QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Uno scrittore visto da uno scrittore
Propongo il Nobel postumo per Simenon
e di h c a n o cr di Ferdinando Adornato
25 APRILE: RESISTENZA, BUGIE E POLEMICHE
di Paul Theroux ue brevi romanzi, sorprendentemente simili, furono pubblicati in Francia nel 1942. Il protagonista, in entrambi i casi, era un giovane alla deriva, dissennato, incosciente, privo di legami, che commette un omicidio senza senso, inspiegabile. Uno era Lo Straniero di Albert Camus, l’altro La Vedova Couderc di Georges Simenon. Il romanzo di Camus entrò a far parte del firmamento letterario, dove ancora brilla, intensamente studiato ed apprezzato – ed a mio parere anche sopravvalutato, mentre il romanzo di Simenon non fece scalpore ma si stabilizzò, seguendo le orme del resto delle sue opere: dignitoso livello di vendite, occasionali ristampe e riedizioni, e fu persino riesumato negli anni ‘50 in edizione economica, stile narrativa popolare, con un sottotitolo eloquente: «Un romanzo impetuoso di tormento e desiderio», ed una scandalosa copertina - una contadina imbronciata in un fienile, con la gonna sollevata sulle ginocchia, ed un ragazzotto prestante che si nasconde furtivamente dietro una porta – al prezzo di 25 centesimi. Camus aveva lavorato anni al suo romanzo di alienazione, i suoi “Carnets”registrano le sue frustrazioni e le sue false partenze. S. Pritchett, lamentandosi della sua scarsa produzione letteraria e narrativa, disse che «Meno romanzi o commedie si scrivono – a causa di interessi parassiti che cannibalizzano gli altri – meno capacità si avrà di scrivere», poiché «Il principio che regola l’arte è che essa deve essere sempre perseguita fino all’eccesso».
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La festa è finita?
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80425
È la più contestata delle ricorrenze. Per tutti è il giorno della Liberazione, ma non per tutti rappresenta l’unità nazionale. E l’Italia è ancora divisa…
alle pagine 2, 3, 4 e 5
Mentre Berlusconi vede Montezemolo
Roma, l’ultima sfida è sulla casa di Susanna Turco «A Roma serve una grande discontinuità con la fase attuale. Chiunque vinca, questa discontinuità ci sarà. I due candidati sono entrambi di grande valore e si renderanno conto che Roma ha subito un declino e deve essere rilanciata». Queste le parole di Caltagirone.
pagina 6
Le strane regole delle primarie democratiche
L’inguaribile masochismo di Hillary e Obama Michael Novak pagina 8
VENERDÌ 25 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
76 •
c on ti n ua a p ag in a 12 n e ll ’ in se r to Ca rt e
Il nodo degli esuberi
Intervista a Mario Monicelli
Alitalia: resta il veto dei sindacati
«I giovani registi non sanno raccontare storie»
di Gianfranco Polillo
di Stefano Coletta
Nel gioco delle reciproche accuse che accompagna la vicenda Alitalia, bisognerebbe fare chiarezza, per evitare di perseverare diabolicamente nell’errore.
È difficile non restare colpiti da una conversazione con Mario Monicelli. Anche perché ha un modo di affrontare gli argomenti feroce e leggero al tempo stesso.
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la festa
pagina 2 • 25 aprile 2008
è finita?
Le nostre radici sono Dante, Manzoni e i comuni del Medioevo: ma non le riconosciamo come tali a causa dell’antifascismo ideologico
«L’Italia è uno Stato ma non una nazione. E la guerra civile non è mai finita» colloquio con Ferdinando Adornato di Errico Novi
ROMA. «Così non è una festa, non è la festa della Nazione, di sicuro. Dobbiamo avere la forza di riconoscere gli errori di questi sessant’anni per ricostruire la coscienza del Paese e anche per ridare senso al 25 aprile». Ferdinando Adornato parla con sereno realismo dell’Italia, della sua tragedia e dei suoi equivoci che, in quanto tali, vede «superabili» perché «è la storia che va pacificata, prima ancora delle diverse posizioni dell’l’Italia politica». È una possibilità forse non convenzionale di celebrare questo giorno e chiedere che sia diverso, e migliore di oggi. È il primo 25 aprile senza comunisti in Parlamento. Seppure lo si volesse considerare un vantaggio, non basterebbe, e non è detto che sia un vantaggio. Temo che non sia l’ultimo 25 aprile con una lettura comunista, in ogni caso. Il peso della storia che abbiamo alle spalle non favorisce il riconoscimento della verità. Ed è il motivo per cui ancora oggi arriviamo a questa festa tra polemiche e strumentalizzazioni politiche. E dalla fine del-
la Prima Repubblica che va avanti così. È una coazione a ripetere, ed è un caso praticamente unico in Occidente. Negli ultimi anni abbiamo assistito all’episodio della Moratti contestata con il padre in carrozzella, alle polemiche su Berlusconi che non partecipa, a esponenti del centrodestra che rilasciano dichiarazioni contro la festa. Il
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Finora ci sono stati avvicinamenti ma nessun tentativo di composizione. Servirebbe un atto di crescita nella coscienza del Paese che sembra difficilissimo. Potrebbe anche essere impossibile se consideriamo la tesi di Umberto Saba: ’Gli italiani non sono parricidi, sono fratricidi’. E per molti anni, quella che oggi gli storici chiamano guerra civile
Siamo stati accecati per cinquant’anni dall’equivoco di Yalta sul comunismo come forza di libertà. Finché l’avvento del bipolarismo ha riacceso lo spirito di guerra civile della sinistra fatto è che non solo la classe politica e i media si servono delle interpretazioni storiografiche per fini polemici, ma sono gli stessi storici a litigare. Se si vuole che il 25 aprile non finisca bisogna arrivare a una condivisione di una lettura storica da parte dei diversi schieramenti. Senza la qualenon si può considerare questo giorno una festa dell’unità della Nazione.
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italiana è stata però chiamata solo Resistenza. Se Saba ha ragione non abbiamo speranza, ma credo si possa essere più ottimisti. Perché appunto seppur con la lentezza tipica dei processi politici si è visto qualche segnale: Violante che da presidente della Camera si rivolge ai giovani di Salò, Fini che va in Israele e parla del fascismo come male assoluto, Pansa che propone revisioni sul-
Ferdinando Adornato e (sotto) Gianni Alemanno e Francesco Rutelli in corsa per poltrona di sindaco di Roma solo due giorni dopo il 25 aprile
le orme dell’odiato, emarginato, appestato De Felice. Certo ci sono ancora enormi resistenze, per usare un termine non casuale, ma io voglio augurarmi che Beppe Grillo resti l’ultimo episodio farsesco di una sequenza tragica. Ora dev’essere la classe dirigente a cercare una lettura comune con umiltà e spirito di verità. E però non basta avvicinarsi per reciproche ammissioni, serve un’interpretazione compiuta, che sia appunto unitaria. Sogno da anni una ricostruzione del Paese con un’assemblea costituente, con un presidente che esorti a rileggere tutti insieme la nostra storia ma mi rendo conto che è irrealizzabile. Eppure ci sono degli equivoci che non si possono negare, e che hanno portato a un nuovo clima da guerra civile in questi ultimi quindici anni. Innanzitutto c’è l’equivoco di fondo: non si tratta di una festa dell’unità della Nazione. Ed è così per almeno tre ragioni fondamentali. Vediamo la prima. Si è voluto negare per tanti anni il fatto che ci sia stata una guerra civile. C’è stata la vittoria di una parte del Paese sull’altra, ancorché - e lo dico per non incorrere nelle reprimende di Luciano Canfora o di altri - la parte vincente avesse ragione. Il punto è che non si può celebrare come festa dell’unità Nazionale la vittoria di una parte. Solo nelle dittature i vincitori hanno diritto ad autocelebrarsi. D’altronde c’è un altro fraintendimento decisivo: è la quinta divisione americana che ha liberato l’Italia. C’è un enorme concentrato di rimozioni, attorno al 25 aprile, e questa forse non è la più pesante. Una che non si può trascurare riguarda evidentemente il consenso tributato dagli italiani al regime: il 26 aprile del 1945 eravamo tutti antifascisti. È indiscutibile che quel consenso si sia esaurito, per la maggioranza del Paese, nel momento in cui Mussolini è entrato in guerra, ma il 26 aprile non ce n’era uno che dicesse di essere stato con lui. E non è che maramaldeggio sullo stereotipo dell’italiano voltagabbana... Anche perché qui non si tratta di farsa ma, tenuto anche conto delle parole di Saba sul fratricidio, di un disconoscimento fratricida da tragedia greca. È proprio così. E quell’uomo che pendeva a testa in giù a piazzale Loreto dà il senso proprio di questo, e la volontà di mettergli vicino l’amante è davvero un tocco da tragedia greca. Penso che Mussolini doveva essere ucciso ma dopo un processo davanti al popolo italiano, com’è avvenuto con Saddam Hussein. Tutto questo non giustifica di per sé l’indicibile diffi-
la festa coltà nell’accogliere tesi revisioniste. Il terzo aspetto del paradosso è quello più importante, decisivo: il destino della storia si chiama Yalta, e questo ha un nesso fondamentale con il 25 aprile. Se al tavolo dei vincitori è seduto il più spietato dittatore della storia europea - durato più a lungo di Hitler - e a quel tavolo lo si considera rappresentante di una forza di libertà, è chiaro che i comunisti italiani, nello spirito pubblico, sono legittimati ad autoconsiderarsi una forza di libertà. E da qui nasce l’appropriazione indebita della festa di Liberazione da parte dei comunisti. Non si celebra la vittoria di uno schieramento antifascista ma l’ideologia dell’antifascismo, che evidentemente è un’altra cosa ed è funzionale all’uso politico del 25 aprile. Bisogna ricordarsi di Bobbio: ’Ogni democratico è da considerarsi antifascista, ma non è vero che ogni antifascista sia da considerarsi democratico’. E invece la resistenza è diventata solo rossa. E però alle cerimonie ufficiali il Pci non mancava mai di volere sul palco, assieme all’Anpi, un Dc e un nipotino di Ferruccio Parri. Con questo rituale i comunisti coprivano una festa guidata in realtà dall’antifascismo ideologico. E dagli anni Sessanta si è arrivati al paradosso che i giovani della sinistra consideravano i loro padri non abbastanza antifascisti. La dissimulazione si è trasformata in conflitto esteso oltre i confini della sinistra, in questi ultimi anni. Si, tutto nasce dai non detti della prima Repubblica. L’unità costituzionale escludeva la destra, e all’epoca la destra era il Movimento sociale.Tutto ciò che è destra dunque non è democrazia. Solo che quando ci veniamo a trovare a metà anni Novanta in un sistema bipolare, diviso in due parti di cui una per forza di cose si definisce come centrodestra, si entra in contraddizione con tutta la lettura storica antifascista: c’è una destra che non può governare perché, nel nostro immaginario, la destra è fascismo. E qui trae origine la seconda puntata della guerra civile italiana. L’Ulivo si identifica nell’unità delle forze antifasciste. Al di là delle buone intenzioni dei singoli, come si fa oggi a ricomporre una lacerazione così profonda, così lontana nella sua origine? Dobbiamo intanto chiederci
se siamo mai stati una nazione. È il caso di ricordare che l’Italia diventa Stato nell’800 con Cavour che dice ’l’Italia è fatta ma ci sono ancora i napoletani’. È subito chiaro che c’è una questione meridionale, una frattura sociale e geografica. In più lo Stato italiano nasce contro la chiesa cattolica, quindi nel segno di un’altra grande frattura dello spirito nazionale. La seconda lacerazione è stata solo in parte sanata prima dal concordato e poi dalla Dc. Eppure ancora oggi sopravvive un’opposizione tra laicismo e cattolicesimo. A questa mancanza va aggiunto un altro elemento di fondo: l’Italia si è sentita davvero nazione solo sotto il fascismo. È uno di quei paradossi con cui bisogna fare i conti, il 25 aprile. Mussolini diede agli italiani
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è finita?
