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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

La festa dopo il crac dei Verdi

e di h c a n o cr

L’Earth Day senza Pecoraro (e sperando nel nucleare)

di Ferdinando Adornato

MA BOSSI VUOLE IL FEDERALISMO FISCALE?

di Angelo Crespi

O

ne ll ’ in s er to a p a gi na 12

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80422

Calderoli e Tremonti aprono ai sindacati. Ma Castelli e Maroni li contestano. Concertazione e protezionismo possono diventare il nuovo volto del partito che decide la linea del governo?

La Legamorfosi alle pagine 2, 3, 4 e 5

Totti coinvolto di nuovo nello scontro

Rutelli e Alemanno sfida all’ultimo voto di Nicola Procaccini Nel giorno in cui Roma festeggiava il suo 2761esimo compleanno, la campagna elettorale per la conquista del Campidoglio si è fatta dura, cattiva, ma con alcune punte d’involontario umorismo. La questione della sicurezza continua a surriscaldare gli animi.

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ggi si celebra l’Earth Day, una sorta di grande sabba collettivo che coinvolge 174 paesi. Da Tokyo a New York, passando per Roma, un miliardo di persone - esagerano gli organizzatori - saranno coinvolte in feste, concerti, mostre, appelli, e amenità simili. Il tutto per chiedere ai governi delle nazioni industrializzate azioni concrete al fine di fermare il disastro ambientale. Mentre a Milano piove da settimane in barba all’effetto serra e alla paventata saharizzazione della penisola, è difficile capire quale sia il disastro ambientale in corso. L’unica cosa certa è che il mega party planetario, qui da noi, coincide con il disastro elettorale dei Verdi, esclusi dal Parlamento dopo anni di integerrima militanza. A peggiorare il clima, la procura di Roma ha trasmesso al Tribunale dei ministri gli atti ricevuti dai colleghi di Potenza in cui si contesta ad Alfonso Pecoraro Scanio, responsabile del dicastero dell’Ambiente, il reato di corruzione, poiché avrebbe ricevuto favori (viaggi di lusso, passaggi in elicottero…) da alcuni imprenditori amici in cambio di consulenze. In un’intervista al Giornale, Paolo Cento, altro Verde non sopravvissuto alla debacle collettiva della sinistra arcobaleno, evita di iscriversi al partito del “Pecoraro espiatorio”, visto che “siamo tutti responsabili”, ma intanto liquida il leader spiegando che “anche per lui si è chiusa una stagione”. c o nt in u a a pa gi n a 8

Escalation della repressione del governo cinese

Tibet: Pechino ordina due mesi di rieducazione di Vincenzo Faccioli Pintozzi pagina 10

MARTEDÌ 22 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

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Il futuro del Centro: parla Sergio Romano

Nel ‘57 nacque il primo a Milano: oggi è la nostra seconda casa

«Casini? Un vero maratoneta»

Il supermarket fa cinquant’anni

di Sergio Romano

di Rosellina Salemi

La ricognizione di liberal sul ruolo del Centro politico, sulla funzione dell’Udc nel nuovo quadro bipartitico continua con l’ambasciatore Sergio Romano, editorialista del Corsera.

Se è giusto commemorare la Callas, Che Guevara e Grace Kelly, l’invenzione della chiusura lampo e della cartolina, forse anche l’inaugurazione del primo supermercato merita un amarcord.

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pagine 20-21

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 22 aprile 2008

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legamorfosi

Viaggio nel partito di Bossi. Mezzo Carroccio rettifica le aperture al sindacato del futuro vicepremier

Castelli e Maroni stoppano Calderoli di Errico Novi e Irene Trentin

ROMA. Finché è materia per chi studia i flussi elettorali va bene. Dicono che la Lega conquista i voti di Rifondazione, della Cgil, degli operai? E d’accordo, per Berlusconi non è un dramma, anzi. Ma se poi il Carroccio comincia a prendere la cosa talmente sul serio da assumere le difese del sindacato, e se il Bossi votato dal popolo già dar per acquisiti quattro ministeri compreso il Viminale, anche Silvio comincia a preoccuparsi. È una vittoria travolgente, quella del Carroccio, che rischia di travolgere anche gli alleati. E così ieri il futuro premier a cominciato a recintare il campo, per evitare che l’avanzata del senatùr nella squadra di governo si trasformi in una presa della Bastiglia: «Ho solo sentito le richieste della Lega, ma nulla è deciso, non ci sono ancora cose certe e definite». Non lo sono nemmeno Maroni al ministero dell’Interno, Zaia all’Agricoltura, Calderoli a Palazzo Chigi in coabitazione con Letta e Bossi alle Riforme? «Tutto si concluderà quando avrò pronto l’intero panorama di sessanta persone da inserire nella squadra, ci saranno delle sorprese», avverte il Cavaliere, «la decisione la prenderò io negli ultimi giorni». Uno pari e palla al centro. Il Carroccio attacca bene ma Silvio non si fa mettere all’angolo. Non è la sicumera del Senatùr a preoccuparlo tanto. E nemmeno quella veneta di Luca Zaia, oggi vicepresidente della giunta Galan ma già pronto a parlare di sé e del suo ministero con tono gravemente vittorioso: «Per un fatto di prudenza e di rispetto delle istituzioni ho l’obbligo di dire che la nomina, se ci sarà, sarà esecutiva solo dopo i passaggi formali che spettano al presidente del Consiglio e al Capo dello Stato». No, non sono i toni ma è la sostanza: negli accordi di partenza al Carroccio dovevano andare due dicasteri e già si è passati a quattro, compreso il Viminale scosso dall’ondata criminalità; per giunta tra i candidati a sventolare il vessillo padano nel governo c’è chi come Roberto Calderoli si fa paladino del sindacato: e ad andare avanti così, se la Lega continuerà a impadronirsi delle paterie lasciate libere dalla sinistra in disarmo, chi può controllare gli equili-

bri della maggioranza? Chi garantisce che la coalizione non si sbilanci davvero ”a sinistra”, seppure verso quella sinistra populista, territoriale-identitaria che la Lega interpreta?

Maroni: «I sindacati tradizionali sono troppo conservatori ma non si può prescindere da un lavoro comune»

Ma è anche vero che l’ulti-

ma reincarnazione del bossismo non ha esattamente la forma del sindacalismo di Calderoli. Anche se è incontestabile che ci siano frotte di operai tra i milioni che si affidano al Senatùr. Lo si capisce anche dalle telefonate che arrivano in diretta Radio Padania. «Ho votato sinistra per una vita, ero iscritto anche alla Cgil: stavolta ho votato Lega perché solo voi difendete i diritti dei lavoratori, vi battete per la sicurezza dei più deboli. Altro che i sindacati». Paolo, 43 anni, una vita alla Mirafiori di Torino. Ma anche Stefano della Valporto di Genova, Francesca e Sandro, operai della Bergamasca. Molti di loro avevano

in tasca la tessera della Cgil, oggi sono ascoltatori assidui dell’emittente sorica del Carroccio. Il suo direttore Matteo Salvini, europarlamentare fresco di elezione anche alla Camera, gongola dopo il quotidiano, affolatissimo filo diretto con i suoi ascoltatori. «Ci chiamano in tanti. Siamo noi la nuova sinistra. Ma quella di tutti, finalmente. La Lega garantisce davvero, non a chiacchiere, la difesa del potere d’acquisto, la sicurezza, il lavoro per chi ha voglia di lavorare. E adesso che siamo al governo accentueremo il nostro carattere sociale, ma anche la battaglia per le municipalizzate, gli asili nido nelle aziende, contro un liberalismo troppo spinto». Cose che si faranno, ma che non necessariamente annunciano un Carroccio allineato con la Triplice. «Proteggere i diritti dei lavoratori non significa difendere sfaccendati e chi vuole solamente il lavoro sicuro», chiarisce Roberto Ca-

stelli, «come per anni hanno fatto Cgil, Cisl e Uil, che si sono dimenticate delle categorie più deboli. Gli operai ci hanno sempre votato, non è una novità. Per questo la soluzione non può che essere il federalismo fiscale: aiutare le imprese, oppresse dalle tasse, significa assicurare anche lo stipendio ai dipendenti, più benessere a vantaggio di tutti».

Chi ha un’idea diversa del sindacato tradizionale è Rosi Mauro, per tutta la campagna elettorale al fianco di Umberto Bossi, Castelli: che ne ha elo«Proteggere giato il lavoro i diritti dei svolto nel Sinlavoratori dacato padanon significa no fino a prodifendere vare a candisfaccendati darla al minie chi vuole solo stero del Welil lavoro sicuro fare. E se ora come hanno fatto sceglie di non Cgil, Cisl e Uil, parlare per che si sono non innescare dimenticate dei polemiche, più deboli» qualche giorno fa alla Padania aveva dichiarato che «il Paese ha bisogno di federalismo fiscale e di conseguenza rinnovamento nel mondo sin-

La neosenatrice di Lampedusa: «La mia isola non vive di assistenzialismo, deve essere così in tutto il Sud»

«Svegliamoci, o farà bene il Nord a scaricarci» colloquio con Angela Maraventano di Cristiano Bucchi

ROMA. Nella storia repubblicana non era, quello che abbiamo qui è frutto del ci. È paradossale che a Lampedusa una era mai accaduto che Lampedusa avesse un rappresentante in Senato. A sfatare il tabù è il vicesindaco dell’isola, Angela Maraventano, nota per le sue crociate anti clandestini ed eletta in Emilia Romagna nella lista della Lega. Quarantaquattro anni, un marito dal passato comunista, la neoparlamentare custodisce una collezione di bandiere padane nel cassettone della biancheria, insieme al corredo matrimoniale. «Quando ho saputo della candidatura in Emilia mi sentivo già eletta. Se mi avessero dato un posto sicuro altrove non mi sarei divertita così. Correre in una regione rossa e portare via voti ai comunisti è stato il massimo. D’altronde me l’aveva chiesto Bossi. Una lampedusana senatrice della Lega: non è un controsenso? La gente a Lampedusa vuole essere lib-

nostro lavoro, non chiediamo assistenzialismo, solo di essere padroni a casa nostra.Tutto è cominciato dieci anni fa: a Lampedusa mancava anche il pronto soccorso, e un mio amico morì in modo assurdo. Pensai di creare un movimento: scrivemmo a tutti i partiti, rispose solo la Lega. Ora potrà fare in Parlamento le sue battaglie contro l’immigrazione clandestina. È una questione seria. Parliamo di poveri disgraziati da aiutare, ma mi sono resa conto che l’unico modo per farlo è fermare questo traffico di uomini, e portare aiuto nelle loro terre. Lei ha detto che bisogna inasprire la Bossi-Fini. In che modo? Seguirò alla lettera il programma della Lega. Siamo solidali con chi arriva in Italia in cerca di futuro ma non compli-

donna non possa partorire e che poi lo Stato si fa in quattro per aiutare gli immigrati. Così non si va avanti. In campagna elettorale ha passato tre giorni per strada a Bologna vestita da senzatetto: perchè? Sono un’ isolana, avevo bisogno di vivere la città e i suoi pericoli. È stata un esperienza molto formativa: i clochard mi hanno raccontato che devono dormire lì perchè nei centri di accoglienza sono stati fatti fuori dagli extracomunitari. Cosa le piace di Bossi? È una forza della natura: due giorni fa ci siamo incontrati in via Bellerio, è un grande leader. A Lampedusa c’è stata una grande festa per la sua elezione, anche questo è sorprendente. Perché mai? Devo dire mille volte gra-


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Zaia: «Per un fatto di prudenza e di rispetto delle istituzioni ho l’obbligo di dire che la nomina, se ci sarà, sarà esecutiva solo dopo i passaggi formali che spettano al presidente del Consiglio e al Capo dello Stato» dacale. C’è un bisogno reale di contrattazione territoriale. Leghiamo i salari al reale costo della vita.Vuol dire che dobbiamo fare le riforme. I voti che la gente del Nord ha dato alla Lega Nord non saranno dispersi, ma soprattutto manterremo la parola data». Un conto è difendere i diritti dei lavoratori, altro è puntellare il monopolio Cgil-Cisl-Uil. Dalla parte del presidente di Confindustria si schiera apertamente Roberto Maroni: «I sindacati tradizionali sono troppo conservatori ma non si può prescindere da un lavoro comune», smorza i toni anche lui, da ministro dell’Interno in pectore. Ma una politica a difesa dei diritti dei lavoratori non va vista in contrapposizione con l’innovazione in senso liberale, argomentano altri esponenti della Lega. «Non sono due aspetti in contraddizione», spiega Roberto Cota, rieletto alla Camera in Piemonte, terra in cui il Carroccio ha espugnato anche le ultime roccaforti rosse, «essere liberali significa tagliare, ad esempio, le spese inutili dell’amministrazione, continuando invece a investi-

zie alla mia gente, è merito loro se sono riuscita in questa impresa. La Lega può parlare allo stesso modo nel Nordest come a Lampedusa? Certo, se ci sono uomini desiderosi di salvare il proprio territorio. Il Mezzogiorno è meraviglioso, ma se la popolazione non si sveglia si troverà presto in una situazione senza via d’uscita. Dobbiamo prendere esempio dal Nord, e non è giusto che il Nord continui a dare al Sud senza ricevere nulla in cambio. Che fa, vuole scaricare il Sud, Lampedusa compresa? Lampedusa si salverà perchè è diventata a tutti gli effetti un’isola del Nord. Le dico di più: ho intenzione assegnare il mio Comune alla provincia di Bergamo, proporrò un referendum. Tutto il Sud deve lavorare molto duramente e dimostrare di voler cambiare senza perdere più tempo. Ho molta fiducia nella politica di Raffaele Lombardo. Una curiosità: prima dell’incontro con la Lega cosa votava? La Fiamma. Quella vera, non Fini.

re sulla spesa utile e sociale. Siamo il Paese con il rapporto più basso tra tasse e spesa per il welfare. Iniziamo a togliere le pensioni ai falsi invalidi, i costi della sanità di fronte ai servizi inefficienti. Perché la Calabria, ad esempio, ha una spesa della sanità maggiore della Lombardia o del Veneto e offre meno assistenza? Il federalismo fiscale non dev’essere visto come una mannaia per il Sud ma come l’unica via perché anche il Sud possa garantire servizi efficienti». Non di rado spuntano uomini del Carroccio a fronteggiare le vertenze. Come a Susegana, in provincia di Treviso, dove la crisi dell’Electrolux vede come protagonista un delegato della Fim-Cisl, Franco Gobbo, militante della Lega. Persino l’uomo simbolo del Carroccio integralista si fa paladino del nuovo corso, anzi, neanche tanto nuovo. «Negli anni Novanta, eravamo noi, io a fianco di Rosi Mauro davanti ai cancelli di Mirafiori – ricorda Mario Borghezio, che nonostante l’impegno al Parlamento europeo non ha mai mollato un minuto il senatùr nei cominzi elettorali - . Il nostro è un liberalismo sociale, a fianco del nuovo proletariato. Maroni si sta preparando a riprendere in mano la legge Biagi che lui stesso ha introdotto, per completarla nell’aspetto Borghezio: «Negli delle tutele per anni Novanta, i lavoratori». eravamo noi, Senza per queio a fianco di Rosi sto, concorda Mauro davanti Borghezio, aliai cancelli mentare i padi Mirafiori. rassitismi: Il nostro è un «Quando mi liberalismo insediai come sociale, a fianco sottosegretadel nuovo rio, la prima proletariato» cosa che ho fatto è stato ridurre del cinquanta per cento i collaboratori». E un conto è difendere i diritti dei lavoratori, un altro difendere il monopolio Cgil-Cisl-Uil sulla tutela degli stessi.

Non di rado spuntano uomini del Carroccio a fronteggiare le vertenze. Come a Susegana, in provincia di Treviso, dove la crisi dell’Electrolux vede come protagonista un delegato della FimCisl, Franco Gobbo, militante della Lega. Persino l’uomo simbolo del Carroccio integralista si fa paladino del nuovo corso, anzi, neanche tanto nuovo. «Negli anni Novanta, eravamo noi, io a fianco di Rosi Mauro davanti ai cancelli di Mirafiori – ricorda Mario Borghezio, che nonostante l’impegno al Parlamento europeo non ha mai mollato un minuto il senatùr nei cominzi elettorali - . Il nostro è un liberalismo sociale, a fianco del nuovo proletariato. Maroni si sta preparando a riprendere in mano la legge Biagi che lui stesso ha introdotto, per completarla nell’aspetto delle tutele per i lavoratori». Senza per questo, concorda Borghezio, alimentare i parassitismi: «Quando mi insediai come sottosegretario, la prima cosa che ho fatto è stato ridurre del cinquanta per cento i collaboratori». E un conto è difendere i diritti dei lavoratori, un altro difendere il monopolio Cgil-Cisl-Uil sulla tutela degli stessi.

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Il giuslavorista bolognese già nel 1998 insieme con Tiziano Treu propose una riforma dello Statuto dei lavoratori che tenesse presente gli atipici

Ma non cestinate la legge Biagi di Alessio Maniscalco Italia cambia pelle. Si avvicendano i governi, tramonta la seconda repubblica e nel nostro Paese si respira la voglia di voltare pagina. La nostra è oramai un’economia a vocazione produttiva polivalente e le imprese hanno da tempo superato i propri confini, operando in una dimensione internazionale. In particolar modo il cambiamento ha coinvolto il modo di produrre e l’organizzazione del lavoro e, mentre sembra essere terminata la stagione delle appartenenze ideologiche e delle vecchie compagini partitiche, le regole che disciplinano il lavoro rimangono, per contro, ingessate in una visione ancora troppo condizionata dal duopolio “lavoro subordinato – autonomo”, che è stato il presupposto culturale dello Statuto dei lavoratori (l. 300/1970). Questo tradizionale schema dicotomico, che si manifesta soprattutto nel sistema delle tutele, oltre a collidere con i nuovi assetti economici, non permette peraltro di gestire in modo efficiente quelle particolari forme contrattuali che non possono essere ricondotte nelle sfere della subordinazione e dell’autonomia (se non mediante un procedimento di adattamento giuridico). Si palesa quindi la necessità di procedere ad un’opera di rivisitazione del diritto del lavoro o, in ogni modo, di rivedere la legge 300 per rendere la normativa più aderente alle odierne vicende della realtà economica e sociale.

L’

Da circa un decennio, il dibattito riformatore ha posto l’accento sull’opportunità di realizzare uno Statuto dei nuovi lavori, idea proposta da Tiziano Treu e Marco Biagi nel 1998 e ripresa dal professore bolognese nel Libro Bianco. «Si tratta — scriveva Marco Biagi in un articolo apparso il 10 marzo 2002 su Il Sole 24 Ore (“Un Libro Bianco da rileggere”) — di procedere a una revisione totale della legislazione sul rapporto e sul mercato del lavoro, realizzando alla fine un testo unico che rappresenti per gli operatori uno strumento agile e chiaro di gestione delle risorse umane. Lo ”Statuto dei lavori” dovrebbe finalmente dare all’Italia nuove tecniche per regolare tutti i tipi di lavori, anche quelli più atipici, rivedendo vecchie norme non più in sintonia con la moderna organizzazione del lavoro e prevedendone delle nuove capaci di governare i mestieri emergenti nella società basata sulla conoscenza». L’idea che sta alla base del nuovo Statuto, è, infatti, quella di includere nel campo di applicazione del diritto del lavoro tutte le attività in cui sia possibile evincere una prestazione lavorativa, puntando sulla graduazione delle tutele secondo l’ottica dei cerchi concentrici: vale a

dire partendo da un nucleo minimale di garanzie inderogabili ed intangibili, applicabile a tutti i rapporti di lavoro a prescindere dalla qualificazione giuridica, per poi circoscrivere progressivamente il campo di applicazione delle tutele, fino ad arrivare a quelle più robuste del lavoro subordinato. Lo zoccolo minimo dovrebbe prevedere diritti di derivazione costituzionale e diritti fondamentali come la tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, diritti concernenti le libertà sindacali, il divieto di discriminazione, il diritto ad un compenso equo, il diritto alla maternità e alla riservatezza.

