QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Le incognite del nostro futuro
e di h c a n o cr
La domanda del XXI secolo: Europa o Eurabia?
di Ferdinando Adornato
di Daniel Pipes
È
IL VOTO DI ROMA E LO SCONTRO SUL CRIMINE
I dati del Viminale parlano chiaro: nel 2007 sono diminuiti tutti i reati. Eppure tra i cittadini dilaga l’allarme sicurezza e le forze politiche soffiano sul fuoco. Che sta succedendo all’Italia?
Epidemia di paura 9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80423
alle pagine 2, 3, 4 e 5
nell’inserto Occidente
Mentre Formigoni litiga con Bossi e Fini
Fi e An: le mani degli apparati sul governo di Susanna Turco
Nel tourbillon del toto-nomine del governo Berlusconi sembrano assodate due certezze: non ci saranno Schifani e Fini. Il primo è dato per certo al vertice di Palazzo Madama mentre il presidente di An dovrebbe sedere sullo scranno più alto di Montecitorio.
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in gioco il futuro dell’Europa. Il Vecchio Continente si trasformerà in “Eurabia”, in una parte del mondo musulmano? Rimarrà la distinta unità culturale che è stata nell’ultimo millennio? Oppure darà vita a una sintesi creativa di due civiltà? La risposta è di enorme importanza. L’Europa potrebbe costituire un mero 7 percento della massa mondiale, ma per 500 anni, dal 1450 al 1950, in bene e in male, è stata il motore globale di ogni cambiamento. I suoi futuri sviluppi incideranno sull’intera umanità e specialmente su “Paesi figli”, come l’Australia, che continuano a mantenere stretti e importanti legami con il Vecchio Continente. Personalmente, credo che siano tre i potenziali scenari futuri: un dominio musulmano, il rifiuto dei musulmani oppure un’armoniosa integrazione. 1. Alcuni analisti reputano che una dominazione musulmana sia inevitabile. Oriana Fallaci ha scritto che «l’Europa diventa sempre più una provincia dell’Islam, una colonia islamica». Mark Steyn arguisce che gran parte del mondo occidentale «non sopravviverà al Ventunesimo secolo, vale a dire a un periodo che è già compreso nei confini temporali delle nostre vite, e gran parte di esso sparirà, inclusi parecchi, se non la maggior parte, dei Paesi europei». A detta di tali autori, sono tre i fattori che pesano a favore di una islamizzazione dell’Europa: la fede, la democrazia e il patrimonio culturale. c on ti n ua a p ag i na 20
Gaza, Somalia e Sudan le nazioni a rischio
La classifica dei Paesi più instabili di Enrico Singer Maurizio Stefanini Greg Brunio Raffaele Cazzola Hoffmann Pierre Chiartano da pagina 12
MERCOLEDÌ 23 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
74 •
Air France non torna indietro
Oggi le primarie in Pennsylvania
Prodi decide il prestito ponte per Alitalia
I democratici litigano, McCain cresce
di Francesco Pacifico
di Andrea Mancia
A Palazzo Grazioli non sanno se definirle due (mezze) vittorie o due (mezze) sconfitte. Non si è ancora insediato al governo e Berlusconi già saggia sulla sua pelle la bomba a orologeria dell’affare Alitalia.
Barack Obama e Hillary Rodham Clinton continuano a darsele di santa ragione. John McCain ringrazia e si augura che la “guerra civile” della sinistra americana continui per tutta l’estate.
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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epidemia di
paura
La sfida Alemanno e Rutelli è ormai tutta centrata sulla sicurezza
La paura cresce più del crimine di Nicola Procaccini rattare oggi l’emergenza sicurezza senza cavalcare la tigre della paura significa sfidare l’impopolarità degli italiani come su nessun altro argomento possibile. In Italia regna il terrore. La politica italiana lo sa bene e cerca di rendersi credibile agli occhi dei cittadini. Non è detto che questo sia un male, eppure, alla luce dei dati sul crimine in Italia che chiunque può leggere sul sito internet del Ministero degli Interni, resta difficile pensare all’esistenza di una clamorosa emergenza sociale. Dai dati del Viminale, resi evidenti dai grafici riportati nel giornale, risulta esserci stato nell’ultimo anno un crollo del numero complessivo dei crimini. Nelle grandi città come nelle periferie. Calano vertiginosamente i reati che si tratti di omicidi, di rapine, di furti o di violenze orribili come quella subita dalla giovane studentessa africana a Roma di pochi giorni fa.
T
La campagna elettorale per le politiche ed il primo turno delle amministrative si è spesso dedicata a questo tema. Ed oggi, a poche ore dal ballottaggio decisivo, proprio nella città scioccata dall’ultimo grave episodio di cronaca, i due aspiranti sindaci di Roma si stanno sfidando duramente sul tema della sicurezza, ben consapevoli dell’importanza che questo argomento riveste nell’elettorato capitolino. Gianni Alemanno vorrebbe armare la polizia municipale come deterrente per la delinquenza, in più conta sul governo amico per avere un numero maggiore di agenti e mezzi a disposizione delle forze dell’ordine in servizio a Roma. Francesco Rutelli ha proposto i bracciali elettronici “salvavita” per le donne e gli anziani che desiderano uno strumento efficace per chiedere aiuto alla polizia. In più, ha prospettato l’istituzione di una Commissione Integrata per la Sicurezza. Certo, definirla “CSI Roma”, scimmiottando il nome di una nota fiction americana, non è stato un modo azzeccato per comunicarlo alla stampa e alla città. Uscendo dalla competizione capitolina e ritornando al cuore della sindrome insicurezza, ci sono diversi elementi da considerare nel tentativo di spiegarne razionalmente la causa. Il punto di partenza dell’analisi scevra da condizionamenti elettorali è che non esiste un misuratore “a freddo” della sicurezza. Molte variabili determinano la percezione della paura. Il mero dato del numero dei reati non serve allo scopo. Una sicura obiezione alla capacità di leggere la realtà da parte della statistica è data dal fatto che potrebbe non esserci una effettiva corrispondenza tra crimini commessi e reati denunciati. Anzi, proprio il pessimismo sulla capacità di risoluzione dei casi da parte del-
semafori, nelle scuole, sui posti di lavoro. Si tratta di gesti e condotte che spesso non costituiscono dei reati, ma che mortificano la vivibilità sociale e generano una sensazione generale d’inquietudine e pessimismo. E’ la grande questione dei giusti valori, ma non voglio soffermarmi su questo punto. Penso che uno dei fattori d’insofferenza più clamorosi sia rappresentato dal senso d’impunità che si respira tra la gente. Se non funziona il sistema giustizia, se non viene avvertito dai cittadini come efficace e giusto, non possiamo sorprenderci di una percezione generalizzata di grave Achille Serra, insicurezza. L’immigrazione clandestiattuale senatore na spesso produce delinquenza, su quedel Partito sto non c’è alcun dubbio, eppure mi venDemocratico, gono in mente le parole di quel ministro è stato prefetto rumeno che ci chiedeva come mai in Itadi Ancona, lia i suoi concittadini criminali riuscisPalermo, Firenze sero sempre ad evitare la galera. Badate e Roma. che questa sensazione d’ingiustizia è particolarmente avvertita tra gli agenti di polizia. Quando uno di loro rischia la vita in un inseguimento a bordo di un’automobile lanciata a non può spiegare il calo dei reati più 250 all’ora, e riesce a catturare il gravi come omicidi, violenze, etc… Dif- malvivente e questo neanche 24 ficilmente, oggi, si può occultare un ore dopo ritorna tranquillamente omicidio, se non per un breve periodo. in libertà, si diffonde un senso Ed allora come si spiega che calano i d’impotenza tanto fra gli operatori reati, anche quelli più gravi e, cionono- quanto fra i cittadini che è davvero stante, aumenta la paura della crimina- frustrante». Il neosenatore Achille lità? L’ex prefetto Achille Serra, attuale Serra offe alcune soluzioni: «Cosa senatore del Partito Democratico cono- possiamo fare? Io comincierei col sceva quei dati e rivendica una parte restituire gli uomini delle forze deldel merito del calo. «In tutte le città – l’ordine al controllo del territorio. certifica Serra - in cui sono stati stipula- Dubito fortemente delle ricette del ti i patti per la sicurezza tra polizia, go- centrodestra: più mezzi e più uomiverno e comuni il numero dei reati è ni a disposizione è auspicabile, ma cocrollato (a parte Venezia)». Ma tutti vi- me li paghiamo? Cominciamo col recuviamo nello stesso Paese e la percezio- perare agenti tra coloro che sono impene è naturalmente comune. «Nonostan- gnati nelle innumerevoli scorte che abte questo – spiega l’ex prefetto di Roma biamo in Italia. Per non parlare di quel- si avverte chiaramente un senso di in- li che sono costretti a fare i centralinisti sicurezza che non deve essere sottova- telefonici. Poi si potrebbe affidare ai colutato. I fattori che lo determinano sono muni la competenza per emettere i perdiversi e le risposte dovrebbero essere messi di soggiorno. Mi rendo conto che la nostra Costituzione pone dei Gianpiero D’Alia, problemi in questo senso, ma se fossero d’accordo tutte le forze poè stato eletto litiche, in parlamento si potrebbe al Senato introdurre una norma in virtù delper l’Udc nella la quale chi è condannato in primo circoscrizione grado deve stare in carcere in atteSicilia. Dal 2001 sa del giudizio d’appello. Cose praal 2006 tiche dunque, di questo c’è assoluha ricoperto to bisogno in Italia». l’incarico Il senatore Gianpiero D’Alia, atdi tuale senatore dell’Unione di CenSottosegretario tro, è stato Sottosegretario agli Indi Stato terni fino al 2006, conosce bene agli Interni l’argomento e neanche lui è sorpreso dai dati pubblicati da liberal approfondite. Personalmente, ritengo sulla sicurezza. «Oltre al numero e al che si debba partire dall’insofferenza genere dei reati – spiega D’Alia - ritengiusta che si origina non solo dai reati go che siano quattro le componenti che più gravi, ma anche dai cosiddetti com- intervengono a determinare l’effetto portamenti antisociali, sempre più dif- paura. La comunicazione, innanzitutto: fusi e sempre più odiosi. Nelle strade, ai oggi i fatti della criminalità sono passale forze dell’ordine spingerebbe i cittadini a non sporgere denuncia ogni qualvolta subiscono un atto criminale. Questa spiegazione può essere vera per un certo tipo di reati, quelli minori. Si pensi al furto di auto, di motorini e biciclette: effettivamente è sempre più facile che la vittima scelga di non sporgere denuncia poiché ritiene impossibile il ritrovamento della refurtiva da parte della polizia. Ma questa considerazione
ti dalla cronaca alla politica. Non ritengo che ciò sia un male perché pone i politici davanti ad un problema importantissimo, ma è indubbio che attraverso i mass media la percezione di un fatto avvenuto a Palermo sia vissuto intensamente anche all’altro capo del Paese. Secondo elemento: la carenza di servizi all’interno delle città. La sensazione d’insicurezza non dipende solo dal rapporto poliziotti-abitanti, ma anche dall’illuminazione delle strade, dall’inquinamento, da trasporti moderni, dall’urbanizzazione delle periferie. Più bassa è la qualità della vita, maggiore è l’effetto paura. Altro fattore: l’invecchiamento della popolazione italiana. E’ un dato di fatto che la nostra comunità stia invecchiando, così com’è un dato di fatto che gli anziani siano i più spaventati e i più indifesi di fronte alla criminalità. C’è infine la componente razziale. Su questo il governo Prodi ha responsabilità gravi come l’aver recepito le direttive Ue che
Ernesto Ugo Savona. Dal 2003 è professore di criminologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore a Milano. Inoltre è direttore di Transcrime.
imponevano l’accoglimento dei nuovi europei in maniera troppo lassista».
Dunque, sono molti gli elementi che intervengono a costruire una sensazione di timore generalizzato all’interno della popolazione. Un noto criminologo Ernesto Savona, espone la sua formula in questi termini: «La miscela da dare al paziente deve contenere una dose di Polizia, una di Giustizia e un’altra di Welfare. Il primo ingrediente può fare effetto subito, ma senza gli altri due non si mette in piedi, nel lungo periodo, quel circolo virtuoso che tiene insieme le società libere e bene ordinate e che si regge su tre gambe: cultura della legalità, sviluppo economico equilibrato e sicurezza dei cittadini». La conclusione del ragionamento è che l’effetto paura non ha nulla di irrazionale. Semplicemente non dipende soltanto dal numero complessivo dei crimini e nemmeno dal bombardamento mediatico di immagini e storie scioccanti. L’intero rapporto tra cittadini e istituzioni è coinvolto nella diffusione della serenità o del terrore all’interno di una popolazione. Morale: compito della politica è studiare i problemi e risolverli, non soltanto vincere le elezioni.
epidemia di
paura
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IN UN ANNO 106 MILA DELITTI IN MENO
Fonte: Ministero dell’Interno. Direzione centrale Polizia criminale
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epidemia di
paura
L’opinione del sociologo sull’«intolleranza zero» degli italiani
«Le cifre non contano, la verità è che la gente non perdona più» colloquio con Francesco Alberoni di Errico Novi
ROMA.
Gli italiani che si adattano sempre? Possiamo dimenticarli. Sono diventati iperreattivi. Scippi e violenze alle donne diminuiscono eppure loro si rifugiano nella retorica sicuritaria della Lega. Un Paese sull’orlo di una crisi di nervi? Ma quando mai, spiega Francesco Alberoni: «È un fatto positivo: improvvisamente l’Italia si è stancata del proprio modo di essere. E ha abbassato le soglie di tollerabilità. Non solo verso la sicurezza, è così con tutto. Anche nei confronti della politica incapace di decidere», dice uno dei più autorevoli sociologi italiani, abituato a muoversi tra lo studio dell’affettività e quello dei grandi processi sociali: è uscito nel 2007 il suo Leader e masse, in cui prevedeva che in Italia ci sarebbero stati grandi movimenti, improvvisi. Se gli italiani sono così impauriti non è perché hanno l’esaurimento nerdunvoso, que. Tutt’altro. Lei si chiede perché la Lega è passata dal 4 all’8 per cento, giusto? Semplice: perché il partito di Bossi è quello che si occupa in forma immediata del singolo quartiere. E la gente si è stufata di sentirsi insicura. È stufa del fatto di avere paura. E non conta nulla se c’è il 10 per cento di scippi, rapine e stupri in meno. Gli fai notare che prima ce n’erano 100 e ora 90? Ti rispondono che deve scendere a 20. Fino a pochi mesi fa non sarebbe andata così. Ecco, professore: che cosa è successo? È successo che l’entropia, il grado di disordine, ha superato il livello di guardia. E le persone non trovano accettabile quello che consideravano tale fino al giorno prima. Ci vo-
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gliono 800 protocolli e timbri per avviare un’azienda, e fino a poco fa chiunque avrebbe risposto allrgano le braccia: ’Che vuoi farcia, l’Italia è così’. Adesso se vedono che di timbri ne servono solo 100 non ci stanno comunque: burocrazia del cavolo, ti rispondono. È una mutazione genetica. Conosceremo una spettacolare ripresa, nei prossimi anni. Il processo di ristrutturazione è stato avviato circa quattro anni fa: come ricordo in Leader e masse, in questi casi si assiste a rapide concentrazioni del potere e nello stesso tempo a un calo della tolleranza. Le persone non sono più disposte a concedere tempo, nemmeno alla politica. È successo qualcosa del genere in Cina: improvvisamente ci si è stufati della miseria. Il Partito comunista non ha potuto più racontare che le macchine inquinano e il capitalismo è una cosa negativa. Viene in mente che proprio l’esplosione delle economie asiatiche può aver generato un senso di paura e scosso il Paese. Ci sono centinaia di fattori: l’invadenza dei prodotti cinesi, il rafforzarsi della criminalità in regioni come Calabria, Sicilia e Campania. Anche la politica entra nel gioco: nell’ultima fase del governo Berlusconi e nei due anni di Prodi si è smesso di prendere decisioni. Il disordine del sistema è cresciuto. Finché si è arrivati a un’improvvisa maturazione. C’è forse un esempio che funziona meglio di tutti. Dica pure. Pensi a quando il rumore cresce lentamente e solo in un preciso momento si dice: ’Mamma mia, cos’è questo casino’. Ecco, non percepisci il precipita-
Si è accumulato troppo disordine nel sistema, finché la gente ha smesso di sopportare. Ci sono meno reati, ne vogliono meno
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Nella foto in basso, il sociologo Francesco Alberoni. «La gente», secondo lui, «si è stufata di sentirsi insicura. È stufa del fatto di avere paura. E non conta nulla se c’è il 10 per cento di scippi, rapine e stupri in meno. Gli fai notare che prima ce n’erano 100 e ora 90? Ti rispondono che deve scendere a 20»
re della situazione man mano che si determina, te ne accorgi solo in un certo momentro. E se ne vedono gli effetti in politica. Certo, perché il vero cambiamento è nell’atteggiamento profondo della gente, che vota Lega e spazza via la sinistra estrema, di un sol colpo non vuole saperne più. Fino a pochi mesi fa sembrava che in Valsusa fosse il 90 per cento degli abitanti a opporsi alla Tav. Adesso sono il 9. Nessuno vuole più saperne di chi blocca le strade, i termovalorizzatori, le ferrovie. Pare di capire che il problema non riguardi solo i politici. Se un magistrato scarcerava uno con quattro omicidi nessuno si scandalizzava più di tanto. Adesso se uno fa qualcosa del genere lo linciano. Ricordo di quel malavitoso messo agli arresti domiciliari in una casa di lusso in riva al mare. Se oggi lo mandassero in una topaia, all’opinione pubblica non starebbe bene neanche quella. Magari è l’accessibilità delle informazioni assicurata dai media a suscitare maggiore indignazione. No, non è questo l’aspetto decisivo. La rivoluzione francese si è propagata rapidamente con i mezzi che c’erano allora. Fenomeni del genere si osservano anche nella storia antica. Ripeto: il disordine si accumula senza che nessuno dia segno di accorgersene, poi tutto di-
venta intollerabile. Qualche giorno fa a un convegno della Mediolanum mi sono accorto che la gente è stufa anche del pessimismo. Buon segno. Se gli parli del rischio di flessione dell’economia ti mandano a quel paese. Processi del genere non sono semplici da gestire, per la politica. Se chi è al governo riesce a dare risposte efficaci e rapide, bene. Se no va giù anche lui. La gente cambia orientamento politico in due mesi, ormai. Lo vedremo alle prossime elezioni. Pare che Berlusconi non voglia che Formigoni e Galan lascino i rispettivi incarichi per paura delle prossime regionali. La disponibilità degli elettori ad aspettare è così bassa che è meglio non avvicinare la verifica del voto. Chi oggi traccheggia è morto, il tempo delle mezze misure è finito. E guardi che non è un segno di instabilità: anzi è proprio adesso che, superato il disordine, il sistema è diventato più stabile. Questo Paese finalmente sa quello che vuole. È come in Russia quando tutti prendevano tempo e l’unico veramente deciso, Eltsin, prese il potere. Questo clima rischia di spingere la politica a dare risposte affrettate più che efficaci. Vediamo il cambiamento anche nel programma di Berlusconi, in quello dello
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paura
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Il ruolo dell’informazione nella percezione dei cittadini
Attenti, tv e media diffondono insicurezza colloquio con Giuliano da Empoli di Marco Palombi ROMA. E’ il tempo della “paura stereofonica”, della paura che sembra scaturire da ogni poro della società, della paura che è come un negativo dell’Italia accogliente e solare dell’oleografia nazionale. Eppure i reati, dicono i numeri del Viminale, sono calati nel secondo semestre 2007, eppure qualche risposta si tenta di darla (la Camera, ad esempio, ha certificato che il poliziotto di quartiere funziona): gli italiani però non se ne danno per intesi e non mollano la loro paura, come se fosse questo l’unico sentimento con cui riescono a misurare un mondo troppo cambiato. Giuliano da Empoli, trentacinquenne sociologo e saggista, collaboratore de Il Sole 24 Ore e Il Riformista, osserva questa foto di gruppo con l’ulteriore, pessima impressione che la politica, nel suo complesso, sia vittima di una sorta di impreparazione culturale a rispondere a questa novità. Da dove nasce questa paura indipendente dai fatti? Non ho una teoria particolarmente nuova, ma penso sia legata a quello che potremmo chiamare “effetto stereofonico della paura”, una condizione che ha a che fare con l’impatto dei mezzi di informazione sulla società. Insomma, anche se il numero delle persone che sperimentano sulla loro pelle la violenza della criminalità cala, ognuno di noi ne fa esperienza diretta ogni sera accendendo la tv. Tutta colpa della tv? Certo che c’è anche altro. Indipendentemente dal numero dei reati, la società è pervasa da una straordinaria quantità di violenza, anche simbolica. La violenza è oggi un modo di vendere, di attirare l’attenzione, di comportarsi. Questa violenza, questa celebrazione collettiva della violenza, crea paura a partire dalle piccole cose: un graffito su un muro appena ripulito o una finestra rotta possono dare la sensazione che il territorio non sia controllato. E’ questo che scatena la paura: la sensazione che un pezzo di città, una stazione della metro, un tratto di strada, siano fuori controllo. La paura come stato mentale. In parte è così. La verità è che è cambiata la natura stessa della paura. Un tempo era chiaramente identificabile in un evento: si poteva ragionevolmente temere, ad esempio, una guerra o un grande evento naturale come un terremoto o un’epidemia. Oggi la paura è endemica, come se il pericolo fosse dovunque, e il terrorismo ne è la metafora. Detto questo, si può andare oltre la questione puramente sicuritaria e trovare le ragioni nelle incertezze sociali, nei cambiamen-
ti dell’economia globalizzata o delle precarietà varie. Lei, nel suo“Fuori controllo”, dette un giudizio abbastanza tranchante della sinistra italiana: «Laddove la società brasilianizzata, sempre in bilico tra il carnevale e la paura, richiederebbe tolleranza per il primo e fermezza rispetto alla seconda, il progressista propone la ricetta inversa». Tradizionalmente la sinistra, quando i cittadini pongono un problema di sicurezza, invece di dare risposte all’altezza spiega che la loro paura è ingiustificata. Questo atteggiamento, ora, non è più generalizzato. Nella cosiddetta sinistra riformista c’è stata una svolta: io la colloco simbolicamente nel periodo in cui Blair era ministro ombra dell’Interno per i laburisti e coniò la formula“duri col crimine, duri con le cause del crimine». Problema risolto, quindi. Mi pare di poter dire che la sinistra italiana ha ancora un problema di credibilità su questi temi. D’altronde serve equilibrio, perché c’è il rischio dell’improvvisazione: come quando ci si converte al mercato e si diventa ultraliberisti, si potrebbe ora diventare ultrasicuritari. E la destra? La destra ha evidentemente delle credenziali più forti su questo terreno, ma proprio per questo tende a portare il dibattito proprio sulla paura, alimentando così l’effetto stereofonico. Mi spiego: se una vecchietta non esce di casa perché ha paura non serve più migliorare la situazione, quella non esce lo stesso. Diciamo che sinistra e destra sono esattamente speculari: la prima ha la tendenza a lenire la paura ma trova difficoltà nel proporre soluzioni, la destra fa esattamente il contrario. Non abbiamo ancora parlato di immigrazione… Su questo la sinistra è ancora molto indietro e fa un gravissimo errore: non collega immigrazione e paura, immigrazione e sicurezza, mentre la gente lo fa automaticamente. E’ come se mettesse la testa sotto la sabbia. Un comportamento suicida perché facendo finta di niente si alimenta quel risentimento, quella rabbia che andrebbe invece contrastata e risolta. Come rabbia? Ma gli italiani non erano“brava gente”? Gli italiani sono come gli altri: semplicemente adesso che siamo un paese in cui si arriva abbiamo gli stessi problemi che Francia o Germania hanno avuto prima di noi.