singole figure, di Sturzo, De Gasperi, ma poi la Dc ha rinunciato a condurre la battaglia storiografica e culturale. E ha lasciato che il 25 aprile fosse solo la festa dell’antifascismo ideologico. La frattura è riesplosa, come ho detto, quando è arrivato un bipolarismo che non era interpretato da Dc e Pci, ma che si collocava al di fuori delle vecchie geografie politiche. È arrivato un signore che non aveva mai fatto politica, ricco, che si autodefiniva di destra nel momento in cui sceglieva Fini e non Rutelli. E soprattutto che si richiama al popolo sovrano, laddove l’i-
La rinuncia della Dc a condurre la battaglia storiografIca e culturale ci costa ancora oggi il disconoscimento delle nostre radici cristiane e liberali
la sensazione di essere un popolo unito, con gli stessi valori. C’era un piccolo particolare: una nazione è tale se coniuga unità e libertà. Mi sta bene che si ritorni a Giulio Cesare, ma se lo si tiene insieme a Manzoni. O ci sono anche le Odi alla libertà, nel patrimonio della Nazione, o la Nazione non c’è. E qui fallisce Mussolini. Dispiace dirlo, ma ancora non si è vista una classe dirigente che sapesse recuperare le radici dell’unità nazionale. Che sono innanzitutto in Dante e poi in Manzoni: la nostra è una cultura religiosa, cristiana, rappresentata dal toscano caustico e ironico Dante e dal lombardo Manzoni. Insieme c’è un secondo profilo che nasce nell’autonomia dei comuni, nella forza del territorio, nell’orgoglio di tante città italiane disposte a riconoscersi nello Stato centrale a condizione di non vedere tradita la loro capacità di autogoverno. C’è davvero una vocazione federalista dunque nello spirito italiano. Ma è nei mille comuni, non nelle venti regioni della Lega, che sbaglia proprio in questo. Potremmo parlare di una Nazione cattolica e liberale, se non rischiassi di apparire come chi vuole tirare acqua al proprio mulino. Com’è che non ci siamo arrivati? Ci sono state intuizioni di
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deologia dell’antifascisulla smo, scorta di Gobetti, aveva indicato il fascismo come ideologia della Nazione, stabilendo dunque che l’Italia è femmina in quanto si innamora del capo. Perciò la Prima Repubblica ha fatto ricorso a mediazioni infinite tra potere e elettorato, per evitare che il popolo si innamorasse di nuovo di un capo. In questo senso con il bipolarismo e Berlusconi si è creata la nuova frattura, la nuova guerra civile. È stata un’apparizione, si è vista la reincarnazione di Mussolini. Al contrario, non si doveva temere il ritorno al Ventennio, ma ritornare tutti insieme alle vere radici della nazione, recuperare cioè il nostro più autentico spirito religioso e la forza della libertà e della autonomia dei nostri Comuni. In altre parole recuperare come valori condivisi il Cristianesimo e il liberalismo. Dubito che riusciremo a ritrovare queste radici, ormai troppo lontane dal nostro tempo storico. Ma correggere gli dell’antifascismo errori ideologico e trovare una lettura condivisa almeno della storia del dopoguerra è ancora possibile.
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La polemica Galli della Loggia-Pirani
L’uso politico della storia tradita di Angelo Crespi e manifestazioni di oggi sono l’ennesima riprova che il 25 aprile, nonostante i lunghi sforzi mitopoietici, non può essere innalzato a vera festa unitaria della nostra Repubblica. La sinistra radicale lo celebra per trovare nuova linfa contro Berlusconi e magari aiutare Rutelli al ballottaggio. A Verona scenderanno in campo i centri sociali contro il sindaco leghista Flavio Tosi. A Milano, Letizia Moratti, memore dei fischi al padre partigiano (ma non comunista), neppure andrà in piazza. Barbara Pollastrini ovviamente si indigna. Forse l’unico modo di ritrovare il senso del 25 aprile sarebbe di sottrarlo alla politica, ma come aveva giustamente fatto notare qualche anno fa Sergio Romano solo la storia differenzia adesso i due schieramenti principali che, per il resto, propongono ricette abbastanza simili. E dunque proprio la storia diventa un campo di battaglia politico imprescindibile. Ancora due giorni fa, Ernesto Galli della Loggia, dalle colonne del Corriere della Sera, ha criticato la storiografia di sinistra per l’uso strumentale della Resistenza. La tesi di Galli della Loggia appare convincente: innalzare l’antisemitismo a sineddoche del fascismo, cioè usando una parte (le leggi razziali) per spiegare il tutto (il fascismo), è servito alla sinistra poiché, equiparando tout court il fascismo al nazismo, poteva essere sostenuta la superiortà morale del comunismo, nonostante i mlioni di morti, almeno estraneo alla cosiddetta soluzione finale contro il popolo ebreo. Meno efficace, a nostro parere, l’intervento di Mario Pirani su Repubblica in cui si sostiene che l’appiattimento del fascismo all’antisemitismo è servito più alla Destra, soprattuto ad An che, una volta ripudiate le leggi razziali e condannata senza mezzi termini la Shoa, ha potuto tranquillamente, in quanto al resto, crogiolarsi con una versione edulcorata del fascismo purgato dall’antisemitismo. A parte queste non inutili sottigliezze storiografiche, resta il problema più ampio al quale Pirani non sa trovare risposta. Appare infatti debole chiedere a Berlusconi e Fini di promuovere un’azione di“buon senso”per rendere unitaria la festa del 25 aprile e del 2 giugno, quando continuano a sfilare solo i figli e i nipotini dei partigiani comunisti. E’ ovvio che da quelle parti non si voglia archiviare il passato e che le colpe di questa mancata condivisione siano innanzitutto da attribuire ai campioni dell’antifascismo. Per motivi politici ed egemonici cari al Pci, subito dopo la Guerra si è consolidata quella endiade antifascismo/Resistenza ancora oggi così difficile da districare. Come bene sintetizzano molti studiosi, la Resistenza doveva diventare l’anima del nuovo Stato, e l’antifascismo, come valore politico e morale, doveva diventare il cemento con il quale costruire la Nuova Italia. Da qui, come ovvia conseguenza, l’invenzione (soprattutto della storiografia azionista) di quella liturgia della Resistenza e di quella mistica antifascista che assurgeranno poi a mito fondante della Prima Repubblica. A tal fine, veniva minimizzato l’apporto alla Resistenza di altre componenti politiche come i cattolici, i liberali, i socialisti e si sorvolava sul determinante apporto degli Alleati.Venivano cancellate le forme di resistenza dell’esercito o dei militari internati nei lager.Venivano espulsi dalla storia patria, senza appello, tutti quanti aderirono al fascismo e contemporanemamente doveva essere minimizzato il consenso di massa che il fascismo ebbe, nonché sottaciuta l’acquiescenza al regime di molti intellettuali e uomini politici che poi saranno le colonne portanti del nuovo corso egemonico comunista. E poi, a cascata: bisognava inventare una Resistenza di massa che non ci fu, o meglio la mobilitazione ampia a sostegno della Resistenza fu quella del popolo cattolico contadino del Nord che mantenne le formazioni militari e pagò il prezzo delle ritorsioni, ma i cui meriti si fatica ancora a riconoscere; bisognava minimizzare le velleità rivoluzionarie in chiave internazionale di Togliatti, pronto a immolare porzioni d’Italia sull’altare della palingenesi comunista; bisognava nascondere le vendette partigiane dopo il 25 aprile, proseguite fino al 1948, che costarono la vita ad almeno 15mila persone. E infine, in cerchi sempre più ampi: negare i crimini del comunismo, quelli vicini come le foibe e quelli lontani come le purghe staliniste; considerare il “nazifascismo” come il male assoluto, mentre il comunismo come una grande e buona idea, seppur macchiata (però solo in modo contingente) da una perversa applicazione storica; ipotizzare una divisione netta tra bene e male, negando quella zona grigia che invece è tipica dell’uomo in generale e si contraddistingue anche quegli uomini che, usciti dal fascismo, si adoperarono per ricostruire l’Italia; mantenere il pregiudizio che esista un’élite (militare, politica, giudiziaria) democratica a cui un supremo destino ha assegnato il compito di condurre il popolo italiano. Davanti a questa massa di colpe non ancora emedate della sinistra prima comunista e ora“democratica”, appare poco di buon senso appellarsi al buon senso di Berlusconi e Fini, come fa Pirani. Meglio sarebbe sorvolare. Magari festeggiare San Marco evangelista, allievo di Pietro che lo definisce “figlio mio”, amico dell’apostolo Paolo, martirizzato il 25 aprile del 68 dc ad Alessandria d’Egitto e le cui relique sono conservarate a Venezia.
