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Oggi il supplemento

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

MOBY DICK

Perché Berlusconi deve temere la Lega

SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA nache

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La scommessa di Bossi, capitano di ventura

di

di Ferdinando Adornato

di Giancarlo Galli

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IL TESTO INTEGRALE DEL DISCORSO DEL PAPA ALL’ONU E UN’INTERVISTA A MARY ANN GLENDON

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ISSN 1827-8817 80419

Il solenne monito di Ratzinger alle Nazioni Unite: «Voi esistete per proteggere la libertà di tutti. E non per essere un’oligarchia».

La Terra dei diritti nell’inserto Creato

ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 22 aprile

alle pagine 2, 3, 4 e 5

c o nt in u a a pa gi n a 2 3

Dopo l’incontro Berlusconi-Putin

Immigrati identità e dialogo

A caccia di alleati

Parigi e Mosca Il Campidoglio sulla rotta Alitalia tra Storace e Udc

I reati multiculturali di Sergio Belardinelli Elena Guerri Dall’Oro Irene Trentin Massimo Fini Alfonso Piscitelli da pagina 12

SABATO 19 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

onosco Umberto Bossi da trent’anni, dai tempi in cui, in quel di Gallarate (dove sono nato), m’accadeva di metter piede al Bar Centrale, a ridosso della stazione. Per nostalgia dei giovanili trascorsi attorno al biliardo, delle interminabili partite a ramino pokerato. Quella sera, primavera dell’80 o dell’81, a tener banco un esaltato quarantenne, abiti stazzonati, naso grosso, capelli in disordine. «È l’Umberto di Cassano Magnago, fanatico ma non pirla», spiegavano gli amici. Uno con le nostre radici, essendo Cassano ad un tiro di schioppo, a ridosso del nascente Malpensa. Affascinava l’Umbertone. Apparentemente senza arte né parte, lavori saltuari, studi lasciati a metà. L’ultimo sgobbo, da portaborse del leader dell’Unione Valdostana, Bruno Salvatori, che gli aveva inoculato il bacillo del federalismo, facendogli gettare alle ortiche le confuse militanze nel Movimento studentesco, nel Manifesto, nello Psiup. Parlando col Bossi, evitare di bollarlo “di destra”: s’infuria come un toro; e carica. Spiegò, masticando il sigaro, che voleva “metter su”un movimento di liberazione del nord. Liberazione dai partiti, da Roma. Con retorica guerrigliera e sessantottina, da capopopolo, le sparava grosse. Farneticava di Resistenza nordista, armata e determinata. Piaceva ai compaesani, pochi gli facevano credito.

NUMERO

72 •

di Francesco Pacifico

di Susanna Turco

Quarantott’ore fa l’annuncio di Berlusconi di una telefonata con Sarkozy e la promessa di vedersi per parlare dell’affaire Alitalia. Di ieri, subito dopo l’incontro con Putin, la prova che la partita non è chiusa.

A otto giorni dal ballottaggio per il comune di Roma, la partita che si gioca nella Capitale infiamma il dibattito politico, soprattutto per quel che riguarda gli apparentamenti e le alleanze.

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Il discorso del Papa giudicato da Mary Ann Glendon ambasciatrice Usa presso la Santa Sede a Roma

La legge naturale è la vera Carta del mondo colloquio con Mary Ann Glendon di Luisa Arezzo l Papa ha parlato all’Onu. Ad ascoltarlo anche lei, Mary Ann Glendon, l’ambasciatore fresco di nomina degli Stati Uniti presso la Santa Sede e dal mandato più breve che si ricordi - sei mesi - fortemente voluta da George W. Bush. Nata a Dalton, in Massachusetts, tre figlie, già professore ordinario di Diritto comparato alla facoltà di Legge di Harvard, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e capo della delegazione vati¬cana alla conferenza di Pechino sulla donna nel ’95. Non una diplomatica pura, dunque, ma soprattutto una delle intellettuali cattoliche più solide e conosciute in ambito internazionale. Sua la definizione dell’interpretazione iper-individualistica dei diritti umani, un tema centrale nel discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI in occasione del sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. La Glendon immaginava che «l’universalità ma soprattutto l’indivisibilità dei diritti umani e l’interdipendenza di essi» in quanto basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo sarebbero stati passaggi fondamentali del messaggio del Pontefice. «Perché la sua visione è molto simile a quella affermata dalla Carta universale del 1948,

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dove il principio di interdipendenza sancisce che non si può aiutare qualcuno e lasciare indietro gli altri, ma si deve salvaguardare e tendere all’insieme». Qual è la visione di Benedetto XVI? Per il Papa il corpo integrato e unificato dei diritti umani è radicato nelle leggi naturali e inscritto nell’essere umano. Non si può considerare o favorire qualcuno a discapito degli altri. E ancora, nella Carta si chiede di proteggere la maternità e l’infanzia, la famiglia nella società, l’uguaglianza. Quest’ultimo un principio ovvio per il pontefice, anche quando si parla di uomini e donne. Dopo tutto, molto prima che esi-

plomatiche formali fra Vaticano e Usa e i media, sia italiani che internazionali, hanno evidenziato i buoni rapporti fra George W. Bush e Benedetto XVI. Esiste un’amicizia personale fra il pontefice e il presidente? Non solo esiste, ma la loro relazione non è mai stata così forte. Bush è andato ad accoglierlo personalmente all’aeroporto proprio per rimarcare questo

Dall’incontro si esce con una lettera d’intenti sul Medio Oriente: il Papa e il presidente Bush lavoreranno insieme nel corso del prossimo anno per far fare un passo in avanti al processo di pace stessero le nazioni Unite ci fu San Paolo che disse: «Vi battezzo tutti in nome di Gesù Cristo, sia che siate uomini, donne, greci, ebrei, schiavi, liberi». Il Papa è arrivato al Palazzo di Vetro dopo tre giorni trascorsi a Washington. A gennaio del 2009 si celebreranno i 25 anni di relazioni di-

punto, non lo ha fatto con nessun altro capo di Stato. Io c’ero. E ho sentito le parole del presidente quando, rivolgendosi al suo seguito, ha detto: «Qualcuno mi chiede perché sono venuto in aeroporto, ma la riposta è semplice: è la personalità religiosa più importante del mondo». La risposta non ha tuttavia

messo a tacere le critiche mosse per una visita organizzata nel pieno di una campagna elettorale... Il Papa è venuto a New York su invito delle Nazioni Unite, e a Washington per celebrare l’anniversario della fondazione della prima diocesi americana negli Stati Uniti. L’incontro con Bush è figlio dell’ottima conversazione che i due ebbero a Roma nel corso dell’ultima visita del presidente e poggia senza meno sull’amicizia che si è sviluppata fra i due uomini. Non ci sono retropensieri di carattere politico, ma solo dei solidi legami fra i due Stati. Cosa costruiranno insieme? Da questo vertice si esce con una lettera di intenti che riguarda soprattutto il Medio Oriente. Posso dire con certezza che i due lavoreranno assieme nel corso del prossimo anno per far fare un passo avanti al processo di pace. So che sembra impossibile viste le frizioni in atto, ma il presidente nutre molte speranze di poter arrivare a una soluzione prima della fine del suo manda-

to, nel gennaio 2009. E si impegnerà affinché la Santa Sede intervenga in merito, soprattutto sulle questioni che attengono a Gerusalemme. Questa forte alleanza è relativa anche all’Iraq? Possiamo dire superate le divergenze che proprio cinque anni fa, al momento dell’invasione, si crearono fra Vaticano e Casa Bianca? Nessuno dei due è andato a rivangare o a ridiscutere il passato e ciò che li aveva divisi. Oggi, entrambi, sono concentrati sul presente. Questo significa medesima tensione a rafforzare la morale globale contro il terrorismo, specialmente quello che usa e manipola la religione, facendosene scudo. Sull’Iraq sono entrambi preoccupati, soprattutto per garantire un futuro al Paese in cui i cittadini di ogni confessione possano convivere pacificamente. Il cattolicesimo americano è senz’altro uno dei più vitali al mondo, purtuttavia negli ultimi 40anni questo fervore è decisamente sce-


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Ban Ki-moon: obiettivi in comune «Coincidono gli obiettivi fondamentali di Santa Sede e Onu». Lo ha detto Ban Ki-Moon, segretario generale delle Nazioni Unite, precedendo il discorso di Benedetto XVI. Il segretario ha poi ringraziato il pontefice per il «dono della sua fede e per la fiducia» ai lavoratori dell’Onu. Le Nazioni sono «una istituzione laica, con sei lingue ufficiali ma nessuna religione ufficiale. Non abbiamo una cappella, ma una sala di meditazione». Ha ricordato il segretario generale dell’Onu. Nel suo intervento ha citato tuttavia le parole dello stesso Ratzinger sulla terribile sfida della povertà, sulla non proliferazione degli armamenti nucleari e il cammino verso il disarmo, mettendo così in rilievo la consonanza che esiste tra le posizioni della Santa Sed e quelle dell’Onu, che seguono entrambi «il principio secondo il quale coloro che hanno un potere più grande, non lo devono usare per violare i diritti umani di altri e della pace come rispetto dei diritti di tutti». Ban Ki - Moon ha anche ricordato l’impegno di Benedetto XVI a favore dell’ambiente e i suoi appelli per il dialogo «tra religioni e culture». «Santità - ha concluso - sono questi gli obiettivi che abbiamo in comune, e siamo grati delle sue preghiere mentre procediamo sul nostro cammino per realizzarli».

Bush: un incontro speciale Il Presidente Usa, metodista, ha detto che Benedetto XVI ha provocato grande emozione negli americani, soprattutto mercoledí quando è passato per le vie di Washington per recarsi alla Casa Bianca per la cerimonia in suo onore. «Le strade erano affollate di persone, emozionate per la visita del Santo Padre», ha detto Bush davanti a circa 2.000 ospiti, aggiungendo che «è stato un momento speciale poter incontrare il Papa nello Studio Ovale».

D’Avack: giusti alcuni limiti alla scienza «E’ bioeticamente comprensibile ed accettabile la necessità di porre dei limiti alla scienza e alla ricerca, purchè si tratti di limiti ragionevoli e adeguati alle circostanze. Dunque, il ’no’ del Papa ad una scienza che minaccia la vita e l’ambiente é condivisibile». E’ l’opinione del vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica (Cnb) Lorenzo D’Avack.

Cossiga: penso al no della Sapienza mato. Recentemente un rapporto del Pew Forum on Religion & Public Life ha sottolineato che almeno un terzo della popolazione cattolica si è allontanata dalla Chiesa, che le suore sono passate da 180mila a 63mila e che migliaia di preti hanno abbandonato il loro ministero. La visita di Benedetto XVI era tesa anche a dare una sferzata al mondo cattolico? Ho letto il rapporto Pew e non sono sicura che le cifre fossero queste. Ma ho seguito questo Papa ed ero al National Stadium di Washington assieme ad altre 48mila persone. Mai visto tanto entusiasmo, mai vista una folla così rapita. Continuavano ad interromperlo con applausi e cori: «Ti amiamo Benedetto XVI, ti amiamo». Il Papa sta chiamando i cattolici americani a riscoprire le proprie radici, e li sta chiamando come il pastore chiama il suo gregge. Il suo messaggio è chiaro: «Quando avete la speranza, significa che vivete diversamente». Dal rapporto emerge che sono due sono le critiche principali che i cattolici americani muovono al mondo cattolico Usa: un basso livello di leadership fra i

loro vescovi e la scarsa preparazione di molti preti che si evidenzia in sermoni, come dire, di scarsa qualità. In termini di qualità dell’istruzione e preparazione religiosa, forse occorre ricordare a questi educatori, ai parroci in generale, che hanno una missione molto importante da compiere. Una su tutte: spronare le persone a recuperare la tradizione e cominciare a vivere seguendola e attenendosi al messaggio di Gesù: pensate diversamente, siate voi stessi. Lei crede che i recenti scandali sulla pedofilia abbiano provocato delle conseguenze fra i fedeli? Credo innanzitutto che sia indispensabile usare una terminologia molto chiara. Non c’è stato alcuno scandalo di pedofilia negli Stati Uniti. La definizione di pedofilia è l’abuso sessuale di bambini. Quello che è successo negli Stati Uniti è stata una rivoluzione sessuale negli anni Settanta e Ottanta e l’intera società sia americana che non è stata coinvolta in questa rivoluzione sessuale, compresi i teenager e i preti. Ci sono stati incidenti, abusi sui minori, compiuti da persone che eserci-

tavano una certa influenza sui bambini, ad esempio gli insegnanti e i religiosi. Tuttavia i preti cattolici sono stati molto meno coinvolti in questi episodi rispetto agli insegnanti delle scuole pubbliche o agli stessi genitori. L’unica ragione per cui è emerso uno scandalo ai danni della chiesa cattolica è che gli avvocati hanno fatto causa solo a questa; non alle scuole pubbliche, non a dei singoli individui. La Chiesa era facile da identificare. Ecco perché rifiuto e mi oppongo all’idea che questo scandalo riguardi la Chiesa. Domani il Papa tornerà in Vaticano. Che impressione ne hanno avuto gli americani? Quali differenze hanno notato fra lui e Giovanni Paolo II? Ne parlavo proprio oggi. Prima della sua visita molte persone ritenevano che non potesse prendere il posto che aveva Giovanni Paolo II nel loro cuore. Ma le cose sono cambiate. Benedetto XVI li ha conquistati, cattolici e non. Lo rispettano, ne apprezzano il suo impegno pastorale. Un protestante mi ha detto di considerarlo il capo spirituale di tutti i cristiani.

«Seguendo il discorso di Benedetto XVI alle Nazioni Unite, mi salivano vampate di rossore al pensiero che a questo pontefice sia stato impedito di parlare all’ Università ’La Sapienza’’». Lo ha detto ieri il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga, commentando il discorso del il Papa a New York.

Narducci (Pd): un nuovo diritto internazionale Franco Narducci, presidente Unaie (Unione nazionale associazioni immigrati ed emigrati), eletto per il Partito democratico alla Camera dei deputati nella ripartizione Europa, commentando l’intervento di Papa Benedetto XVI all’Onu ha affermato che come sostiene il Papa «i diritti umani non possono essere delegati alle sole legislazioni interne degli Stati ma è necessario per promuoverli un nuovo diritto internazionale capace di fare sintesi tra la sovranità statale e la governance globale».

La Loggia (Pdl): relativismo un male moderno «Il relativismo dilagante e le continue violazioni dei diritti umani sono i veri mali della nostra società. Il Santo Padre, nella sua lectio magistralis alle Nazioni Unite, ponendo l’accento su questi gravi problemi, flagello della nostra società, ci invita ad una profonda riflessione, riflessione indispensabile per il superamento dei facili pragmatismi». E’ quanto affermato dal deputato del Pdl, Enrico La Loggia, commentando l’intervento di Benedetto XVI all’Onu.


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Il testo integrale del discorso di Ratzinger all’assemblea delle Nazioni Unite

«Signori,dovete proteggere la persona e i diritti umani» di Papa Benedetto XVI Signor Presidente Signore e Signori,

ediante le Nazioni Unite, gli Stati hanno dato vita a obiettivi universali che, pur non coincidendo con il bene comune totale dell’umana famiglia, senza dubbio rappresentano una parte fondamentale di quel bene stesso. I principi fondativi dell’Organizzazione - il desiderio della pace, la ricerca della giustizia, il rispetto della dignità della persona, la cooperazione umanitaria e l’assistenza esprimono le giuste aspirazioni dello spirito umano e costituiscono gli ideali che dovrebbero sottostare alle relazioni internazionali. Come i miei predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno osservato da questo medesimo podio, si tratta di argomenti che la Chiesa Cattolica e la Santa Sede seguono con attenzione e con interesse, poiché vedono nella vostra attività come problemi e conflitti riguardanti la comunità mondiale possano essere soggetti ad una comune regolamentazione. Le Nazioni Unite incarnano l’aspirazione ad ”un grado superiore di orientamento internazionale” (Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 43), ispirato e governato dal principio di sussidiarietà, e pertanto capace di rispondere alle domande dell’umana famiglia mediante regole internazionali vincolanti ed attraverso strutture in grado di armonizzare il quotidiano svolgersi della vita dei popoli. Ciò è ancor più necessario in un tempo in cui sperimentiamo l’ovvio paradosso di un consenso multilaterale che continua ad essere in crisi a causa della sua subordinazione alle decisioni di pochi, mentre i problemi del mondo esigono interventi nella forma di azione collettiva da parte della comunità internazionale.

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Certo, questioni di sicurezza, obiettivi di sviluppo, riduzione delle ineguaglianze locali e globali, protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima, richiedono che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino una prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e nella

promozione della solidarietà nei confronti delle regioni più deboli del pianeta. Penso in particolar modo a quei Paesi dell’Africa e di altre parti del mondo che rimangono ai margini di un autentico sviluppo integrale, e sono perciò a rischio di sperimentare solo gli effetti negativi della globalizzazione. Nel contesto delle relazioni internazionali, è necessario riconoscere il superiore ruolo che giocano le regole e le strutture intrinsecamente ordinate a promuovere il bene comune, e pertanto a difendere la libertà umana. Tali regole non limitano la libertà; al contrario, la promuovono, quando proibiscono comportamenti e atti che operano contro il bene comune, ne ostacolano l’effettivo esercizio e perciò compromettono la dignità di ogni persona umana. Nel nome della libertà deve esserci una correlazione fra diritti e doveri, con cui ogni persona è chiamata ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, fatte in conseguenza dell’entrata in rapporto con gli altri. Qui il nostro pensiero si rivolge al modo in cui i risultati delle scoperte della ricerca scientifica e tecnologica sono stati talvolta applicati. Nonostante gli enormi benefici che l’umanità può trarne, alcuni aspetti di tale applicazione rappresentano una chiara violazione dell’ordine della creazione, sino al punto in cui non soltanto viene contraddetto il carattere sacro della vita, ma la stessa persona umana e la famiglia vengono derubate della loro identità naturale. Allo stesso modo, l’azione internazionale volta a preservare l’ambiente e a proteggere le varie forme di vita sulla terra non deve garantire soltanto un uso razionale della tecnologia e della scienza, ma deve anche riscoprire l’autentica immagine della creazione. Questo non richiede mai una scelta da farsi tra scienza ed etica: piuttosto si tratta di adottare un metodo scientifico che sia veramente rispettoso degli imperativi etici.

Il riconoscimento dell’unità della famiglia umana e l’attenzione per l’innata dignità di ogni uomo e donna trovano oggi una rinnovata accentuazione nel principio della responsabilità di proteggere. Solo

di recente questo principio è stato definito, ma era già implicitamente presente alle origini delle Nazioni Unite ed è ora divenuto sempre più caratteristica dell’attività dell’Organizzazione. Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani, come pu-

Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon re dalle conseguenze delle crisi umanitarie, provocate sia dalla natura che dall’uomo. Se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali. L’azione della comunità internazionale e delle sue istituzioni, supposto il rispetto dei principi che sono alla base dell’ordine internazionale, non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità. Al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale. Ciò di cui vi è bisogno e una ricerca più profonda di modi di prevenire e controllare i conflitti, esplorando ogni possibile via diplomatica e prestando attenzione ed incoraggiamento anche ai più flebili segni di dialogo o di desiderio di riconciliazione.