La violenza collettiva crea terrore nella gente anche a partire dalle piccole cose
stesso Veltroni. E anche nell’evoluzione dei partiti. Quando la gente diventa a un certo punto stufa di sentirsi insicura, e c’è dunque un movimento nel sistema sociale, si assiste sempre anche a processi di concentrazione del potere, ed è esattamente quello che abbiamo visto con le primarie del Pd o i gazebo del Popolo della libertà. È un meccanismo che studio dal 1963. La politica è in ritardo, di fronte a questa insofferenza? C’è un’evoluzione contemporanea, i processi di aggregazione dei partiti fanno parte dello stesso insieme in cui ritroviamo la gente che prova addirittu-
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ra fastidio per l’insicurezza. Certo, Tremonti ha previsto gli scenari della globalizzazione con anni di antticipo, Padoa-Schioppa no. In ogni caso il mutamento è così rapido che non mi meraviglierei se da qui a qualche mese ci fosse un accordo tra maggioranza e opposizione. Prima era impossibile, ma adesso se c’è un provvedimento che va bene anche per il Pd e l’Udc viene votato da tutti. È quello che avveniva tra Dc e Pci nelle commissioni parlamentari. Ma lei come italiano è rassicurato da tutto questo? È un cambiamento molto positivo. Ma è chiaro che adesso questo Paese è portato a punire di più chi sbaglia troppo.
Chi governa deve dare risposte rapide altrimenti cade giù. Adesso gli elettori ci mettono due mesi a capovolgere il quadro
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politica
Le mani degli apparati di Forza Italia e An nella composizione del governo
Formigoni contro tutti d i a r i o
d e l
g i o r n o
Pd-Idv, per ora niente gruppo unico Non ci sarà per ora il gruppo unico del Pd e di Italia dei Valori. Ma le due formazioni politiche vanno verso la federazione dei rispettivi raggruppamenti ed entro la legislatura verso l’unione politica. Al termine di un incontro «molto positivo» con Dario Franceschini e Goffredo Bettini, il portavoce di Italia dei Valori Leoluca Orlando e il presidente del gruppo alla Camera Massimo Donadi spiegano che «entro 24 ore» il partito deciderà se procedere da subito o meno all’unione delle compagini parlamentari con quelle di Walter Veltroni. Al momento, tuttavia, la soluzione sembra la meno probabile. «Italia dei Valori entro il termine di questa legislatura confluirà nel progetto riformista del Partito democratico», annuncia Orlando, il quale spiega che «l’utilità o meno del gruppo unico va valutata in questa prospettiva».
Aborto: cala tra le italiane, cresce tra le immigrate
di Susanna Turco
ROMA. Nel tourbillon del toto-nomine del futuro quarto governo di Silvio Berlusconi sembrano assodate due certezze: non ci saranno Renato Schifani e Gianfranco Fini. Il primo è dato per certo al vertice di palazzo Madama mentre il presidente di Alleanza nazionale dovrebbe sedere, salvo clamorose sorprese dell’ultima ora, sullo scranno più alto di Montecitorio. Una promozione che comporterà inevitabilmente la decisione di lasciare la guida del partito. Lo ha detto lo stesso Gianfranco Fini, ieri a Porta a porta: «Se i deputati mi eleggeranno presidente, accetterò. Sarebbe una grande presunzione rifiutare la terza carica dello Stato. Ciò comporta necessariamente di lasciare gli incarichi di partito, come hanno fatto i miei predecessori». Circa il suo possibile successore, Fini ha annunciato che riunirà «un’assemblea nazionale del partito per individuare un reggente, un primus inter pares che guidi il partito verso il congresso all’inizio dell’anno prossimo». E, per quanto Fini abbia precisato che «non sarà una persona, bensì una classe dirigente» a governare An, nel partito continua a circolare l’ipotesi di una reggenza di Giorgia Meloni, responsabile dei giovani. Il suo nome potrebbe disinnescare la probabile guerra fra colonnelli, senza considerare la circostanza che tutte le figure più rappresentative di An saranno impegnate nell’azione di governo. Già, perché l’altra tendenza che si sta profilando nella turbinosa formazione del governo prevede una poderosa influenza degli apparati di partito sul toto-nomine. Una mano pesante che, per parte di Forza Italia, spinge per accantonare il nome
di Marcello Pera e, per parte aennina, smorza l’ipotesi Giulia Bongiorno, caldeggiata dallo stesso Fini. Insomma, per quanto Berlusconi avochi a sé la scelta finale, per quanto studi «sorprese» come quella che, secondo i rumores, potrebbe portare Gianni De Gennaro, commissario straordinario all’emergenza rifiuti, addirittura a ricoprire la poltrona di ministro per il Mezzogiorno (o almeno sottosegretario con delega all’emergenza campana), è certo che le componenti della coalizione di centrodestra paiono avere già le idee chiare.
È così per la Lega. Ieri Umberto Bossi non ha esitato a confermare che la pattuglia dei ministri leghisti sarà quella annunciata domenica. Il
Nel toto-ministri spuntano i nomi di Mariastella Gelmini (per la Giustizia) e del ciellino Maurizio Lupi (alla Sanità). Fini veleggia verso la Camera senatur alle Riforme, Maroni all’Interno, Zaia alle Politiche agricole, Calderoli vicepremier. «Gli accordi di governo -dice Bossi - sono definitivi». Idee chiare, anche se più sottotraccia, per An che però attende di conoscere l’esito delle Comunali a Roma per limare l’organigramma. Data da tutti oramai per scontata la presidenza della Camera a Fini, il nodo Alemanno incide sulla scelta per il Welfare. Dove, in caso di sconfitta nella Capitale, dovrebbe finire proprio l’ex ministro delle Politiche agricole. Viceversa, po-
trebbe essere Maurizio Sacconi, veneto, esponente di Forza Italia ed ex sottosegretario al Lavoro, a guidare il pesante dicastero. Giochi fatti sul fronte Difesa, dove nessuno nutre ormai dubbi sul nome di Ignazio La Russa. Non sembrano esserci novità sul fronte Infrastrutture, dove dovrebbe approdare Altero Matteoli. Diversi punti interrogativi ritardano la scelta sul ministero di via Arenula. Se An infatti spinge per ricoprire la carica di Guardasigilli, Berlusconi non intende mollare la presa. Ecco perché in quota Forza Italia inizia a circolare anche l’ipotesi legata alla lombarda Mariastella Gelmini.
Legato al destino di Roberto Formigoni è quello di Maurizio Lupi, esponente ciellino dato come papabile al ministero della Sanità. Sia lui che la Gelmini, guarda caso, ieri hanno incontrato Berlusconi ad Arcore subito prima che lo facesse il governatore della Lombardia. Con quest’ultimo il Cavaliere ha avuto quaranta minuti di faccia a faccia che non sono bastati a sciogliere il nodo sul futuro del presidente del Pirellone (il quale, in accordo con la Lega ma in disaccordo con Berlusconi, vorrebbe lasciare la Regione per un incarico di peso nell’esecutivo nazionale). Di fatto, Formigoni ieri ha risposto con le stesse parole di fuoco a Bossi e a Fini i quali, in orari diversi, preconizzavano per lui un futuro al Pirellone: «Non è Bossi», ha detto stizzito («non è Fini» ha aggiunto poi) «a decidere il futuro mio e della Lombardia». Solo in serata, dopo aver sostenuto che nel faccia a faccia con Berlusconi era andato «tutto bene», Formigoni ha specificato che stasera ci sarà un nuovo incontro con il Cavaliere.
Secondo la relazione annuale sull’attuazione della legge 194, riferita al 2006 e 2007 e trasmessa oggi dal ministro della Salute Livia Turco al Parlamento, le interruzioni di gravidanza sono calate del 3 per cento (per untotale di 127.038 casi) l’anno scorso rispetto al 2006 e del 45, per cento rispetto al 1982, anno in cui si è registrato il più’ alto ricorso (234.801 casi). Il calo è più forte tra le donne italiane (- 3,7 per cento rispetto al 2006 e - 61,4% rispetto al 1982). Nelle cittadine straniere invece si conferma l’incremento del ricorso all’aborto, facendo segnare un più 4,5 per cento rispetto al 2006. Tra i ginecologi boom degli obiettori di coscienza: nel 2007 hanno raggiunto il 69,2 per cento del totale, contro il 58,7 del 2003.
Mussi lascia la guida di Sd Con una lettera inviata al direttivo nazionale di Sinistra democratica, Fabio Mussi si è dimesso dall’incarico di coordinatore del movimento da lui fondato con Cesare Salvi, Giovanni Berlinguer e altri ex dirigenti Ds che non aderirono al Partito democratico. Nella lettera, Mussi ha sottolineato la coincidenza fra la sconfitta elettorale e i suoi problemi di salute. In questa fase, ha spiegato Mussi con il messaggio ai suoi, si deve andare «comunque» verso un ricambio generazionale.
La Montalcini brinda con Prodi ai suoi 99 anni Il premio nobel Rita Levi Montalcini è stata ricevuta a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Romano Prodi per un brindisi in occasione del suo compleanno. Messaggi di auguri da tutto il mondo politico-istituzionale. Intanto in Senato l’età media si abbassa. I neo eletti, che da martedì si accingeranno a occupare i banchi dell’Aula, hanno infatti un’età media di 56.24 anni contro i 59.51 della legislatura che sta per concludersi.
Alemanno: «Le ronde? Inaccettabili» Le ronde? «Sono come i braccialetti antistupro: soluzioni inaccettabili». Il candidato sindaco di Roma del PdL, Gianni Alemanno, boccia l’ipotesi prospettata dall’esponente leghista Roberto Maroni per tutelare la sicurezza dei cittadini. Per il candidato in corsa per il Campidoglio le ronde rappresentano «una sicurezza fai da te, fatta da cittadini che cercano in questo modo di ovviare alla latitanza dello Stato e dei Comuni». «I rischi vanno eliminati alla base e la nostra soluzione è quella di potenziare la presenza della polizia e delle forze dell’ordine in tutte le aree a rischio» ha detto Alemanno, accompagnando i giornalisti in un giro attraverso le discariche alle porte di Roma per segnalare l’emergenza rifiuti che tocca anche il Lazio.
politica
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Sconcerto e pessimismo tra i lavoratori di Alitalia dopo l’addio alle trattative da parte di Air France. Anche il prestito ponte garantito dal governo Prodi potrebbe non essere risolutivo. Berlusconi, intanto, continua a cercare acquirenti anche se si spera di convincere Lufthansa a scendere in campo
Il governo Prodi accetta di aprire una linea di credito da 300 milioni anche per le pressioni di centrodestra e sindacati
Alitalia: il prestito è pronto, le banche no di Francesco Pacifico
ROMA.
A Palazzo Grazioli non sanno se definirle due (mezze) vittorie o due (mezze) sconfitte. Non si è ancora insediato a Palazzo Chigi e Silvio Berlusconi già saggia sulla sua pelle che bomba a orologeria è l’affare Alitalia.
La prima sveglia l’ha avuta a 48 ore fa quando Jean-Cyril Spinetta ha comunicato che Air France abbandona al suo destino Alitalia. Certo, «i colonizzatori» – come li aveva definiti il Cavaliere in campagna elettorale – sono lontani dall’Italia, ma questo anticipa i piani di Berlusconi e lo spinge a tirare fuori dal cappello la fa-
garantire una linea di credito da 300 milioni di euro, ma a tassi di mercato, per dare seguito alla continuità aziendale. Il prestito allontana (ma per quanto?) lo spettro del commissariamento, che avrebbe prolungato all’infinito la vendita e di fatto bloccato l’azienda e la mobilità del Paese, visto che il primo compito è bloccare le attività in perdita: e di linee remunerative, al momento, c’è soltanto la LinateFiumicino. All’inzio il governo voleva concedere la metà, ma hanno avuto successo le pressioni di centrodestra e sindacato, per ottenere una cifra che garanti-
Anche IntesaSanpaolo, sponsor di Carlo Toto, si mostra scettica senza l’intervento di una grande compagnia straniera: c’è poca liquidità in giro per un’operazione simile.Air France conferma il suo no migerata cordata per salvare la bandiera prima di quanto pensasse. E gli imprenditori sollecitati a intervenir per amor di patria da Bruno Ermolli, avrebbero fatto sapere di aver bisogno di più tempo: almeno il mese necessario per studiare i conti del vettore prima di fare un’offerta. L’altra mezza vittoria è la decisione del governo Prodi di e
sca tutto il tempo per fare un piano industriale adeguato. Si potrebbe ritoccare la cifra durante la conversione, ma di più non è possibile fare, se per convincere la Ue il governo deve ricorrere a un decreto del ministero degli Interni, motivandolo come necessario per evitare una possibile emergenza nel trasporto pubblico. Non a caso il ministro per lo Sviluppo economico Pierluigi
Bersani, ha spiegato: «Non daremo grosse cifre, quello che è necessario, una cifra limitata e non tale da portare Alitalia fuori dai principi comunitari». E ha aggiunto che sul commissariamento, «deciderà il nuovo governo». Così, mentre il presidente Aristide Police vedrà i sindacati domani e l’Enac il 28 per salvare il salvabile, il futuro governo deve stringere sulla vendita. Con cento milioni in cassa – e il crollo del 50 per cento delle prenotazioni per l’estate – non si va molto lontano. L’uscita di scena di Air France può essere devastante. Spinetta spergiura di non voler tornare indietro, anche se i sindacati sperano che, di fronte all’assenza di alternative, il centrodestra si cosparga il capo di cenere e richiami il manager corso. Anche perché la compagnia, anche se non attraverso dichiarazioni ufficiali, fa sapere che a far rompere le trattative è stato il lungo tira e molla con le autorità italiane. Più del prezzo del petrolio o della crisi mondiale. Un’indecisione acuita dai
continui annunci di Silvio Berlusconi. E questo è un pessimo biglietto da visita per qualsiasi compratore, compresa Lufhtansa, verso la quale puntano i sindacati. Sempre ieri Gianfranco Fini ha annunciato che «arriveranno degli acquirenti, l’Alitalia non è una palla al piede». Ma a raffreddare gli animi ci sono soprattutto i giudizi che si raccolgono tra le banche, le sole a poter dare danaro liquido per fare l’operazione.
