è stato un tentativo di superare gli errori del centrosinistra e la dimostrazione che il Nord non è solo legato a una cultura di tradizione cattolica-dossettiana. Qual è ora il sentimento prevalente in Forza Italia verso l’Udc? Sarebbe un errore sia da parte nostra avere un atteggiamento repulsivo nei confronti dell’Udc, sia da parte loro finire nel braccio della morte del centrosinistra, al quale pure ha eroso voti. D’altra parte, l’Udc vi ha offerto una diga, anche se inconsapevole, contro il rischio di straripamento da parte del Pd. Anche se non era questa forse l’intenzione di Casini, ha contribuito alla sconfitta di Veltroni, che sperava di conquistare terreno a Forza Italia. È stata determinante la questione settentrionale, che ha spinto gli elettori a bocciare definitivamente la politica del centrosinistra. Come vede l’ipotesi dell’Unione di centro di lanciare una costituente di centro? Sono perplesso sulla possibilità di aggregare altre forze del centrodestra da parte dell’Udc. Finirebbe col farci veramente la guerra, col rischio di ritrovarsi con un niente in mano. Se però riuscisse a portare via altri pezzi del Pd, come esponenti delusi dell’ex Margherita, diventando concorrenziale sul centro, il progetto potrebbe diventare veramente interessante. Il processo di avvicinamento con l’Udc potrebbe riaprire la vecchia questione della federazione del centrodestra? In questo momento è troppo premature parlare di forme. L’importante è rimettere in gioco un meccanismo di riavvicinamento, anche se bisognerà aspettare per vedere quali saranno gli esiti definitivi. Iniziamo a verificare se ci sono le condizioni per questo lavoro in comune. Niente pregiudizi, quindi, sulla possibilità di una futura federazione? Niente pregiudizi.
Sarebbe un errore da parte di Casini allontanarsi dalla linea del Ppe. Nessuno chiede un passo indietro repentino, ma è auspicabile la ripresa dei rapporti politici surarsi con la nuova situazione politica e il fatto di ritrovarsi nel Ppe, che ha la stessa base in comune. Non teme che potrebbe scegliere alla fine di accordarsi con il Partito democratico, partendo dal fatto di stare entrambi all’opposizione? Non lo credo possibile, a patto di contraddire la propria natura moderata e di centro. Non vedo cosa l’Udc potrebbe avere in comune con una forza laica e di sinistra come il Pd. D’altro canto ci sono le alleanze già sancite col centrodestra, come per la Regione Sicilia e il Friuli Venezia Giulia, il Comune di Vicenza… Queste alleanze sono un segnale positivo, dimostrano che un processo di avvicinamento è ineluttabile e del tutto naturale. Sarà decisiva anche la scelta dell’Udc su chi appoggiare al ballottaggio per il Comune di Roma. Non crede che Berlusconi avrebbe fatto meglio ad appellarsi direttamente ai dirigenti dell’Udc, senza bypassarli rivolgendosi direttamente agli elettori? Il senso dell’appello di Berlusconi era rivolgersi a entrambi, dirigenti ed elettori dell’Udc. “Parlare a nuora, perché suocera intenda”, insomma. È stato un errore lasciare all’e-
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Visto dal Pd. Realacci: «Dalla scelta tra Alemanno e Rutelli si capirà se l’Udc è pronta a una alleanza»
«Sì al dialogo con Casini, ma molto dipende dalle decisioni romane» colloquio con Ermete Realacci di Susanna Turco
ROMA. Prima Massimo D’Alema, ora anche Walter Veltroni. All’indomani della sconfitta elettorale, i vertici del Pd si sono affrettati a incontrare Pier Ferdinando Casini, leader dei centristi, per avviare quel che si dice «dialogo tra opposizioni» per «trovare punti di convergenza» in Parlamento, ma anche naturalmente lavorare intorno al possibile sostegno centrista per il candidato sindaco di Roma Francesco Rutelli, prossimo al ballottaggio con Gianni Alemanno, dopo un risultato tutt’altro che brillante. Sul capitolo romano, nell’Udc prevale la riservatezza: a sentire le voci di Palazzo l’orientamento finale dovrebbe essere quello di dare formalmente libera scelta ai propri elettori, il che non esclude un appoggio sostanziale a uno o all’altro candidato. Di Roma e più in generale del rapporto tra centristi e partito democratico abbiamo parlato con Ermete Realacci, ambientalista da sempre, e da ultimo uomo di fiducia di Veltroni. Realacci, quale è il senso di questo dialogo che si è aperto tra democratici e centristi? In un quadro molto semplificato possiamo dire che in Parlamento ci sono due opposizioni, e anzi al Senato solo una visto che là l’Udc può contare su tre persone. È chiaro che in questa situazione è opportuna una apertura del dialogo politico, un ragionamento sulle riforme, ma anche sulle regole, e
magari possibili convergenze anche programmatiche che andranno verificate in Parlamento. Non c’è anche qualcosa di più? Stefano Ceccanti, costituzionalista eletto con il Pd, dice che il partito «non può non guardare in questa fase primariamente all’elettorato di centro che ancora non è riuscito a convincere» e che quindi quello coi centristi è «un dialogo che è primariamente rivolto agli elettori degli Udc». Insomma: non solo i vertici, anzi soprattutto il popolo moderato. Mah, noi adesso dobbiamo guardare in tutte le direzioni. Anzitutto, bisogna dare onore al merito all’Udc che certamente, soprattutto alla luce dello tzunami politico che c’è stato, ha avuto un buon risultato elettorale quando tanti, come me, alla vigilia pensavano che avrebbe preso meno voti della sinistra arcobaleno. Per quanto riguarda il “come muoversi” io ho da tempo un punto di vista diverso: penso che solo in parte gli elettori si collochino sulla retta destra-centrosinistra. Più spesso si muovono a balzi, per esigenze diverse, in uno spazio che è in qualche modo tridimensionale. Affascinante. Ma in concreto cosa significa? Oggi il nostro problema è arrivare a un elettorato più popo-
lare, che finora non ha avuto modo di capire la novità del Pd. Adesso tutti scoprono che gli operai votano per la Lega, ma in realtà accade da tempo. L’indagine della Camera del Lavoro di Brescia di qualche anno fa mostrava già che fra gli iscritti alla Fiom erano in tanti a stare col Carroccio: in fabbrica seguivano il sindacato, ma sul territorio davano retta ad altre pulsioni. E adesso, le analisi dei flussi elettorali che ho qui davanti a me confermano che una percentuale non irrisoria della sinistra
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operai, certo, ma anche dei tanti ceti popolari. Abbiamo avviato un ragionamento verso le aree deboli e quelle della piccola e media impresa che, come si è dimostrato con il voto, ha certamente bisogno di più tempo per sedimentare. Noi abbiamo recuperato l’83 per cento degli elettori dell’Ulivo, e variamente conquistato dal segmento di sinistra, ma siamo penetrati poco nel campo degli elettori di centrodestra. Il nostro problema oggi è quello di parlare al Paese profondo. E in Parlamento? Sul piano delle dinamiche politico-istituzionali, il nostro compito è dialogare con chi può avere con noi punti di convergenza. La cartina al tornasole della realizzabilità di questo dialogo è l’atteggiamento verso le elezioni romane. Sarebbe a dire che il dialogo è possibile solo se l’Udc appoggerà Rutelli piuttosto che Alemanno? La scelta su come stare nel ballottaggio servirà a capire se il richiamo della foresta del centrodestra annichilisce la possibilità di una nuova allocazione dell’Udc. C’è chi ha visto nelle assicurazioni di D’Alema a Casini per una riforma elettorale che introduca il sistema tedesco un altro argomento utile per lavorare in armonia coi cen-
Una riforma elettorale per introdurre il sistema tedesco? Per la verità il nostro antico amore è per il doppio turno alla francese, ma dubito che troveremo interlocutori massimalista è finita alla Lega. Mentre noi, e si tratta di un segmento più piccolo di elettori, abbiamo preso qualcosa da An, probabilmente grazie alla campagna sull’identità nazionale, alla scoperta delle ragioni dello stare insieme dell’Italia. Si tratta di due esempi per dire che in realtà la gente non procede per linea retta, e che la logica del Transatlantico, dei Palazzi insomma, non è quella del Paese. Vuol dire che, alla fine, il Pd punterà a conquistare gli operai? Bisogna prendersi il voto degli
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tristi, dal ballottaggio di Roma in avanti. Lei sarebbe d’accordo a portare l’Italia in Germania? Come è noto, un nostro antico amore è il doppio turno di collegio alla francese, che ha l’effetto di dare più trasparenza al voto dei cittadini, e induce al formarsi di coalizioni che vengono sottoposte alla verifica del voto. Ma dubito che troveremo interlocutori su questo punto. Nemmeno Berlusconi? Figuriamoci. Però è chiaro che sulla riforma elettorale con l’Udc bisognerà parlare. La Velina rossa, d’area dalemiana, dice oggi che Casini resisterà alle sirene del Cavaliere. Lei che ne pensa? Mi sembra che non si stia precipitando. Ma sul tema Roma il primo punto importante è richiamare gli elettori a votare. In passato, una sciatteria del centrosinistra portò all’elezione al ballottaggio di Moffa, quando al primo turno la Napoletano era arrivata a un soffio dalla vittoria. Allora ci fu un calo dei votanti dovuto forse ad eccesso di sicurezza. E semmai in questo caso si gioca a parti invertite... In ogni caso il problema principale è portare la gente a votare. Però da un lato l’appoggio di Storace segna Alemanno come un candidato decisamente a destra, e se l’Udc optasse per lui, tutti i ragionamenti di una collocazione autonoma risulterebbero indeboliti.
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politica Di Comunione e liberazione Roberto Fomigoni è l’esponente più conosciuto in Italia. Così un suo ruolo di primo piano nel futuro governo Berlusconi sarebbe un riconoscimento per tutto il movimento fondato da don Luigi Giussani
Il govenatore è pronto a sbarcare a Roma. E i suoi fedelissimi spingono per un ruolo di primo piano
Il popolo di Cl nomina Formigoni alla presidenza del Senato di Marco Palombi
ROMA. Roberto Formigoni, alla fine, scenderà a Roma? Il presidente della Regione Lombardia è assai quotato per un posto nella capitale e si sa che lui gradirebbe “entrare in squadra”, ma nel risiko degli incarichi di governo e istituzionali non è certo che riesca a trovare un posto all’altezza delle sue legittime ambizioni: in primo luogo perché è una personalità ingombrante, dal curriculum pesante, nonché rappresentativo di un’anima della politica cattolica - all’ingrosso quella ciellina - che proprio in Forza Italia ha trovato lo spazio che cercava; in secondo luogo perché i posti sono pochini e vanno a incrociare gli appetiti, anch’essi legittimi, di alleati e colleghi di partito. Berlusconi poi, a quanto filtra dal Pdl, non gradirebbe il presidente lombardo in un ruolo capace di fargli ombra e per questo gli ha proposto il ministero della Pubblica Istruzione ottenendone un deciso rifiuto. Altro segnale non positivo per Formigoni il possibile incarico ministeriale per Mariastella Gelmini, coordinatrice di Forza Italia in Lombardia, ma non certo una sua sostenitrice. Dal canto suo il governatore - tramontata l’ipotesi Farnesina per via, si dice, anche di
un veto americano (a Washington non hanno dimenticato lo scandalo Oil for food) – gradirebbe parecchio la presidenza del Senato: rilevante ruolo istituzionale che è pure, a suo modo, una tribuna internazionale.
Comunque vada a finire, in Lombardia il milieu formigoniano è convinto che per il suo campione sia arrivato il momento del salto di qualità. Ma non ad ogni costo. «Formigoni è una risorsa importante del Pdl – spiega Giulio Boscagli, capogruppo di Fi in regione e cognato del presidente -. Sarebbe un ottimo ministro, ma sono pochi i ministeri che valgono la presidenza della Lombardia. Palazzo Madama, al contrario, sarebbe da tenere in considerazione per l’altissimo prestigio del ruolo». Sulla stessa linea il direttore di Tempi, Luigi Amicone, osservatore simpatetico del mondo politico ciellino: «Io penso che se non gli dessero il Senato dovrebbe restare in Lombardia per altri due anni. Il ministro può farlo sempre dopo». L’europarlamentare azzurro Mario Mauro, assai vicino a Formigoni, si tiene invece sulle generali: «La simpatia che lui ha per il ruolo di ministro degli Esteri è arcinota, ma non è necessariamente quello il
ruolo a cui punta. Formigoni di certo ha molte carte da giocare: capacità di dialogo, equilibrio e ottima conoscenza del contesto nazionale e internazionale. In pallavolo si direbbe che è un universale». Al di là del ruolo, Mauro è comunque convinto che «ci siano le condizioni storiche e la maturità personale perché occupi un ruolo di primo piano». Per i lombardi non è (solo) una
migoni nella Terza Repubblica c’era già». E Boscagli spiega: «Il metodo lombardo sarebbe quello che ci piacerebbe vedere esportato: sussidiarietà, valorizzazione della società, scelta libera per le famiglie. È quello che abbiamo fatto e sono le cose, penso, per cui il centrodestra ha avuto questo risultato elettorale». Un metodo che nasce da «un filone del cattolicesimo spesso trascurato: opera-
Mario Mauro: «Roberto ha molte carte da giocare». Giulio Boscagli: «Palazzo Madama può essere una soluzione». Luigi Amicone: «Senza un ruolo adeguato, resti a Milano. Lui rappresenta tutti noi» questione personale, ma il riconoscimento nazionale di un modello e di una cultura: se l’europarlamentare di Forza Italia si limita a constatare che «Formigoni ha interpretato con coerenza un metodo di governo credibile in Regione, soprattutto per quanto riguarda una maggiore efficienza della macchina pubblica e il principio della sussidiarietà»,Amicone parla di «un modello di governo che esce confermato dalle urne. La Lombardia è il luogo di maggiore innovazione in tutti i campi: dal lavoro alla scuola alla sanità. For-
tivo, pragmatico, che sa aprirsi e confrontarsi con la realtà di tutti i giorni». Il problema, insomma, «non è avere l’etichetta di politico cattolico, il problema è avere cattolici veri, capaci di confrontarsi con chiunque sulle grandi sfide di questo tempo».
Messa così non si può non pensare all’arrivo a Roma di Formigoni come al riconoscimento pubblico del ruolo assunto da Comunione e liberazione nella politica, soprattutto al Nord. «Per Cl non sarebbe certo una svolta epo-
cale – smorza i toni Mauro - da sempre la presenza di esponenti educati a quella scuola ha significato una politica innovativa. E non sono mai mancati ruoli importanti, anche se certo il peso specifico di Formigoni fa la differenza…». Più netto Amicone: «Senza trionfalismi, sarebbe l’affermazione di una formazione umana, sociale e politica solida. Non è un caso che Cl sia l’unico movimento cattolico sopravvissuto non solo al ’68, ma a tutto quello che è venuto dopo.Tutto il resto è tramontato. Si guardi Brescia, patria di un altro tipo di cattolicesimo politico, con le banche, la presenza nelle istituzioni. Ha perso, perché evidentemente non ha saputo creare gli uomini per sopravvivere». Di questa capacità formativa di Cl, «Formigoni è un simbolo: non esiste se non all’interno di quel tessuto». Il tempo del vero assalto al cielo del più importante politico ciellino dovrà però ancora aspettare. Formigoni stesso ha chiarito che le sue ambizioni nazionali sono subordinate alla presenza sulla scena di Berlusconi. «Ma questo è un tema del futuro – conclude il direttore di Tempi – Certo i candidati si posizionano e Formigoni è uno di questi… ma per diventare Berlusconi bisogna camminare parecchio».
politica
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Da una parte il pressing di Bossi sulla formazione di governo, dall’altra la scelta del nuovo Commissario europeo
Frattini e ministri,Berlusconi in difficoltà d i a r i o
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Poli Bortone: dialogo con centro e destra «A urne chiuse e con la vittoria conseguita dal Pdl credo sia politicamente saggio riaprire un discorso costruttivo con tutte quelle forze con le quali si possono individuare percorsi e obiettivi comuni». Così il coordinatore di Alleanza nazionale in Puglia e neosenatrice del Pdl, Adriana Poli Bortone. «Penso fuor di metafora - ha sottolineato all’Udc e a la Destra di Storace, che a Roma come a Foggia possono collaborare per dare amministrazioni locali forti, governabili ed ispirate ai valori della socialita. Riaprire il dialogo significa aprirsi a una pluralità di espressioni del pensiero che possono trovare rappresentanza negli enti locali in un patto di leale e convinta collaborazione».