Il principio della ”responsabilità di proteggere” era considerato dall’antico ius gentium quale fondamento di ogni azione intrapresa dai governanti nei confronti dei gover-

nati: nel tempo in cui il concetto di Stati nazionali sovrani si stava sviluppando, il frate domenicano Francisco de Vitoria, a ragione considerato precursore dell’idea delle Nazioni Unite, aveva descritto tale responsabilità come un aspetto della ragione naturale condivisa da tutte le Nazioni, e come il risultato di un ordine internazionale il cui compito era di regolare i rapporti fra i popoli. Ora, come allora, tale principio deve invocare l’idea della persona quale immagine del Creatore, il desiderio di una assoluta ed essenziale libertà. La fondazione delle Nazioni Unite, come sappiamo, coincise con il profondo sdegno sperimentato dall’umanità quando fu abbandonato il riferimento al significato della trascendenza e della ragione naturale, e conseguentemente furono gravemente violate la libertà e la dignità dell’uomo. Quando ciò accade, sono minacciati i fondamenti oggettivi dei valori che ispirano e governano l’ordine internazionale e sono minati alla base quei principi cogenti ed inviolabili formulati e consolidati dalle Nazioni Unite. Quando si è di fronte a nuove ed insistenti sfide, è un errore ritornare indietro ad un approccio pragmatico, limitato a determinare ”un terreno comune”, minimale nei contenuti e debole nei suoi effetti. Il riferimento all’umana dignità, che è il fondamento e l’obiettivo della responsabilità di proteggere, ci porta al tema sul quale siamo invitati a concentrarci quest’anno, che segna il 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Il documento fu il risultato di una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza. I diritti umani sono sempre più presentati come linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali. Allo stesso tempo, l’universalità, l’indivisibilità e l’interdipendenza dei diritti umani servono tutte quali garanzie per

la salvaguardia della dignità umana. È evidente, tuttavia, che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti. La vita della comunità, a livello sia interno che internazionale, mostra chiaramente come il rispetto dei diritti e le garanzie che ne conseguono siano misure del bene comune che servono a valutare il rapporto fra giustizia ed ingiustizia, sviluppo e povertà, sicurezza e conflitto. La promozione dei diritti umani rimane la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze fra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza. Certo, le vittime degli stenti e della disperazione, la cui dignità umana viene violata impunemente, divengono facile preda del richiamo alla violenza e possono diventare in prima persona violatrici della pace. Tuttavia il bene comune che i diritti umani aiutano a raggiungere non si può realizzare semplicemente con l’applicazione di procedure corrette e neppure mediante un semplice equilibrio fra diritti contrastanti. Il merito della Dichiarazione Universale è di aver permesso a differenti culture, espressioni giuridiche e modelli istituzionali di convergere attorno ad un nucleo fondamentale di valori e, quindi, di diritti. Oggi però occorre raddoppiare gli sforzi di fronte alle pressioni per reinterpretare i


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dubbiamente un approccio individualistico e frammenterebbe l’unità della persona. La mia presenza in questa Assemblea è un segno di stima per le Nazioni Unite ed è intesa quale espressione della speranza che l’Organizzazione possa servire sempre più come segno di unità fra Stati e quale strumento di servizio per tutta l’umana famiglia. Essa mostra pure la volontà della Chiesa Cattolica di offrire il contributo che le è proprio alla costruzione di relazioni internazionali in un modo che permetta ad ogni persona e ad ogni popolo di percepire di poter fare la differenza. La Chiesa opera inoltre per la realizzazione di tali obiettivi attraverso l’attività internazionale della Santa Sede, in modo coerente con il proprio contributo nella sfera etica e morale e con la libera attività dei propri fedeli. Indubbiamente la Santa Sede ha sempre avuto un posto nelle assemblee delle Nazioni, manifestando così il proprio carattere specifico quale soggetto nell’ambito internazionale. Come hanno recentemente confermato le Nazioni Unite, la Santa Sede offre così il proprio contributo secondo le disposizioni della legge internazionale, aiuta a definirla e ad essa fa riferimento.

fondamenti della Dichiarazione e di comprometterne l’intima unità, così da facilitare un allontanamento dalla protezione della dignità umana per soddisfare semplici interessi, spesso interessi particolari. La Dichiarazione fu adottata come ”comune concezione da perseguire” (preambolo) e non può essere applicata per parti staccate, secondo tendenze o scelte selettive che corrono semplicemente il rischio di contraddire l’unità della persona umana e perciò l’indivisibilità dei diritti umani. L’esperienza ci insegna che spesso la legalità prevale sulla giustizia quando l’insistenza sui diritti umani li fa apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni staccate dalla dimensione etica e razionale, che è il loro fondamento e scopo. Al contrario, la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia, sulla quale si basa anche la forza vincolante delle proclamazioni internazionali.Tale aspetto viene spesso disatteso quando si tenta di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una gretta prospettiva utilitaristica. Dato che i diritti e i conseguenti doveri seguono naturalmente dall’interazione umana, è facile dimenticare che essi sono il frutto di un comune senso della giustizia, basato primariamente sulla solidarietà fra i membri della società e perciò validi per tutti

i tempi e per tutti i popoli. Questa intuizione fu espressa sin dal quinto secolo da Agostino di Ippona, uno dei maestri della nostra eredità intellettuale, il quale ebbe a dire riguardo al Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a teche tale massima ”non può in alcun modo variare a seconda delle diverse comprensioni presenti nel mondo” (De doctrina christiana, III, 14). Perciò, i diritti umani debbono esser rispettati quali espressione di giustizia e non semplicemente perché possono essere fatti rispettare mediante la volontà dei legislatori.

Signore e Signori, mentre la storia procede, sorgono nuove situazioni e si tenta di collegarle a nuovi diritti. Il discernimento, cioè la capacità di distinguere il bene dal male, diviene ancor più essenziale nel contesto di esigenze che riguardano le vite stesse e i comportamenti delle persone, delle comunità e dei popoli. Affrontando il tema dei diritti, dato che vi sono coinvolte situazioni importanti e realtà profonde, il discernimento è al tempo stesso una virtù indispensabile e fruttuosa. Il discernimento, dunque, mostra come l’affidare in maniera esclusiva ai singoli Stati, con le loro leggi ed istituzioni, la responsabilità ultima di venire incontro alle aspirazioni di persone, comunità e popoli interi può talvolta avere delle conseguenze che escludono la possibilità di un ordine sociale rispettoso della dignità e dei diritti della persona. D’altra parte, una visione della vita saldamente ancorata alla dimensione religiosa può aiutare a conseguire tali fini, dato che il rico-

noscimento del valore trascendente di ogni uomo e ogni donna favorisce la conversione del cuore, che poi porta ad un impegno di resistere alla violenza, al terrorismo ed alla guerra e di promuovere la giustizia e la pace. Ciò fornisce inoltre il contesto proprio per quel dialogo interreligioso che le Nazioni Unite sono chiamate a sostenere, allo stesso modo in cui sostengono il dialogo in altri campi dell’attività umana. Il dialogo dovrebbe essere riconosciuto quale mezzo mediante il quale le varie componenti della società possono articolare il proprio punto di vista e costruire il consenso attorno alla verità riguardante valori od obiettivi particolari. È proprio della natura delle religioni, liberamente praticate, il fatto che possano autonomamente condurre un dialogo di pensiero e di vita. Se anche a tale livello la sfera religiosa è tenuta separata dall’azione politica, grandi benefici ne provengono per gli individui e per le comunità. D’altro canto, le Nazioni Unite possono contare sui risultati del dialogo fra religioni e trarre frutto dalla disponibilità dei credenti a porre le propri esperienze a servizio del bene comune. Loro compito è quello di proporre una visione della fede non in termini di intolleranza, di discriminazione e di conflitto, ma in termini di rispetto totale della verità, della coesistenza, dei diritti e della riconciliazione. Ovviamente i diritti umani debbono includere il diritto di libertà religiosa, compreso come espressione di una dimensione che è al tempo stesso individuale e comunitaria, una visione che manifesta l’unità della persona, pur distin-

guendo chiaramente fra la dimensione di cittadino e quella di credente. L’attività delle Nazioni Unite negli anni recenti ha assicurato che il dibattito pubblico offra spazio a punti di vista ispirati ad una visione religiosa in tutte le sue dimensioni, inclusa quella rituale, di culto, di educazione, di diffusione di informazioni, come pure la libertà di professare o di scegliere una religione. È perciò inconcepibile che dei credenti debbano sopprimere una parte di se stessi – la loro fede – per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti. I diritti collegati con la religione sono quanto mai bisognosi di essere protetti se vengono considerati in conflitto con l’ideologia secolare prevalente o con posizioni di una maggioranza religiosa di natura esclusiva. Non si può limitare la piena garanzia della libertà religiosa al libero esercizio del culto; al contrario, deve esser tenuta in giusta considerazione la dimensione pubblica della religione e quindi la possibilità dei credenti di fare la loro parte nella costruzione dell’ordine sociale. In verità, già lo stanno facendo, ad esempio, attraverso il loro coinvolgimento influente e generoso in una vasta rete di iniziative, che vanno dalle università, alle istituzioni scientifiche, alle scuole, alle agenzie di cure mediche e ad organizzazioni caritative al servizio dei più poveri e dei più marginalizzati. Il rifiuto di riconoscere il contributo alla società che è radicato nella dimensione religiosa e nella ricerca dell’Assoluto – per sua stessa natura, espressione della comunione fra persone – privilegerebbe in-

Le Nazioni Unite rimangono un luogo privilegiato nel quale la Chiesa è impegnata a portare la propria esperienza ”in umanità”, sviluppata lungo i secoli fra popoli di ogni razza e cultura, e a metterla a disposizione di tutti i membri della comunità internazionale. Questa esperienza ed attività, dirette ad ottenere la libertà per ogni credente, cercano inoltre di aumentare la protezione offerta ai diritti della persona. Tali diritti sono basati e modellati sulla natura trascendente della persona, che permette a uomini e donne di percorrere il loro cammino di fede e la loro ricerca di Dio in questo mondo. Il riconoscimento di questa dimensione va rafforzato se vogliamo sostenere la speranza dell’umanità in un mondo migliore, e se vogliamo creare le condizioni per la pace, lo sviluppo, la cooperazione e la garanzia dei diritti delle generazioni future.

Nella mia recente Enciclica Spe salvi, ho sottolineato ”che la sempre nuova faticosa ricerca di retti ordinamenti per le cose umane è compito di ogni generazione”(n. 25). Per i cristiani tale compito è motivato dalla speranza che scaturisce dall’opera salvifica di Gesù Cristo. Ecco perché la Chiesa è lieta di essere associata all’attività di questa illustre Organizzazione, alla quale è affidata la responsabilità di promuovere la pace e la buona volontà in tutto il mondo. Cari amici, vi ringrazio per l’opportunità di rivolgermi a voi e prometto il sostegno delle mie preghiere per il proseguimento del vostro nobile compito. Pace e prosperità con l’aiuto di Dio!


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politica

Viaggio all’interno dell’Udc. Qual è il futuro del partito dei moderati?

«La solitudine è la nostra chance» di Errico Novi

ROMA. Certo che la traversata nel deserto fa paura. Ma ci sono momenti in cui bisogna imporsi di resistere, e non lasciarsi incantare dal ”si stava meglio quando si stava peggio”. O per usare le parole di Savino Pezzotta «non lasciarsi prendere dalla cipolla nel deserto». Metafora biblica che il leader della Rosa per l’Italia illustra così: «Noi del centro siamo esposti a un rischio simile a quello degli israeliti che lasciarono l’Egitto. Durante la traversata nel deserto si lasciarono prendere dallo sconforto e cominciarono a lamentarsi

fatta in modo da dimostrare che il centro ha una proposta forte per il Paese».

Nello stesso tempo bisognerà lavorare alla Costituente di centro secondo un principio federativo, che Pezzotta ha descritto ieri anche in un intervento sul Messaggero, in modo che «non si tratti di un allargamento dell’Udc ma di una costruzione più complessa, estesa non solo alla Rosa per l’Italia e al Movimento liberal ma anche, per esempio, ai popolari che non vogliono stare nel Partito democratico e a tutte le realtà associative del territorio che si ricoTabacci: «Adesso noscono nel noil centro appare stro progetto». schiacciato, ma Proprio con il ripotremo riproporci spetto delle aspetnel momento tative che provenin cui emergeranno gono dal territorio le contraddizioni si spiega la scelta interne di sostenere Gianalla maggioranza. ni Alemanno al Potremo farlo ballottaggio di a partire Roma comunicada un’opposizione ta ieri da Mario intelligente, basata Baccini, cofondasui contenuti» tore della Rosa per l’Italia. Come con Mosè: ’Almeno in Egitto assicura l’ex vicepresidente del mangiavamo pane e cipolla’, Senato, l’opzione per il candidagli dissero’. E invece pur di to del Pdl «non mette assolutaraggiungere la terra promessa mente in discussione la scelta è giusto accontentarsi della del centro di essere autonomo a manna del deserto e andare livello nazionale. La Rosa per avanti. Fuor di metafora, il l’Italia è nata con una forte vocentro può in questa fase dero- cazione al rispetto delle scelte gare al principio secondo cui i locali, che a nostro giudizio demoderati devono lavorare a vono privilegiare il principio un’alleanza nazionale, perché della buona amministrazione, con la Costituente dobbiamo più di ogni altro aspetto. Nel caguardare a un grande obietti- so di Roma noi abbiamo fortevo, per il quale vale la pena re- mente criticato l’alleanza con stare indipendenti». C’è d’al- cui il centrosinistra ha governatronde una ragione Santolini: più che evidente, «Abbiamo dietro la logica delguadagnato l’autonomia: «Non un patrimonio di si vede con chi pofiducia e di identità, tremmo allearci se non possiamo consideriamo che la svenderlo coalizione di Berluconfluendo in uno sconi ha una magdei due partiti. gioranza sproposiSe resistiamo tata», ricorda Pezpossiamo accogliere zotta, «e che non ci l’elettorato si allea con l’opposcontento sizione, ovviamendei popolari» te: all’opposizione ognuno sta con le proprie caratteristiche». E il to per quasi tre lustri. Da parte gruppo dell’Unione di centro del Pd e di Rutelli non c’è stata non esiterà, dice ancora Pez- coerenza con l’idea della dizotta, «a mettere alla stanga il scontinuità, nel momento in cui governo e la coalizione che lo si è rinnovato il patto con la sisostiene, con una opposizione nistra radicale fino a ritrovarsi costruttiva, critica, certo: ma con Grillini, Cento e gli altri». A

questo, ripete il candidato sindaco della Rosa per l’Italia, «bisogna aggiungere la legittima aspettativa di scelta che arriva dai nostri aderenti e alla quale non potevo sottrarmi, senza per questo fare un apparentamento formale: do un’indicazione di voto ma poi è comprensibile che ciascun elettore decida per conto proprio. Fermo restando che a livello nazionale consideriamo il fatto di essere indipendenti come un valore, un patrimonio da salvaguardare».

Con Pezzotta c’è dunque assoluta identità di vedute sul piano della prospettiva generale ma distanza per quel che riguarda la scelta di Roma: «La trovo sbagliata, Alemanno e Rutelli sono venuti a chiederci l’apparentamento dopo aver provato a vincere da soli e soprattutto dopo aver tentato di farci fuori. A entrambi bisogna dire ’arrangiatevi’, non si deve cedere alla sindrome di Stoccolma. Non condivido la scelta di Baccini, in contrasto con la posizione dell’Unione di centro che è quella della libertà di coscienza». Bruno Tabacci si spinge più in là e dice che «come cittadino» voterebbe per Rutelli, se non vivesse a Milano, e aggiunge che da co-fondatore della Rosa per l’Italia approva «l’autonomia e la libertà di scelta, perché non c’è ragione di andare a un apparentamento formale né con Alemanno né con

Rutelli». Ma spiega anche perché «la strada della Costituente di centro e dell’autonomia» è destinata a pagare: «La coalizione del Pdl ha davanti cinque anni per dimostrare di essere in grado di governare, noi abbiamo il dovere di organizzare un’opposizione che sia utile al Paese, e tenere presente che se la nostra area ora appare

so raccolto fa della Lega una componente non omogenea all’interno della maggioranza».

Presto o tardi, è dunque la tesi di Tabacci, le contraddizioni verranno fuori. Bisognerà arrivare a quella fase con un’opposizione costruita su «proposte intelligenti» e «valutare di volta in volta cosa emerge dal governo, entrare nel merito Sanza: «Non delle questioni, possiamo andare senza pregiudizi col cappello particolari. Nello in mano dal Pdl stesso tempo bio correre sogna ricordarci in soccorso degli che ci sono altre sconfitti. Dobbiamo due opposizioni e pensare che il governo a un’opposizione ombra rischia di costruttiva e al Sud, diventare una da sostenere con gabbia. È una forle infrastrutture mula che fa parte e il credito dello schema anagevolato» glosassone e che non mi pare sia schiacciata potrebbe riproporsi assimilabile nel nostro sistenel momento in cui esploderan- ma». no le contraddizioni nella mag- Anche Luisa Santolini parla di gioranza». Eventualità che Ta- «contraddizioni» e di possibili bacci considera assai probabile «delusioni nell’elettorato: gli itavista la eccezionalità del risulta- liani hanno dimostrato di essere to della Lega e la sua origine in più intelligenti di quanto creda un «sentimento di rivalsa diffu- il ceto politico, e se noi saremo so, che si è sommato al lavoro in grado di proporre una nostra compiuto sul territorio dal parti- visione nella società riusciremo to di Bossi. Non potremmo altri- a intercettare la domanda che menti spiegarci come l’ondata proviene dal Paese. Abbiamo del Carroccio sia arrivata persi- fatto una scelta difficile, sofferno in via della Spiga, nella Mila- ta, certo non dettata da spinte irno della borghesia. Ma proprio razionali o illogiche ma dal biquesta eccezionalità del consen- sogno di difendere un’identità.


politica E la gente ci ha dato fiducia, visto che in questo terremoto politico siamo riusciti a conservare trentasei deputati. Siamo consapevoli di non poterci rimproverare nulla per il Senato, una soglia di sbarramento dell’8 per cento non esiste nelle democrazie parlamentari dell’Occidente, e abbiamo sfiorato seggi in Puglia e Calabria per poche decine di voti: adesso non possiamo svendere questo patrimonio di fiducia e di identità andando a confluire in uno dei due partiti». Anzi, secondo la presidente del Forum famiglie «ci sono le condizioni per allargare il consenso: la componente dell’elettorato del Pd che fa riferimento ai popolari vive una condizione di disagio, noi possiamo offrire sicuramente molto di più in termini di rispetto dei valori».

Angelo Sanza ricorda le condizioni di partenza, «l’appello di Berlusconi a non votare per l’Udc» e la straordinarietà di queste elezioni dimostrata da «quello che è successo a sinistra»: superata una prova così difficile «bisogna produrre politica, e partire da una semplice constatazione: guardare al Pdl senza progetto equivarrebbe a bussare alla porta col cappello in mano; correre immediatamente in soccorso dello sconfitto Pd rischia di farci perdere parte del nostro elettorato; perciò dobbiamo pensare a un’opposizione costruttiva, con degli obiettivi chiari». Innanzitutto, dice Sanza, «la difesa del Mezzogiorno, che il Pdl non saprà assicurare, condizionato com’è dalla Lega, e che il Pd ha già di-

te al voto: lo segnala Amedeo Ciccanti, secondo il quale «in Italia c’è bisogno di ridare vera rappresentanza al ceto medio, che Berlusconi ha prelevato dal centro e giocato a destra: l’esatto contrario di quanto è avvenuto per quarant’anni con la Democrazia cristiana. Noi dobbiamo costruire un centro che sappia dare risposte a quella parte fondamentale dell’elettorato. Ci Pezzotta: «La traversata nel deserto non può farci paura se abbiamo un grande obiettivo. Vale la pena di resistere alle lusinghe di chi voleva farci fuori, la scelta di Baccini su Roma è sbagliata» tocca aspettare con pazienza, ma dobbiamo tenere presente che Berlusconi ha compiuto un’operazione di marketing elettorale, ha portato degli effetti speciali, ma che costituisce pur sempre una anomalia irripetibile. L’incantesimo elettorale del Cavaliere finirà, noi nel frattempo dobbiamo rafforzare un centro autonomo che però non è la destinazione definitiva, nel senso che non saremo costretti a restare tra le due coalizioni, perché saremo i soli a poter rappresentare quella parte del ceto medio che si sottrarrà all’incantesimo».

Non è impresa così difficile, fa notare il segretario dell’Udc napoletana Nunzio Testa, se si tiene conto che «alle amministrative non c’è una legge elettorale bloccata come quella per le Politiche». Se è vero dunque che la Costituente di centro consentirà di costruire un nuovo partito Baccini: «Non dal basso, questo è in discussione processo, dice Teil centro sta, «potrà essere indipendente, rafforzato sul che considero piano locale in un vaore e un tutte le future ocpatrimonio casioni elettorali. da salvaguardare. Si può anche non Ma nel caso della sostenere il canCapitale non didato vincente, posso sfuggire ma le liste restaalle aspettative no e con loro i della base che consiglieri. Su chiede una scelta» questa strada potremo conservamostrato di non poter garantire: re la posizione di centro indibasta guardare al disastro della pendente, una solitudine che Campania. Al Sud servono pa- però non ci impedisce di agladini che pongano la questione gregare consenso, anzi. In degli investimenti per le infra- questo modo prepariamo la strutture e del sostegno all’oc- strada anche per la prospetticupazione per le nuove genera- va nazionale, e se non facessizioni, con lo strumento del cre- mo così daremmo l’impressione che il nostro progetto è fitdito agevolato». C’è un altro aspetto piuttosto tizio. E invece si tratta di un sottovalutato nelle analisi segui- progetto serio».