Non a caso Enrico Salza, presidente di IntesaSanPaolo, ha detto che l’istituto, nonostante sia il maggiore sponsor di Carlo Toto, si muoverà soltanto «in un’operazione dal respiro internazionale». Serve una grande compagnia, non certo Aeroflot, e un piano ambizioso, perché la crisi dei subprime e l’aumento dei tassi interbancari hanno spinto il mondo del credito a ponderare ogni investimento. Senza contare che si andrebbe verso un’operazione a debito per un’azienda che non avrebbe cash flow per ripianare il levarage. Alitalia, per intenderci, non è Telecom.
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pensieri & parole
L’idea più importante del nuovo governo, il federalismo fiscale, non è stata partorita dal Popolo della Libertà
L’anima del Pdl? È la Lega di Giancristiano Desiderio ’anima del Pdl è leghista. Non è una battuta, meno che meno un’interpretazione. È una banale constatazione. Qual è, infatti, l’idea più importante del partito di centrodestra? Il federalismo fiscale. Ma - ed è qui il punto - il federalismo fiscale è un tema della Lega Nord. Ne nasce un curioso paradosso: l’idea più importante del nuovo governo il Berlusconi III - non è stata partorita dal Pdl, cioè dal partito di maggioranza relativa, bensì dal partito di Umberto Bossi. Si dirà: poco male, la Lega è alleata del Pdl, mica è un partito che passa per caso a Palazzo Chigi. Ma mentre si prova a dare una buona giustificazione si sottolinea ancor più con matita rossa e blu il caso anomalo: il motore del Berlusconi III non è il partito di Berlusconi, ma la Lega.
L
Non è un mistero per nessuno: il programma di governo è stato scritto soprattutto da Tremonti e Maroni. Naturalmente non da soli. Ma soprattutto Tremonti e Maroni hanno dato la linea. Gli altri hanno limato, aggiunto, ma in sostanza hanno seguito. Non è davvero un caso che in campagna elettorale Maroni girasse con il programma a portata di mano e in maniera scrupolosa citasse alla
lettera: «A tal proposito il programma che abbiamo sottoscritto dice…». Anche nelle sue apparizioni al Sud, Maroni si è preoccupato di dire, citare, leggere il programma e chiarire: «Noi vogliamo il federalismo fiscale anche perché è la vera soluzione della questione meridionale».
E qui si aggiunge un’altra nota curiosa: a parlare dell’annosa “questione meridionale” (tra virgolette, mi raccomando) è stato un partito del Nord. Le poche cose dette da Raffaele Lombardo vanno lette tutte in chiave siciliana e si rivolgono alla storia di quella terra, non certo ad un pensiero e ad una tradizione politica nazionale.
Il centrodestra ha vinto soprattutto al Sud. Ma la “questione meridionale” non è stata mai affrontata da Berlusconi, né da Fini E’ difficile, se non impossibile, rintracciare su questi temi così importanti per il Mezzogiorno e per il “resto d’Italia” un’idea del Partito della libertà. Anzi, la questione meridionale non è
stata mai affrontata da nessuno: né da Berlusconi, né da Fini. Eppure, al di là del voto leghista e del sacco perpetrato ai danni dei mille arcobaleni della sinistra, il centrodestra ha vinto anche e soprattutto al Sud. E oggi il problema dei problemi del Berlusconi III è senz’altro rappresentato dalle “domande del Nord” e dalle “esigenze del Sud”. Più volte Berlusconi si è presentato come il garante della Lega: «Garantisco io» è la sua frase quando Umberto alza la voce o qualcuno fa pipì fuori dal vaso. Ma il problema non è garantire per la Lega, bensì avere delle idee migliori della Lega, sapere cosa fare, cosa volere, come, per chi. E’ un problema di ordine culturale: se il Pdl, sulla scorta della sua forza elettorale e della sua diffusione su tutto lo Stivale, si presenta come la “nuova Dc” dovrà pur avere il coraggio di esprimere una certa idea dell’Italia. Se prende in prestito, a mo’ di subappalto, le idee della Lega, significa forse che non ha un’idea che sia utile e vera per tutta l’Italia? Come è possibile che un partito nazionale prende in prestito le idee da un partito territoriale? Ancora: non è un mistero per nessuno che la riforma costituzionale del Berlusconi II sia
stata bocciata dagli stessi elettori del centrodestra. Quella riforma forse non era malvagia, quella riforma è stata copiata da Walter Veltroni, quella riforma presentava delle buone cose, ma quella riforma è stata rifiutata dagli stessi elettori di Fini e di Berlusconi: votando contro o non votando.
Il Mezzogiorno deve diventare virtuoso oppure dovrà rassegnarsi a salire al Nord ogni qual volta vorrà servizi migliori Anche qui il problema va chiarito: non si tratta di rifiutare, ma di sapere cosa dice il Pdl al di là delle esigenze e della battaglia federalista della Lega. La debolezza culturale del Pdl è il vero ostacolo del terzo governo di Berlusconi. La Lega fa il suo lavoro e lo fa fin troppo bene. Ma, al di là dei programmi e delle cose da campagna elettorale, qual è la politica del governo di centrodestra? Sul Corriere della Sera di ieri Michele Salvati dedicava attenzione alla “lobby del Sud”e cercava di capire in che modo si
possa comporre il rompicapo tra le richieste di autonomia del Nord e i trasferimenti al Sud su cui punta la classe politica meridionale.
Il Pil meridionale non sta in piedi senza i trasferimenti dello Stato, ma il federalismo fiscale, pur corretto con la clausola della solidarietà, vuole proprio restringere i cordoni della borsa dei trasferimenti. Si può anche fare: ma il Sud deve diventare virtuoso oppure dovrà rassegnarsi a salire al Nord ogni qual volta vorrà servizi migliori (cosa che accade già ora nonostante finanziamenti, fondi, trasferimenti). Ma su questi problemi si cercherà invano la posizione del Pdl. Non sappiamo se nascerà, quando nascerà, come nascerà quello che una volta, con una brutta espressione, si chiamava il partito unico del centrodestra. Ciò che sappiamo è che se il Pdl si dovesse trasformare in qualcosa di nuovo e di altro dovrebbe affrontare il problema della sua consistenza culturale. Perché nessuno crede che un partito nazionale possa essere culturalmente subalterno a un partito territoriale. Con la massima chiarezza possibile: il problema non è la Lega, ma il Pdl che, così com’è, è la Lega di se stesso.
politica ROMA. «Il Centro non è l’ago della bilancia perché gli elettori hanno preferito all’ago uno dei due piatti della bilancia. Però la sua funzione non è finita: ora l’Udc può avere un ruolo di stimolo e di controllo delle due coalizioni». Giacomo Vaciago, professore di politica economica alla cattolica di Milano vede in questi termini il ruolo del Centro politico nell’attuale fase della politica italiana. Che certo non ha compiuto il suo processo di individuazione verso un modello di bipolarismo compiuto. Vaciago per lei questo sistema ha ancora delle falle. Certo. Basta tenere presente questo dato: negli ultimi quindici anni non c’è stato nessun governo italiano che sia durato due legislature. Kohl in Germania ha governato 16 anni, Blair in Gran Bretagna 11, Zapatero si appresta a farne 8. Da noi dopo una legislatura chi ha governato viene mandato a casa. A dimostrazione che qualcosa non va. Alle amministrative le cose vanno diversamente: dove sono stati eletti buoni sindaci, che hanno fatto bene, poi sono stati rieletti. Vuol dire che il sistema elettorale per i governi comunali è migliore. Detto questo, e malgrado i suoi limiti, il sistema elettorale politico si avvia diventare inglese: gli italiani hanno fatto una scelta bipolare. Il Centro ha deciso di rimanere fuori dalla scelta bipartitica però ha resistito. Ha resistito ma Casini non è l’ago della bilancia come forse sperava di diventare nel caso che le due coalizioni raggiungessero un risultato di sostanziale pareggio. Non è andata così. Le piccole espressioni politiche ora non hanno il potere di influenza che avevano prima. E non c’è da lamentarsene secondo me: il governo delle minoranze nella maggioranza è la peggiore espressione di democrazia. Di fronte a questa situazione il Centro come dovrebbe allora investire o capitalizzare il suo consenso? A questo punto la bilancia della politica italiana ha due piatti. Il sistema è diventato inglese malgrado lui. La gente di Centro però c’è ancora e a differenza dei comunisti e della sinistra estrema ha ancora dei rappresentanti in parlamento. I valori di Centro non sono estinti. I moderati non sono scomparsi. La loro funzione dovrebbe essere quella di individuare il Centro non compreso dagli altri due schieramenti e rappresentarlo con disegni di legge mirati per tradurre in termini politici quei valori. Essere terzi non funziona in questa fase. Anche se le cose possono cambiare. In che senso? Nel senso che è sempre possibile, anche se mi sembra improbabile, che la coalizione di maggioranza entri in crisi, che magari Bossi o Fini ltitighino con Berlusconi. A quel punto la pattuglia di Centro in Parlamento potrebbe
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Il futuro dell’Udc. Parla l’economista Giacomo Vaciago
Il terzismo non serve ma il centrismo sì colloquio con Giacomo Vaciago di Riccardo Paradisi
In Gran Bretagna il bipolarismo è mitigato da molti contrappesi In Italia il Centro resta necessario come forza di controllo
“
Il partito di Casini non è l’ago della bilancia del quadro politico italiano ma può esercitare una funzione di stimolo e di controllo verso entrambe le coalizioni
rientrare nel pieno gioco politico, ma è un’ipotesi, su cui non confidare troppo. Lei prima parlava di battaglie mirate per strappare al governo delle cose di Centro. Ci fa un esempio di quale potrebbe essere una di queste cose di Centro? La correzione dei difetti della legge 194 sull’aborto. Che doveva essere una legge in difesa della vita e che invece non ha funzionato in questo senso. Ecco il Centro su questo tema potrebbe stimolare i due schieramenti che invece mi sembra non abbiano nessuna intenzione di sollevare il problema. Come giudica un rapporto tra Udc e Partito democratico? L’ambasciatore Sergio Romano ha detto a liberal che Casini rischierebbe il favore del suo elettorato se dovesse stringere un rapporto
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di collaborazione troppo stretto con Veltroni. Non sono d’accordo con questa lettura. Ormai il Pd uscito dalle urne ha fatto i conti con il suo passato più di sinistra, oggi è un partito vicino al labour inglese. Il Pd uscito dalle urne è molto più di Centro dei vecchi Ds. Tutta la campagna di Veltroni è stata intonata all’abbiamo chiuso con la sinistra radicale. E d’altra parte lei definirebbe di sinistra Chiamparino, o Cacciari? Solo nella caricatura di Berlusconi il Pd potrebbe apparire un partito di sinistra: in realtà nel blocco elettorale che ha votato Pd c’è molto ceto medio, un elettorato socialdemocratico. Su singoli obiettivi dunque – da una politica sull’immigrazione alla politica estera – l’Udc può tranquillamente lavorare insieme al Pd in questa legislatura. E al
tempo stesso garantire un ponte tra i due schieramenti. Moderando un bipolarismo ancora difettoso. Un’opposizione molto british insomma. Esatto, ma non è una diminutio. Vede, malgrado il bipartitismo in Italia il governo continua ad essere di chi ha vinto e non del Paese. Qui un governo ombra come ha pensato di fare il Pd sembra una parodia di quello inglese che invece è una cosa seria, con un suo peso. Se si va a Westmister si vede il capo dell’opposizione di fronte al capo del governo. Dopo che Brown ha finito di parlare chiede la parola Cameron. Questo schema esclude il Centro che smette di essere un punto politico e diventa un punto geometrico. Però, ecco il punto, in Gran Bretagna il vincitore delle elezioni ha molti contrappesi. Nei Paesi veramente bipolari chi vince non prende tutto come avviene in Italia dove la maggioranza tende a occupare tutte le cariche istituzionali. Mancano insomma i pesi e i contrappesi necessari. Per questo il Centro resta necessario come forza di controllo.
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mondo
Nel giorno delle primarie in Pennsylvania, il candidato repubblicano batte Obama e Hillary nei sondaggi
I democratici litigano, McCain cresce di Andrea Mancia arack Obama e Hillary Rodham Clinton continuano a darsele di santa ragione. John McCain ringrazia e si augura che la “guerra civile” interna alla sinistra americana continui per tutta l’estate. È questo lo “stato dell’arte” delle elezioni presidenziali statunitensi nel giorno delle primarie democratiche in Pennsylvania. Primarie che, secondo gli istituti di ricerca, dovrebbero vedere l’affermazione dell’ex First Lady, in vantaggio di circa 6 punti percentuali nella media degli ultimi sondaggi. In questa media, però, convivono risultati assai diversi tra loro, perché si oscilla dai 3 punti di distacco registrati da Public Policy Polling ai 10 di Zogby e Suffolk, passando per i 5 di Rasmussen Reports e Mason-Dixon, i 6 di Survey Usa e i 7 di Strategic Vision. Non sono variazioni di poco conto. Come ha spiegato bene l’analista John McIntyre su Real Clear Politics, non si tratta di semplici bizantinismi numerici, ma di percentuali che possono fare la differenza per futuro della campagna elettorale democratica. McIntyre ipotizza cinque diversi scenari. 1) Obama vince in Pennsylvania: la corsa è definitivamente chiusa. 2) La Clinton vince in Pennsylvania, ma con meno di 5 punti percentuali di scarto: la corsa non è formalmente chiusa, ma di fatto è ormai segnata a favore di Obama. 3) Hillary vince con uno scarto tra i 6
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e i 9 punti: rimane lo status quo, che naturalmente favorisce il front-runner Obama, soprattutto con la convention democratica che continua ad avvicinarsi inesorabilmente. 4) Hillary vince con 10-13 punti di vantaggio: la Clinton rimane l’underdog, ma le sue chance di vincere la nomination crescono considerevolmente. 5) Hillary vince con più di 14 punti di vantaggio: la corsa si trasforma radicalmente, con la Clinton che può iniziare a puntare ad una vittoria nel computo del voto popolare; in que-
pre di più ad un incontro di wrestling non truccato, McCain cresce costantemente in tutti i sondaggi nazionali. Secondo il tracking quotidiano di Rasmussen Reports, McCain ieri aveva 5 punti percentuali di vantaggio su entrambi i candidati democratici. Ma, in ogni caso, non c’è più un istituto di ricerca in tutti gli Stati Uniti pronto a scommettere, come due o tre mesi fa, in una tranquilla passeggiata dei democratici alle elezioni di novembre. Come spiega il direttore di Roll Call, Stuart Rothenberg, su
Hillary si gioca le sue ultime chance per la conquista della nomination, mentre nello scontro con Obama il clima diventa sempre più pesante. A tutto vantaggio del senatore dell’Arizona sto scenario, secondo McIntyre, può accadere di tutto. Anche che né Hillary né Obama riescano a conquistare la nomination del partito.
L’esatta proporzione della probabile vittoria di Hillary in Pennsylvania, insomma, potrebbe incidere - pesantemente sui prossimi mesi della corsa verso la Casa Bianca. Anche perché, sullo sfondo del duello democratico, si staglia il profilo sempre più minaccioso di John McCain. Mentre Hillary e Obama continuano a scambiarsi reciprocamente accuse violentissime, in quello che somiglia sem-
The Rothenberg Political Report, il senatore repubblicano dell’Arizona «sta diventando progressivamente più competitivo ogni giorno che passa». «E per i Repubblicani scrive Rothenberg - una gara competitiva per la Casa Bianca è molto di più di quanto si aspettassero fino a qualche settimana fa, visto che tutti prevedevano una vittoria di proporzioni colossali per i democratici. Oggi, invece, un numero sempre maggiore di repubblicani (e anche qualche democratico) inizia addirittura a pensare che McCain possa vincere in novembre, attraendo una quantità sufficiente di democratici bianchi e
giocando sull’inesperienza e sulle posizioni troppo di sinistra del senatore dell’Illinois».
Questo non significa, naturalmente, che la corsa per McCain sia ormai in discesa. Prima o poi, lo scambio di cortesie tra Hillary e Obama è destinato a finire, per lasciare spazio al fuoco di fila “unificato” dei democratici nei confronti del senatore dell’Arizona. Allo stato attuale, stiamo assistendo ad una sorta di “corsa a tre”, in cui due candidati si insultano quotidianamente a tutto beneficio del terzo. Dopo la Pennsylvania, tra un mese, o addirittura dopo la convention di Denver di fine agosto, il partito democratico ritroverà magicamente la propria unità d’intenti nel fronteggiare la minaccia repubblicana (anche se “moderata” come quella rappresentata da McCain). E la dinamica della corsa potrebbe cambiare precipitosamente. Intanto, però, l’eroe della Guerra in Vietnam può approfittare del tempo che gli stanno graziosamente concedendo i suoi avversari democratici. Per evitare gli scontri da pollaio (si può dire “pollaio”, o è razzista/sessista?) delle ultime settimane, consolidando la propria immagine di leader e il proprio status “presidenziale”. McCain, insomma, può decidere il proprio ritmo preferito senza essere trascinato in dispute scelte da altri. Proprio quello che, per ora, Hillary e Obama non possono permettersi.
mondo
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Finora il Pakistan la usava in maniera discriminatoria
Modificata la legge sulla blasfemia d i a r i o
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
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g i o r n o
Rischio carestia per la Corea del Nord
i sono voluti 22 anni, ma le autorità civili e religiose del Pakistan hanno ammesso che la legge sulla blasfemia, strumento della repressione religiosa che domina alcune parti del Paese, potrebbe essere usata in maniera discriminatoria. Religiosi musulmani, avvocati e membri delle minoranze chiedono al governo un tagliando della legge, che deve essere attualizzata e resa meno vaga. La legge, che punisce con l’ergastolo o la morte chiunque dissacri Maometto o l’islam, è stata introdotta nel 1986. Dalla data della sua promulgazione ad oggi, le autorità giudiziarie hanno registrato oltre cinquemila denuncie correlate alle sue violazioni. Oltre al suo carattere chiaramente discriminatorio, la norma è sotto accusa anche per le manipolazioni che le vengono applicate: i giudici condannano analfabeti o persone con problemi mentali, che non distinguono il Corano dalla carta normale. Esemplare il caso di un giardiniere appena assunto in un parco pubblico che, il primo giorno di lavoro, è stato condannato per aver appoggiato un sacco di foglie secche contro il muro esterno di quella che, più tardi, ha scoperto essere una moschea. Ora, però, qualcosa potrebbe cambiare: dopo la pubblicazione del rapporto sui diritti umani nel Paese, che per il 2007 denuncia 23 nuovi casi di blasfemia «pesantemente manipolati», un gruppo di studiosi e religiosi di Lahore si è riunito per discutere il testo e proporre modifiche allo stesso. Per la prima volta, la maggior parte dei “nuovi blasfemi” è musulmana. Secondo Allama Muhammad Abbas Rizvi, teologo islamico, «la blasfemia è un concetto che cambia nei diversi mondi dell’islam contemporaneo: ciò che è blasfemo per un sunnita forse non lo è per uno sciita. Per questo, il testo deve essere aggiornato e modificato».