Idv: presto gruppo autonomo L’Italia dei Valori è intenzionata a dar vita a un gruppo parlamentare autonomo, ma senza che questa manovra possa rappresentare uno strappo con il Partito democratico. Ad annunciarlo ieri, dopo l’esecutivo del suo partito, è proprio Di Pietro, che ha chiesto un incontro a Walter Veltroni prima del 29 aprile, giorno di insediamento delle nuove Camere. La notizia non sembra però aver suscitato reazioni negative o di allarme nel loft di Walter Veltroni; che nel caso l’Idv costituisse un gruppo autonomo, non considererebbe questo gesto come un tradimento del patto sottoscritto.
di Antonella Giuli
ROMA. Non è passata neanche una settimana dalla vittoria del Pdl alle Politiche e sono già due le questioni che impensieriscono Silvio Berlusconi. Da un lato la Lega di Umberto Bossi, che affidandosi a una nota della segreteria del Carroccio ha tuonato definendo «inutile il vertice romano» e chiesto a gran voce che il leader del Popolo della Libertà «proponga nel più breve tempo possibile» la rosa dei ministri che andranno a comporre il nuovo esecutivo. Dall’altra, il pressing del Pd sull’affaire Franco Frattini circa le dimissioni dall’incarico a Commissario europeo, che ricopre da novembre del 2004, e la nomina del suo sostituto. Dunque è di nuovo sfida tra Berlusconi e Veltroni. E come promesso già in campagna elettorale, sembra che l’Udc di Casini, fresco di un primo colloquio ieri proprio con Veltroni, possa rappresentare già da subito se non proprio l’ago della bilancia, quanto meno quell’interlocutore lucido e impegnativo a cui il leader del Popolo della Libertà ha voluto rinunciare nell’ultima tornata elettorale. L’oggetto del duello, viste le prime schermaglie verbali tra maggioranza e opposizione, sembra nient’affatto semplice e, se non condotta nel rispetto dei nuovi scenari politici, potrebbe far scricchiolare più di qualche equilibrio interno al nuovo assetto. Perché Franco Frattini, per incompatibilità di cariche, sarebbe costretto a lasciare il posto di Commissario nel momento in cui accettasse l’elezione a deputato appena guadagnata. In questo caso, doven-
dolo fare come previsto entro la riunione delle nuove Camere, e cioè il prossimo 29 aprile, il governo in carica, che sarà ancora quello presieduto dal neodimissionario dalla presidenza del Pd Romano Prodi, avrebbe piena facoltà di indicare al presidente della Commissione europea Barroso il nome del nuovo Commissario. Se invece rinunciasse all’elezione al Parlamento, un’eventualità che fonti interne a Forza Italia danno «per verosimile», potrebbe restare in carica a Bruxelles fino alla scadenza del mandato, nell’autunno del 2009. Ultima ipotesi quella che Frattini, se
Il leader del Pd: «No a brutali spoil system». La replica del Pdl: «Saremo noi a decidere». E al centro si propone un «coordinamento delle diverse opposizioni» diventerà come sembra un ministro dell’esecutivo Berlusconi, lasci il suo incarico nell’Ue al momento della formazione del nuovo governo; consentendo quindi a quest’ultimo la scelta del sostituto. L’incontro di ieri tra Walter Veltroni e Pier Ferdinando Casini «non ha comunque preoccupato il cavaliere», continuano da Forza Italia. Come dichiarato dai due maggiori esponenti della nuova opposizione, «l’ora scarsa di colloquio a Montecitorio» sarebbe servita «a gettare le basi di un coordinamento tra le opposizioni», ma anche a un primo
confronto di idee proprio sui criteri di scelta del nuovo Commissario europeo. Da un lato Veltroni che, come prevedibile, ha manifestato la vivace speranza che il leader del Pdl non attui subito un «brutale spoil system», di fatto suggerendo a Berlusconi di prendere in considerazione le candidature proposte da Prodi: Letta, Bonino, PadoaSchioppa, De Castro e Manservisi (alcuni darebbero in lizza anche Ranieri e Fassino).
Dall’altro lato del “tavolo dell’euro-concertazione”, Casini ha sottolineato l’assoluta necessità per il Paese di un «lucido coordinamento delle opposizioni nei lavori parlamentari», un dialogo che possa dunque condurre all’assunzione di un atteggiamento bipartisan per le diverse nomine istituzionali. Berlusconi sembra sì deciso a tirar dritto («Sarà il nuovo governo a nominare il sostituto di Frattini», e si pensa forse a Tajani o Mario Mauro), ma pure ragionevolmente intenzionato ad ascoltare i consigli di Casini, «cercando al più presto un confronto con l’Udc per definire forme di dialogo e convergenza d’intenti». Il ponte tra destra e sinistra, dunque, si individua forse proprio al centro. E se ponte sarà, se cioè esisterà volontà di instaurare quella equilibrata meccanica di cooperazione tra le diverse realtà politiche; se ci sarà vera applicazione del modus operandi di convergenza sulle scelte riformiste, scongiurando un più esecrabile inciucio, potrebbe esser lecito pensare: Frattini o no, la nuova nomina sia bipartisan.
Sirchia: condanna di 3 anni per tangenti L’ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia è stato condannato a 3 anni di reclusione nell’ambito del processo milanese in cui è imputato, insieme ad altre sette persone e una società, per presunte tangenti nel mondo della sanità milanese. Per Sirchia l’accusa aveva chiesto 2 anni e 9 mesi di reclusione. La condanna a 3 anni tuttavia non verrà scontata perché interamente condonata per l’indulto.
Napolitano: no a contrapposizioni Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel corso di un incontro con alcune scolaresche che hanno svolto ricerche sul sessantesimo anniversario della Costituzione italiana, ha chiesto alle diverse forze del nuovo assetto politico di «superare posizioni di partito e contrapposizioni ideologiche o culturali, per riconoscersi in principi comuni».
Lombardo: Finocchiaro guidi opposizione «Spero che la Finocchiaro mi stia con il fiato sul collo: e il modo migliore è che accetti di fare il capo dell’opposizione all’Ars». Lo ha detto in una conferenza stampa a Palermo il presidente della regione siciliana ”in pectore” Raffaele Lombardo, commentando alcune dichiarazioni della sua concorrente principale a palazzo d’Orleans. «L’ho cercata e l’ho fatta cercare, ma non sono riuscito. Mi congratulerò con lei perché, come me, ha fatto una campagna elettorale difficile». E poi ha aggiunto: «Mi auguro di lavorare con lei e perché no, anche con una grande collaborazione».
Vendola: Bertinotti non mi succederà Il governatore della Puglia Nichi Vendola rifiuta in tronco una successione a Bertinotti alla guida di un futuro soggetto politico della sinistra. «Io - ha dichiarato Vendola - sono il successore di Nichi Vendola. Devo continuare a governare io questa Regione». E sul futuro della Sinistra Arcobaleno ha ipotizzato «un grande cantiere dei pensieri nuovi.Il problema è come ricostruiamo la Sinistra del futuro». Vendola ha inoltre aggiunto che in possibili scenari politici futuri, non esclude un «proficuo colloquio col Partito democratico» di Walter Veltroni.
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politica
Il leader della Lega Nord, Umberto Bossi. Alle sue spalle il segretario della Lega Lombarda, Giancarlo Giorgetti. Ancora una volta il Senatùr ha saputo intercettare a differenza dei suoi avversari le istanze dell’area più produttiva del Paese
Tra il successo della Lega e gli allarmi dei sindaci di sinistra
La secessione dolce di un Nord mai domo
on può non apparire farsesca la sorpresa che esprime l’intero circuito mediatico (e accade ormai da vent’anni) per la riesplosione del voto alla Lega. Senza inseguire analisi sofisticate bastava, qualche settimana fa, leggere almeno il titolo del volume (Così perdiamo il Nord) al quale l’ex governatore di centrosinistra del Friuli, l’imprenditore Riccardo Illy, aveva affidato le sue amarezze per la sordità recidiva della politica nazionale e in particolare della propria parte. Così pure per due anni i vertici veneti dell’Ulivo (o come diavolo si chiamava) hanno invano supplicato il loro governo di concedere al Veneto l’autonomia dello statuto speciale («È l’unico modo per vincere», spiegavano, desolati). Così pure il voto ulivista bipartisan alla regione Lombardia sulla richiesta di autonomia a norma della Costituzione modificata nel 2001 dal governo Amato veniva rapidamente sepolto, mentre il povero Filippo Penati, presidente ulivista della provincia di Milano si vedeva lasciato drammaticamente solo proprio dai suoi nella naturale difesa del ruolo di Malpensa.
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Sono esempi (e non tutti) di come la responsabilità di governo sul territorio portava con la dura forza delle cose a una visione scontata di interessi legittimi che andavano per loro natura promossi e difesi. Era il riconoscimento che, senza certo esser leghisti, esistevano priorità e gerarchie di scelta che amministratori appena appena razionali trovavano naturalmente doverose. E Illy si era addirittura spinto più in là : costruendo passi rilevanti dell’Eurore-
di Giuseppe Baiocchi gione con Slovenia e Carinzia, dimostrando un coraggio fattivo certo superiore ai tessitori dell’Insubria (le province leghiste di Como e Varese e Sondrio con la Svizzera italiana) o a quelli transfontalieri con la Savoia degli aostani e degli altopiemontesi.
Non solo: quando il sindaco ulivista di Padova aveva costruito il muro anti-immigrati o a Bologna si erano verificati i durissimi sgomberi anti-rom voluti dal buon Sergio Cofferati (nell’assordante silenzio dei “cattolici adulti”), molti osservatori e sociologi d’area avevano notato con raffinate analisi che si era aperta la via per una “secessione dolce”, ovvero che la forza naturale delle cose portava il Nord ad assumere senza contestazioni mediatico-intellettuali un modo proprio di affrontare le emergenze senza lasciarle marcire. Che poi questo percorso assomigliasse in maniera impressionante alle tanto deprecate azioni precedenti dei “sindaci-sceriffi”di color verde-padano, era comunque elegante dimenticarsene… E tuttavia, nel comune sentire e nella prosaica necessità di governo locale, sembrava negli scorsi mesi un dato ormai acquisito che l’arte del comando e
della rappresentanza dovesse esprimersi nel Nord in forme peculiari e divergenti da altre parti del Paese. Cadute le pregiudiziali ideologiche, contavano le virtù del buon governo. E se questo diventava un sottinteso riconoscimento alle ragioni di quella bandiera che Bossi aveva alzato per primo qualche lustro in anticipo, non costituiva più motivo di scandalo. D’altronde che le diversità del Paese potessero, con un supplemento di fantasia anche politica, diventare un’opportunità anziché una deviazione pericolosa dal dogma dell’unità nazionale, se ne era accorto anche qualcun altro.
Su un terreno certamente diverso (ma la religione non può non avere un ruolo pubblico nelle moderne democrazie) l’allora cardinal Joseph Ratzinger, prima ancora del nuovo millennio, constatava con molta tranquillità l’esistenza in Italia di almeno due cattolicesimi: uno del Settentrione, più riservato e operoso, l’altro del Mezzogiorno, più esibito e devozionale. E che la Chiesa italiana doveva di conseguenza fare sintesi, senza mortificare ma invece valorizzando nell’unica fede le pluralità del vissuto cristiano espresse nella cultura del terri-
torio. Paradossalmente è quello che, con molta fatica e nel disinteresse mirato dei massmedia, è già ampiamente avvenuto nel silenzio della concretezza. Poi è arrivato il maglio di una campagna elettorale che ha travolto del tutto la dialettica centro-periferia, mandando cinicamente e stupidamente al massacro gli Illy e i tanti come lui.
Con un “loft” che ha scoperto all’improvviso, e con qualche decennio di ritardo, i dogmi del vecchio glorioso Pci («Nessun nemico a sinistra» e un durissimo “centralismo democratico”, anche se con in più il decorativo contorno delle “notti bianche”e del Festival del cinema di Roma) e un Gianfranco Fini appiattito sul predellino e imbavagliato nel suo nazionalismo, si è graziosamente regalato per l’ennesima volta alla Lega Nord il monopolio assoluto delle istanze riformatrici che provengono dal basso. E se la Lega è un partito oggi giustamente in festa, non manca tra le menti più avvedute del Carroccio la consapevolezza di quanto diventi arduo il percorso riformatore quando vengono schiacciate altrove le sensibilità già sul territorio a loro modo condivise. Ne è spia e prova immediata l’irrequietezza pubblica del Senatùr ai primi approcci he si registrano sulla composizione del nuovo governo. Sarebbe adesso, almeno sul piano della cultura politica, la prateria aperta per un “Zentrum”non dimentico di sé e delle sue radici. Se compare all’orizzonte uno Sturzo contemporaneo, è proprio questo il suo momento.
politica
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Compagni addio. Viaggio nella sinistra scomparsa/3 Bruno Arpaia
Ricominciare da Pasolini colloquio con Bruno Arpaia di Riccardo Paradisi
ROMA. Bruno Arpaia, ispanista, scrittore, intellettuale di sinistra, nel marzo del 2007 pubblica con Guanda il pamphlet Per una sinistra reazionaria. Il libro suscita un dibattito molto acceso nel mondo politico e culturale e soprattutto disagio e fastidio a sinistra. La tesi di Arpaia in effetti è ardita: la sinistra deve farla finita coi miti del progresso e dello sviluppo, deve contaminarsi con quella che Arpaia chiama la destra alta e sublime: quella della tradizione e del sacro. La lettura di Arpaia della sconfitta della sinistra ha a che fare con queste tesi. Arpaia, la sua analisi sulla rotta della sinistra italiana. L’americanizzazione del quadro politico ha prodotto la riduzione dello scenario italiano a un bipolarismo leaderistico. La sinistra italiana non è attrezzata per battersi dentro questo schema. Dico attrezzata in termini culturali prima che politici. Il ritardo è evidente, e drammatico. Lo dimostra la qualità raccapricciante del dibattito che all’interno della Sinistra arcobaleno si sta sviluppando dopo la sconfitta dove si alternano tentazioni di ritorno all’indietro – l’idea di Diliberto di tornare alla falce e martello – e fughe in avanti. Dove si è sbagliato?
Nel far partire tardi il processo di costruzione di un nuovo soggetto politico che doveva partire dal giorno dopo in cui Mussi usciva dal Pd. Qual era il tema che la sinistra avrebbe dovuto agitare e non ha agitato? La sinistra ha smesso di fare battaglie culturali, ha smesso di portare avanti idee forti. Si è sempre di più contaminata con la declinazione più individualista del liberalismo, fatta di diritti, di diffidenza verso la comunità. Una sinistra che non fa battaglie serie sul liberismo che continua a dirsi progressista, a pensare con categorie ottocentesche è una sinistra sconfitta in partenza. Eppure Bertinotti sulla polemica contro il liberismo ha investito molto in questa campagna elettorale. Ma le sue sembravano solo petizioni di principio. Non si è andati a fondo. Ma insomma: ci troviamo di fronte a una delle più grandi crisi economiche, energetiche della storia. A una crisi alimentare che è l’incarnazione di un’economia volta allo sviluppo coatto e compulsivo. Questa idea dello sviluppo è disastrosa. Occorre un ritmo di decrescita, un principio di conservazione. Non sono temi questi che ho sentito in campagna elettorale.
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L’idea dello scrittore friulano era quella di mantenere un’identità di sinistra attraverso un recupero dei valori della destra
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Il voto operaio del Nord è andato alla Lega o alla destra. A sinistra, si è detto, hanno sfondato le tesi noglobal di Tremonti Sono d’accordo. Tremonti è stato molto efficace nel suo discorso contro la globalizzazione folle che stiamo subendo. Il suo è un discorso molto identitario, molto valoriale, troppo per chi è a sinistra.
Sopra lo scrittore Bruno Arpaia; in alto il ”Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo
Però Tremonti ha lanciato un allarme e di fronte alle condizioni di vita reale di milioni di persone il suo discorso non è apparso ideologico come quello di Bertinotti. La Lega ha raccolto però anche il voto anti-immigrati.Anche su questo terreno la sinistra è vittima della sua ideologia? Intendiamoci, una sinistra che non ritenesse l’accoglienza, la tolleranza, l’apertura come valori vettoriali della sua azione non sarebbe nemmeno una sinistra. E però vaglielo a dire a uno che abita nelle periferie metropolitane, o a Brescia, a Bologna, nelle città italiane che sotto la spinta immigratoria hanno mutato volto e anima, che l’immigrazione non è un problema.Tra il vellicare le pulsioni securitarie e l’angelismo esiste una via di mezzo no? Ecco anche in questo caso la sinistra non c’è stata, non ha avuto né la capacità né la volontà di dare strumenti culturali per intervenire realisticamente su questo problema. La sinistra ha molto inseguito i bisogni secondari della società: le identità di genere, la fecondazione eterologa, i diritti dei gay. Le esigenze degli operai sono diverse. Un altro residuo degli anni Set-
tanta. In quel decennio si inseguivano tutti i marginali possibili, lo scemo del villaggio assurgeva al rango di ideologo. Una deriva che seminò l’illusione che i diritti possano esistere senza i doveri. Gli operai sanno bene invece di avere dei doveri: stare in fabbrica a 1200 euro al mese per far campare una famiglia. Questa rivendicazione di diritti senza doveri d’altra parte è solidale alla società dei consumi, a un’idea di società cioè completamente individualizzata, all’oblio di un discorso generale sulla comunità. Perché se si tratta solo di diritti, di relazioni economiche, se i legami comunitari non contano nulla, allora diritto per diritto meglio Berlusconi che mi toglie il bollo auto. «È possibile mantenere un’identità di sinistra attraverso un recupero dei valori della destra, è possibile usare il sacro in chiave eretica, è possibile un uso rivoluzionario della tradizione?» ricorda? È la domanda che si poneva Pasolini. Lei che risponde? Rispondo che non solo è possibile. È anche necessario. Il mio pamphlet Per una sinistra reazionaria era un modo argomentato per dire si a questa domanda.
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mondo Speranza, una parola che accomuna Pontefice e presidente
Benedetto XVI, Papa “americano” segue dalla prima
quanto il Presidente Bush. Entrambi la usano spesso, ed entrambi credono nelle grandi possibilità dei cambiamenti sociali e personali. Leggendo le pagine iniziali dei loro discorsi, si nota quanti punti in comune ci siano nel modo in cui entrambi guardano al mondo; il Presidente ha citato S. Agostino, il Papa George Washington.
ubito che Benedetto XVI abbia mai incontrato prima un cristiano evangelico texano, per lo meno uno esuberante e franco come Bush, e sono abbastanza certo che l’evangelico Bush non abbia mai incontrato in Texas un capo religioso simile al Papa, dietro il quale ci sono secoli di esperienza e saggezza, alla guida di milioni di persone che hanno vissuto un lungo, turbolento pellegrinaggio.