19 aprile 2008 • pagina 7

Parla il sociologo Luca Ricolfi, editorialista della Stampa

La missione del Centro è la meritocrazia colloquio con Luca Ricolfi di Riccardo Paradisi ROMA. E adesso? Adesso che il centro politico ha superato la prova del fuoco di una partita elettorale che poteva essergli fatale, adesso che succede? Quali prospettive si aprono per il partito di Casini, quale ruolo l’Udc potrebbe o dovrebbe ritagliarsi nello scenario politico italiano? Dopo Stefano Folli liberal ha parlato con il sociologo Luca Ricolfi analista politico e direttore della rivista Polena. Ricolfi dove va il Centro? Il rischio è che potrebbe non andare da nessuna parte. Nel senso che il pericolo di restare senza un ruolo esiste concretamente. A meno che non cambi musica. Che musica dovrebbe suonare? Musica dal timbro più deciso. Il Centro deve cambiare pelle: soprattutto ora che sta all’opposizione deve diventare decisamente sostenitore di quelle politiche di liberalizzazione che il centrodestra avrebbe dovuto già fare. E che invece non ha fatto, anche per colpa dei freni di Casini, diciamolo. Ma le liberalizzazioni sono nel programma del Pdl. Certo però nel Pdl non ci sono molti liberali veri: Fini è statalista, Bossi è più liberista che liberale. Berlusconi avrà modo di misurare la loro forza d’attrito. Il centro poi dovrebbe spingere l’acceleratore sulla giustizia e sulla riforma della Costituzione. Si deve avere il coraggio di dire che anche la prima parte va cambiata in senso più liberale. In questo Casini potrebbe distinguersi anche da Veltroni e dal Pd: per loro una carta costituzionale vecchia di sessant’anni non si deve toccare. Liberalismo lei dice. Però il voto andato alla Lega per esempio o l’efficacia del messaggio no-global di Tremonti raccontano di un’Italia spaventata dal turbo-liberismo globale, che chiede tutele, protezioni. Il Centro ha una tradizione di liberismo sociale, di mercato temperato dal solidarismo cristiano... Certo, ma quello che dicevo non esclude questa identità e questa tradizione culturale. Anzi se nel Centro si riuscisse a tradurre in proposta politica l’analisi di Tremonti, soprattutto quella relativa alla sussidiarietà orizzontale e al welfare non statale sarebbe interessantissimo. Una sintesi di valori liberali e cristiani O per dirla in un altro modo meritocrazia e solidarietà sociale. Insisto molto sulla meritocrazia perchè nè il Pd nè il Pdl sono a mio avviso partiti meritocratici. Il discorso sui precari che

fa il Pd per esempio è vittimistico. Ripeto: l’Udc ha poco spazio in Parlamento dovrà costruirsi un’immagine più forte nel Paese per non sparire. E questo vuol dire parlare di scongelamento dei blocchi corporativi, infrastrutture, nucleare, e anche un comunitarismo temperato. Proporre queste cose all’opposizione è più facile rispetto a quando si sta al governo. È un punto di vantaggio. Come si spiega il fatto che l’Udc abbia resistito al tornado bipolare che alle ultime elezioni ha sradicato e spazzato via dal Parlamento famiglie politiche storiche? Nelle fasce moderate del Paese, in quell’area di centro che potenzialmente è molto vasta, chiunque avesse qualche idiosincrasia per Pd e Pdl ha votato il Centro. Per questo il Centro è sopravvissuto perchè è rimasta l’unica forza a presidiare questo spazio. Mi sarei stupito piuttosto se non fossero entrati in Parlamento. Ora però se l’Udc vuole sopravvivere deve rinnovarsi profondamente, rilanciare il marchio. Deve anche fare una decisa pulizia nei suoi ranghi. In questo come altri partiti d’altra parte. Dire siamo i moderati, non funziona. Anche perchè i due megapoli usciti dalle elezioni tenderanno a mangiare lo spazio del Centro. Lei però dice che per un Centro rinnovato ci sarebbe spazio in Italia. Su Polena noi stiamo per pubblicare un saggio di simulazione sullo spazio del centro. Da un’inchiesta condotta prima delle elezioni, sottoponendo al campione ascoltato l’ipotesi che alle elezioni si sarebbe presentato un Centro politico di ispirazione liberale guidato da Montezemolo abbiamo registrato un indice ipotetico di consenso del 22 per cento. Questo fa pensare che se il centro non è riuscito ad avere un suo spazio è per mancanza di offerta politica non di richiesta. Crede che il dialogo con il Pd continuerà? Penso di si. In questo momento è l’unica sponda di interlocuzione politica che ha l’Udc. L’elettorato dell’Udc però non è di sinistra. Nemmeno il Pd lo è. E peraltro Udc e Pd sono anche accomunati da questo fortissimo senso delle istituzioni. Parlano educatamente, non si permettono di attaccare il capo dello Stato, frequentano i salotti buoni. Non hanno quegli aspetti barricaderi che ci sono al di fuori di questi due partiti. E poi scusi c’è un precedente mi sembra: Marco Follini nel Pd c’è entrato da un pezzo.

Il centro potrebbe tradurre in proposta politica l’analisi di Tremonti su sussidiarietà e welfare non statale


pagina 8 • 19 aprile 2008

politica

In forse l’apparentamento con Storace: senza l’Udc, Alemanno teme lo sbilanciamento a destra

Pdl, si complica la partita di Roma d i a r i o

d e l

g i o r n o

Ministri, la Lega sferza Berlusconi «Auspico che all’apertura del Parlamento ci sia contestualmente la squadra di governo» dice il leghista Roberto Castelli. Che aggiunge: «Al Carroccio il ministero dell’Interno. Vogliamo un uomo di grandissimo polso che affronti il tema della sicurezza senza falsi buonismi, così come chiedono gli elettori del Nord». L’ex ministro della Giustizia ha poi ribadito che «non ci sono contrasti nel centrodestra per la formazione del nuovo governo e sulla scelta del governatore della Lombardia. Questo problema al momento non esiste. La Lega ha posto un problema politico, non di poltrone. Dagli elettori abbiamo avuto un mandato molto importante su due questioni fondamentali: la sicurezza e il federalismo».

Giulietti: «Veltroni non indichi nessuno per il cda Rai» «Veltroni ha detto che ci vuole grande discontinuità sulla Rai, io la penso come lui: siamo pronti a dire che noi non nomineremo nè indicheremo nessuno per il Cda Rai secondo la legge Gasparri? Che non parteciperemo ad altra presenza di partiti e governi nel Cda Rai e che presenteremo di legge per istituire l’amministratore unico?» si chiede il deputato dell’Idv Giuseppe Giulietti.

di Susanna Turco

ROMA. A otto giorni dal ballottaggio, la partita che si gioca nella Capitale infiamma il dibattito politico, soprattutto nel centrodestra che di fronte a un risultato più che lusinghiero per l’aennino Gianni Alemanno al primo turno - vede complicarsi lo schema ed è costretto a una specie di seduta di autocoscienza per quel che riguarda apparentamenti ed alleanze. Per il Partito democratico, infatti, in fondo la partita è più semplice: il Campidoglio è la sua linea del Piave dopo la sconfitta e, se per un verso i numeri del primo turno non sono stati certo rassicuranti, l’unico vero obiettivo di Francesco Rutelli - che di fatto non ha nemici a sinistra - è quello di conquistare il voto moderato. Più complicato, al contrario, lo schema di gioco del Pdl, che dopo aver candidato Alemanno si trova a lavorare su due fronti che non sono disgiunti: quello della Destra di Storace, con il quale un apparentamento dato quasi per scontato fino a poche ore fa si fa via via meno probabile, e quello dell’Udc, che nonostante gli auspici del candidato sindaco del Pdl è indirizzata a risolvere i diversi orientamenti interni con una pragmatica libertà di coscienza ai suoi elettori.

di parlare all’elettorato centrista»), mentre convince di meno Alemanno, fino all’ultimo convinto di avere man forte: «Mi pare ci sia una spinta dal basso ad appoggiare me e Antoniozzi». Che nel partito di Casini ci sia qualcuno che tifa per lui è certo: Mario Baccini lo dichiara apertamente e, pur ribadendo che la Rosa per l’Italia non si apparenterà con nessuno, «in qualità di candidato a sindaco» dà «indicazione di votare e sostenere Alemanno». Un endorsement che non piace «assolutamente» al presidente del suo movimento, Savino Pez-

L’Unione di centro verso la libertà di scelta al ballottaggio. Ma Baccini (bacchettato da Pezzotta) dà indicazione di votare per l’ex ministro aennino zotta: «È una indicazione di voto che personalmente non condivido e che ritengo sbagliata», dice.

A complicare la partita di AleAnche prima dell’annuncio ufficiale, è prioprio questa la soluzione che si profila: «Non è proprio il caso, dopo tanta fatica, di metterci di qua o di là proprio adesso», dice Rocco Buttiglione. L’opzione uddiccina piace a Francesco Rutelli («La libertà di scelta ci permetterà

manno non è però tanto (o soltanto) la posizione dei centristi, quanto piuttosto la complessa gestione dei rapporti con la Destra. Le proteste annunciate dalla Comunità ebraica di Roma, e i successivi botta e risposta con l’ex ministro dell’Agricoltura, sono stati in questo

Binetti: «Un errore i nove radicali eletti» senso una conferma delle difficoltà che incontrerebbe il Pdl apparentato con Storace. Per non parlare dei fantasmi che queste polemiche evocano in Gianfranco Fini, che ieri, in una Camera pressoché deserta, si è infatti intrattenuto a lungo con Alessandro Rubens, consigliere dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e fresco d’elezione proprio col Pdl.

Di fatto, polemiche e perplessità hanno portato ieri Gianni Alemanno a vincolare l’apparentamento della formazione di estrema destra proprio al sì dell’Udc: senza una alleanza con i centristi, il timore del Pdl è di apparire troppo spostati a destra. Una posizione, questa, che ha naturalmente irritato il partito di Storace: senza apparentamento, assicura Teodoro Buontempo, «non daremo alcun appoggio ad Alemanno, nemmeno libertà di coscienza ai nostri elettori, e qualcuno nel centrodestra dovrà spiegare ai romani perché nella Capitale non si vuole vincere». Insomma, o un accordo che abbia anche «una nobiltà e un valore politico» oppure niente. Sono dunque al lavoro le diplomazie, ed è forte il pressing di Fini su Casini, ma fra gli uomini vicini ad Alemanno si tende a ritenere che senza un ripensamento centrista la corsa solitaria del Partito delle Libertà potrebbe diventare realtà. Con la convinzione che probabilmente gli elettori di destra saranno comunque attratti da Alemanno, ma con molte certezze in meno.

«Ecco, ci sono tutti e nove. Tutti eletti. E ora si viene a chiedere a noi moderati come mai è stato fallito l’obiettivo-centro?». A Paola Binetti, senatrice teodem in trasloco a Montecitorio, quei nove radicali nelle liste del Pd prima, nell’elenco degli eletti ora, non vanno proprio giù. Quell’accordo, contro cui si è battuta, «era una ciambella di salvataggio. Senza, non sarebbero nemmeno in Parlamento». Conclusione: «Sarebbe stato meglio non accoglierli. Ora, con queste soglie di sbarramento, con i loro voti e senza il nostro appoggio, dove sarebbero i radicali?».

Mussolini: «Felici che la Destra sia fuori» «Sono felice e soddisfatta che La Destra non sia passata al Parlamento, perchè è un finto partito di destra radicale, che in realtà ha ciucciato il sangue da Alleanza nazionale». Lo ha detto la deputata del Pdl Alessandra Mussolini a Ecoradio. «La Destra - aggiunge Mussolini - si è presentata alle elezioni con mezzi incredibili: hanno speso moltissimi soldi in manifesti e pubblicità, hanno avuto tutte le possibilità, e non sono riusciti».

Bondi: «Faremo un partito dei moderati» «Subito dopo il voto, il nostro impegno sarà quello di dare vita al grande partito dei moderati insieme ad An, ai socialisti di Barani, al nuovo Psi, ai repubblicani di La Malfa, alla Dc di Rotondi, al partito di Giovanardi e ai pensionati». Così Sandro Bondi candidato alla presidenza della Provincia di Massa Carrara, durante un incontro in vista del ballottaggio che lo vedrà opposto al candidato Osvaldo Angeli sostenuto da Pd, Ps e Idv . «Il partito dovrà nascere soprattutto a livello locale, un lavoro lungo di cui vedremo i frutti fra un po’ di tempo».

L’Udeur dà fiducia a Mastella Solidarietà e «piena fiducia» a Clemente Mastella per «l’attacco giudiziario, politico e mediatico» di cui è stato oggetto in questi mesi. È quanto riporta il documento del Consiglio Nazionale dell’Udeur che si è riunito oggi. È stato anche stabilito che il congresso del partito si terrà nella primavera del prossimo anno.


politica

19 gennaio 2008 • pagina 9

Compagni addio. Viaggio nella sinistra scomparsa/4 Marco Revelli

«Ci ha ucciso la tv» colloquio con Marco Revelli di Riccardo Paradisi

Operai che escono dalla fabbrica in anni dove esisteva ancora un’identità di classe. Oggi, come dice Marco Revelli (nella foto in basso), la classe operaia non esiste più in quanto tale. Sbriciolata in un individualismo su cui possono far presa ideologie fondata sulla paura e l’esclusione dell’altro

ROMA. Marco Revelli, docente di Scienza della politica all’Università del Piemonte è uno studioso del cambiamento sociale e produttivo che da anni lavora sulla rielaborazione delle culture politiche post-novecentesce. La sua analisi della sconfitta della sinistra alle ultime elezioni è sembrata la più originale e spregiudicata tra quelle che sono state fatte. Revelli sostiene che la sinistra è scomparsa dalla rappresentanza parlamentare per un processo di virtualizzazione e per l’incapacità di occupare uno spazio politico territoriale. Compito che invece la Lega ha assolto benissimo Professor Revelli che lettura dà della debacle politica della sinistra? La sinistra ha accettato e riempito il calco che le ha disegnato il sistema mediatico. È diventata a sua volta un espressione mediatica. E siccome non è quella la sua vocazione è sparita. Perché è sparita? Una delle caratteristiche della sinistra novecentesca era un’estrema fedeltà del suo elettorato legato al partito da un’obbedienza cieca, in un rapporto fideistico ma anche cementato da una grande fiducia persona-

le. Invece questa sinistra postnovecentesca che crede di replicare il Novecento essendo oltre ha rivelato un elettorato con un tasso di volatilità altissimo. Se analizziamo i flussi questo dato balza subito evidente: un terzo dell’elettorato è stato perduto con l’astensione, un terzo ha seguito le sirene del voto utile veltroniano, un altro terzo è rimasto fedele. Salvo alcune frange, soprattutto tra i ceti operai, che

ti di poteri forti. La sinistra non aveva niente di tutto questo… Come la Lega… Certo, come la Lega. Solo che la Lega non si è fatta ridurre a fenomeno mediatico. In questo la Lega, e solo in questo intendiamoci, si pone in continuità con i vecchi partiti della sinistra storica, che erano partiti di radicamento sociale forte, dove i militanti condividevano la vita dei loro rappresentati, viveva-

La sinistra si è allontanata dai quartieri, dalla gente, ha perso il contatto con le comunità concrete. Ha preferito la rappresentazione mediatica alla rappresentatività politica. Ecco i motivi della sconfitta hanno votato Lega. Ecco questa volatilità segnala il mancato radicamento sociale di questa sinistra, che si è fatta definire in termini virtuali dentro un racconto mediatico. Una sinistra che ha preferito la rappresentazione alla rappresentanza. La ragione principale di questa sconfitta è stata l’assenza di autonomia politica della sinistra rispetto all’universo mass mediatico. Il Pd è nato come fenomeno mediatico virtuale contando su un corpo costituito da amministratori e rappresentan-

no negli stessi quartieri. Ciò che preoccupa è che oggi è la Lega a dare risposte, retoriche secondo me, sbagliate, a una società in cui i suoi stati intermedi e bassi vivono e percepiscono concretamente l’impoverimento. È anche vero che la sinistra è sembrata inseguire più i bisogni secondari della società. Alcuni operai di Mirafiori intervistati da Liberazione hanno accusato Rifondazione di difendere gli interessi dei gay e non degli operai.

Esiste un profondo rancore operaio per i processi di impoverimento in corso. Quel soggetto collettivo che si chiamava classe operaia e che fino a trent’anni fa era al centro del mondo è stato sconfitto e cacciato al fondo della piramide sociale a lottare con le unghie e i denti per un reddito di sopravvivenza. I poveri che lavorano, anche quelli che hanno contratti a tempo indeterminato, stanno diventando una realtà. Questo determina quel rancore che porta a quelle reazioni cui lei accennava: rappresentate i ”loro”interessi e non i ”nostri”. È una guerra orizzontale tra categorie che rischiano la marginalità sociale. La sinistra ha pagato la permanenza al governo? Certo. La sinistra si era illusa di poter cambiare dall’interno le dinamiche di governo ma su questa illusione si è immolata. Fino agli anni Ottanta si poteva pensare a politiche economiche di tipo redistributivo ma oggi no. Nelle nostre società è impossibile redistribuire. Ci sono vincoli dell’Ue a impedirlo, delle società di rating, del fondo monetario internazionale.

A sinistra ha sfondato il messaggio no-global di Tremonti. Gli opposti si incrociano. È la conferma della grande confusione politica in cui siamo. La dicotomia destra sinistra salta come spazialità cartesiana. È anche questo un segno di crisi. Però Tremonti riapre un discorso sulla comunità, sui valori, oltre il mercatismo. Certa sinistra dovrebbe essere sensibile a queste tesi. Tremonti ha còlto un problema bisogna ammetterlo. Non c’è dubbio che la comunità peraltro sia un valore perduto ma appunto qui si deve stare attenti. La comunità che si offre come alternativa alla società liquida, alla solitudine globale può essere la comunità chiusa di sangue e suolo. Una reazione cioè scomposta, violenta ed escludente che magari riesce a coniugare Ratzinger e il liberismo. La comunità chiusa è l’incubo xenofobo che sogna l’estrema destra. Però anche l’utopia universalista dell’estrema sinistra s’è rivelata appunto tale. Come si coabita con chi non vuole coabitare? Come essere tolleranti con chi non è tollerante? Le periferie delle grandi città vanno a destra perchè la sinistra astrae da questo problema. Resta il fatto che l’alternativa alla convivenza è una concezione bellica del confronto tra culture: è lo scontro delle civiltà. Occorre costruire un paradigma politico in grado di organizzare la coesistenza pacifica delle diverse identità. Considerando che spesso le radicalizzazioni sono prodotte dalle paure reciproche: la paura è un terribile ingrediente dei fondamentalismi. Una dichiarazione reciproca di rispetto potrebbe spezzare la spirale della violenza. Una cultura di sinistra deve farsi carico di questo soprattutto, cominciando da se stessa, con l’assunzione, senza se e senza ma, del valore della non violenza. La sinistra ora ha di fronte a se il compito di ricostruirsi. La sinistra è all’anno zero: o c’è un ripensamento alle radici o non si va da nessuna parte. Deve chiedersi per esempio cosa ha comportato la frantumazione della classe operaia, tornare tra le pieghe della società, con umiltà, condividendo condizioni sociali non più condivise da tempo con quelli che ha l’ambizione di rappresentare, in un momento dove una crisi economica gravissima presenta la resa dei conti a un modello sociale che sta raggiungendo i propri limiti.


pagina 10 • 19 aprile 2008

mondo Il premier inglese Gordon Brown, incontrando Bush a Washington ha detto che l’Europa deve reagire al rifiuto di Teheran di mettere fine all’arrichimento dell’uranio diminuendo i propri investimenti nel settore del gas iraniano

Dopo la Germania, anche Roma e Londra appoggiano la linea dura di Bush

Aumenta la pressione su Teheran di Emanuele Ottolenghi

BRUXELLES.

L’incontro ieri dei ventisette ambasciatori europei a Bruxelles incaricati di coordinare la politica di sicurezza comune, per discutere l’attuazione della Risoluzione Onu 1803, prevedeva di arenarsi nuovamente sull’ostacolo italiano. Nelle settimane precedenti, l’Italia aveva ribadito di non voler includere la banca iraniana Melli nella lista delle istituzioni sanzionate dall’Europa – principalmente a causa del volume di transazioni finanziarie gestite dall’istituto di credito di cui beneficiano largamente ditte italiane presenti in Iran.

