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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Il cardinale di Sydney accusa il catastrofismo ecologista

he di c a n o r c

Riscaldamento globale? è soltanto una favola

di Ferdinando Adornato

di George Pell

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80424

LA NUOVA CONFINDUSTRIA La Marcegaglia presenta squadra e programma: federalismo fiscale, mercato, crescita e sfida ai sindacati sui contratti. Ma soprattutto tornare ad essere la voce di tutti gli imprenditori

l Canada ha registrato l’inverno più freddo e le maggiori nevicate dal biennio 1970-71, evento più unico che raro. E sarebbero bastati altri 18 centimetri per stabilire il record assoluto. Un quotidiano di Kingston ha pubblicato una brillante vignetta, intrisa di humor, che ritraeva un vecchietto canadese, stremato dal freddo, intento a spazzare il parabrezza della sua auto dal ghiaccio. La didascalia diceva: `«Riscaldamento globale dei miei stivali!». In Cina, il nuovo anno è stato inaugurato da una fortissima ondata di freddo e tempeste di neve che hanno impedito a molti pendolari di ritornare a casa in tempo per i festeggiamenti. La polizia ha dovuto sedare le rivolte che ne sono derivate. A Londra è arrivata la neve a Pasqua. Il mondo è ben più vasto della Cina e del Canada messi insieme che si potrebbe obiettare costituiscano un’eccezione alla nuova regola del riscaldamento globale provocato dall’uomo, -ma che in realtà causano non pochi inconvenienti al carrozzone del cambiamento climatico. E si tratta di un carrozzone alquanto intollerante, che avanza rivendicazioni esagerate e sguaiate secondo cui non vi sarebbe alcun dubbio, anche in virtù di un più ampio consenso del mondo scientifico, che l’ipotesi di un riscaldamento globale causato dall’uomo e dei pericoli che questo comporterebbe, sia fondata. In realtà, la questione è tutt’altro che risolta. I politici che pur mostrano un certo scetticismo nei confronti di tali rivendicazioni dovrebbero avere un coraggio da leoni per resistere all’impetuosità dell’opinione pubblica.

I

L’impresa di Emma alle pagine 2 e 3

Alitalia: l’Ue evita scontri con Roma

Bruxelles possibilista sul prestito ponte di Maria Maggiore «I margini di manovra per negoziare ci sono», confida una gola profonda del commissario Ue ai Trasporti, Jacques Barrot. Di più non si può dire, anche perché a Bruxelles la decisione se accettare o meno il prestito ponte da 300 milioni ad Alitalia.

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co nt i nu a a pa gi n a 8 nell’inserto Socrate

Per la scuola ci vogliono competizione e percorsi mirati

Il “testamento“ del ministro Fioroni di Giuseppe Fioroni Giuseppe Valditara Beniamino Brocca Giuseppe Lisciani Giancristiano Desiderio da pagina 12

GIOVEDÌ 24 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

75 •

Lo scontro per il Campidoglio

La novità proposta da Bonelli

Berlusconi e Veltroni ai ferri corti

Svolta dei Verdi: Pecoraro addio, guardiamo al Pd

di Susanna Turco

di Marco Palombi

Se si potesse pubblicare i sondaggi che circolano si avrebbe la certezza palmare di quanto sia incerta la battaglia. Si capirebbe ancor meglio il perché il duello tra Rutelli e Alemanno si faccia più urlato.

L’unica cosa certa è che il voto del 13 e 14 aprile ha chiuso un’era, quella di Pecoraro. La ricetta per cambiare rotta è quella di passare dall’ideologia del problema alla pratica delle soluzioni.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 24 aprile 2008

emma La Lady di velluto l’impresa di

Toni pacati e spirito ottimista: la Marcegaglia presenta il suo programma sfidando i sindacati al dialogo

di Irene Trentin

ROMA. Un applauso lungo nel catino di Viale dell’Astronomia a significare le divisioni del passato sono lontane. Dieci «vicepresidenti operai» perché è l’impresa, chi produce, che deve tornare al centro del Paese. E nessuna concessioni alle emozioni, come se fosse normale in questo Paese avere un presidente di Confindustria, il primo donna. «È finito il tempo di crearsi degli alibi per non fare le riforme», ha esordito Emma Marcegaglia nel giorno del suo insediamento, «Inizieremo a lavorare subito».

E il fatto che il piano programmatico 2008-2010 sia stato approvato con 108 voti su 110 e due soli astenuti, è la dimostrazione che il suo è un mandato pieno. «Il primo problema che dovremo affrontare è il grave arresto della crescita», manda a dire al governo. E al sindacato: «Gli riconosciamo un ruolo im-

portante, ma gli diciamo con chiarezza che, ora, serve un cambiamento radicale. Se ricomincerà con la politica dei veti, saremo duri e andremo avanti da soli». La prima urgenza è la riforma dei contratti, incentivando la parte aziendale e l’introduzione dei premi variabili. «Chiediamo di semplificare drasticamente il numero», dice, «Ma non ci saranno contratti territoriali». Presentando poi la nuo-

la. Anche se la legge elettorale è ancora da rivedere. «Nei prossimi giorni ci incontreremo con Silvio Berlusconi», annuncia, «per discutere sul piano per uscire dall’emergenza economica. Condividiamo la sua proposta di detassare gli straordinari». Ma tra gli obiettivi dell’associazione anche l’attenzione della territorialità, con la delega ad Aldo Bonomi, e la volontà di non delegittimare la Lega, che non rappresenta

A Berlusconi chiede un patto per la crescita e per la riforme, alla Cgil di non porre veti. E si guarda al Mezzogiorno, al federalismo fiscale e a ritoccare la normativa sulla sicurezza del lavoro va squadra, la neopresidente sottolinea lo spazio dato alle piccole e medie imprese, che «rappresentano la rimonta italiana dell’economia, aziende leader nel mercato internazionale». «L’ampia e chiara maggioranza» uscita dalle urne sembra rassicurar-

«una reazione solo protezionista». Dunque, la battaglia sul federalismo fiscale può essere sposata se non significa «contrapposizione tra Stato e mercato».

Uno dei settori chiave è la sicurezza, di cui si occuperà Salomone Gattegno. «È finita l’epoca delle sanzioni», spiega la Marcegaglia, «chiederò all’esecutivo la modifica delle norme

Un consiglio al neopresidente

I suoi vicepresidenti “operai” La Marcegaglia ha parlato di una squadra di«vicepresidenti operai». Eccoli: Antonio Costato (Energia), Cesare Trevisani (Infrastrutture), Andrea Moltrasio (Europa), Paolo Zegna (Internazionalizzazione), Aldo Bonomi (Distretti industriali), Alberto Bombassei (Relazioni industriali), Gianfelice Rocca (Education), Edoardo Garrone (Organizzazione), Cristiana Coppola (Mezzogiorno). Vicepresidente di diritto, Giuseppe Morandini (Pmi). Tra gli altri incarichi, Diana Bracco sarà responsabile per l’Expo e Salomone Gattegno per la Sicurezza.

restrittive appena introdotte, con un piano complessivo che diffonda sul territorio la cultura della sicurezza». Ma il ruolo futuro di Confindustria è anche quello di uscire dai stretti compiti istituzionali per ridiventare un think tank capace di elaborare progetti e strategie. Non a caso la delega del Centro studi è stata assunta ad interim dalla stessa Marcegaglia, mentre quella su Ricerca e innovazione è toccata a Diana Bracco, leader di Assolombarda, che si occuperà anche di Expo 2015. Altra questione scottante della nuova linea programmatica, il Mezzogiorno, tenendo conto che «il periodo dei mercati protetti è ormai senza futuro. E se

venne il giorno di Emma. In viale dell’Astronomia il re è morto (si fa per dire, naturalmente). Viva la regina. La Confindustria cambia look: una donna (bella, esperta e intelligente) per la prima volta si siede sulla poltrona della più importante associazione imprenditoriale.

E Cambiare il contratto e non fare sconti alle ali estreme di Giuliano Cazzola

gli oltre cento miliardi di euro di fondi strutturali per il 20072013 verranno dispersi in mille rivoli clientelari, il ritardo del Mezzogiorno continuerà ad aggravarsi». Come priorità sarà il futuro di Alitalia: via libera al prestito ponte, ma stop ai continui contributi, sono solo un aiuto per rimettersi in piedi in un primo momento». E sul colore della prossima cordata, «meglio se italiana ma nessun pregiudizio». Oggi, altro appuntamento importante per l’associazione, la nomina del presidente dei Giovani imprenditori. Favorita Federica Guidi. E per Confindustria si tratterebbe della seconda donna in un posto importante di comando.

In una società in cui l’immagine ha un peso rilevante l’elezione di Emma Marcegaglia è un colpo azzeccato, tanto più che la neo presidente ha dimostrato molte volte di essere all’altezza del compito. Succedendo, poi, a un pessimo presidente non avrà difficoltà a fare meglio. Luca Cordero di Montezemolo, infatti, esce di scena – dopo aver impiegato quattro anni di mandato a criticare la classe politica lasciando alla sua erede la medesima agenda da lui trovata nel 2004. Aggiungendo in più una critica tardiva, inutile e indispettita ai dirigenti sindacali (definiti «professionisti del veto») che certo non aiuterà l’incipit di Emma. La linea di condotta di LCdM è consistita in un lungo, defatigante e inconcludente inseguimento di Guglielmo Epifani, a cui è riuscito soltanto a dare del tu, ma non a farlo stare seduto per un tempo adeguato al tavolo del negoziato sulla riforma degli assetti contrattuali. Per giunta, allo scopo di ammorbidire «l’adorabile avversario», non ha esitato a indurre Federmeccanica a stipulare patti di rinnovo onerosi e grazie ai quali il gruppo dirigente della Fiom (la Banda Bassotti del sindacalismo nostrano) ha continuato ad avere voce in capitolo. Così la nuova presidente deve tornare daccapo nel gioco dell’oca delle relazioni industriali. E dovrà farlo al più presto prima


l’impresa di

emma

24 aprile 2008 • pagina 3

Le speranze e le ricette del leader di Federchimica

Squinzi: «Finalmente si torna all’industria» colloquio con Giorgio Squinzi di Francesco Pacifico

ROMA. Luca Cordero di Montezemolo, nel giro di commiato durante il direttivo di ieri, gli si è avvicinato e gli ha detto: «Se ci sono dieci cose su cui discutere, noi non siamo d’accordo su 11». E Giorgio Squinzi, leader di Federchimica e del gruppo Mapei, ammette di sperare che la presidenza Marcegaglia porti forti cambiamenti. Cosa deve cambiare in Confindustria? Credo che, in un’apparente continuità, non mancheranno forti strappi. Perché Emma Marcegaglia, con la quale sono in sintonia pressoché totale, si impegnerà per riportare l’impresa manifatturiera al centro di Confindustria. La vecchia Confindustria ha dato troppo spazio a banche e utilities? Da un certo punto di vista sì. Ma il mio è il pun-

ti a realizzare un clima diverso. Montezemolo ha definito i sindacati «professionisti dei veti». Quale atteggiamento dovrà tenere la Marcegaglia? Dovrà costruire un rapporto di confronto costruttivo, evitando forzature. Un po’ quello che è riuscito a realizzare il mondo della chimica. Per investire sull’anima riformista del sindacato, bisogna discutere di cose che portino vantaggi alle imprese come ai lavoratori. Qual è atteggiamento verso la politica? Con Emma mi sono trovato in sintonia totale che Confindustria debba essere equidistante. Come non è sempre accaduto negli ultimi anni. Sul tavolo c’è da completare la riforma di Confindustria, osteggiata a livello locale. E non capisco perché, visto che Maurizio Beretta ha fatto un buon lavoro. Ci sono elementi positivi come l’inquadramento unico, che spinge chi è nelle territoriali a entrare anche nelle categorie e viceversa. Eppoi si va verso una razionalizzazione dei servizi: il mio gruppo è iscritto a sette territoriali e tre associazioni diverse, ma riceviamo informazioni da dieci centri studi. Un spreco. È possibile una fusione tra Abi e Confindustria? Sarà la mia provenienza, ma credo che Confindustria debba avere in testa il manifatturiero e quella parte di servizi legati al nostro mondo. Sono contrario all’allargamento a banche, assicurazioni e a quelli che non hanno nulla a che fare con noi. Non è contraddittorio che la Marcegaglia abbia creato un vicepresidente ad hoc per la sicurezza del lavoro e contrasti la nuova legge in materia? Il problema esiste e l’associazione deve far crescere la consapevolezza in tutti gli associati. Ma la legge, nata su una reazione emozionale, è priva di fondamenti logici e giuridici. Meglio introdurre sistemi di certificazione sulla sicurezza per applicare best practies e mettere al riparto le imprese da tutte le conseguenza di tipo legale e punitive. Cosa vi aspettate dal nuovo governo? Più attenzione al manifatturiero, una spallata alla culturale antindustriale che permea il Paese, la semplificazione normativa. Ha dimenticato le tasse. Qualcosa è stato già fatto negli anni, ma la fiscalità dovrebbe essere più selettiva. Soprattutto sull’Irap, va premiato chi investe in ricerca e innovazione e prova a svilupparsi all’estero. Perché Emma dovrà fare pressioni sul governo per far capire che bisogna privilegiare la crescita, altrimenti non si esce dalla crisi.

In questi anni si è dato troppo spazio alle banche e alle utilities, dimenticando il manifatturiero. Infatti, piu che sulla riforma del sistema contrattuale, si deve lavorare per semplificare la burocrazia e l’assetto normativo del Paese

che i partner sindacali – ancora storditi per l’esito elettorale e per la vistosa infiltrazione leghista nei loro ranghi – riescano a riprendersi e a ricompattare il fronte del no. Che altro non è se non la sommatoria di posizioni diverse tra le centrali sindacali. La Marcegaglia assume la direzione di una Confindustria che a Palazzo Chigi si era adattata a fare da tappezzeria e a sottoscrivere (è successo col Protocollo sul welfare) gli esiti di negoziati da cui era stata emarginata. Per tornare al centro della scena e non accontentarsi solo di qualche taglio al cuneo fiscale, l’associazione deve prendersi la responsabilità di “creare il problema”non soltanto ai sindacati, ma anche al governo.

La neopresidente ha manifestato l’intenzione di arrivare al più presto alla ridefinizione delle regole contrattuali, attraverso un negoziato sollecito e fattivo, che conferisca un ruolo agli stessi sindacati, se vorranno e sapranno esercitarlo. Ma se ancora una volta dovessero prevalere i «professionisti del veto», la Confindustria farebbe bene ad adottare delle misure forti: la disdetta del protocollo del 1993, per esempio, accompagnata dalla dichiarazione di non sentirsi più vincolati al rispetto di quell’impianto normativo. Sarebbe un po’ come uccidere un uomo morto, ma a quel punto la questione degli assetti contrattuali diventerebbe un problema di rilevanza strategica, fino a chiamare in causa la responsabilità del governo. Silvio Berlusconi, Roberto Calderoli e Giulio Tremonti preferirebbero evitare una nuova conflittualità sociale. Ma non potranno confondere il dialogo con l’acquiescenza all’immobilismo.

to di vista di un bruto del manifatturiero, che crede ancora nella fabbriche con tanti operai in giro per il mondo: perché quello che conta è conquistare fette di mercato a livello internazionale, mantenendo i cervelli in Italia. Ancora con l’industria pesante? Come ha detto Romano Prodi, ci sono due Paesi in Europa, che non possono prescindere dal loro ruolo industriale: l’Italia e la Germania. E poi perché dovremo diventare la patria dei servizi? La prima scadenza che attende la Marcegaglia è la riforma del sistema contrattuale. Ma è una vicenda marginale. Il vero nodo è la semplificazione burocratico-normativa, senza la quale è impossibile fare progetti di rilancio. Lo dice lei che viene da una categoria, i chimici, che ha un contratto perfetto. Il nostro caso conferma che si può avere un sistema di relazioni industriali sano se ci si parla nei giusti modi. Certo, le intese di secondo livello per aumentare la produttività come la riduzione dei contratti sono necessarie, ma tutto funziona se c’è un confronto costruttivo. Il tavolo sulla riforma dei contratti è fermo. Credo che l’errore fatto dalla gestione precedente sia stato quello di mettere al centro delle relazioni il contratto dei metalmeccanici, passato da da banco di prova a banco di scontro. Forse sarebbe stato meglio guardare a quei settori riusci-


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politica

Cambio di rotta dopo la debacle del 13 e 14 aprile: a guidarlo Angelo Bonelli

Ora i “nuovi Verdi“ guardano al Pd di Marco Palombi

ROMA. Al-Nakba, la catastrofe. Così gli arabi chiamano la sconfitta contro Israele nella guerra del 1948. Al-Nakba, la catastrofe, potrebbe diventare anche il nome delle politiche 2008 per la Sinistra arcobaleno e i quattro partiti che la compongono. Rifondazione e Pdci paiono orientati a rifugiarsi, almeno momentaneamente, nel recinto identitario, la Sinistra democratica di Mussi difficilmente resisterà alla sua stessa inesistenza e i Verdi…

I Verdi non si sa. L’unica cosa certa è che il voto del 13 e 14 aprile ha chiuso un’era, quella segnata dall’arrivo alla presidenza di Alfonso Pecoraro Scanio nel dicembre 2OO1. Un’era perché il leader campano ha permeato di sé l’intero partito, tanto che lui – che è stato l’immagine dei Verdi potenti e governativi - è oggi l’immagine di un partito sconfitto e senza identità. Al-Nakba. Nella confusione, finora, l’unica chiara proposta di rilancio politico-culturale è arrivata dall’ex capogruppo alla Camera Angelo Bonelli: passare dall’ideologia del problema alla pratica delle soluzioni attraverso una contaminazione col mondo tecnicoscientifico. “Nuovi Verdi”, li chiama da lui, lanciare magari con un ritocco del simbolo e attra-

verso un dialogo non subalterno col Pd. Intanto la cronaca. Oggi, nella prevista riunione dell’esecutivo (dimissionario), il ministro dell’Ambiente ribadirà quanto detto martedì, cioè che quello annunciato è un “vero addio”alla leadership e che il percorso congressuale che si è aperto non terminerà con lui ancora in sella. Detto questo, Pecoraro chiarirà per l’ennesima volta che se lui è stato il capo dei Verdi, le decisioni sono sempre state prese collegialmente, inclusa la disastrosa alleanza elettorale. Nessun “Pecoraro espiatorio”insomma, come oramai si dice comunemente nel partito. Cambiare le facce, comunque, non basterà: quando un partito arriva al livello di smarrimento e frustrazione in cui versa il movimento ecologista non è mai solo questione di persone. I Verdi – tra il Consiglio federale del 10 e 11 maggio e il Congresso straordinario che si terrà probabilmente a luglio – dovranno decidere qual è, per così dire, la loro natura, definire la strategia non la tattica, esaminare motivi e contenuti dell’anomalia italiana. I Grunen, infatti, furono negli anni 80 la prima falange organizzata della politica post ideologica. E in Europa lo sono ancora: basti pensare che a Francoforte sul Meno, nella Germania ex rosso-verde, il partito di Joska Fischer governa la città con quello Angela di Merkel. In Italia, al contrario,

l’anima all’ingrosso di sinistra ha colonizzato il partito fino a tentare di scioglierlo nell’ogm della Sinistra arcobaleno.