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Al suo arrivo alla sede della nunziatura apostolica di Massachusetts avenue, proprio di fronte la casa del vicepresidente Usa, al Papa è stata fatta una sorpresa: questo ritratto, a dimensioni naturali, dipinto dal grande pittore russo Igor Babailov, emigrato negli Usa
Affinità entusiasmante tra tradizioni differenti
Una volta il grande scrittore irlandese James Joyce affermò che il significato profondo del cattolicesimo è la sua apertura a tutti: santi e peccatori, buoni e cattivi, casti e lascivi, pazienti e teste calde. Ogni tipologia e categoria di persona è inclusa, questo è il concetto cardine. Per questo il peccato è il centro dell’attenzione del cristianesimo, e il messaggio di questa visita papale, riassunto nelle parole: “Cristo è la nostra speranza”, è rivolto proprio ai peccatori, ai quali viene concessa una nuova possibilità per cambiare se stessi e il mondo. Lentamente, pazientemente, senza forzature, ma puntando dritti al risultato. La parola “speranza”, dunque, contraddistingue tanto il Papa
Per un Paese a maggioranza protestante come gli Stati Uniti, è stato entusiasmante constatare quante affinità ci siano tra queste due personalità comunque diverse, provenienti da tradizioni sostanzialmente differenti. Ricordo quando, nel 1979, sullo stesso prato della Casa Bianca, Giovanni Paolo II incontrò il Presidente Carter. Fu un bellissimo evento, ma questa volta sembra esserci maggiore condivisione tra il Papa e il Presidente. Due volte, spontaneamente, il pubblico ha intonato un canto di auguri per Benedetto XVI. Alla fine, il Presidente Bush ha dato a tutti la possibilità di unirsi alla musica della Banda della Marina – che per l’occasione vestiva la splendida uniforme rossa – ed alle calde voci dei vocalisti che erano con loro. Il Papa è sembrato sinceramente felice e commosso. E’ stata davvero una bella giornata in questo inizio di primavera, stagione ricca di germogli e di boccioli, simboli di nuova vita e di nuove possibilità.
I media Usa apprezzano la franchezza di Ratzinger
Il capo della Chiesa di Roma affronta anche i temi più spinosi rande attenzione della stampa inglese e americana al viaggio di Benedetto XVI negli Stati Uniti. In particolare tutti gli organi di informazione – tv, carta stampata e agenzie hanno apprezzato la franchezza con cui il Santo Padre ha affrontato la spinosa questione dei preti pedofili, richiamando chiaramente alle responsabilità della Chiesa e denunciando una cattiva gestione della vicenda. Molto sottolineato l’incontro del Papa alla Casa Bianca con il presidente George Bush.Tutti hanno citato le parole di Bush secondo il quale «il mondo ha bisogno del papa per non cadere preda del fanatismo e del terrorismo». Domenica, giornata conclusiva Benedetto XVI visiterà Ground Zero e celebrerà la messa alloYankee Stadium di NewYork.
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Sarà la seconda messa celebrata in uno stadio in pochissimi giorni. Ieri Benedetto XVI è stato “ospite” del Washington National Stadium: 46mila le persone presenti, e molte quelle che non sono potute entrare. La prestigiosa agenzia internazionale Associated Press ha dedicato ampio spazio all’evento, all’entusiasmo dei partecipanti, alle storie di molti fedeli profondamente affezionati alla “santità”del pontefice. La
di Francesco Rositano stessa agenzia ha affrontato anche il tema della pedofilia, giudicandolo uno delle più importanti sfide di questo viaggio. Certo la ferita da rimarginare è molto profonda, sottolinea l’AP: «Questo scandalo è costato alla Chiesa più di due milioni di dollari in spese legali e ha costretto sei diocesi a dichiarare bancarotta». Inoltre rimane la rabbia di molte vittime e dei loro legali che rimproverano i vescovi di aver taciuto su un fatto così grave e soprattutto «di non aver avvertito i parenti e la polizia». Il quotidiano popolare Usa Today dedica a questa problematica un titolo ad effetto “Benedetto XVI: medichiamo le ferite”. Il Washington Post, invece si sofferma su un altro aspetto del discorso di Benedetto XVI, ovvero su come tutta la società debba sentirsi chiamata in causa per «proteggere i più piccoli dalla prevalente manipolazione della società di oggi». Interessante l’analisi del New York Times che si è soffermato anche sul modo in cui i media americani stanno coprendo questa visita. Ecco cosa scrive Alessandra Stanley: «La visita papale è simile ad un matrimonio reale, un spettacolo televisivo che
richiede un rispettoso e vivace commento e tantissimo chiacchiericcio intorno alle persone che si trovano dietro al trono». In particolare la giornalista ritiene cghe in un momento tanto delicato in cui il Papa deve affrontare la delicata questione della pedofilia, i giornalisti – o per proteggerlo e sviare l’attenzione su altre questioni o per dare ancora più rilievo all’evento – si sono soffermati non solo sui suoi discorsi, ma anche sul temperamento e la gestualità.
Anche il londinese The Times si è soffermato sul carisma di Benedetto XVI. «Quando è stato eletto – si legge - aveva una reputazione di uno strenuo difensore della dottrina cattolica. Ma adesso al suo primo viaggio in America ha dimostrato un grande tatto e una grande capacità di dialogare con i fedeli». L’attenzione è andata al grande affetto del popolo americano e alla testimonianza di Julie Parsley, che si è convertita ala cattolicesimo otto anni fa. Intervistata dal Times, in occasione della visita del Papa alla Casa Bianca, ha detto che ha portato i suoi due figli, perché «Benedetto XVI è vicinissimo a Gesù e a Dio».
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Perdite oltre le attese per la Merrill Lynch
Molti progetti per lo sviluppo di Monaco e della sua aerea metropolitana sono stati bloccati a causa della crisi del maggior partito della regione
Nei primi tre mesi dell’anno la maggiore banca di investimenti del mondo ha denunciato, a causa della crisi dei mutui americani, altri due miliardi di dollari di perdite. Il totale della somma negativa evaporata dalle casse dell’istituto finanziario, raggiunge cosi i trenta miliardi di dollari. Il nuovo capo della banca americana, John Thain, in carica da dicembre ha annunciato iniezioni di liquidità per oltre dodici miliardi di dollari e una cancellazione di posti di lavoro per 4mila unità.
Giro di vite in Giordania
I democristiani della Baviera pensano solo alla crisi della Csu
Intrighi e dissensi da Monaco a Berlino di Katrin Schirner
BERLINO. Il Kommissionsausschuss è un organo della politica tedesca poco conosciuto ma molto importante. In esso i partiti di governo coordinano le rispettive politiche e prendono i provvedimenti più importanti. Gli incontri, ai quali prendono parte i più importanti personaggi della politica di Berlino, avvengono spesso la domenica sera, sempre però lontano dai riflettori dei media. In questa sede si discutono i principi della coalizione. Qui vengono assunte le decisioni che saranno poi elaborate nei vari ministeri e in Parlamento. Fino ad ora la voce del presidente della Csu (Unione sociale cristiana) vi giocava un ruolo predominate; da decenni i cristiano-sociali in Baviera governano con la maggioranza assoluta. Forte è di conseguenza il loro peso anche nella politica federale. Ma oggi, ad un anno dal “colpo di stato“ contro il vecchio presidente Edmund Stoiber l’indebolita voce di Monaco risuona flebile non solo all’interno della “commissione della coalizione”. La Csu è troppo presa da se stessa per pensare ad altro. Il nuovo leader del partito, Erwin Huber, e il capo dell’esecutivo del Land, Guenther Beckstein, non fanno altro che passare da un incidente all’altro e nel partito cresce il malessere. Alle elezioni comunali di marzo la Csu ha perso più di 5 punti percentuali. Un incubo per i democristiani del Land abituati a vincere sempre e comunque. La prima conseguenza della sconfitta elettorale si è vista nel disorientamento dei dirigenti e militanti democristiani. La messa in discussione di molti accordi che
sembravano già in cantiere è venuta subito dopo.
Due esempi su tutti: il grande progetto, dal costo di diversi miliardi di euro, per la costruzione di una navetta magnetica super veloce tra Monaco e l’aeroporto della città, dopo anni di dure lotte è stato accantonato per motivi finanziari. “Troppo caro“ ha detto Beckstein, quando ha visto il preventivo. Se questa decisione ha reso felici gli ambientalisti, ha contrariato la lobby industriale presente nella Csu. Il treno superveloce era il capolavoro dell’ingegneria tedesca. Il colosso Thyssen-Krupp, che ha contri-
Le discussioni tra i democristiani bavaresi potrebbero cambiare i rapporti con l’altro partito cristiano della Germania buito a sviluppare il progetto ferroviario, minaccia ora di vendere alla Cina il progetto. Anche se questo esito era prevedibile, per la coppia che guida la Csu si preparano tempi difficili. La Baviera è minacciata da qualcosa di peggio. La perdita di miliardi di euro da parte della Banca regionale del Land (Bayerische Landesbank), partecipata dallo stato per metà del capitale. Inizialmente si era detto che avrebbe dovuto iscrivere nelle perdite circa 1,9 miliardi di euro a causa della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti. Di recente Beckstein ha dichiarato che
la cifra reale era da raddoppiare. Di qui un problema non lieve dato che il capo della Csu Huber, attuale Ministro delle Finanze nel gabinetto Beckstein fa parte del consiglio di amministrazione della banca e deve ora subire le accuse di non aver reagito tempestivamente a questi dati negativi o perlomeno di aver tentato di tener nascosti fino alle elezioni i dati più preoccupanti.
Le numerose crisi, grandi e piccole, lasciano dunque poco tempo alla Csu di far valere la propria voce nella politica federale. Nel passato la Csu appariva spesso chiassosa, rallegrando così i propri elettori ed amici ma innervosendo anche alcuni Cancellieri, da Adenauer fino a Kohl. Parimenti, una Csu che a malapena fa udire la propria voce fa innervosire non solo lo stesso partito. Anche il Cancelliere Merkel, infatti, guarda con preoccupazione alla Baviera. Quando il fratello più piccolo Csu si indebolisce, alla Cdu viene a mancare a Berlino il maggiore alleato. E di questo la Merkel ha urgente bisogno. Spd e Cdu governano insieme. Sono iniziate le discussioni intorno alla prossima Finanziaria e già si intravedono future spaccature. E proprio ora cade come un fardello sulle spalle della Merkel il capo della Csu Huber, con la sua richiesta di miliardi di euro a favore dei pendolari, la misura di sovvenzione fiscale che già anni orsono - dopo durissimi contrasti era stata in parte accantonata. Questa, viene ora chiaramente pensata come regalo pre-elettorale ai bavaresi. Anche la Merkel aspetta il suo regalo. Vedere la Csu libera da ogni problema.
Le autorita’ giordane hanno dichiarato illegali 22 formazioni politiche che non hanno adeguato la loro struttura ai requisiti imposti dalla nuova legge sui partiti. Lo ha riferito oggi la stampa di Amman. Solo 12 formazioni sulle 37 totali sono riuscite a soddisfare in tempo i requisiti legali, mentre lo status di tre partiti e’ ancora allo studio da parte del ministero dell’Interno di Amman. Tra le formazioni escluse, il Fronte d’azione islamico (Fai), principale partito d’opposizione legato alla Fratellanza musulmana, e il partito comunista locale. I vertici delle due forze politiche accusano il governo di Amman di aver elaborato una legge “ad hoc” per sbarazzarsi dell’opposizione.
Morto Aimé Césaire Simbolo della negritudine, il poeta francofono della Martinica è deceduto ieri all’età di novantaquattro anni. Deputato all’Assemblea nazionale dal 1946 al 1993 e dopo presidente del consiglio regionale del dipartimento Oltre mare francese fino al 2001. Nella sua vita politica, abbandonata nel 2005, Césaire ha sempre messo l’accento sulla necessità di mantenere l’esistenza di una comunità storica per la Martinica e di puntare sul decentramento dell’amministrazione locale.
La repressione cinese raggiunge il Nepal Tra i 300 e i 500 tibetani sono stati arrestati oggi a Kathmandu. Lo riferisce la stampa nepalese on line. Dei manifestanti protestavano dinanzi all’ambasciata cinese nella capitale nepalese, quando e’ intervenuta la polizia. Altre manifestazioni si sono tenute a Bangalore e a Calcutta in India.
Governo nero-verde ad Amburgo Da molti temuta da altri auspicata, la prima coalizione ecologista-democristiana di un Land tedesco è realtà. La città anseatica ha scritto cosi una pagina storica per il sistema partitico della Germania. Reputata fantapolitica la nuova alleanza posa invece su fondamenta solide. Molti militanti verdi appartengono alla buona borghesia cittadina e molti temi ecologisti iniziano a diventare parte integrante dei partiti conservatori tedeschi. Del resto la città ha avuto il suo laboratorio politico con le sue cavie. Le circoscrizioni di Altona e Harburg sono governate da una simile alleanza dal 1994. Circa mezzo milione i cittadini amministrati dall’alleanza nero-verde.
Evgenij Adamov di nuovo in libertà Subito dopo la condanna da parte di un tribunale americano, la giustizia russa ha messo in libertà l’ex ministro dell’energia nucleare della federazione russa. Originariamente Mosca aveva condannato Adamov a cinque anni di prigione per esseresi intascato i soldi che il governo Usa aveva destinato alla messa in sicurezza degli impianti nucleari fatiscenti che la Russia aveva ereditato dall’Urss. Il caso aveva fatto nascere delle tensioni tra Mosca e Washington che si accusavano a vicenda di aver utilizzato i servizi del ministro russo.
Tribunale internazionale per lo Zimbabwe Il capo dell’opposizione di Harare, Morgan Tsvangirai, oggi ha fatto appello alle Nazioni Unite affinchè si giunga allo stabilimento di un tribunale speciale internazionale per giudicare gli autori delle violazioni dei diritti dell’uomo in Zimbabwe.
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speciale approfondimenti
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Il segretario Dc in un celebre discorso annuncia la vittoria
Non fu il trionfo della paura ma sulla paura di Attilio Piccioni Questo breve passo, pubblicato il 29 aprile da Il Popolo, è tratto dal discorso che Attilio Piccioni, segretario politico della Dc, tenne al Teatro Verdi di Firenze il 25 aprile 1948. isogna vedere chiari quelli che sono i lineamenti fondamentali della vittoria della Democrazia Cristiana e indicare con precisione i compiti gravosi che si attendono. Non è la vittoria della Democrazia Cristiana il risultato di una potente folata di vento, che sposta i sentimenti e le idee, e passa. Abbiamo esatta, radicata in tutti noi, coscienza che la nostra vittoria è una riconquista interiore del popolo italiano, che ha ripreso contatto col fondo delle proprie idealità. La consultazione elettorale si è svolta in assoluta libertà, senza nessuna «pressione poliziesca» - come hanno insinuato gli avversari1 -, e circa i «brogli elettorali», se qualche broglio elettorale c’è stato, esso porta il timbro caratteristico del Partito Comunista Italiano, e le conseguenze anche legali di tutto questo sono a dimostrarlo. Quanto all’accusa di «terrorismo religioso», in un momento in cui erano in gioco i principali valori umani, la religione non poteva rimanere avulsa dalla competizione. I cattolici e la Chiesa si sono sentiti in mezzo alla battaglia come espressione di un sentimento profondo, di un dovere di apostolato, ma la libertà di ciascuno è stata da tutti rispettata ed il rapporto fra magistero della Chiesa e cittadini è rimasto come rapporto fra magistero della Chiesa e fedeli.
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Il popolo italiano ha capito che il 18 aprile erano in gioco veramente le sue condizioni di vita morale e materiale; ha capito che si profilava la minaccia di una dittatura, neanche italiana; che era in gioco un rivolgimento economico, nel senso di una regressione; ed ha fatto la sua scelta. La Democrazia Cristiana ha rappresentato per lui l’unica formula che riusciva veramente a dargli la sensazione di voler procedere in avanti, senza soste, ma con equilibrio e rispetto della libertà, per affrontare le gravi responsabilità del momento. Non è stata quindi vittoria della paura: è stata vittoria sulla paura. Ora gli elementi direttivi e gli uomini responsabili del Partito sono decisi ad assumersi tutte le responsabilità. Con l’aiuto di Dio siamo sicuri di compiere il dovere che grava su di noi, nell’interesse del popolo italiano. L’attesa fiduciosa del popolo non sarà delusa.Vogliamo servire il Paese nello spirito di libertà e democrazia, ed attuare quella collaborazione già sperimentata prima del 18 aprile, con altre forze genuinamente democratiche. Saranno garantite libertà e democrazia; ma sia chiaro e preciso che l’una e l’altra hanno un limite nel rispetto e nella libertà di tutti. Quando questo limite fosse attaccato o violentato, è dovere supremo della Repubblica di affermare la legge di fronte a tutti. Si discute, da parte degli avversari, circa la provenienza dei voti della Democrazia Cristiana. Il 2 giugno sono stati 8 milioni quelli che hanno votato per la Democrazia Cristiana; oggi sono quasi 13 milioni. È possibile che siano tutti reazionari? Che non sentano le esigenze della civiltà moderna? Quindi verranno attuate anche le riforme sociali. Questo impegno sarà mantenuto non per schiacciare un ceto sotto l’altro, non per imporre una dittatura piuttosto che un’altra, ma per realizzare la più solida civiltà cristiana, che è aspirazione massima della Democrazia Cristiana. 1. Il 22 aprile su l’Unità Togliatti aveva affermato che le elezioni non erano state «né libere né democratiche» a causa dell’«intervento straniero», delle pressioni del clero e delle «intimidazioni» del Governo. All’apertura del Parlamento, il sen. Pertini e l’on. Amendola chiesero formalmente che le elezioni fossero invalidate perché, a giudizio del Psi e del Pci, si erano svolte «in un clima di coercizione politica, spirituale e materiale»! La pregiudiziale fu respinta, al Senato e alla Camera, dalla Giunta per le elezioni (10 maggio 1948).