Ma di certo il cambiamento si è fatto sentire: secondo indiscrezioni e fughe di notizie nel pomeriggio di ieri l’Italia avrebbe sorpreso tutti facendo un dietrofront e passando con i sostenitori di un giro di vite contro l’Iran che andasse oltre le misure adottate dal Consiglio di Sicurezza il 3 marzo scorso – misure di controllo sulla banca Melli senza sanzioni. Osservatori diplomatici commentavano con sorpresa ieri pomeriggio che l’Italia avrebbe cambiato posizione

«di centottanta gradi» pur non spiegandosi bene l’accaduto. Certamente, possiamo presumere che il segnale politico emerso dal voto di domenica e lunedì scorsi abbia mandato un forte segnale al nostro ambasciatore a Bruxelles – e a tutte le altre missioni italiane nel mondo. Ma un ambasciatore non cambia posizione così nettamente senza chiare istruzioni e il governo Berlusconi non si è ancora insediato – per cui le istruzioni arrivano dagli attuali inquilini di Farnesina e Palazzo Chigi. Altrimenti, nel mezzo di un pe-

pa congiunta con il suo ospite, il presidente americano George W. Bush, ha detto che «L’Iran continua a sfidare la volontà della comunità internazionale, e insieme al presidente siamo d’accordo che occorre rafforzare il regime di sanzioni e garantire che esse siano attuate efficacemente. Parlerò con i miei colleghi europei nei prossimi giorni su come possiamo procedere su entrambe le questioni in tutta Europa. E vogliamo estendere le misure a includere gl’investimenti in gas liquido naturale». Non è dato di sapere se la

sicuro non riscuoterà consensi immediati, ma è importante che il premier inglese lo abbia fatto pubblicamente.

L’Iran infatti è al secondo posto nel mondo come riserve di gas naturale, ma non dispone della tecnologia necessaria per l’estrazione, la gestione delle risorse, oltre che per il trasporto su mercati lontani, sia per mezzo di gasdotti sia per mezzo di terminali di liquefazione – determinanti per una più facile distribuzione del prodotto su tutti i mercati mondiali. L’attrattiva del mer-

Il regime dei Mullah non deve possedere armi nucleari. A Bruxelles l’ipotesi di attuare la risoluzione 1803 dell’Onu questa volta trova meno ostacoli riodo di transizione come questo, il rappresentante italiano avrebbe potuto guadagnare tempo in virtù del cambio della guardia a Roma. Il cambiamento è significativo ma comprensibile, vista l’aria bellicosa che comincia a sentirsi in Europa. Forse il dato più indicativo lo ha offerto giovedì alla Casa Bianca il premier inglese, Gordon Brown, che nel corso di una conferenza stam-

riunione di ieri sera, terminata prima della chiusura del giornale abbia avuto esiti positivi. Visto il presunto cambiamento della posizione italiana – va detto che oltre all’Italia fanno parte del blocco dei reticenti all’estensione delle sanzioni contro l’Iran anche altri Paesi, primo tra tutti la Spagna seguita a ruota da Austria, Grecia e paesi scandinavi. Il tema sollevato da Gordon Brown di

cato energetico iraniano sta proprio nella grande disponibilità di risorse energetiche non ancora sfruttate, nell’apertura iraniana alle grandi multinazionali del petrolio a fare delle joint ventures per lo sviluppo dei giacimenti, e nella possibilità di trasformare l’Iran, con le sue grandi ricchezze petrolifere e di gas, in una solida e attraente alternativa alla dipendenza energeti-

ca dalla Russia. Per l’Iran l’attrattiva non è solo nel profitto.

Teheran intende sviluppare la propria economia nazionale alimentandola a gas naturale – mercato dell’automobile incluso – e rimane per ora un importatore netto di gas, pur possedendone in grandi quantità. Ma non può farlo da solo perchè i principali produttori della complessa tecnologia necessaria per liquefare e rigassificare il gas naturale sono ditte europee, giapponesi e nordamericane. Il mercato nordamericano è precluso agli iraniani, non così quello europeo, ma se le parole di Brown avessero un seguito l’Iran si troverebbe negato l’accesso alla tecnologia necessaria per il proprio sviluppo economico – e la sopravvivenza del regime. Quale che sia stato l’esito del dibattito sulle sanzioni europee, difficilmente quanto suggerito da Gordon Brown sarà incluso nei dispositivi europei di attuazione della 1803. Ma rimane il fatto che sembra esserci una diversa atmosfera in Europa, più in sintonia con Washington sui grandi temi di politica estera – l’Iran prima di tutto – e l’Italia ne fa di nuovo parte.


mondo

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Domenica al voto per decidere tra i progressisti di Lugo e i conservatori della Ovelar

Alle urne per un nuovo Paraguay colloquio con Ana Maria Baiardi Quesnel di Francesco Rositano

ROMA. Parla da donna, Ana Maria Baiardi Quesnel, da tre mesi ambasciatrice del Paraguay in Italia, ma anche da profonda conoscitrice del proprio Paese. Quarantatre anni, sposata, un figlio di sette, ha lavorato all’Onu. «La candidatura di Ovelar è la dimostrazione del peso sociale e politico della donna nel nostro Paese. Questo non vuol dire che le donne la voteranno. Secondo lei è reale il rischio di brogli? I candidati ogni tanto fanno suonare il campanello d’allarme per tenere desta l’attenzione. Personalmente questi rischi nell’attuale campagna io non li vedo. La candidatura di monsignor Lugo, secondo lei, ha diviso i cattolici? Tra i cattolici del Paraguay si stanno diffondendo due correnti d’opinione. Una appoggia Lugo, il suo programma, la sua idea di Paese, ha fiducia in lui. L’altro gruppo, invece, è convinto che un sacerdote dovrebbe continuare nel suo ministero. Quali sono le principali emergenze del Paese? Lavoro, sanità, sicurezza. La popolazione paraguayana è composta da molti giovani con meno di venticinque anni, la creazione di nuovi posti di lavoro è una delle maggiori emergenze da risolvere. Il Paraguay ha una grande percentuale di gente che vive nella povertà, ma non è il solo Paese al mondo. Va combattuto con forza il grande divario esistente tra ricchi e poveri. Il Paraguay è Latino-America. Per rilanciare l’economia sicuramente bisogna trasformare il nostro Paese in una nazione agro-industriale. Fortunatamente siamo un Paese in permanente via di sviluppo. In Paraguay c’è anche il problema della sicurezza, ma i poveri non sono criminali. Chi non ha i soldi per comprarsi il pane non può avere i soldi per le armi. Infine c’è il problema di una maggiore copertura sanitaria. Inoltre c’è una disparità di trattamento sanitario tra città e zone rurali. Da apprezzare comunque l’iniziativa dell’attuale governo di diffondere gratuitamente i farmaci antiretrovirali per la lotta all’Aids, una patologia che affligge un’alta percentuale della popolazione. Il problema della sanità è sentito comunque da tutti i candidati. Tra le emergenze lei non ha citato la lotta alla corruzione. Certo sarebbe un oltraggio alla verità affermare che il Paraguay sia un Paese libero e pulito. Ma la cor-

ruzione è un problema mondiale, generalizzato. Sarebbe quasi un’utopia immaginare una nazione libera da questo flagello; la corruzione è un male che si deve combattere sempre. E questa è un’opinione comune a tutti i candidati. Inoltre sempre ad onor del vero si deve dire che il Paraguay ha sottoscritto tutti i trattati internazionali per combattere la corruzione, il narcotraffico e il contrabbando. Ritornando al problema della giustizia si è discussa l’eventualità di modificare la Costituzione negli articoli dedicati alla magistratura. Soprattutto per quanto riguarda il narcotraffico le autorità internazionali hanno riconosciuto gli sforzi del Paraguay. Alcuni risultati sono già arrivati anche se bisogna lavorare ancora per far in modo che il nostro non sia più né un Paese di transito degli stupefacenti, né un Paese produttore.

Il mio Paese ha sottoscritto tutti i trattati internazionali per combattere la corruzione, il narcotraffico e il contrabbando

C’è da aggiungere però che la recente decisione della Corte Suprema di riabilitare il generale Oviedo accusato del golpe del ’96 alla corsa alle presidenziali ha di nuovo sollevato la polemica sulla corruzione. Lei che ne pensa? La polemica mi sembra sterile. La Corte ha dato al generale Oviedo il permesso di correre alle presidenziali perché non è stata dimostrata la sua colpevolezza. Magari si sarebbe potuto parlare di corruzione se gli fosse stato permesso di candidarsi senza una sentenza giudiziaria. Ma questa c’è stata.

Il Paraguay ha la centrale idroelettrica più grande del mondo, quella di Itaipù. I candidati come intendono valorizzare appieno questa risorsa? Lugo ha già annunciato che negozierà con il presidente brasiliano Lula un aumento del prezzo dell’energia elettrica che viene fornita al Brasile. C’è da dire che comunque la centrale non è solo una risorsa del Paraguay ma appartiene anche al Brasile: è stata costruita da entrambi i Paesi e anche la sua gestione è affidata ad entrambe le nazioni. Lugo propone una negoziazione dei prezzi di vendita dell’energia elettrica; la Ovelar invece vorrebbe un abbassamento dei tassi di interesse sui prestiti concessi al Paraguay. Ci sono altre differenze nei programmi economici dei candidati? L’altra grossa differenza in tema di politica economica è la questione delle privatizzazioni. Il partito di Lugo, sicuramente più spostato a sinistra, è favorevole alla privatizzazione delle imprese pubbliche; il partito Colorado della Ovelar, invece, più conservatore è contrario alle privatizzazioni. Di fatto assistiamo ad un paradosso ideologico: la sinistra è favorevole alle privatizzazioni, la destra è contraria. Come sono viste queste elezioni negli altri Paesi dell’America Latina? Sicuramente c’è una grande attenzione a queste consultazioni perché il Paraguay fa parte del Mercosud, la comunità economica dei Paesi dell’America Latina Pertanto c’è molto attenzione al vincitore delle urne perché chiunque dovesse farlo potrebbe portare la propria visione economica e politica nel Mercosud. Certamente all’interno di questo organismo ci sono certamente delle asimmetrie e il Paraguay è svantaggiato perché non ha uno sbocco sul mare. E questo si riflette in un maggior costo delle esportazioni. Queste asimmetrie vanno certamente affrontate. Quanto all’appoggio del presidente brasiliano Lula, lo stesso Lugo ha detto «Né con Lula né con Chavez. E lei ce l’ha un preferito? Se uno ha due figli non può dire qual è il preferito! Poi c’è da dire che noi paraguayani all’estero non abbiamo la possibilità di votare. Non a caso si sta discutendo di introdurre nella costituzione anche questa norma. Almeno stavolta ho scampato il pericolo di rispondere alla domanda.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Mugabe attacca la Gran Bretagna Il ventottesimo anniversario dell’indipendenza dello Zimbabwe è stato caratterizzato dalla presenza massiccia della polizia nelle strade del Paese e dal primo discorso alla nazione di Mugabe dopo le contestate elezioni di tre settimane fa. Il presidente in carica ha attaccato pesantemente l’ex potenza coloniale che avrebbe «svaligiato» il Paese e ha richiesto ulteriori espropri delle terre dei bianchi.

L’Umnik vieta il voto ai serbi del Kosovo La minoranza serba di Pristina non potrà prendere parte alle elezioni anticipate, comunali e legislative, in Serbia. Il responsabile dell’amministrazione delle Nazioni Unite, Umnik, nell’ex provincia di Belgrado, Joachim Rücker, ha espresso il suo definitivo no sull’argomento giovedì, in una lettera indirizzata al governo serbo. In precedenza l’esecutivo di Belgrado aveva dichiarato che l’Umnik non aveva questo potere.

McCain davanti a Obama e Hillary Tra i due litiganti il terzo gode. Il duello all’ultimo sangue tra i candidati democratici alla Casa Bianca, sembra portare acqua al mulino del repubblicano. Da un sondaggio dall’agenzia di stampa Ap e del motore di ricerca Yahoo, risulta che McCain, 37 per cento, distanzia di due punti il senatore nero e la senatrice di New York, entrambi al 35 per cento. Il risultato del sondaggio dovrebbe spingere Hillary Clinton ad abbandonare la corsa presidenziale a favore di Obama, nel caso in cui dovesse perdere ulteriore terreno nei confronti di Obama nelle primarie della Pennsylvania della settimana prossima.

I monaci giapponesi non vogliono la torcia Mentre la fiamma olimpica è arrivata in Thailandia, in Giappone il segretario generale del comitato organizzatore di Nagano, Kunihiko Shinohara, dopo un incontro con i monaci del tempio di Zenkoji, ha dichiarato che il tempio non accetterà di essere il punto di partenza del tour giapponese della fiaccola. Nagano è stato uno dei luoghi delle Olimpiadi invernali del 1998. «Rispettiamo la decisione dei religiosi» ha detto Shinohara «troveremo un altro punto iniziale». I monaci temono per la sicurezza del tempio e dei fedeli in caso di proteste.

Lisbona, si dimette Luis Menezes A causa dei permanenti contrasti nelle proprie fila, l’opposizione portoghese perde il proprio capo. Luis Felipe Menezes del partito della destra liberale portoghese, Psd, si è dimesso. L’ex medico resterà però alla testa del partito fino alla scelta del suo successore, prevista per il 24 maggio, giorno in cui il Psd terrà le primarie.

Jimmy Carter in Siria vede Hamas L’ex presidente Usa a Damasco incontrerà sia il capo dello stato siriano Assad che il leader dell’organizzazione islamista radicale Hamas, Khaled Mashaal, in esilio nel Paese mediorientale. L’iniziativa di Carter è stata duramente criticata da Washington e Gerusalemme. Ambedue i governi ritengono Hamas una organizzazione terrorista. Nonostante il boicottaggio ufficiale del suo governo, un ministro israeliano ha dichiarato la sua disponibilità a incontrare Hamas. Il ministro dell’Industria e del Commercio, Eli Jishai, ha infatti pregato Carter di intermediare con la direzione dell’organizzazione fondamentalista.


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speciale bioetica

Creato

IMMIGRATI, IDENTITÀ E DIALOGO La nostra è una civiltà incentrata sulla dignità umana ma non tutte le altre sono così: dobbiamo difenderla ed evitare di cadere in balia dei fanatici

I REATI MULTICULTURALI di Sergio Belardinelli n luogo comune abbastanza diffuso vuole che il nostro mondo occidentale sia ormai avviato sulla strada della “post-identità”, diciamo pure del cosmopolitismo post identitario, nella convinzione che questo sia il solo modo per fronteggiare le sfide della globalizzazione e il dialogo con le culture diverse dalla nostra, senza cedere al fanatismo e alla violenza. Se però è vero che il dialogo e il rispetto dell’“altro”debbono diventare i pilastri su cui appoggiare le relazioni interpersonali e interculturali della società globale; se è vero altresì che quest’ultima, con la sua crescente differenziazione, costringe non soltanto le diverse culture, ma gli stessi individui che si riconoscono in una medesima cultura, a essere, diciamo così, “aperti” alle ragioni dell’altro,

U

logo con le culture diverse dalla nostra. In una società complessa, pluralista e globalizzata, di certo non ha senso pensare l’identità in termini di chiusura rispetto a tutto ciò che non rientra entro determinati confini. Sia sul piano individuale che su quello sociale, occorre sapersi relazionare continuamente con ciò che è “altro”, senza perdere la consapevolezza di ciò che siamo; occorre tenderci il più possibile verso l’altro, senza spezzare i legami che abbiamo con noi stessi, con la nostra storia e la nostra tradizione.

L’identità deve quindi farsi flessibile, aperta e, in quanto tale, permeabile verso l’esterno, diciamo pure, inclusiva nei confronti dell’altro; ma deve anche essere capace di fronteggiare, senza aggressività e senza fanatismi, quelli che sembrano esse-

Parole come ragione, verità e giustizia rischiano di diventare impronunciabili vista la pluralità delle opinioni, degli stili di vita e delle relazioni in cui ciascuno di noi costruisce ormai il proprio io; allora il primo obbligo che abbiamo, nei confronti di noi stessi e degli altri, è precisamente quello di prendere consapevolezza di ciò che siamo. Altro che cosmopolitismo post identitario. Dobbiamo affrontare il problema dell’identità in modo nuovo, questo sì, ma non accantonarlo come se fosse un impedimento al dia-

re alcuni dei pericoli più seri sia per gli individui che per le comunità: la frammentazione, il diffuso relativismo culturale nonché la conseguente tendenza a generare conflitti sempre più irriducibili. Su quest’ultimo aspetto non sempre poniamo invero la giusta attenzione, ma esso rappresenta a mio avviso uno snodo decisivo per la cultura occidentale, la quale, oltre a dover gestire il confronto con culture “altre”, spesso aggressi-

ve e fanatiche, si trova anche a dover fare i conti al proprio interno con vere e proprie“guerre civili condotte con altre mezzi” (l’espressione è di MacIntyre). Vedi quanto accade sui temi sempre più scottanti della bioetica e della biopolitica. Ciò che intendo dire è che la capacità di una cultura di prendere le distanze da se stessa è fondamentale per aprirsi alla “prospettiva cosmopolita” come a una risorsa. Ma questa capacità non si sviluppa coltivando l’indifferenza, il relativismo o la neutralità etica delle istituzioni pubbliche; né si è sviluppata allo stesso modo in tutte le culture. La cultura europea e occidentale ha potuto imparare a guardarsi nonché ad assumere il punto di vista dell’“altro” in primo luogo perché, per sua natura, essa è una cultura antropocentrica, non eurocentrica o etnocentrica; è una cultura incentrata sulla incommensurabile dignità di ogni uomo, non su valori ipotetici e tutti ugualmente negoziabili. E proprio per questo essa ha potuto imparare a vedere l’“umano” che si esprime in ogni cultura, senza considerarlo patrimonio esclusivo di nessuna. Più una cultura è antropocentrica e più è capace di differenziazione, di articolarsi in identità plurime, concentriche, tali che uno possa sentirsi, allo stesso tempo e senza traumi, marchigiano, italiano, europeo, occidentale, cosmopolita e finanche cittadino del cielo. Tutto questo esige però che venga coltivato e, all’occorrenza, anche difeso il senso profondo di ciò che effettivamente sta alla base della propria identità; non bastano generici appelli buonisti al dialogo e al rispetto

dell’altro. Il confronto interculturale infatti, come del resto quello tra individui all’interno di una stessa cultura, non è mai soltanto un problema di tolleranza, di reciprocità o di integrazione; è certo anche questo; ma guai se resta soltanto questo, diventando magari un alibi per non mettersi in gioco fino in fondo, per nascondersi. È la nostra stessa umanità, l’umanità che condividiamo con tutti gli uomini del mondo, ad esigere che, nel confronto con coloro che provengono da culture differenti dalla nostra e con coloro che anche su questioni fondamentali la pensano diversamente da noi, ciascuno di noi sia in primo luogo se stesso, un testimone creativo della propria identità.

Per certi versi trovo sconcertante che una cultura come quella occidentale, la quale senz’altro ha sviluppato al proprio interno una sorta di naturale disposizione al dialogo e alla discussione, oggi fatichi così tanto a districarsi nei suoi conflitti. Ne va in ultimo della stessa cultura liberaldemocratica e delle sue istituzioni. Ma la cosa forse si spiega, se pensiamo alla stanchezza da cui ci siamo fatti prendere. Parole come ragione, verità, giustizia, dignità dell’uomo, che pure stanno alla base delle nostre liberaldemocrazie, sono diventate poco a poco quasi impronunciabili nella loro dimensione universalistica, minate addirittura da un’idea di libertà, la quale, declinata nei termini individualistici della libertà di fare semplicemente ciò che ci piace, anziché ciò che dobbiamo, non riesce più a distinguere i nostri diritti dai

nostri desideri. Ma poi è arrivato il brusco risveglio dell’11 settembre 2001; è arrivata la biopolitica e la costrizione a prender partito su questioni di vita e di morte; sono arrivate le grandi migrazioni, le crisi internazionali, l’irruzione della Cina sullo scenario economico mondiale e altro ancora. Si è incrinata così l’aura debole che schiacciava come un macigno la nostra cultura e, seppure smarriti, abbiamo ricominciato a cercare, a guardarci intorno, ma anche dentro, guidati dal magistero di due grandi papi: Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Abbiamo compreso, così almeno spero, che indebolendo le nostre radici e la nostra identità, contrariamente a quanto pensano i più accaniti sostenitori del pensiero debole, non si rende il dialogo più semplice, né più fruttuoso; ci si mette semplicemente in balia dei fanatici.