Accanto alle tutele nel rapporto di lavoro, dovrebbero essere previste altre protezioni, come l’accesso ai servizi per l’impiego, il diritto alla formazione continua ed un solido regime di sostegni al reddito: in altre parole, sarebbe opportuno predisporre una serie di garanzie anche nel mercato del lavoro, come già ci chiede l’Europa. Si tratta in concreto di un nuovo tipo di sicurezza, la c.d. flexicurity di origine danese ripresa peraltro nel Libro Verde dell’Unione Europea, che ha come baricentro il binomio «ammortizzatori sociali – politiche attive del lavoro». A fianco di questo nucleo indisponibile, vi sarebbe inoltre un’area di tutele disposte in termini di inderogabilità relativa, e quindi disponibili sul piano dell’autonomia collettiva e individuale. La questione è dunque affrontata “dalla parte delle tutele”, anziché essere esaurita con il solo strumento della qualificazione del rapporto di lavoro, in armonia con le esigenze di dinamicità di una realtà negoziale in continua evoluzione. D’altra parte, per implementare un moderno Statuto dei lavori, è necessario adottare misure a complemento dell’opera: in primis le procedure di certificazione dei rapporti di lavoro in sede amministrativa (introdotte dalla legge Biagi ma ad oggi non del tutto decollate), la rimodulazione delle tutele del lavoro subordinato e, infine, la previsione di un nucleo comune di prestazioni previdenziali destinato sia al lavoro subordinato che autonomo, in modo da ridimensionare la questione classificatoria degli schemi negoziali anche per quanto concerne il regime previdenziale. Il progetto di riforma pensato da Marco Biagi è ancora incompleto. Finora la riforma degli ammortizzatori sociali e lo Statuto dei nuovi lavori sono rimasti nel limbo dei buoni propositi. Ci vuole consenso. Ci vuole coraggio.


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È difficile che la Triplice rinunci alle sue rendite di posizione

Pax sindacale? Ne dubito, ma proviamoci di Giuliano Cazzola a coalizione guidata da Silvio Berlusconi è come un esercito che, dopo aver sfondato le linee nemiche, sta dilagando nelle pianure all’inseguimento delle truppe sconfitte, impegnate nel tentativo di mettere in campo un fronte di difesa. In questi casi, i manuali militari suggeriscono agli strateghi vincitori di non infierire sulle popolazioni e di non addentrarsi troppo in territorio nemico, allontanando le avanguardie dalle retrovie e dai rifornimenti. Se così avvenisse, un’offensiva degli avversari condotta sui lati, con le tecniche della guerriglia, potrebbe tagliare in due l’esercito, circondare le truppe in prima linea e ritardare l’avanzata. Berlusconi e i suoi alleati si sono trovati a fronteggiare una situazione siffatta ogni volta che gli elettori diedero loro una maggioranza - più o meno ampia - nelle urne. Nel 1994 e nel 2001 non fu sufficiente il successo nelle elezioni. La sinistra cercò subito la rivincita nelle piazze, grazie alla mobilitazione delle organizzazioni sindacali (le stesse che, durante la campagna elettorale, portavano la gente ai comizi di Veltroni).

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gono lealmente gli avversari politici nelle consultazioni elettorali nessuno può reclamare alcunché. Ma come si fa ad avere ragione di un sindacato che dispone di prerogative e regole di agibilità politica inesauribili e che se ne serve con la spregiudicatezza a cui siamo abituati in Italia? È la domanda che si pongono in queste ore i leader del PdL e della Lega (la quale è piuttosto soddisfatta dei consensi che le attribuiscono nel mondo del lavoro). Così, quando Luca Cordero di Montezemolo si è permesso qualche critica - tardiva e autoassolutoria - ai «professionisti del veto», in difesa di Cgil, Cisl e Uil è sceso in campo addirittura Roberto Calderoli, anticipando l’intervento rassicurante di Giulio Tremonti (ancora fresco di un elogio imprevisto ed esagerato di Paolo Mieli in persona). È senz’altro giusto proporsi di governare senza scosse e agitazioni sociali, tanto più in vista di una situazione economica difficile come quella attesa. Del resto, un “piacione”come Berlusconi non ha sicuramente intenzione di compiere scelte politiche fo-

riere di conflittualità sindacale. Ma per andare d’accordo occorre essere in due.

Servirebbe un nuovo “patto per l’Italia”, sottoscritto dalle parte sociali, che promuova e valorizzi produttività e decentramento

Neppure contro una signora Thatcher “made in Italy”Cgil, Cisl e Uil avrebbero potuto scioperare di più. E’ tuttora aperta, in sostanza, la principale anomalia del caso Italia. Nella lotta politica, doversi confrontare con avversari agguerriti, sostenuti da tutto l’establishment, è un problema che può essere risolto in modo corretto, positivo e normale: con la vittoria elettorale e con la legge dei numeri in Parlamento. Fino a prova contraria, nella competizione elettorale bipolare (divenuta tendenzialmente anche bipartitica), chi vince legittimamente, governa. Ma se di mezzo ci si mettono i sindacati (di ogni sigla, ordine e tipo), i quali si avvalgono, a bella posta contro il governo, delle rendite di posizione loro conferite dal sistema di potere di cui sono elementi essenziali, la partita diventa difficile, perché si tratta di istituzioni invincibili, anche se usano per finalità di parte le risorse e i mezzi loro attribuiti dalla legge e dai contratti. In sostanza, se si sconfig-

Nessuno è in grado di assicurare che i sindacati - superato lo shock della sconfitta del Pd e della scomparsa dei loro alleati-competitori della Sinistra Arcobaleno (i superstiti passeranno dei mesi a combattere tra di loro) - terranno un comportamento corretto nei confronti del Governo. Ecco perché Berlusconi dovrebbe andare subito a scoprire il gioco dei sindacati e della nuova presidenza della Confindustria, dopo l’uscita di scena (senza rimpianti) di LCdM, che, per la sua attenzione verso la Cgil, ha collezionato, in quattro anni, solo rinvii e

brutte figure. La strada da seguire è quella di un nuovo “patto per l’Italia” incentrato su di uno scambio vero e forte: una robusta detassazione delle retribuzioni ed una riduzione della fiscalità per le imprese a condizione che le parti sociali siano in grado (se necessario e richiesto, con la mediazione del governo) di concordare al più presto un nuovo sistema contrattuale che promuova e valorizzi il decentramento e la produttività. In tal modo, l’esecutivo e la maggioranza potranno valutare le reali intenzioni delle parti sociali, accorgendosi di chi è disposto ad tenere rapporti non pregiudiziali e di chi invece porta avanti posizioni solo strumentali. In conclusio-

Vegas sdrammatizza ma dice: «L’Italia non sarà mai davvero liberale, da cinquant’anni resiste alle trasformazioni»

«Non si danno zuccherini, la Lega sarà ragionevole» colloquio con Giuseppe Vegas di Errico Novi

ROMA. Come si fa a disegnare in anticipo il diagramma della Lega? È vero, la coalizione uscita trionfante dal voto ha un programma firmato anche da Bossi, ma quando un partito territoriale e identitario si trasforma all’improvviso in forza popolare, stracolma di voti operai, non si può conoscere con certezza la sua rotta. Perché il Carroccio dovrà pur dar conto ai propri elettori ex Cgil, per quanto estemporanea possa essere l’uscita pro-sindacati di Calderoli. Giuseppe Vegas, viceministro all’Economia del governo Berlusconi, è sereno sulla possibilità di tenere la situazione sotto controllo. E nello stesso tempo prende atto che «quei voti da qualche parte dovevano pur andare: non si può

parlare della Lega come di un partito operaio, ma qualcuno si dovrà pur far carico di quelli che stanno peggio in questo Paese, visto che negli ultimi anni altri se ne sono scordati». Ma lei dice che il Carroccio non sta al nuovo governo come il Prc stava a Prodi. «L’unica verità è che negli ultimi due anni i poveri sono precipitati in condizioni peggiori rispetto a prima, sarà il caso di pensarci. E poi la Lega ha sempre avuto una connotazione da forza popolare, quindi non credo ci sia molto di cui sorprendersi». All’esecutivo toccheranno anche scelte impopolari: e se a quel punto Bossi si opponesse per coerenza

con il mandato elettorale? «Tutelare i ceti deboli non vuol dire lisciare l’orso dalla parte del pelo. Bisogna guardare anche in una prospettiva di medio e lungo termine. Non è che si può fare il bene delle persone dando caramelle oggi anziché conservare il grano per domani». Certo: ma chiunque può cadere nelle suggestioni demagogiche. «Tutte le obiezioni, a qualsiasi provvedimento, si possono fare. Ma è chiaro che se non si interviene per ottenere dei risultati l’Italia non va da nessuna parte. Quelli della Lega sono tutte persone ragionevoli, alla fine tutti insieme si faranno carico della situazione». Eppure i leghisti sembrano avere


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La Lega sembra finalmente capire che non si può essere “contro”

Cominciano ad avere paura di governare di Giuseppe Baiocchi on è sorprendente il modo civile con cui è stata lasciata cadere dai prossimi responsabili di governo la chiamata alle armi contro i sindacati di Luca Cordero di Montezemolo, all’addio dalla guida di Confindustria. Eppure si dovrebbe sapere che (come recita in canone inverso il calembour tanto caro all’avvocato Agnelli) «solo un vero governo di destra potrà fare una politica di sinistra».

N

ne, il problema delle relazioni con il sindacato esiste. Meglio capire subito se sarà guerra o pace. E prepararsi di conseguenza. Anche sulla detassazione del lavoro straordinario il governo potrebbe fornire dei chiarimenti utili: dichiarare, per esempio, che le agevolazioni fiscali adottate si muoveranno all’interno dei limiti previsti dalla legge e dai contratti e che non saranno messe in discussione le intese esistenti sulla calendarizzazione annua dell’orario. Il ricorso al lavoro straordinario, insomma, non diventerà un incontrollato “fai da te”. Ciò detto, se i sindacati vorranno difendere dei vecchi pregiudizi, saranno affari loro.

già una straordinaria sponda in Tremonti: la loro scuola di pensiero sembra prevalere oggi nella coalizione. «Lo vedremo nel confronto che ci sarà all’interno del governo e della maggioranza, per adesso non darei nulla per scontato». Nessuno si sarebbe aspettato nel centrodestra l’emergere di una linea così lontana da quella liberale classica. «Il Pli arrivava a stento al 3 per cento nei tempi di vacche grasse. Pensare che questo Paese sia del tutto liberale è solo una pia aspirazione». C’è sempre il corpaccione della burocrazia statale che resiste alle grandi trasformazioni. «Questo è un Paese che in qualche modo sopravvive da cinquant’anni, diciamo così, e quindi pensa di poter andare avanti sulla stessa strada».

Che poi il dignitoso altolà sia venuto proprio dal senatore Calderoli, il più berlusconiano dei leghisti e un tempo specializzato in provocazioni all’insegna della “carne di porco” (dalle pisciate di maiali sul terreno delle moschee fino alla “porcata” del sistema elettorale) è un di più di quella facile fantasia politica che il sistema mediatico sempre più irreggimentato e schematico fatica a cogliere e soprattutto ad antivedere. Che la sfida che attende i prossimi governanti sia drammatica lo sanno bene sia quanti si apprestano a traslo-

care dal potere sia soprattutto quelli che si preparano a succedere. Senza neppure l’alibi della novità: perché infatti l’occasione è già stata vissuta (e perduta) nel quinquennio 2001-2006, lasciando (tranne la legge Biagi e la patente a punti) uno strascico non indifferente di rancori e di rimpianti.

Questa volta, è il leit-motiv che si respira, non si può più sbagliare, con quelle leggerezze e superficialità che hanno man mano sfarinato le promesse di “rivoluzione liberale” seminate a piene mani al cambio di millennio. Semmai l’inattesa sobrietà segnala una nuova consapevolezza in forze politiche che risultano ormai le più “vecchie” (almeno come sigla) presenti in Parlamento: in particolare la Le-

infatti incerti se non negativi, con dinamiche e passaggi dolorosi che per lungo tempo trascenderanno le possibilità di intervento e di correzione degli esecutivi nazionali, se non addirittura europei (a cominciare dal governo della moneta). Diventa allora essenziale costruire, dopo le passate esperienze volutamente conflittuali, un clima di condivisione, se non di consenso, con un variegato mondo di soggetti sociali che un tempo sarebbero stati sentiti come semplicemente alternativi. C’è poi forse una ulteriore coscienza della “sfida da non sbagliare”: una delle maledizioni storiche di questo Paese è infatti il paradosso del Nord, che sempre “inventa” le novità per poi, una volta realizzate, scoprirsi sempre tradito e disilluso, fino al punto da mettersi sempre “contro”.

L’ambizione di riuscire ad essere per una volta “non contro” è legittima e forse utile all’intero Paese. Tutto lascia supporre, però, che sia rimasto un “retro-pensiero”

Nella foto in alto, un tavolo delle trattative durante l’ultimo governo Berlusconi. Qui sopra, l’ex viceministro all’Economia, Giuseppe Vegas

ga Nord è l’unica che non ha mai dal 1987 cambiato nome: e, come avviene nella vita, il tempo dei sogni e dei tremori adolescenziali appare per forza di cose definitivamente tramontato. La prova di maturità diventa difficile in un ciclo politico e culturale completamente cambiato: oltretutto con l’accresciuta conoscenza delle sfide tremende che si apprestano a comparire, in particolare sotto l’aspetto economico internazionale. Nel 2001 ci fu l’”incidente di percorso”dell’11 settembre a gelare una congiuntura economica che si presumeva espansiva : questa volta invece lo spettro recessivo e le incognite della globalizzazione appaiono semplicemente preoccupanti.

E se qualcuno si interroga sulla”sfiga” dalla quale, per un motivo o per l’altro, c’è la tentazione a sentirsi perseguitati, ogniqualvolta si consegue un successo politico, si intravede sullo sfondo la nuova cupezza di Tremonti, che è facile supporre abbia contagiato nelle “officine” di preparazione del programma l’intera compagine dei vincitori. Gli scenari economici si presentano

E’

accaduto

per il Risorgimento e per l’Unità d’Italia (compresa la spedizione dei Mille) che costruì uno stato politico e un’amministrazione che venne ed è tutt’ora sentita come straniera e matrigna; è accaduto anche per il fascismo, nato a Milano e poi isterilitotisi nella dittatura e nei miti delle romanità imperiale; è accaduto per la Resistenza, vissuta e sofferta nel Settentrione e poi finita ad insabbiare quel “vento del Nord”; è accaduto in parte (e forse è l’unica parentesi positiva) per la stagione del trentino De Gasperi e del valtellinese Vanoni; è certamente accaduto per i tempi controversi e talvolta sfacciati dell’intermezzo craxiano.

L’ambizione di riuscire ad essere per una volta “non contro” è legittima e forse utile all’intero Paese. E tuttavia i primi segnali lasciano supporre che, almeno dalla Lega, si mantiene il “retro-pensiero” di dover tornare presto ad essere “contro”. La lungimiranza realista dell’onorevole Bossi (nonostante la “fame” comprensibile di un gruppo dirigente di corto respiro) appare già indirizzata a predisporre una via d’uscita: nella rivendicazione delle caselle ministeriali è evidente infatti la preferenza di voler presidiare i territori della paura anziché spendersi sugli inediti sentieri della speranza (“La paura e la speranza”, per chi ancora non lo sapesse, sono i titoli dell’ultima fatica letteraria di Giulio Tremonti)…


pagina 6 • 22 aprile 2008

politica

Rimandato l’incontro con Berlusconi: ancora incerto il futuro del presidente della Lombardia

Galan resta dov’è. E Formigoni? di Susanna Turco

ROMA. È almeno un lustro che - a corrente alterna - si fa il suo nome come possibile successore di Silvio Berlusconi. Sono anni poi, che lui stesso tenta per lo meno di radicarsi nella politica romana. Di fatto, alla vigilia dell’incontro chiarificatore che dovrebbe tenersi stasera con il Cavaliere, nonostante l’annuncio di «sorprese» anche stavolta per il ciellino Roberto Formigoni pare profilarsi lo stesso destino di sempre: quello di governatore della Lombardia. È già al terzo mandato ma, secondo i rumors raccolti dall’edizione milanese del Giornale, il “Celeste” potrebbe restare al Pirellone anche per i prossimi sette anni: una quarta rielezione (consentita dalla legge) sarebbe una delle ipotetiche garanzie da mettere sul tavolo nel momento in cui fosse chiaro che un posto per lui nel nuovo governo non c’è. Almeno tra quelli che lo stesso Formigoni ha indicato come accettabili, dopo aver escluso esplicitamente Scuola e Sanità: le Attività produttive no, perché è già obiettivo di troppi (compreso, a quanto pare, il papabile per gli

Interni Roberto Maroni); Interni o Esteri no, perché la figura del governatore non è del tipo immaginato dal Cavaliere.

Difficile, sempre stando ai rumors, anche un approdo finale alla presidenza del Senato, altra carica alla quale Formigoni ambiva e che invece potrebbe restargli preclusa proprio per le ragioni di fondo che hanno frenato sin qui l’ascesa formigoniana alla politica dei big. Anzitutto il fattore umano: Ber-

(che infatti è dato papabilissimo allo scranno più alto di Palazzo Madama)

A queste motivazioni di lungo corso si aggiungono poi le questioni del momento politico: l’opportunità per il Cavaliere di non “mollare” la Regione Lombardia, che fra l’altro deve gestire l’Expo 2015, ad una Lega che crescendo troppo potrebbe divenire ingestibile all’interno della coalizione; la tentazione di non crearsi un problema di

saranno sorprese», ha assicurato il leader del Pdl dopo che Bossi aveva dato per sicuri tre ministeri alla Lega più il vicepremierato per Calderoli: «Tutto si concluderà quando avrò l’intero panorama chiaro. Sarò io a sottoporre i nomi della squadra formata da una sessantina di persone, al Presidente della Repubblica», ha spiegato invece il presidente del Consiglio in pectore intervenendo via telefono al Mediolanum Market Forum.