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la festa
è finita?
Cinque Cinquegiovani giovaniprotagonisti protagonistidei deipartiti partitididioggi oggiraccontano raccontanoche checosa cosarappresenta rappresentaper perloro loroi
Il venticinque aprile di chi Divide non unisce, meglio la data della Costituzione er tutti i popoli del mondo, le Feste Nazionali sono occasioni straordinarie in cui si celebra l’unità dello Stato. Le ragioni più alte di un destino in comune. Si ricorda l’anniversario di una vittoria in battaglia contro un popolo invasore, il giorno dell’indipendenza nazionale, si onora il Santo patrono, si festeggia la data della firma della Costituzione oppure una grande impresa patriottica come in Spagna, il 12 ottobre, con il viaggio di Cristoforo Colombo (che poi spagnolo non era…). Insomma io temo che l’Italia sia l’unica nazione al mondo a festeggiare ogni 25 aprile il giorno in cui una parte di sé ha prevalso su un’altra parte di sé. Sostenere questo mero dato di fatto, non significa “riscrivere” la storia, né disconoscere la natura del Fascismo e neppure ignorare il ruolo della Resistenza, ma vuol dire offrire una prima risposta al-
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di Giorgia Meloni (An) la domanda sul perché questa ricorrenza non viene partecipata dal nostro popolo come un’autentica festa nazionale. Ad intere generazioni d’italiani è stato conculcato fin dalle scuole elementari la mitologia della Resistenza. E spesso questo è avvenuto a dispetto di una verità storica non funzionale all’operazione. Troppe volte quella data è stata usata, brandita per speculazioni elettorali, prima che politiche, per dividere e non per unire. E’ mia personale convinzione che nemmeno i protagonisti vittoriosi del 25 aprile avrebbero voluto che ciò avvenisse. Per questo, e solo per questo non può essere la festa di tutti gli italiani. Ci sono altre date che meglio potrebbero unire la nostra nazione. Tra queste c’è quella dell’entrata in vigore della nostra Costituzione.
Quando si volle dare una casa comune di valori e diritti al popolo intero. Vengo da un partito fatto da uomini e donne che non ebbero la possibilità di partecipare ai lavori della Costituente. Eppure, abbiamo sempre considerato la Carta Costituzionale come un patrimonio indisponibile del nostro comune senso civico e patriottico. Non è questa l’occasione e comunque non vi sarebbe il tempo per approfondire questo passaggio, davvero importante per me. Ma concludo così: capita che un popolo si laceri profondamente, capita che il ricordo di queste lacerazioni faccia sanguinare le ferite anche successivamente, ma ciò che sana e da un senso al tutto non è il passato più o meno recente, più o meno circoscritto a determinati periodi o epoche, ma è soprattutto un futuro fatto di condivisione e libertà.
Per la prima volta fuori dal Parlamento: per noi è una Liberazione da riconquistare l 25 aprile è stata sempre una sicurezza per la sinistra e per i comunisti in Italia: la sicurezza di quella parola, Liberazione; della memoria di ciò di cui ci si era liberati, il nazifascismo; e di come, con la lotta partigiana. Una sicurezza in qualche modo garantita: dalla Costituzione della Repubblica, dalla sua stessa esistenza, dal suo “spirito” vincolante per l’intera politica rappresentativa,“l’arco costituzionale”. Ma era la sinistra ed erano i comunisti a poterlo sottrarre al destino di un rito stanco, il 25 aprile, anche quando la ritualità si faceva evidente, insistente, istituzionale. Potevano loro, perché a loro rimaneva rivolta la domanda di attualità, la voglia di far vivere la Liberazione. Come processo tuttora necessario nella società italiana, come istanza legittima nello scontro politico. Potevano, dunque; e addirittura dovevano, quando quella domanda e quella vitalità irrompevano nella storia nazionale come bandiere di nuove soggettività, portatrici d’una critica travolgente, persino minacciosi della stessa sicurezza della sinistra “sto-
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di Gennaro Migliore (Prc) rica”: ed era il Sessantotto, erano gli anni 70. E’ stato un lungo deposito di senso, che a lungo ha compensato la parallela erosione di senso delle “promesse della Costituzione”. Fino a che queste medesime promesse, anche nella loro pura formalità, sono state poste direttamente in causa: ed erano gli anni 80, era il craxismo, il decisionismo, l’edonismo come carnevale della classe dominante e del suo allargamento sulla sconfitta operaia e del “movimento”, come estetica del primato del mercato già sostanzialmente sovrano sulla politica “che decide”. Non era, allora, un processo concluso: il 25 aprile, divenuto rifugio, è potuto in pochi anni tornare bandiera di dignità della democrazia ed anzi della mobilitazione democratica. E’ avvenuto perché all’89 era rapidamente succeduto, in Italia, il terremoto del sistema politico e di governo. E perché una minaccia autoritaria è stata percepita, nella “scesa in campo” del 1994 e nell’alleanza con la
vecchie e la nuova destra, malgrado i lavacri delle prime e l’eclettica identità della seconda. Le sinistre e i nuovi comunisti vi si sono rimotivati: prima ancora che di Liberazione, si raccoglieva una domanda di Resistenza. Una cambiale a scadenza, che richiedeva risultati, cambiamento. E il cambiamento è avvenuto, lungo gli anni, combattuto tra un esito di democrazia più larga e uno dove essa si restringesse. Il 25 aprile è diventato appello di migranti, di differenti, di cittadinanza nuova. Ora il cambiamento si è attestato sul secondo esito. La sinistra è scissa dalla democrazia “efficace”, la cittadinanza è chiamata ad escludere, a trincerarsi, a stratificarsi. E il 25 aprile a scomparire. E’ scomparso, dunque? Invece, diventa oggi una ripartenza: un passo prima della resistenza, come spirito di scissione da una politica che torna oligarchica, insofferente ai diritti, ancella del potere. Il 25 aprile per riconquistarla, la Liberazione.
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è finita?
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ill giorno della “liberazione”
Di fianco, l’entrata dei carri armati americani a Milano il 25 aprile. Nella foto in basso lo scrittore Giampaolo Pansa autore di diversi libri sugli eccidi che seguirono la Liberazione. Nella pagina a fianco, da sinistra a destra, la firma della Costituzione, il segretario del Pci Palmiro Togliatti ed Alcide De Gasperi, segretario della Dc. Al centro Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini
non c’era Basta con la guerra tra destra e sinistra di Erminia Mazzoni (Udc) ll’orizzonte, da Ovest, la recessione e la instabilità dei mercati, da Est, le pressioni delle economie nascenti, da Sud, la sfida della integrazione e da Nord, la maggiore competitività di Francia, Germania ed Inghilterra. Questo lo scenario che si profila. Oggi il 25 Aprile può e deve diventare la giornata dell’impegno alla liberazione della nostra penisola da tale minaccioso accerchiamento. Così come avvenne 63 anni fa, per ripartire oggi si avverte la necessità di promuovere un processo di democratizzazione del nostro sistema paese. Le alterne vicende politiche degli ultimi anni hanno messo in seria difficoltà la “resistenza”dei cittadini italiani, spingendoli ad assumere atteggiamenti rinunciatari e rassegnati. La incapacità delle forze politiche di dar corpo ad un pensiero e di coltivare una ideologia per creare elementi di confronto democratico da trasformare, attraverso la mediazione e la sintesi, in progetto è stato il virus che ha ammorbato la c.d. II° Repubblica. I Poli che si sono costituiti hanno usato come calamita per attrarre le particelle libere la forza di campi magnetici realizzati dallo sfregamento superficiale di alcuni elementi e non il più stabile magnetismo terrestre, unico capace di sedimentare le aggregazione. Dunque la volatilità dei corpi che si sono strutturati ha indebolito la forza trainante dei fondamentali principi sanciti dalla nostra Costituzione. Questa giornata celebrativa non può essere consumata in inutili schermaglie tra destra e sinistra, categorie senza più una connotazione identificante, né tantomeno essere utilizzata per recuperare un protagonismo di parte, frutto di una strumentale revisione storica degli eventi. Il 25 Aprile è la festa di tutti gli italiani, grazie alla quale si rinnova ogni anno la spinta innata di ciascun individuo a preservare il proprio spazio di libertà, ricordando le tante donne ed i tanti uomini che per esso sacrificarono la propria vita. All’indomani del 25 Aprile 1945, De Gasperi avviò la fase costituente della nuova Italia democratica contro tutti i totalitarismi, operando le scelte di cambiamento necessarie, dalla svolta economica liberista al patto atlantico fino all’Europa unita. Oggi, proprio oggi, dovremmo riprendere l’idea fondativa di quell’opera per ripristinare nella sua armonica compiutezza il disegno di un paese democratico e pluralista, dinamico e competitivo. De Gasperi riteneva indispensabile rivedere l’organizzazione istituzionale e le regole della rappresentanza, ma la sua giusta ambizione fu frustrata dagli eventi. La ricorrenza della giornata della liberazione, quasi in concomitanza con la fine di una campagna elettorale molto particolare, che ha portato all’azzeramento di forze politiche storiche, espressione di interessi diffusi e di sensibilità importanti, appare quasi come un monito per chi avrà la responsabilità del governo. Una nuova legge elettorale e le riforme istituzionali, come primo punto dell’agenda, sarebbero la risposta giusta a quel segnale e la maniera più efficace per chiudere l’insano conflitto con la nostra storia, rileggendola di anno in anno per costruire un futuro sempre più solido.