Ora comunque è l’anno zero. Prova ne siano le dichiarazioni del presidente del partito in Campania, Tommaso Pellegrino, fino a pochi giorni fa assai vicino al leader, oggi non si sa: «Bisogna guardare al futuro e costruire una forza ambientalista progressista, positiva e propositiva, che dialoghi con le forze moderate». Tradotto in italiano standard: vele spiegate verso un rapporto preferenziale col Pd. Paola Balducci, responsabile giustizia, lo dice chiaramente: «Al prossimo Consiglio federale proporrò l’avvio immediato di un confronto con il Partito Democratico, inteso come processo aggregativo di tutti i riformismi». Insomma, sono molte le voci che si sono levate nel dopo-elezioni per sollecitare un dibattito sulla collocazione – psicologica prima che elettorale - dei Verdi, ma il primato spetta a

Oggi riunione dell’esecutivo dimissionario. Per Angelo Bonelli «Dobbiamo passare dall’ideologismo della critica del modello produttivo alla politica delle soluzioni» Marco Boato, tra i fondatori del partito, che pose il tema già a marzo. Oggi l’oramai ex deputato parla di “inevitabile azzeramento della classe dirigente” e sentenzia: «La collocazione all’interno della sinistra estrema era ed è risultata politicamente priva di prospettive ed elettoralmente suicida». Una crisi al buio, insomma, di cui è difficile vedere la soluzione. I papabili alla successione di Pecoraro continuano ad essere parecchi: nel partito si segnala ad esempio l’attivismo di Monica Frassoni, capogruppo dei Verdi al Parlamento europeo, ma l’uomo a cui molti guardano è proprio Angelo Bonelli. A liberal, l’ex capogruppo anticipa i contenuti di un intervento che sottoporrà a giorni a tutto il partito: «Penso sia necessaria una rigenerazione culturale dei Verdi – spiega – Dobbiamo passare dall’ideologismo della critica del modello produttivo alla politica delle soluzioni. Intendo dire che, se parliamo di inquinamento, dobbiamo indicare

poi soluzioni praticabili che migliorino la qualità della vita dei cittadini. Per farlo occorre che il nostro ambiente si faccia contaminare sempre più dall’approccio tecnico-scientifico alla soluzione delle questioni». È questo “cambio di rotta”, ci dice Bonelli, che dovrà contraddistinguere quelli che lui chiama “i nuovi Verdi”e che potrebbe essere reso ancor più evidente «anche con una piccola modifica del simbolo».

In questo momento, insiste, «si avverte, forte, la necessità di costruire una nuova proposta che abbia, è evidente, una classe dirigente adeguata». Un cambiamento di persone che sarà, nelle intenzioni dell’ex capogruppo, anche un cambiamento delle forme di vita del partito: «Insisto, serve una rielaborazione culturale tutta centrata sulle pratiche. Per questo obiettivo sto mettendo in piedi una ‘Rete nazionale del sapere ecologista’. Per fare nuove politiche non si può prescindere dagli uomini e io sto

coinvolgendo tutta una serie di personalità che fino a ieri avevano un po’ abbandonato i Verdi. Penso, per fare un esempio, a Gianni Mattioli, ma anche a esponenti dell’associazionismo o a bravi ricercatori universitari: una rete di intelligenze utili al Paese. In questo senso, faccio autocritica, c’è stata inadeguatezza nella gestione del partito». Bonelli non si sottrae neanche sulle questioni tattiche: «È chiaro che bisogna pensare alle alleanze perché, qualunque sia la legge elettorale, non siamo autosufficienti. Io penso che serva un rapporto dialettico, non di scontro, col Pd. Poi al momento delle elezioni vedremo come procedere, se attraverso patti federativi o altre strade». In ogni caso, «non penso che la Sinistra arcobaleno sia la prospettiva giusta. Dovremmo chiederci, anzi, cos’è la sinistra nel terzo millennio: siamo sicuri che basti scrivere sinistra sul simbolo per esserlo davvero?». A decidere, in ogni caso, sarà il Congresso, conclude Bonelli, dove «bisognerà rompere col vecchio meccanismo delle tessere e dei blocchi di potere, trovando il modo di liberare l’energia delle giovani intelligenze dei Verdi». Un discorso da candidato leader? «Macché, sono solo un militante».


politica ROMA. C’è una differenza tra la Lega e il Pdl che quasi annulla lo svantaggio nei consensi: il partito di Umberto Bossi ha ben chiaro il ruolo che intende esercitare nel prossimo governo. Assicurerà la condivisione delle scelte necessarie riservandosi nello stesso tempo autonomia e spazio per rivendicazioni populiste. Non solo e non necessariamente a uso e consumo del profondo Nord. Sarà una forza di governo pronta a marciare, almeno metaforicamente, contro l’esecutivo. Una posizione simile a quella assunta nel governo Prodi dalla sinistra radicale, che in piazza ci andò sul serio e in più occasioni. Che l’intendimento dei lumbard sia questo è evidente dal senso strategico che presiede alle richieste del Senatùr.Tra Umberto Bossi e Roberto Calderoli, molti nel Pdl preferirebbero avere il primo sulla poltrona di vicepremier. Sarebbe più autorevole, per certi aspetti meno ingombrante. Ma il leader del Carroccio non vuole istituzionalizzarsi al punto da doversi censurare. Nel ruolo di vicepresidente del Consiglio sarebbe costretto a farlo, da ministro delle Riforme potrà minacciare sfracelli a ogni esitazione dell’alleato sulla realizzazione del federalismo. È così ben definita la road map della Lega che difficilmente il Viminale potrà sfuggire a Roberto Maroni. Bossi ha messo in gioco il rapporto fiduciario con il suo popolo, già abituato all’idea di avere un ministro dell’Interno leghista pronto a imporre misure eccezionali sulla sicurezza. A questo punto il Carroccio non può permettersi di perdere la partita. Anche sul dicastero dell’Agricoltura il senatùr è ben deciso ad andare fino in fondo. Se davvero Roberto Castelli otterrà la delega sull’Expo di Milano insieme con la carica di viceministro alle Infrastrutture l’ipoteca dei lumbard sull’esecutivo sarà enorme, da fare spavento. Ieri Gianfranco Fini ha dato l’impressione di percepire il pericolo. E probabilmente per questo ha avvalorato la tesi di Berlusconi, che in mattinata aveva detto: «Non credo la Lega possa fare un danno all’Italia, forse dovrebbe solo cambiare il proprio linguaggio un po’ rozzo, fatto di iperboli». In realtà il gergo di Bossi sarebbe sop-

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Mentre Berlusconi e Letta incontrano Napolitano

La Lega rilancia sui posti al governo. Fini in allarme di Errico Novi portabile per il futuro presidente della Camera se solo An non rischiasse di avere meno ministri dei lumbard. D’altra parte in via della Scrofa hanno ben compreso di avere un destino ineluttabile: dovranno lasciare a Bossi il ruolo di battitore libero della maggioranza. Se Fini e i suoi al-

zassero i toni sull’emergenza sicurezza o sui rom potrebbero mettere a rischio l’agognato approdo del Pdl nel rassicurante porto del Ppe. La Lega evidentemente non ha un problema del genere.

I maggiorenti di Forza Italia si sono concentrati molto sul-

Gelmini, coordinatrice azzurra in Lombardia e avvocato come la Bongiorno, ma nelle ultime ore ha cominciato a circolare il nome della senatrice Maria Alberti Casellati. Oltre alla stessa estrazione forense e al mantenimento del quoziente femminile nel governo, la parlamentare forzista assicurerebbe un

Nel borsino attuale An ha un ministro in meno del Carroccio: sull’ipotesi Bongiorno alla Giustizia cala anche l’outsider Alberti Casellati. Bossi si guarda bene dall’invertire i ruoli con Calderoli, vuole restare libero di usare toni da antipolitica l’ostracismo a Roberto Formigoni. Tanto da trascurare un dettaglio non irrilevante: rischiavano di vedersi sbarrata la strada dei tre ministeri più importanti, Farnesina a parte: Interno alla Lega, Difesa e Giustizia ad An, intestati a Ignazio La Russa e Giulia Bongiorno. È su quest’ultima che potrebbe ricadere il peso dello squilibrio: la sua casella sembra destinata ora a un esponente di Forza Italia. Il riflesso immediato ha suggerito il nome di Maristella

ulteriore requisito: la rappresentanza del Veneto. Regione a cui Berlusconi intende riservare non meno di due dicasteri: il primo è nelle mani del leghista Luca Zaia – destinato alle Politiche agricole, con l’alternativa data in ribasso di Gianpaolo Dozzo, trevigiano come il concorrente – il secondo potrebbe essere assegnato proprio alla padovana Alberti Casellati.

Con una simile prospettiva è comprensibile che Alleanza

nazionale cominci ad allarmarsi. Ecco perché ieri Fini ha lasciato intravedere con quella battuta volante sul linguaggio dei lumbard («ha ragione Berlusconi») un cenno di insofferenza. Possibile che qualcosa cambi nel borsino dei futuri ministri, ma è improbabile che le novità riguardino la coppia di vicepremier. È vero che allo stato Gianni Letta è affiancato dal leghista Calderoli e che An è esclusa, ma intanto Fini otterrà per sé la terza carica dello Stato. E poi Bossi potrà cedere su altro ma non su Calderoli a Palazzo Chigi. Soluzione che assicura intanto una rappresentanza autorevole, al più alto grado, come faceva notare ieri il Foglio nella rubrica ”Palazzo”, senza compromettere l’immagine populista e rivendicativa del Carroccio: Calderoli non è tipo da lasciarsi imborghesire dal ruolo istituzionale. E poi il vicepresidente dell’ultimo Senato viene descritto dagli stessi forzisti come «uno abilissimo a nascondersi dietro lo stereotipo del pierino per seguire con grande attenzione tutti i passaggi e andare sempre a vedere cosa c’è dietro gli accordi». Dovesse manifestarsi nel Pdl qualche tentazione trattativista, Calderoli sarà lì a controllare che nulla avvenga a dispetto degli interessi padani.

Non è un caso se Berlusconi dichiara che questi per lui «sono giorni di afflizione». Di incognite nella squadra del futuro governo ce ne sono ancora, non foss’altro per il rischio di sottodimensionare An rispetto alla Lega. Il premier in pectore ne ha parlato ieri con Giorgio Napolitano in un colloquio al Quirinale durato oltre un’ora a cui ha partecipato anche Letta. Tra le incertezze permane quella sul peso dei cattolici nel governo. A parte la vicenda Formigoni resta incerto il destino di un altro esponente cielle, Maurizio Lupi, che vede il ministero della Salute insidiato da un tecnico di rango, e la rimonta di Raffaele Fitto: nei giorni scorsi si è parlato dell’ex governatore pugliese come candidato al dicastero degli Affari regionali. Ma dal Mpa di Raffaele Lombardo assicurano che quella casella è già riservata a loro e che sarà quasi certamente Giovanni Pistorio a occuparla. Berlusconi deve conciliare la ricerca degli equilibri con la tempesta Alitalia, che ieri ha intestato ai sindacati: «La trattativa con Air France è fallita per i loro veti». Come se non bastassero gli impuntamenti degli alleati.


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politica

Nella Capitale è lotta all’ultimo voto. Storace appoggia l’ex compagno di corrente

A Roma Pdl e Pd si sfidano a scopa d i a r i o

d e l

g i o r n o

Buttiglione: «Nessun accordo con Pd» Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc, esclude qualsiasi accordo fra il suo partito ed il Pd di Walter Veltroni per un’opposizione comune al prossimo governo: «Qualora ci fossero nostre osservazioni che venissero accolte oppure quando valutassimo positivamente un provvedimento, potrebbe anche votare insieme alla maggioranza. Inevitabilmente i rapporti si impongono per un coordinamento delle opposizioni, che però sono e resteranno due».

Di Pietro: «Sì a partito unico Idv-Pd, col tempo» «L’alleanza con il Pd resta il perno della nostra politica. Dunque si può, anzi si deve, costruire una casa comune di IdV e Pd nei tempi che la politica consentirà». Lo afferma il leader Idv, Antonio Di Pietro sottolineando che «in prospettiva si deve arrivare ad un’unica realtà politica».

Confalonieri rinviato a giudizio

di Susanna Turco

ROMA. Se si potesse pubblicare i sondaggi che circolano nei rispettivi ambienti, si avrebbe la certezza palmare di quanto sia incerta la battaglia politica che si combatte in queste ore per la conquista del Campidoglio. Si capirebbe dunque ancor meglio il perché il duello tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno si faccia di ora in ora più spietato, più urlato. Con epifenomeni anche paradossali, come quello che ha visto ieri il sindacato dei carabinieri in congedo (Sinacc) denunciare chi ha permesso all’ex ministro dell’Agricoltura di fare campagna elettorale dentro una caserma: «Un gesto illegale, inaudito, inopportuno, che lede il prestigio delle forze armate e dell’Arma dei carabinieri», recita la lettera del sindacato. Un testa a testa, quello romano, che è anche un gomito a gomito. Ieri pomeriggio nella centralissima piazza di Pietra, il sancta sanctorum della classe dirigente del centrosinistra capitolino era riunita all’ombra delle colonne di Adriano per la presentazione del libro di Chicco Testa, mentre subito fuori i sostenitori di Alemanno montavano il palco per una manifestazione a sostegno dell’ex ministro aennino. Di fatto, appena liberi dalla campagna elettorale, big e non big di Pd e Pdl hanno concentrato la loro potenza di fuoco sulla Capitale. Una Roma che è vista da sinistra come l’ultimo argine per scongiurare il tracollo del Pd targato Veltroni, da destra come la controprova che l’onda lunga è potente davvero. Risultato? Una copia esatta di ciò che si è visto sinora, con in più almeno un paio di contraddizioni ben evidenti: nel veltroniano Pd che

tanto predicava il confronto “alto” con l’avversario «che non deve essere visto come il nemico» cercano in ogni modo di scagliare contro Alemanno le sue ascendenze «fasciste»; nel predelliniano Pdl, che tanto fortissimamente ha voluto scrollarsi di dosso il centro e la destra della fu Cdl, si annaspa in ogni modo il sostegno dei moderati e si finisce per accettare bongré-malgré il sostegno della Destra di Francesco Storace (facilitando peraltro così il suddetto obiettivo piddino).

Per il resto, come si è detto, una rutilante sequela di polemiche. Silvio Berlusconi, riflettendo sui van-

Berlusconi fa campagna per l’aennino («scopa nuova scopa bene») e arriva a dire che con il diellino «sarebbe difficile collaborare» taggi della novità («scopa nuova scopa bene», è lo slogan), arriva a dire che «Rutelli è un voltagabbana: con lui sarebbe difficile una collaborazione». A replicare è Walter Veltroni: «atteggiamento balcanico, istituzionalmente inaccettabile». E ancora: «La verità è che la coalizione di Berlusconi vuole un sindaco “dipendente”e non chi, come Rutelli, può tutelare con autonomia e forza una città». Ma Berlusconi attacca frontalmente il vicepremier uscente: «Prima non andava nemmeno in Chiesa e poi ha cominciato ad assistere a due messe. Era un

mangiapreti». Rincara la dose Gianfranco Fini, secondo il quale «una azione congiunta governoCampidoglio potrebbe avviare a soluzione i molti problemi della Capitale di cui i romani sono vittime, come l’insicurezza, il degrado urbano, il traffico e i trasporti». E mentre Alemanno incassa il sostegno ufficiale di Storace («una scelta generosa», dice il candidato sindaco; ma «non credo sia un grande guadagno», chiosa il suo avversario), a favore dello stesso Rutelli (per fermare «la marea nera») scende in campo Massimo D’Alema che parlando dell’immigrazione clandestina dice senza mezzi termini: «È colpa della Bossi-Fini, legge ancora in vigore» accusando la destra di strumentalizzare a fini elettorali i fatti di cronaca. «Se vincesse la destra - aggiunge - sarebbe mortificante sia per la vita politica che per Roma». I due candidati, intanto, commentano l’esito dell’attesa sfida tv: «Tutti sono contenti - spiega Rutelli - siamo motivati e galvanizzati. Da parte del mio avversario si sono avute due proposte che sono evaporate come neve al sole». Rutelli lancia invece una delle proposte finali della campagna: «Cinque miliardi e mezzo bastano per il completamento dell’anello verde di viabilità urbana e per quello delle nuove reti metropolitane». Mentre Alemanno, che si considera vincitore del faccia a faccia in tv («Credo sia difficile per Rutelli affrontare i confronti - ha detto - perché è difficile per lui combattere da solo uno contro due, cioe’lui contro me e la realta»), smonta così le accuse del sindacato dei carabinieri: «Iniziativa puerile».

Il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, è stato rinviato a giudizio dal gup di Milano, Gloria Gambitta, per frode fiscale nell’ambito dell’inchiesta sui presunti fondi neri relativi ai diritti tv di Mediaset. Secondo l’accusa Fedele Confalonieri, in qualità di presidente di Mediaset avrebbe evaso imposte per complessivi 13,3 milioni di euro tra il 2001 e il 2003. Vittorio Virga, uno dei legali del presidente di Mediaset, sostiene l’assoluta innocenza del suo assistito. «È un provvedimento ingiustificato», dice. Il processo inizierà il prossimo 21 ottobre.

Napolitano: «La libera stampa è essenziale» «Una stampa libera costituisce un elemento essenziale per l’equilibrio dei poteri proprio di ogni democrazia che sia vitale e ben ordinata». Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano ricevendo al Quirinale i vertici della Fnsi, il sindacato nazionale dei giornalisti, in occasione delle celebrazioni per il suo centenario. «Questa mia convinzione potrebbe apparire una ovvietà, ma non lo è affatto», ha tenuto a precisare Napolitano schierandosi in difesa di «una stampa che sia capace di nutrire culturalmente e idealmente il rapporto con i cittadini e in particolare con i lettori e di esprimere la propria indipendenza di giudizio».

NYT: «Roma mai sicura come ora» Roma insicura? Per il New York Times la Capitale, di notte, «non è mai stata tanto libera dal crimine. Nemmeno ai tempi dell’Impero Romano, quando dominava il mondo e aveva dalla sua la forza delle legioni ad assicurare l’ordine alla frontiera e al suo interno, si poteva passeggiare dopo cena con tanta tranquillità».

Amato: «Favorire lo sviluppo di un “Islam italiano”» «È nell’interesse generale» che nel nostro Paese si sviluppi un vero e proprio «Islam italiano» anche perché «reazioni emotive e atteggiamenti di chiusura» favorirebbero «soltanto l’estremismo». Lo sottolinea il ministro dell’Interno Giuliano Amato, intervenendo alla presentazione della dichiarazione di intenti per la Federazione dell’Islam italiano, promossa da una serie di centri culturali, associazioni e comunità religiose musulmane. Un progetto che Amato si augura continui anche con il prossimo governo.