Solo oggi il leader del Popolo delle Libertà vedrà il governatore, ma la strada verso Palazzo Madama è tutta in salita. Intanto il Cavaliere frena gli entusiasmi leghisti: «Nulla è ancora deciso. Ci saranno sorprese» lusconi, ripetono un po’ tutti, di lui «non si fida»: perché ha già dimostrato avere una sua autonomia di movimento e di posizionamento, una sua rete di rapporti anche internazionale, perché può contare sul supporto di Comunione e liberazione e comunque è quello il suo riferimento primario, perché insomma la sua immagine non è quella dell’uomo di fiducia à la Silvio stile Renato Schifani

più aumentando i pretendenti alle (poche) poltrone ministeriali. Quella della formazione del governo, infatti, si sta rivelando una operazione particolarmente faticosa. Gli appetiti della Lega da un lato, l’incertezza sul ballottaggio di Roma dall’altro, congiurano per estenuare le trattative. Anche per questo ieri Berlusconi ha voluto riprendere in mano il pallino: «Nulla è ancora deciso. Ci

Nel pomeriggio di ieri, dopo aver fatto slittare a oggi il summit con Formigoni, Berlusconi ha sciolto il nodo del Veneto incontrando ad villa San Martino Giancarlo Galan. Risultato: il governatore resta dove è, ma assicura che «il modello veneto sarà premiato con la nomina di ministri, viceministri e sottosegretari». «Almeno due ministri veneti e una significativa componente tra vice ministri e sotto-

segretari», puntualizza il Cavaliere, spiegando come «a fronte dello straordinario successo elettorale che havisto la sinistra diminuire il proprio consenso come non mai, non è possibile far terminare anticipatamente la legislatura regionale». Sempre ieri il Cavaliere ha incontrato il vicecoordinatore di Forza Italia Fabrizio Cicchitto ed il capogruppo azzurro al Senato, Renato Schifani, il più accreditato a succedere a Franco Marini alla poltrona più alta di Palazzo Madama. Nei colloqui non solo la squadra di governo ma anche le prime urgenze legislative una volta iniziato il cammino del terzo governo Berlusconi: sicurezza e federalismo fiscale. Altro problema per Silvio Berlusconi, anche se meno spinoso, le rivendicazioni degli autonomisti siciliani che con il loro leader, Raffaele Lombardo, tornano a chiedere una poltrona nel governo che sta per nascere. Lombardo dice:«Come la Lega per il Nord, fatte le debite proporzioni, il Sud deve essere rappresentato con un ministro che è espressione di un partito territoriale del Mezzogiorno».


politica

22 aprile 2008 • pagina 7

Benedetto XVI e Totti partecipano, loro malgrado, alla campagna elettorale di Roma. Questa sera il duello in tv

Rutelli e Alemanno tra veleni e humor d i a r i o

d e l

g i o r n o

Marini: i veti non blocchino l’esecutivo «Il nostro è un Paese che ha bisogno di un governo che continuamente accompagni e sostenga la crescita con le misure opportune, senza fermarsi di fronte a veti e ostacoli». Lo ha detto il presidente del Senato Franco Marini, intervenendo alla cerimonia in ricordo dell’ex presidente di Bankitalia, Guido Carli, svoltasi nella Sala Zucca di Palazzo Giustiniani. «E’ stata questa convinzione che ha portato alla nascita del Pd, la capacità di guardare lontano e arrivare a fare scelte coraggiose nell’interesse del paese». Marini ha quindi sottolineato come «quello di mettere veti è stato un punto che nella recente esperienza di governo ha posto ostacoli».

Di Pietro: domani incontro con Pd Si terrà domani mattina l’incontro tra Antonio Di Pietro e Walter Veltroni per affrontare la questione del gruppo unico Pd-Idv o dell’ipotesi, forse più probabile, di due gruppi ben distinti in entrambe le Camere. A quanto si è appreso, oltre ai due leader del Pd e dell’Idv, al loft saranno presenti anche Leoluca Orlando e Massimo Donadi per l’Italia dei Valori, e Dario Franceschini e Goffredo Bettini per il Partito democratico.

di Nicola Procaccini

ROMA. Nel giorno in cui Roma festeggiava il suo 2761esimo compleanno, la campagna elettorale per la conquista del Campidoglio si è fatta dura, cattiva, ma con alcune punte d’involontario umorismo. Dopo la violenza ed il ferimento della giovane studentessa africana la questione della sicurezza mantiene il centro del dibattito e surriscalda gli animi. I due protagonisti del ballottaggio di domenica e lunedì prossimi si sono scagliati addosso dichiarazioni dai toni ben più aspri rispetto a quelli usati fino a qualche giorno fa. Gianni Alemanno, candidato del Popolo della Libertà ha iniziato ad attaccare su questo tema il suo sfidante di buon mattino e già alle 08.59 ha rilasciato una prima dichiarazione: «I braccialetti per le donne prospettati da Francesco Rutelli per motivi di sicurezza sono una cosa umiliante oltre che ridicola. Non possiamo costringere le nostre donne ad andare in giro con dei braccialetti segnaletici, come se fossero delle persone segnate». La proposta del candidato a sindaco del Pd di dotare le donne romane di una sorta di “salvavita”da attivare in caso d’aggressione non rappresenta di per sé un’astrusità, ma certamente si presta al affondo dell’avversario e a molti dubbi sulla sua effettiva praticabilità. Detto questo, la manifestazione di protesta delle donne del Pdl sarà apparsa eccessiva persino allo stesso Alemanno. Una trentina di loro si sono incatenate e velate di nero davanti alla stazione de La Storta. «Non siamo né macchine che hanno bisogno di antifurto né schiave» ha spiegato la neo deputata del Pdl, Barbara Saltamartini, una delle incatenate. Mentre la neo eletta consigliera comunale del

Pdl, Sveva Belviso, con un velo nero che le copriva il volto, ha definito il braccialetto «un burqa elettronico, un passo verso la limitazione delle libertà». D’altro canto, a difendere la proposta sono intervenute le donne della lista civica per Rutelli chiedendo a gran voce: «subito un milione di bracciali salvavita!». Insomma, si è molto discusso ieri di questi bracciali, ma per fortuna non soltanto di questo. Alemanno ha rilanciato il ruolo della polizia municipale che secondo il candidato del Pdl dovrebbe essere armata e addestrata per combattere la criminalità di strada. «Alemanno ha favorito l’immigrazione clandestina – ha replicato Rutelli – i provvedimenti che lo hanno consentito sono stati tutti presi

I due protagonisti del ballottaggio si scambiano dichiarazioni dai toni ben più aspri rispetto a quelli usati nei giorni scorsi dal governo Berlusconi e in quel governo c’era il ministro Alemanno che li ha votati tutti». Nel botta e risposta di ieri tra i due aspiranti sindaci il candidato del Pdl non ha fatto neanche in tempo a controbattere il suo avversario che già le agenzie battevano una sua nuova dichiarazione: «se sarò eletto creerò Csi Roma».A quel punto, saggiamente, Alemanno ha preferito lasciar cuocere Rutelli nel sarcasmo generale. Francesco Rutelli ha vissuto ieri una giornata davvero intensa. Ad un certo punto, seguendo il resoconto delle agenzie è sembrato che il candidato del Pd fosse capace di ma-

terializzarsi contemporaneamente in più punti della capitale. Lontanissimi fra di loro. Nel giro di poche ore Rutelli ha rilasciato dichiarazioni dall’ospedale San Filippo Neri dove era in visita alla studentessa vittima dell’agguato, dall’hotel Parco dei Principi mentre presentava alla stampa “Csi Roma”, da Palazzo Braschi dove ha presenziato ad una mostra fotografica sulla storia di Roma.

Veltroni: con Udc per una sfida riformista

E chissà cosa avrà pensato Papa

«Le prime misure del governo dovranno essere per lavoratori e pensionati, lo richiede il Paese». Così il leader della Cgil Guglielmo Epifani ha fatto sapere di non avere «nessuna ostilità preconcetta, nessuna pregiudiziale - ha aggiunto - aspettiamo il governo alla prova dei fatti. Lo misureremo con rigore sui problemi che oggi ha il Paese». Epifani ha quindi sottolineato quanto sia «importante che il governo si concentri non solo sul dialogo con i sindacati, ma anche sulle politiche che sostengano, appunto, le categorie di lavoratori e pensionati».

Benedetto XVI quando si è ritrovato Rutelli ai piedi della scaletta del suo aereo, appena tornato dal viaggio negli Stati Uniti d’America. Nemmeno all’altro pontefice di Roma, quello calcistico, è stata risparmiata una visita ieri di Rutelli. Il povero Francesco Totti, convalescente da una delicata operazione chirurgica, si è dovuto sorbire la visita in clinica di tutti e due i candidati in competizione. Prima di Alemanno che lo ha perdonato per l’endorsement fatto nei confronti del suo avversario, e poi di Rutelli che ostentando una certa confidenza ha parlato di «un saluto doveroso ad un’icona della città, era giusto scambiarci il cinque». Ritornando, in conclusione, ad un registro più serioso va detto che apparentamenti ufficiali con i candidati esclusi al primo turno non ve ne saranno. A titolo personale Baccini ha confermato il suo sostegno ad Alemanno, ricevendo una dura reprimenda da parte del leader del suo partito Savino Pezzotta. Mentre Giuliano Ferrara ha dichiarato di votare per Rutelli, ma buona parte della sua lista voterà per il candidato del Pdl. Restano ancora poche ore di campagna elettorale, il risultato finale è incertissimo e chissà che non risulti determinante il duello televisivo di questa sera.

Il dialogo tra Udc e Pd per Veltroni si può realizzare. O quanto meno si potrebbe. «Noi partiamo da una grande forza - ha affermato il segretario del Pd al termine dell’incontro con i segretari regionali del partito ieri a Milano - e se questa farà un’opposizione intelligente e se svilupperà i rapporti, come deve fare, con le altre forze di opposizione, in particolare l’Udc, può far ripartire la grande sfida riformista». Veltroni, insieme ai segretari regionali, ha anche analizzato il risultato elettorale, a suo giudizio «positivo visto che vede il Pd oltre il 33%».

Epifani: no a pregiudiziali su governo

Mpa: Lombardo querela ”Repubblica” Il Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo ha annunciato ieri l’intenzione di querelare per diffamazione aggravata il quotidiano La Repubblica«C’e’ l’ostinazione - ha dichiarato Lombardo - a costruire un nesso tra il mio successo e forme più o meno illecite di acquisizione del consenso». L’articolo del giornale cita un’inchiesta incentrata sul ruolo dei patronati,di cittadini bisognosi, di soldi per la spesa e carte telefoniche che sarebbero stati distribuiti prima delle elezioni.

Fitto: i ballottaggi possono favorirci Il coordinatore de Fi-Pdl per la Puglia Raffaele Fitto non ha dubbi: «Il risultato delle politiche è un punto di partenza e i ballottaggi possono segnare l’inversione di tendenza in molti comuni». Fitto si è detto «assolutamente convinto» della forza trainante della vittoria di Berlusconi e che «si può fare un buon risultato pure a Foggia». E sui ballottaggi gli dà man forte anche Adriana Poli Bortone, che ha espresso un giudizio positivo anche per la sfida del Campidoglio: «Roma è importantissima - ha detto - dobbiamo mobilitarci perché prendere il governo della capitale è molto più che prendere qualche ministero».


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Al via la 38esima edizione

Musica e documentari per celebrare la Terra ROMA. Il ciclo di eventi e documentari dedicati alla 38esima edizione dell’Earth Day, che ha preso il via ieri a Roma con l’inaugurazione all’Ara Pacis della mostra fotografica dell’artista americano Chris Jordan (l’esposizione terminerà il 30 aprile), prosegue oggi con un grande appuntamento musicale che si terrà nel cuore della capitale: A PARTIRE DALLE 20, in piazza del Campidoglio, il ”Nat Geo Music Live”, concerto gratuito che vedrà la partecipazione di artisti come Cesaria Evora, Vinicio Capossela, Sud Sound System, Nidi d’Arac (che suoneranno con I Tamburellisti di San Rocco) e la stella emergente italo-etiope Saba. Il concerto, promosso da National Geographic con il patrocinio del Comune di Roma e della Regione Lazio, è a impatto ambientale zero, verrà trasmesso in diretta su Lifegate Radio e potrà essere ascoltato in streaming sul sito www.natgeomusic.it. SKY CINEMA MANIA celebra l’Earth Day proponendo, dalle 19.35, tre documentari: Una scomoda verità, di e con Al Gore; Microcosmos. Il popolo dell’erba; e Il popolo migratore. SKY TG24 dedica una vasta programmazione attraverso una serie di documenti sul tema e testimonianze di ospiti in studio chiamati a intervenire. NATIONAL GEOGRAPHIC punta i riflettori su «pericoli, cause e soluzioni per risolvere i drammi del pianeta» in una no-stop di documentari inediti, concerti e contributi esclusivi. TUTTI I CANALI SKY manderanno in onda anche un promo musicale, la cui colonna sonora è stata affidata ad Adriano Celentano, interprete del brano scritto da Jovanotti Aria, non sei più tu. ALTRA CURIOSITÀ musicale: in concomitanza con le celebrazioni dell’Earth Day, uscirà oggi il singolo Difenderò dei due giovani artisti Erika e Nelio, pubblicato dall’etichetta Air Music per «sensibilizzare il prossimo sulla difesa e il rispetto della natura e di tutto ciò che ci circonda».

ideologie Oggi la festa mondiale dopo il crac elettorale dei Verdi italiani

L’Earth Day senza Pecoraro (e sperando nel nucleare) segue dalla prima Incredibile, se si pensa che Pecoraro Scanio fino a pochi giorni fa dettava la linea ambientale del nostro Paese, uomo scanzonato, sebbene catastrofista tutto d’un pezzo, capace in meno di due anni di governo di sfornare oltre 800 comunicati sull’intero scibile umano, ma con una preferenza maniacale per gli allarmismi di vario tipo: sui gas serra, sulla desertificazione, sulla scomparsa delle foche, sugli incendi, sugli ogm.

molto belli. E’ la funzione che li rende belli. Così come il corpo di una donna è bello perché è riproduttivo, allo stesso modo è interessante tutto quello che ha a che fare con l’ecologia oggi perché ci fa venire in mente la riproduzione della nostra specie, la sopravavvivenza della nostra specie». E più oltre: «Tutte queste eliche lungo i nostri crinali all’inizio disturbavano un po’, adesso sempre meno. Tra un po’ sarà bellissimo vedere una crinale con le eliche per l’energia eolica».

Qui a fianco l’ex ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio. Nella foto in basso, il cantautore Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti

Gli ambientalisti nostrani si sono opposti a qualsiasi tentativo pur piccolo di modernizzazione. Ma lo sbandierato miliardo di adepti dell’ecologismo catastrofista è un ampio bacino da cui attingere pescare altri capipopolo Pier Ferdinando Casini lo ha sotterrato con una lapide: «E’ stato il peggior ministro di questo Paese»; e non ha esagerato visto che gli elettori hanno bocciato in modo definitivo il “signor no” e il suo schieramento di vari reazionari che in due anni si è opposto, dalla Tav ai Termovalorizzatori campani, a qualsiasi tentativo pur piccolo di modernizzazione.

Lo sbandierato miliardo di adepti dell’ecologismo catastrofista è però un ampio bacino da cui attingere nuova linfa e magari pescare altri capipopolo. Per esempio Jovanotti che su Repubblica incarna il volto dell’Earth Day esprimendo una serie di luoghi comuni ormai radicati nel subconscio nazionale: «Io vorrei vedere - dice Lorenzo i nostri centri storici pieni di pannelli solari, perché sono

A parte il quanto mai contestabile concetto di bellezza femminile ridotta a funzione riproduttiva (che ne diranno le femministe o gli ultimi tomisti rimasti), fa quasi sorridere l’Italia che prospetta Jò, devastata da pannelli solari e rumorosi rotori. Non solo le torri eoliche sono dei mostri alti 50 metri con pale lunghe 30, ma baste-

rebbe leggere una particella dell’immensa produzione scientifica mondiale per acorgersi che il solare e l’eolico sono utopie nefaste un po’ come la palingenesi di un paradiso in terra proposta dal vecchio comunismo. E similmente, con un po’ di buona volonta potrebbero essere superati gli stereotipi sull’effetto serra, il buco dell’ozono, lo scioglimento dei ghiacchi, la fine del petrolio o dell’acqua, l’aumento incontrollato della popolazione e l’imminente prossima carestia.

Ancora di recente, Franco Battaglia, uno dei nostri migliori e inascoltati scienziati, si è divertito a smontare passo passo l’illusione dell’energia solare in un libretto pieno di dati e numeri appena pubblicato da Cidas (011/4369146). La sostanza è che l’unica fonte di energia efficace proveniente dal sole è quella muscolare degli uomini e degli animali. Ma per farla bastare, occorrerebbe tornare alla popolazione di qualche millennio fa, eliminando circa 6 miliardi di persone. Fuori dal paradosso, per quanto riguarda invece il fotovoltaico, anche se possiamo ben ipotizzare di posizionare in Italia 2.000 chilometri quadrati di pannelli, il costo del progetto è tanto alto, anti economico e inefficace dal punto di vista

energetico da renderne sconsigliata la realizzazione. Il fatto è che l’energia solare e quella eolica, checché ne dicano gli ambientalisti hard, sono tanto disponibili quanto inefficienti, difficili da trasformare in potenza utilizzabile quando ci serve. In Germania, un paese “modello”, entro il 2020 funzioneranno 48mila turbine che a fronte di un investimento di 48 miliardi di euro potranno sostituire solo parzialmente la potenza convenzionale della rete. In sostanza, quello tedesco è un vero fallimento energetico, ma non per gli operatori del settore. Grazie alle politiche Verdi, molte aziende si arricchiscono a spese della collettività, ingannando con il sogno dell’eolico o del solare mantenuto vivo grazie ai sovvenzionamenti statali. E qui torniamo all’inizio. Venuta a mancare al Parlamento una forza di pressione e di lobbying come quella Verde, è possibile ipotizzare finalmente una politica ambientale più seria e capace di affrontare i tanti problemi del nostro Paese. Magari perfino prospettare un ritorno al nucleare che, a detta degli scienziati, è l’unico sistema per ottenere energia pulita in abbondanza e a bassi costi. Certo Jovanotti permettendo, perché «è qui la festa!», la festa dell’ideologia all’Earth Day. Angelo Crespi


politica

22 aprile 2008 • pagina 9

Il futuro dell’Udc. Parla l’ambasciatore Sergio Romano, editorialista del “Corriere della Sera”