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Leggiamo Pansa,rileggiamo Valiani di Mara Carfagna (Fi) l 25 aprile è una data che per la Repubblica italiana costituisce, piaccia o meno, una colonna portante. La Liberazione dal nazismo e dal fascismo scrisse una nuova pagina della nostra Storia patria. Dobbiamo ringraziare gli amici anglo-americani, nostri alleati, che prima ci liberarono da un invasore, i nazisti, e poi ci difesero da una potenza nemica, come l’Unione sovietica. Non è possibile dimenticare anche le tante storie di uomini e donne, partigiani, gente comune che combattevano per la libertà della propria Patria. Fu un movimento di popolo composito e variegato. Non a caso, vi erano uomini di differenti estrazioni politiche che spesso entrarono in conflitto. Ma non possiamo tacere nemmeno sulle pagine poco “eroiche”che vi furono ancora dopo la Liberazione, come ci ha ricordato ultimamente Giampaolo Pansa (ed altri
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prima di lui). Per alcuni italiani, in molte zone d’Italia, i giorni che seguirono al 25 aprile significarono sangue e persecuzione. Bisogna ricordare le nostre pagine di storia, pagine che ci hanno visti divisi, perché oggi la nostra Italia, la nostra Repubblica che nasce grazie alla libertà ed alla dignità che ci donarono migliaia di giovani venuti da Oltreoceano, ha bisogno di grande unità. Quella unità minata da chi fa un uso ideologico e di parte del 25 aprile, magari per ridare un senso ad un’ideologia bocciata dalla Storia. E recentemente anche dagli italiani. Sul 25 aprile c’è una frase di Leo Valiani che apprezzo molto: “La celebrazione della Resistenza deve significare il richiamo alla difesa e al consolidamento delle libertà democratiche la cui durevolezza è possibile soltanto in un clima di reciproca tolleranza”. Possiamo difendere la nostra Repubblica solo camminando tutti insieme lungo la strada maestra dell’unità nazionale.
Un nuovo patriottismo costituzionale di Marianna Madia (Pd) l 25 aprile è prima di tutto un giorno di festa: la festa di tutti gli italiani. Alla fine della seconda guerra mondiale gli italiani hanno scelto di ricostruire da zero il proprio paese puntando su quei valori della Costituzione, che sono la base della nostra Repubblica. Perchè senza 25 aprile non vi sarebbe stata Costituzione, e senza Costituzione non avrebbe mai funzionato la nostra democrazia. Cosa deve rappresentare oggi per le giovani generazioni la parola Resistenza? Non un discorso retorico, una vuota commemorazione da tirar fuori dai cassetti ogni anno, bensì qualcosa che vive in ognuno di noi. Ogni resistente, che ha sacrificato la propria vita, non lo ha fatto solo per la sua famiglia; lo ha fatto perchè tutti noi potessimo vivere in democrazia. E’ da qui che dobbiamo ripartire. Da quel giorno che rappresenta il caposaldo di un patriotti-
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smo costituzionale che tanto serve ancora al nostro paese. Il 25 aprile, il 2 giugno 1946, il 18 aprile 1948: la liberazione, il voto alle donne, la scelta della Repubblica, la Costituzione, le prime elezioni libere. Conflitti enormi si agitavano in quella stagione straordinaria ma le forze politiche e sociali che la vissero ebbero la capacità di riconoscersi in un sistema di valori condiviso, incarnato dalla Carta costituzionale. Oggi è nostro dovere raccogliere l’eredità migliore di quegli anni. Quello spirito riformista che animava forze tra loro divergenti eppure così vicine nel comune desiderio di una Italia democratica. Dobbiamo rinnovare, tutti insieme, quel patto di riconoscimento reciproco tra avversari che nacque proprio il 25 aprile 1945. Lo dobbiamo al paese.
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politica
Berlusconi, prima del comizio finale, incontra Montezemolo: per un incarico governativo?
Roma, l’ultima sfida è sulla casa d i a r i o
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g i o r n o
V2-Day, ancora Grillo in piazza Una festa di Liberazione dal «fascismo dell’informazione», un calcio alla «casta dei giornali». Così oggi Beppe Grillo dalla torinese Piazza San Carlo manderà letteralmente, come tradizione, a quel paese politici e, soprattutto, i giornalisti, «servi» del potere e dei «nuovi fascisti che controllano l’informazione». Ufficialmente, il V2-Day, che cade a due giorni dal centenario della Fnsi, serve a promuovere la raccolta firme per tre referendum («abolizione dell’Ordine dei giornalisti, abolizione dei finanziamenti pubblici di un miliardo di euro all’anno all’editoria, abolizione della legge Gasparri e del duopolio Partiti-Mediaset»): allo scopo, saranno messi in piedi 467 banchetti in tutte le piazze d’Italia. Di fatto, sarà l’occasione per un nuovo 2vaffa-show” del comico genovese, una no-stop che partirà alle 15 e andrà avanti fino a notte fonda in diverse città (tra cui Roma e Milano, dove ci sarà anche il ministro uscente Antonio di Pietro).
Mastella: «Macchinazione contro di me» È stato messo in atto un tentativo di demolizione della mia persona sistematico, scientifico». Lo dice Clemente Mastella in una lunga intervista al mensile Pocket: «È stata costruita una colossale macchinazione per delegittimare me e la mia famiglia».
Napolitano: «Viva consonanza col Papa»
di Susanna Turco
ROMA. «A Roma serve una grande discontinuità con la fase attuale. Chiunque vinca, questa discontinuità ci sarà. I due candidati sono entrambi di grande valore e si renderanno conto che Roma ha subito un declino e deve essere rilanciata». Basterebbero queste eloquenti parole di Francesco Gaetano Caltagirone durante l’assemblea degli azionisti di Mps per esemplificare quanto sia in bilico il risultato di Roma. L’attesa per il ballottaggio di domenica e lunedì tra Francesco Rutelli e Gianni Alemanno, del resto, ha già messo in stand by il processo di formazione del governo. Se per il centrosinistra in gioco sono i vertici del Pd, una vittoria o una sconfitta del candidato di centrodestra potrebbe cambiare nomi e dicasteri, nonché il peso della stessa An nella squadra di governo. Del resto, far quadrare i conti per il nuovo esecutivo non è impresa facile, come dimostra l’incontro di giovedì al Quirinale tra il Cavaliere e Giorgio Napolitano, durante il quale il Capo dello Stato ha dato l’alt alla tentazione di procedere a spacchettamenti di competenze e ministeri, scavalccando la legge Bassanini pur di accontentare tutti gli alleati. Con queste «afflizioni», Berlusconi e Veltroni si sono perciò lanciati ancora una volta nella campagna elettorale romana, concelebrando i comizi di chiusura rispettivamente a Piazza Navona e Testaccio: il primo sotto il diluvio,
l’altro al riparo nel teatro Vittoria. Fino all’ultimo, i candidati sindaco si sono spesi in proclami, peraltro concentrandosi entrambi sul tema della casa. Rutelli ha annunciato che il comune pagherà «per ogni mutuo stipulato a tasso variabile una cifra tra i 1.300 e i 1.400 euro l’anno per contrastare l’aumento degli interessi». Alemanno ha parlato di costruire «25 mila nuovi alloggi: non solo popolari, ma anche con affitti a canone agevolato e mutui con diritto di riscatto». Alemanno è andato in visita alla moschea della Capitale, Rutelli ha ricordato «gli sforzi organizzativi
Cesa lancia un allarme anti-destra e Storace gli risponde: «È la dimostrazione che l’Udc ha scelto di appoggiare Rutelli» del Giubileo» e ha incassato l’endorsement di Tony Blair («il sindaco di uno schieramento democratico verrebbe visto da tanti come la conferma, lo sviluppo di un’amicizia e collaborazione importanti», ha detto fra l’altro).
Sul fronte degli ex alleati nella Casa delle Libertà, le riflessioni di Lorenzo Cesa sul 25 aprile hanno dato occasione di polemica a Francesco Storace, che ha accusa-
to l’uddicino di parlare pro domo Rutelli. «Il ricordo dei sacrifici e delle sofferenze che portarono alla liberazione», ha detto il segretario Udc, «impone una riflessione che vada oltre le celebrazioni formali: la destra estremista e antisemita rappresenta, oggi come allora, un elemento di grave pericolo per la vita delle istituzioni, pericolo che va contrastato anzitutto attraverso una larga partecipazione dei cittadini alla vita democratica e a tutte le scadenze elettorali». Immediata la replica di Francesco Storace «L’Udc è venuta allo scoperto. La dichiarazione dell’onorevole Cesa è eloquente, altro che libertà di coscienza: vuole far vincere la sinistra».
Intanto, tra un’intervista e l’altra a reti e radio locali, Silvio Berlusconi ha avuto modo di incontrare fra gli altri Luca Cordero di Montezemolo ed Emma Marcegaglia. Alla colazione di lavoro a Palazzo Grazioli, a quanto si apprende molto cordiale, la neopresidente degli industriali avrebbe avanzato la richiesta - poi condivisa dal Cavaliere - di una detassazione degli straordinari da attuarsi il prima possibile, per ridare slancio alla produttività e incidere sul potere d’acquisto dei salari. Più in generale Berlusconi e la Marcegaglia sarebbero convenuti sull’urgenza di far ripartire il Paese. Si sarebbe poi discusso dei problemi sul tappeto: dal debito pubblico, alle infrastrutture, fino alla competitività.