Sessant’anni fa si svolsero le prime elezioni politiche dopo l’entrata in vigore della Costituzione
RICORDATE QUEL 18 APRILE... di Aldo G. Ricci l varo della Costituzione (1 gennaio 1948) aprì di fatto la stagione preparatoria delle elezioni politiche del 18 aprile, che fu scandita da avvenimenti interni e internazionali di grande rilievo, e da un crescendo frenetico della propaganda, sviluppata sia attraverso la stampa che attraverso le molte nuove organizzazioni sorte per l’occasione: un confronto acceso che tutti sentirono come risolutivo, e nel quale per la prima volta entrarono direttamente anche gli Stati Uniti, divenuti ormai pienamente consapevoli del carattere globale dello scontro in atto a livello internazionale. Sintomatiche del clima infuocato che si stava instaurando nel Paese furono in particolare le
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con la massima decisione, e soprattutto, come sottolineò in particolare il ministro dell’Interno, di non consentire alcuna deroga al rispetto della legge e all’affermazione dell’autorità dello Stato. Le novità principali negli schieramenti in campo andavano ricercate nei due maggiori partiti. Per il Partito comunista era costituita dalla stretta organizzativa che era seguita alla costituzione del Cominform: una stretta che imponeva obblighi ancora più pesanti rispetto al passato in termini di linea politica. Proprio per questo il tono del congresso del Pci (gennaio 1948) fu tutto improntato a quella tipica «doppiezza» di linea destinata a divenire per molto
Il fermento nel Paese coinvolse le organizzazioni cattoliche, per la prima volta cruciali decisioni nel campo dell’ordine pubblico adottate dal Consiglio dei ministri il 5 febbraio. Una serie di decisioni di eccezionale rilievo, sia sul piano tecnico, per il mantenimento dell’ordine pubblico, che sul piano politico, per il messaggio che lanciavano alle opposizioni, il cui contenuto fu a più riprese ribadito pubblicamente da De Gasperi e da Scelba, i quali confermarono la ferma intenzione del governo di affrontare il prossimo confronto elettorale
tempo una delle caratteristiche salienti. Se da una parte si rivendicava infatti il contributo del partito alla lotta antifascista e alla costruzione di una democrazia di tipo occidentale, in un Paese occupato dagli angloamericani, e quindi in condizioni ben diverse da quelle dei Paesi di nuova democrazia, liberati dall’Armata rossa, dall’altra si mettevano in risalto i limiti «oggettivi» della lotta costituzionale e parlamentare, che avrebbero inevitabilmente richiesto un
«salto» verso forme di lotta diversa: insomma verso quello scontro frontale richiesto, almeno sul piano propagandistico, dal Cominform.
Un esempio significativo di questa sostanziale «doppiezza» è fornito da un episodio di qualche settimana successiva, quasi alla vigilia delle elezioni. Il 16 marzo, in un incontro riservato con l’ambasciatore sovietico in Italia, Kostylev, il leader comunista Pietro Secchia discusse i probabili scenari successivi alle imminenti elezioni, che avrebbero visto, a suo giudizio, la vittoria schiacciante del Fronte popolare. In tal caso, ribadì Secchia secondo una sua costante idea, i comunisti avrebbero dovuto passare all’azione per una definitiva presa del potere, mettendo in conto anche la probabilità che questo comportasse una divisione del Paese, con il Nord occupato dai comunisti e il Sud in mano alle forze «reazionarie». Il fermento che stava crescendo nel Paese in vista del grande confronto coinvolse in forme nuove e di grande rilievo anche le organizzazioni cattoliche, che da tempo avevano cominciato a svolgere un ruolo importante nell’opera di fiancheggiamento, ma anche di controllo e di condizionamento, della Democrazia cristiana. In tale occasione, questa azione risultò decisamente moltiplicata per estensione e intensità, vedendo in prima fila il presidente degli uomini dell’Azione cattolica, Luigi Gedda, il quale fin dal gennaio del 1947 aveva messo in evidenza i limiti e le contrad-
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A sinistra uno dei manifesti elettorali della Democrazia Cristiana Sopra una vignetta del Fronte Popolare dizioni dell’azione della Dc nella lotta al comunismo, e la necessità di dar vita a un’organizzazione di massa più agile e combattiva, della quale egli stesso si fece promotore un anno dopo, il 20 gennaio 1948, a seguito di un decisivo colloquio con Pio XII. Il nuovo strumento, creato per far fronte all’impegno elettorale, fu la rete dei Comitati civici, fondati l’8 febbraio del 1948, che non si limitarono a utilizzare le strutture dell’Azione cattolica, ma tentarono, con
verso la fine di febbraio venne infatti alla sua inevitabile conclusione la crisi cecoslovacca, che covava ormai da molto tempo sotto la cenere, con il colpo di stato comunista che spazzò ogni residuo di democrazia.
Dopo il colpo di Stato di Praga tutto fu più netto, dall’una come dall’altra parte, e si ridusse fin quasi a scomparire lo spazio per quelle forze politiche che precedentemente avevano tentato di trovare margini di auto-
Il mondo intellettuale fu chiamato a schierarsi e si crearono due fronti opposti successo, di coordinare la mobilitazione di tutte le organizzazioni religiose esistenti nel Paese. Gli oltre 300.000 attivisti messi in campo dai Comitati, appoggiati direttamente dalle circa 20.000 parrocchie esistenti in Italia, diedero un contributo di grande rilievo al successo elettorale della Democrazia cristiana, con la quale, peraltro, in quei mesi, non erano mancate occasioni di contrasto. Proprio nei primi giorni della campagna elettorale, il mondo fu sconvolto da un avvenimento che ebbe un impatto devastante sull’opinione pubblica internazionale, ma in particolare su quella italiana, dove esso aveva delle implicazioni e suscitava delle emozioni altrove impensabili. Proprio
nomia tra i due blocchi: due blocchi dove l’arroccamento orientale dietro la nuova «cortina di ferro» produsse inevitabilmente un analogo fenomeno centripeto dall’altra parte (nell’Europa occidentale), anche se in questo caso il fenomeno coinvolgeva Paesi tendenzialmente portati, per tradizioni e storia, verso forme di coordinamento molto più differenziate e dissonanti. Negli Stati Uniti, dove molti intellettuali e dirigenti dell’era roosveltiana avevano fino a quel momento manifestato perplessità di fronte alla prospettiva di una politica di contrapposizione netta all’Unione Sovietica e di contenimento nei confronti della sua politica espansionistica, dopo Praga an-
che i più riluttanti dovettero prendere atto dell’irreversibilità della situazione che si era determinata e della necessità di voltare pagina. In Italia il fenomeno fu ancora più netto, imprimendo al confronto elettorale, che era già stato aperto, ma che cominciò a entrare nel vivo proprio in coincidenza con la crisi cecoslovacca, il carattere di uno scontro «epocale». Significativi di questo nuovo clima esasperato furono i discorsi elettorali dei due principali esponenti politici del Paese, De Gasperi e Togliatti, nella domenica (28 febbraio) successiva alla crisi di Praga. Mentre il leader democristiano ne trasse spunto, come era prevedibile, per una violenta offensiva, sostenendo che la situazione era definitivamente chiarita e che ormai con le elezioni era in gioco «la sorte del Paese e la sua libertà»; Togliatti, al contrario, scelse la via della moderazione, assicurando che l’appuntamento del 18 aprile aveva le stesse caratteristiche di quello del 2 giugno di due anni prima, e che ogni allarmismo era fuori luogo. Insomma, mentre per il primo, che poteva invocare il colpo di Stato cecoslovacco come esempio del disprezzo dei comunisti per i meccanismi della democrazia, quando si fossero loro presentate condizioni favorevoli, le prossime elezioni rischiavano di essere le ultime, se non fossero state vinte dai partiti che si opponevano al Fronte popolare, per il secondo, costretto sulla difensiva, si trattava invece di elezioni del tutto «normali», che solo l’interesse di parte spingeva i partiti della maggioranza a drammatizzare. Questa linea ambigua si trovò nettamente spiazzata e in difficoltà nell’ultima parte della campagna elettorale, quando le prese di posizione americane sullo scontro in
atto in Italia si fecero, se possibile, ancora più nette, fugando ogni equivoco sull’atteggiamento che avrebbero assunto gli Stati Uniti in caso di vittoria delle sinistre. I presupposti di questa accentuazione dell’interesse americano nei confronti dell’evoluzione della situazione interna dell’Italia maturarono nelle settimane successive al famoso discorso di Truman del 13 dicembre 1947, nel quale il presidente americano era stato per la prima volta molto preciso nel sottolineare l’impegno degli Stati Uniti nei confronti del mantenimento della «pace e della sicurezza» in Italia.
Questa indicazione strategica trovò maggiori precisazioni operative nei due rapporti sull’Italia approntati nelle settimane successive dal National security council. Nel primo, del 10 febbraio 1948, veniva affrontata l’eventualità di un aiuto, anche militare, americano nel caso di un’azione contro le istituzioni da parte delle organizzazioni paramilitari del Partito comunista. Nel secondo, dell’8 marzo, successivo quindi al colpo di Stato di Praga, venivano analizzate tutte le possibili iniziative che avrebbero potuto essere adottate da parte degli Stati Uniti (economiche, diplomatiche, ecc.) per contrastare un eventuale successo elettorale del Fronte popolare. Parlando di fronte alla Commissione senatoriale per le Forze armate, alla metà di marzo, il segretario di Stato, Marshall, ricordò che le elezioni italiane del 18 aprile avevano «un’importanza che andava molto al di là degli interessi locali dell’Italia», perché esse avrebbero deciso se «l’Italia avrebbe continuato nel suo processo di ripresa nel quadro di una vera democrazia» o se «la tendenza disintegratrice»
che si era vista all’opera in Paesi come la Grecia, la Finlandia, la Cecoslovacchia e l’Ungheria, «avrebbe potuto raggiungere o meno le coste dell’Atlantico». Se questo era lo scenario internazionale, non meno aspro era quello interno che precedette e accompagnò l’appuntamento del 18 aprile: uno scenario nel quale si assistette a una mobilitazione senza precedenti anche nell’ambito di settori fino a quel momento tradizionalmente estranei alla battaglia politica. Fu questo, per esempio, il caso del mondo della cultura, che venne invitato a schierarsi nella battaglia dall’appello per il Fronte popolare, lanciato il 20 febbraio dalla neocostituita Alleanza per la cultura, che tenne il suo congresso costitutivo a Firenze il 2 e il 3 aprile, e alla quale aderirono esponenti di prestigio come Corrado Alvaro, Arturo Carlo Jemolo, Guido Calogero, Renato Guttuso, Ranuccio Bianchi Bandinelli e molti altri. A questa mobilitazione si cercò di rispondere dall’altra parte con un convegno dal titolo «Europa per la cultura e la libertà», al quale diedero invece la loro adesione, tra gli altri, Benedetto Croce, Gaetano De Sanctis, Luigi Einaudi, Ferruccio Parri e Ignazio Silone: un convegno dove il tema dominante, non a caso, fu quello enunciato già nel titolo, cioè del rapporto tra cultura e libertà, perché «senza la libertà -affermava il manifesto programmatico- alla cultura viene meno l’aria respirabile ed essa decade e si spegne e ne occupa il posto una falsa cultura», come quella che aveva imperato durante il fascismo e che si stava affermando nei Paesi entrati nell’orbita sovietica. L’ultima fase del confronto elettorale fu inevitabilmente quella più accesa, in un crescendo di comizi e di manifestazioni che sempre più spesso sfociarono in incidenti e in scontri sanguinosi tra gli opposti schieramenti. Particolarmente tumultuosi furono i giorni di Pasqua, tra il 27 e il 29 marzo, che molti avrebbero preferito escludere dalla campagna elettorale, e che furono invece fitti di incidenti in numerosissimi paesi dal Sud al Nord della penisola, al punto da richiedere la convocazione urgente sia del Comitato per la tregua elettorale, sia di quello, presieduto da Pacciardi, per l’ordine pubblico. Gli ultimissimi giorni della campagna elettorale furono, se è possibile, ancora più frenetici, con i dirigenti impegnati a spostarsi da un capo all’altro del Paese e con un moltiplicarsi di battute taglienti, comunicati, notizie più o meno allarmistiche e relative smentite.
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speciale approfondimenti
Il 13 aprile, parlando a Milano in piazza del Duomo, De Gasperi accusò i comunisti di riciclare contro di lui le stesse falsità diffamatorie che già gli erano state contestate durante il fascismo e che erano state smentite dalle conclusioni raggiunte al termine di diversi processi, e rivelò il contenuto di un presunto documento del Cominform che sollecitava la messa a punto di un piano da parte dei comunisti italiani e francesi per la conquista violenta del potere. Il 16 gli rispose Togliatti dalla piazza San Giovanni di Roma, e a De Gasperi che aveva detto ironicamente che il capo comunista, come il diavolo, aveva «il piede forcuto», rispose, con parole destinate a restare famose a causa della successiva sconfitta elettorale del Fronte, di aver fatto mettere alle sue scarpe due file di chiodi e di aver deciso «di applicarle a De Gasperi dopo il 18 aprile in una parte del corpo» che non poteva nominare. Nelle stesse ore, davanti alla Basilica di Santa Maria degli Angeli, la figlia di Garibaldi, Clelia, che si era candidata per il Partito repubblicano, si presentò alla folla per deplorare che il Fronte popolare si fosse impadronito dell’immagine del padre per il proprio simbolo elettorale, mentre a piazza del Popolo Scelba garantiva che le elezioni si sarebbero svolte in
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direttamente dallo stesso Viminale, per non accrescere la tensione, con un comunicato del 19 aprile, in cui si precisava che notizie allarmistiche giungevano continuamente al ministero dell’Interno, ma che le misure predisposte per l’ordine pubblico avevano soltanto il consueto carattere precauzionale, obbligato in occasione di consultazioni elettorali, e non erano quindi rivolte a prevenire presunti piani insurrezionali. Il comunicato confermava comunque il regolare andamento delle operazioni di voto e la tendenza saliente che stava emergendo fin dalle prime ore di una massiccia partecipazione alle consultazioni. Le statistiche ufficiali confermarono poi questa circostanza, fissando a oltre il 92% la percentuale finale dei votanti: ben tre punti in più rispetto alla già massiccia partecipazione del 2 giugno 1946.
I primi dati dei risultati elettorali cominciarono a circolare fin dal pomeriggio dello stesso 19 aprile, ma erano talmente contraddittori che nessuno si azzardò a tentare di trarne delle previsioni. Fu soltanto durante la notte, e più ancora il giorno dopo, che il travolgente successo della Democrazia cristiana, con circa la metà dei suffragi, venne a profilarsi in tutta la sua ampiezza. La mattina del
Il Paese liberato dalla paura assoluta libertà, in quanto il governo aveva predisposto ogni misura necessaria a questo scopo, «liberando il Paese dalla paura» nella quale avevano invece tentato di gettarlo i comunisti. Questi pochi episodi, appena ricordati, sono naturalmente soltanto alcuni dei più noti tra i tanti che infiammarono quei giorni decisivi, ma sono comunque significativi del clima in cui il Paese visse i giorni immediatamente precedenti le votazioni. Contro le aspettative di molti, e nonostante il livello crescente della tensione, le consultazioni vere e proprie si svolsero invece in condizioni di relativo ordine e tranquillità, con un susseguirsi di edizioni straordinarie dei principali giornali che commentavano le notizie e le smentite dell’ultima ora in merito a un presunto «piano k», messo a punto dai comunisti per impadronirsi del potere in caso di sconfitta: un piano smentito in-
21 le cifre fissarono definitivamente le proporzioni della sconfitta sia delle sinistre riunite nel Fronte popolare, che ottennero meno di un terzo dei voti complessivi, sia delle destre del Blocco nazionale, che videro più che dimezzati i risultati ottenuti nel 1946, anche se in questo secondo caso le aspettative erano state molto meno ottimistiche che per il Fronte. Risultati così netti, ma allo stesso tempo così lontani dalle previsioni avanzate dalla maggior parte degli osservatori, si potevano spiegare soltanto con il carattere del tutto eccezionale assunto dalle prime elezioni politiche. La massiccia partecipazione al voto e la sua radicalizzazione, favorita dall’inasprimento del clima internazionale, a seguito della crisi cecoslovacca, avevano trasformato infatti le votazioni in un vero e proprio referendum sul tipo di regime che avrebbe dovuto governare l’Italia negli anni successivi.