«Il Centro tornerà se fallisce il bipolarismo» colloquio con Sergio Romano di Riccardo Paradisi ROMA. La ricognizione di liberal sul ruolo del Centro politico, sulla funzione dell’Udc nel nuovo quadro bipartitico continua con l’ambasciatore Sergio Romano, editorialista del Corriere della Sera. Con la scelta di correre da solo alle ultime elezioni l’Udc di Pier Ferdinando Casini resta fuori dal governo ma resiste allo tsunami politico che ha cancellato dal Parlamento interi partiti storici italiani. Come spiega, ambasciatore Romano, il fatto che il Centro abbia tenuto e non sia stato stritolato dal bipartitismo? Lo spiego col fatto che c’è ancora in Italia una certa nostalgia del Centro: ci sono molte persone che ritengono evidentemente ancora il centro non solo importante ma anche degno di una propria rappresentanza politica. Però noi sappiamo che fare della rappresentanza politica del centro il fulcro di un sistema politico significa la fine della fisiologica e necessaria alternanza al potere di due grandi partiti. Un centro che conserva il potere per periodi molto lunghi d’altra parte è concepibile solo in un contesto come quello italiano di qualche decennio fa, segnato dalla lunghissima egemonia politica della Dc. D’altra parte il centro ha una strategia istituzionale fondata sulla convinzione che la sua esistenza è saldata con l’automatica responsabilità del potere. Ma questo schema si è rotto. Che ruolo ha ora il Centro? Come dovrebbe capitalizzare e investire la quota di consenso che è riuscito a mantenere? Il Centro è la sostanza di un Paese. È l’area di gran lunga più cospicua, più operosa di una nazione, ma non è necesario che abbia una sua rappresentanza politica, soprattutto in un sistema bipolare. Il centro diventa la fetta che la destra e la sinistra devono guadagnarsi. Vince chi riesce da destra e da sinistra ad attrarre più centro. Il loro risultato elettorale non ha ora grande significato. D’altra parte con un 5 per cento non solo non si è un baricentro politico non si è nemmeno aghi della bilancia. A Roma l’Udc si è diviso sulla decisione di appoggiare il candidato di destra al Cam-

pidoglio, Gianni Alemanno, o lasciare libertà di voto ai suoi iscritti ed elettori. È un segnale che all’interno dell’Udc restano forti le componenti che guardano al centrodestra? Non può essere diversamente un partito di centro è per definizione un partito moderato. Ma è anche un partito che su alcune questioni potrebbe sviluppare una tendenza ad allinearsi anche con la sinistra. Il fatto è che il centro diventa politicamente rilevante quando è maggioritario. Solo in questo caso attrae, fa da calamita. Se è minoritario dall’essere calamita passa ad

essere ferro: non è in grado di prendere delle decisioni, si spacca su ogni decisione da prendere. Nei giorni scorsi si sono avuti incontri ripetuti tra i vertici dell’Udc e quelli del Partito democratico. Come giudica questo dialogo? Sono prove tecniche di intesa tra Udc e Pd? Sì, potrebbero esserlo benissimo. Un tentativo di sondare e inventariare quello che c’è di comune. Ma non cre-

do che bisogna lasciarsi troppo distrarre da questi epifenomeni. Per Casini spostare a sinistra il partito significherebbe un’emorragia troppo grande di consenso. Il leader dell’Udc avrebbe dovuto rimanere secondo lei nel centrodestra? Casini è un uomo ambizioso: ma le sue ambizioni sono troppo grandi per la forza politica di cui dispone. Poteva aprire la partita all’interno del Pdl: non è detto che il delfino designato da Berlusconi sia Fini. Queste non sono cose che si decidono per decreto. Invece ha scelto la solitudine del maratoneta. I maratoneti percorrono lunghe distanze: ecco su questa prospettiva lunga, in cui molte cose possono cambiare, il Centro è destinato a rimanere una costante del quadro politico italiano o è una sopravvivenza destinata a essere inclusa e superata dal bipolarismo? Molto dipende dal modo in cui funzionerà questa nuova dimensione politica italiana che è il bipartitismo. Il bipolarismo non ha dato buoni risultati e questa era la carta che Casini voleva giocare: scommettere in un grande consenso per una formula centrista. Così non è stato: Il Paese ha dato il via a una forma di bipartitismo imperfetto che per una questione di numeri impedisce al centro, come si diceva, di essere ago della bilancia. A questo punto tutto dipende da come funziona il bipartitismo, certo che se fallisse...beh il Centro potrebbe rientrare in gioco. I valori eticamente sensibili sono stati i grandi assenti di questa campagna elettorale, dove a parte l’eccezione di Giuliano Ferrara, non s’è praticamente parlato né di aborto, né di Ru486, né di eutanasia. Eppure la biopolitica si annuncia come il vero tema metapolitico degli anni a venire. Su questo versante l’Udc – che ha contestato la rimozione dei temi etici dal dibattito politico degli ultimi mesi – ha un ruolo specifico da giocarsi? No, perchè in realtà il Paese vuole l’aborto e il divorzio. Questa è la realtà italiana. Giuliano Ferrara ha inventato un Paese diverso.

Tra Udc e Pd ci saranno numerosi tentativi di inventariare quello che c’è di comune. Ma Casini non sposterà a sinistra il partito


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mondo Con il boicottaggio politico all’inaugurazione dei Giochi proposto da Sarkozy, si sono scatenate manifestazioni davanti all’ambasciata francese di Pechino ed ai supermercati Carrefour. Il governo, temendo ritorsioni economiche, ha prima consentito le proteste per poi stigmatizzarle su un editoriale del “Quotidiano del Popolo”, che frena il nazionalismo “irrazionale” ed invita i manifestanti alla calma

Il governo centrale cinese teme nuove rivolte e costringe i quadri della regione a due mesi di “autocritica”

Pechino ordina la rieducazione in Tibet di Vincenzo Faccioli Pintozzi er cercare di frenare l’ondata di sostegno internazionale a favore del Tibet, e con l’antica paranoia dei regimi totalitari nei confronti del nemico interno, il Partito comunista cinese ha deciso ieri di intraprendere una misura dallo stile maoista: una campagna di rieducazione politica per i quadri governativi della Regione autonoma del Tibet. Lo annuncia il Tibet Daily, quotidiano ufficiale, che spiega: «La campagna, della durata di due mesi, mira a combattere il separatismo, proteggere la stabilità e promuovere lo sviluppo». Persino il linguaggio dell’articolo ha un sapore retrò. Per raggiungere lo scopo, che l’editorialista descrive come “vitale”, la rieducazione sarà infatti incentrata «sull’unificazione del pensiero e della forza coesiva delle masse e dei dirigenti, per approfondire la battaglia contro il separatismo e rispondere agli attacchi della cricca del Dalai Lama». All’atto pratico, i membri del Partito parteciperanno alla visione comune di programmi televisivi e a sessioni di auto-critica e denuncia organizzata. La decisione di rieducare i vertici comunisti del Tibet a più di un mese dall’inizio delle proteste di Lhasa dà un segnale forte all’esterno ed all’interno del Paese. Pechino ammette davanti al mondo che la linea politica ufficiale sulla regione himalayana non è compatta, ma soprattutto dimostra di temere un ritorno di fiamma da parte di quei dirigenti locali (di etnia tibetana) che è stato costretto ad ammettere ai vertici del governo autonomo per smentire le ac-

P

cuse di genocidio culturale. Proprio questi elementi vengono ora quantomeno sospettati di collaborazionismo con la causa dei tibetani all’estero. Inoltre, l’aumento delle forze armate nella regione, il bando sul turismo e quello sugli ingressi nella regione (anche dalla stessa Cina) dimostrano che il Partito teme una nuova rivolta organizzata e soprattutto una possibile intesa fra le autorità locali e il Dalai Lama. Da parte sua, il capo spirituale e politico del buddismo tibetano ha condannato le violenze di queste settimane ed ha più volte espresso il suo appoggio alle Olimpiadi, ma ha denunciato il «genocidio culturale» che avviene in Tibet ed ha

ucciso durante una di queste sedute perché colpevole di aver criticato il Grande Balzo in avanti lanciato dal Timoniere. Secondo la Società delle scienze cinesi, la rieducazione politica non è un metodo violento, perché si basa sulla dialettica e sul confronto. Fra le sue peculiarità vi sono la rottura dei vincoli col passato (uno degli elementi fondamentali della società confuciana, chiave della cultura tradizionale cinese), che si ottiene tramite la denuncia “per crimini controrivoluzionari”del proprio padre e dei propri familiari, e l’acutizzazione di sensi di colpa e di vergogna in rapporto alla comunità dopo un errore. Come in ogni tortura, i soggetti recalci-

L’operazione si baserà «sull’unificazione del pensiero per rispondere agli attacchi della cricca del Dalai Lama». Di fatto, i dirigenti parteciperanno a sessioni di denuncia organizzata dichiarato di «non poter più fare altre concessioni» a Pechino. Il governo centrale ha risposto definendolo «un esiliato insignificante».

La pratica della rieducazione politica e quella del controllo sistematico del comportamento sono costanti nel corso di quasi tutta la storia della Cina comunista. Il Grande Fratello cinese la applicò per tutti gli anni Cinquanta, con più o meno violenza, nelle riunioni di lotta nei villaggi, nelle fabbriche e nelle scuole. Lo stesso primo presidente della Repubblica cinese sotto Mao, Liu Shaoqi (veterano della Lunga Marcia), venne

tranti sono sottoposti a maggiori pressioni: lo scopo è quello di far perdere la faccia a chi si oppone alla comunità: questa espressione, molto comune in Cina, indica la perdita del riconoscimento sociale, del prestigio e della stima generale. Fu la cosiddetta “terza generazione”, quella delle Guardie rosse, a dimostrare durante la Rivoluzione culturale tutta l’efficacia dell’incessante e fanatico indottrinamento. I risultati sono visibili, e compianti, ancora oggi: la distruzione delle opere classiche, il vandalismo nei confronti degli edifici storici, la cancellazione di tutto ciò che non fosse mo-

derno: il tentativo insomma di sradicare ogni legame con il passato della Cina.

Non si ferma, nel frattempo, la repressione in Tibet e nelle province cinesi confinanti. Secondo alcune fonti locali, raccolte da Radio Free Asia, la polizia del Qinghai (parte centro-occidentale della Cina) ha arrestato negli ultimi giorni 105 persone. Fra queste vi sono sia manifestanti che intellettuali,“colpevoli”di aver espresso il loro sostegno alla causa tibetana. Stessa situazione nel Sichuan, dove gli agenti controllano a sorpresa i monasteri e le abitazioni private in cui vivono i nativi tibetani. Secondo un agente di viaggi, è “difficile” accedere ad alcuni templi buddisti della zona, controllati a vista da poliziotti e membri dell’Ufficio affari religiosi. Ma i problemi si sono spostati sempre di più anche sul piano internazionale. Con il boicottaggio politico all’inaugurazione delle Olimpiadi ventilato dal presidente francese Sarkozy, infatti, si sono scatenate negli ultimi giorni una serie di manifestazioni davanti all’ambasciata di Parigi a Pechino ed ai supermercati Carrefour, identificati con la Francia. Il governo, che ha paura di ritorsioni economiche, ha prima consentito le proteste per poi stigmatizzarle tramite un editoriale del Quotidiano del Popolo, che frena il nazionalismo “irrazionale” ed invita i manifestanti alla calma. Queste manovre devono sortire il loro effetto entro giugno, perché una Cina instabile dominata dalle proteste, con o senza Olimpiadi, diventerebbe il posto meno attraente al mondo.


mondo

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Gli strateghi del Cremlino sanno che il riconoscimento dello Stato balcanico può innescare un effetto domino in Russia

Dieci, cento, mille Kosovo per Putin d i a r i o

d e l

g i o r n o

Ban Ki moon vuole risolvere la crisi alimentare Parlando ad Accra all’apertura della conferenza dell’Onu per il commercio e lo sviluppo, Unctad, Il segretario generale dell’Onu ha definito la crisi legata all’aumento dei beni alimentari, «un problema enorme» e ha chiamato la comunità internazionale a cercare una soluzione. Negli ultimi dodici mesi, i prezzi dei beni alimentari sono aumentati del 40 per cento. In Camerun, Burkina Fasu, Egitto e Haiti le manifestazioni di piazza hanno scatenato la reazione delle forze dell’ordine che sparando hanno ucciso dei dimostranti.

Carter conclude il suo tour mediorientale Secondo l’ex presidente Usa, Jimmy Carter, Hamas sarebbe pronta a riconoscere il diritto di Israele all’esistenza. L’organizzazione pretende però che in caso di un accordo, questo debba essere approvato dal popolo palestinese attraverso un referendum. «Non vi sono dubbi che sia il mondo arabo che Hamas accetteranno il diritto di Israele a esistere all’interno delle frontiere del 1967», ha dichiarato Carter. Per il suo incontro con i vertici di Hamas in Siria, Carter era stato fatto oggetto di forti critiche.

di Enrico Singer ono passati ben 132 anni da quando Giulio Verne scrisse – era il 1876 – uno dei suoi romanzi più famosi, dopo le mitiche Ventimila leghe sotto i mari: Michele Strogoff. Eppure per capire uno dei problemi maggiori che sono sul tavolo di Vladimir Putin e del suo prossimo reggente, Dmitrij Medvedev, le avventure del bel capitano dei cosacchi e messaggero dello zar spedito da Mosca fino a Irkutsk, sulle rive del lago Baikal verso i confini con la Mongolia e con la Cina, sono ancora oggi uno strumento più avvincente di qualsiasi trattato di geopolitica. La Russia, almeno formalmente, non è più un impero, ma rimane il più grande Paese multietnico del mondo. Con tutte le tensioni e, in molti casi, i conflitti che questa realtà comporta. Michele Strogoff doveva portare un messaggio dello zar Alessandro II a suo fratello, lo zarevich Boris, per fermare la rivolta dei tatari che minacciavano di staccare la Siberia dalla Santa Madre Russia e, lungo il suo viaggio, incontrò i kirghizi e i bashkiri, i calmucchi e i ciuvassi, i turcomanni e i tatari di Kazan – quelli che comunemente noi chiamiamo, sbagliando, “tartari” – che non sono gli stessi che volevano invadere una fetta dell’impero zarista partendo dalle steppe dell’attuale Uzbekistan. Un groviglio di culture, lingue e religioni che Giulio Verne descrisse con il gusto e il puntiglio che andava di moda nei romanzi scientifico-avventurosi della seconda metà dell’Ottocento. Ma che è soltanto un tassello di un mosaico ancora più complesso. Michele Strogoff nulla ci dice dei daghestani, per esempio, o dei cece-

S

ni, né dei popoli della Carelia, né degli osseti, né degli ingusci. A contarle tutte le nazionalità che vivono nell’attuale Federazione russa sono più di cento. Divise in Repubbliche o in Regioni (oblast in russo) che sono amministrativamente autonome ma che soffrono, nella realtà, del centralismo che una volta fu zarista, poi comunista, e che adesso nella sostanza è poco cambiato. In un caso – la Cecenia – questo groviglio di nazionalità ha fatto saltare gli equilibri di forza e si è trasformato in un vero conflitto armato con il suo sanguinoso corollario di azioni terroristiche che hanno investito anche Mosca.

A contarle tutte le nazionalità che vivono nell’attuale Federazione russa sono più di cento. Divise in Repubbliche o in Regioni poco autonome Ma di potenziali Cecenie, in Russia, ce ne sono molte. E questo spiega perché la secessione del Kosovo dalla Serbia preoccupi tanto Putin. Nelle minacciate – e in parte realizzate – ritorsioni per quanto sta accadendo nei Balcani non c’è soltanto la voglia di difendere lo spirito slavo o la fede ortodossa. Gli strateghi del Cremlino sanno benissimo che il riconoscimento internazionale dell’indipendenza di un piccolo Stato che è espressione di una minoranza nazionale può innescare una specie di devastante

Il re del Nepal respinge l’esilio domino per l’integrità della Russia. Del resto la fine dell’Urss è stata in grande misura determinata dal risveglio delle nazionalità. Il crollo dell’ideologia comunista ha fatto il resto, ma tutto è partito con le prime rivolte degli Anni Cinquanta a Berlino e a Budapest, è passato per Varsavia e Praga fino alla caduta del Muro e alle vere e proprie insurrezioni nel Baltico. Ormai che l’anello esterno dell’impero è perduto, a Mosca rimane comunque il controllo di un territorio sterminato: 17 milioni di chilometri quadrati. Quelli che gli zar conquistarono, che Lenin ufficialmente liberò per riprenderli subito dopo e che Stalin – il georgiano Josip Vissarionovich Dzugashvili – organizzò al prezzo di massacri e deportazioni di intere nazionalità. Con l’obiettivo di russificare anche le regioni più lontane. Non è un caso che le statistiche demografiche rivelano come la percentuale di russi sia molto alta – e spesso prevalente – in tutte le Repubbliche e le Regioni autonome. Per fare un esempio, non solo i russi sono circa 142 milioni e i ceceni meno di un milione, ma nella stessa Cecenia i russi sono quasi il 50 per cento degli abitanti. Guardando una carta della Federazione russa, si vede subito che una parte di queste nazionalità vive in territori di confine ed è lì che le spinte indipendentiste sono più forti e trovano retrovie. Altre sono più isolate. Non solo: la disgregazione dell’Urss ha trasferito in altri Paesi situazioni esplosive, come quelle dell’Abkazia e dell’Ossezia del Nord in Georgia, e ha fatto del Caucaso quello che i Balcani sono per l’Europa.

Nonostante la chiara vittoria maoista, il re del Nepal Gyanendra, ha negato le voci che lo vedrebbero pronto a partire per l’esilio. «Il re non va da nessuna parte», questa la secca smentita venuta dagli ambienti monarchici del palazzo reale. La volontà del re di restare nel Paese non verrà sopraffatta da notizie «malvagie». I maoisti hanno però confermato la volontà di mettere fine ai 240 anni di esistenza della monarchia in Nepal.

Storico cambio della guardia in Paraguay Dopo sessant’anni di monopolio del potere da parte del partito conservatore Colorado, il giorno della svolta è arrivato anche per Asuncion. Sono più di dieci i punti percentuali che separano l’ex vescovo Lugo, leader di una coalizione di centro sinistra, dall’ex ministro dell’istruzione del Paese sudamericano che guidava la squadra “Colorada”. «È un giorno radioso» ha dichiarato Lugo, secondo cui in futuro il Paraguay non sarà più contrassegnato da «corruzione e povertà», ma da «onestà».

Avvicinamento tra Siria e Israele Gerusalemme e Damasco, con la mediazione di Ankara, tentano di riprendere le trattative di pace interrotte nel 2000. Fonti siriane vicine al presidente Assad hanno dichiarato che «Israele sa esattamente quello che la Siria può accettare e quello che invece non accetterà mai». Nel 2000 la Siria aveva giudicato insoddisfacente l’offerta dello stato ebraico di ritirarsi da gran parte delle alture del Golan, chiedendo a Gerusalemme di tornare ai confini del 1967.

Il ministro degli Esteri austriaco in Turchia Il ministro degli Esteri austriaco Ursula Plassnik in visita ad Ankara ha dichiarato di essere favorevole a una alternativa riguardo l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Le porte dell’ingresso turco non devono essere chiuse, ma servono ancora trattative per capire quali debbano essere i contorni dei rapporti reciproci. Queste dichiarazioni Plassnik le ha fatte lunedi nella capitale del Paese anatolico, in una conferenza stampa con il collega turco Ali Bacaban. Bacaban ha invece detto che l’ingresso del suo Paese nelle strutture europee sarebbe un messaggio importante verso un’alleanza delle civiltà, «uno dei più importanti progetti di pace del XXI secolo».


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speciale

economia

NordSud

La riforma che manca al Paese per superare il Titolo V e la devoluzione. A patto che la Lega voglia andare fino in fondo

FEDERALISMO FISCALE, RIVOLUZIONE DAL BASSO di Gianfranco Polillo atti e ribatti, il concetto di federalismo, come la goccia che scava la pietra, è entrato nel senso comune. Gianfranco Miglio, il teorico della Lega Nord, sarà contento. Ciò che non ottenne da vivo ha ricevuto alla memoria. Capita spesso. Specie in un Paese in cui una vecchia cultura giacobina resiste da tempo ai cambiamenti della storia.