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sottolineato la «viva consonanza» con quanto detto da Benedetto XVI di fronte alle Nazioni Unite nel suo recente viaggio a New York «sui diritti umani, sulla persona umana e sulla promozione di entrambi». Parlando prima dell’inizio di un concerto in occasione del terzo anniversario dell’elezione del Pontefice, il Capo dello Stato ha definito l’avvenimento «motivo di gratificazione e letizia». Parole alle quali Benedetto XVI ha risposto esprimendo la sua «viva riconoscenza». È un «atto deferente e premuroso», ha continuato il Papa mentre in platea lo ascoltavano 1.500 persone tra cui Romano Prodi, Gianni Letta e Walter Veltroni.
Cassazione: coltivare cannabis in casa è reato Per le sezioni unite della Suprema Corte rimane illecito penale coltivare qualche pianta di cannabis per uso personale. Nella requisitoria la Procura generale della Cassazione aveva invece chiesto di non considerare penalmente perseguibile la coltivazione domestica.
La sinistra lascia le Camere L’Arcobaleno lascia le aule di Camera e Senato. Formalmente accadrà lunedì, subito prima dell’insediamento del nuovo parlamento. Ma deputati e senatori di fatto hanno già traslocato. Complice il ponte del 25 aprile, centoquarantasette parlamentari di Rifondazione comunista, dei Comunisti italiani, dei Verdi e di Sinistra democratica hanno chiuso gli scatoloni. Prossimo al trasloco anche il presidente Bertinotti, che si trasferirà solo due piani più su, negli uffici della Fondazione della Camera.
Ancora due morti bianche Un operaio di 24 anni ha perso la vita a Lecco dopo essere precipitato da un ponteggio alto circa sei metri. Nel Cosentino, un agricoltore di 69 anni e’ morto schiacciato dal suo trattore mentre eseguiva lavori nei campi.
alitalia
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In ogni caso l’azienda ha bisogno di forti tagli. Chi sarà in grado di farli? el gioco delle reciproche accuse che accompagna la vicenda Alitalia, bisognerebbe fare chiarezza. E non solo per dare a Cesare quel che è di Cesare, ma per evitare di perseverare diabolicamente nell’errore. Se si fosse seguita questa strada al tempo di Mengozzi o di Cimoli, oggi parleremmo d’altro. Di come organizzare meglio il servizio o, addirittura, di come utilizzare gli utili di bilancio, nel frattempo maturati. Basta con le discussioni oziose. È necessario tornare con i piedi per terra se si vuole evitare di prolungare l’agonia della compagnia di bandiera, prima dell’inevitabile fallimento.
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Chiunque compri, resta un problema: il sindacato di Gianfranco Polillo
La boccata d’ossigeno data dal prestito ponte, voluto dall’accordo tra governo e opposizione, deve quindi servire non soltanto a far volare gli aerei, ma a riflettere su quanto avvenuto. Air France ha abbandonato la partita – L’amministratore delegato di Air France, Jean-Cyril Spinetta. Dal prezzo per Alitalia i francesi scontavano anche i minori esuberi, un costo da recuperare attraverso economie di scala vedremo se in modo definitivo – dopo il niet del sindacato e le sue contro proposte al piano di Spinetta. Erano coerenti con lo stato effettivo della società? Garantivano una ripresa dell’attività economica, nel rispetto delle regole di mercato? O non erano l’ennesimo tentativo di porre a carico del contribuente – questa volta francese – ulteriori oneri impropri? La lunga vicenda della compagnia non ha alcunché di misterioso. Si trascina, così, da anni. Senza che nessuno abbia avuto il coraggio di fare due conti e verificare lo stato effettivo delle compatibilità economiche. Per la verità Air France, che si muove in un’ottica differente, ci aveva provato. Aveva offerto di rilevare la compagnia al prezzo di 9,9 centesimi per azione, a un quinto del suo valore di borsa. Ancor meno se si considera l’andamento del titolo per i precedenti 12 mesi. Proposta indecente? In parte si. Da che mondo è mondo, il compratore cerca sempre di spuntare il prezzo più basso. L’importante, ai fini del buon esito dell’operazione, è che ci sia almeno un fumus. Che l’offerta non sia platealmente irrealistica, perché nessuno accetta di farsi prendere per la gola. E al-
lora cerchiamo di ricostruire il possibile ragionamento di Spinetta. Il valore degli asset era indubbiamente superiore: la Borsa, per quanto imprecisa nelle sue valutazioni, tende a deprimere il corso di un titolo. Nell’apprezzamento del mercato non contano solo i valori patrimoniali, ma gli utili attesi. Sono questi che ne determinano l’andamento. Nel caso Alitalia si conteggiavano, invece, le perdite. Che non avevano, tuttavia, raggiunto il punto limite oltre il quale non restava che portare i libri in tribunale e Vladmir Putin, vendere il pail presidente trimonio al della Federazione pubblico inRussa canto. nei giorni L’offerta franscorsi cese scontava ha discusso questo punto con Berlusconi di partenza: da l’ipotesi un lato il patridi un monio, dall’alintervento tro le stime di Aeroflot sulle perdite nel capitale future. Perdite di Alitalia che potevano essere contenute, riducendo il costo del personale, da sempre ridondante alla Magliana. Nel calcolare questi oneri, la compagnia francese aveva seguito la strada del realismo. I tagli di personale, per ragioni di opportunità sociale, erano inferiori a quelli necessari. Venivano
capitalizzati come costi futuri e quindi portati in detrazione al valore dell’offerta.
La speranza era che i maggiori costi potessero essere riassorbiti in un tempo ragionevole dallo sviluppo della società: contando anche sulle maggiori economie di scala, frutto della contestuale integrazione a livello internazionale. Disegno ardito, ma non impossibile. Richiedeva una partecipazione del consapevole sindacato, perciò ritenuto vincolante nella trattativa. Con il loro contropiano, invece, Cgil, Cisl e Uil hanno fatto saltare questa labile geometria. I costi prospettici hanno debordato, rendendo impossibile la trattativa. Basterebbe questo a spiegare l’impasse attuale. Con un pizzico di malignità si potrebbe aggiungere che il sindacato non intende perdere Alitalia. Non vuole cedere a un soggetto estero una roccaforte del proprio potere, da sempre esercitato ben oltre il perimetro delle normali relazioni industriali. Una cogestione che ha portato alla nomina dei
principali dirigenti e all’affermazione di prassi gestionali che avevano poco a che vedere con le regole di mercato. Si avrà il coraggio di voltare pagina? Non è facile rispondere. Ma questa spada di Damocle pende sulla testa dei futuri compratori: francesi, tedeschi, russi o semplicemente italiani che siano. I quali Salvatore Ligresti, dovranno costruttore misurarsi e titolare con lo stesdella Premafin. so probleÈ stato tra i primi ma, non poad annunciare tendo sfrutla disponibilità tare la poa entrare tenza finannella cordata ziaria di Air per Alitalia. France. Un’operazione Che resta che reggerà quindi da solo attraverso fare? Conforti tagli vincere il sindacato. Accettare il ricorso agli ammortizzatori sociali, che il governo dovrà, inevitabilmente, garantire. A un costo che, sarà, probabilmente superiore a quello che era implicito nella proposta francese. Con quale contropartita? Che gli esuberi siano quelli indispensabili, ma soprattutto, temporanei. Che da quel serbatoio si attinga, man mano che la compagnia, dopo l’inevitabile cura, sarà di nuovo in grado di crescere.
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opo una competizione durata quasi sette settimane per conquistare il favore dei più di due milioni di elettori democratici della Pennsylvania, la Senatrice Hillary Clinton ha conseguito una grande vittoria sul Senatore Barack Obama, con un divario superiore ai 200mila voti. Non è una grande sorpresa che la Clinton abbia vinto, ma che lo abbia fatto con un tale margine di differenza ha mutato la “narrativa” di queste primarie. Soltanto due giorni fa, la maggior parte dei commentatori asseriva che era “assolutamente impossibile” che la Clinton superasse Obama (sia in termini di delegati eletti, che di voti popolari). Alla mezzanotte del giorno delle elezioni, con la chiusura di tutti i conteggi, i commentatori si affannano ora a rispondere ad un’altra domanda: Hillary Clinton può davvero farcela? Mi sorprende sempre moltissimo osservare quanto possa mutare rapidamente la “narrativa” delle campagne elettorali. In un attimo, autorevoli esperti invertono la direzione delle loro analisi e cambiano tono di voce, mentre la loro agitazione sale vertiginosamente.
pensieri
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Lunedì, era fatta: «Indipendentemente da quanto accadrà in Pennsylvania, Obama ha l’elezione in tasca».Mercoledì mattina, invece: «Che schiacciante, coraggiosa vittoria quella di Hillary. È una vera lottatrice. Ha conquistato le famiglie operaie, gli over-quaranta, donne e uomini bianchi, i religiosi praticanti, i cacciatori - e per la maggior parte con ampissimo margine. Ha dalla sua parte il 70 per cento dei Cattolici. E sono questi i gruppi che un candidato Democratico deve conquistare e sottrarre a McCain a novembre”. Alcuni ricorrono addirittura all’aritmetica per cercare di provare che è possibile che Hillary ottenga la maggior parte dei voti popolari entro l’ultima fase delle primarie, il 6 giugno. Possibile, ma non probabile. La sinistra americana rappresenta il partito della burocrazia e dell’Utopia. E’il partito dei “regolatori”. Non riescono a trattenersi: devono gestire tutto secondo regole precise e complesse. Le
Gli effetti indesiderati delle complicate procedure per le primarie democratiche
L’insopprimibile masochismo della sinistra Usa di Michael Novak ultime regole che hanno stabilito per la selezione dei delegati di queste elezioni hanno sortito effetti indesiderati (come accade sempre con le regole), che li hanno disorientati. Le regole adottate dal partito Repubblicano sono più semplici e pratiche, sebbene non sempre meticolosamente “eque” rispetto a tutti i gruppi d’interesse che compongono il partito.