Morti bianche, protesta all’Ilva L’ennesima morte bianca fa montare la protesta all’Ilva di Taranto. Ieri mattina centinaia di operai hanno bloccato i cancelli dello stabilimento per richiamare l’attenzione sulle condizioni di sicurezza dopo la morte di un operaio albanese,Gjoni Arjan di 47 anni, caduto da una passerella a 15 metri da terra mentre lavorava all’assemblaggio di strutture metalliche.


alitalia

24 aprile 2008 • pagina 7

La Ue inizia a studiare il dossier, ma vuole evitare lo scontro con Roma

Bruxelles non chiude le porte al prestito ponte di Maria Maggiore

BRUXELLES. «I margini di manovra per negoziare ci sono», confida una gola profonda del commissario Ue ai Trasporti, Jacques Barrot. Di più non si può dire, anche perché a Bruxelles la decisione se accettare o meno il prestito ponte da 300 milioni ad Alitalia, approvato dal Consiglio dei ministri, non è stata ancora presa. La Commissione si trincera dietro un laconico «aspettiamo la notifica ufficiale» per analizzare la forma e la sostanza del decreto. «Non conosciamo le condizioni del prestito», ha spiegato ieri il portavoce di Barrot, Michele Cercone.

aggiunge l’asso tirato fuori dal ministro dell’Economia Padoa-Schioppa: le esigenze di “ordine pubblico”. Si è usata questa giustificazione per evitare il commissariamento, foriero di tagli al personale, aerei a terra, scioperi a raffica e danni per gli utenti.

Un prestito può essere giustificato dalla Ue se garantisce «mezzi sufficienti per far fronte a problemi di sicurezza». Basterà questo per ricevere la benedizione dell’ennesimo salvataggio di Alitalia? In teoria no, anche perché nel

Nessun no a priori al finanziamento di fronte alla motivazione di ordine pubblico. Ma si dovrà lavorare per una vera privatizzazione del vettore

In testa ai veti comunitari c’è il «one time, last time», una volta ricevuto un primo salvataggio pubblico, è finita. Il vettore deve farcela da solo. E la Ue ha ribadito la necessità di una notifica urgente, senza la quale i terzi possono denunciare Alitalia. Ma l’Italia, non considerando il prestito aiuto di Stato, potrebbe non presentarla, anche se ieri c’è stato «uno scambio di vedute», tra la Commissione e i funzionari della Rappresentanza italiana presso la Ue. II trattato è chiaro: «Qualunque tipo di aiuto finanziario, se non notificato alla Commissione europea, è soggetto a essere impugnato davanti a un tribunale nazionale da qualsiasi compagnia concorrente, con il rischio che tale aiuto venga immediatamente congelato e ne venga imposto il rimborso allo Stato italiano». Alitalia non avrebbe diritto a nessun aiuto fino al 2011, avendone già beneficiato nel 2001. Un’altra linea rossa è la regola delle «condizioni di mercato»: il governo italiano deve comportarsi come una normale società o istituto di credito privato che presterebbe denaro a una società in crisi. Al momento nessuna banca lo farebbe con Alitalia, ma il prestito è stato concesso dal Tesoro a «interessi di mercato» e da rimborsare entro la fine dell’anno. Fin qui l’esame di Bruxelles dovrebbe andare bene. A questo punto si

Il commissario ai Trasporti Ue, Jacques Barrot. Al vaglio del suo dicastero il dossier sul prestito ponte da 300 milioni all’Alitalia. Rispetto alle dichiarazioni delle scorse settimane, la Commissione si potrebbe mostrare più flessibile e dare il via libera all’operazione

decreto manca un elemento importante: la finalità del prestito. «Ponte verso che cosa», ha sintetizzato Emma Bonino. Venendo meno l’opzione Air France, manca per il momento una sponda dall’altra parte del fiume, una prospettiva cioè di privatizzazione dell’azienda. E poco importa che ieri Salvatore Ligresti e Marco Tronchetti Provera abbiano dato il loro assenso a scendere in campo. «Bisogna vedere che occhiali deciderà di infilarsi la Commissione europea», dice Paolo Costa (Pd), presidente della commissione Trasporti dell’Europarla-

mento. Tra Bruxelles e Roma comincia un delicato negoziato politico e tecnico. «Il fatto che da 100 milioni si sia passati a 300 milioni è un pessimo segnale», aggiunge Costa. «Dimostra che l’acquirente di Alitalia non c’è, bisogna tirare avanti almeno fino a novembre-dicembre». E poi? «Poi ci sarà una cordataponte per far posto a Lufthansa che tra un anno arriverà dettando le sue condizioni», prevede l’ex sindaco di Venezia, che non dà credito a Aeroflot. «Troppo complicata una fusione con una compagnia fuori dall’Ue» Intanto, sostiene «stiamo sprecando altri 300 milioni pubblici, mentre con Air France si stava chiudendo un negoziato concordato e sicuramente meno doloroso di un eventuale commissariamento».

Duro, inspiegabilmente molto duro anche l’ex sindaco di Milano, Gabriele Albertini (Pdl), che prevede una Ue intrasgigente con il governo italiano. Primo perchè «il maxi-prestito non può non essere considerato come un intervento anomalo del governo nei riguardi di una compagnia peraltro anche quotata in Borsa, quindi semiprivata». Inoltre, Albertini è scettico sulla sopravvivenza di Alitalia: «Siamo in una condizione in cui lo squilibrio tra costi e ricavi è così strutturale che qualsiasi intervento ha solo l’effetto di aumentare le perdite del sistema mantenendolo in vita». Invece, nonostante le apparenze, questa volta la Commissione europea potrebbe chiudere un occhio. E per ragioni che prescindono da Alitalia. Il presidente Barroso, che aspira a tutti i costi a un secondo mandato, non ha voglia di aprire un contenzioso così delicato con un grosso Paese, a un anno dalla sua ri-nomina. L’accordo sottobanco di due giorni fa tra il portoghese e Berlusconi e per spostare il futuro commissario Tajani dal pericoloso portafogli degli affari interni (quattro anni fa Buttiglione scivolò nell’agguato teso dagli stessi eurodeputati della commissione libertà pubbliche) al più mite, seppur importante settore dei trasporti, sarebbe la prova di una tregua in corso tra i palazzi comunitari e il futuro governo.


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pensieri

L’atto di accusa del cardinale di Sydney contro il catastrofismo ecologista

L’effetto serra? È soltanto una favola di George Pell segue dalla prima Tuttavia, non siamo tutti così vincolati e pertanto dovremmo considerare l’insieme delle informazioni disponibili. Tre aspetti sono particolarmente importanti al riguardo. Lo scorso dicembre, più di cento scienziati provenienti da tutto il mondo, tra cui alcuni membri del Panel Intergovernativo delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, hanno ammonito le Nazioni Unite sul fatto che tentare di controllare il clima fosse «in ultima analisi, inutile». Lo stesso hanno fatto e detto cinquecento esperti a Manhattan lo scorso marzo.

La lotta al cambiamento climatico ha finito per allontanare i governi dall’obiettivo più urgente, ovvero aiutare i cittadini più vulnerabili ad affrontare la minaccia rappresentata da cambiamenti climatici naturali e inevitabili, in qua-

lunque forma essi si presentino o dovessero presentarsi. Secondo quanto riferito, inutili tentativi di prevenire il cambiamento climatico a livello locale porterebbero ad un’errata allocazione delle risorse.

La lotta al cambiamento climatico ha allontanato i governi dal vero obiettivo: aiutare i cittadini più vulnerabili ad affrontare la minaccia In secondo luogo, nessuno dei cambiamenti naturali che hanno interessato i ghiacciai, il livello dei mari e la migrazione delle specie va al di là della ben nota variabilità, ivi incluso il riscaldamento di 0.1C-0.2C registrato ogni decennio verso la fine del Ventesimo secolo, anche se occorre notare che gli anni

Trenta hanno registrato temperature più elevate rispetto agli anni Novanta. Inoltre, la temperatura globale è rimasta costante dal 2001. Il riscaldamento globale si è fermato ha titolato il New Statesman il 19 dicembre dello scorso anno.

Questa scoperta invalida l’ipotesi del riscaldamento globale perché la quantità di biossido di carbonio immessa nell’atmosfera continua a crescere senza che - di contro - aumentino le temperature, come invece, secondo gli studi, dovrebbe accadere. Infine, i computer moderni non sono in grado di fare previsioni sul clima a lungo periodo, perché vi sono troppe incognite e variabili che andrebbero considerate. Non dovremmo mai dimenticare che sebbene i computer rappresentino una vera e propria meraviglia dell’ingegno umano, essi sono anche alquanto limitati, non hanno alcuna volontà propria e obbediscono ciecamente al loro ultimo padrone. C’è bisogno di qualcosa di più per essere in grado di prevedere il futuro. Il cardinale George Pell è l’Arcivescovo di Sydney

Si riaccende il dibattito sul riscaldamento terrestre e sulle possibili fonti di energia da impiegare sul nostro pianeta. Secondo recenti studi, il contributo di quella solare oggi è appena dell’8%, e si accredita sempre di più l’ipotesi che anche risorse eoliche e fotovoltaiche siano destinate al fallimento

Professore di Chimica ambientale all’Università di Modena, nega con forza «una causa diretta tra l’uomo e il riscaldamento globale».

«Fonti rinnovabili, il grande bluff delle lobbies ambientaliste» colloquio con Franco Battaglia di Antonella Giuli

ROMA. «Le attività umane non hanno alcuna responsabilità dell’attuale temperatura media del pianeta». Ne è convinto Franco Battaglia, professore di Chimica ambientale all’Università di Modena, tra i maggiori esponenti italiani della corrente di pensiero ”scettica” che nega «una causa diretta tra componente antropica e il così detto global warming». Professore, qual è allora la principale causa? Il clima è influenzato da molteplici fattori naturali. Il ciclo, con periodo di circa 1000 anni e rispetto al quale ci troviamo dal 1700 nella fase ascendente, è molto probabilmente legato a cicli dell’attività solare. La cosa importante, per quanto riguarda le nostre azioni, è che l’uomo non c’entra affatto: è da 10 anni che le temperature medie del pianeta non aumentano, sebbene le emissioni di gas-serra siano aumentate vertiginosamente. Si è parlato molto di recente dell’esistenza di un

complotto di lobbies che osteggiano il nucleare e promuovono in modo strumentale l’utilizzo di fonti rinnovabili, solari o fotovoltaiche. L’allarmismo di certa parte di ambientalisti può aver contribuito a distrarre il nostro Paese da quelle che sono le diverse possibilità sulle quali puntare per un rapido e sicuro sviluppo energetico? Solo pochi numeri. L’Italia assorbe 40 gigawatt elettrici; per ogni GWe che si volesse produrre, bisognerebbe impegnare o 3 miliardi in un reattore nucleare, o 6 miliardi in 6000 turbine eoliche, o 60 miliardi in pannelli Fv. Dal che si può capire la lobby affaristica. La beffa? Dopo aver impegnato una cifra compresa fra 6 e 60 miliardi per produrre quel singolo GWe, non potremmo evitare l’installazione del reattore nucleare, che deve esserci, pronto a partire, quando il sole non brilla o il vento non soffia. Pochi giorni fa Jeremy Rifkin ha ribadito con

forza che «il nucleare è un’opzione perdente sia dal punto di vista economico che da quello ambientale»... Rifkin vagheggia l’economia a idrogeno senza sapere che l’idrogeno non esiste sulla Terra. Dovrebbe sapere che esiste già un Paese che produce da nucleare l’80% dell’energia elettrica che gli serve: la Francia. Dunque nucleare unica via. E le scorie? Anche l’assenza di soluzione circa i rifiuti radioattivi è un colossale falso scientifico: il problema delle scorie radioattive, la scienza e la tecnica lo hanno risolto, da tempo e bene. In Francia vi sono circa 60 reattori nucleari: ha mai sentito qualche francese lamentarsi per essere assillato da rifiuti radioattivi? Io no. Ma ho sentito molti della provincia di Napoli che sono imbufaliti perché assillati dai rifiuti ordinari. E la Provincia di Napoli è l’unica in Italia il cui presidente è un Verde.


&

parole

ROMA. Paolo Pombeni è professore di storia dei sistemi politici all’Università di Bologna e editorialista del Messaggero. Anche a lui liberal pone la domanda sul destino, il ruolo e la funzione del centro politico negli anni a venire. Pombeni co0me si spiega il fatto che il centro abbia tenuto e non sia stato stritolato dal bipartitismo? L’Udc ha tenuto perché da un lato in Italia c’è una tradizione politica forte di consenso al centro, dall’altro perchè si deve riconoscere a Casini di avere fatto una politica seria in questi anni. C’è anche un terzo fattore più contingente che ha inciso secondo me: Berlusconi ha fatto dell’Udc un obiettivo della sua polemica elettorale mostrando che era un obiettivo serio. Non si fa polemica con chi non esiste. Infine occorre tenere conto del fatto che il centro Udc non è una riproposizione, una sopravvivenza politica come è apparso il caso di Sinistra Arcobaleno in rapporto a Rifondazione comunista. Casini ha più volte detto che l’esperienza della Dc è finita e non si ritiene di doverla riproporre. Dunque il centro ha portato a casa la pelle. Ora però ha il problema di come spendere politicamente il suo consenso. Qual è secondo lei il ruolo dell’Udc? Farei un parallelo con la storia della prima repubblica: l’Udc di oggi potrebbe fare quello che faceva il Partito repubblicano di La Malfa, che aveva il 3 per cento ma che aveva un peso specifico particolare perché raccoglieva la rappresentatività di classi sociali e ambienti importanti. Un partito dotato di una classe dirigente selezionata, introdotta, seria: non un partito di massa ma un partito di quadri. La vera scommessa oggi, in questi tempi di bipolarismo un po’schematico, è mantenere viva la tradizione di un partito di quadri che si offre come luogo di mediazione e di elaborazione di cultura politica. Il Partito repubblicano però stava al governo, non all’opposizione. Si devono tenere in conto le differenze tra allora e oggi: nella situazione attuale c’è secondo me un ampio spazio di manovra anche fuori dal governo. E del resto la stessa cosa, anche se in misura diversa, valeva durante la prima Repubblica: il Pci per anni ha esercitato una fortissima pressione sul governo del Paese stando all’opposizione. Non va infine sottovalutato il fatto che l’Italia è passato ad essere da un Paese con elettorato molto vischioso a un Paese politicamente molto mobile. In questa fase di transizione, ripeto: esiste un grande spazio, anche qualitativo, per un partito di quadri. L’Udc secondo lei è già questo partito? Non lo è ancora, anzi, deve fare un grande lavoro per diventarlo. Questo partito deve sentirsi sulla china di una trasformazione. Da partito erede della Dc, e spesso non della sua parte migliore, deve diventare un partito di quadri, in grado di esprimere una minoranza attiva nel Paese. L’Udc deve fare e vin-

24 aprile 2008 • pagina 9

Il futuro dell’Udc. Parla Paolo Pombeni, editorialista del Messaggero

Caro Casini, ora imita il partito di La Malfa colloquio con Paolo Pombeni di Riccardo Paradisi

Secondo Paolo Pombeni (foto a sinistra) il Partito repubblicano di Ugo La Malfa (in alto a destra) deve essere un’esempio da seguire per l’Udc di Pier Ferdinando Casini

La vera scommessa del Centro in questi tempi di bipolarismo schematico, è mantenere viva la tradizione di un partito con una classe dirigente capace di mediare cere questa scommessa, se la perde il suo destino è fare la fine dei socialisti. A Roma l’Udc si è diviso sulla decisione di appoggiare il candidato di destra Gianni Alemanno o lasciare libertà di voto ai suoi iscritti ed elettori. È un segnale che all’interno dell’Udc restano forti le componenti che guardano al centrodestra? È ovvio che la trasformazione dell’Udc potrà comportare un piccolo prezzo. Si contano già diversi fuoriusciti, a partire da Giovanardi che ha aderito al Pdl, altri forse ne seguiranno. Ma se si è investito su un discorso di identità ora si tratta di tenere fermo è inutile attardarsi su una storia che non c’è più. Casini ha intuito che o si resta da soli con un’identità definita o ci si scioglie nella formazione di centrodestra. C’è chi guarda a destra nell’Udc e che chi si volge a sinistra. Nei giorni scorsi si sono avuti incontri ripe-

tuti tra i vertici dell’Udc e quelli del Partito democratico. Come giudica questo dialogo? Faccio ancora l’esempio del Pri nella Prima repubblica. Il Pri fu sia il trade union per l’apertura a sinistra sia per la costruzione del pentapartito. Il ruolo che oggi potrebbe giocare questo centro è farsi sostenitore di una modernizzazione sociale e politica del Paese, di agevolarla contribuendo al dialogo tra le parti, così da evitare lo sterile schema del muro contro muro. Se vuole giocare questo ruolo il centro deve parlare sia con il Pd sia con il Pdl. Non ha senso stare da una parte sola. L’assetto bipolare del sistema politico italiano potrebbe però logorare il ruolo del centro. In Germania per anni c’è stato il bipolarismo e c’è stato il centro. In Gran Bretagna dove il bipolarismo è consolidato da sempre il centro esiste e ha una sua funzione.

Conta molto poco però. Invece ha un suo ruolo. In Gran Bretagna il centro ha giocato una funzione importantissima fino ad oggi: media, incide sul dibattito politico, mette a tema i problemi. Credo che per il Centro ci sia un futuro anche in Italia. Certo è lo spazio di un partito di quadri che ad oggi non c’è ancora. L’Udc deve inventarsi in questa direzione, deve diventare un laboratorio politico. Dal punto di vista della classe dirigente l’Udc ha delle figure che rispondono tipologicamente a questa vocazione. I valori eticamente sensibili, che sono stati i grandi assenti di questa campagna elettorale, potrebbero essere un ambito privilegiato della battaglia politica dell’Udc. Ingaggiare battaglie politiche su questa questione è secondo me una strada perdente. Sono temi troppo complessi questi per essere rozzamente messi a tema della politica. Piuttosto il Centro dovrebbe agitare i temi della responsabilità nel lavoro, della meritocrazia, della moralità nella vita pubblica. Per questo compito serve però un partito di quadri come si diceva e molta consequenzialità tra quello che si dice e ciò che si è.


pagina 10 • 24 aprile 2008

mondo Pennsylvania: nove punti di vantaggio per la Clinton, ma Obama resta davanti nella conta dei delegati

oco meno di nove punti percentuali di vantaggio (54,3 contro 45,7); poco meno di 200mila voti di distacco; poco meno di quanto sarebbe servito, a Hilllary Rodham Clinton, per riaprire definitivamente la corsa per la nomination democratica. È questo, in estrema sintesi, il verdetto delle elezioni primarie in Pennsylvania. Un verdetto non conclusivo, che rischia di trascinare la “guerra civile” tra Barack Obama e Hillary Clinton fino alla convention di fine agosto che si terrà a Denver, a tutto vantaggio del “terzo incomodo”, John McCain. Accolta dalle note rock di “I Won’t Back Down” di Tom Petty, Hillary ha spiegato ai suoi sostenitori, nel comizio post-elettorale, che la vittoria è stata «very big» e «very sweet». Ma la larghezza e la dolcezza di questo successo potrebbero non bastarle, visto che Obama è ancora in testa in tutti i “fondamentali” che contano: ha più denaro a disposizione, ha vinto più stati, ha conquistato più voti e conserva ancora un buon vantaggio nel numero dei delegati (pledged e non).