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Eppure, qualcosa si è mosso: più nella società e nell’economia, che non nella cultura politica. Se si guarda ai risultati elettorali, traspare in controluce

nali sono diffusi anche sul resto del territorio: le roccaforti sono geograficamente collocate. Come spiegare questa nuova geografia politica? Forse non ce ne siamo accorti, ma nel mondo si è sviluppato un conflitto redistributivo di grande portata. Sul piano internazionale, tre miliardi di persone reclamano il loro posto al sole. Producono a prezzi competitivi e pretendono un tenore di vita adeguato. Le risorse, almeno nel breve periodo, non sono sufficienti. L’eccesso di domanda riverbera sui prezzi – specie delle materie

Le aree del Paese seguono strade diverse che nessuno è più in grado di unificare una spinta diversa. Che trova nel federalismo una possibile chiave interpretativa. Vista da lontano, l’Italia appare sempre più simile alla Gallia di Giulio Cesare: omnis divisa in partes tres (nel complesso divisa in tre parti). La Lega, che vince in tutto il Nord, spingendosi fino dentro l’Emilia. Il Pd che mantiene le sue roccaforti nelle regioni centrali e il Popolo delle libertà che trionfa invece nel Sud. E poco importa se i due partiti nazio-

prime e dei prodotti alimentari – alimentando l’inflazione. In Italia, capita più o meno la stessa cosa: la spinta viene avvertita con crescente inquietudine da chi non riesca ad arrivare alla fine del mese e fa crescere l’insofferenza sociale. Fenomeni che si riflettono sugli equilibri territoriali del Paese. Il Nord punta a riavere risorse che i meccanismi perequativi del passato distribuivano su tutto il territorio nazionale. Il Centro

difende uno status quo, che nasce da antiche consuetudini e dal vantaggio relativo allora conquistato. Il Sud, sempre più povero, è alla ricerca disperata di una rappresentanza politica che riequilibri i rapporti di forza: nella scorsa legislatura si era affidato alla sinistra, oggi ha cambiato cavallo nella speranza di risposte concrete per conquistare uno spicchio di maggior benessere. Se queste sono le basi politiche di un diverso equilibrio, a partire dai prossimi mesi, dovremmo cercare risposte adeguate. Il federalismo rientra tra queste. Sempre che si trasformi in un grimaldello capace di modernizzare una struttura pubblica sclerotica e dissipatrice. Non sarà un’operazione facile, ma nemmeno impossibile se ciascuno sarà in grado di rinunciare a qualcosa e trovare le giuste soluzioni. Che dovranno accompagnarsi anche a una riflessione di carattere più generale.

Il punto di partenza non può essere la vecchia “devoluzione”. Lo Stato centrale che si spoglia a favore delle autonomie territoriali. È una fase superata dai nuovi squilibri che caratterizzano la società italiana. E che potranno essere ricomposti solo attraverso un vero e proprio patto federativo. Quel contratto – il foedus latino – con cui nell’epoca medioeva-

le, i feudatari, in quanto rappresentanti di comunità diverse, fissavano i loro reciproci impegni e potestà. La novità sta nella direzione del movimento: non più dall’alto verso il basso, nel caso della devoluzione; ma dal basso verso l’alto per ricomporre le nuove fratture, che dividono il Belpaese. Nel Nord si è sviluppata un’economia fortemente internazionalizzata. Un sistema di piccole imprese che si è inserito in un bacino geografico più ampio e che guarda soprattutto al centro Europa: dalla Carinzia austriaca alla Romania. Un reticolo di rapporti che costituisce, ormai, un continuum produttivo. Nel Centro e nel Nord ovest è rimasto, invece, il nucleo essenziale delle medie imprese, che producono sia per l’estero sia per il mercato interno. È soprattutto la patria del “made in Italy”: dall’alimentare, al tessile, alla meccanica. Una struttura produttiva, anch’essa integrata, ma con logiche ed esigenze diverse. Resta, infine, il Sud che non ha ancora trovato una sua vocazione produttiva. Appendice dello Stato nazionale, tale è rimasto. Perdendo, nel frattempo, ogni peso specifico. Lo Stato centralizzato non riesce più a unificare le spinte centrifughe, che nascono da questo nuovo modello di economia. Lo dimostrano i dati della finanza pubblica. Nei fat-

ti un federalismo, disordinato e pasticcione, che sperpera risorse, senza alcun progetto. Se si considerano i grandi aggregati di finanza pubblica, a partire dal 1996, la spesa previdenziale è aumentata di 8 punti, raggiungendo, nel 2006, la soglia del 43,1 per cento del totale. Quella degli apparati centrali, nello stesso intervallo, è diminuita dal 35 al 25 per cento. Mentre quella degli enti locali (Regioni, Province e Comuni) è cresciuta di 4 punti: dal 28 al 32 per cento. Quel terzo di spesa pubblica, inoltre – Napoli insegna con i suoi cumuli di spazzatura – non è sottoposta ad alcun controllo. Non esiste organo burocratico o politico capace di esercitare questa funzione. E gli effetti sono devastanti.

Il federalismo, coniugando autonomia e responsabilità, può rappresentare una soluzione. Richiede, tuttavia, il mantenimento di una coesione nazionale che argini le spinte centrifughe. Il Nord è, indubbiamente, più avanti in questa elaborazione. Ma per questo è necessario un suo maggior senso di responsabilità. E non solo nell’interesse dell’Italia. Storicamente, il regno del Lombardo Veneto, prima del Risorgimento, era una provincia dell’Austria: oggetto di una vera e propria colonizzazione. Se Casa Savoia, che certo non brillava tra le grandi famiglie aristocratiche europee, si gettò nella grande avventura nazionale, qualche motivo doveva pur esservi. Sono cambiati questi parametri nell’epoca della globalizzazione? Non lo crediamo. Il Nord, al pari degli altri territori, ha bisogno di uno Stato nazionale efficiente. Il federalismo può essere la risposta. Ma il patto, che lo sorregge, non può essere leonino.


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Come risolvere i danni di una perequazione lontana dalla realtà

Meno tasse e meno burocrazia di Luca Antonini n Italia il federalismo è una grande incompiuta. Il federalismo fiscale infatti è come la benzina per un motore a scoppio: se manca quello, il motore della riforma federale non potrà mai essere realmente acceso. Anzi, mantenere un modello di sostanziale “finanza derivata” in un Paese che, con la riforma costituzionale del 2001, ha decentrato forti competenze legislative, crea enormi confusioni, dissocia la responsabilità impositiva da quella di spesa, rende ingovernabili i conti pubblici. Non solo gli enti locali, ma nemmeno le strutture statali accettano davvero la nuova logica federalista: si duplicano così strutture e inefficienze.

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Si tratta di un dato che spesso viene sottovalutato. Per esempio, Boeri e Guiso su Repubblica qualche settimana fa hanno presentato «un progetto credibile per ridurre le tasse». Si trattava di un progetto elaborato su un presupposto di lungo periodo: congelamento della spesa pubblica, contemporanea restituzione del gettito tributario derivante dalla crescita reale, il tutto in un’ottica pluriennale di legislatura. Era un “piccolo” particolare a metterlo radicalmente in discussione. Il fatto davvero “incredibile”di questo progetto “credibile” era che non faceva alcuna menzione del federalismo fiscale e prefigurava il congelamento della spesa pubblica secondo una logica totalmente centralistica. Il progetto non considerava minimamente la specificità dell’attuale assetto istituzionale italiano, dove, da un lato, con la riforma costituzionale del 2001 sono state decentrate alle Regioni competenze legislative (e quindi di spesa) con un livello addirittura superiore a quello del Canada; ma dall’altro si continua a finanziarle con un sistema di finanza derivata, fatto di ripiani statali a piè di lista stile anni Settanta. Nell’ultima Finanziaria, nonostante l’organizzazione sanitaria sia ormai materia di competenza primaria delle Regioni, lo Stato ha erogato a favore di cinque Regioni del Sud in extradeficit sanitario ben 9,1 miliardi di euro. È un esempio eloquente: quale interesse può avere un ente regionale a combattere l’inefficienza se poi lo Stato ripiana ogni deficit mettendolo sul conto della fiscalità generale, cioè a carico di tutti gli italiani? È facile dire che senza federalismo fiscale nella situazione istituzionale italiana è impossibile pensare di controllare la spesa pubblica; al massimo si possono introdurre meccanismi che creano effetti perversi perché premiano l’inefficienza e disincentivano i comportamenti virtuosi. Infatti, il congelamento della spesa pubblica auspicato da Boeri e Guiso vorrebbe dire di fatto stabilizzare la spesa storica di Regioni e Enti locali. In altre parole, consacrare il principio per cui chi più ha più speso in passato può continuare a farlo, mentre chi ha speso meno – perché è stato più efficiente – deve continuare a spendere di meno. Verrebbe infatti bloccata la spesa del Molise che serve a mantenere quasi 300 dipendenti regionali ogni 100mila abitanti, allo stesso modo di quella del Veneto che ne mantiene 69 o della

Lombardia che ne mantiene 43. Senza rovesciare questa dinamica e senza reali incentivi all’efficienza non si potranno creare sufficienti motivazioni per realizzare interventi di razionalizzazione della spesa. L’esperienza della sanità è molto significativa al riguardo: i costi per l’erario sono quasi raddoppiati in 10 anni passando dai 55,1 miliardi del 1998 ai 101,4 miliardi del 2008. E questo nonostante le misure di contenimento previste nelle Finanziarie di quegli anni. Lo stesso è avvenuto per la spesa delle amministrazioni centrali dello Stato: come recentemente ha dimostrato una ricerca condotta da Astrid, essa è enormemente aumentata negli ultimi anni, nonostante il (finto) federalismo. In conclusione, in assenza di federalismo fiscale non si potranno attivare meccanismi di responsabilizzazione verso gli elettori locali (accountability), e non si potrà favorire la trasparenza delle decisioni di spesa e la loro imputabilità. Senza queste condizioni la spesa in Italia non potrà essere contenuta in modo efficace e senza gravi distorsioni. C’è quindi da augurarsi che non si perda tempo nel dare attuazione al federalismo fiscale. Il governo uscente aveva prodotto un disegno di legge davvero poco rispettoso dell’autonomia impositiva regionale e locale. Occorrono soluzioni diverse, che valorizzino maggiormente l’autonomia aprendo a essa ventagli di prospettive nuove. Per esempio, la possibilità di introdurre leggi Tremonti regionali di detassazione degli investimenti produttivi, riducendo la burocrazia implicata negli incentivi; oppure la possibilità di prevedere forme di fiscalità regionali di vantaggio per il Sud che favorirebbero il passaggio dall’assistenzialismo alla promozione delle capacità.

Nel settore delle utilities, poi, molti auspicano una maggiore presenza di soggetti non profit per rimediare ai fallimenti del mercato e dello Stato. In altri ordinamenti tali soggetti hanno sviluppato politiche davvero innovative a vantaggio degli utenti. Nel nostro contesto un’eventuale esenzione regionale dall’Irap a favore di questi soggetti che non perseguono fine di lucro si tradurrebbe in una riduzione dei costi delle utenze (acqua, gas, ecc.). Quindi, l’esenzione Irap andrebbe a sgravare le bollette dei cittadini. Un effetto analogo si realizzerebbe consentendo la detrazione dai tributi regionali (per esempio esempio dall’addizionale regionale Irpef) di quelle svariate forme di bonus o voucher (per anziani, scuola, disabili, etc.) sviluppate dal welfare regionale. Evitando una serie di complicati passaggi burocratici, si lascerebbero fin dall’inizio i soldi alle famiglie evitando l’illogico meccanismo “prelievo e poi ridistribuzione”delle medesime risorse. Sono forme di attuazione del federalismo fiscale che non aumentano la pressione fiscale, riducono la burocrazia, favoriscono lo sviluppo della produzione economica e sociale, non spaccano il Paese ma responsabilizzano la classe politica locale. Già componente dell’Alta commissione sul federalismo fiscale


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economia

NordSud

Il progetto dei lumbard spiegato da Molgora

SCHEMI L’urlo della Lega: «Più soldi e poteri» di Marco Palombi ederalismo fiscale. Federalismo fiscale. Federalismo fiscale. È il mantra elettorale della Lega Nord, benedetta nelle urne da un consenso record. Ma cos’è, davvero, il federalismo fiscale del Carroccio? Roberto Maroni, probabile prossimo ministro di qualcosa, in un comizio in Veneto l’aveva riassunto così: «Per 10 anni il 90 per cento delle tasse restano sul territorio, poi ci accontenteremo del 50». Posizione un po’ fortina, che però non è quella del Pdl. «Nel programma di coalizione è stata inserita la legge sul federalismo fiscale approvata dal consiglio regionale della Lombardia e per noi si tratta di un grosso passo in avanti», ci spiega Daniele Molgora, deputato leghista, esperto della materia e già sottosegretario all’Economia nel vecchio governo Berlusconi. «Quel testo prevede che alla regione restino il 15 per cento delle entrate Irpef e l’80 di quelle Iva: così facendo il Piemonte, per esempio, avrebbe 3 miliardi di euro in più all’anno, la Lombardia invece 10». Problemi, secondo Daniele Molgora, non dovrebbero essercene: «A Milano hanno detto sì non solo i partiti del centrodestra, ma anche Ds e Margherita. Votò contro solo la sinistra radicale, che però in Parlamento non c’è…».

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Questo, nella testa dei leghisti, è soltanto «il primo passaggio: noi aspiriamo a essere come il Trentino o la Sicilia», spiega ancora l’ex sottosegretario, «Non è che vogliamo che le Regioni a statuto speciale tornino indietro: vogliamo raggiungerle. D’altronde sono passati sessant’anni e molti aspetti della Costituzione sono annacquati». Un pragmatico federalismo delle Regioni, dunque, che sfrutta le aperture già introdotte nella Carta con buona pace delle macroregioni, o euroregioni, di cui ancora si discute nel Parlamento del Nord. «Intanto va fatto partire il federalismo», aggiunge Molgora, «Poi io penso che, come è accaduto in Spagna, si procederà su quella via in modo naturale. Non dimentichiamoci che il Paese, all’inizio degli anni Novanta, ha avuto una spinta notevolissima dall’affermarsi del federalismo. È normale: lo Stato costa meno e funziona meglio». Anche in Italia c’è chi assicura che sarà così: secondo uno studio di Unioncamere Veneto, il federalismo fiscale consentirebbe risparmi per 26 miliardi di euro «e cioè una bella Finanziaria”, chiosa il lumbard. La prospettiva di di lungo periodo, ovviamente, è spostare da Roma alla periferia non solo i fondi,

ma anche molte competenze. Ancora Molgora: «Penso soprattutto ai fondi per le infrastrutture e alla sicurezza, con la polizia regionale e risorse ai comuni per il controllo del territorio. E già che ci siamo anche la responsabilità delle strutture ospedaliere: al Nord il servizio è buono, ma le mura, diciamo così, sono vetuste. Io poi sono per spingere al massimo: vorrei anche la previdenza regionale, come accade già in Trentino Alto Adige».

Ci sono però regioni più povere. E l’idea di sussidiarietà della Lega è molto semplice: si decide quanto costa, poniamo, la sanità in quel territorio e, se la Regione sfora, si paga da sola la differenza con la leva fiscale o tagliando altri servizi. «Lo spreco», dice Molgora, «non deve più essere finanziato. Cito ancora la Spagna: lì il meccanismo di ripartizione di fondi per le regioni più deboli è trasparente e ognuno sa quali sono le sue

Si guarda agli statuti speciali di Sicilia e Trentino Alto Adige disponibilità. Il problema del nostro Sud non è la quantità dei soldi che arrivano, che spesso sono pure troppi, ma il modo in cui si spendono». Insomma, federalismo fiscale e subito. Anche perché Calderoli ha già fatto sapere che altrimenti, alla marcia sul Po del 15 giugno, la Lega farà sentire i suoi tamburi: «Mica possiamo aspettare altri sessant’anni. Noi siamo al governo per questo, senno ci iscrivevamo alla bocciofila…».

Come il Pdl riscriverà gli assetti fiscali del Paese

L’Erario passa alle macroregioni di Filippo Poletti

mberto Bossi, alla sua prima uscita romana accanto a Silvio Berlusconi, è stato chiaro: «Dobbiamo fare assolutamente le riforme, la gente ci ha votato per questo». Il Senatùr – prima di essere nominato ministro delle Riforme – spinge l’acceleratore sul cambiamento: dalla sua può contare su 25 senatori e su 60 deputati, un vero e proprio esercito per realizzare ciò che il governo Prodi non ha fatto. «Il mancato accordo in sede politica», si legge nel rapporto conclusivo sull’attuazione del programma di governo Prodi, «non ha consentito di portare a positiva conclusione il lavoro avviato dal ministro per i Rapporti con il Parlamento e le riforme istituzionali». L’esecutivo uscente, infatti, non ha saputo fare altro che approvare un disegno di legge delega per individuare e attribuire le funzioni amministrative che spet-

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non è – come il centrosinistra ha voluto far credere – il fatto che i Comuni svolgano direttamente, anche in forma associata o tramite le comunità montane, le funzioni catastali loro attribuite. Oppure, ancora, che dall’1 gennaio 2007 i Comuni possano deliberare un’imposta di scopo per la parziale copertura delle spese per realizzare opere pubbliche individuate con regolamento. Oppure, per finire, il fatto che sia stata istituita, a favore dei Comuni, una compartecipazione dello 0,69 per cento al gettito Irpef con corrispondente riduzione annua, di pari importo, dei trasferimenti del fondo ordinario. Ha scritto bene, nel suo ultimo libro, La paura e la speranza, Giulio Tremonti: ciò che animano gli italiani sono «valori, identità, famiglia, autorità, ordine, responsabilità, federalismo». Per realizzare questi obiettivi e ristabilire questi valori occorre una visione e un progetto. «La politica», scrive il prossimo ministro dell’Economia, «ha due doveri: capire il presente, prevedendo il futuro; agire localmente, ma pensare globalmente». La sinistra in Italia ha dimostrato di non essere attrezzata per questi compiti immani.

Da cosa partire, allora? Il programma elettorale del Carroccio è scritto nero su bianco ed è stato distribuito a tutti i cittadini del Nord: si legge che bisogna dare vita a uno Stato federale articolato in tre macroregioni rappresentate da un Senato federale. Queste tre macroregioni avranno, rispetto al passato, sovranità in termini di potere legislativo, amministrativo e giudiziario. E in quanto al fisco? Le regioni padane – dice Bossi – devono avere a disposizione il 90 per cento del gettito fiscale del proprio territorio per i primi 10 anni, poi a regime il 50. E ancora: la riscossione delle tasse spetta alle Regioni e non più alla tesoreria unica. C’è poco da dire da aggiungere. Resta solo da rimboccarsi le maniche nel segno di quanto chiesto dal presidente della regione Lombardia, l’azzurro Roberto Formigoni, anche lui in procinto di lasciare il Pirellone per un incarico romano. «Lo sviluppo futuro del Paese», spiega il governatore, «dipenderà dalla riforma dello Stato. L’ammodernamento dello Stato, attraverso la sua semplificazione e la sua maggiore efficienza è un obiettivo prioritario così come la realizzazione di un vero federalismo fiscale che imponga, a ogni Regione, il principio della responsabilità, rendendo trasparente per i cittadini la relazione tra prelievo fiscale e spesa pubblica».

Tre grandi organismi che riscuoteranno in proprio le imposte tano a Comuni, Province e Città, metropolitane, Regioni e Stato, per adeguare l’ordinamento degli enti locali, per disciplinare il regime giuridico di Roma capitale e per regolare le procedure di istituzione delle Città metropolitane.

In sintesi, l’ex governo ha prodotto molta carta e zero fatti, passando per federalismo l’assegnazione a Roma capitale di un gruzzolo a vita. Berlusconi, Bossi e Fini devono, dunque, ripartire da capo. Perché federalismo fiscale


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Dalla difesa di Malpensa ai dazi: l’anima protezionista del Carroccio

MERCATO GLOBALE

Ma Bossi Crescita italiana lo vuole e pregiudizi inglesi il federalismo fiscale? I di Gianfranco Polillo

di Carlo Lottieri e condizioni ci sarebbero. Dal voto è uscita una maggioranza di centrodestra assai ampia, basata su due soli gruppi parlamentari e quindi in condizione di agire speditamente, senza le mediazioni estenuanti che in passato facevano arenare ogni progetto. Per questo motivo e poiché dispone dei voti decisivi, la Lega ora potrebbe ottenere da Silvio Berlusconi quello che da sempre è il suo obiettivo politico primario: un federalismo fiscale ricercato attraverso mille e tortuose strade – la minaccia della secessione, la riforma costituzionale o l’amministrazione degli enti locali – e in grado di localizzare la tassazione, ridurre la redistribuzione, mettere in concorrenza i territori, obbligare le amministrazioni di Comuni e Regioni a commisurare le uscite alle entrate.