Se Hillary Clinton avesse giocato con le regole adottate dai repubblicani, anche lei avrebbe già la nomination, proprio come McCain
Chi ottiene il maggior numero di voti popolari in un determinato stato prende tutti i delegati dello stato in questione. È per questo che McCain ha già conquistato la nomination - e già da diverse settimane. Se Hillary avesse giocato con le regole adottate dai repubblicani, anche lei avrebbe già la nomination, proprio come John McCain.
Invece, con il meccanismo adottato dai democratici, Hillary ha vinto in tutti gli Stati dell’Unione con il più alto numero di delegati, ma non ha ottenuto tutti i delegati di quegli stati. Infatti, quei delegati sono stati suddivisi in maniera proporzionale (a dire il vero, sono stati ripartiti secondo metodologie arcane e complesse, che prevedono regole eterogenee nei diversi distretti di uno stesso stato). Prendiamo ad esempio la Pennsylvania. Da una mappa a colori di tutte le contee della Pennsylvania conquistate da Hillary emergerebbe chiaramente come abbia conquistato quasi l’intero stato, oltre ad aver preso 200mila voti popolari in più di Obama. Eppure, le sono stati assegnati soltanto tredici delegati in più rispetto al suo avversario, su un totale di 158. Di questo passo, non riuscirà mai a raggiungere, nei nove stati rimanenti, un numero di delegati sufficiente a colmare il divario con Obama, che ha oltre 100 delegati in più. Se Hillary Clinton avesse conquistato tutti i 158 delegati della Pennsylvania, sarebbe già in vantaggio rispetto ad Obama.
Nel cercare di essere mirabilmente “equi”, i Democratici hanno dimenticato una cosa: lo scopo delle primarie è di indicare con chiarezza un vincitore, attorno al quale possano coalizzarsi con entusiasmo tutte le componenti del partito, al fine di sconfiggere il candidato dell’altro partito a novembre. I Democratici perdono spesso di vista il fine ultimo, alla patetica ricerca di procedure utopiche per raggiungerlo. I prossimi stati di una certa rilevanza sono l’Indiana (72 delegati) ed il North Carolina (115). Hillary è favorita in Indiana, mentre Obama lo è nella Carolina del Nord. Obama, ormai è chiaro, è sostenuto essenzialmente da quasi tutti i neri, da una buona maggioranza delle città universitarie e da sacche di intellettuali e professionisti delle città. Vale a dire, dagli afroamericani, più quella che Milovan Djilas definisce “la nuova classe” (The New Class): i dirigenti, attuali e futuri, dell’imponente apparato amministrativo.
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Il futuro dell’Udc. Parla il politologo Giovanni Sartori
Questo bipartitismo non ucciderà il Centro colloquio con Giovanni Sartori di Riccardo Paradisi
ROMA. «Non è detto che il bipartitismo e il bipolarismo uccidano e superino il Centro». Giovanni Sartori è tra i più acuti e ficcanti politologi italiani: la sua riflessione sul futuro e il destino del centro politico italiano tiene conto del contesto istituzionale del Paese e delle variabili che potrebbero modificare ulteriormente un quadro peraltro ancora altamente instabile. Con la scelta di correre da solo alle ultime elezioni l’Udc di Pier Ferdinando Casini resta fuori dal governo ma resiste allo tsunami politico che ha cancellato dal parlamento interi partiti storici italiani. Come spiega il fatto che il centro abbia tenuto e non sia stato stritolato dal bipartitismo? Intanto non siamo ancora al bipartitismo. Il nostro è diventato un bipolarismo drasticamente semplificato ma non è ancora un sistema a due partiti. La sinistra include, ma non assorbe, l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro. La destra include, ma certo non aggrega, la Lega Nord e nemmeno la Lega Sud in pectore (che non è tale di nome ma di fatto) di Lombardo. Aggiungi che Alleanza nazionale non è ancora rifluita nel Partito delle libertà berlusconiano. Questa articolazione, ma anche disarticolazione, ha un potere di stritolamento del centro molto minore di un vero e proprio bipartitismo. Senza contare che il voto del 13 aprile era proporzionale, sia pure con un alta soglia di sbarramento dell’8 per cento al Senato. Un ultima considerazione è che l’Udc è stata salvata dal voto, in Sicilia, di Totò Cuffaro, e cioè da un voto largamente clientelare che non è di Centro ma di Cuffaro. Comunque sia il Centro è ancora nel gioco politico del Paese. Adesso si pone il problema del suo ruolo, della sua funzione strategica. Secondo lei Casini come dovrebbe capitalizzare e investire
la quota di consenso che è riuscito a mantenere? Implicitamente ho già detto che il Centro di Casini, l’Udc, è molto friabile. Il suo destino dipende dalla futura legge elettorale, dalla duttilità manovriera di Casini, e da un eventuale appoggio della Chiesa che ancora non c’è stato. Le elezioni amministrative di Roma hanno prodotto all’interno dell’Udc un confronto aspro tra chi avrebbe voluto schierare il partito per la candidatura di Gianni Alemanno e chi, come i vertici ha indicato come linea di condotta la libertà di voto a iscritti ed elettori dell’Udc. È un segnale che all’interno dell’Udc restano forti le componenti che guardano al centrodestra? Si, l’Udc è una costola appena uscita (o cacciata) dalla destra e come tale sensibile a quel richiamo. E soprattutto sulla elezione del sindaco di Roma e a stretto ridosso del 13 aprile a Casini non conveniva schierarsi. La sua dun-
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autonomo secondo lei il centro è destinato a rimanere una costante del quadro politico italiano o è una sopravvivenza destinata a essere inclusa e superata dal bipolarismo? Non è detto che il bipartitismo, e nemmeno il bipolarismo, uccidano e superino il Centro. L’Inghilterra ha da sempre un partito liberale (variamente denominato) intermedio tra conservatori e laburisti che ottiene anche più del 20 per cento dei voti anche se viene regolarmente decimato dall’uninominale nella distribuzione dei seggi. Anche la Germania esibisce da sempre un piccolo partito liberale di centro nell’ordine di poco più del 5 per cento dei voti. In Italia la sopravvivenza del centro dipenderà, già dicevo, dal sistema elettorale, e anche da cosa combineranno, in bene o in male, la sua destra e la sua sinistra. I valori eticamente sensibili sono stati i grandi assenti di questa campagna elettorale, dove a parte l’eccezione di Ferrara, non s’è praticamente parlato né di aborto, né di Ru486, né di eutanasia. Eppure la biopolitica si annuncia come il vero tema metapolitico degli anni a venire. Su questo versante l’Udc – che ha contestato la rimozione dei temi etici dal dibattito politico degli ultimi mesi – ha un ruolo specifico da giocarsi? Io spero di no e cioè proprio non auspico che la bioetica e dintorni diventi un tema elettorale che teologizza la politica. Di queste cose gli elettori non sanno niente: possono soltanto obbedire alla Chiesa o no. E dunque spero che il colossale fiasco elettorale di Giuliano Ferrara ci salvi da questa superflua iattura. C’è chi sostiene che Casini abbia sbagliato ad abbandonare l’alleanza che si è costruita intorno a Berlusconi. Avrebbe dovuto restare e lavorare alla successione avendo in mano lui le chiavi della sezione italiana del Ppe nel quale tutto il Pdl vuole entrare. Che ne pensa? Casini voleva mantenere una sua identità, esattamente come Bossi e Lombardo. Quindi è stato Berlusconi a cacciarlo più che Casini ad andarsene. D’altra parte non vedo in lui un probabile successore del Cavaliere (quando sarà). La coda degli aspiranti è lunga e Casini non è, mi sembra, tra i meglio piazzati.
Ora Veltroni dopo avere demonizzato il centro vede nell’Udc un rinforzo dell’opposizione. Ma a Casini non conviene legarsi troppo alla sinistra que è stata una decisione tattica pressoché obbligata. Attrazioni a destra, ma anche a sinistra: nei giorni scorsi i vertici dell’Udc hanno avuto alcuni incontri con lo stato maggiore del Partito democratico. Come giudica questo dialogo? È possibile nel prossimo futuro un’intesa di opposizione tra Udc e Pd? Di per se un piccolo centro diventa importante solo se nessun polo o maggiore partito ottiene una maggioranza sufficiente per governare da solo. È solo in questo caso che diventa l’ago della bilancia. Altrimenti no. Che ora Veltroni e Casini si parlino corregge e cerca di rimediare alla demonizzazione del Centro del Veltroni dei mesi precedenti. Ricordo che Veltroni ha rifiutato il sistema elettorale tedesco (secondo me un grave errore) proprio sulla base dell’argomento che consentiva la nascita di un centro. Ora Veltroni si ravvede e vede in Casini un rinforzo dell’opposizione. Ma dubito che Casini lo perdoni facilmente. Né a lui conviene legarsi troppo alla sinistra. Deve appunto, farsi percepire come un centro libero di sostenere governo e opposizione. A proposito di questo ruolo
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arkozy anno I: il barometro politico segna tempesta. E il dato peggiore riguarda la persistenza di questa crisi di sostegno da parte dell’opinione pubblica. Giunto al livello più basso dei sondaggi di gradimento ad inizio 2008, Sarkozy si appresta a «festeggiare» il suo ingresso all’Eliseo analizzando altri due sondaggi impietosi. Liberation e le Journal de Dimanche hanno infatti confermato che i cittadini francesi che avevano massicciamente votato Sarkozy il 22 aprile e il 6 maggio 2007 continuano a voltare le spalle al loro Presidente. Secondo Libération solo il 38 percento dei francesi dà un giudizio positivo del suo operato, mentre l’Ifop per Le Journal du Dimanche è ancora più spietato: il 79 percento degli intervistati reputa che l’azione del Presidente non sia stata in grado di migliore la situazione del Paese. Due dati poi peggiorano un quadro già fosco: il Primo ministro Fillon, nonostante una flessione (di circa 7 percento), resta ancora avanti rispetto al suo Presidente (oltre il 50 percento di gradimento) e la nemesi prosegue. A parti invertite rispetto alla tradizione della V Repubblica, il Presidente pare trasformato nel parafulmine del suo Primo ministro.
mondo post-gollista. Il blocco politicosociale di riferimento che il 6 maggio 2007 aveva scelto massicciamente Sarkozy fatica oggi a trovare una chiara linea ideologica nell’operato del Presidente, che sembra mosso nelle sue scelte solo da motivazioni pragmatiche, tanto che un osservatore attento alle dinamiche della destra francese come Ivan Rioufol è arrivato a domandarsi polemicamente sul suo Bloc-notes su Le Figaro: «ma Sarkozy è ancora di destra?» Infine un dato congiunturale sul quale sarebbe disonesto tacere: nella Francia storicamente allergica alle riforme, il Presidente forse più riformista della V Repubblica si è trovato ben presto a fare i conti con una crisi economica mondiale di proporzioni preoccupanti. Riformare a queste condizioni diventa davvero un’impresa titanica.