Questa «manicheizzazione» del voto in un plebiscito epocale tra comunismo e democrazia era stata accettata e favorita sostanzialmente da entrambi i fronti in competizione, e si era ulteriormente accentuata nel corso di una campagna elettorale che aveva via via tolto terreno alle forze intermedie, sia sulla destra che sulla sinistra. Inoltre, le parole d’ordine in favore di forme di lotta extraparfrequentemente lamentare, emerse nei comizi finali dei socialisti e dei comunisti, così come il distacco e l’ostilità con cui entrambi avevano affrontato le dolenti questioni delle perdite territoriali in Istria, avevano contribuito a isolare il Fronte rispetto all’insieme del corpo elettorale, facilitando in un certo senso il compito della Democrazia cristiana. Di fronte al bivio che si era presentato al Paese, la risposta delle urne era stata inequivocabile, mettendo in evidenza che la stragrande maggioranza degli italiani intendeva optare senza incertezze per il mondo occidentale, mentre soltanto una netta, anche se forte, minoranza accettava la prospettiva di una «democrazia popolare» sul tipo di quelle che si erano affermate nei Paesi occupati dall’Armata Rossa. Alla fine, da questo implicito e anomalo referendum, era risultata premiata la Democrazia cristiana, apparsa agli elettori delle più diverse estrazioni sociali e culturali come la formazione politica che più di ogni altra aveva saputo proporsi come l’unica diga realmente esistente e possibile, anche per l’appoggio convinto che godeva ormai sia da parte della Chiesa che degli Stati Uniti, nei confronti dell’offensiva, allora assai concreta e temibile, del movimento comunista internazionale.
dalla Democrazia cristiana), e sfiorandola al Senato, per la presenza a Palazzo Madama di numerosi membri di diritto provenienti dalle file comuniste. Si trattava di un successo di dimensioni imprevedibili, che premiava la strategia degasperiana volta a circoscrivere e isolare il Pci e le forze ad esso collegate, togliendo allo stesso tempo qualunque sostegno di massa alle formazioni conservatrici, che potevano rappresentare i più seri concorrenti potenziali all’egemonia demo-
cristiana sul fronte moderato. Una strategia impegnata insomma a fare della Democrazia cristiana l’unica forza in grado di garantire allo stesso tempo il proseguimento del cammino intrapreso dopo la fine della guerra con l’affermazione dei partiti antifascisti, in una prospettiva di solidarismo sociale interclassista, lontana però da qualsiasi tentazione integralista, ma soprattutto un forte e netto radicamento del Paese nell’area delle democrazie occidentali: una prospettiva sufficiente a
Nonostante la grande tensione, le elezioni si svolsero in condizioni di relativo ordine
Era questo lo scenario entro il quale si erano create le premesse per i clamorosi risultati delle prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana: risultati che per le proporzioni del successo democristiano e della sconfitta delle sinistre avevano colto di sorpresa non solo, come si è detto, la maggior parte dei commentatori, ma anche molti degli stessi protagonisti. La Dc passava infatti dagli 8 milioni di voti del 2 giugno del 1946 ai circa 12 milioni e 700.000 del 18 aprile 1948, che in percentuale rappresentavano un salto dal 35,2 al 48,5%, conquistando da sola la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera, con 305 seggi su 574 (rispetto ai 207 deputati alla Costituente ottenuti
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convogliare sul simbolo dello scudocrociato quasi la metà dei suffragi espressi. Un plebiscito così netto non poteva che travolgere inevitabilmente tutti gli altri contendenti, a cominciare dai principali avversari. Il Fronte popolare otteneva quindi appena il 31% dei voti, rispetto al 40% di due anni prima, raggiunto dai partiti della sinistra con liste separate, mettendo in evidenza come la scelta per le liste uniche fosse penalizzante per la sinistra nel suo complesso, ma fosse soprattutto suicida per la componente socialista. Questa, infatti, perdeva per strada il suo tradizionale elettorato riformista e passava per la prima volta al secondo posto tra le forze di sinistra, rovesciando un primato di consensi fino a quel momento storicamente indiscusso e inau-
gurando una tendenza alla subalternità rispetto al «fratello maggiore» comunista dalla quale non si sarebbe sostanzialmente mai più ripresa. Inoltre, la maggiore forza organizzativa del Pci, della quale i dirigenti socialisti avevano pensato di potersi avvalere nella competizione per facilitare il successo elettorale delle sinistre unite, si rivelò insufficiente per raggiungere la vittoria, ma costituì invece l’arma più efficace proprio per rovesciare i rapporti di forza nella stessa sinistra. All’interno del Fronte, infatti, per il gioco delle preferenze, nel quale i comunisti si dimostrarono maestri, il Pci ebbe ben 143 seggi, mentre soltanto 39 andarono al Psi, nonostante i due partiti avessero ottenuto un numero di voti effettivi pressoché uguale. Un buon successo venne invece
ottenuto dalle liste di Unità socialista (Psli e alleati), su posizioni in linea con la tradizione riformista e nettamente orientate in senso antitotalitario, che raggiunsero il 7,1%, con ben 33 rappresentanti alla Camera (una compagine pressoché uguale a quella del Psi), mentre i repubblicani scesero dal 4,4 al 2,5%, passando da 23 a 9 deputati. Altrettanto e forse ancor più travolgente si dimostrò il rullo compressore democristiano sul fronte delle destre, dove la situazione, all’apertura delle urne, si presentò ulteriormente e profondamente mutata rispetto ai risultati di due anni prima. Già il 2 giugno, come si ricorderà, aveva segnato un pesante ridimensionamento (rispetto alle ultime, e ormai lontane, elezioni democratiche) per le formazioni liberali prefasciste, nelle quali figuravano i maggiori esponenti della vecchia classe dirigente, da Croce a Nitti, da Ruini a Orlando, le quali, attraverso l’Unione democratica nazionale, avevano raggiunto appena il 6,8%. Ma allora, accanto ad esse figurava nell’area del centrodestra almeno un’altra formazione importante come l’Uomo qualunque, che, con il suo 5,3%, portava complessivamente a circa il 12% i consensi per le formazioni moderate: una percentuale ancora ragguardevole, anche se ben lontana da quella che nelle stesse consultazioni si era pronunciata per la monarchia nel referendum, a conferma del voto trasversale che aveva caratterizzato la questione istituzionale.
Il 18 aprile segnò quindi un passo ulteriore e definitivo per l’affermazione della strategia messa in atto dalla Democrazia cristiana, e in particolare da De Gasperi, per contrastare, con l’aiuto finalmente senza oscillazioni delle strutture ecclesiastiche, la presenza di altre formazioni di massa sulla sua destra: un’affermazione che aveva trovato ormai nell’opposizione a una sinistra egemonizzata dalle forze totalitarie il cemento capace di tenere insieme forze sociali e interessi profondamente diversi tra loro, coagulando in un unico blocco, che tagliava trasversalmente la società italiana, ceti medi e imprenditori, contadini e operai, piccola borghesia impiegatizia e sottoproletariato. Al termine degli scrutini il quadro politico dell’Italia postbellica era ormai netto e sostanzialmente consolidato intorno a un particolare equilibrio, che si sarebbe confermato per quasi un quarantennio, che vedeva un
grande partito, la Dc, «destinato» ormai a esprimere il centro motore del governo del Paese, e un altro partito di massa, il Pci, chiamato invece a rappresentare specularmente il ruolo dell’opposizione, oltre a una costellazione di formazioni minori destinate, con alterne fortune, a ricoprire i ruoli minori, con una divisione dei compiti non scritta, ma pressoché istituzionalizzata.
La Democrazia cristiana, dal canto suo, faceva invece il pieno dei voti su un arco sociopolitico che andava dal centrosinistra al centrodestra, secondo
fondamentale intuizione strategica che De Gasperi aveva perfezionato nel corso del 1947, respingendo ogni appello integralistico proveniente tanto dall’interno del suo partito quanto dal mondo cattolico, e privilegiando invece il consolidamento di una politica delle alleanze con i partiti laici anche in presenza di una situazione parlamentare (come quella successiva al 18 aprile) che, almeno in termini numerici, non l’avrebbe necessariamente richiesto. Era questo, insieme all’affermazione del primato cattolico, il secondo corno della strategia degasperiana, che avrebbe consentito
L’armata bianca travolge tutti una linea che, come si è detto, correva trasversalmente non solo all’interno di tutti i gruppi sociali, ma anche dei più diversi orientamenti culturali e ideali. Con il 18 aprile, la Dc conquistava finalmente quella centralità politica che era stata l’obiettivo primario della politica degasperiana fin dalla caduta del fascismo: un obiettivo che essa era sembrata sul punto di raggiungere a giugno del 1946 e che poi aveva visto allontanarsi pericolosamente nei mesi successivi. Sull’onda irresistibile della guerra fredda e della scelta di campo, il 18 aprile rovesciava invece definitivamente le precedenti tendenze elettorali negati-
negli anni successivi, prima al leader trentino e poi ai suoi successori, di smussare l’eterogeneità delle forze che avevano dato il consenso alla Dc e di recuperare, almeno parzialmente, quel filone laico e risorgimentale che era estraneo alla tradizione cattolica e popolare, ma che era comunque essenziale per garantire, in una fase storica ancora profondamente incerta, una qualche forma di continuità con le radici dello Stato unitario. Si trattava di una prospettiva strategica che aveva nobili precedenti nella storia politica dell’Italia unita, iscrivendosi a buon diritto nella migliore tradizione dell’era giolittiana.Tale
Il 18 aprile, la Dc conquistava quella centralità politica che era stata l’obiettivo di De Gasperi ve, che erano sembrate sul punto di mettere in discussione l’egemonia democristiana nella seconda metà del 1946, attribuendo al partito cattolico una centralità nello schieramento politico e nella dialettica parlamentare che non saranno più insidiati per un’intera epoca storica. Questa centralità egemonica era rafforzata altresì dalla opportunità che ora si presentava alla Democrazia cristiana di poter finalmente contare su un nucleo articolato di convinti anche se deboli alleati, di sicura fede antitotalitaria, sia sulla sua destra che sulla sua sinistra, secondo una
strategia avrebbe consentito al partito cattolico da un lato di sfuggire alle forti e persistenti sirene dell’integralismo guelfo, ma, dall’altro, di poter determinare, senza necessità di soverchie mediazioni, gli equilibri delle maggioranze che negli anni successivi avrebbero formato i nuovi esecutivi e fissato l’indirizzo di quelle riforme sociali dalle quali il Paese non poteva prescindere, permettendogli di recuperare rapidamente, anche se spesso malamente, in termini di crescita civile, il tempo perduto rispetto agli altri Paesi europei sulla via della modernità.
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speciale approfondimenti
Carte
Il Partito si presentò come una formazione di ispirazione marxista e rivoluzionaria
QUANDO INIZIÒ IL SUICIDIO DEI SOCIALISTI di Arturo Gismondi ono bastati meno di due anni, dal 2 giugno 1946, il giorno della vittoria elettorale dei socialisti, secondi fra i grandi partiti di massa dopo la Dc, primi nella sinistra, con il 21 per cento di voti due punti in più del Pci, per annullare un risultato, in parte imprevisto, compromettendo insieme le sorti del socialismo italiano, e quelle della nostra democrazia consegnata con la sconfitta del 18 aprile a quello che diversi anni dopo venne definito il “bipartitismo imperfetto”: due partiti dominanti, la Dc sempre al governo, il Pci sempre all’opposizione. A ricostruire le vicende di quei mesi e anni, l’operato del gruppo dirigente socialista appare come una sorta di suicidio, al quale si avviò o si dedicò una classe dirigente nella quale spiccavano pure nomi prestigiosi, fra i quali Nenni, Pertini, Basso, Silone, Saragat, Modigliani, Faravelli, Lombardo, Zagari, Vassalli e tanti altri. Il Psiup, come si chiamava allora, fu il risultato di una unità fra il Psi, vissuto nella sua classe dirigente per lo più all’estero, Nenni a Parigi, Saragat aVienna, ma anche nelle carceri o al confino, e il Movimento di unità proletaria che aveva alimentato il suo antifascismo in Italia, nelle università, nei circoli intellettuali che non cessarono mai di animare una opposizione antifascista. La eterogeneità delle esperienze, le diversità ideologiche non bastano a spiegare il rapido declino, o la rovina, di un partito centrale in ogni paese dell’Europa Occidentale, e che avrebbe potuto esserlo anche in Italia. La sorte dei socialisti italiani fa pensare, in un quadro di eventi diversamente drammatici, a quella dei partiti dell’est europeo. E qualche similitudine la si può trovare anche se l’Italia non ha conosciuto la tragedia dell’occupazione sovietica. In compenso i nostri socialisti si sono presentati sin dal primo momento sulla
S
scena politica democratica con un formidabile handicap riguardante i rapporti col Pci. Già in una riunione a Roma durante il breve periodo seguito alla caduta del fascismo e durante la fragile tregua del governo Badoglio, i dirigenti socialisti presenti nella capitale, la data è quella del 23 agosto 1943, approvarono e resero pubblica una dichiarazione nella quale si affermava che «il partito intende realizzare la fusione dei comunisti e dei socialisti in un unico partito sulla base di una chiara coscienza delle finalità rivoluzionarie del movimento operaio». In attesa, si dava notizia di un patto di unità d’azione concluso col Pci.
Il Partito socialista, dunque si presentò agli italiani come una formazione di ispirazione marxista e rivoluzionaria. Al fondo c’era il proposito di cancellare la dolorosa scissione di Livorno del 1921. Con due dimenticanze che risulteranno fatali: la riunificazione avveniva su una base massimalistica, anziché riformista. E nella nuova situazione storica veniva ignorata o cancellata sia la degenerazione dell’esperienza comunistasovietica, e c’erano stati i grandi
do, e i comunisti italiani erano i militanti che in maggior numero avevano riempito le carceri e i confini fascisti. E però, uomini e politici vissuti a Parigi come Nenni, immersi in un clima e in una cultura europee non potevano sottovalutare o ignorare, come fecero, il tanto di nuovo e di diverso vissuto fuori dai confini e nella parte orientale dell’Europa. E il Togliatti sbarcato a Salerno nel 1943, non era un esiliato qualsiasi che tornava dopo tanti anni nella sua Patria. Era un leader prestigioso, e abile, che aveva raggiunto il nostro Paese da Mosca con un periplo avventuroso e con un mandato ricevuto da Stalin in persona. Paradossalmente, toccò a Togliatti come primo compito rimuovere i socialisti da una posizione massimalista, il rifiuto di ogni collaborazione col governo nazionale, affidato a un uomo del pre-fascismo, Ivanoe Bonomi, il quale aveva ricevuto l’incarico dal Luogotenente del Regno Umberto di Savoia, con il consenso delle forze alleate, di costituire un governo di unità nazionale con i partiti del Cln. I socialisti alla fine dovettero fare di necessità, e di realtà, virtù spedendo nel governo, costituito a Roma nel giugno 1944, due ministri,
La loro sorte fa pensare a quella toccata ai partiti dell’est europeo processi politici degli anni ’30. E si ignoravano altresì i legami strettissimi che nel frattempo i comunisti italiani avevano stabilito con la Russia sovietica e con la Terza Internazionale. È vero che l’Urss era vissuta nella opinione pubblica del tempo, come l’alleata nella guerra antifascista, il Paese di Stalingra-
Pietro Mancini e Giuseppe Saragat. Così, nota Antonio Landolfi nel suo libro Il socialismo italiano, «Togliatti si assicurò per l’intanto la guida della sinistra su un argomento decisivo come quello del governo di un Paese tuttora in guerra e drammaticamente diviso». Da allora il gruppo dirigente
del Psiup, suo malgrado al governo, dovette dividere le sue cure fra le vicende interne di partito e i problemi immani di un Paese nel quale la metà del territorio era ancora in mano ai nazisti. Ove peraltro i socialisti, raccolti nelle Brigate Matteotti, combattevano a fianco delle comuniste Brigate Garibaldi conservando tuttavia in modo geloso la loro autonomia.