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Anche in Italia si praticano sempre più spesso le escissioni del sesso femminile

Mutilazioni alle donne ormai sono migliaia di Elena Guerri dall’Oro calcolato che nel mondo, ci siano dai 100 ai 130 milioni di donne che hanno subito una mutilazione genitale. E in Italia potrebbero raggiungere l’ordine di parecchie nmigliaia, anche se solo ora il governo ha avviato una indagine sul fenomeno. Queste mutilazioni più o meno invasive, più o meno raccapriccianti, ma tutte praticate sotto l’esigenza culturale millenaria che vede la donna ancora oggetto di piacere e di riproduzione dell’uomo. Tali pratiche vengono inflitte non per dettami religiosi, bensì per ragioni culturali, per permettere alla donna l’ingresso nella società e per esigenze di rispettabilità. Per lo più praticate in Africa, ma anche in Asia e nei gruppi migranti, sono infatti presenti tanto nei gruppi islamici, con eccezione del Magrheb, quanto tra gli animisti e i cristiani.

È

La religiosità non ne è quindi il comun denominatore; piuttosto un’esigenza patriarcale e misogina. Leggenda vuole che la pratica iniziò nel Corno d’Africa, migliaia di anni fa, alla corte dell’Imperatore, il quale per garantirsi la fedeltà delle proprie centinaia di concubine, che non poteva soddisfare, le facesse mutilare nei genitali. Le fanciulle venivano escisse del clitoride e chiuse nella vulva, per essere mantenute caste e insensibili al desiderio. Roba d’altri tempi. Ma tutt’ora per le donne appartenenti a questi gruppi etnici, non essere escisse, rappresenta impurità e quindi isolamento sociale, impossibilità a trovare un marito, che a certe latitudini, rappresenta l’unico ruolo sociale che una donna possa avere ma anche una sorta di sistema previdenziale”: Cristiana Scoppa di Aidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo, di questo è certa. E aggiunge: “Sono le famiglie, le madri stesse, ad assicurarsi che questo sanguinoso, violento rito venga comunque eseguito. Rito che spesso per la mancanza di igiene, poiché il taglio nelle tribù viene praticato con un vetro o con una lama arrugginita, provoca malattie infettive, a volte

anche mortali. E comunque la mutilazione in sé, per il dolore e il vuoto psicologico che lascia, sono già sufficienti a voler impedire che questo abominio continui”. La presidentessa Colombo, di Aidos, aggiunge: “Possiamo parlare solo di stime per quel che emerge dal nostro sistema sanitario, più le notizie aggiuntive che ci fornisce la Caritas, riguardanti le donne immigrate clandestine. Si tratta di donne che arrivano in Italia per lo più in età da lavoro e che quindi sono già state escisse al loro Paese; anche se 30 anni di campagna di informazione dal Burkina Faso al Sudan, dal Kenia al Niger, stanno dando i loro primi frutti: le donne iniziano a fidarsi di chi suggerisce loro, nei consultori medici, di non accettare più una pratica, tanto inutile quanto dannosa.

La urbanizzazione e la scolarizzazione in questo senso sono di enorme aiuto. Alcune madri ammettono che alle loro bambine non lo faranno fare; poche per la verità, ma è pur sempre un inizio”. Comunque sia, mentre le donne africane lentamente prendono conoscenza di nuove possibilità, le MGF, acronimo di mutilazione genitale femminile, in Italia sono un reato. Con la legge n. 7 del 2006 dell’On. Consolo di An, si prevede la prevenzione e il divieto di queste barbare pratiche. Una mostruosità praticata nel lontano Mali o in Niger ci vede più impotenti. Quando però le donne di queste etnie vengono a vivere sul nostro stesso pianerottolo di Busto Arstizio o di Verona, si può reagire e in fretta. È stato il caso della 43nne nigeriana, colta in flagranza, mentre stava per praticare una mutilazione su una neonata di 15 giorni. È stata arrestata e processata nel tribunale di Verona. Su questo argomento non lascia ombra di dubbio la On. Angiola Filipponio Tatarella, Responsabile Commissione di Bioetica di An. “Questa pratica non può essere giustificata nel finto rispetto delle culture altrui: bisogna assolutamente vietarla rendendo efficace la norma, che deve avere anche le condizioni per essere applicata. Dobbiamo avvicinare le donne che subiscono questa pratica brutale e di sottomissione”. “La reciproca tolleranza prosegue - smette di esistere davanti a pratiche che incidono sui diritti e sui doveri dell’individuo umano. Il multiculturalismo, e Roma né è maestra millenaria, è la nostra ricchezza, ma solo a determinate condizioni. Per essere integrati in una società bisogna rispettarne le leggi”.


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«Chi accetta la globalizzazione deve mettere in conto un’immigrazione senza limiti»

Ma la nostra non è una società aperta colloquio con Massimo Fini di Alfonso Piscitelli idea di Massimo Fini è che la nostra società non sia né libera, né “aperta”. Il repertorio degli stili di vita ammessi è in realtà molto ristretto e nei confronti delle identità culturali estranee la tolleranza è solo un’apparenza. A Fini non spaventa il diffondersi di costumi di tipo tribale o islamico nell’Europa del XXI secolo, ma piuttosto la tendenza educativa/repressiva della nostra società che accetta l’altro esattamente nella misura in cui un narcisista accetta la propria immagine riflessa nello specchio. La nostra società di tipo europeo-occidentale può dirsi una società aperta? Direi proprio di no. È una società che non accetta l’altro da sé: è forse aperta al suo interno, ma è totalmente chiusa al suo esterno; pensiamo al rapporto oggi all’ordine del giorno col mondo musulmano. Il musulmano può essere accettato solo nella misura in cui si omologa a noi. L’immigrato va bene, ma sempre col retropensiero di rieducarlo secondo canoni “buonisti” di comportamento. Noi concediamo la più ampia libertà di circolazione alle merci e agli uomini, ma non riconosciamo gli stessi diritti di circolazione agli uomini. È pur vero che in certi ambienti padronali l’afflusso di immigrati è gradito perché crea una massa di lavoratori che si adattano a condizioni semi-schiavistiche…

L’

per lo smantellamento delle frontiere… ma oggi il meccanismo della globalizzazione sembra essersi inceppato. Dopo aver distrutto tutti i paesi del terzo mondo, la globalizzazione comincia a lambire anche le fasce più deboli del primo e allora nasce il problema. Ma possiamo oggi strap-

«Dobbiamo misurarci con le drammatiche conseguenze della rivoluzione industriale» Questo è un ragionamento di tipo utilitaristico, ma io faccio un ragionamento di principio: se il lavoro ha il diritto di andare dove vuole, l’uomo ha o no lo stesso diritto? Chi accetta la globalizzazione deve anche accettare una immigrazione senza limiti. E infatti i teorici del globalismo sono sempre stati

parci i capelli se la Cina paga i suoi operai un pugno di riso, quando è sempre stata questa la politica aziendale delle imprese occidentali che delocalizzano nel terzo mondo appunto per sfruttare la manodopera a basso costo? Insomma ci lamentiamo perché i cinesi anche in questo ci hanno “imitato”!

Mi pare totalmente evidente. Adesso che veniamo ripagati dai cinesi con la stessa moneta, il gioco non vale più. Torniamo al discorso iniziale: lei dice che l’immigrato viene accettato in Europa solo a patto che paghi il prezzo della assimilazione. E tuttavia in Francia, in Inghilterra sta anche accadendo che si accetti la nascita di una sorta di “enclave” islamiche o sick: luoghi circoscritti in cui si dà per scontato che viga una diversa concezione delle regole, dei diritti, dei doveri. Una volta che rispetta le leggi del paese in cui vive, l’immigrato ha il diritto di conservare le proprie radici, la propria lingua. Del resto a Brooklyn ci sono ancora italiani immigrati che a stento parlano l’inglese. Però, mi scusi, la differenza di costumi di un cattolico italiano immigrato non era poi così divaricata rispetto a quella dei protestanti anglosassoni o dei cattolici irlandesi.V’era un

comune denominatore di valori, che è più difficile riscontrare tra il musulmano del Maghreb e il milanese. Se noi ci rifacciamo alla situazione della immigrazione dell’inizio del secolo scorso non ne sono poi tanto sicuro. Comunque anche ammettendo che il musulmano sia radicalmente diverso, quale è il problema? Se rispetta le nostre leggi, non può rimanere sé stesso? Anche gli Ebrei per secoli hanno vissuto in diversi contesti conservando fortemente le loro radici. E tuttavia non apparirebbe schizofrenica una società che ad esempio sui banchi di scuola affianca ragazzine emancipate e giovani donne con il velo, e con tutto un repertorio diverso di diritti e di doveri? No, ovvio. Tutto ciò che attiene ai diritti e ai doveri deve essere condiviso, ciò che attiene ai costumi deve invece essere libero. E tuttavia si può anche fare qualche eccezione giuridica per i musulmani o per le popolazioni africane.

Ovviamente non per l’infibulazione… Ma possiamo veicolare l’immagine di una contrapposizione tra un Occidente chiuso e repressivo e un Islam alla ricerca di una libera espressione dei propri pacifici usi? No, non vorrei essere equivocato. L’Islam è uno dei fattori storici che ha distrutto l’Africa in tutti i sensi. Dove ha agito, l’islam ha fatto esattamente quello che abbiamo fatto noi: è una cultura totalitaria, antesignana della globalizzazione ideologica. Io non ho alcuna simpatia per questi monoteismi totalitari, mi sono più simpatiche le culture politeistiche dell’Africa Nera. Vedo che lei da qualche tempo frequenta Alain De Benoist, il pensatore della Nuova Destra francese, “politeista”professo… Frequentare non è il verbo giusto. Alain De Benoist l’ho incontrato una sola volta, ma lui è stato uno dei firmatari del mio Manifesto dell’Antimodernità, in cui io sostengo che a due secoli dalla rivoluzione industriale dobbiamo fare i conti con le conseguenze spaventose del mondo che abbiamo costruito. La domanda in questi casi è scontata: qual è l’alternativa? Non mi interessa l’alternativa dietro l’angolo. Io constato che questo nostro è un mondo che procura una grande sofferenza. Lei sa che nevrosi, depressioni sono tutte malattie della modernità. I suicidi in Europa sono decuplicati dalla metà del Seicento ad oggi. Ecco vogliamo ragionare su questo? Mi spaventa il fatto che oggi sono in moto meccanismi sociali che nessuno osa governare. La globalizzazione va per conto suo e nessuno osa contrastarla anche quando produce sfaceli. Clinton negli anni Novanta disse che opporsi alla globalizzazione era come opporsi alla legge di gravità. Una grande scoperta scientifica! E pensare che il nobel lo hanno dato a Gore… Ma adesso che i danni della globalizzazione lambiscono la società occidentale, non sono più isolati quelli che ritengono che la globalizzazione è un processo umano e pertanto può essere soggetto a revisione.


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ino a poco fa, via Paolo Sarpi sembrava un quartiere ben integrato, dove gli appassionati del Dragone potevano fare shopping a buon mercato, tra negozi, supermercati e ristorantini. Nessuno si sarebbe aspettato la rivolta del 12 aprile, nella Chinatown milanese, con scene di guerriglia urbana, auto distrutte, invasioni di bandiere della Repubblica popolare cinese, assalto ai vigili urbani in ritirata. Bastò una multa a una commerciante che scaricava merci fuori orario per far scatenare tensioni di anni. Solo qualche mese prima, nell’agosto 2006, a Padova, il muro di via Anelli, eretto dal Comune per proteggere la popolazione da un quartiere divenuto centro di spaccio e prostituzione, una sorta di sversatoio umano per immigrati, magrebini e nigeriani.

F

Così, crescono interi quartieri nelle mani di extracomunitari. Non sono solo le periferie, come Scampia a Napoli o lo Zen a Palermo. Spesso si tratta di piccole città nelle città, come il centralissimo Isolotto di Firenze, via Quarenghi a Bergamo o l’Esquilino a Roma. Qui, ormai da parecchi anni, l’area di Piazza Vittorio è egemonizzata dagli immigrati, in molti, da semplici operai sono diventati imprenditori, spesso organizzando coop etniche, i residenti storici hanno dovuto ripiegare altrove. «Se la concorrenza è regolare dobbiamo accettarla - dice il presidente di Roma, Cesare Confcommercio Pambianchi - il problema si pone con le comunità più recenti che non conoscono le leggi: dobbiamo alzare i livelli di formazione per contrastare la liberalizzazione selvaggia, la mancanza di regole di mercato e il rischio di merci pericolose». L’ultimo rapporto Caritas2006 evidenzia che gli immigrati tendono a concentrarsi per nazionalità in

Anche in Italia esistono enclaves chiuse, governate da altre culture e altre regole

Quei ghetti a rischio di rivolta di Irene Trentin alcune regioni: in Friuli Venezia Giulia un quarto del totale provengono per vicinanza geografica dall’ex Jugoslavia, in Liguria un quinto sono ecuadoregni, per i rapporti di quella regione con l’America Latina, nel Lazio cresce la percentuale di filippini e polacchi per la necessità di colf e collaboratori domestici e l’attrazione della Capitale come centro del cattolicesimo. Su tre milioni e 690mila stranieri soggiornanti e due milioni e 938mila residenti, due milioni e 200mila si trovano al Nord (60 per cento del totale nazionale ), un milione circa al Centro (il 26 per cento) e mezzo milione al Sud (il 14 per cento). Ogni dieci immigrati, cinque sono europei, quattro africani e asiatici e uno americano. La Romania, entrata nella comunità europea un anno fa, cresce e sfiora un sesto del totale con 556mila presenze regolari. «Più si vivo-

no situazioni di disagio più aumenta il rischio di illegalità, anche solo amministrativa - spiega il responsabile Immigrazione della Caritas, Oliviero Forti -. Per questo la difficoltà d’integrazione si avverte soprattutto nelle metropoli, dove il costo della vita è più elevato ed è più duro trovare lavoro».

I problemi maggiori si verificano soprattutto con le comunità di stranieri arrivate da poco in Italia, e che quindi ne conoscono meno leggi e tradizioni. Ci sono popoli, come quelli asiatici, per cultura molto legati alle usanze d’origine, oppure quelli nomadi, che si stringono, e si chiudono, attorno alla propria comunità, e altri come quello africano, abituato a forme associative, ma più portato a integrarsi. «In ogni caso continua Forti - ci sono molti esempi positivi, come Cagliari, dove i figli dei

rom stanno frequentando con buoni risultati le scuole italiane». Ma, a differenza di paesi europei industrializzati come l’Inghilterra, dove il trenta per cento degli immigrati lavora nel terziario, in Italia «dei 141mila imprenditori rilevati da Unioncamere - osserva Gianluca Luciano, editore di “Stranieri in Italia, un sito e quindici testate etniche tradotte in sei lingue - di fatto ce ne sono solo 60-70 mila, operano nei kebab, in call center, pizzerie al taglio, tutti gli altri sono per lo più meri amministratori. E la maggior parte sono asiatici, perché hanno una tradizione imprenditoriale più forte». A Prato, vera e propria Chinatown d’Italia, il Comune è stato costretto a mettere i nomi delle vie anche in cinese. I dati ufficiali riferiscono di 186mila immigrati regolari dalla Cina Popolare in tutto il Paese, ma si stima siano molti gli sconosciuti all’anagrafe. Si favoleggia di cinesi che non muoiono mai e di carte d’identità che passano di mano. Spesso il rispetto della legalità, o il regime di illegalità, dipende dal legame con la comunità d’origine. Così, nel centro storico di Catania, molte colombiane alla fine degli anni Ottanta erano dedite alla prostituzione, i magrebini allo spaccio e furto, invece nessuno dei circa mille senegalesi regolari era stato segnalato per reato. «Mentre le altre etnie erano state assoldate dalla mafia - racconta Giuseppe Scidà, sociologo delle Immigrazioni a Scienze politiche di Bologna - i senegalesi appartenevano tutti a un piccolo ramo dell’Islam molto forte, il muridismo, che esercitava una sorta di controllo su di loro e predicava la santificazione attraverso il lavoro». Catania si accorse della loro presenza durante i funerali della proprietaria di una drogheria, Sarina, seguiti da centinaia di senegalesi: aveva creato nel suo negozio una sorta di ambasciata.


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economia

ROMA. Quarantott’ore fa l’annuncio da parte di Silvio Berlusconi di una telefonata conciliante con Nicolas Sarkozy e la promessa di vedersi tra un mese per parlare dell’affaire Alitalia. Di ieri, subito dopo aver incontrato in Sardegna Vladimir Putin, la prova che la partita non è chiusa: «Con il presidente abbiamo parlato naturalmente delle possibilità di avere un tavolo a cui sederci con Aeroflot». E di rimando l’ospite russo ha confermato di aver spinto «il presidente del Cda di Aeroflot» a riaprire il confronto. Chiuse le urne, e potendo abbassare i toni, Silvio Berlusconi si è accorto che Alitalia può diventare una variante nel riposizionamento internazionale dell’Italia: non si può rompere con l’alleato naturale Sarkozy, si devono intensificare i rapporti con la Russia, nostra prima fornitrice di gas naturale. Tanto che il Cavaliere, sempre ieri, ha chiarito: «Quando la trattativa con Air France si chiuderà, siamo disponibili ad allargare gli accordi futuri con altre compagnie». A Roma Pdl e Pd lavorano su un prestito ponte, indispensabile per salvare l’azienda e trattare da posizioni di maggiore forza con il futuro compratore, mentre i sindacati premono – più della politica – per l’ingresso delle banche in un aumento di capitale che scongiuri una vera privatizzazione. Ma Berlusconi sa che l’acquirente naturale è Air France. Aeroflot potrebbe rientrare, come socio industriale, se prenderà forma una cordata imprenditoriale tricolore. Non come nuovo azionista di maggioranza. Spiega Oliviero Baccelli, economista e direttore del Cer-

prezzo nel Nord Italia; IntesaSanpaolo potrebbe entrare nel salvataggio di SocGen.

Il Cav accelera su un prestito ponte. Anche in contrasto con la Ue

Alitalia? Può volare anche verso Mosca di Francesco Pacifico tet-Bocconi: «L’ipotesi non sta in piedi, per diversi ordini di motivi. Primo per la scarsa compatibilità tecnica delle due flotte: tipologie d’aeromobili

aperti con Francia e con Russia, che possono intrecciarsi con la vicenda Alitalia. Tra un mese, oltre che della Magliana, il futuro presidente

di allargare l’alleanza tra Thales e Finmeccanica dall’aerospazio alla difesa, degli intrecci finanziari: Vincent Bollorè, amico di Sarkozy e principale

Berlusconi ne parla con Putin, ma non può scontentare Sarkozy. Anche perché al tavolo dei governi ci sono affari che riguardano nucleare e banche. L’economista Stefano Manzocchi: «Si va verso un’alleanza a tre sull’energia?» differenti, regimi contrattuali incompatibili. Poi ci sono i paletti imposti dalla Ue alle società extracomunitarte». Restano in piedi i tanti dossier

del Consiglio italiano e Sarkozy parleranno dello sviluppo del ruolo di Enel nel nucleare di terza generazione francese e di quello di Edison,

sponsor dell’ingresso di Fininvest in Mediobanca, vuole salvare lo status quo in Generali; Bnp Paribas, dopo l’acquisto di Bnl, cerca sportelli a buon

Non meno vincoli in Russia, nostro secondo partner commerciale. Li ha l’Eni che ha sposato il maxi gasdotto South Stream e che conquista senza sosta i diritti di esplorazione in Siberia e nel Caspio, l’Enel che è entrata nel nucleare russo, la solita Finmeccanica pronta a esportare il suo know how, banche e assicurazioni italiane interessate al ricco mercato locale. Anche se quello che sta più a cuore a Mosca è l’appoggio italiano, senza se e senza ma, nel trattato di partenariato strategico tra Mosca e l’Unione europea. «Con Putin abbiamo parlato di tanti temi», ha spiegato, non a caso, ieri Berlusconi. Nota Stefano Manzocchi, ordinario di economia internazionale della Luiss: «Come dimostra l’acquisizione in Spagna di Endesa da parte di Enel, quest’operazione non ha riaperto le porte a un matrimonio tra Autostrade e Abertis. È difficile mettere assieme parti di società di capitale, per quanto controllate dallo Stato. Eppure in questa vicenda, c’è la sensazione che l’Italia stia provando a fare una triangolazione con Francia e Russia e che l’operazione Alitalia potrebbe fare da volano a un’alleanza sul versante energetico, dove la società di queste Paesi spesso si muovono in maniera frammentata». Alitalia semplice comparsa in un contesto più complesso e interessante? «Sì, perché mi sembra che per la compagnia stiamo tornando indietro di qualche mese: la pista francese resta quella più credibile tanto che sembra metabolizzata la fine di Malpensa».