P

Eppure, considerando che Obama nelle ultime settimane ha speso in Pennsylvania più del doppio della rivale, i numeri di Hillary nel Quaker State non sono affatto da sottovalutare. La Clinton ha, in pratica, ripetuto l’ottima performance di marzo in Ohio: ha dominato tra le donne bianche (+32%), gli over-65 (+26%) e i cattolici bianchi (+42%); è andata molto bene tra gli uomini bianchi (+12%), i protestanti bianchi (+16%), le persone con reddito inferiore ai 50mila dollari annui (+8%) e quelle senza diploma di laurea (+16%); ha confermato la propria superiorità rispetto a Obama tra gli elettori che si autodefiniscono “democratici”(+12%) e gli iscritti ai sindacati (+18%). Negli altri segmenti demografici - primi tra tutti i non iscritti ai sindacati, i laureati, i giovani e i benestanti - Obama si è difeso con

Vince Hillary, ma non ha i numeri per la Casa Bianca di Andrea Mancia onore. Riuscendo a vincere, come spesso gli è accaduto in questo ciclo elettorale, tra gli indipendenti (+10%) e tra gli afroamericani (+78%). Presa coscienza del fatto che, con ogni probabilità, le sarà impossibile conquistare la maggioranza dei delegati per la convention di agosto (il “nume-

convincerli di essere più “eleggibile” del rivale alle elezioni di novembre. E non sarà un compito facile, visto l’hype quasi messianico che circonda ormai la figura di Obama. Per riuscire nel suo intento, Hillary deve necessariamente demolire questa “narrativa” obamiama. E si spiega così, più che con il tenta-

ghenzia liberal statunitense, ha paragonato Obama a George McGovern, simbolo della deriva sinistrorsa che condannò alla sconfitta i democratici nel 1972 contro Richard Nixon. Contemporaneamente, E.J. Dionne, sul Washington Post, si è chiesto se il senatore dell’Illinois sia più somigliante ai

La matematica continua a dare ragione al senatore dell’Illinois, anche se nel fronte democratico iniziano a serpeggiare i primi dubbi sulle sue reali possibilità di battere McCain alle elezioni di novembre ro magico” sarebbe 2.025, e per ora Obama conduce 1.713 a 1.586), Hillary ha da tempo deciso di concentrarsi sui “superdelegati” espressi non tramite le primarie ma direttamente dal partito. Per tirarne dalla propria parte un numero sufficiente, però, deve

tivo (fallito) di vincere in Pennsylvania con un margine ancora più largo, l’accelerazione impressa dalla sua campagna alle pubblicità negative contro il senatore junior dell’Illinois.

Un’accelerazione che ha scandalizzato gli editorialisti del New York Times (oltre alla solita Maureen Dowd), che temono come questa escalation dello scontro possa rivelarsi un prezioso regalo per le ambizioni presidenziali di John McCain. Ma Hillary non ha altra scelta (a parte quella, fantascientifica visto il suo carattere, di ritirarsi in buon ordine). Quella che il New York Times chiama “the low road to victory”, però, qualche risultato lo sta ottenendo. Ieri John B. Judis, sul settimanale The New Republic, bibbia dell’Intelli-

Hillary Rodhman Clinton (a sinistra) e Barack Obama (a destra): la sfida per la nomination democratica rischia di durare fino alla convention di Denver in programma per fine agosto

Kennedy (John F. o Robert, a scelta) oppure ad Adlai Stevenson, un altro “perdente di successo” che nel 1952 e

nel 1956 uscì con le ossa rotte dai confronti con Dwight Eisenhower. Questi paralleli storici, oltre ad essere vagamente iettatori (per la sinistra americana) sono indicativi di un trend negativo d’immagine che non può non preoccupare per Obama.

Hillary, sia chiaro, non è ancora riuscita ad invertire la dinamica della corsa, che resta largamente favorevole a Obama. Ma può guardare con rinnovata fiducia alle prossime elezioni primarie in programma. In North Carolina (6 maggio) la folta comunità afroamericana dello stato garantirà senz’altro una larga vittoria ad Obama, ma la composizione demografica di Indiana (sempre il 6 maggio) e West Virginia (13 maggio) sembra invece molto più favorevole alla Clinton. Senza contare che, rispetto ai primi mesi di primarie, lo stesso elettorato di Obama sta lentamente ma inesorabilmente - scivolando verso sinistra. In Wisconsin e Virginia, tanto per fare un esempio, il senatore dell’Illinois aveva battuto la Clinton tra gli elettori che si consideravano “moderati” o “abbastanza conservatori”. In Pennsylvania, invece, è stata l’ex First Lady a dominare in questi segmenti, mentre Obama ha ricevuto la quantità maggiore di voti tra i “very liberal”. Stessa dinamica per quanto riguarda gli elettori democratici più religiosi. I casi sono due. O Obama ha bruscamente cambiato il proprio profilo politico nelle ultime settimane. Oppure, ed è assai più probabile, gli elettori si sono gradualmente accorti di quali siano le reali posizioni del ”Kennedy del XXI secolo”.


mondo

24 aprile 2008 • pagina 11

Zimbabwe: il riconteggio dei voti premia il presidente, Tsvangirai non può rientrare nel Paese, arrestati i giornalisti

Mugabe resiste,Brown si appella al mondo d i a r i o Il quotidiano dello Zimbabwe “Herald” ha pubblicato un appello a favore di un governo di unità nazionale guidato da Mugabe perché «nelle attuali condizioni un ballottaggio libero ed equo è letteralmente impossibile». La proposta? «scrivere una nuova costituzione da sottoporre a referendum e indire nuove elezioni»

L

Intanto il quotidiano di Stato dello Zimbabwe Herald ha pubblicato ieri un appello a favore di un governo di unità nazionale guidato da Mugabe. L’articolo segna una svolta ri-

spetto a precedenti posizioni dello Zanu-Pf, finora sostenitore di un ballottaggio Mugabe-Tsvangirai. Secondo il quotidiano «nelle attuali condizioni un ballottaggio libero ed equo è letteralmente impossibile», e dunque la Sadc, l’associazione regionale che riunisce i 14 Paesi dell’Africa australe, dovrebbe «mediare negoziati per un governo di transizione» da affidare all’ottuagenario Mugabe, con il fine di «scrivere una nuova costituzione da sottoporre a referendum e utile a indire nuove elezioni presidenziali». La proposta sarebbe, secondo l’Herald, sostenuta dal centro studi di Bruxelles, Inter-

«Dall’intero Regno Unito deve partire un messaggio: è inaccettabile il mancato annuncio dei risultati elettorali e il tentativo di alterarli. La comunità internazionale deve dire basta» national Crisis Group, diretta dall’australiano Gareth Evans, ex presidente del Senato di Canberra. La notizia non è piaciuta però a Gordon Brown, il primo ministro britannico, che proprio ieri ha annunciato l’intenzione di indire un embargo totale sulle forniture di armi allo Zimbabwe, soprattutto alla luce della nave mercantile cinese An Yue Jiang che naviga in acque africane, senza riuscire ad attraccare, con un carico

g i o r n o

Per il Golan medierà Erdogan Dopo i contatti tra Siria e Francia, il viaggio di Jimmy Carter nella regione e quello a Mosca del presidente dell’Anp Abbas per spingere il Cremlino a svolgere un ruolo mediorientale più attivo, oggi è la volta di al-Watan. Il quotidiano siriano citando «fonti bene informate», scrive che il primo ministro turco Erdogan, avrebbe trasmesso alla Siria la disponibilità israeliana a ritirarsi completamente dalle alture del Golan. Gerusalemme ha reagito con cautela ma non ha negato di «augurarsi la pace con la Siria».

Talebani e Pakistan cercano la pace Il governo di Islamabad prepara l’accordo con i talebani delle zone tribali del nordovest del Paese. La mossa del nuovo premier Gillani prende le distanze dalla strategia puramente militare di Musharraf e dà forma a quello che è stato chiamato il “nuovo ordine diplomatico”. Secondo il progetto, i militari si ritireranno dalle zone tribali mentre i fondamentalisti religiosi cesserebbero di attaccare l’esercito. Una strategia che, distinguendo tra terroristi “nazionali” e “arabi”, potrebbe irritare Washington.

Per la Somalia inchiesta Onu

di Luisa Arezzo a Commissione elettorale dello Zimbabwe (Zec) ha assegnato al partito Zanu-Pf del presidente “in attesa di giudizio” Robert Mugabe il primo dei 23 seggi per i quali era stato deciso il riconteggio dei voti. E l’aria, se possibile, nel Paese è diventata ancora più pesante. Lo spoglio completato nella prima delle 23 circoscrizioni sottoposte alla revisione dei risultati ha confermato la vittoria del partito di Mugabe, tanto alla Camera bassa quanto in Senato. Ancora una volta, però, nulla è trapelato circa l’esito delle presidenziali, svoltesi contestualmente alla parlamentari, che per la prima volta in 28 anni hanno visto la Zanu-Pf perdere la maggioranza andata invece, quanto meno in origine, alla principale forza di opposizione: l’Mdc, il Movimento per il cambiamento democratico di Morgan Tsvangirai, che ha sempre rivendicato di essere stato eletto nuovo presidente. La circoscrizione in cui si è conclusa la nuova conta dei voti è quella di Goromonzi Ovest, un distretto rurale alle porte della capitale, che ha assegnato un seggio a Mugabe. In totale al presidente basterebbero 7 seggi per strappare agli avversari il controllo del Parlamento, e dunque se il riconteggio procedesse su questa via - come temono anche molti osservatori internazionali - il contenzioso si risolverebe a favore del presidente.

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di armi, munizioni e granate destinate alle forze governative dell’ex Rhodesia e che adesso sembra stia facendo rotta verso l’Angola. Durissima la presa di posizione di Brown, che durante un question time alla Camera dei Comuni, alla richiesta di un deputato di inviare un segnale forte a Mugabe affinché «cessi di perseguitare in modo brutale l’opposizione legittima e se ne vada» ha replicato senza esitare: «Dall’intero Regno Unito deve partire un messaggio: è completamente inacettabile quanto sta accadendo nello Zimbabwe, come il mancato annuncio dei risultati elettorali e il tentativo di alterarli. Mi appello a tutto il mondo affinché esprima lo stesso punto di vista e dichiari questa situazione inaccettabile per tutta la comunità internazionale».

Il leader dell’opposizione dello Zimbabwe, Morgan Tsvangirai, nel frattempo prosegue la sua incessante missione “diplomatica” nel continente africano, in cerca di sostegno: dopo il Sudafrica, il Ghana e la Nigeria, ieri è arrivato in Mozambico e non ha voluto rilasciare commenti sul riconteggio. Ha però detto che rientrerà in Zimbabwe «al momento opportuno perché non ho commesso alcun crimine». Sia lui che il numero due dell’Mdc, Tendai Biti, rischiano di essere arrestati con l’accusa di tradimento se rientrassero nel Paese. In Sudafrica, inoltre, i principali quotidiani denunciano arresti ed espulsioni dei pochi giornalisti rimasti ad Harare e temono che il governo stia preparando il terreno per un colpo di mano senza testimoni. La situazione non potrebbe essere più tesa.

Il relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani, Alnajjar, ha chiesto ieri l’apertura di una inchiesta sulle «stragi» di civili avvenute durante i combattimenti che lo scorso fine settimana hanno opposto forze governative e islamiste in Somalia. L’Onu teme che il Paese possa sprofondare nella sua peggiore crisi umanitaria dal 1992. Il nuovo conflitto che si delinea e la siccità in arrivo, metterebbero in pericolo le vite di due milioni e mezzo di persone.

Presto il “cessate il fuoco” a Gaza Il ministro degli Esteri e portavoce dell’Anp, Riyad al-Malki, ritiene «molto vicina una tregua» con Israele. Secondo al-Malki, che ha messo l’accento sulla mediazione egiziana, ciò permetterebbe la fine «del lancio di missili da parte di Hamas nel sud di Israele, delle incursioni israeliane nella striscia e l’apertura della zona frontaliera». Dopo che, nel giugno 2007, il movimento islamista si è impadronito con la forza della striscia di Gaza, lo stato ebraico ha imposto il blocco di tutte le vie di comunicazione.

Mosca criticata per l’Abkhazia Terry Davis, segretario generale del consiglio d’Europa, ha dichiarato che il Cremlino sta mettendo in gioco l’integrità territoriale della Georgia. Davis è preoccupato dal fatto che le autorità russe stiano trattando direttamente con i funzionari della regione separatista dell’Abkhazia per i trasferimenti delle persone condannate. Le convenzioni, ratificate sia da Mosca che da Tblisi, non prevedono la possibilità di prendere disposizioni con singole autorità senza gli accordi dei governi centrali.

Ministro contro Ahmadinejad Il presidente iraniano è stato accusato di essere responsabile dell’inflazione e della disoccupazione che pesano sul Paese da Dawud Danesh Jafari, ministro dell’Economia uscente. Jafari licenziato la settimana scorsa proprio da Ahmadinejad, ritiene che le crescenti difficoltà economiche dell’Iran siano da addebitare alla politica del capo dello stato. «Aumentando la massa monetaria in circolazione del 35-40 per cento, è ovvio che i prezzi crescano» ha detto Jafari che in futuro dovrebbe occupare il posto, meno influente, di consigliere del presidente. In un anno in Iran i prezzi della frutta e della verdura sono quadruplicati, quelli dei fitti triplicati. Per la banca centrale di Teheran a febbraio l’inflazione era al 17,8 e la disoccupazione al 30 per cento.


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speciale educazione

Socrate

Attraversato per troppi anni dalla sindrome della “riformite”, il nuovo sistema scolastico dovrà nascere dal dialogo tra le forze politiche. Il ministro dell’Istruzione indica alcuni valori da cui ripartire

«BASTA SCONTRI SIAMO CHIAMATI A EDUCARE» di Giuseppe Fioroni l nostro Paese sta vivendo un’emergenza educativa che richiede l’impegno di tutti: scuola, famiglie, Istituzioni, forze politiche e sociali. Trasformare la scuola in un terreno di scontro sarebbe distruttivo e per questo sono convinto che sia necessario prendere un impegno su alcune questioni fondamentali: non si tratta di fare né larghe intese né “inciuci”, ma solo di pensare al bene della nostra scuola al di là delle bandiere e del colore politico. Noi siamo chiamati a educare, non a litigare. Già nel febbraio scorso ho rivolto un appello alle forze della coalizione avversaria per individuare alcuni punti fondamentali riguardanti la scuola che possano diventare un patrimonio comune ad entrambi gli schieramenti. Per troppi anni, infatti, la scuola è stata attraversata dalla sindrome della “riformite”che ha comportato trasformazioni radicali a ogni cambiamento di maggioranza, con conseguenze negative sul nostro sistema d’istruzione. Basti pensare che, dal 1989 ad oggi, si sono succeduti ben 14 ministri della Pubblica Istruzione, abbiamo assistito a 6 cambiamenti di linea politica e a 6 riforme degli esami: 3 dell’esame di maturità, 1 dell’esame di quinta e 2 di quello di terza media. A questo “dinamismo” estremo a li-

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vello politico, però, è corrisposta solamente tanta confusione a livello scolastico che non ha affatto giovato all’apprendimento dei nostri giovani. Le statistiche internazionali Ocse Pisa, infatti, dimostrano come, dal 2000 al 2006, i poveri di competenze, cioè coloro che stanno sotto alla sufficienza, in Italia sono aumentati di 7 punti percentuali. Inoltre gli scrutini finali dello scorso anno scolastico ci hanno mostrato che il 42 per cento degli studenti italiani delle scuole superiori è stato promosso con debito e di questi solo 1 su 4 li ha recuperati.

È chiaro che quella che stiamo vivendo è una vera e propria emergenza, per la quale la scuola, insieme alla famiglia, è chiamata ad intervenire. Ed è per questo che ho ritenuto necessario agire in modo forte; ho voluto fossero stanziati 210 milioni di euro subito per avviare i corsi di recupero presso le scuole, altri finanziamenti arri-

veranno per continuare a sostenere insegnanti e strutture scolastiche in questo percorso fondamentale per gli studenti. Dobbiamo aiutare i giovani a capire che non è con gli sconti e con i condoni che si costruisce un futuro migliore, ma con l’impegno e lo studio, puntando sempre all’eccellenza. I nostri studenti, se stimolati, dimostrano capacità, voglia di fare, di studiare, di competere e, soprattutto, contribuiscono a migliorare il funzionamento di tutto il sistema scolastico. Spero che chi da oggi in poi chi si occuperà della scuola continui su questa strada, incentivando gli studenti a concentrarsi sulle

materie essenziali come la matematica, le scienze, l’italiano, la grammatica, le lingue straniere e valorizzando il merito; offrendo ai giovani una scuola ricca di opportunità e di confronti si innescherà un meccanismo virtuoso che spingerà tutti a puntare sempre verso l’alto, rendendo la scuola un luogo migliore. Quando sono diventato ministro della Pubblica istruzione non ho pensato di legare il mio nome all’ennesima riforma generale perché ero convinto che avrebbe rischiato di restare sulla carta, mentre la scuola aveva bisogno di interventi concreti, mirati ed efficaci. Nei miei due anni alla guida di questo Ministero ho rac-

«Dopo di me, si continui a indicare ai giovani la strada dello studio e dell’impegno» colto alcuni sos che la scuola ha lanciato: riportare serietà e merito (scopo fondamentale della scuola è che i ragazzi apprendano, conoscano) perché, come diceva don Milani, «non c’è peggiore ingiustizia che trattare in modo uguale persone diseguali»; realizzare una vera autonomia delle scuole che significa prima

di tutto autonomia finanziaria e di gestione del personale, rafforzando il sistema di governo delle singole scuole in funzione dell’efficacia di risultati valutabili; completare la realizzazione di un sistema di istruzione integrato statale e non statale (parità) che, facendo leva sul principio di sussidiarietà (che non è né il semplice decentramento, né la libanizzazione della scuola) valorizzi quello che c’è di buono, da qualunque parte arrivi, all’interno di un quadro di riferimento comune, garantendo alle famiglie la possibilità di essere aiutate nel proprio compito educativo a prescindere dalla propria condizione economica; ripensare ad un nuovo sistema di formazione, reclutamento e carriera dei docenti, realizzando finalmente quello che a tutti è chiaro e cioè che la buona scuola la fa il buon insegnante.

Un altro aspetto che ritengo fondamentale, infine, riguarda il riordino degli istituti tecnici e professionali appena iniziato ma che, con la fine prematura della legislatura, è stato nuovamente bloccato. La formazione tecnico professionale garantisce infatti ai giovani la possibilità di acquisire elevati livelli di professionalità e di trovare facilmente lavoro: basti pensare che ogni anno le imprese italiane cercano, senza trovarli, 250mila giovani con qualifiche tecnico-professionali e 80mila super periti. È una priorità non soltanto per la scuola ma anche per la nostra economia.