La norma, introdotta nel 1986, punisce con l’ergastolo o la morte chiunque dissacri Maometto o l’Islam
Anis Saadi, avvocato, aggiunge: «Molte volte la legge viene usata per punire un avversario o per colpire le minoranze religiose. Questo non è giusto, ed il governo ne deve prendere atto». Il primo a chiedere una svolta sull’argomento è stato però un deputato cristiano, Shahbaz Bhatti, che nel corso del suo primo intervento nel nuovo Parlamento ha detto che le minoranze religiose soffrono a causa di leggi discriminatorie, contrarie alle norme democratiche ed agli standard dei diritti umani internazionali, che devono essere abolite. Islamabad, per ora, non risponde alla
chiamata: la formazione del nuovo governo – che si fa strada faticosamente fra i boicottaggi dell’ex generale Musharraf – e la crisi dei rifugiati afghani impediscono ogni altra decisione. Soprattutto questo secondo aspetto, dicono fonti governative, preoccupa moltissimo l’esecutivo a causa dei diversi aspetti potenzialmente pericolosi che porta con sé. La questione, nata durante la rivoluzione sovietica ed aumentata di intensità durante la cacciata del regime talebano da Kabul, rischia inoltre di divenire un problema di-
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Pyongyang di nuovo sotto rischio carestia. Nel 1995 e 1996 la fame aveva causato circa due milioni di vittime. Secondo il programma alimentare mondiale, Pam, le inondazioni dello scorso anno hanno provocato una diminuzione del 25% della raccolta dei cereali. Il Giappone ritiene che nonostante la nuova tragedia che si addensa sul Paese, il regime comunista non si aprirà alle riforme. Questa volta però la Corea del Sud intende mostrare i muscoli. Seul, sotterrando la politica della mano tesa, lo scorso mese ha votato la mozione dell’Onu contro le violazioni dei diritti umani nel Nord.
Il Dalai Lama chiede aiuto agli Usa Il leader spirituale del Tibet si è rivolto agli Stati Uniti invocando il sostegno di Washington per risolvere il conflitto con Pechino. «In questo momento il vostro aiuto è indispensabile», ha detto il Dalai Lama rivolgendosi all’inviato speciale Usa, Paula Dobriansky. Nell’incontro che si è svolto nel Michigan il Dalai Lama non ha specificato in cosa concretamente dovrebbe consistere l’aiuto, ma ha ringraziato l’amministrazione americana per la «costante espressione della solidarietà» negli avvenimenti che hanno visto la repressione cinese nella provincia buddista.
La Francia riprende il dialogo con la Siria
plomatico di portata internazionale. L’Onu, infatti, critica il piano di rimpatrio dei 2,4 milioni di rifugiati presentato da Islamabad: questi «potrebbero rinfocolare la guerriglia islamica». Da parte sua, anche se in maniera non ufficiale, il governo pakistano replica: «Conosciamo il rischio, e proprio per questo non vogliamo avere più nulla a che fare con questa gente».
Il piano è stato presentato lo scorso anno, in risposta alle critiche di chi accusava l’allora governo Musharraf di ospitare terroristi islamici sul suo territorio. Il rimpatrio prevede l’allontanamento soltanto di “volontari”, ma la maggioranza dei rifugiati, che vivono in dei campi nella parte settentrionale del Paese, ha già fatto sapere di non voler tornare a casa: «Non abbiamo terreni ed abbiamo paura degli scontri fra esercito, talebani e truppe Nato». Tuttavia, Islamabad sembra essere inamovibile. Imran Zeb Khan, Commissario governativo per i rifugiati, assicura: «Faremo del nostro meglio. Kabul deve dare dei terreni ai suoi abitanti, e la comunità internazionale deve provvedere a progetti di recupero economico per questa comunità». Tuttavia, Kilian Kleinschmidt (rappresentante in Pakistan dell’Agenzia Onu per i rifugiati) ribatte: «Le persone non sono cose. La strategia presentata deve essere rivista e modificata».
Parigi e Damasco parlano di nuovo ad alti livelli. Ieri il ministro degli esteri di Parigi, Bernard Kouchner, ha incontrato in Kuwait il suo omologo siriano, Walid al-Muallem per discutere della situazione libanese. Si tratta del primo contatto tra i due Paesi dopo la decisione presa lo scorso dicembre di sospendere contatti ufficiali con Damasco. La diplomazia francese si mostra comunque prudente. «Bisogna parlare con tutti, anche con chi non è d’accordo» ha dichiarato un funzionario del Quai d’Orsay. Nei giorni scorsi la mediazione turca aveva fatto parlare di ripresa dei contatti anche tra Siria e Israele.
Hamas non riconoscerà Israele Precisando quanto detto dall’ex presidente americano Jimmy Carter, che lunedì aveva parlato della volontà dell’organizzazione palestinese di riconoscere Gerusalemme entro i confini del 1967, Khaled Mashaal, leader di Hamas in esilio a Damasco, ha detto che la sua organizzazione è pronta ad accettare lo stato ebraico nei confini del 1967, ma non riconoscerà «mai» il diritto all’esistenza di Israele. L’eventuale tratto di pace con Gerusalemme, ha proseguito Mashaal, dovrebbe essere sottoposto a un referendum cui «dovranno partecipare anche i profughi palestinesi».
In Zimbabwe si teme il bagno di sangue I vertici delle chiese del Paese africano hanno chiesto l’intervento della comunità internazionale. Il pericolo è il modello del Ruanda. Secondo i dignitari di Harare le tensioni seguite alla pubblicazione dei risultati elettorali del 29 marzo potrebbero facilmente prendere la via dello scontro armato e arrivare persino al genocidio.
Sarkozy vuole le riforme Fase complessa quella che si sta aprendo per il presidente francese. Popolarità in calo, crisi finanziaria che mette in forse le prospettive di crescita, riforme ancora nella fase iniziale. Ora però in vista della trasmissione televisiva, in occasione del primo anniversario della presidenza, 6 maggio, il capo dello stato ribadirà la sua volontà di portare avanti le elezioni, invitando i francesi ad «avere pazienza», come si è espresso un suo consigliere. Parole difficili da pronunciare per un uomo che ha sempre detto di «non voler attendere» per realizzare i propri scopi.
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speciale esteri
Occidente
Jane’s, autorità mondiale su difesa e sicurezza stila la classifica degli Stati più instabili del pianeta. Eccola: Gaza, Somalia, Sudan, Afghanistan, Costa d’Avorio, Haiti, Zimbabwe, Ciad, Congo e Repubblica Centroafricana
I TERRIBILI DIECI di Enrico Singer a pacificazione dell’Iraq è un obiettivo ancora lontano. Ma il comandante del corpo di spedizione americano, generale David Petreus, un risultato almeno lo ha centrato: la rivista Jane’s, che è la massima autorità in fatto di analisi militari e strategiche, ha ignorato il sanguinoso dopoguerra iracheno nella sua prima top ten delle aree più a rischio del mondo. O meglio, in questa speciale classifica dell’instabilità, l’Iraq arriva soltanto al ventiduesimo posto perché se è vero che «soffre di un alto livello di violenze quotidiane», il suo governo è relativamente autorevole, ha il controllo di molte zone del territorio nazionale e l’economia del Paese è più o meno in ripresa. Il primato negativo spetta, invece, a Gaza e alla Cisgiordania: i due pezzi di quella che comunemente viene chiamata l’Autorità palestinese. È qui che, secondo Jane’s, potrebbe esplodere un conflitto ancora più grave di
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quanto già avviene, ma di guardare dietro le quinte per anticipare i prossimi teatri di scontro partendo dallo studio di una serie di fattori divisi per categorie: dalla politica all’economia, dal quadro internazionale a quello militare, dalla sicurezza alla consistenza del tessuto sociale.
Ecco, allora, che la Striscia di Gaza e la West Bank si guadagnano a pieno titolo il primo posto nella classifica dell’instabilità. Il potere è diviso e conteso tra i moderati del presidente Abu Mazen e gli oltranzisti di Hamas del premier Ismail Haniyeh che si sono combattuti anche a colpi di mortai e di attentati. Non c’è alcun controllo ai confini col risultato che non si arrestano le incursioni dei kamikaze e i lanci di razzi Kassam contro Israele che, a sua volta, reagisce con rappresaglie militari. Le forze di sicurezza non sono efficaci e non sono altro che milizie asservite ai diversi gruppi di
Scopo della “top ten” è anticipare i prossimi teatri di scontro quello che già esiste. Seguono la Somalia, il Sudan, l’Afghanistan, la Costa d’Avorio, Haiti, lo Zimbabwe, il Ciad, la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica centroafricana. È un risultato che, a prima vista, potrebbe apparire sorprendente, ma il pregio – e l’ambizione – della ricerca, che è stata appena pubblicata e che d’ora in poi sarà continuamente aggiornata, è proprio quello di non fermarsi alla valutazione di
potere. Il livello di legalità è minimo. L’amministrazione della giustizia quasi inesistente. Le condizioni di vita dei cittadini – dall’istruzione all’assistenza sanitaria – peggiorano, come i recenti assalti dalla popolazione esasperata oltre la frontiera con l’Egitto hanno dimostrato. Un quadro allarmante che rende problematici tutti i tentativi di ripristinare quella road map verso la pace che era stata faticosamente negozia-
ta tra Israele e l’Autorità palestinese con la mediazione degli Stati Uniti, dell’Europa e della Russia. La classifica di Jane’s lo lascia soltanto intendere, ma lo snodo che ha fatto precipitare la situazione fino a questo punto è la vittoria di Hamas nelle elezioni politiche del 25 gennaio 2006 con la conquista di 76 seggi sui 132 del Consiglio legislativo palestinese che ha portato alle dimissioni del premier moderato Abu Ala – di Fatah come Abu Mazen – e alla formazione del governo guidato da Haniyeh che ha subito sconfessato gli accordi di Oslo che avevano fissato i punti cardinali del negoziato di pace con Israele. La vittoria di Hamas, al di là di tutte le analisi sulla delusione dei palestinesi nei confronti della gestione dei Territori da parte di Fatah, non rappresenta soltanto la sconfitta dell’ala moderata: è la trasformazione di una storica rivendicazione di autodeterminazione nazionale – quella del popolo palestinese alla ricerca di una sua entità territoriale e statuale – in una lotta per l’affermazione di uno Stato islamico in Palestina e per l’eliminazione di Israele. Hamas è l’acronimo di Harakat al Muqawwama al Islamiya (Movimento di resistenza islamico) e nella sua carta costitutiva, che è del 1988 e non è stata mai emendata, non si parla più del diritto dei palestinesi ad avere una patria, ma della volontà di «innalzare la bandiera di Allah sopra ogni metro della Palestina, terra islamica che non può essere mai ceduta a non musulmani» e di farlo attraverso la jihad annientando Israele. Nello stesso anno l’Olp aveva riconosciuto il diritto di Israele ad esistere. Il conflitto interno ai palestinesi, insomma, viene da lonta-
no. Ed è, apparentemente, insanabile. Dopo la vittoria elettorale del 2006 anche l’Unione europea ha vincolato il suo appoggio materiale all’Autorità palestinese a tre principi: la rinuncia di Hamas alla lotta armata, il riconoscimento di Israele, il rispetto degli accordi di Oslo.
D a a l l o r a , p e r ò , nulla è cambiato. Anzi, come nota Jane’s, la frattura interna tra Hamas e Fatah si è acuita e il premier Ismail Haniyeh, più che dal presidente Abu Mazen, continua a prendere ordini da Khaled Mashal, la mente politica di Hamas che vive a Damasco. La capitale della Siria, da una parte, e quella dell’Iran, dall’altra, sono altrettanti snodi di sostegno dei fondamentalisti: da Hamas a Hezbollah – il movimento che agisce contro Israele dal Libano – fino ai talebani in Afghanistan. E non è, certo, un caso che (oltre a
una serie di Paesi africani di cui parliamo in un altro articolo del supplemento) Jane’s indichi proprio l’Afghanistan al quarto posto della sua classifica dell’instabilità. Il governo di Hamid Karzai a Kabul, rispetto a quello dell’Autorità palestinese, è più strutturato, non è spaccato al suo interno e ha il controllo di alcune regioni del Paese. In Afghanistan c’è anche la presenza di una forza militare internazionale che sta facendo di tutto per rafforzare la sicurezza, combattere i terroristi e sostenere il difficile processo di democratizzazione. Ma è molto simile la minaccia: il fondamentalismo islamico che, anche qui, ha trasformato quella che è stata per anni una questione nazionale – basta ripercorrere le tappe delle guerre contro il colonialismo, prima, e l’occupazione sovietica, poi – in una jihad per l’affermazione di un regime islamico.
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Con sette Paesi sull’orlo di un conflitto è l’area a maggiore rischio
Il futuro dell’Africa è sempre più nero di Maurizio Stefanini frica peggio del Medio Oriente. Lo certifica il Jane’s Information Group: forse il più noto servizio di informazioni del mondo in materia di sicurezza. Nel nome, al profano può forse ricordare la fidanzata di Tarzan, ma in realtà deriva dal signor Fred Jane: che da semplice appassionato di navi da guerra iniziò a sviluppare in materie militari un sapere talmente enciclopedico da decidere nel 1898 di mettervisi in affari. L’Africa di Tarzan, come si è ricordato, è comunque ora al centro dell’attenzione di Jane’s, che da fine marzo ha lanciato un nuovo servizio on line per graduare la pericolosità dei Paesi nel mondo. Al primo posto ci sono Gaza e West Bank, al quarto l’Afghanistan e al sesto Haiti, mentre l’Iraq è disceso al 22esimo. Ma sette posti sui primi dieci spettano al Continente Nero.
A
L’Iraq è solo al 22esimo posto perché il governo controlla parte del territorio Ma c’è anche un altro elemento che lega queste due caselle-chiave – e non solo – della classifica dell’instabilità: è al Qaeda. Il ruolo del gruppo fondato dal saudita Osama bin Laden (al Qaeda in arabo significa la base) è, al tempo stesso, quello di sfruttare le crisi locali e di fonderle in un unico disegno. Anche materialmente: reclutando i suoi combattenti in Afghanistan come in Medio Oriente, addestrandoli alla lotta armata e, soprattutto, alle tecniche del terrorismo, proiettandoli in una dimensione internazionale – come l’attacco alle Torri Gemelle di New York ha tragicamente provato – e finan-
ziando nuove cellule in Africa e in Europa. La presenza di al Qaeda in tutti i Paesi della top ten di Jane’s, ad eccezione forse di Haiti, conferma che il gruppo è ormai una vera multinazionale del terrore innestata nelle diverse realtà con l’unico, e peraltro dichiarato, obiettivo di distruggere i “nuovi crociati” dell’Occidente e i loro alleati. Che sono, poi, i governi musulmani moderati: da quello pakistano a quello egiziano. Anche l’Autorità palestinese, prima della vittoria di Hamas, era presa di mira da al Qaeda che la considerava “venduta” agli interessi americani e israeliani. E il cerchio si chiude.
Al numero due, infatti, c’è la Somalia, appena teatro di un confronto militare tra la Francia e i pirati del Puntland, che avevano catturato il vascello Ponant con 32 marinai. A 14 anni dalla dissoluzione dello Stato in seguito alla rivolta contro Siad Barre, nel 2004 è stato creato un Governo Federale di Transizione che ha un ampio riconoscimento internazionale e l’appoggio di Usa e Etiopia, ma di fatto controlla solo le aree attorno alle città di Mogadiscio, Baidoa, Jowhar e Beledweyne. Tutt’intorno, al centro e nel sud operano le bande islamiste. A Kismaayo e lungo la costa centrale ci sono altri oppositori del governo, ma a base tribale piuttosto che islamica. All’estremo nord il Somaliland ex-inglese ha proclamato l’indipendenza, pur non riconosciuta da nessuno. Il Gedo, incuneato tra i territori islamisti e l’Ogaden lungo il corso del Giuba, se ne sta per conto suo. E tra islamisti e Somaliland ci sono poi il Galmudug, il Maakhir e il Puntland che teoricamente dicono di riconoscere il Governo Federale di Transizione, ma in realtà si governano anch’essi ognuno per conto proprio. E il Puntland è appunto diventato un temibile covo di pirati. Contro questa specie di Tortuga del terzo Millennio Sarkozy sta ora chiedendo di modificare il diritto di intervento anti-pirati garantito dalla Convenzione di Montego Bay del 1982, in modo da garantire un diritto di inseguimento anche fuori dalle acque internazionali. Terzo è il Sudan, dove il Darfur è ufficialmente definito dall’Alto Commissariato Onu per i rifugiati «non una delle più gravi emergenze umanitarie del mondo, ma la più grave emergenza umanitaria in assoluto»: 400.000 morti, 10.000 nuove vittime al mese, 2 milioni di persone costrette ad abbandonare le proprie case e 4 milioni la cui esistenza dipende da un aiuto esterno, su una popolazione di 6 milioni. E questa tragedia ha inoltre contagiato il vicino Ciad, che ospita 280mila rifugiati dalla regione sudanese, e in cui inoltre vi sono 170mila rifugiati interni in seguito a una rivolta di clan strettamente intrecciata alla guerra del
Darfur. Poiché il governo di Karthoum accusa il presidente ciadiano Idriss Déby di appoggiare i ribelli di Movimento Giustizia e Eguaglianza, Esercito di Liberazione del Sudan e Alleanza Democratica Federale del Sudan, infatti, a sua volta appoggia la guerriglia di Unione delle Forze per la Democrazia e lo Sviluppo e Raggruppamento delle Forze per il Cambio, a fianco della quale si sono infiltrate addirittura le famigerate milizie dei “diavoli a cavallo” Janjaweed. Dal 2 al 4 febbraio scorso le varie fazioni si sono affrontate nella stessa capitale in una Battaglia di N’Djamena che è costata almeno 700 morti, e in cui Déby è riuscito a prevalere solo grazie al decisivo soccorso di truppe francesi, oltre che di guerriglieri del Darfur. Ma nel Ciad ci sono anche 55mila rifugiati dalla Repubblica Centrafricana, il cui presidente François Bozizé è un capo guerrigliero che depose nel 2003 il suo predecessore Ange-Félix Patassé con le armi. Nel 2004 si accese però contro di lui una nuova rivolta nel Nord appoggiata a sua volta dal Sudan, che formalmente è stata conclusa nel 2007 con un accordo di pace, ma che lascia in realtà vari strascichi. Il Ciad sta infatti al numero otto nella Top Ten di Jane’s, e la Repubblica Centraficana al dieci.