Le nozze tra Delta e Northwest in America potrebbe fare da volano a un riassetto del settore, dove rimarranno soltanto maxi conglomerati

Colossi dei cieli per non crollare sotto i colpi della liberalizzazioni ROMA. Qualche giorno fa sono state annunciate le nozze fra le americane Delta e Northwest airlines, anche loro in Skyteam come Alitalia. Segno che il nuovo regime di liberalizzazione suggerisce nel settore accorpamenti per sfruttare economie di scala, oggi ancora più utili visto che il prezzo dei carburanti sta mandando in rosso i conti delle compagnie. Continental (342 aeromobili più un centinaio in ordine) ha archiviato il primo trimestre 2008 in rosso di 80 milioni di euro, contro l’utile registrato nello stesso periodo del 2007 e rumors la danno in rotta verso United (458 aerei) per una fusione. Per dare un ordine di grandezza, la Delta, che per anni si è occupata soltanto di collegamenti interni, ha una flotta di 578 aeromobili con 350 in ordine o opzionati. Il boom del trasporto aereo è il cuore della nuova globalizzazione e la libertà di movimento di passeg-

di Pierre Chiartano geri e merci – non dobbiamo nasconderlo – è il cuore strategico dell’economia occidentale. Non a caso e proprio lì che il terrorismo, molto informato e strategicamente preparato, ha colpito l’11 settembre 2001. Ed è in questo settore che molti epigoni dell’anticapitalismo vogliono infilare il cacciavite per allargare il buco di una struttura economica in un momento di crisi decisamente pericolosa. Ragione per cui, quando parliamo di trasporti aerei o marittimi, dobbiamo inquadrare il problema in un campo più vasto e complesso dove geopolitica e strategia svolgono un ruolo. Trasporto aereo vuol dire sviluppo del turismo, cioè un industria che dovrebbe essere a basso impatto ambientale, con un know how facilmente trasferibile

ai Paesi emergenti e con un solido coefficiente di integrazione sistemico. Il settore facilita l’avvicinamento fra modelli economici, politici e culturali. È quello che svilupperà il maggior numero di posti di lavoro nei prossimi venti anni. È qui che le maggiori compagnie mondiali hanno puntato i loro soldi; che si giocano partite importanti per il futuro dell’Occidente. E i trasporti aerei ne sono il pilastro principale. Detto questo, i numeri dicono che servono “ali” forti per superare le turbolenze dei prossimi mesi o anni e un carrello robusto che permetta hard landing e fuori pista senza conseguenze. Il mercato è cambiato, oggi non servono più grandi macchine per il trasporto da 500 o più passeggeri, ma aeromobili versatili che possano operare bene su aeroporti di secondo e terzo livello – addio hub – con consumi molto contenuti.


economia

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Precedenti pericolosi: la riforma del catasto potrebbe vanificare il provvedimento e costare 5 miliardi in più ai cittadini

E il taglio all’Ici di Prodi si rivela un bluff d i a r i o

di Giuseppe Latour

d e l

g i o r n o

ROMA. Era il colpo a sorpresa del-

Epifani: prioritario il fiscal drag

la campagna elettorale del 2006. Dopo due anni sta per diventare una realtà. L’abolizione dell’Ici sarà all’ordine del giorno del primo Consiglio dei ministri del governo Berlusconi. Ma è difficile fare previsioni sui reali benefici, perché l’esperienza dell’esecutivo Prodi ha insegnato che, quando si tocca l’imposizione sulla casa, lo Stato sa far rientrare il denaro perso dalla porta di servizio. Nell’ultima Finanziaria Romano Prodi aveva previsto una riduzione dell’Ici per la prima casa pari all’1,33 per mille della base imponibile, con un tetto di 200 euro. Dall’agevolazione erano esclusi castelli, ville, case di lusso. Un passo avanti rispetto alla detrazione precedentemente in vigore, pari a 103, 29 euro. E ulteriori sgravi erano destinati ai soggetti che installavano impianti a fonte rinnovabile per la produzione di energia elettrica o termica per uso domestico.

Il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, lancia la sua lista di priorità al futuro governo. «Prioritario venire incontro alle milioni di persone che fanno fatica ad arrivare alla fine del mese con una restituzione attraverso il fisco di almeno 4-500 euro all’anno a pensionati e lavoratori. In secondo luogo, mettere un freno ai prezzi, ma su questo tema non si dice ancora nulla». Epifani ha concluso ricordando di avere fatto gli auguri ai vincitori della elezioni, ma ci sono aspetti del programma che non condividiamo. E spero che non ci si voglia mettere di nuovo contro il sindacato».

Oggi l’imposta comunale sugli immobili è, insieme con l’addizionale Ire, la principale fonte di reddito dei Comuni. Coprecirca un terzo delle loro uscite e vale, stando alle stime dell’Anci-Ifel, poco più di 12 miliardi di euro, un valore in costante crescita. Soltanto quella sulla prima casa vale 3 miliardi. La misura introdotta da Prodi, stando a quanto indicato nella relazione tecnica alla legge di bilancio, ha pesato sulle casse dello Stato per 823 milioni dei 3 miliardi che compongono il gettito dell’Ici sulla prima casa, dal momento che il governo si è impegnato a rimborsare le minori entrate ai Comuni. Insieme con gli sgravi per 800 milioni di euro tramite una revisione delle aliquote, però, si stava lavorando a un duro colpo (al rialzo) sul fronte delle basi imponibili: il passaggio a un sistema definito di catasto patrimoniale, che avrebbe prodotto un’impennata di quanto pagato dai cittadini ai Comuni. Secondo i calcoli dell’Ufficio studi di Confedilizia, la revisione degli estimi avrebbe prodotto una moltiplicazione per tre di quanto dovuto per le case di proprietà. Un calcolo semplice, visto che con quel sistema il valore catastale di un immobile da 100mila euro sarebbe passato a 300mila euro secchi. Quindi, il minor gettito di 800 milioni circa sarebbe stato compensato con maggiori entrate, solo contando la prima casa, per 6 miliardi di euro. Con un beneficio per lo Stato di più di 5 miliardi. La misura promessa dal futuro governo vale poco più di 2 miliardi di

Le auto della Fiat inquinano meno Fiat Group è leader nella classifica dei costruttori che hanno proposto nel 2007 sul mercato europeo autovettore con le minore emissioni inquinanti di Co2. Lo rileva il Centro studi Jato Dynamics, che ha stilato la classifica dei costruttori più amici del’ambiente, insediando il Lingotto al primo posto con una media di emissioni di 137.3 grammi al chilometro. «Fiat», si legge nello studio, «guida la sfida dei costruttori per auto più pulite e amiche dell’ambiente». Dietro il Lingotto, Peugeot (141.9 g/km) e Citroen (142.2 g/km). Il quarto posto va ancora a una francese, Renault (146.4), seguita da Toyota (148.8 g/km) e Ford (149,1 g/km). Intanto l’Ad del Lingotto, Sergio Marchionne, ha confermato tutti i target annunciati dal gruppo.

Lombarda, verso Opa residuale Si è conclusa con una adesione del 74,23% l’Opas promossa da Fondiaria Sai sulla controllata Immobiliare Lombarda. Il gruppo assicurativo guidato dalla famiglia Ligresti sale così al 90,02 per cento della società e promuoverà l’Opa residuale prima del delisting.

Edison pronta allo shopping

Sorgono dubbi anche sull’intervento promesso dal Pdl. Bonanni: «Paletti ai Comuni sulle addizionali, altrimenti si fa il gioco delle tre carte» euro. E promette di completare il percorso iniziato dal centrosinistra. Con due incognite. La prima è la necessità di una revisione completa del modello Ici, richiesta da Confedilizia. Corrado Sforza Fogliani, presidente di Confedilizia, la spiega così: «Il problema dell’Ici è che si tratta un’imposta completamente patrimoniale e non reddituale. Inoltre, è l’unica imposta del nostro sistema progressivamente espropriativa». La soluzione a questo problema di impostazione sarebbe scollegare l’imposta dai valori catastali e parametrarla al criterio del beneficio

che gli immobili traggono dal patrimonio pubblico.

Altra assurdità è che l’Ici costituisce la forma di finanziamento prevalente dei Comuni, perché «sull’autobus non vanno solo i figli dei proprietari di casa». E sia da Fini sia da Berlusconi sarebbero arrivati pareri favorevoli a rivedere l’intero impianto dell’imposta. La seconda incognita è contenuta nel programma del Pdl quando si parla di una misura «senza oneri per i Comuni». I due miliardi in meno nelle casse dei primi cittadini italiani, quindi, dovranno essere compensati dallo Stato. Senza cercare di rientrare nelle tasche dei cittadini per altra via. Questo punto lo ha illustrato molto bene Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl: «Se c’è il taglio dell’Ici bisogna bloccare le addizionali Irpef perché se il Comune taglia l’Ici e poi li si lascia liberi per compensare di decidere sulle addizionali Irpef allora diventa il gioco delle tre carte».

In attesa che gli azionisti (A2A ed Edf) chiudono le operazioni sul rinnovo del patto di sindacato, Edison starebbe studiando nuovi dossier per accrescere il suo perimetro. «Siamo aperti a varie ipotesi, speriamo di poter dare notizie a breve», si è lasciato scappare l’amministratore della società elettrica, Umberto Quadrino. Il quale ha poi aggiunto: «Fino a quando le cose non saranno concluse preferiamo attendere prima di fare nomi. Ma il 13 maggio c’è un consiglio d’amministrazione da e speriamo per quella data di avere notizie».

La mozzarella torna in Cina La Cina sblocca le importazioni di mozzarella di bufala italiana. A partire da mercoledì scorso l’Amministrazione di stato per la supervisione di qualità, ispezione e quarantena (Aqsiq) cinese ha revocato il divieto di importazione e le ispezioni obbligatorie per gli altri formaggi imposti il 28 marzo, dopo i casi di contaminazione da diossina in Campania. La fine della restrizione e’ il frutto di una lunga trattativa in cui le autorità italiane hanno fornito all’Aqsiq una documentazione che, forte delle garanzie della Ue, ha confermato che i formaggi italiani esportati sono sicuri. Decisiva però la mediazione dell’ambasciatore italiano a Pechino, Riccardo Sessa.

Ortis: più infrastrutture per il gas «Più capacità infrastrutturale significa più sicurezza e più spazio per una maggiore concorrenza: a oggi, per contro, la carenza di infrastrutture rimane un problema cruciale per l’Italia, in particolare nel settore del gas». Alessandro Ortis, il presidente dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, ha chiesto un maggiore impegno al futuro governo per i rigassificatori e per potenziare gasdotti e capacità di stoccaggio per superare i problemi di approvvigionamento del gas.


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cultura

I

A lato, San Gerolamo nello studio (1474) di Antonello da Messina. Espressione della passione umanista per i testi antichi, il dipinto è custodito alla National Gallery di Londra

L’elenco presentato da Odifreddi offre casi ben noti a chiunque abbia frequentato in Italia un liceo classico, quando questo era il migliore al mondo (diciamo fino a una trentina di anni fa). Mancano comunque altri elementi fondamentali, sui quali si tace o per ignoranza o perché parlarne non è politically correct. Siccome chi scrive non appartiene a questa categoria, ne farò qui un parziale elenco. Quando Alessandro Magno (Magno per i Greci, infinito disastro per gli orientali) conquistò Tiro, città fenicia che resistette a lungo, non si limitò a crocifiggere migliaia di sopravvissuti (crocifissione e impalamento furono per secoli il destino dei prigionieri di guerra nel Medio Oriente), ma ne bruciò la biblioteca, la più importante dell’epoca. Poi dopo un festino nel palazzo imperiale di Persepoli, diede fuoco alla città bruciandone anche qui la biblioteca in cui erano custoditi l’opera zaratustriana integrale, scritta su 12mila pelli di bue, e i 42 libri sacri egizi che qualche decennio prima Artaserse Oco aveva portato lì trasferendoli da Heliopolis. (Artaserse Oco fu colui che uccise il sacro bue Api, mise un asino al suo posto, fece strangolare i grandi sacerdoti, interrompendo quindi la continuità di trasmissione del significato delle scritture religiose egizie, che certo i nostri egittologi non possono pretendere di avere del tutto compreso; un suo eunuco di origine egizia vendicò il fatto uccidendolo, facendolo a pezzi e dandoli ai gatti del palazzo). La Biblioteca di Alessandria fu iniziata dal grande Tolomeo Filadelfo.Tale Biblioteca ha avuto varie fasi di distruzione, la peggiore forse quando Cesare arrivò nella città egizia. Già nel secondo secolo i suoi scaffali erano in parte vuoti. Poi, con Teodosio, molto scomparve e certo non

nardino di Sahagun, del rosso del sangue dei mori e del nero dei libri della biblioteca: la più grande allora esistente, circa 400mila volumi, dove certo gran parte dei classici di cui ora si lamenta la perdita vi erano custoditi; allora quella di Roma ne aveva solo un migliaio e quella del re inglese una dozzina. E quando gli occidentali, massoni e protestanti, repressero la rivolta dei Taiping, che rischiavano di cristianizzare la Cina, venne distrutto il palazzo imperiale di Nanchino, più bello di quello di Pechino stando a Matteo Ricci, la cui biblioteca aveva una delle due copie della enciclopedia dei Ming, in 17 mila volumi (sarebbero dovuti essere circa 70mila). Milioni di cinesi furono uccisi in questa rivolta del tutto taciuta dai nostri libri di storia. Quando all’inizio del Novecento ci fu la rivolta dei Boxer, e le legazioni furono assediate nel loro quartiere di Pechino dalle truppe cinesi dove attive erano solo quelle musulmane (il musulmano Ma Pufang fu l’ultimo generale a cedere a Lin Biao), ci fu l’incendio della biblioteca imperiale, lo Hualin, che con circa un milione di libri era la più grande biblioteca al mondo. E qui scomparve la seconda copia della grande enciclopedia (mille volte più estesa di quella di Diderot e D’Alambert!). Sorvolando sulle immense distruzioni e sui furti delle biblioteche degli enti ecclesiastici soppressi nell’Italia del Sud dopo l’unificazione voluta dai massoni torinesi anticattolici (vedasi i libri di Angela Pellicciari), in Cina durante la rivoluzione culturale, voluta da Mao per vendicarsi di avere perso potere dopo i 38 milioni di morti di fame nel Grande Balzo in Avanti, non solo si è perso quasi tutto il patrimonio librario e artistico (salvo quello portato all’estero), ma si sono perdute quasi tutte le circa 200mila opere del Tibet, fra cui testi in sanscrito, tocario, zhangzhung, nakhi…. Un patrimonio immenso, di gran lunga superiore a quello sopravvissuto alla nostra antichità classica (il cui più importante lavoro storico di Nicola di Damasco, in 144 libri, è però andato perduto). Si pensi che il Tucci camminò su spessori di metri di rotoli! Immensa responsabilità del comunismo cinese, o meglio della teoria tedesca del superuomo di cui Mao era imbevuto. Qualcosa forse si potrà ritrovare: riscavando Ercolano, esaminando le biblioteche delle moschee (quelle di Mashad e Herat hanno restituito libri di Diofanto e uno dei libri citati nel Pentateuco!). Peccato che Mussolini, o qualcuno per lui, abbia fatto bombardare tanti conventi in Etiopia, dove pure si sono trovati documenti creduti perduti, come i libri di Enoch. E peccato che, a proposito della sapienza di Alessandria d’Egitto, non esista in italiano la Settanta, una versione della Bibbia in lingua greca, che la tradizione vuole tradotta dall’ebraico da 72 saggi di Alessandria (sei per ciascuna delle dodici tribù), dove esisteva una importante comunità ebraica. Perché spendere 500 euro per averla in francese? Quando la Cei fornirà la Bibbia nel testo che leggevano i Padri della Chiesa?

n un articolo recentemente apparso su La Repubblica, Piergiorgio Odifreddi, mio collega matematico e autore di vari libri di divulgazione scientifica in verità alquanto infarciti di errori di fisica e non solo, nonché di fantasiosi attacchi riservati a chi non è ateo, si è occupato delle biblioteche perdute, cominciando da quella distrutta da Akhenaton nel quattordicesimo secolo a.C. (data corretta secondo la cronologia ufficiale, ma sbagliata in quanto si basa sulla errata datazione dell’anno sotico in Censorino fatta circa 200 anni fa da Champollion e Lepsius: come arguito dagli astronomi Clube e Napier nonché da egittologi come James, Bimson, Rohl e dal vituperato Velikovsky). Curioso che Odifreddi termini il suo elenco con i falò dei nazisti, meno importanti di quelli avvenuti in Cina e in Tibet dove è stato distrutto circa il 99 per cento di quello che era contenuto nelle grandi biblioteche dei diecimila monasteri disseminati in quel paese (si legga a tale proposito Giuseppe Tucci).Vero è che a Pechino le biblioteche private venivano bruciate solo dopo che Kang Sheng - l’onnipotente capo dei servizi segreti di cui Chang Jing fu amante e poi informatrice presso Mao - aveva scelto, da nobile raffinato quale era, i libri migliori, specialmente se antichi, che poi divideva con Mao. Il quale, a sua volta, era un amante dei classici nonché, quando era bibliotecario a Changsha, dei testi degli Illuminati di Baviera: come scoperto da Chang Jung che ha consultato l’elenco dei libri che prendeva in prestito. Simili radici per Mao e Hitler...

Il ”suo” elenco dei libri dati alle fiamme è parziale e ideologico

Le amnesie di Odifreddi di Emilio Spedicato molto restò da eliminare agli islamici, che dubito fossero così stupidi da distruggere i libri a carattere geografico o storico. Augusto ordinò che venissero portati a Roma tutti i libri delle profezie, circa seicento, e ne fece un falò, salvando solo i tre delle Sibille (originariamente nove, ma sei furono bruciati dalla venditrice quando il re si rifiutò di acquistarli). Un falò certo più grave di quello, pur lamentevole, dei libri di magia, che Paolo fece a Tarso dopo avere sconfitto i magi locali (caldei, di origine etrusca?). Nel mondo antico oltre le biblioteche pubbliche esistevano quelle private (gli scavi possibili a Ercola-

tradotta in italiano dal Tommaseo verso il 1840 presso la Stamperia di San Lazzaro degli Armeni, è introvabile nelle maggiori biblioteche italiane e nella stessa biblioteca degli Armeni (ma se ne trova una copia in una biblioteca provinciale, dono di un privato; sospetto che all’epoca dello sterminio degli armeni, i turchi abbiano cercato di eliminare quante più copie possibili di questo straordinario volume). Mosè di Corene scrive che in questa immensa biblioteca-archivio, forse più grande di quella di Alessandria, esisteva una stanza dove si conservavano le genealogie delle fa-

Dalla biblioteca di Tiro distrutta da Alessandro Magno ai volumi soppressi durante la rivoluzione maoista no potrebbero portare alla scoperta di alcune di queste). Importante a Roma era la biblioteca di un commerciante che invitava studiosi per discussioni varie, come documentato nella straordinaria opera di Ateneo, il Deipnosofista, sopravvissuta in un solo manoscritto e recentemente tradotta in italiano (costo circa 500 euro…), dalla quale si apprende con tristezza che la maggior parte degli importanti libri citati è perduta. Ma la più importante biblioteca privata fu quella del palazzo reale di Edessa, ancora intatta all’inizio del quinto secolo, e consultata dal grande Mosé di Corene, la cui fondamentale opera Storia degli Armeni,

miglie nobili sino all’epoca di Ciro, quando si smise di aggiornarle. Quindi documenti sopravvissuti per circa un millennio! Non so quando la biblioteca scomparve, forse durante il terremoto che devastò Edessa facendo riemergere da un nascondiglio nelle mura la Sindone, come le testimonianze dicono (con buona pace delle datazioni al radiocarbonio, che risentono di gravissime trascuratezze).