L

Oltre a questo, da quasi un ventennio l’Italia sta facendo i conti con enti locali che – anche grazie al sistema elettorale – stanno imparando a funzionare un po’ meglio: come attesta l’alta percentuale di sindaci confermati. Mentre alle politiche è dal 1994 che i poli si alternano, poiché scontentano a ripetizione gli elettori, lo stesso non avviene a livello locale. Ultimo (ma non certo insignificante) punto, i conti pubblici sono tali che è indispensabile trovare il modo per costringere gli amministratori a limitare le loro pretese e ridurre il prelievo. Come ha giustamente rilevato Renato Brunetta, ora è giunto il momento di «promettere lacrime e sangue» al fine di rilanciare la crescita. In questo senso, avviare un processo di riforma in senso davvero federale innescherebbe senza dubbio un processo complessivamente positivo sul piano dei conti dello Stato. Ma la questione, in realtà, è tutta politica e diversamente da quanto si potrebbe credere le opposizioni non provengono solo e in primo luogo dal Sud, ma da altre parti. Con questo non si vuole sottostimare la resistenza che verrà espressa da ampi settori di An e Forza Italia, oltre che da uno dei nuovi protagonisti della scena politica: quel Raffaele Lombardo che ora è governatore della Sicilia e che difficilmente sarà disposto a tradurre una generica richiesta di autonomia (accompagnata da maggiori risorse a disposizione) in una più concreta responsabilizzazione fiscale e di bilancio.Tutti questi sono ostacoli reali, ma probabilmente non insormontabili. Esisterebbe lo spazio per una mediazione che introduca una fase transitoria (a protezione del Mezzogiorno) in grado di traghettare verso un sistema federale, e per giunta nel Sud sta pure crescendo una maggiore consapevolezza dei guasti causati dagli aiuti pubblici e della necessità di fare spazio a logiche imprenditoriale: come le regioni meridionali potrebbero fare se potessero adottare livelli di tassazione molto bassa, attraendo in tal modo investimenti. In altri termini, oggi il Sud è orientato a contrastare ogni progetto di riforma federale, ma meno che in passato. Senza contare che la Lega dispone dei senatori decisivi e

può quindi pretendere questa riforma come prezzo della sua lealtà verso il governo. L’autentica questione – tutta aperta – è se però Bossi e i suoi sono ancora davvero interessati a ottenere una trasformazione radicale della struttura fiscale dello Stato. Si ha talora la sensazione, infatti, che il contrasto dell’immigrazione selvaggia o la lotta contro i campi nomadi siano oggi temi forse più decisivi dello stesso progetto istituzionale. Questo non è sicuramente vero per gli elettori, che scelgono la Lega essenzialmente per tenere i soldi nei loro territori (secondo il vecchio slogan, “padroni a casa nostrane), ma non è più detto che lo stesso valga anche per la dirigenza. Mentre a metà anni Novanta nella propaganda leghista la parola “federalismo” era il farmaco in grado di guarire ogni malattia, adesso molti sembrano ritenere che talora possa essere meglio offrire risposte più limitate, ma meglio identificabili. Anche quando gioca il suo ruolo di partito del Nord, non di rado il movimento leghista preferisce imboccare la strada della“protezione”e non già della“competizione”. Difendere l’inefficienza cronica di Malpensa (un aeroporto gestito in maniera assai discutibile da amministratori nominati dal Comune milanese) o avversare l’interscambio internazionale chiedendo dazi e protezioni sono strategie che dimostrano come il populismo piccolo-borghese leghista, spesso connesso ai temi della sicurezza e dell’immigrazione, abbia indotto il partito di Bossi a guardare non già alla parte più produttiva del Nord, ma invece a quella che chiede aiuto e assistenza. In questo quadro, non è detto che il federalismo fiscale possa essere anteposto all’elargizione ai aiuti al Nord: e per distribuire benefici e prebende, in fondo, la riforma del titolo quinto della Costituzione realizzata dal centro-sinistra basta e avanza.

In questo senso è significativo come negli scorsi anni la Lega si sia molto battuta per includere alcune aree depresse settentrionali tra quelle destinatarie delle attenzioni di Sviluppo Italia, moderna reincarnazione della vecchia Cassa del Mezzogiorno: tutto ciò mentre si stemperavano le note polemiche verso il Sud e i meridionali. In tal modo, però, si rischia che la Lega smetta di essere “nemica”del Mezzogiorno in nome dei ceti produttivi solo per diventare sempre più “amica”del Sud (e delle logiche tradizionali del vecchio assistenzialismo) in nome dei ceti improduttivi.Per Bossi e i suoi, a ogni modo, si tratta di un appuntamento con la storia. E la speranza è che il federalismo, finalmente, esca dalla retorica e cominci a fare i suoi primi passi: come negli anni passati è accaduto in Belgio o in Spagna, e come invece non è accaduto da noi. Con l’amico Giulio Tremonti ministro dell’Economia e uomo forte della nuova maggioranza, oggi Bossi può pure contare sull’uomo al posto giusto, ed è nelle migliori condizioni per forzare la mano. Speriamo ne abbia la voglia e la determinazione.

l viso di Silvio Berlusconi, con un sorriso beffardo stampato sulla faccia, campeggia dalla copertina dell’ultimo numero dell’Economist. In alto un titolo irriverente: «Mamma mia, sono ancora qui». All’interno il primo editoriale spiega perché «gli italiani potrebbero pentirsi di aver eletto ancora una volta Silvio Berlusconi». Quindi un lungo reportage sulle elezioni italiane: «L’Italia abbraccia Silvio, ancora e ancora». Titoli che sono un programma e ribadiscono un antico pregiudizio. Del resto, per non lasciare adito a dubbi, è lo stesso settimanale che ci ricorda passati interventi in cui lo stesso Berlusconi «fu giudicato inadatto a esercitare le funzioni di primo ministro». “Unfit”era e “unfit”è rimasto.

Nessuna tregua quindi. Nonostante il tono nuovo della campagna elettorale appena conclusa e gli sforzi di Walter Veltroni per far dimenticare gli antichi veleni. Quando a confrontarsi non erano due avversari politici, ma due nemici alla testa dei rispettivi eserciti. L’Economist – spiace dirlo – non coglie queste novità. Prevale, invece, uno spirito di parte che nasconde un’antipatia antica contro il parvenu Berlusconi, mai accolto nel tempio dell’establishment inglese. Non sorprende, pertanto, il florilegio delle accuse. La sua «presa sui media italiani»: attraverso «l’impero di Mediaset controlla la maggior parte della delle televisioni private». Diverrà totale, una volta divenuto presidente del Consiglio. Colpa anche del centrosinistra, che in due anni di governo non è riuscito a varare norme adeguate per risolvere il conflitto di interesse. Poi le accuse per il “guazzabuglio” in tema di politica giudiziaria. Quel tentativo, continuamente reiterato, di

farsi leggi su misura, per impedire ai giudici di fare il loro dovere nei casi in cui era coinvolto. Quindi le oscure vicende collegate con la mafia. Insomma, quel vecchio repertorio che induce ad un giudizio senza appello: «Vi sono buone ragioni per argomentare che Silvio Berlusconi non dovrebbe guidare il suo Paese». Che, invece, abbia conquistato, nel più assoluto rispetto delle regole democratiche, una maggioranza così vasta è questione che non sembra interessare l’autorevole settimanale inglese. Ma tuttavia, all’interno, è costretto ad ammettere: «I risultati elettorali offrono all’Italia la prospettiva di una stabilità politica per i prossimi cinque anni e, forse, oltre». Queste evidenti contraddizioni dimostrano la scarsa serenità del giudizio. Se non ci si fosse lasciati prendere dalla mano, la stessa critica sarebbe risultata più efficace. Su un punto l’Economist ha ragione da vendere: la crisi italiana. Un ristagno che dura da tempo. «A metà degli anni ’90 il Pil italiano per abitante, a parità di potere d’acquisto, era del 20 per cento superiore alla media dei 27 paesi che compongono la Ue. L’Italia era più ricca dell’Inghilterra e della Francia e seconda solo alla Germania». Dal 1996, invece, è «crollata, per la prima volta, al di sotto» della soglia europea. Diagnosi esatta, tutt’altro che scontata.

In piena campagna elettorale, l’Ocse pubblicò raffronti diversi. La tesi di fondo era che durante gli anni 20012005 – quelli del governo Berlusconi – l’economia italiana aveva fatto registrare la peggiore performance europea. L’Economist ci dice, invece, che la crisi italiana dura, purtroppo, da un periodo ancora più lungo. Ne siamo contenti per Silvio Berlusconi. Un po’ meno per le sorti del nostro Paese.


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economia

Come dimostra l’esperienza francese, non sempre questo strumento garantisce sgravi fiscali sostanziosi

Quoziente familiare,il risultato non torna di Carlo Lottieri uella del quoziente familiare è una proposta di cui si parla da tempo. L’obiettivo (certamente valido) dei suoi fautori – tra cui Silvio Berlusconi – è quello di aiutare e valorizzare la famiglia. La quale è un’istituzione cruciale, chiamata a una funzione primaria: un welfare spontaneo e insostituibile in vari ambiti (dalla cura dei bambini a quella degli anziani). C’è, però, da chiedersi se quello del quoziente, in virtù del quale la tassazione è definita in base al numero dei componenti, sia lo strumento migliore per raggiungere tale scopo. Se sia in grado di aiutare davvero i nuclei familiari.

Q

C’è, poi, da domandarsi se sia una soluzione compatibile con i principi di un ordine giuridico liberale o se non vi siano altre e più importanti questioni da affrontare per aiutare queste comunità volontarie. Sul primo versante, sembra ormai chiaro che ciò che aiuta le famiglie a costituirsi e a rafforzarsi nel tempo è innanzi tutto una bassa tassazione. Se si vuole andare incontro alle esi-

genze di tutti, è bene che si aggredisca la spesa pubblica e si diminuisca la quota di denaro sottratto alla società. È la crescita spropositata conosciuta dal welfare di Stato che ha progressivamente tolto terreno al welfare privato e familiare. Lasciamo il denaro nelle mani di chi l’ha prodotto e potremo rapidamente constatare che sarà più facile sposarsi e metter su casa. Come hanno rilevato Carmelo Palma e Piercamillo Falasca in una loro analisi sul tema apparsa sul sito Epistemes.org, nel 2003 il vantaggio fiscale di una famiglia monoreddito con

delle imposte: per chi ha trovato moglie o marito come per chi la sta ancora cercando oppure pensa ad altro. È anche opinabile che incentivare le famiglie a contare su un solo reddito (difendendo una tradizione italiana che vede il persistere di un gran numero di mogli casalinghe) aiuti le famiglie nel loro insieme.

Per di più, è discutibile che lo Stato debba entrare in simili questioni, favorendo alcuni (le coppie sposate e con figli) a danno di altri. In una società liberale l’autorità pubblica non dovrebbe

norme che tolgono ad alcuni per dare ad altri. Non bisogna neppure tralasciare che scendere sul terreno della promozione statale della famiglia (a partire da quella costituita da un uomo e da una donna sposati) obbliga subito a confrontarsi con questioni spinosissime. Che fare, infatti, di fronte ad altre forme di convivenza? È forse possibile discriminare le coppie di fatto e i loro figli, o anche le coppie composte da omosessuali? Sarebbe però davvero ironico che norme introdotte per incentivare la famiglia che più sta a cuore al mondo cattolico

Tra i suoi fautori anche Silvio Berlusconi, che vuole introdurlo in Italia. Ma secondo gli esperti sarebbe più utile tagliare le tasse sui redditi e lanciare provvedimenti ad hoc per incentivare l’assistenza garantita a livello parentale due figli rispetto a un single senza figli era del 14 per cento nel Regno Unito (dove non c’è il quoziente) e soltanto del 12 in Francia (dove invece c’è). Il problema allora non è tanto il quoziente, che rischia di essere soltanto una bandiera ideologica, quanto semmai la riduzione

trattare meglio chi ha avuto la fortuna di innamorarsi e costituire una famiglia, penalizzando chi non ha avuto questa opportunità. L’orientamento moralistico che vede nei single solo la manifestazione di un egoismo edonista non può rappresentare la base ideologica di

finiscano per promuovere anche altre forme di unioni. E anche in questo caso viene da chiedersi perché chi vive da solo dovrebbe sostenere coi propri soldi la promozione di culture e pratiche che magari sono del tutto in contrasto con i suoi principi.

Per giunta, se è sicuramente vero che la debolezza delle famiglie è anche un problema di risorse (è per questo che bisogna tagliare le imposte), è egualmente chiaro che i nodi maggiori sono altri. Le famiglie avranno di fronte a loro un futuro migliore se crescerà la consapevolezza che lo Stato non può sottrarre spazio e autonomia alle comunità volontarie.

Avere statizzato il sistema educativo, per esempio, ha inferto un colpo molto grave alle famiglie, che tendono a guardare agli istituti scolastici come a semplici parcheggi. E che spesso non si fanno carico di sapere davvero chi sono le persone che formano i loro figli, cosa insegnano, secondo quali principi e all’interno di quale visione del mondo. Questa famiglia svuotata e deresponsabilizzata ha certamente bisogno di qualche soldo in più, ma è più importante che riscopra a livello generale (e non retoricamente) il suo ruolo: un’istituzione che potrà tornare a fiorire, soltanto se avremo meno Stato .


economia

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Il governo federale si appresta a ribassare le stime (+1,2 per cento) per il 2009. Pessimisti gli imprenditori

Inflazione e salari rallentano la Germania d i a r i o

di Alessandro Alviani

d e l

g i o r n o

BERLINO. La locomotiva tedesca si

Bernheim: Generali? Un affare italiano

prepara a rallentare la sua corsa nei prossimi mesi. E se, da un lato, il timore di una recessione nella prima economia di Eurolandia sembra al momento infondato, dall’altro sempre più nubi si addensano all’orizzonte. A confermarlo sono i segnali giunti in questi giorni da Berlino. L’ultimo arriva direttamente dal governo federale. Stando ai quotidiani Faz e Handelsblatt, il ministro dell’Economia, Michael Glos, presenterà giovedì una stima di crescita per il 2009 di appena l’1,2 per cento, dopo l’1,7 di quest’anno. Una previsione più cauta di altre, ma che coincide, nella sostanza, con quanto segnalato da diversi esperti. La scorsa settimana i maggiori istituti di ricerca hanno tagliato le loro previsioni per il 2008 dal 2,2 all’1,8 per cento, sottolineando però che l’economia sia diventata più robusta rispetto al passato.

Per Antoine Bernheim, presidente delle Generali, il Leone deve rimanere «un affare italiano ed essere portabandiera dell’economia italiana in Europa e nel mondo». In un’intervista al quotidiano Le Tribune, e a 4 giorni dall’assemblea, ha dichiarato: «Pongo una quota di circa il 35 del capitale di Generali in mani italiane come un punto di sicurezza». Il manager si è detto pronto ad abbandonare la vicepresidenza di Mediobanca e ha replicato alle critiche del fondo Algebris: «La nostra governance funziona esattamente come un direttorio».

Enel valuta cessione della rete gas L’amministratore delegato dell’Enel, Fulvio Conti, ha annunciato che il gruppo sta valutando la cessione la cessione delle reti di distribuzione del gas, tra le quali quella acquisita nel 2002 dalla Camuzzi. Trattative in corso sarebbero state aperte con Terna. «Al momento», ha spiegato, «è però una delle ipotesi per la riduzione del debito, ne valutiamo anche altre». Il manager ha annunciato che la russa Gazprom sta studiando l’ingresso in una serie di impianti di generazione Enel, pronta a investire fino a 250 milioni di dollari.

Energia, Clessidra entra in Gwh

Poco prima l’indice Zew aveva rivelato che gli investitori guardano con preoccupazione al futuro. A pesare sulla fiducia, accanto alla crescita dell’euro e del petrolio, è l’elevata inflazione, che a marzo ha superato in Germania per la prima volta quest’anno la soglia del 3 per cento. Un dato che spinge a riconsiderare la premessa, condivisa nei mesi scorsi dai principali esperti, secondo cui nel 2008 i consumi avrebbero sostituito il commercio con l’estero come motore della crescita (le stime indicano infatti un rallentamento dell’export). Finora il balzo è rimasto sulla carta: non a caso l’istituto GfK ha tagliato le sue stime sull’evoluzione dei consumi privati per il 2008. Su questo fronte si attendono comunque miglioramenti, grazie soprattutto ai sensibili incrementi in busta paga decisi nelle scorse settimane, dopo anni di moderazione salariale. Prima l’accordo nel settore metallurgico, poi quello per ferrovieri e statali, infine i chimici; la minaccia di uno sciopero a oltranza dei dipendenti di Deutsche Post da inizio maggio lascia pensare a un forte incremento salariale anche nelle poste. Secondo i maggiori istituti economici saranno proprio questi aumenti, uniti a un calo dell’inflazione, a consentire una ripresa dei consumi entro fine anno. Con buona pace della Bce e dell’Ocse, che continuano a lanciare moniti alle parti per evitare l’insorgere di una spirale prezzi-salari. Come ripete da tempo Bert Rürup, capo del consiglio economico dei

Lo stesso sistema bancario, con le dovute eccezioni, sembra aver retto bene, nel complesso, alle turbolenze finanziarie internazionali. Secondo l’istituto Ifo, gli istituti sono più caute nella concessione di crediti alle imprese, ma tale evoluzione appare più moderata di quanto si poteva temere alla luce della situazione dei mercati finanziari e il rischio di un “credit crunch” (cioè di una stretta del credito), che al momento non esiste.

Nella Grosse koalition cresce il fronte della spesa facile. La speranza è far ripartire a breve la domanda interna “cinque saggi”, non bisogna comunque eccedere negli allarmismi. Di fronte a un quadro mondiale denso di incognite, l’economia tedesca è riuscita pur sempre a partire con slancio nel 2008. I dati sull’occupazione continuano a essere positivi: il numero dei senza lavoro dovrebbe continuare a calare, attestandosi sui 3,2 milioni nel 2008 e scendendo nel 2009, per la prima volta dal 1991, sotto la soglia dei 3 milioni.

Decisive, in ogni caso, saranno le risposte che saprà dare la Grande coalizione sul piano politico. Se, da un lato, gli esperti chiedono al governo di Angela Merkel di non allentare la spinta riformistica e di continuare sulla strada del consolidamento del bilancio, dall’altro i segnali sembrano andare in direzione contraria. Prima un aumento straordinario delle pensioni che costerà miliardi, poi lo scontro tra il ministro delle Finanze, Peer Steinbrück, e quattro colleghi di governo, colpevoli di aver presentato eccessive richieste di spesa per la prossima Finanziaria. Sullo sfondo resta la questione dei tassi. Anche se non mancano le pressioni a favore di un loro taglio, per esempio da parte della confederazione sindacale DGB, il governo Merkel sostiene la decisione della Bce di mantenerli invariati.

Il fondo di private equity italiano Clessidra Clessidra entra, con il 30 per cento, nel capitale di Global Wood Holding (Gwh), società attiva nella produzione di energia da fonti rinnovabili. Presidente saràil vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, mentre amministratore delegato sarà Enrico Casini, ex BT e Aeroporti di Roma. Gwh è impegnata nella realizzazione della più grande centrale elettrica a biomasse del mondo, che sarà costruita in Galles.