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Secondo dato allarmante: il deficit di gradimento è ben presente all’interno del campo politico di riferimento di Sarkozy. Infatti solo il 50 percento degli intervistati che si dichiara vicino alle posizioni dell’Ump apprezza l’operato del suo Presidente. La persistente crisi di credibilità che Sarkozy sta attraversando è ancora più clamorosa se si pensa all’elezione di un anno fa e alle aspettative che la sua presidenza aveva suscitato. Con il primo turno dell’aprile scorso e la definitiva consacrazione del ballottaggio, Sarkozy aveva da un lato chiuso la crisi di identità transalpina, che aveva giustamente fatto parlare della Francia come del vero «malato d’Europa». Il ballottaggio del 2002 tra Chirac e Le Pen, i fuochi delle banlieues e il rigetto del Trattato costituzionale europeo il 6 maggio 2007 sembravano lontani anni luce. D’altra parte la rupture sarkozista, il suo attivismo e la pratica dell’ouverture si sono tramutate ben presto nel vero e proprio nuovo corso europeo verso la modernizzazione e l’ingresso nel Ventunesimo secolo. Dove si è rotto l’incantesimo? Sul banco degli imputati sale innanzitutto la cosiddetta pipolisation della vita privata del Presidente e una costante sovraesposizione mediatica che
Ad un anno dalle elezioni, all’Eliseo è tempo di bilanci: ieri sera il presidente ha risposto a 5 giornalisti
Sarkozy, 90 minuti per riconquistare i suoi elettori di Michele Marchi ha ben presto fatto parlare di un President blin-bling. Al di là degli slogan e degli eccessi del gossip politico Sarkozy, nella sua ansia di rompere con il passato chiracchiano, ha finito per offrire un’immagine di sé spesso non all’altezza del ruolo che riveste. Egli aveva promesso di «aprire le finestre e far entrare aria fresca nel Palazzo dell’Eliseo»: il jogging con il Primo ministro è stato accettato, il vaudeville sentimentale ha finito
dal suo stesso circo mediatico. Il secondo dato riguarda la cosiddetta bulimia riformista.
All’indomani della sua elezione il Presidente ha avviato l’apertura continua di cantieri di riforma, senza però fornire una chiara gerarchia, giustapponendo riforma delle istituzioni e riforma del mercato del lavoro, modifiche al sistema giudiziario e Grenelle dell’ambiente, riforma dell’esercito e
Il terzo dato riguarda la tanto propagandata (soprattutto in Italia) ouverture. L’ingresso di personalità non direttamente riconducibili al centro-destra nella squadra di governo e nelle varie commissioni doveva rispondere nelle intenzioni del Presidente ad un duplice obiettivo. Da un lato quello di sottrarre ad una sinistra allo sbando il personale politico migliore. Dall’altro quello di dare applicazione pratica ad una stra-
La tempesta mediatica non deve negare i contributi positivi: bassa disoccupazione, modernizzazione del mercato del lavoro, ok al trattato Ue e la riforma delle istituzioni che il 19 maggio arriverà all’Assemblea nazionale per mettere in dubbio la sua capacità di incarnare il ruolo del «monarca repubblicano», ancora centrale nell’immaginario della popolazione francese. Ironia della sorte, colui che invitava il proprio staff politico ad inondare le redazioni dei giornali di nuove notizie ogni giorno, ha finito per essere travolto
rinnovo del sistema ospedaliero. L’idea di giocare contemporaneamente su più tavoli ha progressivamente depotenziato l’afflato riformista, ha finito per disorientare l’opinione pubblica e mettere in difficoltà la stessa maggioranza presidenziale e la sua squadra di governo.
tegia delineata in campagna elettorale: il Paese è in crisi, solo i «migliori» possono risollevarne le sorti. Ad oggi l’ouverture mostra il suo volto più insidioso: la profonda destabilizzazione che ha creato negli ambienti della destra di governo e, come mostrato dalle elezioni amministrative, nell’elettorato
Ad un anno dalle elezioni, insomma, è tempo di bilanci all’Eliseo. Guardando al breve periodo si potrebbe concludere che alle grandi capacità di competitor elettorale non ne sono corrisposte di così alto livello per quanto riguarda la gestione del potere e la politica quotidiana. In realtà la tempesta mediatica e il barnum sondaggistico non deve distorcere l’analisi fino a negare i contributi positivi emersi in questi undici mesi di presidenza. La disoccupazione al livello più basso, la riforma del mercato del lavoro e delle relazioni sociali, la ripartenza dell’Europa con il Trattato di Lisbona (ispirato dal mini-Trattato di Sarkozy) e la riforma delle istituzioni che il 19 maggio passerà in prima lettura all’Assemblea nazionale. Insomma se ci si astrae dalla disanima politica quotidiana e si osserva la situazione con un minimo distacco si può notare che Sarkozy sta operando per modificare in profondità la struttura politica, istituzionale, economica e sociale della V Repubblica, mettendo in discussione quel consenso gollistamitterrandiano che l’ha sostenuta per cinquant’anni. Emblemi di questo percorso sono proprio la discontinuità in politica estera (atlantismo e reintegro nella Nato) e la decisione di intervenire in profondità sull’architettura istituzionale (più poteri al Parlamento, modifica della legge elettorale). Come tutti gli interventi di ampio respiro solo nel lungo periodo se ne potrà offrire un giudizio chiaro e meno provvisorio. Al momento all’Eliseo si investe tutto sul semestre di presidenza francese dell’Ue. Una nuova scommessa per l’«iper-Presidente» e la sua «iper-crisi».