Quando Isabella la Cattolicissima alle mani lorde di sangue e dalla lingua biforcuta, conquistò Cordova, le acque del Guadalquivir si tinsero, scrive il frate Ber-


cinema

19 aprile 2008 • pagina 19

Presto nelle sale il film tratto dalle tavole di Stan Lee, Larry Lieber, Don Heck e Jack Kirby

Iron Man, uno 007 col sorriso sulle labbra di Roberto Genovesi ì, sono Iron Man». E’ questa battuta finale, pronunciata da Tony Stark davanti a un folto gruppo di giornalisti prima dei titoli di coda, l’unico elemento di discontinuità tra il super eroe dei fumetti e quello raccontato per il cinema da Jon Favreau. Nelle tavole disegnate il magnate delle armi, che si nasconde in un esoscheletro potenziato fatto di una lega di oro e titanio, non rivela mai la sua identità in pubblico mentre gli autori della pellicola, che lo porta in questi giorni anche nelle sale cinematografiche italiane, hanno deci-

«S

co e incapace di fare breccia nel cuore degli spettatori, ma perfettamente calato nella parte), erede delle Stark Industries che distribuiscono nel mondo le più sofisticate armi di distruzione di massa disponibili sul mercato, è un genio della tecnologia.

Durante un viaggio in Afghanistan per illustrare ai marines sul campo le potenzialità delle nuove armi messe a disposizione dell’esercito nelle operazioni di peace keeping di scenario, viene coinvolto in un’imboscata che devasta il convoglio su cui viaggia. Ferito gravemente dall’esplosione di una bomba, durante la prigionia in un covo talebano riesce a costruire un meccanismo in grado di tenere lontane le schegge, che altrimenti continuerebbero a camminare verso il suo cuore. Un mec-

metto, un po’ 007 col sorriso sulle labbra, Iron Man è un film per adolescenti e adulti, ma forse un po’ crudo per i più piccoli, che però probabilmente non sanno nemmeno chi sia questo signore, nascosto in un esoscheletro e piuttosto somigliante al fratello magro dell’omino Michelin. Probabilmente ci penserà il merchandising di contorno, (videogioco compreso) a colmare la lacuna. Ma resta il fatto che alcune scene si prestano poco ai sogni tranquilli dell’età prescolare, mentre i tupini in cui è avvolto il corpicino di Gwyneth Paltrow, nei panni della silenziosa e segratamente innamoratissima segretaria Pepper Potts, sembrano fatti

Il «più a destra dei supereroi Marvel» nasce nel ’63 come arma di propaganda per spiegare le motivazioni dell’intervento in Vietnam so di sparigliare le carte e partire con una mossa ad effetto che preannuncia implicitamente un secondo capitolo della saga.

Nella pellicola l’attore Robert Downey Jr (nella foto a destra) interpreta Tony Stark, un miliardario a capo di una grande azienda che deve i suoi superpoteri a un’armatura high-tech indistruttibile, costruita con le proprie mani durante un periodo di prigionia in Afghanistan

Iron Man, alias Anthony Stark, appare sulle pagine delle riviste Marvel nel 1963. Creato da Stan Lee, Larry Lieber, Don Heck e Jack Kirby, si rivela subito un’arma al sapore di zucchero filato per propagandare le motivazioni dell’intervento in Vietnam tra le giovani generazioni di americani. Fa parte del gruppo dei Vendicatori e ultimamente – nella miniserie Civil War – è stato il portavoce del gruppo di quei supereroi che hanno deciso di rivelare la loro identità a vantaggio del governo americano. Da sempre avversario di super nemici comunisti, è considerato il più a destra tra i supereroi Marvel. Il film che vedremo presto al cinema non si discosta molto dalle storie disegnate che raccontano le origini di Iron Man anche se, per motivi di opportunità temporale, la vicenda è spostata dal Vietnam in Afghanistan. Tony Stark, (un Robert Downey jr. come al solito antipati-

canismo che rappresenterà per sempre il marchio di fabbrica grafico del personaggio nei fumetti e che nel film ha ovviamente la funzione di fulcro narrativo. Il film, appunto. I riferimenti al fumetto sono corretti sia graficamente che dal punto di vista della storia. Gli esoscheletri che vediamo sullo schermo, sia il primo, più rudimentale creato durante la prigionia, e sia il secondo, quello dell’icona del personaggio, sono assolutamente corrispondenti agli originali disegnati da Kirby e soci. Tony Stark è lo stesso sbruffone, antipatico, irriverente, viziato, ricco bamboccio dei fumetti fino a quando l’episodio vissuto durante la trasferta in Afghanistan, non gli fa capire che, come dice il suo compagno di prigionia prima di morire, «la vita non va sprecata». A quel punto Stark si trasforma, e pur senza rinunciare ai privilegi della posizione sociale (un po’ come Barman), decide che è il caso di usare l’armatura per difendere l’umanità e di convertire la produzione delle sue aziende nel settore civile. Un po’ transformer, un po’ fu-

apposta per i sogni un po’meno casti dei loro padri.

Nota di merito anche per un Jeff Bridges efficacemente subdolo e inquietante nei panni del socio di Stark che, con un look da capitano Achab, aggiunge un’interpretazione insolita al book dei credit che preannuncia una nuova carriera da personaggio cattivo, non protagonista, che gli auguriamo più incisiva rispetto a quella attuale. In un momento in cui guerre, attentati ed eventi sanguinosi in giro per il mondo dividono con uno spartiacque invalicabile intellettuali e politici interventisti da colleghi pacifisti, Iron Man propone una visione a metà del guado in cui la violenza delle armi viene stigmatizzata con forza ma senza mai negare la necessità di eroi che sappiano mettere la loro forza al servizio delle buone cause. Anche perché, come nel film, spesso i cattivi sono poco inclini ai summit diplomatici e a soluzioni dialettiche.


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memorie

Nei ricordi lasciati da due protagonisti come Paolo Bufalini e Luigi Gui uno “scontro di civiltà” combattuto con un linguaggio misurato

Il 18 aprile in diretta di Renzo Foa ieci anni fa, in occasione del cinquantesimo anniversario del 18 aprile, cercai la testimonianza di due protagonisti diretti dello scontro elettorale, il democristiano Luigi Gui e il comunista Paolo Bufalini (scomparso nel 2001). Furono molto interessanti ed è anche curioso riproporle ora, con qualche raffronto con la politica di oggi. Ad esempio, allungando lo sguardo sull’Italia di allora e facendolo attraverso le pagine del Popolo e dell’Unità, non può non colpire -in quella che è passata alla storia come una campagna elettorale infuocata, in cui la posta in gioco era considerata una scelta di civiltà e in cui si fronteggiavano nell’ombra due eserciti irregolari che tenevano nascoste le armi il linguaggio secco, asciutto, persino misurato dei leader, certamente più di quello usato in questi anni. Un linguaggio che badava più alla sostanza che alla propaganda. Lo confermò Paolo Bufalini, allora poco più che trentenne e in seguito uno dei maggiori dirigenti del Pci negli anni del «compromesso storico»: «Sì, il linguaggio che si usò fu civile. Ricordo che venne considerato scandaloso il fatto che Togliatti parlando a Roma a Piazza San Giovanni disse di voler prendere a calci De Gasperi (testualmente dal resoconto dell’Unità: «Ho fatto mettere alle mie scarpe due file di chiodi e ho deciso di applicarle a De Gasperi, dopo il 18 aprile, in una parte del corpo che non voglio nominare»). Questo episodio fu considerato il massimo di inciviltà». Per restare al linguaggio, colpisce una curiosità: i titoli a tutta pagina con cui i due giornali uscirono il giorno del voto erano stranamente simili (l’uno esortava: «La libertà e la pace dell’Italia nella vittoria dello

D

Scudo crociato»; l’altra invitava: «Per la pace, la libertà e il lavoro vota Fronte democratico popolare»). Per trovare la contrapposizione frontale che divideva l’Italia bisognava leggere gli occhielli, in cui l’uno invitava tutti a recarsi «alle urne per la battaglia decisiva» e l’altra chiedeva un pronunciamento contro un governo definito «della fame, della servitù e della guerra». Poi, leggendo le cronache di quei giorni e ascoltando i testimoni, non può non colpire la statura dei protagonisti. Luigi Gui, anch’egli allora poco più

mo della fase costituente, i cosidetti «professorini» della prima sottocommissione per la loro preparazione, capacità e finezza intellettuale. I professorini erano Dossetti, La Pira, Moro e Fanfani. Se parliamo del 1948 e del dopo è difficile fare una graduatoria; a troneggiare, comunque, era la figura di De Gasperi».

L’immagine che resta è quella di leadership forti, nonostante il tentativo - che pure c’è stato anche in sede storica - di far passare l’idea di un’Italia divisa non fra la Dc e la sinistra, ma fra Stalin e Truman. Ci fu l’abdicazione a una quota di sovranità politica? Bufalini aveva risposto seccamente: «No. Assolutamente. Sia da parte di De Gasperi, sia da parte di Togliatti, sia dai due partiti nel loro complesso». La stessa nettezza c’era nella risposta di Gui: «Ci sentivamo padroni delle nostre scelte, consapevoli del nostro dovere di operare per la ricostruzione dell’Italia. Non ci sentivamo servi di nessuno. Certo, davanti a quello che succedeva nell’Europa orientale, c’era l’esigenza di un’alleanza internazionale, ma sulla grada-

Palmiro Togliatti perse le elezioni del 18 aprile ma gettò le basi dell’egemonia comunista. Alcide De Gasperi fu il vincitore di una prova difficile, ma dopo cinque anni nella Dc prevalsero i suoi oppositori interni

italiani al livello più alto, quando si richiamò all’antifascismo e alla Resistenza, quando si riferì ai tre grandi filoni - i lavoratori socialisti, le masse cattoliche e le tradizione mazziniana - e anche quando apprezzò il ruolo dell’Urss. Poi subì un’involuzione, che però non fu la decisione di una sera, bensì accompagnò il cambiamento avvenuto nella situazione mondiale. Quanto al Pci, se ti riferisci alla fondazione del Cominform e alle critiche di scarsa combattività che furono mosse ai comunisti italiani, ho dei ricordi precisi. Ad esempio, nelle riunioni interne di partito,Togliatti mostrò di non tenerne conto, Secchia fu molto prudente, secondo il suo stile. Invece, il più ricettivo fu Luigi Longo. A lui si deve la decisione di far sfilare per Milano i partigiani inquadrati e in divisa, anche se non armati, parata che creò un clima di allarme». Anche per Gui nel voto del 18 aprile contò più l’Italia che la

Rileggendo quegli anni, colpisce la statura politica di De Gasperi e Togliatti, che esercitavano due leadership nazionali più forti delle rispettive “investiture” internazionali che trentenne, deputato alla Costituente e poi per anni ministro, non ha cambiato con il passar del tempo i suoi giudizi: «Di De Gasperi dò oggi lo stesso giudizio di allora: era una grande personalità, esperta, solidamente ispirata ai principi democratici-cristiani, capace di capire la natura dei problemi e le vie risolutive. Provavo una grande ammirazione sia per l’uomo che per la sua politica». E accanto al leader? «Se parlia-

zione dei legami con gli Stati Uniti anche nella Dc ci sono state opinioni diverse». Ripensandoci ora, quanto pesarono la legittimazione della Dc da parte dell’amministrazione americana e il legame del Pci e del Psi di Pietro Nenni con il movimento comunista internazionale? Disse Bufalini: «Di Alcide De Gasperi ricordo che, durante la conferenza per la pace a Parigi nel 1946, fu assertore degli interessi nazionali

divisione in due del mondo: «Uscivamo dalla guerra e il sentimento di fondo prevalente riguardava la reazione al fascismo e al nazismo: quindi la punta fondamentale fu la reiezione del passato nel senso antitotalitario ed antiautoritario. Su questo si innestò la paura per la minaccia del nuovo totalitarismo». Un altro elemento che continua a colpire è la sequenza delle reazioni e la loro sobrietà, pur in un sistema delle comunicazioni di massa molto più lento di quello di oggi. Alcide De Gasperi, il vincitore, aspettò il mezzogiorno del martedì per rilasciare una prima dichiarazione pubblica, che aveva al suo centro la dimensione del successo dc e una prima polemica con gli avversari sconfitti: «Io ero certo di raggiungere la maggioranza relativa, ma non mi sono mai sognato di affermare come essi facevano per il Fronte che avremmo raggiunto la maggioranza assoluta». L’ampiezza della vittoria fu, in quelle stesse ore, anche il punto di partenza della prima rea-


memorie

zione di Attilio Piccioni, che della Dc era segretario e che con Mario Scelba e Luigi Gedda fu uno dei protagonisti della vittoria elettorale: «Ci domandano: l’avevate prevista? Sì l’avevamo prevista... ma il popolo italiano in uno slancio di comprensione e di fiducia che non ci stupisce, ha voluto consacrarla in misura tale da renderla decisiva».

Le previsioni sul 18 aprile furono a lungo motivo di curiosità. Ricordò Gui: «Credevo in un’affermazione della Dc sul Fronte, però erano opinabili le cifre. Ci credevo per due ragioni: una era l’atmosfera nel mio collegio, Padova; l’altra era il peso che avevamo avuto nell’elaborazione della Costituzione». Bufalini era a Caserta, dove due anni prima aveva fatto la campagna elettorale per la Repubblica, e «da quell’osservatorio - rispetto al voto del 2 giugno del ‘46, quando lì c’era stata una delle percentuali più alte per la monarchia - io pensavo che ci fosse un’avanzata». Ma alla domanda se fosse vero

che dall’interno del Pci ci si aspettasse davvero la vittoria del Fronte la risposta che raccolsi fu negativa: «Non è esatto che questa fosse l’aspettativa.

19 aprile 2008 • pagina 21

quale il relatore, che era Edoardo D’Onofrio, disse che nel Sud c’erano prospettiva di avanzata e parlò con preoccupazione del voto in Lombardia e nel Nord». Ma per tornare alle reazioni al risultato, Palmiro Togliatti parlò ventiquattr’ore dopo De Gasperi in un’intervista che l’Unità pubblicò il gio-

so nel senso di far appello alla forza per cacciare dal governo gli organizzatori della violenza e dei brogli contro il popolo, abbiamo già detto e ripetiamo che non vi è in noi questa intenzione». E con l’Unità ancora fresca di stampa, arrivò la risposta di Alcide De Gasperi che, incontrando i giornalisti stra-

Il clima di guerra civile fu disinnescato e prese forma la stagione del “bipolarismo consociativo”: Dc e Pci approvarono insieme l’80 per cento delle leggi già nella prima legislatura

Ero nella Sezione di organizzazione diretta da Pietro Secchia e ricordo che verso la fine della campagna elettorale ci fu una riunione, al quarto piano di Botteghe Oscure, durante la

vedì mattina. Si trattava di offrire ragioni e argomenti ai militanti e all’elettorato di sinistra e nello stesso tempo di riconoscere la vittoria della Dc. Così, pur spiegando la sconfitta con il fatto che «le elezioni non sono state nè libere nè democratiche», il segretario del Pci ad un’esplicita domanda se avrebbe o no «accettato il risultato del 18 aprile» rispondeva dicendo che «se non accettare vuol essere inte-

nieri, disse: «Le funzioni della maggioranza e dell’opposizione potranno esplicarsi con carattere normale. E se l’opposizione non restringerà la sua azione ad una critica sterile o quel che peggio di sabotaggio, potrà svolgere la sua parte di collaborazione nel Parlamento con un’opera di controllo, di critica costruttiva e nel partecipare alle varie commissioni delle due Camere». Erano le ore della vittoria del

centrismo, ma nello scambio politico tra Togliatti e De Gasperi sembrava cominciare (o riprendere dopo la rottura della collaborazione governativa avvenuta l’anno prima) quel bipolarismo senza una sostanziale alternanza che è sopravvissuto a lungo nonostante mezzo secolo di tensioni, di conflitti palesi e occulti, di condizionamenti esterni più o meno importanti. Non solo da allora la Dc e il Pci furono le forze egemoni, direi onnivore, dei due schieramenti. Anzi, secondo Bufalini «già prima del 1948 il Pci aveva una forte capacità di richiamo: mise insieme e fece emergere uomini che venivano dall’azionismo e dalla tradizione liberale». La prima conferma fu che, già nel primo parlamento repubblicano, in un’Italia dove non mancavano gli scontri di piazza, l’80 per cento delle leggi venne approvato insieme da maggioranza e opposizione. La seconda conferma fu che non ebbe successo alcun tentativo di costruire una consistente terza forza, fra la Dc e il Pci.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Berlusconi risolleverà le sorti di Alitalia? LA SPERANZA È CHE BERLUSCONI RIESCA NELLA FAMOSA CORDATA ITALIANA

L’AFFARE ALITALIA È TROPPO COMPLICATO, NON SARÀ FACILE TROVARE UNA QUADRA

Dare una risposta a questa domanda è veramente una impresa. Però che la zampata di Berlusconi abbia già prodotto un effetto (non ce ne voglia il sempre più acido Travaglio) è indiscutibile: intanto è slittato al sine die l’ultimatum del 31 marzo, ma soprattutto sembra profilarsi la possibilità che nasca una valida alternativa alla maldestra svendita dell’Alitalia organizzata dal Duo Disastro Tommaso Padoa-Schioppa e Romano Prodi. Forse alla fine la nostra compagnia di bandiera andrà ad Air France, ma sicuramente a condizioni diverse e migliori di quelle avanzate da Spinetta. Piccolo inciso: le svendite sembrano costituire l’attività peculiare del nostro Prodi (ricordate Sme?). O forse si riaprirà l’asta e allora l’Aeroflot russa o Air One, più una cordata tutta italiana, potrebbero avere la meglio. Io ci spero, e quindi rispondo sì alla vostra domanda. Berlusconi riuscirà a risollevare le sorti dell’Alitalia. Vedremo. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle vostre pagine. A presto, distinti saluti e un buon lavoro a tutti.

Speriamolo. Certo non sarà facile visto che la piega che ha preso la trattativa è quella della svendita a tutti i costi. Intendiamoci, l’annuncio di Berlusconi riguardo l’esistenza di una cordata tutta italiana è sembrata più una mossa elettorale, abile; ma fino a un certo punto, che una realtà. Ma certo qualcosa ora, ad elezioni ultimate, sembra muoversi. Anche il vecchio governo - vecchio ma ancora in carica - ha abbandonato la posizione arrogante dei giorni scorsi e ha consultato il vice di Berlusconi, Gianni Letta, alla ricerca di una soluzione bipartisan. Potrebbe tornare in gioco la russa Aeroflot, Air One e Bruno Ermolli con la cordata italiana. Insomma c’è da sperare ancora. E poi io ho una segreta speranza: non potrebbe essere possibile che il Cavaliere abbia in animo di fare un gran botto, ad elezioni stravinte?

Camillo Lonardi - Roma

LA DOMANDA DI DOMANI

Il nuovo governo porterà il Paese a una crescita economica? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Giacomo Trezza - Palermo

ASPETTIAMO LE PROSSIME MOSSE, PRIMA DI RISALIRE CI VORRÀ DEL TEMPO La questione Alitalia sta diventando sempre più una vergogna nazionale. Molti anni fa è iniziata la devastazione della nostra compagnia di bandiera con la gestione clientelare fatta di posti di lavoro regalati da sindacati e partiti politici. Il capofila dell’inizio della fine un signore che si chiama Romano Prodi e che, al tempo, era presidente dell’Iri. Oggi lo stesso signore ha cercato di svendere uno dei nostri gioielli ai francesi, senza preoccuparsi dei problemi per la nostra economia, il nostro export, il nostro nome nel mondo. Molto meglio aspettare e vedere cosa farà adesso il nuovo presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. E sperare in un compratore nazionale rispetto ai cugini d’Oltralpe. E poi, rinnovo una provocazione. Cosa ne pensate della socializzazione delle imprese nazionali? E’ ancora nella nostra costituzione, potrebbe essere una buona via di uscita per il dramma alitalia e per salvaguardare la nostra nazione e i nostri cittadini.