Peggio di entrambe, però, sta la Costa d’Avorio, al numero cinque. Anche se, teoricamente, la guerra civile tra il Nord musulmano e il Sud cristiano dovrebbe essersi conclusa con l’accordo di pace che il 4 marzo del 2007 ha portato alla nomina del leader ribelle Guillaume Soro a Primo Ministro del Presidente Laurent Gbagbo. Ma la restaurazione effettiva dell’autorità del governo centrale sul Nord è tuttora un compito laborioso, e resta altissima la xenofobia contro gli stranieri: sia immigrati degli altri Paesi africani, in particolare quelli del Burkina Faso; sia europei, e in particolare gli ex-colonizzatori francesi, dopo la “guerra” che il 6 e 7 novembre del 2004 contrappose forze di intermediazione e governativi, provocando una decina di morti. Una soluzione simile a quella della Costa d’Avorio e anche del Kenya, con un governo di unità nazionale, potrebbe anche servire a disinnescare la tensione nello Zimbabwe, dove dopo aver portato il Paese sull’orlo del baratro l’ottantaquattrenne presidente Robert Mugabe rifiuta ancora di riconoscere la vittoria dell’opposizione alle elezioni dello scorso 29 marzo. Con il tasso di inflazione più alto del mondo, il 70 percento della popolazione disoccupato, un altro 35 percento con l’aids, su otto milioni di abitanti almeno tre necessitano di un aiuto alimentare permanente, l’aspettativa di vita si è ridotta a 30 anni, mezzo milione di persone è senza casa e un milione è emine è emigrato all’estero. continua a pagina 14
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speciale esteri
Occidente
segue da pagina 13 Ciò, in un Paese un tempo considerato il granaio dell’Africa Australe. Intanto che la Commissione Elettorale continua a ritardare i risultati ufficiali, dal 15 aprile l’opposizione ha dichiarato lo sciopero generale a oltranza, mentre le milizie di excombattenti del partito al potere minacciano di intervenire contro la stessa opposizione, che vuole tagliare loro i ricchi sussidi che ricevono da Mugabe. Ma trapelano ora notizie di trattative dirette tra le fazioni, appunto per la formazione di una sorta di Grande Coalizione. Infine, al numero nove della lista di Jane’s c’è la Repubblica Democratica del Congo, che da ormai 12 anni vive una guerra dopo l’altra. Prima, fra 1996 e 1997, la Prima Guerra del Congo, con la vittoriosa rivolta dell’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo di Laurent-Désiré Kabila, con l’appoggio di Uganda, Ruanda, Burundi e Angola, contro il regime di Mobutu Sese Seko, a sua volta appoggiato dai ribelli angolani dell’Unita. Costo, oltre 200mila morti. Ma la coalizione vittoriosa presto si dissolse, e nel 1998 scoppiò quella Seconda Guerra del Congo altrimenti nota come Guerra Mondiale Africana. Da una parte, dunque, Kabila, con l’appoggio di Namibia, Zimbabwe, Angola, Ciad, milizie tribali Mai Mai e milizie di rifugiati hutu dal Ruanda. Dall’altra, gli exmobutisti del filo-ugandese Movimento per la Liberazione del Congo (Mlc), il filo-ruandese Raggruppamento Congolese per la Democrazia (Rcd), le milizie tutsi Banyamulenge, l’Uganda, il Ruanda e il Burundi. Risultato, in cinque anni, oltre 5 milioni di morti: compreso lo stesso Kabila, ucciso il 16 gennaio 2001 in un tentativo di golpe, e sostituito alla presidenza dal figlio Joseph. Nel luglio 2003 un accordo di pace porta, anche qui, a un governo di unità nazionale. Ma Laurent Nkunda, un comandante dell’Rcd divenuto generale del nuovo esercito con lo stesso accordo di pace, nel 2004 è tornato alla macchia nella regione del Kivu, alla testa di 6-8mila uomini. Dopo un numero imprecisato di vittime, anche questo conflitto si è concluso con un accordo di pace, lo scorso 23 gennaio. Ma dal Kivu continuano tuttora ad operare i ribelli hutu che combattono contro il governo a egemonia tusti del Ruanda. E continua tuttora, sempre nella Repubblica Democratica del Congo, quell’altra faida che dal 1996 nella regione di Ituri oppone i contadini Lendu ai pastori Hema. Un altro Darfur, costato oltre 60mila morti.
In Afghanistan l’istruzione è obbligatoria dai 7 ai 15 anni di età, ma di fatto è preclusa alla gran parte della popolazione. Solo il 36,3% degli adulti sa leggere e scrivere. Nel 1996, sotto i talebani, l’istruzione fu vietata alle donne, e adesso studia non più del 4% della popolazione femminile. Il 57% degli afgani ha meno di 18 anni
Per il ministro delle Finanze se sicurezza e sviluppo marciano di pari passo si può sperare
L’Afghanistan è ancora fragile Colloquio con Anwar-ul-Haq Ahadi di Greg Brunio Afghanistan è un Paese in guerra che si trova ad affrontare enormi problemi a livello di sviluppo economico. Ma il Ministro delle Finanze Anwar-ul-Haq Ahadi, recentemente a Washington per le riunioni di primavera del Fmi/Banca Mondiale, ha affermato che qualora il Paese conseguisse l’obiettivo di maggiore sicurezza e di riforme in tema di aiuti esteri, esso avrebbe stabili prospettive di benefici a lungo termine. I Paesi della Nato discutono il crescente impegno delle truppe militari nel sud e nell’est dell’Afghanistan. Il Paese è povero, ma considerate le attuali sfide in termini di sicurezza, come può operare una svolta dal punto di vista economico? Dobbiamo combattere su due fronti. Un livello minimo di sicurezza è la condicio sine qua non per lo sviluppo. Speriamo che col tempo, grazie all’aiuto delle forze
L’
Quali sono le aspettative di crescita dell’economia afghana nei prossimi mesi e nei prossimi anni? L’anno finanziario che si è appena concluso ha registrato un tasso di crescita del 13,5 percento di cui siamo soddisfatti. In Afghanistan, questo tasso è legato alle condizioni atmosferiche. Quando registriamo adeguate quantità di pioggia e neve, il settore agricolo va bene; quest’anno la neve è stata buona, ma le piogge no e speriamo di non dover fare i conti con la siccità. Se così fosse, il tasso di crescita sarebbe inferiore. Sul fronte agricolo la comunità internazionale è attiva nell’aiutare la transizione dalla coltivazione del papavero ad altre forme di agricoltura. Come dissuadete i contadini? Non si tratta soltanto di pressioni internazionali. Anche noi ci rendiamo conto che le sostanze stupefacenti non fanno bene alla sa-
Almeno per i prossimi sei anni il Paese dipenderà dagli aiuti internazionali internazionali e delle forze nazionali afghane, saremo in grado di assicurare quel livello minimo di sicurezza che è condizione imprescindibile per lo sviluppo. Ma al momento dobbiamo perseguire questi due obiettivi simultaneamente.
lute del Paese e vorremmo gradualmente porre fine alla dipendenza da questo settore dell’economia. Per aiutare gli agricoltori ad operare questa transizione abbiamo alcuni progetti in atto. C’è un programma per la costruzione di strade rurali utile a collegare i
distretti alle aree provinciali e fare in modo che si possano facilmente trasportare i prodotti al mercato.Vi è un programma che incentiva gli agricoltori delle varie province a coltivare un prodotto alternativo. Per quest’anno il nostro obiettivo è quello di ridurre la superficie sulla quale si coltiva il papavero di circa il 25 percento. Sono molte le aree in cui si coltiva il papavero. Avete riscontrato o prevedete che i Talebani cercherano di convincere gli agricoltori a non partecipare al programma di sradicamento? Credo di sì. Penso l’abbiamo già fatto. Ma il governo considera la coltivazione un’attività illegale e insisterà su questo. Pertanto, indipendentemente da come si comporteranno i talebani, andremo avanti su questa strada. Dal 2002 i donatori internazionali hanno fornito decine di miliardi di dollari per l’Afghanistan. Tuttavia in passato avete criticato il tipo di controllo che gli afghani esercitano sulle modalità con le quali vengono spesi questi fondi. Che tipo di programmi di assistenza ed aiuti esteri ritenete siano utili? Risponderò in termini generali. Gli stanziamenti per la ricostruzione dell’Afghanistan ammontano a circa 39 miliardi di dollari. Di questa cifra ne sono stati impegnati 25 miliardi. Negli ultimi 6 anni, di questi 25 miliardi di dollari, ne sono stati effettivamente spesi soltanto 16 miliardi, ovvero l’importo effettivamente erogato. Di questi, 5 miliardi di dollari sono stati spesi dal governo nazionale.
Dunque solo un terzo delle risorse destinate all’Afghanistan è stato speso tramite il governo nazionale. Riteniamo che l’efficacia degli aiuti sia di gran lunga maggiore quando i fondi sono spesi dal governo nazionale. Una delle preoccupazioni della comunità internazionale è la capacità. I donatori vogliono avere prova del fatto che l’Afghanistan stia passando dalla dipendenza degli aiuti esteri all’auto-sufficienza. Su questo, è nevralgica la riforma delle imposte. Che cosa ci può dire al riguardo? In termini di aumento delle entrate nazionali, abbiamo conseguito risultati positivi. Il primo anno dell’amministrazione Karzai registrammo soltanto 118 milioni di dollari di entrate. Lo scorso anno questo importo è passato a 685 milioni di dollari e quest’anno prevediamo di arrivare a 887 milioni di dollari. Si tratta di un aumento superiore al 500 percento di entrate in confronto al primo anno. Ma anche se abbiamo conseguito risultati positivi nell’accrescere le entrate, le spese in Afghanistan, specialmente quelle per lo sviluppo, non possono essere finanziate dalle entrate nazionali. Siamo totalmente dipendenti dall’assistenza e dagli aiuti esteri per quanto riguarda il bilancio in tema di sviluppo. Pertanto nel prossimo futuro - diciamo per i prossimi cinque o sei anni - non penso sia realistico pensare di poter finanziare la spesa per lo sviluppo con le entrate nazionali. Anche se dovessimo raddoppiarle, triplicarle o quadruplicarle, non sarebbero sufficienti. © Cfr.org
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Crisi economica, alimentare, politica e razziale si sommano a una risposta internazionale ancora insufficiente
Haiti marcia verso il baratro? di Raffaele Cazzola Hofmann ra il febbraio del 2004 quando JeanBertrand Aristide scappò da Haiti. A porre fine alle fortune politiche del carismatico ex missionario salesiano salito al potere nel 1990 col sostegno occidentale furono una rivolta popolare e le pressioni dall’estero. La fuga di Aristide avrebbe dovuto segnare un nuovo inizio per Haiti. Se le basi economiche e sociali del Paese già allora più povero del continente americano sembravano fragili, quantomeno a far sperare c’era l’obiettiva constatazione che una comunità internazionale troppe volte divisa (e allora nel pieno del dibattito sull’Iraq) dava l’impressione di potersi unire sul piccolo Stato caraibico. Proprio le sue scarse dimensioni, l’assoluta mancanza di un qualunque peso geopolitico e l’assenza di risorse naturali o di altre attrattive economiche sembravano le condizioni ideali perché non ci fossero ostacoli ad un’azione internazionale concertata e del tutto condivisa.
E
Fuggito il dittatore e sbarcati i marines americani per mantenere l’ordine e bloccare i saccheggi esplosi durante la rivolta anti-Aristide, la comunità internazionale si era mossa piuttosto in fretta. Il primo giugno 2004 il Consiglio di sicurezza dell’Onu votò una risoluzione per autorizzare un primo intervento di peace-keeping. A capeggiare i caschi blu fu chiamato il Brasile. Nell’ottobre 2007 la missione Onu - formata in larghissima maggioranza dai maggiori Paesi latinoamericani ma anche con la solida presenza di contingenti nepalesi, giordani e croati - fu prorogata e la sua consistenza portata a circa settemila unità tra militari e civili. Molti Paesi occidentali hanno inoltre aderito alla conferenza dei donatori la cui
prossima riunione, a Madrid, è fissata per dopodomani. A tanto sforzo non è però corrisposto un risultato adeguato. In altri termini l’addio di Aristide non è bastato a pacificare un Paese tanto piccolo quanto frammentato mentre il pur robustissimo presidio dell’Onu non è stato la panacea di tutti i mali. Che la situazione haitiana, a dispetto delle apparenze, fosse carica di incognite lo avevano rilevato alcuni osservatori internazionali già nel 2004 poche ore dopo la precipitosa partenza di Aristide e lo sbarco dei marines Usa. Il 12 febbraio di quell’anno Max Boot, consulente del Council on Foreign Relations, sulle colonne del Los Angeles Times suggeriva un paragone apparentemente azzardato tra l’Iraq del dopo-Saddam e l’Haiti del dopo-Aristide. Col senno del poi le previsio-
libri e riviste
sistono veramente i democratici nel mondo arabo? A questa domanda e ad altre di uguale tenore politologico, cerca di rispondere il testo, eliminando la tesi di fondo che democrazia e Medio Oriente siano componenti di un verbo indeclinabile. Non c’è dubbio che da quelle parti si soffra di un deficit di governance, di istituzioni indipendenti, di leggi democratiche e di una vera opinione pubblica che abbia la forza di piegare le oligarchie, ma non solo. I governi locali sono strutturalmente insofferenti nei confronti del pluralismo, del dissenso politico e della libertà d’espressione. Tutti fattori che hanno aiutato ad incubare un estremismo che odia i privilegi dei pochi che comandano e che, in genere, sono visti come gli alleati
E
dell’Occidente. Dopo l’11 settembre ha Washington compreso che per la propria sicurezza era necessario che i valori della democrazia facessero da sentinella in tutti quei Paesi dove l’odio antioccidentale stava crescendo. È nato così il progetto dell’American Enterprise, diretto da Danielle Pletka, di cui il libro è un primo documento riassuntivo, che dimostra quanto il mondo arabo sappia esprimere una classe di riformatori e dissidenti necessari per preparare l’Islam che sarà. Danielle Pletka, Michael Rubin e Jeffrey Arzava Dissent and reform in the arab world: empowering democrats Aei press – 124 pagine
ni di Boot si sono rivelate giuste. Oggi Haiti è più povera che mai. La disoccupazione è intorno al 70 per cento. Quattro haitiani su cinque vivono con meno di due dollari al giorno. Lo scontro sociale tra la maggioranza creola e la minoranza francofona è al culmine. Dai primi di aprile ci sono gravissimi disordini causati dal drastico rincaro del prezzo di pane e riso. Assediato da un folla inferocita nella sua residenza, il presidente Rene Preval ha diramato un «messaggio al popolo haitiano» che si conclude con un’esortazione inquietante: «Tenete duro».
L’Onu ha prima condannato le violenze; poi, mentre il senato haitiano votava la sfiducia al primo ministro Jacques Eduard Alexis, assurto al ruolo di capro espiatorio, ha offerto robusti aiuti umanitari consen-
a forte alleanza tra Washington e il Pakistan di Perwez Musharraf, cominciata nel dopo 11/09, servita a proteggere il fianco meridionale del Golfo Persico, è oggi in serio pericolo. Negli ambiente dell’intelligence Usa si chiedono se il nuovo comandante dell’esercito pakistano, Ashfaq Kayani, saprà recidere i legami fra al Qaeda, i talebani e consistenti settori delle forze armate e dell’Inter services intelligence (Isi). Una perdita di controllo sul Pakistan innescherebbe un effetto domino su tutta la regione, con conseguenze persino in aree remote come l’Etiopia, oltre a creare serie preoccupazioni a Israele. Si paragonano le conseguenze della possibile caduta del governo “militare” di Musharraf a quelle della rivoluzione khomeinista del 1979. Ed Blanche Pakistan a major stepping stone in Al Qaeda’s global strategy The Middle East – April 2008
L
tendo al governo di far abbassare il prezzo del riso del 15 per cento. La Banca Mondiale, che dal 2005 ha già inviato nell’isola 220 milioni di dollari in aiuti, sta per varare altri dieci milioni di dollari contro la crisi alimentare. L’ex potenza coloniale francese ha appena accordato un nuovo prestito umanitario di 800mila euro. Sul piano della sicurezza le truppe dell’Onu vivono in una situazione di costante pericolo. Lo hanno dimostrato per l’ennesima volta l’assassinio di un peace-keeper nigeriano e il ferimento di altri tre militari stranieri avvenuti a metà aprile. Ma le drammatiche difficoltà in cui si dibatte Haiti sono legate anche a fattori politici. La priorità del presidente Preval e del governo (a giorni dovrebbe essere designato un nuovo primo ministro) è, pur nella precaria situazione del Paese, mantenere la credibilità agli occhi di una comunità internazionale che finora ha visto i suoi sostanziosi aiuti non produrre alcun effetto o addirittura, come successo un paio di anni fa, sparire nel buco nero della corruzione. Un compito già di per sé improbo viene reso più complesso dall’evenienza che Haiti si trova in una eterna campagna elettorale. Preval è stato sì eletto, ma in una situazione di caos ed emergenza assoluta, ha mantenuto la struttura governativa voluta dal suo predecessore ad interim, Gérard Latourte. Mancano ancora tre anni abbondanti alle prossime elezioni. Ma già adesso «la battaglia per il 2011 è aperta», come titola il settimanale Haiti en Marche. Secondo la stampa locale l’ex premier Alexis cercherà la rivincita su Preval. Ma nella situazione attuale una usurante lotta di potere lunga tre anni tra un presidente e un ex primo ministro dimissionato è l’ultima cosa di cui la derelitta Haiti abbia bisogno.
la riedizione aggiornata e corretta della famosa dottrina Kennan, la sofisticata politica di contenimento adotta durante la guerra fredda. Mantenere un giusto e delicato equilibrio tra forza militare e misure di sicurezza, con la necessità di proteggere le libertà civili, garantendo lo sviluppo economico. Come recita il sottotitolo, si vuole trarre profitto dall’esperienza del confronto avviato dopo che la iron curtain era calata sull’Europa dell’Est, per vincere la battaglia contro il terrorismo, salvando il recinto delle libertà e le sue prerogative democratiche. Paul Rosensweig, James J. Carafano Winning the long war Heritage press 150 pagine - 24,95 dollari
È
a cura di Pierre Chiartano
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economia Confindustria, oggi la Marcegaglia presenta la sua squadra e il suo programma
ROMA. Per la prossima Confindustria meno politica, più impresa. Meno utilities e banche, più manifatturiero. E molta attenzione all’internazionalizzazione, al ruolo chiave delle industrie del Nord, alle partite dei contratti e della sicurezza sul lavoro. Oggi Emma Marcegaglia presenterà la sua squadra (dove non mancheranno presenze femminili) e il suo programma. Ma soprattutto lancerà una rivoluzione soft rispetto al quadriennio montezemoliano. Marcegaglia, pur tenendo un profilo basso, punta a dare un’impronta netta alla sua presidenza. E lo dimostra la prima delle nuove nomine dell’associazione di industriali, quella di Federmeccanica. Qui si è giocata una prima importante partita e la lady di ferro di Viale dell’Astronomia l’ha vinta. Al posto di Massimo Calearo, falco veneto cooptato da Veltroni per rafforzare il fronte vicentino del Pd, infatti, sta per arrivare un altro mantovano, Pierluigi Ceccardi. Fondatore del gruppo “Raccorderie Metalliche”, attivo nella produzione di condutture, grande appassionato di auto d’epoca, è anche presidente di Cometa, megafondo previdenziale integrativo dei metalmeccanici. Incarico che dovrebbe a lasciare a breve. La nomina arriva in contrasto con Fiat e Sergio Marchionne che, al vertice di Federmeccanica avrebbe voluto un candidato a lui più vicino, come il bresciano Gianluigi Dellera, proveniente dall’universo industriale del Lingotto. A Ceccardi, comunque, ha molto giovato anche l’aiuto di Calearo.