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ROMA. «All’interno del sistema scolastico, merito e responsabilità sono due valori imprescindibili, che erano già stati promossi dalla riforma Moratti. All’epoca erano pochi a difenderli, ora sembrano condivisi da tutti». Il Senatore Giuseppe Valditara, responsabile dell’Ufficio scuola e università di An con alle spalle numerose battaglie per un’istruzione più efficiente, va subito diritto al punto. L’appello del Gruppo di Firenze, con cui alcuni docenti universitari prestigiosi hanno richiesto la promozione del merito e della responsabilità, non deve averla sorpresa. Sono senz’altro due punti fermi da cui ripartire, o meglio da ristabilire. Il recupero dei debiti formativi, il computo del voto di condotta nella media complessiva, l’individualizzazione dei programmi scolastici con la conseguente introduzione di ore destinate al recupero per gli studenti in ritardo, e all’approfondimento per quelli più brillanti, erano misure già presenti nella legge 53, volte a premiare il merito e ad accrescere la responsabilità degli allievi. Forse è il caso che, ove opportuno, il concetto di merito sia esteso anche agli insegnanti. Restituire autorità ai docenti è una necessità ormai indifferibile, abbiamo infatti bisogno di ridare autorevolezza alla figura dell’insegnante,e contemporaneamente si deve applicare la riforma della formazione e del reclutamento dei professori, come già prescritto dall’articolo 5 della legge Moratti. Promuovere il merito all’interno

«Merito e responsabilità, valori alla base della Moratti»

Percorsi mirati e sana competizione colloquio con Giuseppe Valditara di Francesco Lo Dico della classe docente, vuol dire sostanzialmente intervenire alla fonte. Occorre cioè premiare i neolaureati più brillanti. I migliori dei corsi di laurea devono accedere ai corsi specialistici per l’insegnamento sulla base di un numero programmato di accessi. A quel punto, previo lo svolgimento di un tirocinio e mediante l’iscrizione ad albi regionali, l’insegnante sarà abilitato sulla base di una adeguata selezione. Un lungo percorso che, se non per passione o per ripiego, molti giovani brillanti rinunciano a seguire. Capisco l’obiezione, ma perché le cose cambino sul serio, e si possa ovviare alla mancanza di motivazione, occorre legare finalmente le retribuzioni al merito. Bisogna creare cioè degli scatti stipendiali legati alla verifica dell’impegno e della preparazione mostrata dagli insegnanti. E qui entra in gioco la valutazione, una scienza molto controversa oggetto di critiche copiose.

Gli standard di valutazione internazionali sono adottati con successo nella gran parte dei Paesi occidentali e fra questi in Svezia, in Finlandia, in tutti i Paesi anglosassoni. Di certo sono perfettibili e c’è la piena disponibilità a calibrarne i parametri sulla base della nostra realtà scolastica, ma resta il fatto che valutare i risultati delle scuole è imprescindibile, se si vuole fare in modo che gli istituti che ottengono i risultati migliori vengano premiati, e si possa intervenire a sostegno di quelli in difficoltà. È per questo che l’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, ndr) dovrà essere potenziato. A proposito di standard, i dati Ocse Pisa dicono che la scuola italiana è in caduta libera. Non è che magari, insieme alla valutazione, vanno rivisti i programmi? Grammatica, sintassi, analisi logica, cioè la cultura della regola, la matematica, le discipline scientifiche, uno studio più efficace della lingua inglese de-

vono avere maggiore rilievo. Allo stesso tempo va detto che, per quanto riguarda le lacune evidenziate dai nostri giovani nelle branche scientifiche, in Italia abbiamo i più bassi tassi di investimento in laboratori e infrastrutture scolastiche. L’insegnamento rimane quindi prettamente teorico, e l’assenza di pratica sperimentale scoraggia la passione verso le materie scientifiche. Altro argomento dirimente è poi il livellamento della scuola verso il basso. Come intervenire? Come proposto di recente in Francia dal presidente Sarkozy, e come avviene già in alcuni fra i migliori sistemi educativi, una buona soluzione è rappresentata dall’individualizzazione dell’insegnamento. Bisogna regolare l’apprendimento sulla base delle differenze, suddividendo le ore di didattica in alcune frontali, per tutti, e in altre destinate all’approfondimento per chi è bravo, e al recupero per chi manifesta lacune. Non ha senso restringere il recupero a qualche settimana nel mese di luglio o di agosto, va esteso a tutto l’anno scolastico. Al mattino didattica frontale, e nel pomeriggio percorsi mirati. A proposito di differenze, considera ancora valida l’idea del buono scuola? Riuscire a realizzare una effettiva parità scolastica significherebbe avviare un processo virtuoso di sana competizione tra istituti. Una strada percorribile potrebbe essere ad esempio la defiscalizzazione delle rette. La costituzione riconosce ai genitori il dirittodovere di istruire i propri figli e questo diritto va reso concreto.


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speciale educazione

Socrate

Buon senso e cooperazione tra le parti per rilanciare il sistema educativo

«Un impegno leale per risolvere l’emergenza» di Beniamino Brocca e non ora, quando? È il titolo di un noto romanzo di Primo Levi, pubblicato nel 1982, che può essere utilizzato – senza commettere una appropriazione censurabile – come un wellerismo capace di giustificare una domanda e una risposta concernenti il sistema educativo italiano. La domanda che allude al tempo propizio per migliorare (correggere, potenziare e qualificare) l’istruzione e la formazione, e la risposta che ne traccia il confine, trovano compimento nella perentoria sentenza: il quando se non è adesso, forse non sarà mai. Infatti, la legislatura appena iniziata, dovrebbe registrare – se son veritiere le promesse – un impegno leale dei parlamentari neo-eletti, nell’attribuire una priorità sia al problema della emergenza educativa, sia al tema dell’insegnamentoapprendimento. Nella persuasione che il futuro civile, politico, culturale ed economico del Paese si deciderà nelle aule scolastiche, l’Udc si prefigge la realizzazione di una politica

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scolastica basata sul buon senso che c’è, ma che spesso se ne sta nascosto per paura del senso comune. Questa acuta osservazione di Alessandro Manzoni induce a ritenere che il senso comune manca frequentemente di buon senso.

I criteri orientatori Il buon senso chiama alla ribalta alcuni criteri che guidano le determinazioni spettanti agli operatori politici animati di moderazione e facitori di un’opera mite, conviviale, sobria.

feta di sventura” va predicando, e come vorrebbero farci credere i ricercatori della Ocse-Pisa: esistono potenzialità umane, livelli culturali, idee pedagogiche, elaborazioni scientifiche, procedure didattiche e competenze professionali molto apprezzabili che non sempre vengono ricomprese nei test somministrati, ma che costituiscono il patrimonio delle “buone pratiche”, da tutti riconosciute; che le recenti innovazioni riguardanti il nuovo assetto del sistema di istruzione e

Il futuro culturale e civile del Paese è legato alla qualità degli interventi Essi sono i veri innovatori perché sanno che le rivoluzioni più profonde le attua chi sa quel che perde; soprattutto sa: che la scuola in Italia, non è allo sfascio, come qualche “pro-

di formazione (Legge 53/2003), con le loro luci (molte) e le loro ombre (poche) hanno impresso un’accelerazione nella marcia di ammodernamento che va incrementata e, se necessario,

corretta, ma non arrestata o deviata come fu nelle scelte di molti politici del Centrosinistra i quali praticarono l’uso del “cacciavite”; che, tuttavia, non si può confidare nel potere taumaturgico delle disposizioni di legge per un cambiamento delle condizioni ordinamentali e funzionali delle istituzioni scolastiche: lo stato di malessere permane e va affrontato.

Un progetto aperto La scuola italiana si attende dal Governo un soprassalto di saggezza che assecondi un cambiamento migliorativo della realtà e dei riformatori attenti, seri e senza retorica (Aldo Moro) e non dei riformisti (che operano dentro e fuori delle maggioranze) i quali, con una frenesia scomposta e deleteria, impongono mutazioni avventate e aggiunte bastarde. L’elaborazione e l’applicazione di un progetto di istruzione e di formazione per gli allievi del secolo appena iniziato si cimenta con la enucleazione di alcuni presupposti. Il primo presupposto è il mandato da

LETTERA DA UN PROFESSORE

L’ANTICA “LEZIONE” NON PASSI DI MODA di Giancristiano Desiderio a quando esistono le scuole esiste la lezione, ma la pedagogia moderna ritiene che la lezione non sia un buon metodo di insegnamento. La didattica oggi è tutta concentrata sulle tecniche di apprendimento e prevale il pregiudizio sulla “cosiddetta lezione frontale” che reca la sua condanna fin dalla definizione. La lezione frontale è considerata pressappoco un modo di insegnare autoritario, vecchio, superato. Ma è solo un cattivo pregiudizio. Le scuole di filosofia dell’Antichità si basavano sul metodo della lettura: il filosofo illustrava il pensiero della scuola attraverso la lettura dei testi e delle opere dei padri fondatori. La “lettura” spiegava una scelta di vita perché la filosofia antica non era una teoria cervellotica ma stile di vita. Nel Medioevo la lettura diventerà “lectio” e commento. La “lectio”nell’epoca moder-

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na diventerà la nostra “lezione”. C’è dunque una continuità che si trasforma e rinnova attraverso i secoli e il suo segreto consiste nella autorevolezza della lezione. Più la lezione è autorevole, ossia chiara, comprensibile, interessante, più c’è il coinvolgimento emotivo e razionale di chi assiste alla lezione. La lezione non è un ostacolo all’apprendimento degli alunni come tendono a credere o a far credere la pedagogia e la didattica contemporanee ma il necessario presupposto. Una buona lezione ha sempre un doppio risultato: gli alunni riconoscono il professore e il professore riconosce gli alunni. Il rapporto tra alunni e docente, infatti, è tutto giocato su un reciproco riconoscimento e una reciproca formazione. Non ha molto senso dire che al centro dell’insegnamento ci deve essere l’alunno e dopo, solo dopo viene la cosiddetta lezione

assolvere, da parte del sistema educativo, costituito dalla crescita dell’autonomia personale e dal possesso della maestria teorico-operativa, facendo di ambedue l’elemento privilegiato della forza etica e della padronanza cognitiva. Il secondo presupposto è un dovere da espletare, che riguarda da un lato il contributo che il sistema educativo può recare allo sviluppo economico-sociale e dall’altro la propagazione da parte del sistema educativo di valori fondativi dell’interazione, della comunicazione e della sapienza. Il terzo presupposto è l’affidabilità da inventare.

Un modello pluridirezionale frontale, perché in una buona lezione al centro c’è già sempre proprio l’alunno nel suo rapporto dialettico con il professore. La lezione è sempre rivolta a qualcuno. Fare lezione significa rivelarsi a qualcuno e fare in modo che l’altro si riveli. La principale preoccupazione della didattica - e della pedagogia - , per non dire del ministero, dovrebbe essere il miglioramento dell’autorevolezza delle lezioni degli insegnanti. Al centro dell’insegnamento scolastico non ci dovrebbe essere la domanda “in cosa consiste l’apprendimento?”, bensì la domanda “in cosa consiste una buona lezione?”. Aristotele dice che chi sa insegna, mentre il detto comune dice che chi sa fa e chi non sa insegna. In realtà insegnare significa saper fare perché l’insegnamento non è l’esposizione di una teoria quale che sia, ma saper fare una buona lezione.

Il passaggio dal progetto al modello pluridirezionale che riguarda principalmente la scuola secondaria di secondo grado è quasi automatico. L’assetto di detto modello è regolato dal principio dell’unitarietà nella differenziazione. L’unitarietà (da non confondersi con la unicità) va intesa come riduzione delle diversità di natura mentre la differenziazione (da non confondersi con la frammentazione) va intesa come mantenimento della diversità di funzione. Un sistema educativo pluridirezionale, articolato in due o più corsie con diversi indirizzi tra essi collaterali, graduati e interattivi, presta attenzione ad alcuni requisiti condizionanti che incidono sulla sua essenza. La prima at-


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MA NON BISOGNA PROGETTARE UNA “DOTTA BARBARIE” di Giuseppe Lisciani l Messaggero di domenica 20 aprile ha aperto con un articolo di Giorgio Israel, il cui titolo, «La scuola riparta da maestri e contenuti», rappresenta anche una molto condivisibile esortazione, da qualche tempo piuttosto ricorrente sulla stampa quotidiana e periodica del nostro Paese e, a dire il vero, sempre più gradita all’opinione pubblica italiana. Vi sono tuttavia tre passaggi cruciali che non possono essere accolti senza qualche significativa puntualizzazione. In primo luogo, l’autonomia del sistema educativo. «L’unica autonomia sensata», dice Israel, «è concedere alle scuole il diritto al reclutamento diretto dei docenti abilitati». Se è vero che l’autonomia non possa né debba risolversi in una pura e semplice delocalizzazione di pastoie burocratiche, sarebbe però altrettanto dimezzata una autonomia scolastica in cui i docenti – benché reclutati secondo criteri meritocratici e in regime di concorrenza – dovessero essere estranei ai curricoli adottati nelle scuole che, appunto, della loro competenza si avvalgono e si fregiano. La verità è che non si evidenzia merito di scuola se non se ne valuta, innanzitutto, la configurazione curricolare. Né esiste merito di insegnante se non se ne apprezza, innanzitutto, la capacità di organizzare e realizzare curricoli (con il relativo, conseguente profitto scolastico degli allievi). Vero è che realizzare

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tenzione è per la fondazione teorica delle corsie, che trovano nel concetto di istruzione e nel concetto di formazione le due sorgenti ispiratrici, i due cardini regolatori, i due fattori qualificanti. La seconda attenzione è per l’equivalenza dei percorsi nei quali, con significative modifiche, dovrebbe venire riversato tutto ciò che risulta conveniente, redditizio e riuscito del regime attuale. La terza attenzione è per la dosatura sapiente dei piani di studio, tra i percorsi e tra gli indirizzi di ciascuno di essi (aventi una diversa proporzione oraria delle discipline tecnico-professionalizzanti rispetto a quelle letterario-linguistiche, storico-anmatematicotropologiche, scientifiche) e per una diversa composizione degli obiettivi e dei contenuti di ciascuna disciplina, curvata sulla identità e sulle esigenze delle corsie e di ogni corso delle medesime.

I punti fermi È nella fatica nobile di mediazione tra la realtà feriale e il dover essere ideale che l’Udc esprime l’intenzione convinta di evitare interventi, nella scuola portatori di confusione, di malessere e di sconforto, apprestando invece un clima di serenità, di cooperazione e di responsabilità. Da un punto di vista di maggior dettaglio, l’Udc si prefigge la correzione degli errori, delle deviazioni e

degli arretramenti dell’assetto puntando: 1) sul riconoscimento e la valorizzazione del merito contro ogni forma di falso egualitarismo; 2) sull’applicazione degli aspetti positivi delle riforme varate; sul recupero del significato, dell’importanza e della portata dell’istruzioneformazione professionale, dell’imparare anche attraverso il fare, senza ridurla a una discarica per i più deboli; sulla neutralizzazione del pericolo della licealizzazione dell’istruzione tecnica e professionale che disperderebbe un patrimonio prezioso di teorie e di pratiche; sull’aggiornamento dei curricoli della scuola secondaria di II grado sulla base delle sperimentazioni, anche storiche, attuate per consegnarli all’autonomia applicativa delle singole istituzioni; sulla riconsiderazione dello status-ruolo del personale (dirigenti – docenti – Ata) venendo incontro alle legittime esigenze giuridiche, economiche e professionali nell’ottica di una pregevole qualità del servizio; sulla revisione degli Organi collegiali per rendere effettiva la partecipazione al governo dell’i-

stituzione scolastica; 3) sulla garanzia della libertà di scelta educativa dei genitori la quale nasce dal concetto di pluralismo delle istituzioni, secondo la regola della sussidiarietà, e prevede il riconoscimento della parità giuridica ed economica, attraverso la formula del “credito d’imposta”. L’Udc intende aprire un dibattito nel Paese e chiedere una sessione straordinaria del Parlamento per trattare i problemi della scuola in un confronto aperto e propositivo finalizzato a trovare punti alti di incontro. Responsabile Scuola Udc

l’autonomia scolastica ha la sue complessità: la provocazione di Giorgio Israel – coinvolgere innanzitutto gli insegnanti – è intrigante, a patto però che non se ne faccia solo una questione di reclutamento ma anche (e in primo luogo) di responsabilità nella ideazione, progettazione, realizzazione e successo del curricolo. Un secondo punto di rilievo riguarda la formazione degli insegnanti. Qui Giorgio Israel auspica, giustamente, «un rigoroso sistema di abilitazione», ma, al tempo stesso, raccomanda di «evitare l’abuso di materie didattico-pedagogiche», dove il significato di abuso si avvicina molto a quello di uso, più o meno come, in altri scritti di Israel, il significato di pedagogia si avvicina a quello di cattiva pedagogia. Non è qui il caso di pensare ad una polemica di profilo epistemologico. Giova però ricordare a Giorgio Israel che la scuola elementare italiana, ora chiamata primaria, è probabilmente tra le migliori del mondo ed è certamente la migliore funzionante in Italia (nonostante tutto). Si tratta, come tutti sanno, di un risultato che è maturato, scavando anche radici profonde, all’ombra di una professionalità docente consapevole, fatta di didattica, psicologia, pedagogia, filosofia e attività di tirocinio. Professionalità voluta da Giovanni Gentile, che, nella riforma del 1923, creò l’Istituto Magistrale. Da questo Istituto sono nati gli insegnanti che hanno costruito e consolidato la scuola elementare ancora oggi operante e che può bene essere considerata il fiore all’occhiello del sistema scolastico italiano. Sarebbe una grave iattura per l’insegnamento se, in nome di cattivi maestri e cattiva pedagogia, dovessimo buttare, assieme all’acqua sporca, anche il bambino. Ricondurremmo ad una sorta di dotta barbarie secoli e secoli di paideia… Un ultimo rilievo vorrei farlo per associarmi a Giorgio Israel quando dice che le indicazioni nazionali in vigore sono «una raccolta di vacuità scritte in uno stile pedagoghese insopportabile». Osservando, però, che il problema dovrebbe essere bypassato con l’attuazione di una autonomia credibile del nostro sistema educativo.


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economia

BERLINO. Preoccupazione, ma

tutto il settore aerospaziale e quello degli autoveicoli. A dimostrare gli effetti di una simile evoluzione ci ha pensato recentemente la Bmw, che ha annunciato prima di voler tagliare circa 8mila posti di lavoro in Germania, poi di voler investire quasi 500 milioni di euro per espandere un suo stabilimento in Carolina del Sud. La stessa Audi sta riflettendo, insieme con Volkswagen, sull’ipotesi di creare una nuova fabbrica negli Stati Uniti.

niente allarmismi. È questa la reazione che la corsa dell’euro, capace di superare quota 1,60 sul dollaro, provoca a Berlino. Se, da una parte, il supereuro preme sulla prima economia di Eurolandia, rallentandone la crescita in un momento di crescenti incertezze a livello internazionale, dall’altra è pur vero che «le conseguenze non sono poi così drammatiche» per la Germania, come spiega a Liberal Christian Dreger, esperto di congiuntura dell’istituto DIW di Berlino. Non a caso il governo Merkel ha ripetuto a più riprese il suo no a un deprezzamento della moneta unica e a interventi correttivi da parte della Bce.