CIRCOLI LIBERAL: MOTORE DELLA COSTITUENTE E VALORE AGGIUNTO PER L’UNIONE DI CENTRO All’indomani del weekend elettorale niente è più come prima. Come ogni tempesta che si rispetti, in queste ore la quiete (anche se apparente) regna sovrana. Un dato certo, oltre gli altri, ci interessa più di tutti: liberal c’è, e si è visto e sentito su tutto il territorio nazionale. Il contributo del nostro movimento politico-culturale è stato ”forte e chiaro”, tant’è che lì dove c’erano candidati espressione della nostra associazione, l’Unione di Centro è cresciuta di uno, due punti percentuali. In Puglia, ad esempio, il nostro coordinatore nazionale, l’onorevole Angelo Sanza, portra l’Udc dal 6 per cento al 7,9 restando fuori dall’aula del Senato solo per circa duecento voti. Assurdo, ma è da lì, e dai tanti amici di liberal sparsi su tutto il territorio nazionale, che intendiamo ripartire. Ieri si è tenuta a Roma la direzione nazionale dei presidenti dei circoli liberal, che all’unanimità ha

CASA A OSTACOLI «Una casa a ostacoli ci rende più longevi». È il pensiero dei newyorkesi Gins e Arakawa, autori della Biosclave House: finestre a differenti altezze, pavimento ondulato, colonne sparse e pareti di colori diversi UDC E ROSA BIANCA UNICI EREDE DELLA DC Ho molto apprezzato le pagine dedicate al ricordo di quel 18 aprile 1948: quelle elezioni che si svolsero 60 fa, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e antifascista, vinte dalla dalla Dc e dai suoi alleati socialdemocratici, repubblicani, liberali, missini e anche monarchici, contro il Fronte Democratico Popolare socialcomunista. Il 18 aprile, la Dc conquistava quella centralità politica che era stata l’obiettivo di De Gasperi, incaricato, come presidente del Consiglio a portare l’Italia nell’Occidente e in Europa, nel progresso, nella libertà e nella democrazia. Dico queste cose da ex democristiano e poi socialista autonomista del Psi di Nenni, che alfine, negli anni ’60, modificò le sue posizioni filo comuniste, per intraprendere, con la Dc e i partiti laici suoi alleati, la strada difficile e innovativa del cen-

dai circoli liberal Stefania Biscardi - Lecce

chiesto all’onorevole e presidente Ferdinando Adornato che liberal rafforzi la sua missione politica, come forza organizzata per partecipare da protagonista alla Costituente di Centro, come vera e propria componente politica orientata sui nostri temi e sui nostri valori senza dipendere da nessuno. Abbiamo uomini e risorse comprovate, quadri e dirigenti che servono all’Udc e al nuovo soggetto politico dei moderati italiani. Abbiamo (aggiungo io) già dato ed abbondantemente dimostrato che liberal non è solo qualità, ma anche quantità. Per questo oggi siamo pronti e preparati ad affrontare una nuova sfida di responsabilità organizzativa, politica e programmatica, in seno al nuovo e futuro assetto politico nazionale e dell’Unione di Centro. Abbiamo davanti a noi, ancora una volta, un percorso non facile, ricco di ostacoli ma certamente avvincente. Costruire da protagonisti un futuro politico del partito dei moderati italiani, preparandoci in tal

trosinistra con Moro, Saragat e La Malfa, e che, negli anni ’70, portò al compromesso storico con il Pci, nel perdurare della strategia terroristica delle Br, che portò al sequestro e all’assassinio del leader Dc Moro il 16 marzo 1968 e il 9 maggio dello stesso anno. E, purtroppo, debbo constatare, l’indomani del 13-14 aprile di quest’anno, dopo le elezioni politiche vinte dal centrodestra di Berlusconi-FiniBossi, la fine traumatica e decisiva dei socialisti del Ps di Boselli, sconfitti perché avevano scelto di collocarsi nell’ambito del centrosinistra, dominato dal Pd, ex comunista, di Veltroni. Ora, l’unico partito utilmente possibile mi sembra proprio quello rappresentato dalla Rosa Bianca-Udc di Pezzotta e Casini, erede della Dc e del suo programma sociale cristiano. Spero proprio di non sbagliarmi anche questa volta.

Angelo Simonazzi - (Re)

senso ad esprimere e sostenere le nostre idee ma anche i nostri migliori uomini sul territorio, a partire dalle prossime elezioni al Parlamento europeo, alle Regionali, alle Provinciali e lì dove si voterà. Per concretizzare definitivamente il riconoscimento politico di cui siamo portatori sul territorio e nel Paese. Vincenzo Inverso PRESIDENTE ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

SEGNALIAMO Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal Campania

800.91.05.29 Avvocato Massimo Golino


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UN ALEMANNO ANCHE A MILANO

Perché non siamo stati amici? Voi mi avete donate questa mattina le vostre Lettere filologiche sul cavallo alato di Arsinoe; ed io ho l’obbligo di mostrarvi la mia gratitudine per un dono che m’è carissimo. Non so per quale fatalità noi due non siamo stati amici: forse abbiamo ambedue un poco di torto, ma tra i torti che posso aver io non vi è certamente quello di non aver avuta sempre per voi la stima che meritate, e che io conserverò sempre, qualunque sia l’opinione che vi piaccia avere di me. E questa lettera istessa che mi prendo la libertà di scrivervi siavi prova e della stima che ho di voi, e della franchezza che è nel mio carattere, la quale mi fa lusingare di non essere indegno di amicizia. Io trovo le vostre lettere piene di erudizione non volgare, e di quel raziocinio giusto che io valuto più dell’erudizione. Fate di questa lettera quell’uso che vi piace: io per certo non ne farò altro uso che quello d’inviarvela, e pregarvi a considerarla come un segno della mia stima per voi. Vincenzo Cuoco a Vincenzo Monti

ECCO PERCHÉ HA VINTO LA LEGA Berlusconi ha vinto le elezioni: bene, bravo, tris. Ora uno sguardo sulla visita di Putin in Sardegna. Questi è il presidente della Russia, una volta la madrepatria di tutte le falci e martello del mondo. L’amicizia con il futuro premier italiano, la stima reciproca, l’importanza di questo incontro informale, la disponibilità di entrambi a vedersi e parlare dei problemi economici internazionali, tutto ciò nulla significa? Evidentemente per alcuni professori, intellettuali del simbolo falce e martello, la storia, gli eventi, i rapporti tra popoli e politiche che evolvono e s’intrecciano non dicono molto: loro sono fermi al palo, al massimo vorrebbero da Putin una sola cosa, la salma di Lenin in Italia. Mi sembra pochino per insistere ancora e solo con le immagini. Gli operai l’hanno capito ed hanno votato Lega: per loro è colpa di Veltroni e Berlusconi. A volte sbagliare letture... dà strane basi politiche e culturali e i frutti si vedono. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

Lettera firmata

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

19 aprile 1820 Grecia: sull’isola di Milo, Dumont d’Urville vede nella capanna di un contadino greco la parte superiore della statua conosciuta come Venere di Milo. Il contadino racconterà di averla trovata scavando nei resti di un Tempio e di aver lasciato lì la parte inferiore e le braccia della statua. I pezzi vengono inviati al Museo del Louvre, in Francia, dove però si smarriscono nei magazzini. Rimane solo il busto senza braccia della Venere 1839 Il Trattato di Londra sancisce la nascita del regno del Belgio 1938 Usa: la Rca-Nbc inizia le sue trasmissioni televisive 1948 Italia: resi noti i risultati delle votazioni del giorno prima: la Dc ottiene 48,5% dei voti 2005 Alle 17.50 fumata bianca; alle 18.04 circa i rintocchi a festa delle campane della Basilica di San Pietro tolgono i dubbi alla grande folla raccolta in Piazza San Pietro: il nuovo Papa è stato eletto al 4° scrutinio. Si tratta del cardinale tedesco Joseph Ratzinger

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Un’americana di 21 anni è stata violentata l’altroieri sera fuori dalla discoteca «The Club», in Largo la Foppa a Milano. La Polizia ha arrestato un egiziano di 25 anni, clandestino e già noto alle Forze dell’ordine per violazione della legge sull’immigrazione. Adesso, io che sono di Milano, voglio lanciare due appelli. Uno a Roma e uno alla mia città. Ai cittadini della Capitale dico questo: romani svegliatevi. Svegliatevi dall’incubo del buonismo veltroniano di cui è affetto Francesco Rutelli e votate in massa Gianni Alemanno. Sicuramente farà davvero qualcosa di concreto per la vostra sicurezza, al contrario di quanto finora avvenuto dalla precedente amministrazione. Infine, chiedo che il prima possibile anche a Milano venga eletto un sindaco sì del Pdl, ma proveniente dalle file di Alleanza nazionale, proprio come Alemanno. Anche noi potremmo vivere più sicuri.

Amelia Brambilla - Milano

PUNTURE Silvio, Umberto, Gianfranco e Raffaele litigano sul litigio: «Abbiamo litigato»; «No, sbagli, non abbiamo litigato»; «Ma allora non hai capito niente: abbiamo litigato»; «Sei scemo? Non abbiamo litigato»; «Per cortesia, smettetela, sennò litighiamo».

Giancristiano Desiderio

La somma dei dolori possibili per ogni anima è proporzionale al suo grado di perfezione HENRI FRÉDÉRIC AMIEL

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

La scommessa di Bossi A Milano, in quel periodo, insegnava Scienze Politiche all’Università Cattolica un illustre docente comasco, Gianfranco Miglio. Nato nel 1918, già consigliere segreto ed ascoltatissimo del dominus Eni, Enrico Mattei, aveva fatto del federalismo il cavallo di battaglia accademico. Con tale passione da giocarsi, in un ambiente paludato e legittimista ad oltranza, la carica di Magnifico Rettore. In consuetudine, ad una colazione in trattoria, caduto inevitabilmente il discorrere sulla crisi della partitocrazia ed il miraggio federalista, gli accennai del Bossi da Cassano. Scoprendo che erano in contatto; e che proprio lui, l’eminente professore, lavorava alla bozza di un progetto: macroregioni, autonomia fiscale, elezione diretta del Capo dello Stato. Punto d’arrivo: il distacco della Padania (per la prima volta udii quel termine) dal Centro-Sud. Più che una secessione, uno schema di autonomie ispirantesi alla Svizzera, alla Germania, agli Usa. Quel che combinò il Bossi in quell’inizio degli anni Ottanta lo ignoravo sino a ritenerlo scomparso. Dimenticato financo al Bar Centrale. Invece, in compagnia del Leoni Giuseppe, del Maroni Roberto, tutta gente del Varesotto, aveva fondato la Lega Lombarda. Nell’87 è sorprendentemente eletto senatore. Unico parlamentare leghista. Poi, la valanga. Cadute e resurrezioni. L’ideologo Miglio che lo abbandona, un succedersi di defezioni. L’amore-odio con Berlusconi.Tutto cronaca. Chi è veramente Umberto Bossi? Sono tentato di rispondere: un Capitano di ventura, venuto, al pari del Carroccio, da una terra antica che ha partorito un popolar-popolano portatore di un messaggio capace di regalare un po’di luce a quanti lavorano a testa bassa, tirano il carretto della Nazione sentendosi sfruttati e incompresi. In attesa del “momento giusto” per far valere i propri diritti. L’occasione parve giunta negli anni Novanta col terremoto di Tangentopoli.

La Lega conquistò il municipio di Milano, la Provincia, la Regione, un’infinità di Comuni. Alleata ai veneti, dava corpo alla mitica Padania, coi riti celtici dell’acqua del Monviso, delle adunate sul Po, del giuramento di Pontida. Fiasco clamoroso, in carenza di una classe dirigente dotata di cultura di governo; senza parlare dell’opportunismo di quanti balzarono veloci sul Carroccio per altrettanto rapidamente smarcarsi. Salotti buoni, imprenditori e banchieri inclusi. Con polso di ferro, davvero leninista, Bossi ricostruì il movimento, forgiò quadri. Di quel miracolo politico ne discutemmo per lunghe serate, dietro le quinte di Telelombardia, in compagnia di Daniele Vimercati,“cantore”del leghismo eroico, prematuramente scomparso. Con l’Umberto in bilico fra la “lotta dura”e l’inserimento progressivo nei gangli del potere. Il federalismo (fiscale e non solo), bandiera di combattimento. In attesa che la Storia gli offrisse l’occasione, come gli suggeriva la sua semplice e per taluni rozza cultura, influenzata dal marxismo giovanile. Con tuttavia un enorme rispetto per la Chiesa di base, i parroci. La “gente” insomma. E l’insofferenza manifesta per gli intellettuali, i media, che «contano un c…» . Certo, aveva voluto una radio e una tv padane, un quotidiano; ma come strumenti interni. «I miei bollettini parrocchiali» li definiva. Infatti i migliori risultati elettorali il leghismo li ha ottenuti a dispetto della marginalizzazione mediatica. Ed oggi sicuramente ha da ridersela di fronte a coloro che scoprono il potenziale della Lega, il suo radicamento popolare. «Le rivoluzioni maturano in silenzio», martellava. Ritengo sia tuttora dello stesso avviso. In questo modo, avendo attraversato anche il personale deserto della malattia, accettato di essere “dato per morto”. Non ottenesse il federalismo, tutto può accadere. Stia dunque in campana il Cavalier Berlusconi.

Giancarlo Galli

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO di Aldo Forbice a fiaccola olimpica continua la sua tormentata corsa, su un sentiero sempre più lastricato di ostacoli e insidie, accolta ovunque da proteste e contestazioni di cittadini: profughi tibetani, uiguri, fedeli del Falung Gong, ma anche uomini e donne in tutti i paesi che ha attraversato, in Europa, negli Usa, in Argentina e ora in Asia. Le manifestazioni più vivaci si sono registrate a New Delhi, dove la torcia è stata protetta da oltre 15mila poliziotti. Centinaia gli arresti di tibetani, compresi numerosi monaci. Oltre 5mila giovani tibetani e indiani si sono riuniti a Sathia Sthal celebrando una torcia «alternativa per la libertà del Tibet», che arriverà fino a Jantar Mantar, dove è prevista una grande manifestazione per chiedere alle autorità cinesi di porre fine alla repressione nel Tetto del mondo”. Il portavoce dell’associazione “Studenti per un Tibet libero”, Shibayan Raha, è stato arrestato solo per avere sventolato una bandiera tibetana. Prima dell’arresto aveva dichiarato: «Non staremo ad assistere e ad applaudire la Cina che porta la torcia, diventata segno di oppressione, attraverso India Gate e Rajpath, simboli della libertà indiana, dedicati alla memoria dei nostri martiri». Il percorso della torcia, tenuto segreto, è stato accorciato e quattro tedofori hanno rinunciato per protesta.

L

Il simbolo dei giochi è arrivato in Asia, tra tumulti e contestazioni

Continua la corsa della

VERGOGNA

Un fenomeno, quello della diserzione di atleti famosi, che si è registrato non solo in India, ma ovunque. La tensione coinvolge ormai anche il mondo dello sport: sono già centinaia le dichiarazioni di sportivi ed atleti che solidarizzano con i tibetani. E si fanno sempre più pressanti le richieste al Comitato Olimpico Internazionale perché intervenga energicamente nei confronti del governo cinese. Un altro studente tibetano, dirigente dell’associazione Sft, Tenzin Choeying, ha detto: «Il percorso della torcia è stato sorvegliato da migliaia di poliziotti (anche cinesi). Eppure la torcia viene pubblicizzata come il ‘Viaggio dell’armonia’. Ma non c’è armonia in Tibet; la torcia di Pechino simboleggia la tortura subita dai tibetani, la violenza dell’esercito cinese, la mancanza di libertà di religione e la sistematica eliminazione della nostra lingua e della nostra cultura. Ci arrivano ogni giorno notizie di arresti di massa in Tibet. Il Cio deve impegnarsi perché la torcia non attraversi il Tibet se non si vuole aggravare la situazione (ricordiamo i 140 morti, le centinaia di feriti e le migliaia di arrestati del marzo scorso). C’è il rischio di altri massacri e di nuovi arresti di monaci e cittadini inermi. È necessario fermare la repressione ed aprire un negoziato per il ritorno del Dalai Lama in Tibet. «Il giovane tibetano si illude che la Cina, alla fine, ceda, facendo qualche concessione, ma fino ad ora ha solo mostrato il volto duro della repressione, del sangue dei monaci, del carcere e della tortura per i dissidenti. Anche a Camberra, dove il 24 aprile arriverà “la torcia della vergogna” i cinesi australiani sono stati chiamati a raccolta da Pechino per difendere la fiamma olimpica da «tibetani separatisti,teppisti e seguaci servili». Il governo australiano ha però fatto sapere di non gradire la presenza dei superpoliziotti cinesi che sono già intervenuti pesantemente contro i manifestanti, soprattutto

nelle tappe di Londra e Parigi. In Giappone (la staffetta dovrebbe arrivare il 26 aprile a Nagano, la città che ha ospitato le Olimpiadi invernali del 1998) sarà vietato l’ingresso delle guardie speciali di Pechino in tuta blu. La fiaccola, dunque continua il suo accidentato percorso, che in molti casi diventa anche un viaggio fatto di violenze, sangue e lacrime. Mi chiedo che senso abbia questa corsa della vergogna? Perché il Cio, gli Stati Uniti, le Nazioni Unite continuano a subire questa assurda mascherata di un simbolo, che è sempre stato identificato con la fiamma della pace, della tolleranza, della solidarietà? Perché continuare con questa pagliacciata della fiaccola che gira blindata da nerborute guardie cinesi? La spiegazione è semplice, è conosciuta da tutti: la Cina fa paura per la sua grande forza economica. A molti però sfuggono le dimensioni di questo potere di pressione sull’Occidente. La Cina, con il suo miliardo e 300 milioni di abitanti, rappresenta il più grande mercato

Ma questo episodio conferma l’imbarazzo, il disagio di tanti capi di Stato occidentali che scelgono il silenzio, fanno solo accenni generici non tanto sul boicottaggio delle Olimpiadi (considerate intoccabili), ma semplicemente sulla opportunità di disertare la cerimonia di apertura. Anche Nicolas Sarkozy, dopo la sua coraggiosa uscita,ha scelto il silenzio allorché gli hanno fatto notare che i cinesi stavano pensando di boicottare le aziende francesi e che se fosse andato avanti nella sua protesta i propositi di vendere la tecnologia nucleare a Pechino potevano essere spazzati via.

Del resto, nessun Paese può permettersi di ignorare gli interessi economici del gigante cinese. Il pil del 2007 della Repubblica Popolare è stato rivisto da 11,4 a 11,9 % e gli effetti si sono avvertiti anche nei paesi dell’Ue (110 milioni di euro spesi in Europa, di cui 10 in Italia), negli Usa ( una cifra equivalente) e in Giappone (134 milioni). Il presidente Hu Jintao ha pensato bene a come irretire l’Occidente, con promesse e minacce, il Cio e i giornalisti. Nei giorni scorsi una delegazione della Federazione internazionale dei giornalisti (di cui fa parte anche la nostra Fnsi) ha avuto rassicurazioni dalle autorità cinesi sulla “libertà di movimento” degli inviati dei media negli stadi. Ma fuori? E che cosa hanno risposto i rappresentanti del governo di Pechino a chi chiedeva le ragioni dell’ampia ampia repressione in corso dei giornalisti cinesi? E sulle attuali forti limitazioni che vengono poste ai corrispondenti stranieri? Nessuna risposta. Avete notato, ad esempio, che i servizi televisivi e radiofonici da Pechino si limitano a magnificare le grandi opere del regime e il gigantesco apparato di accoglienza per le Olimpiadi di agosto. Null’altro. Di Tibet,di diritti calpestati, di operatori umanitari incarcerati e condannati (come Hu Jia, a tre anni e mezzo di carcere),di violenze di ogni tipo non se ne parla del tutto o quasi. Evviva la torcia dell’armonia.

La fiaccola, prosegue il suo accidentato percorso verso Pechino, che in molti casi diventa anche un viaggio fatto di violenze, sangue e lacrime. Ma che senso ha ormai tutto questo? del mondo. La banca centrale di Pechino conserva 1680 miliardi di dollari di riserve ufficiali in valute estere: una ricchezza che cresce al ritmo di un miliardo al giorno ed è in gran parte (almeno mille miliardi, il 65% delle riserve), investito in buoni del Tesoro e moneta Usa. In pratica, la Cina da anni acquista grandi quantità del malandato dollaro americano,diventando un pilastro dell’economia del suo “nemico”. Questa è la ragione per cui Bush, dopo le prime contestazioni tibetane, si è affrettato a far sapere che sarebbe stato presente alla cerimonia inaugurale dell’8 agosto. Ora ci sta ripensando, dopo la forte pressione dei candidati democratici Obama e Clinton.


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