Montezemolo: dialogo con i sindacati Luca Cordero di Montezemolo chiarisce il suo pensiero sul sindacato, anche se non retrocede di un passo: «Dire che il sindacato ha esercitato un potere di veto, che ha cercato di frenare la flessibilità, che non ha condiviso il criterio del merito, è un dato di fatto». Il presidente uscente di Confindustria, però, ha precisato il suo pensiero dei giorni scorsi: «Sono a favore del dialogo e dello spirito di squadra. E sono e resto convinto che abbiamo bisogno di un sindacato forte, moderno, attento a interpretare gli interessi dei lavoratori, che coincidono con gli interessi degli imprenditori».

Federmeccanica, l’ora di Ceccardi Oggi la presidenza di Federmeccanica nominerà a Milano Pierluigi Ceccardi alla guida dell’associazione. Ceccardi sostituirà Massimo Calearo, eletto alla Camera nelle liste del Partito democratico in Veneto. Fondatore e presidente del gruppo Raccorderie metalliche e numero uno del fondo Cometa, entrerà in carica ufficialmente dopo l’assemblea del 16 maggio. Primo banco di prova l’applicazione di un contratto molto contestato e che, nella parte economica, sarà rinnovato a dicembre 2009.

È scomparso Giuliano Gennaio È scomparso domenica scorsa a Roma Giuliano Gennaio. Aveva 29 anni ed era una delle menti più lucide del panorama liberale italiano. Negli ultimi anni si era segnalato per la fondazione del sito Liberal Café, tra le piattaforme più interessanti di dibattito politico, e come animatore del premio ”Liberale dell’anno”. Strettissimo collaboratore di Enrico Cisnetto nel movimento Società aperta, aveva contribuito alla fondazione dell’associazione giovanile del movimento. Gli amici di liberal sono vicini alla sua famiglia e a Roberta.


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cultura

Il mistero dei Templari: realtà storica e romanzo si fondono nell’ultimo libro di Jacques Boulenger

Tutta la verità su Mago Merlino di Mario Bernardi Guardi l Mago Merlino? Figlio del Nemico e di un’innocente pulzella sedotta nei meandri di un incubo notturno, aveva ricevuto dal padre sovranità sui fenomeni naturali e prodigiose qualità profetiche, e dalla madre una convinta inclinazione al bene. Al punto da operare in nome del Salvatore, come maestro del giovinetto Artù, impavido “rex futurus”. Nonché destinato a promuovere la cerca della Sacra Coppa, così cristiana, così celtica, con l’apporto dei valorosi Cavalieri della Tavola Rotonda, in quel vasto e variegato “immaginario” che fonda la Leggenda del Graal: da secoli un camminamento iniziatico, una “esperienza” spirituale e un fortunatissimo “mito” letterario. Ed è così che lo ritroviamo, vivo e ricco di umori e colori, nella rielaborazione/ sistemazione che ne fa Jacques Boulenger, studioso della materia di Bretagna, in questo agile volumetto (“Il romanzo di Merlino”, Sellerio, pp.225, euro 11). Da collocarsi accanto al prezioso Meridiano, a cura di Mariantonia Liborio e di Francesco Zambon, pubblicato tre anni fa nella collana “Classici dello Spirito”: “Il Graal. I testi che hanno fondato la leg(Mondadori, genda” pp.1770). Ed è una leggenda tanto fascinosa e ammaliante che non le opponi resistenza e ti abbandoni alle sue suggestioni, trasformandoti, quasi per un “giuoco di ruolo”, nel cavaliere del Dürer, vagante per i boschi da un’avventura all’altra, con la Morte e il Diavolo che gli fanno la corte.

I

La Cavalleria, il Graal, i Templari. Come dire, il lontano e il profondo. Memorie ancestrali, archetipi immemoriali. Abbondante seminagione dell’Immaginario. Il sogno/ bisogno del Medioevo. Con la segreta “intuizione” che, sì, i documenti storici sono importanti, ma se “vai” per miti e simboli, meglio puoi cogliere segni, sensi, significati. Per carità, lungi da noi la tentazione di vedere nei Cavalieri del Tempio un ordine di credenti e di combattenti che, cavalcando da un

secolo all’altro, affida a insospettabili “testimoni” un vasto patrimonio di conoscenze iniziatiche più o meno odorose di zolfo. Ma è innegabile che il mistero dei “Milites” fregiati dall’”imprimatur” di Bernardo da Chiaravalle non lo risolvi solo con date e dati. E se è vero che non è tutto Graal quel che luccica, e che bisogna diffidare degli “effetti speciali” alla Dan Brown, ivi comprese tante fulgenti patacche gabellate per “oro filosofale”, è pur vero che, immergendoti nella materia di Bretagna, rischi di affogare, se non entri in “corrispondenza

entrambi da rispettare, e insieme. E lo stesso vale per i Templari. Così maliosi, e misteriosi, e tragici. Comunque, inquietanti. Oscuramente si coglie che l’orizzonte della storia “da manuale” è troppo ristretto per quei cavalieri “belli” e forse un po’ “dannati”. E che in fondo l’accusa di irrazionalità lanciata contro chi sfida tempestosi pelaghi vale spesso a liquidare approcci all’argomento accademicamente “scorretti”.

Non abbiamo nulla, intendiamoci, contro i seriosi cattedratici cha pazientemente sca-

anzi, a chi suda sette camicie per ricostruire un pezzetto di storia. Lo scorso ottobre, per esempio, in Vaticano è stato presentato, frutto di laboriose ricerche di archivio, il “Processus contra Templarios”, una nuova ed esclusiva edizione critica (799 esemplari numerati, ciascuno al prezzo di 5.900 euro) degli atti dell’inchiesta pontificia sui cavalieri del Tempio, promossa nel 1308 da Clemente V. Un’inchiesta che non “condanna”, ma “sospende”, a dispetto delle pretese di quel Filippo il Bello di Francia, che cupidamente guarda al te-

La Cavalleria, il Graal, il lontano e il profondo, memorie ancestrali, archetipi immemoriali. Miti e simboli del Medioevo che, in tutte le loro varianti, sono sopravvissuti fino ai giorni nostri d’amorosi sensi” con il Poetico, l’Extravagante, l’Assurdo, il Paradossale, il Favoloso, il Numinoso. “Realtà romanzesca”? Proprio così. Anzi, realtà e romanzo:

vano, compulsano, ricostruiscono. Tanto di cappello,

soro dell’Ordine. Solo che il Papa non può dare scacco al Re: ne seguirebbe uno scisma. E il re, così, può accendere i suoi roghi. La storia, ancorché “bignamizzata” (ne chiediamo venia al lettore) è questa. Ma c’è anche un’”aura” magica che avvolge i Templari. Legittimamente, illegittimamente? Senza timore di essere additati al pubblico ludibrio, si può timidamente porre la domanda: i Templari hanno qualcosa a che fare con il Graal? Un’altra: il Graal è “qualcosa”? Idea, immagine, sostanza concreta? Ancora: al di là del GrandGraal-Guignol esoterico-massmediatico, con le Marie Maddalene spose e madri regali e protofemministe, i sacri calici sapientemente occultati nelle tele vinciane e nei cuori architettonici post-moderni, i ferrei miliziani dell’Opus Dei che scannano a maggior gloria dell’Indicibile, c’è , sì o no, un “templarismo”che, scandaloso o ridicolo che sia, vive e lotta con, contro accanto a noi? E magari coltiva qualche ipotesi di lavoro, qualche progettino futuribile, girovagando dai massimi ai minimi sistemi? Se c’è, diamogli un’occhiata. Ad esempio, leggendo “La Tradizione Templare” di Franco Cardini (Vallecchi,2007). Dove troverete un nitido profilo dell’Ordine,con tante colorite curiosità sul “templarismo” nelle sue varianti gnostiche, massoniche,ermetiche, rosicruciane, variamente cospiratorie e vagamente iettatorie. Templari ricorrenti e incombenti,dal Medioevo ai giorni nostri. Mistificatori, eccome, pazzi,eppure… Realtà romanzesca? Meditate, gente, meditate…


musica

22 aprile 2008 • pagina 19

Giovanni Allevi (qui a sinistra), Sergio Cammariere (sotto) e Mario Biondi (in basso) sono considerati dalla critica dei veri e propri outsider, battitori liberi emersi dal mercato ufficiale della musica, in crisi, grazie a qualità come stile, misura, personalità non strandardizzata

a crisi di Sanremo, delle canzonette, del mercato musicale ha questo di buono: crea spazi, interstizi, nicchie in cui si infilano gli outsider. Quelli che solo cinque o sei anni fa nessuno si sarebbe sognato di vedere in cima alle classifiche dei dischi più venduti, meno che mai esibirsi in teatri da tutto esaurito. Spuntano dove meno te lo aspetti, agli incroci del pop con il soul, il jazz e la musica classica, territori mai o raramente presidiati dalla discografia nostrana: i loro nomi sono Mario Biondi, Giovanni Allevi, Sergio Cammariere. Nessuno di loro è giovanissimo, bello, ammiccante, “televisivo”. Alla faccia delle regole auree di certo music business e dei talent show modello Amici, Pop Idol e X Factor.

L

Biondi, un catanese di 37 anni con la testa lucida alla Isaac Hayes e il vocione di Barry White, è un figlio d’arte che dopo anni di gavetta nei bar e nelle discoteche ha conquistato un posto al sole con un soul patinato e spruzzato di acid jazz, swingante e danzabile, elegante e perfetto per un cocktail o un happy hour. Fa il crooner impeccabile cantando in inglese e rendendo omaggio a icone trasversali, il Bacharach di Close To You, il Billy Joel di Just The Way You Are, la tradizione nera di Lou Rawls e Bill Withers, di Donny Hathaway e di Ray Charles, a cui ha avuto anche l’onore di aprire un concerto. Grazie soprattutto all’ubiquo hit This Is What You Are, lanciato anche in Inghilterra da un dj di Bbc1, il suo album Handful Of Soul ha venduto più di 160 mila copie, un’enormità per un disco pubblicato da una piccola etichetta indipendente, Schema Records, e promosso soprattutto attraverso i concerti e il passaparola tra i fan. Dal vivo si è fatto accompagnare ultimamente

Biondi, Allevi, Cammariere: tre esempi, tutti italiani, del successo fuori dagli schemi

Tre outsider al top delle classifiche di Alfredo Marziano da una scintillante orchestra di 25 elementi, protagonista accanto a lui del doppio live I Love You More registrato l’anno scorso al Teatro Smeraldo di Milano e altra presenza costante nelle paludose charts nostrane. La cartina di tornasole della sua crescente popolarità sono lo spassoso imitatore spuntato al Mai dire martedì della Gialappa’s Band e la chiamata della Disney per rivisitare le canzoni degli Aristogatti nella nuova versione restaurata in dvd. E’ nata una stella, si direbbe, e arriva il momento di pensare in grande: «Ho dei contatti con

valutando un tour all’estero, America compresa».

Come lui, il pianista Allevi (39enne di Ascoli Piceno) è inseguito dai pubblicitari, spesso più attenti e rapidi dei discografici nell’annusare i venti che cambiano. Quando presenta dal vivo la sua Come sei veramente, voluta da Spike Lee per un fortunato spot televisivo della Bmw, quest’ultimo confessa di «averla composta pensando all’amore, mentre adesso ogni volta che la suono mi vedo passare davanti una macchina». Laureato in filosofia, diplomato in pianoforte al Morlacchi di Perugia e in composizione al Verdi di Milano, lui non ha bisogno di imitatori. E’ buffo e pittoresco di suo, un alieno arruffato e sognatore che vive con La musica in testa (titolo di un libro autobiografico uscito a marzo per Rizzoli) e che per coltivare la sua passione non ha neppure bisogno di tenersi in casa lo strumento prediletto. Piace a chi cerca momenti contemplativi in una musica strumentale sospesa tra neo classico e pop, a chi trova troppo rarefatto uno come Ludovico Einaudi. Lo ha scoperto Saturnino, il bassista di Jovanotti, ed è

Nessuno di loro è giovanissimo, bello, ammiccante, “televisivo”. Alla faccia delle regole auree di certi talent show Bobby Colomby, leggendario musicista e produttore americano che ha lanciato Chris Botti», ha raccontato Biondi al quotidiano La Stampa, «e stiamo

stato proprio Lorenzo Cherubini a dargli la prima chance pubblicandogli un paio di dischi sull’etichetta Soleluna e portandoselo dietro in tournée. Ma poi Allevi è cresciuto in fretta collezionando premi e facendosi un bel nome anche all’estero, richiestissimo in Corea e Giappone e in locali culto come il Blue Note di New York. Perennemente on the road (è in giro per l’Italia fino al 25 maggio), seguito da un gruppo di fan autobattezzatisi «alleviani», ha superato timidezze e ritrosie per pensare in grande: il suo nuovo album Evolution, annunciato per il 13 giugno, lo vede abbandonare i tasti del pianoforte per mettersi addirittura alla guida di un ensemble sinfonico.

A un’orchestra si accompagna talvolta anche Sergio Cammariere, 48enne crotonese che inanella, lui pure, un concerto sold out dietro l’altro, ma che rispetto agli outsider di cui sopra vanta una trafila e un profilo più tradizionale: Premio Tenco e festival di Sanremo (due volte), e un approccio da piccolo cantautore (così si definisce lui, nel suo ultimo album live) innamorato del jazz e della musica d’antan come un Paolo Conte e un Vinicio Capossela. Ama il Brasile e la bossa nova e lo dipingono come un malinconico terminale (di qui un’altra memorabile imitazione, quella proposta a Sanremo da Lucia Ocone), ma sul palco è uno che si diverte a improvvisare e a scombinare il repertorio con l’aiuto di una bella banda di amici jazzisti capitanata dall’ottimo trombettista Fabrizio Bosso. Come per Biondi e per Allevi, anche per lui solidi fondamentali, misura, stile e personalità non standardizzata sono gli ingredienti di un successo inatteso e strisciante nato spontaneamente dal basso. Pochi se ne erano accorti ma c’è ancora un’Italia che cerca questo, nella musica e nella vita.


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compleanni

Dal primo supermercato aperto a Milano nel 1957 alla frontiera degli shop village: ecco come è cambiato in cinquant’anni il nostro modo di spendere

Spesa globale, la seconda casa degli italiani di Roselina Salemi e è giusto commemorare Maria Callas, Che Guevara e Grace Kelly, l’invenzione della chiusura lampo e della cartolina postale, forse anche l’inaugurazione del primo supermercato poteva meritare un minimo di amarcord. E invece ci è scappato l’anniversario. Era il 1957, nasceva l’Europa, la settimana lavorativa scendeva a 45 ore, la Fiat pubblicizzava la Cinquecento, i russi lanciavano lo Sputnik e si andava a letto dopo Carosello. A Milano, sotto l’insegna Supermarket (poi Esselunga), apriva il tempio della merce self service. Nasceva il “carrello della spesa”. E i giornali dell’epoca si domandavano perplessi: «Come reagirà la massaia alle bistecche in cellophane?». A Torino, dopo un anno buono di preparativi, il primo cliente entrava nel primo supermercato «Fratelli Garosci» una mattina del febbraio del 1959, accompagnato da cronisti e fotografi che volevano documentare lo storico momento. E tutto sembra già lontanissimo.

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nella forma che conosciamo, è ormai al tramonto. Inglobato nei centri commerciali, attrezzato per stupire (corridoi di pesce surgelato ridotto a dadini, rombi, cubetti, trecento tipi di yogurt e chilometri di scatolette), è condannato a crescere, a moltiplicare le offerte. E in città non ha più spazio. A impedirci di dimenticare il supermarket si sono

ve, i primi supermercati, i primi outlet. E c’è ancora lo straordinario mercato di Porta Palazzo. Ma va bene anche uno spazio all’Expo, a Milano». Vale la pena di non buttar via un pezzetto della nostra storia, gli anni del boom, dell’Italia che ha voglia di crescere e ricostruire: come eravamo, che cosa compravamo. C’erano le figurine Mira Lanza da pescare in mezzo al detersivo (oggi ricercatissime su e-Bay), e quelle della Liebig, c’era Calimero, il pulcino nero, e c’era la Mucca Carolina, poi è arrivato Ercolino-sempre-in piedi, il pupazzo conquistato mangiando formaggini, ma c’era soprattutto l’intuizione dei supermercati Vègè, giustificazione della corsa all’acquisto e dei futuri libri di Sophie Kinsella. Il primo, edonistico slogan: «Il piacere di fare la spesa».

Certo, non avremmo mai avuto le chips nel sacchetto se il finanziere Cornelius Vanderbilt non si fosse lamentato con lo chef del Moon Lake Hotel. Aveva tagliato le patate toppo grosse e il cuoco per dispetto gliele fece sottilissime e le buttò nell’olio bollente: una genialata. Non avremmo avuto i surgelati, se nel 1912 il mercante di pelli di foca Clarence Birdseye non avesse studiato i sistemi esquimesi. Né le verdure in scatola, se Francesco Cirio, a metà ‘800 non avesse fatto i primi esperimenti con pomodori e piselli. Ma a un certo punto, conservazione e distribuzione su larga scala erano problemi risolti: il progresso stava per cancellare la drogheria. Il 1958 si apre con l’annuncio: «Alla Standa c’è tutto». Gli anni Sessanta rappresentano la scoperta

Prezzi bassi, calze in regalo alle signore, palloncini ai bambini e filodiffusione: così inizia il boom. E nel 1958, a Torino, il primo cliente finisce immortalato nei telegiornali

A guardarla mezzo secolo dopo, tremila supermercati dopo, la guerra senza esclusione di colpi tra commercianti, con la serrata dei negozi contro i privilegi della grande distribuzione e le sue tentazioni (prezzi più bassi, signore corteggiate con calze di nylon in regalo e palloncini per i bimbi, filodiffusione), fa la stessa tenerezza dei “peplum movie” con le spade di latta. Anche perché, spiace dirlo, il supermarket

messi in due, il sociologo Franco A. Fava (di Alba) e l’imprenditore Riccardo Garosci, torinese, consigliere speciale della Commissione Europea con delega ai diritti del consumatore, due che non si accontentano dell’anniversario, ma in un libro a metà tra memoria e ricerca ( C’era una volta il supermarket, Sperling & Kupfer), lanciano l’idea di un “Museo del commercio”per le aziende e per i consumatori. Un posto dove raccogliere gadget e locandine, elenchi di offerte speciali e confezioni che non ci sono più. La sede? «Il PalaFuksas di Torino – sostiene Garosci – perché in Piemonte sono nate le prime cooperati-

dell‘abbondanza, ma educata, con il bon ton da supermercato. La mitica Donna Letizia insegna a guidare con eleganza il carrello, a tenere sotto controllo in bambini, a comprare soltanto quello che serve. Però, come resistere? L’aperitivo Montecarlo (550 lire) regala il bicchiere, e arrivano le scatolette.

Gli anni Settanta portano la rivoluzione dei surgelati, ovvero la donna-che-lavora-e-non-ha-il–tempo-di-cucinare. La crescita è sfrenata, il 40 per cento del budget familiare serve a fare la spesa. Oggi è appena il 15: siamo tutti a dieta? No, è che il gioco si fa duro. Nasce l’antropologia del supermarket, il corteggiamento del compratore con trucchi più o meno nobili alla Paco Underhill, l’inventore della “scienza dello shopping”: profumo di pane appena sfornato, prodotti disposti in maniera astuta sugli scaffali per provocare “l’effetto flipper”. Si rim-


compleanni

22 aprile 2008 • pagina 21

L’IDENTIKIT DEL CONSUMATORE balza da un’offerta all’altra e si riempie il carrello. E poi la “vendita aperta”: provare, toccare, assaggiare. Per arrivare alla tracciabilità dei prodotti, (l’ultima pubblicità della Coop) e all’inevitabile gigantismo che (dati 2005), vede al primo posto della classifica mondiale l’americano Wall-Mart con 321 miliardi di dollari, e il francese Carrefour con 92.