Con la liberazione di Milano, nei giorni successivi al 25 aprile 1945, l’Italia torna unita dalla Sicilia alle Alpi, si creano nuovi equilibri: Bonomi si dimette il 12 giugno, il 21 si costituisce il governo Parri, Pietro Nenni è vice-presidente del Consiglio, rientrano nel governo i ministri di tutti i partiti del Cln, dalla Dc ai liberali, ai comunisti, agli azionisti, ai demo-laburisti. Il governo è un punto di arrivo per la sinistra, ma non per le forze più moderate, che mostrano ben presto dubbi e riserve, rimproverando ad esso improvvisazioni, impreparazione, e confuse velleità massimalistiehe, in verità soprattutto verbali. Si dimettono per primi, il 21 novembre 1945, i ministri liberali, seguono i Dc, il 21 Parri si dimette, la crisi si conclude il 10 dicembre, la guida passa a De Gasperi che costituisce il suo primo governo. Restano nel governo tutti i partiti del Cln, Nenni è confermato vice-presidente, ma si ha la sensazione che la crisi italiana con De Gasperi alla guida del governo abbia raggiunto un punto fermo. Le sinistre sono scontente, l’Avanti! lamenta la rapida fine del “vento
del nord”, si sospetta l’intervento delle autorità militari alleate. Le proteste durano però poco, il futuro mette tutti dinanzi alla realtà di un Paese e di un impianto costituzionale da ricostruire. È in programma l’Assemblea Costitunte, che sarà il primo Parlamento democratico della nuova d’Italia, c’è il referendum che dovrà scegliere fra monarchia e repubblica. In vista di tanti eventi e traguardi, i partiti debbono darsi una consistenza nazionale. I più pronti sono i comunisti i quali dispongono già di una presenza territoriale, e di una struttura che in buona misura è già professionale ( proiezione dei “rivoluzionari di professione” di Lenin). Dal 29 dicembre 1945 si riunisce a Roma il congresso comunista, 2 mila delegati ascoltano una relazione di Togliatti sulla “democrazia progressista” e nella quale si fa appello alla continuità della unità antifascista da preservare contro possibili ritorni reazionari. Il congresso ascolta una seconda relazione di Luigi Longo il quale parla della fusione col Psi nella quale si invitano i militanti a fare “dal basso” quel che incontra le prime resistenze nel Psi a livello di gruppi dirigenti. Un mese dopo si riunisce il congresso del Partito d’Azione che rivela il dualismo ormai lacerante fra un’anima liberale, capeggiata da La Malfa, Parri, e una socialisteggiante, con Lussu, Cianca e altri. I reduci di cultura socialista confluiranno via via nel Psiup, il dibatttito ne guadagnerà in livello culturale, non in chiarezza. Si riunisce finalmente a Firen-
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continuato a vivere nelle famiglie italiane come il partito del popolo, e della perduta libertà», come scrive Antonio Landolfi nel suo libro Il socialismo italiano, una miniera di dati per la ricostruzione di quei giorni.Al tempo stesso, il voto confermava una spinta a sinistra esistente nel Paese, i voti di socialisti e comunisti superavano quelli Dc, ma la preferenza andava a una sinistra moderata, e sicuramente democratica.
ze, dall’11 al 17 aprile il XXIV congresso del Psiup, il più atteso di questa stagione politica. Il dibattito ha al centro i rapporti col Pci, si parla meno di fusione, si parla di Patto d’unità d’azione, che molti considerano nel quadro di una più generale unità antifascista. Si forma nell’aula congressuale una maggioranza, politica più che numerica, a guidarla sono Nenni, Basso, Morandi. Il resto del partito, costituito da una opposizione peraltro divisa, resta favorevole a una alleanza politica ma è contraria alla fusione: sono le correnti di Critica sociale e di Iniziativa socialista con la quale si schierano Saragat, Lombardo, Modigliani, Faravelli. E si collocano al centro, con una funzione mediatrice, personaggi assai diversi come Pertini e Silone. È eletto presidente del partito Pietro Nenni, segretario Lombardo, ma si forma una direzione mista nella quale sono uomini delle diverse correnti: Basso, Cacciatore, Pertini, Silone, Saragat, Zagari, Simonini e altri. Si fa posto dunque alle diverse opinioni, viene rifiutata la linea leninista di Basso, che aveva proposto uno statuto contrario alle correnti organizzate. È una soluzione democratica, ma anche saggia visto che il 2 giugno sono fissate le elezioni per la Costituente, e il referendum. I risultati del 2 giugno piovono come un balsamo, in parte inatteso, sul partito socialista. Secondo dopo la Dc col 21 per cento dei voti, due più del Pci, il voto conferma «il profondo attaccamento degli italiani al socialismo, che aveva
L’interpretazione del voto, aprì in effetti a sinistra un dibattito alquanto confuso L’ala massimalista vide in esso un premio alla propria linea, con la esistenza di una forza preponderante almeno rispetto alla Dc e da ciò si traevano conclusioni “unitarie” per nulla scintate, come i fatti dimostrarono. Nelle elezioni amministrative dell’autunno il Psiup si presentò, a Roma a Napoli e in altre città, con i comunisti sotto il simbolo del Blocco del Popolo. Quelle elezioni segnarono un calo di voti della Dc, ma a giovarsene non furono le liste del Blocco del Popolo ma quelle dell’Uomo Qualunque e di altre formazioni di destra. Fu il segnale di una inquietudine temporale soprattutto al Sud e la Dc mostrò ben presto che aveva ben altre frecce nel suo arco. De Gasperi partì ai primi di gennaio per un viaggio negli Stati Uniti, accompagnato dal ministro per il Commercio estero Campilli, dal direttore della Banca d’Italia Menichella e dal capo dell’ufficio cambi Guido Carli. Nel lungo viaggio, dieci giorni, De Gasperi incontrerà Harry Truman, che garantirà ogni appoggio all’Italia, definita in altra occasione dal presidente Usa, insieme alla Grecia, come un Paese da difendere dalle mire sovietiche. Il viaggio, e l’accoglienza di Truman, un preludio al lancio del Piano Marshall per l’Europa anticipava quel che si andava muovendo nel mondo e fra le due sponde dell’Atlantico. Quanto alla sinistra, e ai socialisti, le liste del Blocco del Popolo e il si-
ma. La maggioranza del Psi rinnovò, a pochi mesi dal congresso, il Patto d’unità d’azione col Pci. In data 25 ottobre 1946 si riunirono le direzioni congiunte dei due partiti, per decidere la costituzione di una “giunta centrale di intesa” mista per la politica, affiancata da una seconda “giunta d’intesa parlamentare”per la coordinazione dell’attività legislativa. L’opposizione all’interno del Psi, divisa fra due componenti, ambedue avverse al Pci, una delle quali collocata alla sua sinistra, nella quale figuravano giovani come Zagari, Vassalli, Ruffolo, si inabissò in dispute dottrinarie nelle quali vennero rievocate le storie del socialismo mondiale, e del comunismo, le dispute fra Lenin e il “rinnegato Kautskj”, fra Stalin e Trotzki. In questo clima, e in questa differenza di interessi, il congresso del Psiup, fissato per i primi di dicembre a Roma, non riuscirà neppure a riunirsi. La maggioranza si riunisce nell’aula magna dell’Università di Roma, i dissidenti in un’aula di Palazzo Barberini. Sandro Pertini si impegna in una spola fra le due assemblee per scongiurare una rottura ormai in atto. Saragat si tenne in disparte per qualche giorno, poi decide di parlare nell’aula dell’Università, ma solo per dare l’addio a quello che era stato fin lì il suo partito. Saragat era rimasto impressionato da una relazione del segretario dei giovani, Matteo Matteotti, che reduce da un giro di ispezione nel nord aveva riferito che sovente nelle sezioni socialiste partecipavano ai congressi, votando, gli iscritti alla sezione del Pci in un clima di “fusione dal basso”, proprio quella auspicata da Luigi Longo. Lo stesso Saragat, l’uomo
Dalla scissione nascono due partiti, entrambi subordinati: uno al Pci ed uno alla Dc gnificato che ne veniva dato non piacevano a tutti, e c’è chi avvertì che qualcosa stava cambiando nell’aria. Giuseppe Saragat in una intervista al Giornale d’Italia criticò la direzione del Psi, e Nenni, per il loro palese filo-comunismo. Ne nacquero polemiche furibonde, e la decisione di convocare un nuovo congresso per i primi di gennaio del 1947 che chiarisse quanto era rimasto di non chiaro nel precedente, di pochi mesi pri-
che meglio aveva saputo capire quel che succedeva in Italia e nel mondo, sarà il leader e il segretario del Psli ( il Partito socialista dei lavoratori italiani) nato da Palazzo Berberini, al quale aderiranno in fasi successive una quarantina di parlamentari, poco meno della metà di quelli eletti il 2 giugno 1946. Il leader degli “unitari”, che riprenderanno il nome del Partito socialista sarà certo Nenni, ma il vero padrone del partito sarà Lelio
Sopra Pietro Nenni, a sinistra la caricatura di Garibaldi-Stalin
Basso, che sarà eletto segretario. Il risultato della scissione sarà la sopravvivenza di due partiti socialisti, l’uno subordinato alla strategia frontista del Pci, l’altro destinato a una sorte minoritaria rispetto alla gestione della Dc. C’è qualcosa d’altro, e di più importante. Il 1947 è l’anno in cui il mondo entra in una crisi drammatica che viene definita e resta per fortuna “ guerra fredda”, che divide però l’Europa e il mondo e nella quale ogni Paese, e al suo interno le forze politiche, sono chiamate a schierarsi. Churchill ha già pronunciato alla fine del ’46 in una cittadina canadese, Fulton, il suo discorso nel quale si afferma lapidariamente che «una cortina di ferro è caduta da Danzica a Trieste». E l’Italia, è interessata più di altri Paesi. E del resto, quale era la scelta della Dc, dopo il viaggio di De Gasperi negli Stati Uniti, appare fin troppo chiaro. Ma agli occhi degli italiani appare chiaro anche da che parte stanno i comunisti e i socialisti schierati al loro fianco. Nel giugno 1947, nelle elezioni regionali in Sicilia, il Blocco del popolo, con l’immagine di Garibaldi nel simbolo, ottiene un buon successo, superando nell’isola i voti di un anno prima di Pci e Psiup. La circostanza spinge Nenni a ipotizzare, sull’Avanti! una analoga soluzione
sul piano nazionale. Ciò conferma l’ipotesi che a spingere verso il Fronte Popolare non fu Togliatti, fu Nenni, il quale si rendeva conto che fra la muraglia del Pci a sinistra, e i“saragattiani”a destra il Psi sarebbe uscito male da elezioni nelle quali si fosse presentato in modo autonomo. Nacque così il Fronte Popolare, col faccione di Garibaldi nel simbolo che dette vita a una campagna elettorale asperrima. Sulle mura d’Italia il volto di Garibaldi venne sostituito da quello di Stalin, Togliatti affermò in un comizio che si era risuolato le scarpe per cacciare De Gasoeri dal governo. Per la Chiesa di Pio XII si mobilitarono i comitati civici di Gedda, le“madonne pellegrine” erano portate in giro per l’Italia. I risultati furono disastrosi per il Fronte, la Dc ebbe 12 milioni e mezzo di voti, pari al 48.5 per cento, e la maggioranza assoluta dei seggi sia alla Camera che al Senato, il Fronte Popolare superò di poco gli 8 milioni, le liste di Unità socialista, Psli e altri, ebbero il 7 per cento, una quarantina di deputati. Il peggio era toccato al Psi I comunisti manovrando in modo spietato il voto di preferenza, misero insieme 145 seggi, lasciandone al Psi 39. Il partito di Nenni entrò in un cono d’ombra destinato a durare a lungo. Soltanto nel 1956, dopo la repressione ungherese, Nenni restituì il Premio Stalin, assegnatogli da Mosca anni prima, e dette inizio a una stagione di contrastato autonomismo, che si completò solo con la segreteria di Craxi, ma solo venti anni dopo, nel 1976, dopo l’ultima sconfitta del Psi, segretario De Martino, rimasto a predicare gli “equilibri più avanzati”, va da sé coi comunisti al governo.
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economia
ROMA. «Sbagliato, ottuso e masochistico». L’economista Mario Baldassarri fotografa in modo diretto il comportamento di una Bce che non taglia i tassi per il forte allarme inflazionistico, quando non ha alcun potere sulle due voci, petrolio e alimentari, che crescono di più. «E così si dà soltanto un pesante freno alla crescita senza un reale controllo dell’inflazione. Che si spinge verso il 4 per cento», nota il senatore del Pdl e presidente del Centro Studi Economia Reale. Perché sbaglia la Bce? Per la semplice ragione che siamo di fronte a un’inflazione che viene dall’esterno dell’Europa, dovuta alle materie prime. E a una interna dovuta a concentrazioni di potere di mercato. È il caso, in Italia, delle ex municipalizzate che controllano gas, luce e acqua: sono queste ad aver determinato la botta più forte al carovita. Quindi? È sbagliato perché da 70 anni nessuno crede più all’equazione di Fischer, dove è la moneta a controllare i prezzi. Perché la Bce è ottusa? Perché questo tipo di inflazione era chiaro già da due anni, e la Bce, con le sue scelte, ha perseverato nell’errore. Quindi è masochista? Con il pesante freno alla crescita che si determina, e unito all’effetto collaterale Supereuro, si alimentano spinte inflazionistiche. È vero che la produttività è determinata nel medio termine da ricerca e innovazione, ma nel breve il carovita è una variante strategica. A cosa è dovuto l’atteggiamento dell’Eurotower? Alla difesa dei grandi poteri finanziari, ma è una scelta miope. La finanza è stabile se l’economia reale produce e cresce. Altrimenti la ricchezza si tramuta in pezzi di carta. Intanto l’euro viaggia verso i 1,60 dollari. E non si perde competitività soltanto nei confronti del dollaro. Trascuriamo che abbiamo permesso alla Cina di decidere politicamente il cambio dello yuan, non lasciandolo libero di apprezzarsi sul mercato. Così abbiamo garantito un dazio negativo, un dumping valutario. E parliamo di un Paese dal quale compriamo molto e ci toglie spazi di mercato. E se aggiungiamo un altro dumping a agli altri che fa… La soluzione? Tagliare i tassi, anche se sarebbe stato meglio non rivalutare l’euro. Do un dato noto: ogni 10 centesimi di aumento dell’euro su dollaro e yuan determina un freno della nostra crescita dello 0,5 per cento. Il che vuol dire
Per Mario Baldassarri è da «ottusi e masochisti» non abbassare i tassi
«La Bce frena la Ue e spinge l’inflazione al 4 per cento» colloquio con Mario Baldassarri di Francesco Pacifico che se l’euro fosse a 1,20 invece di 1,60, l’Europa crescerebbe del 2 per cento in più rispetto a quanto fa. Italia e Francia vogliono ridefinire i poteri della Bce. Il problema è chiarire, non ridefinire, il controllo dell’inflazione, che è l’obiettivo della Bce. In tempi non sospetti ho scritto un libro, l’Economia
mondiale verso lo squilibrio globale, nel quale chiedevo alla Bce di controllare i prezzi ma non in modo masochistico, avendo un occhio anche alla crescita. Si può portare il carovita a zero, ma che sen-
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so ha se poi la crescita arriva a 5 per cento? Ma sulla Bce la Germania non permetterà guerre. Non si tratta di andare allo scontro, ma di ragionare su cosa deve essere l’Europa, se vogliamo fare soltanto una piazza finanziaria, il che può valere per la Svizzera, non per un intero continente. Le posizioni sono diverse. Le stesse cose che ripeto io, le dice Fitoussi in Francia, che è stato consigliere economico di Mitterand e ora sta con Sarkozy. Il problema, caso mai, è che la sinistra italia-
Il carovita è dovuto a petrolio e ad alimentari. Voci sulle quali l’Eurotower non può intervenire. E così perdiamo competitività sulla Cina
”
na ha sposato il rigore della destra degli anni Venti con 80 anni di ritardo. I rigoristi dicono che, nonostante i tassi forti, l’export della Ue cresce. Sale in termini assoluti, ma perde quote di mercato: aumentiamo del 2 per cento, il resto del mondo del 10. E c’è un trucco: si inserisce il commercio intraeuropeo, che va considerato commercio interno. Il presidente della Buba, Axel Weber, dice che l’euro limita «le pressioni sui prezzi», perché frena gli acquisti di petrolio. È come legare le gambe a uno che deve correre i cento metri e chiedergli uno sforzo in più per vincere. Puro masochismo. Che risposte ha, quando critica la Ue? La risposta, sciocca, è sempre la stessa: facciamo così per spingere i governi a fare le riforme strutturali. Ma nessuno mi ha ancora spiegato perché è più facile fare le riforme quando l’economia è a crescita zero. Non crede che, così, si finisca per non intervenire sul gap di produttività? Chiariamo: in Europa il problema della produttività è fare le grandi reti di logistica scontrandosi contro quegli alti imbecilli di Bruxelles, per i quali devi stare sotto al 3 per cento anche se fai gli investimenti. In Italia, invece, Berlusconi detasserà gli straordinari. Ma basterà? Certo che no. È un primo passo, ma occorre riprendere i piani infrastrutturali, e affrontare il problema energetico, muovendosi nell’immediato con carbone pulito, rigassificatori e varando un piano di dieci centrali nucleari in modo da averle pronte tra dieci anni. Ottimista. Non è vero che l’Italia non ha più investito nel nucleare: dal 1987 a oggi abbiamo pagato il corrispondente di 22 centrali. Peccato che si sono costruite in Francia, in Svizzera o in Austria. E a parità di rischio. E la riforma contrattuale? Indispensabile il decentramento se si vuole incentivare la produttività, là dove si produce. E poi tagliare le tasse e la spesa aggiuntiva da 70 miliardi lasciata da Prodi. Per concludere, concorderà con il Fondo monetario che pronistica per l’Italia una crescita dello 0,3 per cento. Le ultime stime del mio Centro Studi Economia Reale – e considerando il petrolio a 110 dollari, l’euro a 1,60 e la crescita americana allo 0,8 per cento – ipotizzano che il Pil sarà a -0,2 per cento. Diciamo che il Fondo pecca di ottimismo.
economia
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Vertice tra i due Letta (Enrico e Gianni) per trovare una soluzione sul prestito ponte vietato da Bruxelles
Alitalia,corsa (bipartisan) contro il tempo d i a r i o
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g i o r n o
L’abolizione dell’Ici costa 2,2 miliardi Secondo gli ultimi calcoli elaborati dai tecnici del ministero dell’Economia, abolire l’Ici costerà poco meno di 2,2 miliardi di euro. Per queste stime, il gettito totale dell’Ici sulla prima casa, equivale a circa 3,3 miliardi, senza considerare, ovviamente, l’evasione fiscale. Di questi, il gettito per le casse dei Comuni è pari a 3 miliardi netti. Poiché con la Finanziaria 2008 è stata introdotta un’ulteriore detrazione Ici sull’abitazione principale per 823 milioni, resterebbero 2,1 miliardi da reperire per finanziare la totale abolizione dell’imposta. Di questo e di altro, mercoledì prossimo, ne discuterà il ministro designato all’Economia, Giulio Tremonti con l’Anci.