Per il resto, arriverà una conferma per Alberto Bombassei. A lui la vicepresidenza con delega alle relazioni industriali. Anche questo è un segnale importante. Un secondo quadriennio per il numero uno di Brembo, infatti, era più volte stato messo in dubbio in queste ore. Marcegaglia ha però preferito la continuità, considerando il ruolo avuto da Bombassei nella difficile partita della riforma contrattuale, con grande attenzione al decentramento aziendale e al secondo livello. Senza contare le intese ancora da rinnovare. Due conferme anche per Gianfelice Rocca e per Andrea Moltrasio. Il primo, presidente di Techint, resterà vicepresidente con delega all’education. Il secondo, invece, resterà alla guida del comitato tecnico per l’Europa, sfruttando il suo grande profilo internazionale. E sull’estero Marcegaglia sem-
La svolta di Emma: più industria e meno politica di Giuseppe Latour
bra intenzionata a puntare molte delle pedine che ha a disposizione. Lo confermano alcuni dei nuovi arrivi. Come quello di Paolo Zegna, presidente di Smi (Sistema Moda Italia), a capo di uno dei marchi più prestigiosi. A lui andrà, fino al 2012, la poltrona di vicepresidente con delega all’internazionalizzazione.
Il suo arrivo sarà anche un segnale verso la valorizzazione del manifatturiero, dell’impresa in senso classico, superando i legami con utilities e banche che avevano caratterizzato l’ultima presidenza. Allo stesso modo, salterà la strategia di intervento diretto in politica. Anche perché Montezemolo aveva avuto come interlocutore privilegiato Walter Veltroni. E adesso si trova in mano poco o nulla. A conferma di questa linea tesa a valorizzare l’impresa italiana più che il capitalismo relazionale c’è l’arrivo di Cesare Trevisani, amministratore delegato del Gruppo Trevi. A lui andrà la delega alle infrastrutture. Un nuovo arrivo sarà quello della campana Cristina Coppola, già presidente di Confindustria Campania, considerata molto vicina al Pd, tanto che si era parlato di una sua candidatura alle ultime Politiche. A lei andrà il compito di sostituire Ettore Artioli nella vicepresidenza con delega al Mezzogiorno. E, ovviamente, andrà il compito di rafforzare la truppa di donne capeggiata da Marcegaglia. Su questa scia, anche la presidente di Assolombarda, Diana Bracco, alla quale sarà affidata una speciale delega per l’Expo 2015 di Milano, ma non una vicepresidenza, con la quale sarebbe incompatibile. Oltre alla probabile elezione di Federica Guidi, 38enne direttore generale di Ducati energia, al vertice dei giovani, in sostituzione di Matteo Colaninno. Completano il quadro Antonio Costato, da Rovigo, a capo di Grandi Molini Italiani, tra i leader in Europa del settore. A lui l’onere di sostituire Marcegaglia nel settore energia e una ricompensa per avere appoggiato fortemente la candidatura dell’attuale presidente. Resta dov’era Giuseppe Morandini, alla guida della piccola industria. Come il direttore generale, Maurizio Beretta e il presidente del Comitato tecnico, Edoardo Garrone. Poche le caselle ancora vuote, come la delega alla sicurezza sul lavoro. A quanto pare il nome favorito è quello di Samy Gattegno, Ceo dal gruppo Alcatel-Italia, ma in uscita dall’azienda francese.
economia
23 aprile 2008 • pagina 17
Manovre per sostituire in segreteria Nerozzi e Passoni eletti nel Pd. Ma la partita decisiva è un altra
Cgil,ritocchi in attesa dell’addio di Epifani d i a r i o
di Vincenzo Bacarani
d e l
g i o r n o
Il supereuro vola a 1,60 dollari La moneta europea sale al massimo di tutti i tempi toccando 1,60 dollari. La vertiginosa salita è dovuta anche ai dati sulla vendita di case esistenti negli Stati Uniti, che a marzo sono scese del 2%. Ma a far volare l’euro sono soprattutto diversi esponenti del consiglio direttivo della Bce, che non escludono nuovi possibili aumenti dei tassi europei. In particolare, il governatore della Banca di Francia, Christan Noyer, sostiene che l’ Eurotower «farà di tutto, non escluse nuove mosse sui tassi, per riportare entro l’anno l’inflazione sotto al tetto del 2 per cento».
Generali: de Castries (Axa), «non bisogna ascoltare le voci» «Sono in Axa da 19 anni e sono 19 anni che sento voci su Generali. Poichè non intendo andare in pensione a breve, penso che le sentirò ancora per anni. Bisogna lasciar perdere le voci». È quanto sostiene Henry de Castries, numero uno esecutivo del gruppo Axa, interpellato nel corso dell’assemblea degli azionisti del gruppo a proposito delle ricorrenti voci su Generali. «Il nostro obiettivo è sviluppare il gruppo».
Petrolio inarrestabile Ancora una volta il petrolio reagisce ai deprezzamenti del dollaro, procedendo nella direzione opposta e negli scambi sul Nymex, la Borsa merci di New York, il barile di Wti registra un nuovo massimo storico a 118,47 dollari. Dopo quello del petrolio è prezzo record anche per la benzina, che ha raggiunto 1,413 euro al litro mentre il gasolio ha sfiorato quota 1,4 euro.
ROMA. Cambi in vista nella segreteria Cgil dopo le elezioni del 13 e 14 aprile scorsi. Due elementi di spicco come Paolo Nerozzi e Achille Passoni sono stati eletti al Senato nelle file del Pd: il primo, vicino all’ala massimilista, in Veneto, l’altro, riformista, in Toscana.
Questo comporterà un rimescolamento di carte ai vertici di corso Italia, ed è probabile che, pur non intaccando il peso del Pd, si mettano le basi per nuovi equilibri che facciano da preludio all’uscita di Guglielmo Epifani. Non si profilano nel breve scossoni. La segreteria manterrà l’impronta che ha voluto darle il segretario generale. Sui nomi dei sostituti circolano le voci più disparate, ma appare sempre più probabile un’attenzione alle aree geografiche piuttosto che alle categorie. Basse, per esempio, le quotazioni di un rappresentante Fiom per due motivi: i metalmeccanici sono già rappresentati almeno in parte da Mauro Guzzonato e, soprattutto, appare difficilissimo, se non impossibile, “promuovere” un segretario Fiom che accetti la linea politica di Epifani, a parte il leader della minoranza Fausto Durante. Così prende quota l’opzione lombarda (il segretario della Camera del lavoro di Milano, Onorio Rosati
o il segretario generale della Cgil regionale, Susanna Camusso, peraltro con un passato in Fiom, appaiono i più indicati), anche perché la Cgil vorrebbe dare un segnale di attenzione al recente voto operaio del Nord spostatosi sulla Lega. Ma c’è anche chi crede possibile un maggior peso – in segreteria – del commercio e delle imprese artigiane anche per scorporare istanze e diritti dei vari settori produttivi ora tutti riuniti sotto la “supervisione” di Guzzonato. Difficile tuttavia che la leadership modifichi la struttura organizzativa.
Prematuro
e fuori luogo ora ogni discorso, tengono a precisare in corso d’Italia, tuttavia la corsa ai posti in segreteria era già scattata prima che arrivassero i risultati elettorali. Ma il più grande sindacato si appresta anche a un altro possibile cambiamento: quello del segretario generale Guglielmo Epifani, che dopo sei anni potrebbe lasciare l’incarico per tentare di approdare Strasburgo, al Parlamento Europeo. Se alle Politiche avesse vinto Veltroni, ci sarebbe stata probabilmente per il leader Cgil una poltrona da ministro. Ma, vista la sconfitta, l’unico modo per gratificare il costante impegno profuso da Epifani prima e durante la campagna elettorale del Pd potrebbe essere
Il segretario potrebbe essere ripagato da Veltroni con un seggio al Parlamento europeo. Spazio ai rappresentanti del Nord e del commercio
Atlantia: la convenzione con l’Anas è la priorità
quello di candidarlo per le consultazioni per Bruxelles del 2009, le più vicine nel tempo. Veltroni e il Pd non potranno infatti mai dimenticare tre momenti della gestione Epifani: lo slogan programmatico del congresso Cgil 2006: “Patto di legislatura con Prodi”, la firma al protocollo sul welfare del luglio dell’anno scorso e l’ufficializzazione dell’appoggio del maggior sindacato al candidato premier del centrosinistra a fine marzo a Brescia, durante un comizio-incontro pubblico di Veltroni con la presenza anche dei leader Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti.
L’atto ufficiale ha provocato imbarazzo anche all’interno della Cgil che ha sempre fatto intendere di avere concrete simpatie per governi di centrosinistra, ma che non era mai scesa in campo così ufficialmente. Una linea politica sempre meno gradita alla minoranza che il 29 aprile nel primo direttivo chiederà un congresso straordinario per cambiare i vertici.
«Bisogana rinnovare la convenzione con l’Anas». E’ questa la priorità per Atlantia ribadita dall’ad, Giovanni Castellucci, nel corso dell’assemblea per l’apporvazione del bilancio 2007. «Il 12 ottobre - ha spiegato Castellucci - abbiamo firmato l’accordo con l’Anas per il rinnovo della convenzione e l’Ue ha detto, attraverso numerose lettere di essere disposta a sospendere la procedura contro l’art.12, solo se il governo porta a buon fine tutto l’iter». L’assemblea degli azionisti di Atlantia ha poi approvato il bilancio 2007 con un utile netto a 381 milioni di euro e un dividendo di 0,68 euro, in crescita del 9,7%. Il dividendo sarà in pagamento il 22 maggio, con stacco della cedola il 19.
Crescono i debiti delle famiglie Sofferenze in netto aumento per le famiglie consumatrici nel 2007. L’incremento che emerge dal Quadro di sintesi del Bollettino Statistico della Banca d’Italia è del 5,1%, confrontando il dato di dicembre 2007 con quello dell’analogo mese del 2006. L’anno prima i prestiti in sofferenza alle famiglie, soprattutto mutui e credito al consumo, erano cresciuti ad un tasso annuo del 2,5 per cento. Alla fine del 2007, segnala la Banca d’Italia, gli impieghi concessi alle famiglie consumatrici considerati a rischio erano pari a 10.814 milioni (10.283 milioni a fine 2006 e 10.027 milioni a fine 2005).
Rc Auto: cala il prezzo medio di una polizza Il prezzo medio di una polizza Rc auto è diminuito del 2,7% nel 2007 in Italia. Il calcolo è dell’Ania che ricorda come per l’Istat invece si sia avuto un aumento dell’1,5%. La differenza, afferma una nota dell’associazione guidata dall’ad, Fabio Cerchiai, si spiega con il fatto che la stima Ania, a differenza di quella dell’istituto statistico, è a pesi variabili e tiene conto, in particolare, delle variazioni della distribuzione degli assicurati nelle diverse classi di bonus malus e dagli sconti praticati dalle imprese di assicurazione rispetto alle tariffe pubblicate. Mentre la raccolta complessiva delle assicurazioni nel 2007 si è attestata a 99,1 miliardi di euro, in calo del 7% rispetto al 2006. Il risultato, spiega la nota, è stato determinato da una riduzione dell’11,4% nel settore vita, solo in parte controbilanciata dal lieve incremento (+1,3%) registrato nel ramo danni.
pagina 18 • 23 aprile 2008
cultura
Il rapporto tra cultura e religione analizzato nell’ultimo libro di Roberto Di Ceglie
Tornare a Gesù per ritrovare se stessi di Maurizio Schoepflin ffermare, come fa Roberto Di Ceglie nel titolo del suo ultimo libro, che La religione è umanesimo significa criticare e respingere in un colpo solo le diverse dottrine ostili alla religione, le quali, in ultima analisi, fanno perno sulla convinzione che ogni credenza religiosa si riveli nemica dell’uomo. Così la pensava il grande poeta latino Lucrezio, che nel suo celebre De rerum natura, esaltando la filosofia di Epicuro, assimilò la religione a una sorta di carcere che priva l’uomo della libertà e della serenità; e così, lungo i secoli, l’hanno pensata numerosi filosofi che non hanno esitato a far coincidere la fede religiosa con la più raffinata, pericolosa e negativa forma di dis-umanesimo. Al contrario – sostiene Ferdinando Adornato nella Postfazione del libro , «ragionando di Gesù sentiamo naturalmente pulsare l’arteria centrale della ”via umanista”». Come non ricordare, a questo riguardo, che uno degli insegnamenti più ricorrenti e appassionati di Benedetto XVI concerne proprio la straordinaria, fecondissima continuità che lega l’immenso patrimonio della cultura greca con il cristianesimo? Non casualmente, rivolgendosi al nuovo ambasciatore greco presso la Santa Sede, il Pontefice, parlando dell’osmosi verificatasi fra cultura classica e cristianesimo, ha di recente affermato che essa «ha permesso alla prima di essere trasformata dall’insegnamento cristiano e al secondo di essere arricchito dal linguaggio e dalla filosofia greci».
A
Tra religione e cultura, tra le religione e umanità esiste dunque un’alleanza decisiva, che, nonostante l’impegno di atei e mangiapreti più o meno seri e agguerriti, resiste e si rinforza proprio perché l’uomo avverte che l’uccisione di Dio è il peggior suicidio. Di Ceglie, docente della Pontificia Università Lateranense, ha suddiviso il suo libro in cinque capitoli e
“
Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata
„
Alessandro Manzoni
Dio”.Tornare a Gesù, dunque, come nuova via per ritrovare noi stessi, e i fondamenti della nostra libertà: questo è l’imperativo categorico del nuovo millennio per uscire dalla barbarie dei totalitarismi». E – si potrebbe aggiungere – per liberarsi pure da quel disorientamento interiore, figlio del relativismo e del nichilismo, che è il vero brodo di coltura di ogni orrore pubblico e privato. Interessante e suggestiva risulta la scelta di Di Ceglie di rivolgersi direttamente al lettore dandogli del tu: in effetti, fin dalle origini, i cristiani ebbero chiara la convinzione che la rivoluzione più grande si dovesse compiere nel cuore dell’uomo, dove è Dio stesso a chiamare ciascuno per nome. La religione non è un fatto privato, ma si radica nell’interiorità per poi aprirsi al mondo: Gesù intrattenne sempre rapporti personali con i suoi interlocutori e per ognuno di loro ebbe parole originali e appropriate. Inoltre, Di Ceglie si mostra convinto che tutto ciò che di essenziale si può dire intorno alla grande questione della religione è in certo modo già presente dentro ognuno di noi.Tale concezione socratica (e poi platonica e agostiniana) della collocazione della verità in interiore homine, ben si coniuga con la certezza, cara a Di Ceglie, che «sapere non significa conoscere i pensieri dei dotti, ma capire come stanno le cose». Senza dimenticare che, in fatto di religione, capire significa mettere in pratica, come sottolinea ancora Ferdinando Adornato, quando rammenta che il Bene deve essere raccontato affinché poi venga vissuto e realizzato, secondo quei principi di libertà e di responsabilità che sono alla base della morale cristiana, la morale umanistica per eccellenza.
La religione si radica nell’interiorità per poi aprirsi al mondo. Sapere significa capire come stanno le cose Roberto Di Ceglie, docente della Pontificia Università Lateranense, è autore di ”La religione è umanesimo” (Ancora editrice, pagg. 112, euro 12,50) A sinistra Il Cristo sul sarcofago di Andrea Mantegna una conclusione, al fine di sostenere, nell’ordine, che la verità è un bene innegabile e insuperabile, che la vera religione promuove valori positivi, che non tutte le religioni si equivalgono, che Dio esiste ed è buono, che l’alleanza fra ragione e religione è l’unica via d’uscita dalla crisi dell’uomo contemporaneo e che, infine,
la religione è autentico umanesimo. Afferma ancora Adornato al termine del libro: «All’inizio del Ventunesimo secolo la storia di Gesù torna prepotentemente a bussare alle nostre coscienze, perché, duemila anni dopo, gli uomini, nei lager come nei gulag, lo hanno nuovamente crocefisso, giustificando la ”morte di
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fumetti
23 aprile 2008 • pagina 19
non appassionati di fumetti non avranno certamente compreso il messaggio che si cela dietro la messinscena che ha portato le autorità belghe a vestire da portiere d’albergo il celebre Manneken pis. La statua di bronzo del bambino che fa pipì e che rappresenta nel mondo l’immagine di Bruxelles ha vestito infatti per un giorno i panni di Spirou, un vivace adolescente dalle orecchie a sventola e il ciuffo sbarazzino che fece la sua prima apparizione tra gli eroi dei fumetti proprio in Belgio nel lontano 1938, in piena seconda guerra mondiale. L’abito dai toni rossi e gialli con il quale è stato coperto il putto di Bruxelles è proprio la divisa ufficiale di Spirou che ha compiuto settant’anni il 21 aprile scorso.