A spiegare una simile posizione, che si scontra apertamente con le dichiarazioni giunte sia da Roma sia da Parigi, c’è una lunga serie di motivazioni. Anzitutto vanno ricordati i processi di ristrutturazione compiuti negli scorsi anni, che hanno reso l’economia tedesca “più forte”e capace di resistere alle crisi. Fino a poco tempo fa un rafforzamento prolungato dell’euro, come quello vissuto in queste settimane, unito per giunta alla frenata dell’economia Usa, avrebbe avuto ripercussioni ben più profonde sulla Germania. La dinamica della crescita tedesca resta invece «intatta», come ha spiegato ieri il sottosegretario alle Finanze, Thomas Mirow nel corso di una conferenza a Berlino. In secondo luogo va considerata la struttura dell’export. Al momento gran parte delle esportazioni tedesche avvengono in Eurolandia, un dato che contribuisce a ridurre sensibilmente gli effetti del supereuro. Le esportazioni verso gli Usa raggiungono meno dell’8 per cento del totale. A titolo di paragone: la Francia conta per il 9,7, l’Italia per il 6,7. Certo, di fronte al supereuro «l’export verso gli Stati Uniti, ma anche verso l’Asia orientale, è chiaramente più debole, ma le esportazioni nell’Eurozona, come anche al di fuori, per esempio nell’Est Europa, sono cresciute fortemente» chiarisce a Liberal il professor Kai Carstensen, direttore del dipartimento Congiuntura dell’istituto Ifo di Monaco di Baviera. Non a caso, nello scorso febbraio, le esportazioni sono cresciute del 9 per cento rispetto a dodici mesi prima. E poi c’è un terzo fattore che contribuisce a far sì che gli effetti dell’apprezzamento dell’euro «non siano così spiccati

Il governo tedesco fa quadrato sulla Bce e si oppone al taglio dei tassi d’interessi

Made in Germany a prova di supereuro di Alessandro Alviani come si poteva temere», come spiega Carstensen. A differenza di un Paese come l’Italia, la Germania punta soprattutto sulla produzione di beni come macchinari o impianti, per i quali la concorrenza risulta a volte meno pronunciata e gli effetti del supereuro, dunque, sono meno sensibili. I Paesi interessanti al “Made in Germany” vengono soltanto in parte frenati dall’apprezza-

Berlino è l’unica ad avere vantaggi dalla forza della moneta unica. Per ora la sua industria non risente della crisi, ma a breve la situazione potrebbe cambiare

mento della moneta unica: negli ultimi tempi, ricorda per esempio il professor Carstensen, la domanda di impianti tedeschi da parte della Russia e dei Paesi Opec ha conosciuto una sensibile crescita. Il che non significa, comunque, che l’economia tedesca sia completamente al riparo dalla corsa del supereuro. Anzi. Il supereuro colpisce, e molto duramente, soprat-

Il supereuro riserva inoltre diversi grattacapi al governo tedesco per i prossimi mesi. L’andamento della moneta unica rappresenta, insieme con l’inflazione e con le turbolenze internazionali, uno dei fattori che contribuiranno a rallentare la crescita tedesca dall’1,7 del 2008 all’1,2 per cento nel 2009, secondo i calcoli del ministero dell’Economia. «Tanto più a lungo si protrarrà un cambio euro-dollaro intorno a 1,60, tanto più problematica diventerà la situazione e più drastiche saranno le ripercussioni», nota Carstensen. «Ci aspettiamo effetti negativi maggiori nel prossimo anno», concorda Dreger. Ciononostante il governo Merkel non ha intenzione di far pressioni sulla Banca centrale europea affinché tagli i tassi. «Storicamente, per i tedeschi l’inflazione è qualcosa di terribile, per questo probabilmente nessun esecutivo federale sarà a favore di un taglio dei tassi se l’inflazione resterà sopra il 3 per cento, come oggi in Germania», spiega Carstensen. «Un argomento di molti tedeschi contro la Bce era il timore che l’inflazione potesse non essere così bassa come sotto la Buba, per questo il governo non farà nulla che possa sollevare l’impressione che la Bce non lotti contro il rialzo dei prezzi», aggiunge l’economista. Anzi, aggiunge, l’orientamento a favore della stabilità dei prezzi in Germania «è molto diffuso e non riguarda solo il governo, ma anche gli imprenditori». Thomas Hüne, portavoce della Bdi (la Confindustria tedesca), commentando la recente decisione di mantenere invariati i tassi, ricorda come il primo obiettivo della Bce è assicurare la stabilità dei prezzi e poi, «ma molto indietro», il sostegno della congiuntura. Non la pensa così, invece, la confederazione sindacale Dgb, che ha inviato una lettera al ministro delle Finanze, Peer Steinbrück, per chiedergli di premere su Francoforte per abbassare i tassi.


economia

24 aprile 2008 • pagina 17

Ogni minuti, nel mondo, muoiono di sete quindici persone: ormai è emergenza umanitaria

Acqua potabile: un diritto per tutti d i a r i o

d e l

g i o r n o

Marchionne: «Un trimestre soddisfacente» L’amministrazione delegato del gruppo Fiat, Sergio Marchionne, a margine dell’assemblea dei soci di Ubs di cui è vicepresidente non esecutivo, analizzando i conti trimestrali che saranno diffusi in mattinata, dopo il cda, ha dichiarato: «Sono soddisfatto, è un buon trimestre».

Petrolio a 120 dollari L’oro nero “vede” la barra dei 120 dollari. Ieri alla borsa commerciale di New York era giunto a 119,90 dollari al barile, prima di fare un piccolo passo indietro per assestarsi a 118,12 dollari. Alla base del nuovo rincaro ci sarebbe la persistente debolezza del dollaro e di recenti disordini in Nigeria, Paese produttore e membro dell’Opec. È comunque da qualche settimana che la debolezza del biglietto verde sta spingendo gli investitori in settori più sicuri come l’oro e il petrolio. Da qui l’aumento delle due risorse. E l’impennata dei prezzi del greggio ha portato a un nuovo record per la benzina che raggiunge gli 1,413 euro al litro mentre il gasolio schizza ad un soffio da quota 1,4 euro al litro. Capofila è la verde aumentata di 1,5 centesimi al litro, mentre il prezzo della benzina sfonda l’1,413 euro rialzando di 1 cent il gasolio a 1,399 euro al litro. Ad un passo da quota 1,4 euro. Si tratta dei massimi storici, anche alla luce dello sconto fiscale di 2 centesimi attualmente in vigore.

di Cristoforo Zervos irca ogni minuto nel mondo quindici persone muoiono perchè non hanno accesso all’acqua potabile. Circa 1,1 miliardi di persone ancora oggi non hanno accesso completo all’acqua potabile. Circa 1,6 milioni vite potrebbero essere salvate se fossero migliorate le condizioni dell’accesso all’acqua potabile. Se nell’ultimo secolo la popolazione del globo terrestre si è triplicata, il fabbisogno di acqua e diventato sei volte più grande. Il consumo medio di acqua potabile in America e Giappone è ormai pari a 600 litri pro capite, in Europa si attesta tra i 250 e i 350 litri, in Asia il consumo tra i 50 e i 100, mentre in Africa soltanto tra il 10 e il 40. Senza interventi esterni, da qui al 2025 il numero di persone che verrebbero private di un uso adeguato dell’acqua potabile potrebbe salire alla spaventosa cifra di 3 miliardi di individui.

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Questi sono solo pochi dati che però chiariscono bene quanto il “problema acqua” debba essere preso in considerazione. E in fretta. L’Onu si è fissata come obiettivo quello di dimezzare il numero di individui che non hanno accesso all’acqua potabile entro il 2015. Purtroppo, al momento non si vedono ancora i risultati sperati. Da molto tempo i Paesi dove il problema è più urgente (Asia, Africa ed America Latina) stanno cercando di darsi da fare da soli, ma la scarsità di finanziamenti al momento non ha dato la possibilità

di costruire depuratori su larga scala, lasciando così all’asciutto gran parte della popolazione di queste terre. È molto importante capire che la scarsità di acqua potabile non è - come spesso i media o le associazioni ambientaliste ci dicono - sempre colpa della “mano inquinante dell’uomo cattivo e senza scrupoli”, ma bensì di fattori naturali nei quali l’uomo non ha colpa. Qualche esempio. Nel vilaggio indiano di Panjkosi è in sperimentazione un depuratore che agisce prendendo energia dal sole. Quando piove basta una batteria d’automobile per farlo fun-

Nell’ultimo secolo la popolazione terrestre è triplicata. E il fabbisogno d’acqua è cresciuto di sei volte. È urgente un intervento dell’Onu zionare. Ogni giorno i tremila litri di acqua potabile prodotti dal depuratore sono capaci di soddisfare il fabbisogno di un villaggio di 500 abitanti. Questo tipo di macchina è stata sperimentata in molti Paesi ma, al momento, ne sono stati venduti pochi. In Mali, il sindaco di Bamako ne vorrebbe ordinare parecchi, ma i soldi scarseggiano e si attendono finanziamenti che, al momento, stentano ad arrivare. Un altro esempio interessante è la speri-

mentazione che l’Unesco-Ihe, sta facendo in Bangladesh. Il problema in questa regione è la presenza di arsenico nelle falde acquifere. L’assorbimento di tale veleno nell’acqua può alla lunga portare, in chi la beve, anche malattie incurabili.

I ricercatori dell’istituto avrebbero sperimentato un filtro che funziona senza bisogno di combustibile o elettricità. Grazie a questa tecnica, usa e getta ed a basso costo, è stato possibile depurare fino 100 litri di acqua al giorno, non riuscendo però a coprire tutto il fabbisogno della regione. In Etiopia esiste un altro progetto che si chiama Lifestraw. Si tratta di una cannuccia che mentre aspira l’acqua la depura. Grazie a questo sistema si sono potute diminuire nella regione malattie come dissenteria, colera e febbre tifoide. Il problema di tutti questi esempi appena citati è la produzione su larga scala. Per passare dalla sperimentazione alla produzione industriale sono necessari studi sul territorio molto lunghi e costosi. Di certo il compito spetta agli organismi internazionali perchè spesso le ong da sole non ce la fanno. Da molto tempo si sta parlando di coinvolgere sia il settore pubblico sia quello privato, in modo da poter creare soluzioni sostenibili, ma la soluzione non sembra ancora a portata di mano. Basterebbe, forse, una presa di posizione seria delle Nazioni Unite, ma al momento al Palazzo di Vetro preferiscono occuparsi d’altro.

Ferrorie, perdite in calo nel 2007 Le Ferrovie dello Stato hanno chiuso il 2007 con un risultato netto negativo per 409 milioni, in calo rispetto alla perdita di 2.115 milioni dell’esercizio precedente. La riduzione delle perdite dell’80% è dovuta a diversi fattori, tra cui la crescita dei ricavi operativi del 14,7%, passati da 6,703 milioni del 2006 ai 7.685 milioni al 31 dicembre scorso. Migliora anche la reddività. Parte importante lo ha avuto anche l’ottimizzazione dei costi che ha permesso un risparmio per circa 152 milioni di euro, cui però si contrappone un aumento di 21 milioni di euro netti dovuto principalmente agli oneri di trasporto e spedizione da parte delle società del settore merci per la maggiore attività effettuata nell’esercizio.

Inps, nel 2008 migliorano i conti Nella prima nota di variazione deliberata dal cda dell’Inps si prevede un miglioramento dei risultati rispetto alle previsioni, «riconducibile agli effetti del nuovo quadro macro-economico e normativo di riferimento». In dettaglio l’Inps prevede un risultato di esercizio positivo per 6,524 miliardi con un incremento di 1.880 milioni rispetto al 2007 e di 1.591 milioni rispetto alle previsioni 2008 approvate. Il patrimonio netto alla fine dell’esercizio ammonta a 36.708 milioni, con un incremento di 6.524 milioni rispetto al 2007 e di 1.591 milioni rispetto al patrimonio netto di 35.115 milioni delle previsioni 2008 approvate.

Sciopero dei lavoratori edili È stato confermato per oggi lo sciopero di 8 ore per i lavoratori edili, indetto da Feneal Uil, Filca Cisl e Fillea Cgil. La vertenza è a sostegno del rinnovo contrattuale per 1.250.000 lavoratori.«Ad oltre tre mesi dalla scadenza del contratto nazionale - dicono i sindacati - l’Ance ha confermato le posizioni di chiusura e si ostina a non riconoscere i diritti che danno dignità al lavoro su temi fondamentali» come quelli la malattia, utilizzo improprio del part time e salario.


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polemiche

Una falsa raccolta di racconti contro Sergio Cofferati pubblicata da un centro sociale bolognese

La strana storia di un editore impegnato di Gianfranco de Turris accontiamo due storielle e ricaviamone una morale tutta italica. C’era una volta un editore romano che nel 2001 mise in circolazione un libretto dal titolo Necronomicon - Il libro proibito di H.P.Lovecraft che i lettori acquistarono credendo fosse un’opera del famoso scrittore americano di horror, mentre invece si trattava di un ridicolo pasticcio redatto da italianissimi e sconosciuti autori che presentavano un ovviamente falso testo del noto pseudobiblium ideato dallo stesso Lovecraft, una operazione non nuova peraltro e già tentata altre volte, quattro o cinque, in lingua inglese. Non tutti i lettori però accettarono il fatto che il libro, presentato in copertina come di Lovecraft, in realtà non lo fosse. Sicché un appassionato di Napoli nel marzo 2001 denunciò l’editore per “pubblicità ingannevole” all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che nel settembre di quell’anno condannò l’editore in questione vietando l’ulteriore diffusione del libro a meno che non fosse stato indicato chiaramente sulla copertina la effettiva identità dell’autore dell’opera che non era di Lovecraft.

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Facciamo un balzo in avanti di sette anni e raccontiamo un’altra storia, abbastanza simile, quasi parallela. Come ha rivelato Il Riformista del 10 aprile circola a Bologna e nei “centri sociali” di mezza Italia una volumetto che ha l’apparenza esteriore di Urania, la famosa collana di fantascienza mondadoriana, con una copertina di quelle tipiche di un tempo, bianca, con le strisce rosse ed il disegno tondo, intitolato Scorrete lacrime, disse lo sceriffo a firma di Philip K. Dick, titolo che fa il verso ad un famoso romanzo dello scrittore americano scomparso oltre venti anni fa: Scorrete lacrime, disse il poliziotto. Sicuramente un falso, ma facilissimamente riconoscibile come tale, sia perchè invece di Urania c’è scritto Crash, nome di un “centro sociale” bolognese, ma anche titolo di un altro famoso romanzo, questa volta di J.G.Ballard, ma soprattutto

A sinistra, la copertina della “falsa” raccolta di racconti contro Sergio Cofferati pubblicata da un centro sociale bolognese e attribuita a Philip K. Dick. In basso, l’editore Sergio Fanucci, che ha l’esclusiva di Dick per l’Italia

perchè nel tondo della copertina è immortalato, con alle spalle le rovine fumanti di Bologna, Sergio Cofferati, detto appunto “lo sceriffo”, colpevole di aver fatto sgomberare il “centro sociale” in questione. All’interno, in 95 paginette, quattordici racconti futuribili coordinati da Valerio Evangelisti sulla città petroniana in cui Cofferati viene preso atro-

introduzioni (idem per questo falso Dick con un testo apocrifo di una ovvietà incredibile) ed è anche un noto fan di Tex Willer, da cui il soprannome che gli è stato affibbiato, ad ogni persona con una minima conoscenza fantascientifica sarebbe risultato chiaro che si trattava di una satira pesantissima scritta da italici

dei cassetti da chi specula solo sul suo nome, il quale ha preso cappello di brutto ed il giorno dopo ha diramato attraverso il suo ufficio stampa una lettera dai toni apocalittici: difende a spada tratta «il significato del concetto di diritto d’autore volto a tutelare le opere d’ingegno pubblicate nel nostro paese»; denuncia con veemenza come «l’edizione di Crash sia ingannevole e rappresenti un vero e

Un volume attribuito a Philip K. Dick attacca il sindaco di Bologna e la sua politica sulla sicurezza. Sergio Fanucci s’infuria, ma si dimentica di quando utilizzò lo stesso trucco a spese degli appassionati di H.P. Lovercraft cemente in giro in tutti i modi possibili e immaginabili soprattutto a motivo della sua ossessione per la sicurezza. Più evidente di così, che cioè non fosse Dick il vero autore delle storie, sembra impossibile. Sapendo che Cofferati è un appassionato di Dick ai cui romanzi ha scritto anche delle

ed incavolati autori della molteplice fauna della sinistra radicale e disobbediente. Non è invece stato per nulla chiaro all’editore italiano che da anni pubblica ormai in esclusiva Dick in Italia, sia gli effettivi capolavori, sia opere decisamente pessime ed infantili tirate fuori dal fondo

proprio falso, essa lede tutti i diritti d’autore in barba alle leggi che lo tutelano, offende il mio lavoro e quello di tutti i miei collaboratori che partecipano ogni giorno per promuovere e sostenere Philip K. Dick»; rivela angosciato di essere tormentato da atroci dubbi esistenziali e ideologici:

«Se ora rispondo con un avvocato come è giusto che sia (e non è detto che non lo faccia) per difendere un mio diritto sancito dalle nostre leggi... rischio la matematica etichetta di destrorso, quello che va contro i centri sociali, contro una parte di espressione della nostra società e bla bla bla. Se invece rimango zitto, giustifico con il mio silenzio la diffusa pratica ’italiana’ di fregarsene delle leggi, del rispetto degli altri, del valore del lavoro, di chi ci crede veramente e di chi le leggi le rispetta». Chiusura enigmatica e un tantino minacciosa: «Io rispondo che tra due giorni voteremo quelli che purtroppo alcuni di voi si meritano e non c’è colore di partito che tenga».

Ora il dilemma è atroce: o farsi definire “fascista” (perché la legge che regola ancora oggi il diritto d’autore è stata emanata, appunto, durante il regime fascista), beccandosi così un’accusa di cui il nostro editore è stato assai prodigo in passato nei confronti di chi non gli era simpatico, oppure passare per un “compagno” fesso. Morale della favola, di cui si diceva all’inizio: chi la fa l’aspetti! Già, perchè ci siamo dimenticati di dire il nome dei due editori, che poi è - il caso vuole - lo stesso: quel Sergio Fanucci che pubblicò il falso Lovecraft e che pubblica i veri Dick, il quale ha assunto due volti. Sfottente nei confronti d’Autorità Garante della Concorrenza e intransigente nei confronti della goliardata chiarissima che lo ha convolto. Tutte sciocchezzuole quando il “falso” lo fai tu, tutte cose gravissime quando il “falso” lo subisci. Povera vittima di quella cattiva Autorità Garante, intransigente difensore del diritto d’autore quando il “falso” appare essere ai tuoi danni. “Di sinistra” per difendere la libertà di attribuire a Lovecraft la paternità di un “falso” Necronomicon, “di destra” quando devi conculcare la libertà di satira attuata con un “falso” Dick. Ma valli a capire questi editori “impegnati” soltanto quando loro conviene e per di più traditi dagli amici più cari! In fondo italioti della doppia verità e del “due pesi due misure”...


cultura inquanta fotografie per raccontare una storia antica: Damasco, Aleppo, Maalula, Bosra, Idleb. E’ un viaggio nei luoghi sacri la mostra “Siria. Alle radici della cristianità” inaugurata lunedì 21 aprile a Subiaco alla presenza dell’abate, don Mauro Meacci, e dell’ambasciatore di Siria, Samir al Kassir. La rassegna organizzata dall’ambasciata siriana in Italia e ospitata al Sacro Speco del monastero di San Benedetto, ripercorre con le immagini di santuari, chiese e monasteri la tradizione cristiana del Paese: dalla cappella di Sant’Anania alla tomba di San Giovanni Battista che, sfidando il tempo e l’islam, sono arrivati fino ai nostri giorni. Proprio in terra di Siria, crocevia di tre continenti, punto di incontro commerciale tra Oriente e Occidente, si sono mossi i primi passi della cristianità. Giovanni Paolo II nel 2001 disse che «la Siria è una terra santa, il luogo del dialogo tra le genti». Le foto, che raccontano la Siria di ieri e di oggi, mostrano l’antico villaggio di Maalula dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù, con la bellezza della cattedrale e del monastero di San Sergio. Poi Damasco con la cattedrale e la cappella di San Paolo e San Anania accanto alla moschea degli Omayyadi, visitata da Giovanni Paolo II nel 2001. Damasco è una delle culle della cristianità: qui Saulo, dopo aver incontrato Anania, si convertì al cristianesimo e iniziò il suo percorso di fede per evangelizzare il mondo. Il tour di immagini passa ancora dal monastero di Deir Mar Musa alle bellezze di Saydnaya, per poi continuare con la chiesa di San Simeone ad Aleppo, massimo esempio di architettura paleocristiana. Infine le chiese di Rasafa, simbolo di convivenza tra islam e cristianesimo, e la zona archeologica di Palmira e Dura Europos. Un viaggio alla scoperta del sapere dei padri del deserto, dei saggi e mistici dell’Egitto, dell’esistenza di San Simeone Stilita, delle numerose chiese cristiane di Aleppo, del monastero di Seydnaya, dei luoghi di Damasco che videro la conversione di San Paolo. Proprio nell’attuale capitale della Siria, la porta di Bab Sharqi chiude il decumano romano, la famosa “via recta” di cui parlano gli Atti degli Apostoli raccontando della conversione di Saulo di Tarso, il futuro San Paolo diffusore del cristianesimo in tutto il bacino del Mediterraneo. Si narra che Paolo, accanito persecutore di cristiani, perse la vista dopo una caduta da cavallo avvenuta per volere divino sulla via di Damasco. Portato in città nella casa di Giuda gli fu mandato un cristiano di nome Anania che gli impose le mani restituendogli la vista e rendendolo strumento dello Spirito Santo.