Nel frattempo è na-

village con finte casettine e finte piazze di paese, «che spostano la spesa fuori città, posti dove trovi gli artigiani che non ci sono più, dove ti attaccano i bottoni, ti rifanno l’orlo e il tacco – elenca Garosci – ti duplicano le chiavi, giocano con i bambini e alla fine, tutti al cinema». Dove, dopo Pasqua, é subito Festa della Mamma, arriva l’estate e alla fine di agosto omini previdenti montano le luminarie di Natale. Nessuna pietà: «The shop must go on». E dopo aver avuto nostalgia delle vecchie drogherie, avremo nostalgia del supermercato senza clown, senza recinti con le palline di polistirolo per i bambini, senza il rischio di vagare da un corridoio all’altro per l’eternità.

In perenne trasformazione, quelli tradizionali sono stati inglobati nei centri commerciali

ta la sociologia dei consumi, la merce è diventata spettacolo, esperienza sensoriale: ipermercati e superstore, discount e Cash and Carry. Outlet, franchising e retail park. Centri commerciali costruiti su spazi di 200mila metri quadrati come quello di Marcianise, alle porte di Caserta. Shop

Donna al supermercato/tempo medio per negozio Donna accompagnata da un’altra donna: 8 minuti e 15 secondi (chiacchierano) Donna con i bambini: 7 minuti e 9 secondi (deve occuparsi dei bambini) Donna sola: 5 minuti e 2 secondi (prende subito quello che le serve) Donna accompagnata da un uomo: 4 minuti e 41 secondi (fa in fretta perché lui si annoia) Donna che compra prodotti beauty: tempo mediodi lettura delle etichette Prodotti per la pulizia del viso: 3 secondi Creme idratanti: 16 secondi Saponette e schiuma da bagno: 11 secondi Gel per la doccia: 5 secondi Lozioni solari: 11 secondi Creme antiacne: 13 secondi Come si comportano gli uomini (rispetto alle donne) Il 72 per cento non guarda il cartellino con il prezzo (l’ 82 per cento delle donne sì) Il 25 per cento soltanto esce con una lista della spesa dettagliata (il 98 per cento delle donne non esce senza). Il 60/70 per cento, in giro per un supermercato, fa acquisti non preventivati (contro il 30 per cento delle signore). Fonte Paco Underhill: “La scienza dello shopping”, Sperling & Kupfer, Milano


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Il governo porterà il Paese a una crescita economica? DIFFICILMENTE TREMONTI RIUSCIRÀ A GOVERNARE L’ECONOMIA ITALIANA

SARÀ LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE A DETERMINARE O NO LA SVOLTA FINANZIARIA

Dubito assai che il nuovo governo di centrodestra riesca a portare il Paese verso una crescita economica. Difficilmente Tremonti riuscirà a governare l’economia italiana meglio di quanto abbia potuto fare Padoa-Schioppa. Tremonti, al di là sel suo recente (e discusso) saggio di economia politica col quale ha criticato aspramente i guasti del libero mercato e della globalizzazione, penso che ispirerà il suo impegno e le sue direttive in senso vieppiù liberistico, caso mai con l’introduzione di vecchi e superati dazi doganali per contenere l’invasione dei prodotti cinesi e indiani. Ma che poco o nulla saprà fare a favore di una sana e vera politica liberale, aperta sì al mercato e alla concorrenza, ma rigida e ferma sui principi classici della politica einaudiana e smithiana, intese nel loro classico senso. Io credo che il ministro Tremonti si allineerà alla politica liberista che sarà dettata dall’Unione europea. E questo ci dice quanto poco spazio sarà dato a una politica economica innovativa, all’apertura democratica e sociale che l’Europa invece, come l’Italia, merita. Cordiali saluti.

Ben poco dipenderà dalla politica di Tremonti. Sarà la situazione internazionale,quella Ue e Usa in particolare, a determinare o no la svolta. Ma anche dall’Iran e dal prezzo del petrolio. La dichiarazione di Ahmadinejad non costituisce motivo di ottimismo e anche i nostri sindacati ricominceranno a battagliare violentemente. Chiederanno tutto e subito. Allora? Credo che qui si vedrà la nobilitate di Veltroni. Se veramente ha a cuore le sorti del Paese, se davvero ha intenzione di stabilire nuovi rapporti tra maggioranza e opposizione,dovrà dare il suo contributo, che potrebbe essere determinante. Dovrebbe innanzitutto adoperarsi per controllare e in caso contrastare i furori sindacali. Non dovrà pregiudizialmente ostacolare la politica del governo, ma adoperarsi per individuare i mali e le terapie più giuste. Non si tratterà di inciucio né di larghe intese, ma di saggia collaborazione per il bene dell’Italia. In definitiva l’opposizione costruttiva di cui parla Casini.

Angelo Simonazzi (Re)

LA DOMANDA DI DOMANI

Sicurezza, il braccialetto antistupro può essere una misura preventiva efficace? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Andrea Bellucci - Pisa

IL GOVERNO HA LE QUALITÀ NECESSARIE PER EMANARE PROVVEDIMENTI ADEGUATI Verrebbe facile rispondere: tanto peggio di così non potrà andare. Ma l’obiettivo della domanda va ben oltre. Una cosa è certa: questo governo incontrerà un’opposizione forte.Non godrà degli sconti concessi dai sindacati e dalla Piazza a Prodi e compagni. La sinistra radicale, uscita dal Parlamento, cercherà di riguadagnare il favore dei cosiddetti movimenti ed è quindi assai probabile che dovremo assistere a manifestazioni e occupazioni costantemente. Per fortuna il governo ha una solida maggioranza numerica; speriamo che abbia anche una coesione tale che gli permetta di fronteggiare tutte le difficoltà. Tremonti ha le qualità necessarie per emanare provvedimenti correnti e coerenti con la situazione. Berlusconi non ha promesso la luna, anzi. Tuttavia sarà bene mantenere subito gli impegni assunti: Ici,situazione di Napoli, Alitalia. Non potendo contare sulla collaborazione della sinistra, sarebbe bene ricucire con Casini. Più ampia è la maggioranza, più si può sperare nel buon governo.

BENEDETTO XVI VS BENEDETTO XVI Benedetto XVI ha raccolto un notevole consenso negli Usa per il suo viaggio. Un viaggio di riconciliazione spirituale con la società americana, dove la verità della tecnica, del capitalismo e della democrazia pur nella competizione sembrano convivere per la forza del potere dei valori morali comuni nel Popolo americano, in primis la Libertà. Se dovessimo però pensare a quello che resta oggi dell’Illuminismo delle origini prima che fosse stravolto dalla preminenza della questione sociale su quella morale, gli Usa ne sono la massima rappresentazione. Eppure Benedetto XVI ha costantemente attaccato la tradizione Illuministica ed in particolare il metodo relativista. Parimenti agli americani è piaciuto il nuovo giusnaturalismo della Chiesa con l’affermazione del valore della Morale Naturale e della ricerca dellaVerità. Ma questa è una contraddizione: la Morale Naturale e il suo implicito significato in termini di diritti fondamentali dell’Uomo universalmente condivisi (libertà-uguaglianza-tolleranza-fratellanza) e kantianamente (La Repubblica Universale) rivolti ad una soluzione politica del processo di globaliz-

IL MONDO VA A ROTOLI Durante una recente dimostrazione, degli attivisti indonesiani hanno fatto rotolare una palla a forma di globo lungo una strada di Giakarta, «per spingere il governo ad adottare misure contro l’inquinamento» L’APPORTO DELL’UDC ALL’ECONOMIA DEL PAESE Il nuovo governo sarà inevitabilmente ostaggio della Lega Nord. Pertanto difficilmente ci potrà essere un omogeneo sviluppo economico del Paese. Il Mezzogiorno sarà inevitabilmente la “cenerentola”di un’azione politica orientata al consolidamento di posizioni economiche di ristrette “lobbies” al fine di aumentare il divario tra il Nord e il Sud, legittimando le aspirazioni federaliste di chi ripudia quella parte della nostra Carta costituzionale che sancisce l’unità nazionale. Quella appena conclusa è stata una campagna elettorale entusiasmante, perché al di là del dato elettorale c’è stato chi, come l’on. Angelo Sanza, ha cercato il contatto ed il confronto con i cittadini pugliesi. Un contatto innanzitutto umano, dove una

dai circoli liberal Marco Pace - Napoli

zazione in Pace, fu la base della rivoluzione culturale illuminista e la ricerca della Verità presuppone il Relativismo nel metodo (non nel fine). Naturalmente il Relativismo del buon senso come nella successiva elaborazione della filosofia americana del Pragmatismo di Dewey. Tuttavia nelle menti degli illuministi inglesi e scozzesi questo primato della Ragione rimaneva nell’alveo di una ricerca del Trascendente (fin da Newton). La Trascendenza non più vista però solo come rimedio consolatorio alla precarietà della condizione umana ma come quintessenza regolatrice a cui l’uomo, attraverso il progresso spirituale e materiale, doveva, anzi, poteva tendere nel suo eterno cammino di perfezionamento. Di fondo non veniva messa in discussione l’esistenza e quindi l’eternità dell’anima come rimedio alla concezione greca dell’esistenza del “nulla” a cui il nostro corpo materiale è destinato e da cui proviene. Il valore della pacifica convivenza tra tante fedi negli Usa fin dalle origini, esaltata da Benedetto XVI, ha indubbie radici illuministe, ha comportato una competizione e il primato della morale come fondamento del potere (e non il tecnicismo ateista della que-

sincera stretta di mano è stata più eloquente di fredde tribune politiche. L’auspicio è che l’opposizione costruttiva dell’Udc possa incidere sulle politiche economiche del futuro governo.

Salvatore Savoia Grottaglie (Ta)

LA BUONA STAGIONE E L’ESPLOSIONE DELLA SINISTRA La luce e il calore finalmente portano l’annuncio dell’arrivo della buona stagione.Tutto riprende vita, in natura, per esplodere di qui a poco. Che meraviglia, che emozione. Qualcosa di simile si respira nel blasonato giardino della nostra sinistra, a seguito del recente responso dell’elezione. Ci viene da sognare e da fantasticare. Sarà perchè ci sentiamo rapiti dal pensiero dell’esplosione?

Pierpaolo Vezzani

stione sociale). A questo punto è chiaro perché l’attuale Papa ha scelto il nome di Benedetto XVI. Il pensiero va a Papa Benedetto XIV che ha vissuto il suo pontificato proprio a cavallo tra l’Illuminismo delle origini, a pochi decenni dalle opere di Locke e in contemporanea gli scritti di Hume e poi di Rousseau e Voltaire. All’epoca la Chiesa Cattolica condannava l’Illuminismo perché relativista e quindi in contrasto con la pretesa della sua “Unicità dottrinale assoluta” e riteneva che il pensiero dei lumi potesse cosi compromettere la purezza del Cattolicesimo. Non è chiaro quindi se l’attacco di Benedetto XVI al relativismo è inteso come critica alla sua successiva preminente deviazione ed eresia nichilista europea o è una critica anche al relativismo originario che valorizza la ricerca della Verità con il metodo del relativismo progressivo verso la Trascendenza, comunque la si immagini. La posta in gioco è una nuova e irreversibile alleanza dei Cattolici con chi non va in Chiesa ma ama Cristo e ama stare in compagnia, non con chi è pieno di sé ma con chi è pieno di ”se”. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog La comunanza forzata rende misantropi Sono ormai quasi cinque anni che vivo in permanenza sotto sorveglianza, oppure in mezzo alla folla, e non sono stato solo neppure per un’ora. Stare un po’ da solo è un’esigenza perfettamente normale, come bere e mangiare, altrimenti in questa comunanza forzata si finisce per diventare misantropi. La continua frequentazione degli altri uomini diventa un veleno e un contagio, ed è proprio di questo insopportabile tormento che io ho sofferto più di qualsiasi altra cosa in questi quattro anni. Ho avuto dei momenti in cui odiavo chiunque mi capitasse d’incontrare, sia colpevole che innocente. La sofferenza più intollerabile la si prova quando si diventa ingiusti, malvagi, disgustosi, ci si rende conto di tutto ciò, ci si rimprovera anzi per questo, eppure non si trova la forza di vincersi. Credo che in Lei, come donna, vi sia molta più forza per tollerare e perdonare. Fëdor Dostoevskij a Natalija Dmitrievna Fonvizina

UN DEGRADO TUTTO ITALIANO Proviamo un attimo a fermarci, in silenzio, a osservare le sembianze, i movimenti, e gli sguardi del ragazzotto di colore che si aggira nel parcheggio tra le auto. Bardato della classica borsa tracolla colma di braccialetti e collanine, in mano una scatola sgualcita e sporca contenente accendini, incensi e ammenicoli di ogni genere. Lunghe cinture appese al robusto collo incorniciano idealmente quel “negozio ambulante”. Una schiera di denti fin troppo bianchi e uno sguardo inevitabilmente triste completano il quadro. Dobbiamo smetterla con i falsi moralismi e l’ipocrisia di chi difende queste persone senza comprendere che a doversi vergonare non sono quanti chinano gli occhi per non dover accettare di essere presi di mira dal venditore, bensì la classe politica che ha permesso e permette che tutto ciò avvenga. In realtà sono uomini e donne vittime del degrado, non solo italiano, ma intollerabile per una società che ogni giorno perde un pezzo della propria identità, e una serie di valori essenziali e indispensabili sui quali si era costruito il benessere di cui

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

22 aprile 1509 Enrico VIII d’Inghilterra sale al trono dopo la morte del padre, Enrico VII 1529 Il Trattato di Saragozza fissa la divisione dell’emisfero occidentale tra Spagna e Portogallo indicando la linea di demarcazione a 297,5 leghe ad ovest delle Molucche 1864 Il Congresso Usa approva il Coinage Act 1864 che stabilisce la stampigliatura della scritta ”In God We Trust” su tutte le monete 1912 Pravda, la ”voce” del Partito Comunista sovietico, inizia le pubblicazioni a San Pietroburgo 1915 Prima Guerra Mondiale: durante la Seconda Battaglia di Ypres le truppe tedesche fanno ricorso all’iprite, un gas tossico, causando alle truppe inglesi 5.000 morti e 10.000 intossicati: è la nascita della guerra chimica 1964 New York, Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke si incontrano per la prima volta ed iniziano a sviluppare la sceneggiatura di 2001: Odissea nello spazio 1975 Il Parlamento approva il nuovo diritto di famiglia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

abbiamo goduto fino a oggi. Uomini e donne che siedono a terra, magari con infante al seguito, nello sporco, nell’umido, al freddo, in balia del destino. L’uomo sano per natura è portato a pensare e agire sempre in modo da prefigurare per se stesso un futuro migliore. Quello cui assistiamo oggi è il totale appiattimento e annullamento della personalità di questi individui, svuotati da ogni senso della vita, privati del naturale umano desiderio di miglioramento del prorio standard di vita. Persone in balia del menefreghismo assoluto. Operiamo affinché “tutte” queste persone spariscano definitivamente dalla strada, affiché possano trovare una sistemazione integrata con la società che li ospita, in modo regolare e legale altrimenti si provveda a un veloce rimpatrio. “Aiutiamoli a casa loro”, non permettiamo che la terra italiana diventi sinonimo di degrado e terra di conquista di balordi e dispierati di ogni luogo. Se con il nuovo governo si parlerà di regolamentazione dell’immigrazione, lo si faccia con serietà e con la consapevolezza che la maggioranza del popolo italiano ha votato per la “sicurezza”.

Alberto Moioli Lissone (Mi)

PUNTURE Rutelli punta al terzo mandato come sindaco di Roma. Non si preoccupi, gli elettori ce lo manderanno.

Giancristiano Desiderio

Un pessimista vede la difficoltà in ogni opportunità; un ottimista vede l’opportunità in ogni difficoltà WINSTON CHURCHILL

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di TUTTI AL FESTIVAL DELLA FILOSOFIA A differenza dello scorso anno, quest’anno non mi sono neppure posta il problema se assistere o meno al Festival della Filosofia, ospitato dall’Auditorium di Roma dal 17 al 20 aprile trascorsi. A convincermi della necessità di soprassedere è bastata un’occhiata alla locandina dell’evento, dedicato stavolta a ”Sessantotto. Pensiero e Azione”. (...). Sembrava di essere in un’intervista di Gianni Minà: solo che qui, al posto di Fidel Castro e Sotomayor, c’erano Carlin Petrini e Mogol, Massimiliano Fuksas e Eugenio Scalfari, Oliviero Toscani e Erica Jong, Bernardo Bertolucci e Sergio Staino, senza naturalmente dimenticarel’immancabile Gofferdo Bettini. Come dite? Non vedete tra costoro neppure un filosofo? Neanch’io: ma non bisogna disperare, perché i filosofi in realtà c’erano, ben nascosti tra i nomi di alto richiamo della gastronomia e della musica, del cinema e della satira, della saggistica e dell’architettura. Unico requisito per loro sembrava essere quello di aver superato una certa soglia anagrafica: classificandosi, insomma, già tra i ”venerati maestri” che nessuno potesse più discutere, disturbando indecorosamente l’(assenza di) dibattito filosofico. Sì, perché tra gli incontri e le tavole rotonde figuravano temi come ”Il piacere della rivoluzione. Cibo, edonismo, impegno”, o come ”Like a rolling stone. Un ritratto americano della musica”, o ancora come ”Valle Giulia, frammenti di uno scontro di classe”, o infine ”Le metamorfosi del quarto potere. Dalla rivoluzione dei giornali a Internet”. Argomenti interessanti, non c’è dubbio, sempre che (...) siano stati affrontati senza la preoccupazione di tutelare ad ogni costo l’obsoleto nume di una rivoluzio-

ne che ci ha seppellito di equivoci per quarant’anni. Mi resta solo un dubbio: ma tutto questo, con la filosofia, cosa c’entra?

Calamity Jane calamityjane.splinder.com

L’UE RIFIUTA DI AIUTARE I CRISTIANI DELL’IRAQ La richiesta della Germania di aiutare i cristiani dell’Iraq, appoggiata dal vice presidente del Parlamento Europeo, Mario Mauro, è stata rifiutata dalla presidenza slovena dell’Unione Europea. Motivo: ”Io penso che il diritto d’asilo deve essere concesso senza considerazione di razza o religione”, ha detto il ministro sloveno dell’interno Dragutin Mate. I cristiani in Iraq ammontavano fino a qualche anno fa a circa un milione di persone, oggi si sono ridotti a quattrocentomila. Parte di essi si sono rifugiati in Giordania, dove sperano che un giorno possano ritornare nella loro Patria. La situazione, storicamente parlando, per i cristiani in Iraq non è mai stata facile, anche se esistevano nell’antica Mesopotamia prima degli arabi musulmani. E’ una leggenda che vivessero in pace e tranquillità sotto Saddam Hussein. (...) I cristiani oggi sono soggetti ad ogni sorta di sopruso: imposizioni di ”tasse” da parte di gruppi islamici per il diritto di esistere, rapimenti a scopo di estorsione, stupri, conversioni forzate, assassinii che non risparmiano nemmeno religiosi come mons. Rahho. L’unica soluzione per chi porta la croce al collo è la fuga. Forse per i profughi iracheni sarebbe meglio dichiararsi gay per ottenere l’asilo politico. Sicuramente i politici europei per non apparire politicamente scorretti li accoglierebbero a braccia aperte.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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