Petrolio alle stelle Il petrolio continua a macinare nuovi record. Il dollaro debole, le tensioni geopolitiche e la cattiva situazione delle scorte in Usa continuano a spingere in alto le quotazioni del greggio che sui mercati asiatici ha superato i massimi e a New York è salito ancora toccando la quota di 115 dollari. Il Brent si è fermato oltre la soglia dei 113 dollari al barile con i listini dei carburanti che hanno preso il volo. La benzina ha sfondato quota 1,40 euro al litro e la verde ha registrato un rincaro di 0,004 euro al litro spingendo i prezzi di vendita consigliati ai gestori a quota 1,402 euro.
di Giuseppe Latour
ROMA. Gianni Letta incontra Enrico Letta. Silvio Berlusconi incontra Vladimir Putin. E, sullo sfondo, resta il prestito ponte. Il cambio al vertice di Palazzo Chigi ha impresso una svolta nella partita per Alitalia che, in queste ore, sembra più vicina, anche se non mancano elementi che continuano a confondere le acque, come il ritorno di Aeroflot o l’ipotesi di una sponda con Sarkozy a favore di Air France. Unico punto fermo: il tempo stringe, visto che la compagnia perde un milione di euro al giorno e il denaro in cassa ormai è davvero pochissimo. Proprio per fare fronte a queste perdite la questione più urgente da risolvere è quella del prestito ponte. O, in altre parole, dei soldi da immettere nella compagnia con garanzia dello Stato per guadagnare tempo. Sulla questione la Ue ha già fatto sapere che non ci sono spazi, prima del 2011, per ulteriori interventi che sarebbero considerati aiuti di Stato. Sul capitolo stanno giocando tutte le loro carte i sindacati. Lo ha confermato ieri il segretario generale di Fit Cisl, Claudio Claudiani: «Si agitano attorno alla vicenda Alitalia una ridda di ipotesi che generano confusione e non aiutano a risolvere i problemi, di per sè già sin troppo complessi. Il perno attorno al quale si costruisce una soluzione è la garanzia della continuità aziendale, da raggiungere attraverso una linea di credito che si avvalga di ogni tipo di strumento disponibile», prestito ponte incluso. Anche se, precisa, «il piano Air France
presenta alcune criticità che spaziano dal perimetro aziendale, alle prospettive di rilancio, alla flotta, ma costituisce base di confronto». È, in sostanza, l’unica ipotesi concreta emersa finora e, per questo, non può essere accantonato a cuor leggero. Il prestito, in questa fase, è però essenziale almeno per due motivi. Intanto, si eviterebbe il commissariamento, dando alla compagnia più forza nella trattativa con Air France soprattutto sul perimetro della futura compagnia evitando che l’esito delle trattative si riduca nella trasformazione di Alitalia a una
Al vettore servono rapidamente soldi freschi. Intanto Berlusconi vede Putin e Aeroflot spera di tornare in lizza per la compagnia italiana mera succursale del duo francoolandese. E una maggiore forza contrattuale potrebbe scongiurare questa ipotesi.
Una maggiore stabilità nei conti, e quindi una vita più lunga della compagnia in versione stand alone, sarebbe anche le precondizione per permettere trattative serie con altri player. A oggi soltanto Air France ha potuto effettuare la due diligence, accedendo ai conti di Alitalia. Nessun compratore accetterebbe anche solo di formulare
un’offerta senza entrare nella data room. Ma per fare questo serve tempo e, in conseguenza, servono i soldi del prestito. Nelle ultime ore sta tornando in ballo, in mancanza di alternative, l’idea di mettere comunque i soldi dentro la compagnia, senza dare ascolto alle sirene europee che minacciano sanzioni. E senza dare corda alla Lega Nord che, tra tutte le forze della compagine uscita vincente dal voto, è quella che vede con maggiore diffidenza interventi a favore della compagnia (che non implichino la vendita tout court).
Unica novità di queste ore è il ritorno in pista di Aeroflot, persa di vista qualche mese fa quando uscì dalla gara guidata da Tommaso Padoa Schioppa. Con il nuovo governo sembrano cambiate le condizioni politiche. E lo testimonia l’incontro di ieri tra Putin e Berlusconi che, a Porto Rotondo, avrebbero discusso, tra le altre cose, proprio della compagnia di bandiera. Il vicepresidente di Aeroflot, Lev Koshlyakov, ha prontamente auspicato che dal summit sardo possa emergere «una volontà politica». E ha aggiunto: «Con nuove basi di gara e con una proposta, senza dubbio prenderemo in considerazione una nuova chance». Anche perché l’operazione sarebbe molto conveniente ai russi soprattutto per rinnovare il loro parco aerei a suon di Boeing e Airbus. Comprandoli via Alitalia, infatti, potrebbero godere della fiscalità Ue, molto agevolata rispetto a quella russa quando si parla di aeromobili e di beni di lusso stranieri.
Algebris rinuncia al ricorso in Tribunale Il fondo Algebris ha rinunciato al suo ricorso in Tribunale dopo il ritiro dei candidati della lista di Edizione Holding per il collegio sindacale che sarà eletto dalla prossima assemblea di Generali del 26 aprile. Secondo quanto annunciato da Trieste, i candidati della lista della finanziaria del gruppo Benetton, Giuseppe Pirola e Yuri Zigolaro, hanno rinunciato alla candidatura per il collegio sindacale di Generali.
France Telecom vicina a TeliaSonera France Telecom sta valutando diverse possibilità di acquisizione che includono anche l’operatore TeliaSonera. Sono le dichiarazioni del direttore finanziario del gruppo di tlc francese, Gervais Pellissier, al Financial Times. « Stiamo esaminando diverse società, tra cui TeliaSonora» ha affermato Pellissier, che ha anche citato la società norvegese Telenor tra le opzioni allo studio.
Cooperative in crescita Nel quadriennio 2004-2008, il numero delle imprese aderenti a Confcooperative sono state 19.657, erano 18.593 nel 2004, con un incremento del 5,7 per cento. I soci rappresentati, sempre secondo i dati diffusi ieri dall’assemblea della confederazione, sono 2.881.544, in diminuzione dello 0,6 per cento nel quadriennio 200408, mentre cresce del 22,9 per cento il numero degli occupati passati da 390.804 a 480.253 persone. Positivi anche i dati relativi al fatturato pari a 59 miliardi di euro (+31,5 per cento a prezzi correnti). Più della metà degli occupati sono donne, il 50,5 per cento.
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a storia di una casa editrice, per quanto breve, porta con sé sempre riflessi e richiami alla Grande Storia. Questo accade con più facilità se si tratta della romana Edizioni E/O, che, grazie allo spirito imprenditoriale di Sandro Ferri e agli interessi culturali di Sandra Ozzola, dal momento della sua nascita, nel 1979, ha avuto un ruolo fondamentale nella crescita di un’attenzione non più dettata da motivi ideologici verso i Paesi dell’Est europeo. La ricerca di Gianfranco Tortorelli (Il lavoro della talpa. Storia delle Edizioni E/O dal 1979 al 2005, Pendragon, Bologna 2008, p. 195, ¤ 14,00), fondata sui documenti d’archivio della casa editrice, è corredata da un dettagliato e ben redatto Catalogo storico relativo agli stessi anni e da un utile indice di nomi.
cultura “molto sopravvalutata”, era stata attaccata per il suo tentativo di passare per vittima del regime comunista tedescoorientale con la pubblicazione di Ciò che resta, del 1990, dopo una revisione del testo, scritto nel 1979 e successivamente “adeguato” alla nuova realtà sociale e politica della Germania riunificata. La Wolf fu a servizio della Stasi, i servizi segreti di Berlino Est, tra il 1959 e il 1962 (lo ha rivelato lei stessa, ma solo nel 1993…) e ha avuto il coraggio di conservare la tessera della Sed, il Partito Comunista della Ddr, fino all’ultimo, fino alla caduta del Muro.
L
Tra i tanti autori e collaboratori di E/O, Tortorelli dedica una menzione particolare alla scrittrice ex-tedesco orientale Christa Wolf. È la stessa Ozzola ad ammettere come sia stato “determinante”, quando ancora era in piedi il Muro di Berlino, il contributo dell’autrice di Il cielo diviso e Cassandra. Un contributo molto tangibile, anzitutto per aver concesso la pubblicazione dei suoi libri presso quella che negli anni Ottanta era ancora un piccola casa editrice, “ma anche”, aggiunge Sandra Ozzola, «per la sua opera di suggerimento e di stimolo culturale». E’ evidente, aggiungiamo noi, che la Wolf è stata l’autrice che più di qualsiasi altri ha deciso il successo e la crescita di E/O. È proprio a proposito della scrittrice tedesca tuttavia che Tortorelli, pur attento altrove ad arricchire di note e integrazioni il suo testo, dimentica di fornire qualche utile dettaglio sugli stretti rapporti tra la Wolf e il sistema dittatoriale di Berlino Est. A p. 114, per esempio, si ricorda come Günter Grass (nel testo, purtroppo, Günther) prese le sue difese «in occasione degli attacchi che le verranno portati dalla stampa occidentale». Peccato non si dica quando e a quali “attacchi”Tortorelli si riferisca. Non sarà inutile ricordare che cosa successe allora e quale fosse il ruolo della Wolf nel contesto della Ddr. Quando nel 1991 si apprestò a ricevere il Nobel, Günter Grass non esitò ad affermare che avrebbe volentieri diviso il premio con Christa Wolf. La scrittrice, definita dall’autorevole Marcel Reich-Ranicki
Il ruolo della scrittrice tedesca ne ”Il lavoro della talpa” di Gianfranco Tortorelli
Il Muro di Christa, ciò che resta della vita degli altri di Vito Punzi A sinistra Christa Wolf, autrice de Il cielo diviso che non rinnegò mai il marxismo. A destra Günter Grass, Nobel nel 1999 e autore de Il tamburo di latta. In occasione del premio, dichiarò che avrebbe voluto dividerlo con la Wolf
Del resto, anche di recente, la Wolf ha ammesso di non provare alcun pudore nel ricordare come il 4 novembre 1989 né a lei, né ai suoi compagni scrittori «era venuto in mente che di lì a cinque giorni il Muro sarebbe crollato». La maggior parte di loro, ha confidato candida, «non se lo augurava neppure». Del resto è proprio nell’ultimo libro in versione italiana della tedesca (Un giorno all’anno. 19602000, edizioni E/O) che alla data 27 settembre 1962 scopriamo come la scrittrice provò “un certo sollievo” quando vennero “chiusi i confini” della Ddr”. Ma c’è dell’altro. Si è detto della Ozzola che ammette il fondamentale contributo della Wolf nella scelta di autori e autrici tedesco-orientali. Peccato non si sia mai sognata di segnalare o di aiutare figure di scrittrici come Susanne Kerkhoff, che venne ridotta al silenzio e cancellata dalla storia letteraria della Ddr e con la morte sociale venne in qualche modo “costretta” al suicidio, o come Eveline Kuffel, sottoposta come tanti al controllo della Stasi, cui non fu mai data la possibilità di pubblicare, o, ancora, come Jutta Petzold, dopo che alcuni amici artisti si furono trasferiti all’Ovest, iniziò a frequentare con strana assiduità la clinica psichiatrica della Charitè di Berlino Est. Infine, sarebbe interessante sapere che opinione avesse la Wolf di Hannelore Becker, che dopo essere stata collaboratrice della Stasi e apprezzata autrice, nel 1974 provò ad abbandonare i servizi segreti e a condurre una vita normale, da commessa, ma resistette solo un paio d’anni, finché non scelse il suicidio. Dunque, non si pensi di poter trovare i nomi di queste scrittrici tra gli autori di Edizioni E/O. Chiaro quale fu il “contributo” della Wolf?
cultura
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Da ”Le nozze di Cana” alla ”Madonna del cardellino”, l’hi-tech rivoluziona la fruizione tradizionale
L’arte di Giotto ritorna al futuro di Massimo Tosti iotto com’era settecento anni fa, il Veronese dove stava fino alla fine del XVIII secolo, Raffaello riportato alla sua fisionomia originale, prima che una frana distruggesse (nel 1547) un palazzo sulla collina di San Giorgio, riducendolo in 17 pezzi, e che una serie infinita di artigiani e di artisti intervenissero – nel corso dei secoli – a metter toppe, chiodi, e colla per salvare (o peggiorare) il salvabile. Il restauro (quasi completato) della Madonna del cardellino di Raffaello Sanzio è – fra le tre – l’operazione più tradizionale, anche se complicata mostruosamente dalla gravità dei danni subiti dal dipinto, maltrattato dagli uomini e dalla natura. Dieci anni fa, i tecnici dell’Opificio delle pietre dure di Firenze furono presi dallo scoramento quando aprirono l’imballaggio nel quale era protetto il capolavoro. Si interrogarono a lungo se fosse possibile salvare il paziente. Poi – con infinita pazienza e straordinaria capacità chirurgica – sono riusciti a rimetterlo in sesto, senza falsificare l’originale. Oltre a detenere la fetta più importante del patrimonio artistico mondiale, abbiamo in Italia i migliori restauratori (ed esiste un nesso fra i due primati, di cui dobbiamo essere fieri).
G
Più complicate (e fantascientifiche, fino a pochissimi anni fa) le imprese compiute con gli affreschi di Giotto e l’immensa tela (666 cm x 990) del Veronese. I 28 affreschi di Giotto dedicati alle “Storie di San Francesco”, miracolosamente risparmiati dal tragico terremoto del settembre 1997 (che polverizzò – riducendoli in 300mila frammenti – parte dei dipinti della volta e del transetto nella Basilica Superiore di Assisi dedicata al Poverello) sono stati riportati – virtualmente – ai colori di sette secoli fa (e quindi anche alla prospettiva originariamente realizzata dal Maestro). Un gruppo di esperti, guidato dal professor Giuseppe Basile, dell’Istituto centrale del restauro, ha lavorato per tre anni per offrire, su basi rigorosamente scientifiche, i colori e le sfumature voluti da Giotto, e deteriorati da sette secoli di degrado. Il gruppo ha analizzato chimicamente e strutturalmente tutte le sostanze pittoriche della
superficie, soffermandosi soprattutto sulla biacca che – alterandosi – ha virato verso il marrone, cancellando gli iniziali equilibri cromatici. Gli affreschi sono stati fotografati uno per uno con la tecnica digitale (ricavandone immagini di 30 cm x 30, scala uno a dieci rispetto agli originali) , ritoccati con Photoshop e ridipinti a mano con acquarelli e tempere, tenendo conto delle indica-
35 euro) che offre all’occhio del lettore il raffronto fra gli affreschi visibili oggi ad Assisi, segnati e scalfiti dal tempo, e quelli immaginati e realizzati da Giotto, e ammirati dai suoi contemporanei. Gli studiosi si sono divisi riguardo all’esito di questo lavoro, pur riconoscendone il valore scientifico. Carlo Bertelli, storico e critico d’arte, ex sovrintendente ai Beni artistici e storici di Mila-
Le tecniche digitali hanno permesso negli ultimi tempi di recuperare opere d’arte che sembravano compromesse dall’usura. Grafica avanzata e strumenti di ritocco sempre più raffinati, combinati a rigore filologico, consentiranno di ammirare presto in ogni museo del mondo una perfetta copia della Gioconda Sopra San Francesco che dona il mantello al povero mendicante, affresco custodito nella Basilica di Assisi. L’opera di Giotto, che fa parte di un ciclo di 28 affreschi che l’artista dedicò alla vita del Poverello, viene mostrata qui a fianco nella ricostruzione virtuale dei colori originari di sette secoli fa, che sottolinea con più evidenza la prospettiva originariamente realizzata dal Maestro. L’operazione, condotta da un gruppo di esperti guidato dal professor Giuseppe Basile dell’Istituto centrale del restauro, ha richiesto un lavoro triennale volto a mostrare, su basi rigorosamente scientifiche, i colori e le sfumature voluti da Giotto, deteriorati a causa dell’alterazione della biacca
zioni cromatiche certificate dalle analisi dell’Enea (l’ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente) sulla composizione dei colori usati da Giotto. Lo studio ha prodotto un libro (“Giotto com’era, editore De Luca, 174 pagine,
no: «Le operazioni al computer – ha osservato – non ci restituiscono l’immagine della pittura antica com’era, ma come avrebbe potuto essere». E ha ricordato un suo collega che «si gloriava di presentare nelle sue lezioni pessime
diapositive. Perché, diceva, così gli studenti saranno più invogliati a vedere gli originali, e saranno più emozionati quando li vedranno».