I
Comparso nell’omonima rivista alla fine degli anni Trenta, Spirou è un giovanissimo fattorino che al Moustic Hotel si occupa di mandare su e giù l’ascensore. I suoi primi autori sono Robert Velter (con lo pseudonimo Rob Vel) e sua moglie Blanche Domoulin (che si firma Davine). Ma, come detto, siamo in guerra, un particolare avvenimento in cui uomini apparentemente intelligenti e istruiti, smettono improvvisamente i panni di esseri umani per imbracciare un’arma e sparare contro altri uomini apparentemente intelligenti e istruiti. Il risultato che ne deriva, comune a tutti i conflitti e a tutte le epoche storiche, è quello di non risparmiare sofferenza e morte anche a coloro che, in abiti civili, sarebbero in grado di far progredire il genere umano. Nella rete incappa dunque anche il povero Robert Velter che viene fatto prigioniero dai tedeschi e resta nei loro campi di concentramento dal 1940 al 1941. Per questo le strisce di Spirou vengono affidate a Jijè che realizza nove avventure apportando non poche modifiche alla filosofia di fondo originaria. Intanto arrivano nuovi personaggi come il bizzarro e superficiale Fantasio che provoca addirittura la modifica del nome della serie che diventa Spirou et Fantasio. Ma anche le storie cambiano perdendo una buona parte di quell’accento comico iniziale per virare decisamente su scenari più avventurosi quasi a voler rivaleggiare a distanza con l’altro must del fumetto franco belga: Tin Tin. «Tin Tin ha un tratto più letterario - dice
Spirou, eroe del fumetto franco-belga, nato nel 1938
Il fattorino giallorosso compie 70 anni di Roberto Genovesi
Giornalista, investigatore, avventuriero, esploratore: la sua immagine è cambiata nel tempo, ma insieme a Tin Tin è diventato uno dei personaggi più amati dagli appassionati di almeno tre generazioni Bepi Vigna, sceneggiatore e creatore di Nathan Never e autore del Fumetto franco belga, Comic Art 1997 - perché le sue storie fanno molta attenzione all’intrigo mentre Spirou ha cercato di accompagnare le diverse epoche del fumetto fran-
co belga con toni più umoristici. Non a caso il periodo migliore di Spirou inizia quando, verso la fine degli anni Quaranta, viene affidato a un autore che riesce a coniugare avventura e gag umoristiche. Fino a quel momento Spirou poteva defi-
nirsi un personaggio da striscia e non da storia disegnata». E infatti nel 1946, a guerra conclusa, Spirou viene affidato ad André Franquin che torna a spingere su sfumature umoristiche riscoprendo quelle potenzialità del personaggio che
poi erano state quelle del boom della rivista per bambini che portava per titolo il suo nome. La popolarità del giovane fattorino in giallorosso (sarà che è nato nello stesso giorno in cui nacque Roma…) aumenta e la serie a fumetti acquista rinnovata popolarità. Accanto a Spirou e a Fantasio arrivano il divertentissimo Marsupilami, incrocio tra uno scoiattolo e un canguro, il Conte di Champignac, simpatico e stravagante inventore e il suo assistente Zorglub che invece si sente sottovalutato e vorrebbe conquistare il mondo e il giornalista pasticcione Gaston Lagaffe. Insomma, un parco personaggi che rafforza la serie e il suo protagonista portandolo a diventare una vera e propria icona del fumetto belga. Alla fine degli anni Cinquanta molti personaggi comprimari, vista la forza del profilo e la bravura degli autori, riescono perfino a uscire dalle tavole della serie originaria per vivere di vita propria avventure da protagonisti. È il caso di Gaston che appare in una lunga serie di tavole autoconclusive tanto da spingere Franquin a lasciare Spirou per dedicarsi completamente alle storie dell’addetto di redazione più strampalato della storia dei fumetti.
Spirou passa di mano in mano e di matita in matita fino ai nostri giorni. Jean Claude Fournier e Emile Bravo sono solo due dei nomi più noti che hanno firmato le tavole di Spirou e proprio Bravo, come segnala Af News, la più importante agenzia di informazioni online dal mondo del fumetto, ha incontrato il pubblico belga lo scorso 23 aprile nella libreria Slumberland per raccontare tutti gli aneddoti della sua avventura accanto al piccolo fattorino belga. La sua produzione di strisce, sotto il titolo Journal d’un Ingenu, è pronta per le stampe ed è dedicata allo Spirou delle origini, quando ancora lavorava in albergo mentre in Italia le storie di Spirou stanno per tornare nelle fumetterie grazie a Planeta De Agostani. Fattorino, giornalista, investigatore, avventuriero, esploratore. Spirou è stato perfino protagonista in fasce di una serie spin off intitolata Le Petit Spirou. La sua immagine, come un po’ quella di tutti i più celebri personaggi dei fumetti - supereroi inclusi - è naturalmente cambiata nel tempo ma assieme a Tin Tin ha saputo conquistare il podio dei character più amati dai piccoli appassionati di fumetti di almeno tre generazioni.
pagina 20 • 23 aprile 2008
XXI secolo
Tre gli scenari aperti: impero musulmano, rigetto islamico o pacifica convivenza e integrazione
Il destino dell’Europa è Eurabia? di Daniel Pipes segue dalla prima
Rotterdam finiranno per diventare, a partire dal 2015, le prime città europee la cui popoIl secolarismo che predomina in Europa, lazione è a maggioranza musulmana. Intorspecie in seno alle élite, conduce all’allonta- no al 2050, la Russia potrebbe diventare un namento dalla tradizione giudaico-cristia- Paese a maggioranza musulmana. Per assuna, alla desertificazione delle chiese e a ve- mere un numero adeguato di lavoratori utili dere nell’Islam una fonte di richiamo. In to- a finanziare gli esistenti piani pensionistici, tale contrasto, i musulmani ostentano un l’Europa necessita di milioni di immigrati e fervore religioso che si traduce in sensibi- questi tendono ad essere in modo sproporlità jihadista, in una supremazia nei con- zionato musulmani per motivi legati alla fronti di coloro che non sono musulmani e prossimità geografica all’Europa, ai legami nella speranza che l’Europa sia in attesa coloniali e alle agitazioni che imperversano di convertirsi all’Islam. nei Paesi a maggioranza musulmana.
L’auto-disprezzo Ue per il fascismo, il razzismo e l’imperialismo provoca una domanda fra i musulmani: se gli europei rifuggono il proprio passato e i propri costumi, perché adottarli? Il contrasto nella fede presenta altresì delle implicazioni demografiche, con i cristiani che hanno in media 1,4 figli per donna, o circa un terzo in meno rispetto al numero necessario per mantenere competitiva la loro popolazione, e con i musulmani che godono di un tasso di natalità di gran lunga più elevato, anche se in calo. Amsterdam e
Va segnalato, inoltre, che parecchi europei non amano più né la loro storia né i loro usi e costumi. I sensi di colpa per il fascismo, il razzismo e l’imperialismo lasciano a molti la sensazione che la loro stessa cultura abbia meno valore rispetto a quella degli immigrati. Un simile auto-disprezzo ha delle dirette implicazioni per gli immigrati musulmani giacché, se gli europei rifuggono il proprio passato e i propri costumi, per quale motivo gli immigrati dovrebbero adottarli? Se ciò si aggiunge alle già esistenti esitazioni musulmane in merito a molti usi occidentali, specie riguardo ciò che concerne la sfera della sessualità, ne consegue che le popolazioni musulmane resistano strenua-
mente al processo di assimilazione. La logica di questo primo scenario induce a pensare che l’Europa diventerà un’estensione del Nord-Africa.
2. Ma questa prima ipotesi non è inevitabile. Gli europei originari potrebbero opporre resistenza a un simile scenario e dal momento che essi costituiscono il 95 percento della popolazione del continente possono in qualsiasi momento riprendere il controllo, se dovessero ravvisare nei musulmani una minaccia al loro prezioso stile di vita. Questo impulso può già essere intravisto nella legislazione francese anti-hijab oppure nel lungometraggio Fitna di Geert Wilders. Inoltre i partiti anti-immigrati guadagnano forza; in Europa sta prendendo forma un potenziale movimento a favore della popolazione originaria, dal momento che i partiti politici contrari all’immigrazione focalizzano sempre più la loro attenzione sull’Islam e sui musulmani. Tra questi partiti: il British National Party in Gran Bretagna, il Vlaams Belang in Belgio, il Front National in Francia, il Freiheitliche Partei Österreichs (il Partito della libertà) austriaco, il Partij voor de Vrijheid (il Partito della libertà) nei Paesi Bassi, il Dansk Folkeparti (Partito del popolo) in Danimarca e i democratici svedesi. Questi movimenti politici probabilmente continueranno a crescere, man mano che le ondate migratorie raggiungeranno picchi ancor più elevati, con partiti tradizionali che pagheranno ed esproprieranno il loro messaggio anti-islamico. Se i partiti nazionalisti doves-
XXI secolo
23 aprile 2008 • pagina 21
Il dibattito su Eurabia, libro per libro
Su tutti la Fallaci e Bat Ye’Or: il Vecchio Continente rischia la “reconquista” di Pierre Chiartano
sero salire al potere cercheranno di ricusare il multiculturalismo, di contenere l’immigrazione, di incoraggiare il rimpatrio degli immigrati, di appoggiare le istituzioni cristiane, di aumentare il tasso di natalità degli europei e tenteranno in larga misura di ristabilire i valori tradizionali. Probabilmente a ciò farà seguito un allarme musulmano. Lo scrittore americano Ralph Peters delinea uno scenario in cui «navi della marina militare americana gettano l’ancora e marine statunitensi giungono a riva a Brest, Bremerhaven o a Bari per garantire un’evacuazione sicura dei musulmani d’Europa». Peters conclude che a causa della loro «inestirpabile malvagità» i musulmani «hanno i giorni contati». Dal momento che gli europei «perfezionano il genocidio e la pulizia etnica», egli prevede che i musulmani «saranno fortunati per essere solo deportati» e non uccisi. In realtà i musulmani sono preoccupati da un simile scenario, e sin dagli anni Ottanta parlano apertamente del rischio che corrono di essere inviati alle camere a gas. La violenza da parte degli europei non può essere esclusa, ma gli sforzi nazionalisti molto probabilmente assumeranno toni meno violenti; se c’è qualcuno disposto a innescare la violenza, questi sono i musulmani. Hanno già preso parte ad atti di violenza e sembrano morire dalla voglia di lanciarsi in molti altri. Ad esempio, i sondaggi rilevano che il 5 percento dei musulmani britannici approvano gli attentati terroristici del 7 luglio. In poche parole, una riaffermazione europea, probabilmente condurrebbe a una continua guerra civile, magari una versione più cruda e drammatica della sommossa francese dell’autunno 2005.
3. Lo scenario ideale vede gli europei originari e i musulmani immigrati trovare un modo per vivere insieme in armonia e creare una nuova sintesi. Uno studio redatto nel 1991 da Jeanne-Hélène e Pierre Patrick Kaltenbach, dal titolo La France, une chance pour l’Islam (La Francia, un’opportunità per
l’Islam) ha promosso questo approccio idealistico. Malgrado tutto, questo ottimismo rimane l’opinione comunemente accettata, come proposto da un editoriale dell’Economist del 2006 che accantonava «almeno per il momento, l’allarmismo per la prospettiva dell’Eurabia». Così infatti la pensano la maggior parte dei politici, giornalisti e accademici, ma ciò ha poche basi reali. Sì, gli europei potrebbero riscoprire ancora la loro fede cristiana, fare più figli e tenere nuovamente in gran conto il loro patrimonio culturale. Certo, essi potrebbero incoraggiare l’immigrazione non-musulmana e “acculturare” i musulmani che già risiedono in Europa. Di contro i musulmani potrebbero accettare la storia dell’Europa e i suoi usi e costumi. Ma simili cambiamenti non solo ancora non sono in atto, ma non si vedono proprio, nemmeno in prospettiva. In particolare, i giovani musulmani si lamentano e nutrono ambizioni contrarie a quelle dei loro vicini. Dunque, l’ipotesi di un’integrazione musulmana in Europa è da scartare. L’editorialista americano Dennis Prager concorda: «È difficile immaginare ogni altro scenario futuro per l’Europa occidentale che non sia quello di una forte islamizzazione o di una guerra civile». Ma quale di queste due strade intraprenderà il Vecchio Continente? Prevederlo è difficile poiché la crisi non è ancora acuta e non ha colpito. Ma potrebbe non essere lontana. Nell’arco di un decennio, forse, l’evoluzione del continente diventerà chiara man mano che i rapporti tra l’Europa e i musulmani prenderanno forma. L’unicità della situazione europea rende altresì una previsione estremamente difficoltosa. La storia non ci mostra esempi di importanti civiltà sparite o addirittura dissolte pacificamente, né esempi di popoli insorti per reclamare e difendere il proprio patrimonio culturale. Le eccezionali condizioni in cui versa l’Europa rendono difficoltoso comprendere e praticamente impossibile fare delle previsioni. Con questa Europa noi tutti entriamo in una terra sconosciuta.
Boom demografico o fondi sovrani, dobbiamo solo decidere cosa servirà prima per la “reconquista” dell’Europa da parte del mondo arabo. Il Corano insegnato all’Università di Oxford, come aveva preconizzato lo storico Edward Gibbon, oppure una coesistenza basata sugli interessi mercantili, come quelli coltivati dai genovesi nel XIII secolo con gli emiri di al Andalus, ben descritta nei libri di Franco Cardini? Quale il destino per l’Europa e per l’Occidente, se a Poitiers l’esercito di Carlo Martello avesse perso, oppure se Grenada non fosse stata liberata nel 1496. Di più, con la conquista del Nuovo Mondo ci sarebbe stata una vera rinascita dell’Occidente nelle arti e nelle scienze? Sono tutte domande che fino a qualche anno fa sarebbero state materia per storici, oggi è un argomento attualissimo e sono in pochi ad averlo capito. Orianna Fallaci e Bat Ye’or sono state le due sole voci femminili che coraggiosamente hanno denunciato il tentato suicidio dell’Europa. La prima sottolineando, nel suo “La forza della ragione”, dato alle stampe il 12 marzo 2004 - solo ventiquattro ore dopo il micidiale attentato di Madrid - quanto la pavidità di politici ed intellettuali stesse consegnando de facto il continente all’Islam. Colonizzato dall’interno, che aveva portato la scrittrice italiana ad inserire nel suo libro la testimonianza di una convertita: «io mi chiamo Aisha Farina e mi sono convertita all’Islam otto anni e mezzo fa (...) può darsi che tutti gli italiani finiscano col convertirsi e comunque vi conquisteremo pacificamente. Perché ad ogni gen-
erazione noi raddoppiamo o di più.Voi invece vi dimezzate». La seconda nel suo documentatissimo “Eurabia” ha disegnato la mappa e l’agenda di questa “reconquista”. Un inizio, la crisi petrolifera del 1973 e un ambizioso progetto - soprattutto francese - di costruire un asse geopolitico e ideologico alternativo a quello atlantico filoamericano. Anche solo il fatto di designare l’Islam come antiteticamente la cultura che ha definito l’identità dell’Europa e dell’Occidente rischia di portare acqua al mulino di un pensiero decostruzionista che dopo la caduta del muro non ha abbassato la guardia, pensando che fosse solo questione di tempo e l’antico
Un progetto geopolitico, spinto inizialmente dalla Francia, per creare un asse alternativo a quello atlantico filo-americano nemico, l’Occidente liberale, sarebbe caduto. Sono loro gli alleati richiamati dalla Fallaci e svelati dalla Ye’or. Anche Niall Ferguson, lo storico scozzese che insegna ad Harvard, in un articolo apparso sulle colonne del New York Times, nel 2004, denunciava quanto la profezia spengleriana sulla fine dell’Occidente, avesse preso forma e credibilità dopo gli attentati dell’11/9 e dell’11/3. Una lenta islamizzazione di una decadente cristianità cui il viaggio americano di Benedetto XVI ha voluto dare una sveglia.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Il bracciale antistupro può essere efficace? RUTELLI DEVE AVER PAURA DEL BALLOTTAGGIO SE AVANZA IPOTESI COSÌ ASSURDE PER LE DONNE
SIMILI PROVVEDIMENTI ALIMENTANO L’ORMAI DILAGANTE ANTIPOLITICA ITALIANA
Francesco Rutelli non si è mai distinto - a mia memoria - per aver detto cose molto brillanti, questo è vero, ma corbellerie tipo «bracciale antistupro a tutte le donne di Roma» è proprio incredibile. Deve avere proprio una paura matta di perdere le elezioni romane se avanza proposte così umilianti per le donne, come afferma il rivale Alemanno, e così inefficaci, come dice la ex portavoce di Bertinotti, Ritanna Armeni. Intanto i braccialetti di cui parla ”il Bill Clinton de noantri” sono strumenti applicabili e realmente applicati in America a chi delinque e non alle vittime, e poi perché qualcuno non gli dice che le statistiche ufficiali dichiarano che l’80% delle violenze alle donne vengono perpetrate all’interno delle mura domestiche? E si può pensare che le donne girino per casa munite di braccialettio antistupro? Siamo seri, sarebbe il caso di parlare di tolleranza zero, di certezza delle pene e di rimpatrio dei clandestini. Questi sono gli argomenti di cui noi romani vogliamo sentir parlare. Il resto è solo bla bla bla.. ”blaccialetti”. Grazie per l’ospitalità.
La proposta di Rutelli di dotare tutte le donne romane (circa un milione e mezzo) di braccialetti antistupro è proprio una amenità.Vogliamo dire amenità? Va bene. Ma si rende conto l’ex sindaco di Roma che il Comune dovrebbe sostenere una spesa enorme? Non solo per le spese relative a questi oggetti, ma anche per le centraline Sos collegate alle centrali operative della Polizia. D’accordo, in campagna elettorale i contendenti fanno a gara a chi le spara più grosse, ma questa è troppo grossa per non essere commentata sghignazzando. Queste uscite secondo me non hanno altro effetto se non quello di alimentare l’antipolitica di cui si va parlando ormai da tanto tempo. Rutelli probabilmente verrà di nuovo eletto sindaco, ma io sono pronto a scommettere che il provvedimento dei braccialetti comunque non verrà mai adottato. Semplicemente perché inadottabile per decenza. Ma oltre a costituire un ulteriore elemento di sfotto’,potrà essere menzionato come promessa non mantenuta. Bel risultato!
Andrea Moretti - Roma
Alessandro Cantori - Verona
PIENAMENTE D’ACCORDO CON SOUAD SBAI: L’IPOTESI DEL «COLLARE» È A DIR POCO INDECENTE
LA DOMANDA DI DOMANI
Ministro degli Interni: meglio Maroni o Scajola? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Non posso che essere d’accordo con la neodeputata Pdl Souad Sbai, presidente dell’Associazione donne marocchine in Italia, che ha dichiarato: «La proposta di far indossare alle donne un braccialetto antistupro è semplicemente vergognosa». Noi donne dovremmo essere indignate per le parole di Rutelli, che con la trovata del «collarino» tratta le donne alla stregua di animali. Aderisco all’appello della Sbai e anche io chiedo con forza a tutte le donne di destra e sinistra di avviare, «contro questa sinistra miope e buonista, che ha davvero passato il segno e che dopo anni di malgoverno è visibilmente tormentata dai sensi di colpa, una raccolta di firme e organizzare una manifestazione pubblica, affinché si faccia muro contro questo annuncio indecente avanzato da Rutelli».