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A ridosso della porta Bab Sharqi si sviluppa il quartiere cristiano dove si trova la chiesa di San Anania, la cui esistenza è documentata, col titolo di Chiesa della Croce, fin dal V-VI secolo. La casa di Anania è una cripta formata da due vani, alla quale si accede da una scalinata, dedicata alle figure dei Santi Paolo e Anania, uno dei settantadue discepoli di Gesù, venuto a Damasco dopo la lapidazione di Santo Stefano e in seguito fatto

A Subiaco la mostra fotografica ”Alle radici del cristianesimo”

Siria terra santa e di dialogo di Rossella Fabiani vescovo della città. La moschea degli Omayyadi sorge su un luogo dedicato alle divinità da quasi tre millenni. Qui si sono succeduti un santuario aramaico, un tempio dedicato a Giove damasceno, una cattedrale cristiana dedicata a San Giovanni Battista e, infine, la grande

ti ed è resa grandiosa dai suoi palazzi, dalle sue 270 moschee e dalle sue 90 chiese che riempiono la pianura attraversata dal fiume Barada in corrispondenza di un corridoio naturale ai piedi della catena dell’Antilibano. Nell’estate de 1994, quando arrivò a Saydnaya, lo Altre foto della mostra ci portano ad Aleppo, la seconda città per importanza dopo la capitale, che sorge in una regione tra l’Oronte e l’Eufrate sulle rotte dei traffici tra Asia e Mediterraneo; in alto la chiesa della Vergine di Saydnaya

Un viaggio alla scoperta delle chiese cristiane: da Aleppo a Seydnaya, i luoghi di Damasco della conversione di San Paolo moschea, simbolo della Damasco capitale dell’impero arabo-islamico nel 708 dopo Cristo. Con oltre quattromila anni di storia alle spalle, Damasco è la più antica città del mondo oggi ancora abitata. La capitale della Siria, ha oltre tre milioni di abitan-

scrittore scozzese William Dalrymple fu meravigliato di trovare cristiani e musulmani che pregavano insieme e di scoprire come il monastero aveva avuto un’immensa popolarità durante tutto il medioevo, sia in Oriente che in Occidente, come Lourdes e Fatima oggi. Il

villaggio di Saydnaya, si trova su un’altura di 1400 metri, disegnato dalle sagome degli edifici del convento e coronato dalla chiesa dedicata alla Vergine. Alcuni fanno risalire la fondazione del santuario all’imperatrice Eudossia, dopo avere ritrovato a Gerusalemme un’icona della Madonna dipinta da San Luca. Probabilmente il santuario è, invece, da far risalire al VI secolo, a Giustiniano I. Secondo la leggenda, l’imperatore bizantino, impegnato in una campagna contro la Persia, durante una battuta di caccia, smarrì la strada rischiando di morire di sete. Vide allora una gazzella che, dopo averlo guidato ad una sorgente d’acqua, sparì com’era apparsa. Giustiniano riconobbe in lei la Vergine e ordinò di costruire un santuario in suo onore. Il nome Saydnaya significherebbe in lingua aramaica “Nostra Signora” ma anche “luogo della caccia”.

Nel monastero si entra da una piccola porta che ha la doppia funzione di impedire l’accesso dei cavalieri e di imporre l’inchino devozionale. La chiesa è immersa in un’atmosfera bizantina fra l’azzurro delle volte e l’oro delle icone, con la minuscola cappella dove è conservata, dietro una grata di ferro e un telo di seta, l’immagine miracolosa. Alla cappella si accede senza scarpe come impone un’iscrizione scolpita all’ingresso tratta dal libro dell’Esodo: «Togli le scarpe dai piedi perché il luogo in cui ti trovi è terra santa». Le case del villaggio di Maalula sembrano, invece, appese alla roccia. La strada sale sopra un precipizio e si apre in una piazzetta davanti al convento dedicato ai Santi Sergio e Bacco che in passato era un tempio pagano di cui rimangono antichi capitelli. Legionari romani del VI secolo dopo Cristo, i martiri Sergio e Bacco, vennero condotti al tempio di Giove e costretti a compiere un sacrificio: si rifiutarono e furono condannati al martirio. Bacco morì flagellato nel castrum di Barbalisso. Sergio fu costretto a camminare con i chiodi conficcati nei piedi per i castra di Saura,Tetrapirgio e Rasapha, dove poi fu decapitato. La comunità di Maalula conserva anche un altro primato: i suoi abitanti parlano ancora l’antico dialetto aramaico occidentale, la lingua in uso in terra santa ai tempi di Gesù e nella quale furono scritti due libri della Bibbia. Altre foto della mostra ci portano ad Aleppo, la seconda città per importanza dopo la capitale, che sorge in una regione tra l’Oronte e l’Eufrate sulle rotte dei traffici tra Asia e Mediterraneo. La città ospita la cattedrale di San Simone Stilita, fatta costruire intorno al 600 dopo Cristo dall’imperatore bizantino Zenone. Dedicata all’anacoreta che, si narra, per un ventennio visse seduto su una colonna, è di particolare importanza artistica perché è il primo esempio di chiesa cristiana a pianta ottagonale nella storia della Siria. Popoli come i persiani, i medi, i saraceni, gli etiopi e gli sciti ammirarono e onorarono quel personaggio straordinario, che fece tra i pagani numerose conversioni. Ma in quella stessa area sorgono altri luoghi di culto: in tutto quasi 700 databili tra il 400, 500 e 600 dopo Cristo e l’anno Mille.Tra le foto spiccano anche le rovine romane di Palmira, i resti greci e romani di Dura Europos e il monastero di Mar Musa.


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cultura

A Capodimonte una mostra rende giustizia al vero genio dell’artista napoletano

Salvator Rosa l’estetica del sublime di Olga Melasecchi ella lussureggiante e grandiosa cornice del Museo di Capodimonte a Napoli è possibile ammirare fino al 29 giugno la mostra Salvator Rosa tra mito e magia in cui sono raccolti molti dipinti e alcune incisioni del grande artista napoletano. Si tratta della prima e attesa mostra monografica a lui dedicata in Italia, dopo l’unica risalente al lontano 1973 organizzata non a caso a Londra. Le opere del Rosa (Napoli 1615-Roma 1673) sono state infatti sempre molto ammirate e ricercate dai collezionisti inglesi fin dal XVIII secolo per il loro sapore fortemente preromantico e anticipatore delle tante vedute e paesaggi italiani realizzati dagli artisti d’Oltralpe all’epoca del Grand Tour. Al nome di Salvator Rosa viene associata generalmente l’immagine del paesaggio tempestoso, della natura aspra e incontrollabile, dove minuscole figure di viandanti a malapena si distinguono in anfratti di rocce incombenti e minacciose, il cui aspetto terrificante è accentuato dall’antropomorfizzazione delle loro forme: massi che diventano draghi, corpi massicci di bufali sdraiati, gigantesche teste di cavallo, creati dalla fantasia del pittore, il cui senso panico della natura rientrava nel gusto tipicamente barocco della meraviglia. «Misto così stravagante d’orrido e di domestico, di piano e di scosceso», scriveva l’artista davanti ad alcuni angoli della campagna umbro marchigiana, mentre la cascata delle Marmore era «cosa da far spiritare ogni incontentabile cervello per la sua orrida bellezza; per vedere un fiume che precipita da un monte di mezzo miglio di precipizio et inalza la sua schiuma altretanto». Ancora oggi non possiamo non emozionarci davanti a questi dipinti che a buon diritto appartengono all’estetica del sublime, il nuovo sentimento artistico che nasce in contrapposizione del gusto classicista secentesco, e che vedrà nel pittore tedesco Caspar David Friedrich il suo massimo rappresentante.

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E proprio per i paesaggi Salvator Rosa veniva lodato già dai contemporanei, ma suo malgrado, in quanto il paesaggio era considerato comunque un genere minore rispetto alla più qualificata pittura di storia e soprattutto, dal mito di Michelangelo in poi, alla rappresentazione della figura umana: «(...) Che molte di codeste tele... vadino in mal’ho-

ra, me ne rallegro - scriveva ancora a proposito dei suoi paesaggi - a ciò si disperda la memoria ch’io mai dipinsi Paesi».

Salvator Rosa nacque a Napoli nel 1615, fu allievo prima di Jusepe de Ribera, in seguito di Aniello Falcone, Battaglia, Fracanzano e Greco. Si dedicò prevalentemente alla pittura di paesaggi e fu anche poeta e attore. Morì a Roma nel 1673. Nelle immagini tre opere dell’artista: a sinistra Frine e Xenocrate, in basso Autoritratto in veste di guerriero e a destra Scena di stregoneria Questa mostra, progettata e realizzata dalla Soprintendenza speciale per il polo museale napoletano, rende giustizia al vero «genio di Salvator Rosa» (è questo anche il titolo di una sua nota incisione) offrendo una ricostruzione più completa e complessa dell’opera dell’artista partenopeo, anche se non esaustiva a causa di prestiti mancati, e tale è il gusto di ciò che si ammira che non si può non provare rammarico per l’assenza di ciò che avrebbe dovuto esserci. Non solo paesaggi e battaglie, altro genere molto amato dalla committenza barocca, ma soprattutto ritratti, autoritratti, pittura filosofica, originalissimi soggetti mitologici e storici, un impressionante Prometeo da cui escono viscere e sangue, orrende stregonerie e incantesimi. Ecco l’anima napoletana di Salvatore che poco visse a Na-

poli, ma soprattutto a Firenze e a Roma, ma che mai perse la sua «napoletanità» come ancora viene inteso un certo modo scaramantico di affrontare la vita, nella sua accezione più nobile e che viene impersonato dalla figura di Pulcinella. Maschera napoletana della commedia dell’arte come quella di Pascariello, nelle cui vesti l’artista si è raffigurato in un autoritratto purtroppo assente in mostra e che vuol essere la parodia della ritrattistica ufficiale dei gentiluomi paludati, maschera da lui stesso interpretata a Roma in una rappresentazione burlesca in occasione del carnevale del 1639.

Come non sentire lo spirito spagnolo della coeva letteratura di Cervantes e di Calderon de la Barca imperante nella Napoli del tempo, e a lui forse trasmessa dal grande pittore Ribera, nel suo preminente amore per il teatro, per la vita vista come un palcoscenico su cui passano e dove vengono esorcizzate le passioni umane, nel suo fiero amor proprio e nel contempo nella visione fatali-


cultura

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80 opere dai più importanti musei

Un dissenziente tra mito e magia

stica di ogni umano accadimento, nel suo aderire alla corrente filosofica neostoica che disprezza ogni bene terreno e nel suo essere tuttavia molto terrenamente attaccato alla ricchezza e alla gloria? Pittore colto, autore di testi teatrali e di satire, può essere definito un poeta che si esprimeva con le immagini piuttosto che con le parole secondo il noto motto oraziano dell’Ut pictura poesis e che ha voluto eternarsi in veste di filosofo pitagorico - e ai riti occulti dei seguaci moderni del filosofo presocratico sembra che il Rosa abbia maggiormente aderito - così come ha voluto vestire i panni di uno sprezzante duellante nell’intenso Autoritratto in veste di

il cui guerriero sguardo ardente ancora ci intimorisce e dove riconosciamo i tratti mediterranei descritti dal suo biografo e amico Giovan Battista Passeri: «Salvatore fu di presenza curiosa, perché essendo di statura mediocre, mostrava nell’abilità della vita qualche sveltezza,

legorie della Musica e della Poesia per le quali scelse come modella l’amata compagna Lucrezia, sposata solo poco prima di morire. Proprio il Ritratto della moglie Lucrezia proveniente da Palazzo Barberini a Roma è l’opera più moderna e commovente della mostra napoletana. Pervenuto allo Stato nel 1914 dagli eredi del pittore raffigura la donna vestita a lutto dopo la morte del figlio quindicenne Rosalvo a causa della peste che aveva infestato Napoli nel 1656. I suoi delicati tratti emergono dal fondo bruno, colta da un richiamo che la fa girare per un momento verso di noi, il suo sguardo colmo di lacrime e dolore è indimenticabile. «Lascio considerare a chi ha viscere - scriveva il pittore nel settembre di quell’anno prima dell’incontro a Roma con Lucrezia - come possa stare il mio core nel trovarmi solo in faccia alla Signora Lucrezia con un’amaritudine simile nell’anima»: la morte che per tutta la vita egli aveva schernito e sfidato lo coglie con violenza, spoglia la sua arte da qualsiasi retorica e artificio, diventa ispirazione non cercata per la creazione di un capolavoro.

Pittore colto, autore di testi teatrali e di satire, può essere definito un poeta che si esprimeva con le immagini, secondo il motto oraziano “Ut pictura poesis” e leggiadria: assai bruno di colore nel viso, ma d’una brunezza Africana, che non era dispiacevole. Gl’occhi suoi eran turchini; ma vivaci a gran segno, di capelli negri, e folti, li quali gli scendevano sopra le spalle ondeggianti e ben disposti naturalmente». Sono questi dipinti di tono lirico e di grande impatto emotivo, insieme alle al-

La mostra monografica su Salvator Rosa - che si svolge nell’ambito delle celebrazioni del cinquantenario dell’apertura al pubblico del Museo di Capodimonte - si inserisce nel programma culturale della Soprintendenza speciale per il polo museale napoletano, inteso ad approfondire, tramite esposizioni monografiche, la conoscenza di alcuni dei protagonisti della pittura napoletana del Seicento. Salvator Rosa, indubbiamente una figura di spicco della cultura seicentesca, oltre che pittore fu poeta originale ed estroso, autore di epigrammi e di satire e anche raffinato musicista; attivo non soltanto a Napoli ma soprattutto a Firenze e a Roma, si colloca in quel particolare ambiente culturale che vede intrecciate scienza, magia, alchimia, filosofia e arte. L’artista - nato a Napoli nel 1615 e morto nel 1673 a Roma - esprime attraverso le varie forme artistiche, quel «dissenso» che contraddistingue tutta una generazione di pittori e scrittori, che si pongono in maniera fortemente critica nei confronti del potere politico e religioso. L’esposizione intende illustrare un aspetto particolare della prolifica produzione pittorica di Salvator Rosa, ovvero quello delle sue «composizioni di figure» come le stregonerie, le allegorie filosofiche, le storie sacre e mitologiche, i ritratti. Fino al 29 giugno sono esposti circa 80 dipinti provenienti da musei italiani, europei e americani, come la Galleria d’Arte Antica di Roma, la Galleria Palatina di Palazzo Pitti di Firenze, la National Gallery di Londra, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Metropolitan Museum di New York e opere provenienti da importanti collezioni private, difficilmente accessibili al grande pubblico. L’esposizione è inoltre arricchita e completata da una selezione di incisioni. Le opere sono state selezionate da un comitato scientifico internazionale, composto da Nicola Spinosa (presidente), Marco Chiarini, Brigitte Daprà, Sybille EbertSchifferer, Helen Langdon, Wolfgang Prohaska, Aurora Spinosa e Caterina Volpi. Orari: lunedì-giovedì-domenica h.10.00-18.00; venerdì e sabato h. 10.00-19.30; mercoledì chiuso. Biglietti:integrato Mostra/Museo intero 12,00 euro; ridotto 6,00 euro. Prenotazione: obbligatoria per gruppi e scuole


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Viminale, meglio Maroni o Scajola? CONFERMEREI DI NUOVO PISANU, UOMO DI GRANDE SPESSORE E MORALITÀ Maroni o Scajola? Tertium non datur? Invece sì. Io confermerei Pisanu, l’ultimo ministro degli Interni del precedente quinquennio di Berlusconi. Lo so, il Cav. ce l’ha con il parlamentare sardo al quale rimprovera di non aver combattuto abbastanza per provare i brogli che avrebbero privato il centrodestra della vittoria nella competizione elettorale del 2006. Io sostengo, al contrario, che anche in quella occasione Pisanu si comportò secondo una dirittura morale che nella Casta è ormai quasi impossibile riscontrare. Può darsi che i brogli ci siano stati. Ma bisogna portare prove concrete o accettare il lungo iter previsto dalle leggi. Il nostro non è un politico improvvisato, proviene dalla scuola democristiana che, volenti o nolenti, ha prodotto uomini di Stato di grande spessore. E Pisanu l’ha ampiamente provato quando a capo del ministero degli Interni, dopo Scajola, ha riportato grandi risultati contro la malavita organizzata con tanto di arresti eccellenti. Anche il flusso d’immigrazione fu arrestato, almeno nelle dimensioni che aveva conosciuto negli anni precedenti. Ed è proprio di questo che l’Italia

LA DOMANDA DI DOMANI

Alitalia, Air France abbandona. Colpa di chi? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

ha bisogno. Ma insomma perché non usufruire della collaborazione di chi ha dimostrato di saperci fare? Di politici validi il nostro Paese non abbonda, e dunque... Grazie per l’ospitalità, cordialmente saluto.