Le nozze di Cana di Paolo Veronese fecero parte del bottino di guerra trasferito a Parigi (al Louvre) dall’Armata napoleonica alla fine del Settecento. Sono tornate nel luogo originale (il refettorio benedettino di San Giorgio Maggiore a Venezia), l’ambiente per il quale l’artista dipinse l’opera. Sono tornate a Venezia, senza lasciare il Louvre. Il dipinto è stato clonato, e gli esperti si domandano ora quale sia l’originale. Il fotografo Adam Lowe ha scattato 2.700 foto digitali al quadro. Un rilievo laser è stato impiegato per riprodurre minuziosamente le asperità del dipinto. In un laboratorio di Madrid è stata elaborata una mappa digitale (con centinaia di campioni colore) e riprodotta l’immagine con uno scanner speciale, fissata poi su una tela di lino irlandese coperta di colla animale e gesso (come fece Veronese nel 1563). Le due opere sono assolutamente identiche, e qualche critico si è spinto a sostenere che il vero originale è quello ricollocato nel refettorio, con gli stessi angoli visuali e le stesse luci che filtrano dall’esterno con i quali si era misurato l’artista veneto. Una nuova frontiera che contribuisce al processo di democratizzazione Fra dell’arte. venti, o cinquanta, o cento anni, ogni museo nel mondo avrà la sua “Gioconda”, clonata da quella di Leonardo. Noi italiani – che deteniamo (secondo l’Unesco) il 70 per cento del patrimonio artistico mondiale – dovremo difendere con le unghie e con i denti la specificità dei nostri E capolavori. adeguarci per combattere ad armi pari con la concorrenza. Sette anni fa, il ministro dei Beni culturali Giuliano Urbani formò una commissione ad hoc per la virtualizzazione dell’arte. Per molte ragioni, i risultati furono deludenti. Sarebbe opportuno riprendere il progetto. Per non restare indietro. Parola di uno dei componenti di quella commissione.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Quali gli scenari senza sinistra in Parlamento? ANCHE SE LA AVVERTO COME AVVERSARIA, ALLA FINE LA SINISTRA RADICALE MI MANCHERÀ Dal Parlamento italiano è sparita tutta la sinistra radicale. Tutto sommato un po’ mi dispiace. Quella sinistra estrema che sin da ragazzo ho detestato, che ho considerato colpevole sempre, e molto spesso responsabile dei nostri mali, un po’ mi mancherà. Sarà che sono anziano, sarà che pur avvertendoli come avversari, o forse proprio perché avversari, in un certo senso mi vitalizzavano, mi davano l’occasione per polemizzare, magari anche di litigare, ripeto: mi mancheranno. Certo non proprio tutti, della mancanza di Alfonso Pecoraro Scanio non me ne accorgerò neppure, di quella di Diliberto ringrazio Iddio, ma Fausto Bertinotti mi piaceva proprio, Mussi in fondo mi era simpatico, Salvi parlava molto bene. Diciamolo pure, c’è da temere che il livello del nostro Parlamento possa pure calare. Tutto dipenderà da quel che sapranno dare e dire le nuove entrate. Da un punto di vista prettamente politico invece, a parte il piacere che provo per la vittoria del centrodestra di Silvio Berlusconi, sicuramente ci sarà una semplificazione che farà bene al Paese e che porterà l’Italia al pari delle grandi democrazie occi-
dentali. Sulle nostalgie surriferite, e forse più supposte che reali, deve prevalere la razionalità. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine di liberal. Buon lavoro e distinti saluti.
Alessio Campi - Verona
DI QUALE DEMOCRAZIA ERANO PORTATORI I COMUNISTI ITALIANI O RIFONDAZIONE? Credo proprio che noi italiani non sappiamo cosa veramente vogliamo. Da tanti, ma davvero da tanti anni, andiamo dicendo che la presenza in Parlamento di tanti partiti era una jattura, una anomalia perniciosa e tutta italiana, ebbene ora che finalmente ci siamo liberati di tanti cespugli, ora che quei partiti che con ”l’uno virgola” avevano condizionato la vita politica del Paese, che avevano ricattato e paralizzato il pavido Prodi, ora dicevo che non ci sono più, quasi li rimpiangiamo, anzi c’è qualcuno che va dicendo che la democrazia si è impoverita. Ma di quale democrazia erano portatori Rifondazione comunista o il Partito dei comunisti italiani? Ho letto su un giornale che l’eliminazione di tanti partiti comporta la diminuzione del costo della politica di almeno quattro milioni di euro (circa ottomila miliardi delle vecchie lire). E allora perché piangere?
Maurizio Gigli - Cremona
LA DOMANDA DI DOMANI
Berlusconi riuscirà a risollevare le sorti di Alitalia? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
LA STORIA ORMAI STA CAMBIANDO, IL TEMPO CI DIRÀ SE IN MEGLIO O IN PEGGIO Sono una trentenne. Ho dunque un’età che mi ha permesso di conoscere un po’ quella che è la sinistra radicale italiana, in tutte le sue diverse forme. Quella che oggi è stata spazzata via dai due rami del Parlamento dalle ultime elezioni Politiche. Di primo acchito la gioia c’è stata eccome. Un’analisi più fredda mi ha portato in un secondo momento a dispiacermi per qualche esponente autorevole e storico, come ad esempio Fausto Bertinotti. Adesso, a quattro giorni dalla trionfante vittoria del Pdl, penso solo questo: la storia è cambiata e solo il tempo (e la nuova politica) potrà dirci se in meglio oppure in peggio.
LA ”BATTAGLIA” DEI CIRCOLI LIBERAL In questi giorni post-elezioni sento da più voci elogi sperticati al sistema elettorale, come sentivo prima del turno elettorale feroci critiche. Ho sempre sostenuto che il sistema elettorale è uno strumento che non fa di per sé la politica. Al di là dello stesso, è il corpo elettorale che decide e sancisce i tempi politici. E’ chiaro che in tempi di vacche grasse un popolo si può consentire i costi anche di un’ampia possibilità di scelta e rappresentanza. Questo è avvenuto dal dopoguerra fino agli anni Ottanta in un contesto di crescita economica che permetteva di sopportare spese maggiori per le cariche elettive. In tempi di vacche magre è lo stesso popolo che richiede di contenere tali spese e di conseguenza tenta di restringere la domanda di rappresentanza e stilisticamente sceglie di semplificare il quadro dei partiti. Così è avvenuto in questi giorni e sono stati accorti Veltroni e Berlusconi a interpretare tale desiderio, tanto di aver fatto una campagna elettorale puntata sul “voto utile”. Si può discutere se fosse giusto anteporre questo ai problemi reali,
PICCOLI SIMBA CRESCONO Il leoncino di due mesi Bima viene ”allattato” con un biberon allo zoo safari di Gianyar, a Bali. È uno dei tre cuccioli nati recentemente nel giardino zoologico indonesiano NUOVI TREND: IL MASSAGGIO FISCALE La nuova parola d’ordine nella political economy routine? Il massaggio fiscale. Non si tratta di cosmesi ma di ridurre le tasse. Nei Paesi più evoluti questa tendenza è consolidata ormai da anni. Da noi se ne inizia a parlare. Di facile utilizzo e super efficace nell’attenuare i segni del tempo economico sin dalla prima applicazione, quando la vecchiaia e la recessione non è ancora molto marcata. In pratica, il massaggio migliora gli attivi, solleva il morale, tonifica e rende meno visibili le rughe. Stimola la micro e la macrocircolazione con un effetto riossigenante su consumi, investimenti e produzione. Bisogna però farlo con costanza, facendo attenzione a non insistere troppo sui consu-
dai circoli liberal Claudia De Santis - Viterbo
etici o materiali, che ci troviamo di fronte in questo momento storico, ma è risultato certamente efficace. Ci apprestiamo quindi ad una nuova era rivoluzionaria e storica, dove la rappresentanza parlamentare è formata da due blocchi contrapposti, il futuro dirà quanto omogenei, al centro dei quali sopravvive una rappresentanza dedita a testimoniare una politica fatta di valori ma non determinante nelle scelte. Il popolo italiano ha affidato il governo a Berlusconi, gli ha concesso ampia delega con una forza parlamentare considerevole quasi volesse dirgli: “Silvio salvaci tu” dopo aver sperimentato un governo Prodi che non solo è risultato vessatorio nella sua maniacale ricerca di nuove tasse e nell’evitare, impossibilitato dai “no” di una parte della sua coalizione, di ridurre le spese con riforme strutturali. Il popolo italiano ha rivoluzionato la politica, ha accolto l’invito di ridurre la rappresentanza partitica, ora a questo popolo gli va ridata una fetta di democrazia permettendogli per il futuro la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. La battaglia per le preferenze diventa la vera rifor-
mi con comunisti, democristiani di sinistra e sindacalisti, altrimenti si rischia di farli indignare, con la conseguenza di far scattare invidie ed effetti contrari, e far tutto precipitare. Ecco, occorre anche una sana cautela.
Pierpaolo Vezzani
IL PD È SECONDO, È LUI LA SINISTRA DI OGGI Letti e uditi i risultati elettorali, molti sono costretti a ringollarsi le ultime male parole contro Prodi e Veltroni. Il neonato Pd ha partorito, tra non poche difficoltà, la prima meravigliosa vetrina dei suoi successi. Dopo un’appassionata gara, è arrivato secondo. Nessuno, dopo tale battesimo, può esimersi dal pronosticare un luminoso e ricco futuro alla nostra sinistra.
Lettera firmata
ma elettorale che può contrastare la “casta”, perché consente al di là dello schieramento di poter optare e delegare coloro i quali sono più vicini al territorio, e ne sentono la responsabilità per tutto l’arco della legislatura. Una battaglia che diventa non solo strutturale ma etica e, a mio avviso, i circoli liberal devono intraprenderla con tutta la capacità culturale di cui possono disporre, per interpretare al meglio la capacità di essere avanguardia. Alberto Caciolo COORDINATORE REGIONALE CIRCOLI LIBERAL LAZIO
APPUNTAMENTI ROMA - OGGI VENERDÌ 18 APRILE 2008 Ore 11, a Palazzo Ferrajoli, in piazza Colonna Riunione nazionale dei Presidenti dei Circoli Liberal.
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’ultimatum del Mostro fermissimo Il Mostro ha scritto, tanto da Parigi che da qui, varie lettere che, tutte, nella sostanza rivelavano la consueta sagacia del suo spirito mentre nella forma brillavano di ogni Venere dello stile. A nessuna di queste il Mostro ha ricevuto risposta. Tanto se ne adirò che giorni fa lacerò alcuni preziosi fogli già pronti nei quali erano vivacemente e acutamente analizzati importantissimi fenomeni della vita londinese quali: le corse dei cani, i pranzi da Paletto, la popolarità del Mostro, insieme a profonde considerazioni sulla costituzione inglese e i nuovi rasoi di sicurezza.Tesoro letterario oramai irrimediabilmente perduto. Adesso, considerando che forse l’ostinato silenzio fosse dovuto alla canicola siciliana che deve aver fatto seccare anche i calamai in difetto dei corsi d’acqua assenti, invia questa che ha forma e valore di ultimatum. È superfluo dire cosa perdete se il Mostro si ostinerà a tacere. E così, minacciando, saluta. Il Mostro fermissimo. Giuseppe Tomasi di Lampedusa ai cugini Piccolo, a Lucio poeta e a Casimiro pittore
COME MAI AL QAEDA NON ATTACCAVA PRODI? Ho letto che Al Qaeda ha manifestato rabbia per la vittoria del centro destra in Italia maledicendo Berlusconi e il Papa. Devo dedurre che Prodi Veltroni e compagni sono considerati filoterroristi dagli amici di Osama Bin Laden?
Agnese Viola - Bologna
I GENITORI NON POSSONO SOSTITUIRSI ALLO STATO Si può morire a 19 anni per mezza pasticca di ecstasy. Purtroppo è proprio così. Sono una mamma e mio figlio ha esattamente l’età della sciatrice lombarda diciannovenne morta due giorni fa. Non ho mai dato troppa libertà a Diego, ma neanche ho mai voluto essere una madre oppressiva. Credo insomma di avergli concesso la giusta libertà, come ad esempio uscire con gli amici, anche la sera, anche per andare a ballare in discoteca. Direttore il punto è questo: noi genitori non possiamo sostituirci in tutto e per tutto allo Stato. Non possiamo cioè vigilare oltre quanto ci è permesso dal buon senso sui nostri figli. A noi spetta senz’altro il compito di crescerli con sani valori e principi, cercando di tirarli
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
18 aprile 1480 Nasce Lucrezia Borgia, nobildonna italiana
1906 Usa: Terremoto distrugge gran parte di San Francisco, in California 1946 Viene sciolta la Società delle Nazioni 1948 Italia, si tengono le prime elezioni politiche per il Parlamento repubblicano 1951 Parigi: i sei stati fondatori dell’Unione Europea firmano il Trattato di Parigi che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio 1954 Gamal Abdal Nasser prende il potere in Egitto 1974 Italia: il magistrato Mario Sossi viene rapito dalle Brigate Rosse 1983 Un attentato suicida distrugge l’Ambasciata Usa a Beirut, Libano 2002 Milano, un aereo da turismo pilotato dall’italosvizzero Gino Fasulo si schianta contro il 26° piano del Grattacielo Pirelli, il palazzo più alto della città. Oltre a Fasulo, due vittime tra i dipendenti della Regione Lombardia, che ha sede nel palazzo.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
su in modo che da soli possano comprendere che la droga (fosse anche una sola pasticca di ecstasy un sabato sera in discoteca) è un male dal quale ci si deve tenere a debita distanza. Ma è lo Stato che dovrebbe tutelarli dagli spacciatori. Che dovrebbero essere messi in galera senza tentazioni di rimetterli in libertà dopo poco come se nulla fosse. Sappiamo che questo tipo di delinquenti, insieme a stupratori e pedofili, sono i più inclini alla reiterazione di reato. Proteggiamo maggiormente i figli della nostra Italia. Cordialità.
Flaminia Renzi - Firenze
ROMA SCONGIURA FRANCESCO RUTELLI Dunque la Destra di Francesco Storace a Roma sosterrà Gianni Alemanno al ballottaggio di fine aprile. Una buona notizia. Sì perché Francesco Rutelli sindaco sarebbe davvero una sventura per la Capitale, già letteralmente martoriata dal predecessore Veltroni; che l’ha resa una città-cantiere, piena campi rom e di buche (e dunque di incidenti stradali, a volte gravissimi), e dai problemi più disparati circa la sicurezza. La speranza è che anche l’Udc opti per questa preferenza.
Melissa Iacovone - Roma
PUNTURE Una volta la Lega era una costola della sinistra, oggi la sinistra è una costola della Lega.
Giancristiano Desiderio
“
Un arcobaleno che dura più di un quarto d’ora non lo si guarda più
”
JOHANN WOLFGANG GOETHE
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
Una risposta a Mario Giordano
Il Giornale fa il grillino e dice cose inesatte editoriale di Mario Giordano, direttore de “Il Giornale”, sul finanziamento pubblico alla stampa pone all’attenzione del prossimo Governo un problema delicatissimo, ossia il rapporto tra Stato e pluralismo. La tutela delle minoranze è una peculiarità delle vere democrazie. La rappresentanza parlamentare dipende, invece, dai sistemi elettorali adottati. Per garantire la governabilità di un Paese la legge elettorale può preferire il principio della stabilità a quello della rappresentanza. Ma, se di democrazia si tratta, occorre dare a tutte le componenti del Paese la possibilità di esistere, di sopravvivere. Perchè dalle minoranze possono nascere le nuove maggioranze e la mobilità, la flessibilità del pensiero sono l’anima di un sistema democratico. Non condividemmo lo spirito della Bersani, perché difendevamo e continueremo a difendere il principio che tutte le norme in materia di diritti fondamentali non debbono, e non possono, essere trattate con decreto legge. In quella occasione, la prima lenzuolata, furono tagliati i fondi complessivamente destinati al reparto dell’editoria ma furono salvaguardate le posizioni dell’Unità e di Europa. Era un serio indicatore dell’avvio di un Governo che diceva una cosa e ne faceva un’altra, tutelando gli amici e colpendo i nemici, ossia tutti quelli non amici. Ma il tema del sostegno all’editoria non può essere affrontata prescindendo dalla realtà del sistema editoriale italiano. In cui, è inutile nascondersi dietro un dito, solo i grandi giornali, che pure fruiscono di sovvenzioni di gran lunga superiori a quelle destinate alle imprese di dimensioni minori, possono sopravvivere. Le ragioni sono diverse: la scarsa propensione alla lettura, le economie di scala, il costo della distribuzione e del lavoro giornalistico, i bassi ricavi da pubblicità. Senza i contributi diretti gran parte dell’editoria italiana scomparirebbe. E senza quelli indiretti, ripetiamo di gran lunga superiori per valore assoluto, le gran-
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di imprese avrebbero molte meno risorse da destinare allo sviluppo e, diciamolo, agli azionisti sotto forma di dividendi. Questo non significa che una riforma non sia necessaria. Ma occorre una riforma vera, che parta dalla reale conoscenza del mercato e del settore, e non da sciatte norme che modificano articoli oramai posticci. Non si deve e non si può trattare il ruolo del sostegno all’editoria se non si affrontano tutti i temi collegati all’impresa ed al mercato editoriale. Gli scandalismi servono a poco; o meglio servono a portare la gente nelle piazze senza informarli della realtà delle cose. Ma per questo già abbiamo Grillo. Informo il direttore Giordano che Otto Pagine è un giornale quotidiano diffuso ad Avellino e provincia; e che di pagine ne ha tra le ventiquattro e le quaranta al giorno. E’ un giornale ampiamente diffuso e radicato nell’area di riferimento. Ha alle proprie dipendenze dieci giornalisti professionisti, tre praticanti, un pubblicista, quattro amministrativi ed oltre trenta collaboratori. Fare Vela è una cooperativa giornalistica che produce un mensile di riconosciuta qualità e che grazie ai contributi dello Stato è cresciuta al punto da non aver più bisogno di assistenza. Non ha presentato la richiesta di contributi per il 2007, perché grazie all’autorevolezza che ha acquisito nel settore ha superato il rapporto massimo tra ricavi da pubblicità e costi complessivi consentito dalla legge. Cavalli e Corse è un giornale editato da una cooperativa di giornalisti. Gente che ha deciso di rinunciare ai contributi a partire dal 2008, e di avere stipendi ridotti, pur di garantirsi l’autonomia dalle pressioni del gruppo, un’importante concessionaria dello stato, che possedeva la testata. Gliel’hanno resa e si fanno il proprio giornale: senza contributi. Probabilmente non ce la faranno, perché il mercato non lo consente. Ma non c’è da rallegrarsene. Enzo Ghionni Presidente federazione italiana piccoli editori
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