PER UN PROGRAMMA POLITICO-ENERGETICO La sfida per lo sviluppo passa per la produzione di energia ed è per questo che abbiamo bisogno di un programma politico serio che ci permetta di produrne al più basso costo possibile e con un impatto ambientale non solo sostenibile, ma che migliori le condizioni ecologiche. L’Italia, come sappiamo, non possiede le classiche materie prime come petrolio o gas se non in misura minima. E’ pur vero che se superassimo veti ideologici e ci affidassimo alle possibilità che scienza e tecnica ci forniscono, si potrebbe creare una rete modulare per la produzione energetica, che sicuramente potrebbe renderci indipendenti da quei costi aggiuntivi che tanto concorrono nell’erosione del reddito sia privato che d’impresa. Finalmente si torna a parlare di nucleare, lo ha fatto liberal, lo ha inserito nel suo programma elettorale l’Udc, altri che lo avversavano oggi ne parlano con accenti possibilisti. Certo, costruire le centrali nucleari significa investire su un progetto a lunga scadenza, che avrà il vantaggio d’intercettare
L’HOTEL VOLANTE A Berlino, il Propeller Island City Lodge, hotel di 30 camere tematiche progettato dal tedesco Stroschen. Si va dalla Upside Down, in cui tutto è sottosopra, alla Flying Bed, con vero e proprio letto volante I MESSAGGI VEICOLATI E RETRIBUITI DALLA RAI Ero sobrio e stavo seguendo Annozero e le argomentazioni condotte dal senatore Antonio Di Pietro e dal professor Sartori. Lascio perdere il primo, il secondo ”m’intriga” di più: ho la sua stessa età, due lauree, parlo discretamente due lingue (oltre l’italiano), sono eterosessuale, sposato con figli, parlo di politica come lui e come tanti milioni d’italiani. Un particolare mi differenzia: non ho l’accento toscano. E’per questo che le mie cavolate non hanno gettone di retribuzione Rai?
L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)
PIÙ CAMERE DI MEDICAZIONE NELLE SEDI DELLA REGIONE LAZIO
dai circoli liberal Antonella Lalli - Lecce
Il servizio di sorveglianza sanitaria, nello specifico la camera di
il nucleare di quarta generazione, ossia quella particolare tecnica di utilizzo della barra combustibile che permette di trarre energia per un tempo 10 volte maggiore rispetto a quanto possibile oggi. Questo è importante perché tendenzialmente risolutivo per il problema delle scorie. La negatività è tutta legata ai tempi necessari per la realizzazione di queste centrali. Si deve pensare a una rete energetica nazionale composta da più tasselli che si incastrano l’uno con l’altro permettendo un incremento del sistema numerico e qualitativo. Un primissimo intervento a breve termine, lo si può fare valorizzando il fotovoltaico, che grazie alle nuove tecnologie consente con una certa facilità d’investimento e con un impatto ambientale basso, di creare piccole centrali che possano essere sfruttare per alimentare insediamenti industriali o agricoli, che potrebbero così affrancarsi dalla grande rete nazionale. Lo sfruttamento sistematico dei gas sviluppati nelle discariche e la creazione di termovalorizzatori, ci consentirebbe in tempi medio brevi di ricavare ricchezza dai rifiuti. La costruzione di centrali a bio-
medicazione, creata presso la Giunta della Regione Lazio, stenta a svolgere con efficienza la propria funzione. Quando il servizio fu istituito furono effettuati due trasferimenti di personale specializzato infermieristico, ma successivamente una delle unità di personale è stata trasferita alla Protezione civile, e adesso pare che la camera di medicazione sia quasi sempre chiusa. Viene da chiedersi se e come la Giunta regionale di Piero Marrazzo abbia seguito con attenzione la vicenda, che ha portato alle disfunzioni che si lamentano, se l’amministrazione regionale abbia espletato tutte le procedure di mobilità per i due posti di infermeria e se non sia il caso di pensare di istituire le camere della medicazioni presso tutte le sedi della Regione Lazio.
Susi Ragno - Roma
masse ci permetterebbe di produrre energia sfruttando la risulta agricola e gli escrementi animali dell’allevamento. Ciò non solo sarebbe positivo per l’ambiente, ma creerebbe un ulteriore reddito per le nostre imprese agricole che ne hanno bisogno e potrebbe costituire una fonte produttiva diversificata, foriera di uno sviluppo nuovo e con nuovi investimenti. Ezio Lorenzetti CIRCOLO LIBERAL DEL CANAVESE
APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29 Avvocato Massimo Golino
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Disprezzami pure, continuerò ad amarti Avrei voglia di prendermi a schiaffi quando ricevo le tue lettere. Sai che effetto mi fanno? Dell’odio per me stesso. Ma allora vuoi che mi disprezzi, visto che ti compiaci sempre di avvilirmi nel paragone che fai sempre fra di noi? Ebbene sì, disprezzami, coprimi di rimproveri, di’ che non t’amo. Mentirai ma dillo, riceverò da te tutto, tutto, vedi puoi fare tutto, non me ne adonterò. Cerco ovunque e non trovo nulla. Mi redarguisci su tutto quel che ti scrivo, su tutte le mie idee, anche su quelle che non hanno alcun rapporto con noi due. Ma di’ pure quel che vuoi, amo la tua scrittura, amo le righe tracciate dalla tua mano, la carta su cui ti sei chinata e che forse è stata sfiorata dalla punta dei tuoi capelli profumati. Scrivimi tutto quello che vuoi, non mi adirerò; mi è impossibile con te. Mille baci, sì, mille, ovunque ma soprattutto sui tuoi occhi, il cui ricordo mi infiamma. Gustave Flaubert a Louise Colet
ANTONIO MARTINO, UN GRANDE LIBERALE Condivido in pieno il parere di John McCain, candidato alla presidenza degli Stati Uniti: per il nostro Paese sarebbe auspicabile un grande liberale, serio e coerente come Antonio Martino.
Alberto Moioli Lissone (Mi)
POLIZIA MUNICIPALE, ASSUNZIONI NECESSARIE L’assunzione di 400 Vigili Urbani, che verranno convocati proprio in questi giorni, è insoddisfacente poiché non risolve il problema della carenza dell’organico del corpo della Polizia Municipale che è oramai ridotto ai minimi termini. Pertanto credo che occorrerebbe chiedere l’assunzione immediata di tutti gli “idonei”alla graduatoria concorsuale, che sono oltre mille. È evidente che l’assunzione di 400 neovigili è un provvedimento pre-elettorale. Resta, poi, irrisolto il problema della stabilizzazione dei 500 vigili precari che chiedono garanzia per il loro futuro, e per i quali va trovata al più presto una soluzione. In questo senso credo che il Pdl debba ribadire l’impegno preso tramite il candidato a sin-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
23 aprile 1516 Prima edizione dell’Orlando furioso di Ludovico Ariosto 1597 Prima rappresentazione de Le allegre comari di Windsor alla presenza della regina Elisabetta I d’Inghilterra 1616 Muoiono Miguel de Cervantes, scrittore spagnolo, e William Shakespeare, drammaturgo e poeta inglese 1859 Ultimatum di Francesco Giuseppe a Cavour; Nepomuceno Bolognini ripara in Lombardia ed entra come ufficiale nell’esercito sabaudo 1867 William Lincoln brevetta lo Zoetrope, apparecchio precursore del cinema 1946 La Piaggio deposita un brevetto per ”motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica”: nasce la Vespa Piaggio 1968 Usa: manifestazioni alla Columbia University contro la guerra del Vietnam 1985 Argentina, a Buenos Aires si apre il processo sui desaparecidos
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
daco di Roma, Gianni Alemanno, negli incontri con i rappresentanti della Polizia Municipale, per trovare una soluzione per i precari. Cordialità.
il meglio di
Cesare Mangiante - Roma
MORTI BIANCHE, ENNESIMA TRAGEDIA Ancora una morte bianca. Giulio D’Agostino, operaio di 44 anni originario di Giuliano di Roma, è morto in un incidente sul lavoro ieri mattina, poco prima delle 8, in un cantiere di Villa Santo Stefano a Frosinone. Stava lavorando con altri colleghi alla ristrutturazione del tetto di una abitazione quando, secondo una prima ricostruzione, è precipitato da un’altezza di oltre otto metri. La questione delle morti bianche in Italia sta assumendo proporzioni gravissime. Ormai, quasi una al giorno. E’ davvero possibile che nessun governo, finora, sia mai davvero riuscito a fronteggiare e risolvere un simile dramma? E’ mai possibile che quasi quotidianamente una famiglia debba essere distrutta da tragedie sul lavoro? Saluti.
Luisa Formentini - Bari
PUNTURE Il 25 aprile, festa della Liberazione, il governo Prodi non c’è più, mentre il governo Berlusconi non c’è ancora. Davvero una grande festa della liberazione.
Giancristiano Desiderio
“
L’unica differenza tra un capriccio e una passione che dura una vita è che il capriccio dura più a lungo OSCAR WILDE
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
GIACARTA, LA FIACCOLA SI SPEGNE DA SOLA... A Giacarta la cerimonia del passaggio della fiaccola olimpica si è svolta interamente a porte chiuse all’interno dello stadio nazionale “Gelora Bung Karno”, dove si poteva entrare solo su invito. Gli spettatori erano stati accuratamente selezionati, insieme a loro un migliaio di studenti cinesi festanti. La tradizionale staffetta si è svolta, quindi, senza particolari intoppi, ma non tutto è filato liscio. Protetta da un impressionante dispiegamento di poliziotti e guardata a vista dalle onnipresenti ”guardie blu”, la scorta cinese che segue la fiaccola olimpica passo passo, la fiamma a un certo punto si è spenta da sola. Prima di proseguire il cammino l’hanno dovuta riaccendere. Una scena imbarazzante. Era già capitato a Parigi, qualche settimana fa. Ma in Francia la torcia si era spenta a causa dei tumulti di piazza. A Giacarta invece ha fatto tutto da sola. Una scena che solo un bravo regista avrebbe potuto immaginare... magari addirittura a Pechino.
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I SINDACATI SONO CONTRO I LAVORATORI Gli interessi del sindacato e quelli dei lavoratori italiani viaggiano su binari diversi. Lo sanno i lavoratori, che non s’iscrivono ai sindacati, oramai rappresentanti dei pensionati. Lo sanno i sindacati, che si garantiscono la sopravvivenza grazie a protezionismi statali e finanziamenti scandalosi. Il solo accennare a questo tema ti tira addosso l’accusa di sostenere tesi antisindacali. Mi sta benissimo. Poi ti dicono che sei contro i lavoratori. Questo è falso, anzi, è vero l’esatto contrario. I sindacati non si fanno pagare dai lavoratori, ma dai datori di lavoro. Gli italiani vo-
tarono contro questo meccanismo illiberale, ma fu reintrodotto in accordo fra sindacato e padronato. Quand’è che si sveglia il diritto, e comunica l’illegittimità di un accordo fra privati che contraddice la volontà popolare? I sindacati prendono palate di soldi pubblici, ma non hanno bilanci degni di questo nome. Quand’è che alla Corte dei Conti s’avvedranno dell’irregolarità? Ci sono apparati sindacali che incassano dei bei soldoni grazie al cinque per mille che gli italiani indirizzano loro, quando compilano i moduli per le tasse, ma quei moduli vengono preparati da strutture sindacali, che per questo sono pagate dallo Stato. In altre parole: prendono soldi per essere in grado di arraffarne ancora di più. Questo, e molto altro ancora, contribuisce a finanziare la loro immensa macchina corporativa e burocratica. I politici hanno tanti difetti, ma, almeno, li si elegge. I sindacalisti sono inamovibili, e quando traslocano s’incistano in altre pieghe della spesa pubblica. C’è una sola cosa che sconoscono: il lavoro. Hanno preso i lavoratori quali ostaggi, ed ora occorre liberarli. E’ giusto che i lavoratori difendano il loro posto ed il loro potere d’acquisto, ma è bene s’accorgano che non è quel che fanno i sindacati. I quali sono potenti, perché ricattano sia l’impresa che la politica, spingendo tutti ad una connivenza che falsifica la realtà. La chiamano “concertazione”, e finché ha funzionato i lavoratori si sono impoveriti, i disoccupati sono rimasti tali, ma le ore di sciopero erano le più numerose d’Europa. E’ pericoloso, ma queste cose devono essere dette. Anche per aiutare la sinistra riformista ad affrancarsi dal potere di una triplice che difende privilegi ed arretratezze.
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PAGINAVENTIQUATTRO La fiction sul Presidente della Dc, interpretato da Michele Placido, andrà in onda su Canale 5 il 5 e 6 maggio
FOTO DI DELIA WOEHLERT
Un uomo così, come di Francesca Parisella inquantacinque giorni è quanto durò la prigionia di Aldo Moro, prima che le Brigate Rosse ne decretassero la morte. Una delle pagine più drammatiche della storia italiana, scritta da un gruppo di giovani che con le loro scelte segnarono il destino di tante vite e di un’intera nazione. A trent’anni dal sequestro avvenuto in via Fani - in cui morirono tutti gli uomini della scorta - la fiction Aldo Moro il Presidente - in onda su Canale 5 il 5 e il 6 maggio e oggi presentata in anteprima alla Fondazione della Camera dei Deputati, alla presenza di Pier Ferdinando Casini - riporterà nelle case degli italiani la vita, i pensieri, i discorsi e le azioni dello statista democristiano: eventi e scene di un’Italia nella morsa dei terroristi, in cui la ferma convinzione nelle proprie idee si poteva trasformare in una condanna a morte. Michele Placido, che nel 1984 interpretò il Commissario Corrado Cattani - fervente oppositore della mafia siciliana ne La Piovra - vestirà i panni di Aldo Moro, mentre Marco Foschi - in questi giorni al cinema con Riprendimi nel ruolo di Giovanni - sarà il determinato Mario Moretti, giunto a Roma per organizzare il rapimento del presidente della Dc fautore del compromesso storico.
C
La fiction è nata dalla lettura del libro di Agnese Moro Un uomo così che restituisce il ritratto del presidente della Democrazia Cristiana fuori dai riflettori della politica. Un «album di famiglia» che descrive lo statista in momenti di vita privata, mentre racconta filastrocche alla figlia, va al cinema con la sua famiglia, un ritratto dipinto con i colori del sentimento e che ha interessato il produttore Pietro Valsecchi. Perché la storia di Moro - l’intellettuale e politico - si trasformasse in immagini, gli sceneggiatori - Salvatore Marcarelli e Francesco Piccolo, con la collaborazione del regista Gianluca Maria Tavarelli e la supervisione di Stefano Rulli hanno lavorato per circa un anno, raccogliendo e collazionando la sterminata bibliografia accumulatasi in questi decenni. «Nonostante molti dei brigatisti abbiano spesso parlato in merito al sequestro e all’assassinio di Aldo Moro, abbiamo preferito non incontrarli e attenerci soltanto ai fatti documentati dalla letteratura», puntualizza Salvatore Marcarelli. Una documentazione fatta anche dei tanti atti processuali che si sono susseguiti negli anni e che ve-
ALDO MORO dono protagonisti gli uomini e le donne colpevoli della morte del presidente Moro. Le stesse persone che ai tempi in cui avvennero i fatti erano «giovani come me, allora studente universitario. Rimasi molto colpito da questi ragazzi, di venti anni o poco più, che decisero di sfidare lo Stato, richiamando l’attenzione della stampa internazionale per quei lunghissimi cinquantacinque giorni». Il racconto storico «di un personaggio unico, con una visione ardita della politica» che si basa esclusivamente sui fatti fino a oggi conosciuti della tragica vicenda dello statista cattolico.
determina il successo delle fiction (in media raggiungono uno share che si attesta sul 25%), conquistando il grande pubblico. Un settore in costante crescita quello della fiction che dal 1990 a oggi ha visto impegnati mille sceneggiatori, cinquecento registi e duecento società di produzione rispondendo all’aumento dello spazio in palinsesto dedicato a questo genere.
Nel 2007, tra i primi quaranta programmi più seguiti in televisione, ben diciotto sono stati fiction che hanno interessato il pubblico al pari di eventi sportivi quali la finale di Coppa dei Campioni e il Gran Premio di Formula Uno. Risultati considerevoli che si raggiungono con un duro lavoro di preparazione, dove l’argomento della storia trattata e il suo sviluppo sono determinanti per conquistare l’interesse del pubblico. Negli anni la fiction si è dimostrata il mezzo più efficace per trattare vicende a sfondo storico, fatti e personaggi la cui risonanza è ancora viva nella memoria collettiva e per lanciare messaggi significativi. «Grazie alle sue potenzialità, la televisione è un’ottimo mezzo per affrontare argomenti così importanti. Già nella sceneggiatura de Attacco allo Stato, la fiction sulle nuove Br che uccisero Massimo D’Antona (maggio 1999), Marco Biagi (marzo 2002) ed Emanuele Petri (marzo 2003), abbiamo voluto trasmettere lo stesso messaggio affidato anche alla fiction su Aldo Moro: come le scelte fatte in una stagione della vita possano condizionare tutta l’esistenza. Avvenimenti da osservare con attenzione, per capire cosa ha spinto quelle persone a compiere un gesto di tale efferatezza», per punire la strategia del compromesso storico macchiando con il sangue intere pagine di storia italiana.
Il lavoro tv, ispirato dalla lettura del libro scritto da Agnese, la figlia dello statista, sarà presentato in anteprima questo pomeriggio alla Fondazione della Camera dei deputati alla presenza di Pier Ferdinando Casini Divisa in due parti, la fiction inizia due anni prima del sequestro dell’uomo politico, dal compromesso storico della Dc con il Pci di Berlinguer fino ad arrivare all’attacco allo Stato realizzato dalla colonna romana delle Br che, all’indomani del ritrovamento del cadavere di Moro - nel portabagagli della Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani a Roma - si indebolì sempre più. In passato anche il grande schermo si è interessato alle vicende e al personaggio di Aldo Moro con i lavori di Giuseppe Ferrara - Il caso Moro (1986) -, Renzo Martinelli - Piazza delle Cinque Lune (2003) - e Marco Bellocchio - Buongiorno Notte (2003). Film che, nonostante l’argomento trattato, hanno interessato in minor misura il pubblico, non avendo il cinema l’immediatezza che invece caratterizza il mezzo televisivo e che