Ippolito Calvi - Torino

PIÙ O MENO UNO VALE L’ALTRO, ANCHE SE MARONI È PIÙ DIPLOMATICO Secondo me, più o meno uno vale l’altro. Temperamento forte e stessa concezione riguardo a ordine e immigrazione. Probabilmente Maroni è più diplomatico, e comunque dopo cinque anni di Welfare nel precedente governo Berlusconi, ha una maggiore dimestichezza nel trattare con i sindacati. Non dimentichiamo poi che Scajola è stato già ministro degli Interni e inciampò nel disgraziato commento sul giuslavorista Biagi. Riproporlo allo stesso Dicastero potrebbe essere considerato, non solo dai ”nemici”,ma anche dagli amici una provocazione. Con i sindacati questo governo avrà senz’altro da combattere tante battaglie, considerando la preconcetta posizione che Epifani e gli altri assumeranno. Perché andarsi a cercare altre grane da soli?

Claudio Santini - Ancona

AGLI INTERNI MEGLIO UN MINISTRO LEGHISTA, SCAJOLA FACCIA SCORDARE LA GAFFE SU BIAGI Meglio Maroni senza alcun dubbio. Scajola ha il ”muso troppo duro”. E’ vero che con questa opposizione ci sarà da combattere notte e giorno, ma con calma e serenità. Maroni in fondo ha dimostrato di essere paziente e deciso al contempo. Come titolare del ministero del Lavoro, dopo estenuanti trattative con i sindacati, uscì vincente su un terreno, quello delle pensioni, estremamente minato. E poi una considerazione puramente politica. Un ministro leghista ora è meno inviso di un ministro di fede berlusconiana. Qualcuno - forse Bossi stesso - ha detto una cosa simile. Ha ragione. Anche Scajola è uomo di spessore e merita considerazione, ma deve far dimenticare il ”rompi...” infelicemente affibbiato a Biagi.

POCO IMPEGNO TANTI VOTI La politica è molte volte vista come un posizionamento sociale ed economico e non con spirito di servizio e crescita personale. E’ un’illusione perché la politica non è una cosa certa e solida che si acquisisce con merito ed impegno costante come nel lavoro. Se si vuole diventare professionisti della politica, si deve sapere che si va incontro a un lavoro precario, pieno di incertezze e instabile. Instabilità dovuta a una perdita di consensi nella tornata elettorale, a una caduta in disgrazia della corrente a cui si appartiene o al semplice umore del capo. Non ha senso per un giovane dedicarsi alla politica se non come impegno successivo o contemporaneo al conseguimento di una professione, che lo renda libero dalla corruzione non necessariamente solo di tipo economico ma anche morale. Intendo la corruzione nell’animo e quindi nei comportamenti, che significa fare quello che conviene fare non per il bene della comunità e per il bene di un’idea utile ad essa, ma a quello che conviene a se stessi in relazione alla propria carriera politica. In quel momento si

VERDI DELL’ALTRO MONDO Iniziativa di alcuni ambientalisti indonesiani a Makassar, sull’isola di Sulawesi, per celebrare la 38esima edizione dell’Earth Day e «sensibilizzare il governo sulle questioni ambientali» WALTER VELTRONI E I SOGNI D’ALTA GAMMA Strana gente quella del mondo dello spettacolo. Leggiamo che all’attrice Catherine Deneuve non dispiacerebbe reincarnarsi in un albero di limetta. Sogni fantasiosi ed esclusivi, ma forse possibili. Al cinema lover Walter Veltroni interesserebbe fare il leader e il presidente del Consiglio. Ambizioni prestigiose e gusti decisamente d’alta gamma. Forse troppo alta e irraggiungibile, per il Nostro. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Pierpaolo Vezzani

PIENA SOLIDARIETÀ A PIER FERDINANDO CASINI L’attacco di Sandro Fontana a Pier Ferdinando Casini su Libero del 22 scorso mi lascia interdetto. L’onorevole Casini

dai circoli liberal Stefano Corradi - Firenze

ammazza di nuovo chi nel nostro Paese, dal Risorgimento alla Liberazione e infine agli anni di Piombo, è caduto per la Libertà e la Democrazia a prescindere da che parte si sta. Si dirà: “E’ un’utopia”. Weber però affrontando il tema del professionismo della politica, affermava che “di politica” si deve necessariamente vivere se si vuole sacrificare la propria esistenza per un’idea e in questo non c’è nulla di male, anzi, è il massimo del dono che si può fare alla Polis. Per un giovane avvicinarsi a un Circolo liberal significa potersi preparare al meglio, alla possibilità di un impegno politico quando la propria condizione personale e gli avvenimenti lo consentono e lo richiedono. La missione dei Circoli è la creazione nell’area moderata di un grande e moderno partito che funzioni democraticamente. Su questo abbiamo perso degli amici e in questo ci ritroveremo se non rinunciamo a quest’idea, giusta semplicemente perché ci fa star bene con la nostra coscienza. «Democrazia è Partecipazione», diceva se non sbaglio Gaber. Questa difficoltà nell’impegno dei cittadini fuori dall’utilità personale e quindi per

viene descritto come psicologicamente immaturo e sprovveduto politicamente. I suoi torti sarebbero quelli di avere sabotato la prospettiva del Ppe (ma è ancora all’ordine del giorno?) e di non essersi mostrato abbastanza accondiscentente al carisma del grande Silvio. Su questo Fontana rimprovera Casini di non aver seguito l’esempio di Forlani, che era invece docile nei confronti di Fanfani. Quest’ultimo si starà rivoltando nella tomba nel vedersi paragonato a Berlusconi. Inviterei il buon Fontana a ritornare alle sue belle analisi di quando era democristiano e a non unirsi al coro di adulatori verso il supremo vincitore. Con cordialità.

Pippo La Barba Palermo

un’idea è poi in contrasto con l’altissima affluenza alle urne. Come se anche il voto fosse una scelta solo di utilità spicciola personale e non di visione generale. Stento a trovare un’altra interpretazione, meno drammatica, a questa evidente contraddizione diversa dal fatto che nel nostro Paese la Democrazia è ancora un’opera incompiuta. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29 Avvocato Massimo Golino


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Perché vuoi che muoia lontano da te? Cara Sibilla, oggi faccio frasi: ossia: il mondo un deserto senza di te, oppure che cosa devo fare della mia verginità, oppure mi contenterei di vederti di abitare nello stesso paese perché il mondo è ecc. Sibilla ti supplico, ti ho amato lo sai, ti giuro che non posso vivere così, senza vederti, senza saperti. Ti giuro che non domando neppure il tuo saluto, sarò la tua ombra nella vita se vuoi, il ricordo di un amore che ti seguirà, felice così. Né per vivere né per morire posso essere senza di te. Ti ho adorato tanto questi mesi in mezzo al mio tormento mentre credevo di morire. Ma lassù c’era il ghiaccio e il silenzio, tu mi avresti dopo ritrovato puro in tutto il silenzio di tutte le cose. Sibilla perdono, per te sola ho fatto tutto. Non mi offendere, sarò il tuo amico silenzioso, non domando la gioia, voglio solo vederti. Farò tutto quello che mi comandi. Sibilla perché vuoi che muoia così lontano da te? Dino Campana a Sibilla Aleramo

SICUREZZA, UN COSTO IN PIÙ PER I CONTRIBUENTI? Aumento sconsiderato di consumo e spaccio di droga pesante tra i giovani, aumento di consumo di alcool, esponenziale crescita costante di reati violenti compiuti da extracomunitari irregolari. Commercio illegale ambulante e abusi su donne e minori. A tutto ciò il nuovo Governo dovrà dare una forte risposta perché proprio questa è stata la richiesta più esplicita degli elettori alle recenti elezioni politiche. Il rischio effettivo è che questa richiesta di “sicurezza”si traduca presto in nuove spese pubbliche da far pesare ai cittadini già oberati da anni da tasse e balzelli vari. Le forze dell’ordine operanti nel nostro paese, converrete, sono molte eppur non sufficienti a garantire quella tanto desiderata “sicurezza e legalità”. Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Vigili e ausiliari sono intenti a far rispettare i moltissimi divieti e restrizioni di libetà varie. Intenti a far indossare il casco, a far mettere la cintura di sicurezza, a criminalizzare spesso assurdi e paradossali eccessi di velocità, a controllare lo scontrino di un panettiere qualsiasi ecc ecc. Provate ad immagi-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

24 aprile 1066 Avvistamento della Cometa di Halley; l’evento è registrato sull’arazzo di Bayeux che raffigura la battaglia di Hastings 1704 Usa: viene pubblicato il primo giornale delle tredici colonie degli Stati Uniti, il Boston, Massachusetts - NewsLetter 1792 Francia: viene composto l’inno nazionale chiamato La Marsigliese 1903 Nasce José Antonio Primo de Rivera, politico spagnolo 1916 Irlanda: ha inizio la Rivolta di Pasqua. Il movimento della Fratellanza repubblicana irlandese guidata dal nazionalista Patrick Pearse inizia la sollevazione contro il dominio britannico che preparerà il terreno per la guerra anglo-irlandese 1968 La repubblica di Mauritius, indipendente dal 12 marzo, entra a far parte delle Nazioni Unite 1970 Viene lanciato il primo satellite della Repubblica popolare cinese

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

nare il costo di un paio di agenti intenti nel controllo dell’emissione del regolare scontrino ad un negozio di periferia. Impegno di un mezzo (auto), due agenti (minimo, uno controlla il cliente e uno il negoziante), tempo d’attesa, di controllo e di compilazione del relativo verbale. E tutto per controllare chi attraverso quell’attività, denominata non a caso “microimpresa”, già deve sottostare inevitabilmente (per legge), alla regolamentazione degli “studi di settore” che impongono in partenza quello che deve dichiarare per risultare congruo e coerente. Aziende già soffocate dall’eccesso di leggi e burocrazia. Potremmo proseguire per ore e dimostrare che il nostro paese non abbisogna di una nuova calata di agenti controllori ma di nuove direttive che organizzino meglio le nostre forze dell’ordine sul territorio e stili con coerenza e serietà l’elenco delle priorità sociali. Evitando un nuovo probabile spreco di denaro pubblico senza riuscire a determinare un cambiamento significativo nella percezione di sicurezza e senza riuscire per una volta a non pesare sul contribuente.

Alberto M.

PUNTURE Fini dice sì alla presidenza della Camera e annuncia: “Lascerò An”. E’ facile lasciare un partito che non c’è.

Giancristiano Desiderio

il meglio di NOT QUITE YET... Hillary Clinton si pronucia trionfante ma la sua vittoria in Pennsylvania non è significativa, il suo margine di vittoria troppo esiguo, per uno stato demograficamente suo. Operai e anziani si sono affidati a lei come previsto e come previsto il voto nelle comunità urbane non è stato sufficiente per proiettare Obama alla vittoria anche se ha eroso alla grande il margine di vantaggio di Hillary Clinton - questo risultato non cambia molto, I Clinton non riescono ad aggiudicarsi i delegati sufficienti per riagganciare Obama e continuano la loro marcia verso la convention di questa estate nel tentativo di convincere i superdelegati che solo Hillary può vincere contro un candidato possente come McCain. Da parte sua Obama ha più soldi e più risorse, l’entusiasmo è dalla sua e una nuova generazione di elettori è pronta a battersi per lui. La lotta imperversa nei rimanenti stati ma sta rischiando di stancare il pubblico che dopo 8 mesi di campagna elettorale serrata, di dibattiti e di congetture, vede in Clinton e Obama due attori consumati dalla lotta e dalla tv, mentre John McCain, lontano dai riflettori si fa avanti fra folla e paradossalmente sembra lui la giovane promessa di una nuova stagione politica americana.

Stelle&Strisce stelleastrisce.splinder.com

LA JAMAIKA KOALITION È SEMPRE PIÙ VICINA

Rifiutare di avere opinioni è un modo per non averle. Non è vero? LUIGI PIRANDELLO

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

“Il nostro obiettivo è quello di dar vita ad una coalizione con verdi e democristiani sul modello appena inaugurato ad Amburgo”, dice in un colloquio con l’Occidentale Nicola Beer, deputata liberale al Parlamento dell’Assia, riferendosi alla grave situazione di stallo che attanaglia la vita politica del

Land dal gennaio scorso. Dopo un’aspra campagna elettorale condotta in massima parte sulla falsariga della lotta alla criminalità giovanile, il Governatore uscente, il democristiano Roland Koch, è riuscito ad assicurarsi la maggioranza relativa dei suffragi, ma si è comunque ritrovato nell’impossibilità di poter formare un esecutivo stabile con i propri alleati tradizionali, i liberali dell’Fdp. E questo per la gloriosa, ma non certo inaspettata ascesa nel panorama politico della Germania occidentale di una forza politica nata dalle ceneri della Ddr, Die Linke. Per via di questo nuovo ingresso, nemmeno la sfidante socialdemocratica, Andrea Ypsilanti, distante appena una manciata di voti da Koch, ha così potuto vantare un numero di consensi sufficiente a garantire alla regione di Francoforte un governo di coalizione rosso-verde. Alla luce di tutto ciò, è parsa chiara la necessità del sistema politico di ripensarsi da cima a fondo, ricercando soluzioni strategiche fino a qualche tempo fa inimmaginabili. Di qui il fiorire di variopinti scenari e l’abbondare di bizzarre sigle, che, stando ad alcuni euforici osservatori, starebbero per calcare la scena di una rigenerata politica tedesca. E così in Germania, da qualche tempo, non si parla che di Jamaika Koalition - dai colori della bandiera dell’isola americana che ripetono quelli dei tre partiti in questione: verdi, liberali e democristiani. Verità o fantapolitica? Per ora è difficile dirlo, dato che nella prima seduta del nuovo Landtag, lo scorso 5 aprile, nessuno è stato eletto al vertice dell’Assia. Roland Koch ha infatti deciso di rimanere in carica ad interim e molti ipotizzano che la vacanza durerà almeno fino a fine anno.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO È stato presentato in anteprima al Madison Square Garden di New York il film di Sergio Martinelli dedicato al famoso pugile che uscirà nelle sale il 9 maggio

Una leggenda di nome di Francesco Ruggeri pplaudito da una platea delle grandi occasioni al Madison Square Garden di New York,“Carnera- The Walking Mountain”si appresta a sbarcare nelle sale italiane. Carnera… Chi era costui? Beh, un gigante di più di due metri. Ma anche un pugile che di andare a tappeto non voleva saperne. Più di tutto, un uomo. Semplice, attaccato alla terra, alla famiglia, ai valori. Pane per i denti di uno come Renzo Martinelli. Per inciso, un regista contro. Da sempre. Dai tempi di “Sarahsaràh” (il suo esordio), sino alle contestazioni violente suscitate dal suo“Mercante di pietre”. Un uomo che ama l’uomo. E che ha sempre provato a filmarlo in condizioni impossibili. Davanti ad una diga in procinto di crollare (“Vajont”), di fronte alle verità occultate del caso Moro (“Piazza delle cinque lune”), nei pressi di un massacro dimenticato dalla Storia (“Porzus”).

A

Insomma, il classico cineasta scomodo. Di quelli che articolano il proprio cinema come ricerca inesausta della verità. Quella che non fa mai rima con consenso. Dopo “Il mercante di pietre”, Martinelli ha ripreso in mano un suo vecchio progetto. E si è recato in Friuli, nella terra che ha dati i natali a Carnera, dove ha conosciuto i due figli del pugile, Giovanna e Umberto. Il tempo di spiegare loro la sua idea e di coinvolgerli nella realizzazione del progetto. Il resto ha seguito le orme di una magnifica ossessione: non quella di raccontare il pugile, ma l’uomo. Quello ignorato del tutto dal cinema, con l’eccezione del mitico“Il colosso d’argilla”in cui ogni riferimento a Carnera non era affatto casuale. E in cui il pugile italiano, dipinto come intrallazzatore di prim’ordine colluso con mafia e affini, non faceva certo una gran figura. Insomma per Martinelli era giunto il momento di riabilitare l’uomo e quei pugni che hanno fatto sognare l’Italia, restituendo ai tanti immigrati degli anni Trenta l’orgoglio delle proprie radici. Prima del suo talento e della sua stazza impressionante, il film avrebbe dovuto raccontare il suo spirito. Quello di un vero guerriero capace di cadere e rialzarsi come nessun altro. La parola chiave dell’opera? Scorre sui titoli di testa e viene incisa nell’incipit del film, ritmato dalle parole stesse di Primo: “Ho preso tanti pugni nella mia vita.Veramente tanti… Ma lo rifarei. Perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli…”Sul corpo di Carnera scorre in filigrana l’ombra del sacrificio. E della lotta, contro tutto e tutti. Martinelli è ufficialmente invitato a nozze. Anche perché non gli interessa ricamare il solito biopic, vuole di più. E si avventura in America, laddove Carnera emigrò appena ventenne in cerca di fortuna.

L’esordiente Andrea Iaia interpreta Primo Carnera nel film di Sergio Martinelli. Nel cast Andrea Iaia, Anna Valle, F. Murray Abraham, Paul Sorvino, Kasia Smutniak, Daniele Liotti e Antonio Cupo

Il cinema italiano in zona ‘Cinderella Man’. A ridosso di un genere magnificato dal cinema americano degli anni d’oro e da quello più recente (basti pensare a “Million Dollar Baby” e “Alì”), in territori a dire poco minati. Ma è una sfida vinta alla grande. Perché Martinelli è uno dei pochissimi cineasti davvero ‘tecnici’che abbiamo oggi in Italia. Un artigiano della ripresa, capace di scegliere come nessun altro filtri e obiettivi, angolazioni e punti di vista impossibili. In “Carnera –The Walking Mountain” non c’è spazio però per gli sperimentalismi delle sue altre opere. E lo stile si fa classico, sobrio, elegante. Un preciso omaggio al cinema americano classico, quello capace di svelare un intero mondo con un semplice campo/controcampo. Tutto il resto è musica. Articolata in vibrazioni impercettibili, gradazioni scoscese e scalini vertiginosi. Si comincia dall’infanzia del campione, si finisce con la sua capitolazione finale che combacia con la sconfitta subita per mano del terribile Bauer. In mezzo scorrono rivoli pubblici e frammenti privati, manager furbi e approfittatori e l’immagine di un’Italia lontana che, attraverso i proclami di Mussolini, trasforma un uomo in un mito. E nello stendardo di un Italia vincente, più forte di ogni avversità. Scegliere l’attore adatto a vestire i panni di Carne-

ra? Una vera odissea. Martinelli d’altronde era stato chiaro. Il suo protagonista avrebbe dovuto conoscere bene l’inglese, saper boxare un po’ed essere alto più di due metri. La scelta finale è caduta sull’esordiente Andrea Iaia che corrispondeva in pieno alle esigenze. Il resto del cast è impreziosito da partecipazioni a dir poco straordinarie come quella di Burt Young, Paul Sorvino e F. Murray Abraham (attore feticcio del regista con cui aveva già girato “Piazza delle cinque lune”e “Il mercante di pietre”).

Insomma, un vero evento per il nostro cinema. Finalmente in grado di avventurarsi fuori dai confini patri e capace di coniugare al meglio ricerca e spettacolo, linguaggio e magnetismo. È anche per questo che l’anteprima mondiale del film (in uscita il prossimo 9 maggio distribuito da Medusa) ha avuto un sapore tutto particolare. Nella favolosa cornice del Madison Square Garden di New York (laddove Carnera vinse il titolo mondiale dei pesi massimi) sono infatti intervenuti grandi nomi del pugilato come Mike Tyson e Nino Benvenuti, oltre a tutto il cast del film e a ospiti illustri come Robert De Niro e Nicolas Cage. E il nostro cinema è tornato a far parlare di sé…


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