mondo
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Poche prospettive di unità tra Atene e Skopje nonostante diplomazia e tentativi di compromesso
Macedonia, il nome della discordia d i a r i o
di Angelita La Spada l procrastinato ingresso macedone nella Nato, deciso al summit di Bucarest in seguito all’opposizione della Grecia – nell’ambito dell’annoso contenzioso tra Atene e Skopje in merito alla titolarità del nome geografico “Macedonia” – solleva timori che l’exrepubblica jugoslava possa essere destabilizzata da scontri etnici e da una crisi politica interna che ha già causato l’autodissolvimento del Parlamento, con elezioni anticipate a giugno, e che i sentimenti nazionalisti e anti-occidentali infiammino la regione balcanica. Alla vigilia del vertice Nato, circa il 90 percento della popolazione macedone era a favore dell’adesione all’Alleanza. La decisione di inviare truppe in Iraq e in Afghanistan era motivata dal fatto che essa fosse il necessario prezzo da pagare per guadagnarsi l’ingresso nella Nato e, cosa ancor più importante, l’obiettivo comune di adesione serviva a cementificare i due principali gruppi etnici del paese, i macedoni slavi (1,3 milioni) e quelli albanesi (0,5 milioni), le cui schermaglie rasentarono nel 2001 la guerra civile. Adesso che le promesse sono state vanificate, lo stesso accordo etnico di condivisione dei poteri rischia di saltare. Gli albanesi macedoni sostengono che la questione del nome sia meno importante dell’adesione immediata alla Nato e il Dpa, il Partito Democratico per gli Albanesi, è ben intenzionato a trovare un compromesso con la Grecia a riguardo. In effetti essi sperano che il paese navighi in direzione dell’Occidente e di Bruxelles, il che li renderebbe partner paritari in una società multietnica. Parte dei macedoni slavi chiedono perfino di congelare l’accordo che ha permesso al paese di diventare membro delle Nazioni Unite con il nome di Fyrom. Altri guardano alla dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo e si domandano per quale motivo non dovrebbero ottenere il riconoscimento del paese per via del suo nome costituzionale. Vi sono poi i separatisti macedoni di etnia albanese, una mina vagante per l’integrità territoriale e la sovranità macedone, tanto più che la maggio-
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ranza dei macedoni ritiene che un Kosovo indipendente possa offrire pace e stabilità alla regione, riuscendo così a definire i confini dell’Europa Sud-Orientale. Nell’ottica di Skopje, il neo-stato fornirebbe delle opportunità favorevoli e apporterebbe un miglioramento dei
Bloccando il processo che doveva portare all’ingresso del Paese nella Nato, il vertice di Bucarest ne ha indebolito il prestigio regionale rapporti economici. Si pensi che attualmente Skopje esporta in Kosovo la maggior parte dei beni industriali per un fatturato annuo complessivo di 100milioni di euro. Indubbiamente, la battuta d’arresto segnata a Bucarest rende la Macedonia vulnerabile a forze regionali come la Grecia e la Serbia. Pertanto, la decisione della Nato gioca a favore delle frange nazionaliste macedoni, che potrebbero arrogarsi il diritto di asserire che i compromessi raggiunti con la minoranza albanese non siano servi-
ti allo scopo, e ancora peggio, essa potrebbe accentuare le voci e i toni dei nazionalisti e dei partiti anti-occidentali serbi, alla vigilia delle legislative di maggio che ravvisano nella Grecia un’alleata di Belgrado in merito alla questione kosovara. Lo scioglimento del Sobranje (Parlamento) è stato votato a maggioranza dall’assemblea, su iniziativa congiunta dei nazionalisti del partito di coalizione (VmroDpmne) e dall’Unione Democratica per l’Integrazione (Dui). L’intesa bipartisan sul voto anticipato tra questi due partiti poggia altresì sull’interesse del Dui a subentrare al Dpa nella nuova legislatura. La crisi si è aperta agli inizi di aprile, quando l’Esecutivo del premier Nikola Gruevski (leader del Vmro) è stato messo ha messo in minoranza in seguito all’uscita dalla coalizione al potere dell’altro grande partito della comunità albanofona: il Dpa. Ma l’adesione alla Nato dovrebbe rimanere un obiettivo centrale nelle ambizioni della Macedonia anche se il suo conseguimento non rappresenterà una panacea per tutti i mali del paese, specie per il suo tasso di disoccupazione del 35 percento. Di certo, però, la sua adesione potrebbe essere sinonimo di affidabilità per il mondo esterno, inclusi i potenziali investitori. Ed essa costituirà un trampolino di lancio per l’adesione all’Ue. La complementarità degli obiettivi di Ue e Nato è ancor più pronunciata, se si guarda ai candidati in termini di geopolitica. Sin dal 1994, i Balcani Occidentali hanno mostrato come Nato ed Unione europea abbiano operato in stretta sinergia ricoprendo l’intero spettro di settori che vanno dai diritti umani, alla ricostruzione, al mantenimento della pace, etc. Ogni ulteriore stand-by all’ingresso della Macedonia nell’Alleanza atlantica non farà altro che minare la stabilità regionale, proprio nel momento in cui il Kosovo ha inaugurato la sua nuova fase di indipendenza sorvegliata. E non chiudere la partita nei Balcani potrebbe altresì avere pericolose ripercussioni anche nell’area dell’Europa Orientale
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g i o r n o
Più sereni i rapporti tra Pechino e Parigi «Lei sostiene l’organizzazione dei giochi e si oppone a legare politica e Olimpiadi» il saluto del capo del governo cinese Wen Jiabao all’ex premier francese Raffarin in visita a Pechino, è il suggello del “disgelo” tra i due Paesi dopo le tensioni legate alle contestazioni di Parigi alla politica cinese in Tibet. In precedenza il presidente del senato francese, Christian Poncelet, aveva dichiarato che l’Impero di mezzo è «disposto» a riprendere il dialogo col leader spirituale dei tibetani. Poncelet, anche lui in Cina, ha incontrato il presidente cinese Hu Jintao. Un altro contributo a questa luna di miele è venuto dal ministro cinese del commercio che ha “stoppato” il boicottaggio della catena francese di supermercati Carrefour. L’azienda si è sempre detta a «favore dei giochi e contro l’indipendenza del Tibet», ha dichiarato il ministro.
Abbas vuole più iniziativa Usa A cinque mesi dall’inizio dell’iniziativa di pace in Medio Oriente, il presidente dell’Anp Mahmud Abbas chiede più impegno a Washington. Dopo un incontro con Condoleezza Rice,Abbas ha dichiarato che sarà difficile realizzare il progetto di pace previsto per gennaio 2009 dalla conferenza di Annopolis. In una conferenza all’Istituto arabo-americano il leader palestinese ha detto che tra le posizioni «dell’Anp e quelle di Israele vi è una grande distanza». In attesa dell’incontro con Bush, il capo dell’Anp ha ribadito che, frontiere del futuro stato palestinese, attività dei coloni, status di Gerusalemme, profughi e distribuzione delle scarse risorse idriche, sono le questioni prioritarie.
Il Bundestag ratifica il trattato Ue Tutti i gruppi parlamentari tedeschi hanno approvato la “Costituzione” continentale passata a grande maggioranza, 515 a favore, 58 contro e1 astenuto, ieri al Bundestag. Nel dibattito Angela Merkel ha parlato di un «grande progetto» indispensabile alla vita dei cittadini. Il presidente federale, Horst Koehler, ritarderà la firma di approvazione in quanto alcuni deputati della Linke e uno della Csu, hanno annunciato il loro ricorso alla Corte costituzionale.
Desmond Tutu contro Mugabe L’arcivescovo sudafricano e Premio Nobel per la Pace Desmond Tutu ha chiesto ai leader sudafricani di persuadere Robert Mugabe a dimettersi da presidente dello Zimbabwe. Tutu ha sottolineato come l’Africa meridionale non deve disperdere le proprie forze in guerre civili che finirebbero per dissanguarla ma potrebbe dare il proprio contributo alla rinascita del Continente nero, concentrandosi alla risoluzione dei problemi vitali dell’Africa come l’estrema povertà di intere regioni e il flaggello delle epidemie di Aids.
Scontri in Sri Lanka, 140 morti Nella regione di Muhamalai dello Sri Lanka si sono avuti i più duri combattimenti che il Paese abbia visto da molto tempo a questa parte. Mercoledì le tigri di liberazione del Tamil Ealam, Ltte, hanno attaccato postazioni dell’esercito. I militari hanno reagito utilizzando elicotteri e aerei, controffensiva ripetuta anche giovedì. Gli scontri potrebbero essere un colpo al progetto governativo di porre fine, entro la fine dell’anno, al controllo esercitato dai ribelli nella parte settentrionale dell’isola di Ceylon. Il primo ministro dello Sri Lanka, Keheliya Rambukwella, ha ribadito di voler raggiungere l’obiettivo. Per la fine dell’anno il Paese deve essere «liberato dal terrore», ha detto il premier. Iniziata nel 1983, la guerra civile in corso nello Sri Lanka ha causato più di 70mila vittime.
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speciale approfondimenti
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Pubblichiamo in anteprima la prefazione di Paul Theroux a una nuova edizione de “La vedova Couderc” celebre romanzo dello scrittore belga
PROPONGO IL NOBEL POSTUMO PER SIMENON di Paul Theroux segue dalla prima imenon, invece, aveva pubblicato tre altri romanzi nel 1942 ed altri sei l’anno precedente;“La Vedova Couderc”divenne un altro titolo nel lungo elenco delle sue opere, ma nessuna di esse fu considerata degna di essere annoverata fra le materie di studio. Se leggere Camus è un dovere, Simenon costituisce un piacere frivolo, quasi una debolezza, una sorta di soddisfazione avida che si manifesta con un certo consapevole disagio persino nei critici ben intenzionati: imbarazzo per un testo godibile unito ad un altezzoso brivido per l’inutile eccesso, ed il palpabile timore, il senso di umiliazione - comune a molte prefazioni dei romanzi di Simenon – di essere tacciati dagli accademici. Tuttavia, Simenon impone una certa riflessione in quanto, a prima vista, sembra facilmente classificabile, ma successivamente, ad una più attenta analisi – dopo aver letto cinquanta o sessanta suoi libri – risulta meno decifrabile. Il confronto con Camus dunque non è gratuito o ingiustificato – spesso lo faceva lo stesso Simenon, ed André Gide sollevò il tema a distanza di qualche anno dalla pubblicazione de ”Lo Straniero”preferendo l’opera di Simenon, e scrivendo nel 1947 una lettera ad Albert Guerard in cui sosteneva che Simenon fosse «il nostro più grande romanziere di oggi, un romanziere vero».
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Nati a dieci anni di distanza, Camus e Simenon erano arrivati giovani ed inesperti nella Francia metropolitana; si poteva definirli il pedante e il giovinastro - Camus era un giornalista polemista franco-algerino con un’inclinazione per la filosofia, Simenon un belga autodidatta che iniziò la sua carriera letteraria come cronista con un certo gusto per le storie poliziesche - entrambi buoni intenditori in fatto di donne. Camus sembrò non far caso a Simenon (non viene mai menzionato nelle sua biografie), sebbene si sappia che Simenon fosse attento e, in un certo qual modo, in concorrenza con Camus, di dieci anni più giovane, le cui opere complete (lo aveva di certo notato) non occupano più spazio delle copertine di un volume di modeste dimensioni. L’instancabile Simenon, sicuro di vincere il Premio Nobel, predisse nel 1937 di vincerlo nel giro di dieci anni, ma il Premio andò ad altri – Pearl S. Buck, F. E. Sillanpää, Winston S. Churchill, e – quando nel 1957 seppe che lo aveva vinto anche Camus - Simenon s’infuriò e sbottò con la moglie: «Come credere che l’abbiano dato ad un asino come quello e non a me?». Che fare del talentuoso, dotato ed inesauribile scrittore con una rara vena esistenziale, ma anche con fiuto per gli umori del pubblico? Raramente I curricula scolastici sono di qualche ausilio. Simenon aveva
abbandonato la scuola a tredici anni per diventare cronista, e - come molti autodidatti - tendeva ad essere un anti-intellettuale ribelle, provocatorio e beffardo, che disprezzava i critici letterari e si teneva alla larga dai circoli. Le università gli ricambiarono il favore considerandolo spazzatura, sminuendo o ignorando il suo lavoro. La giustificazione per tale trattamento, sembra, risiedeva nella passione non comune degli istituti accademici per chi lotta e soffre; sotto sotto anche il cattedratico più severo è un sostenitore degli umili e dei miseri, e come poteva uno scrittore prolifico e popolare essere di qualche valore? Di solito, come nel caso di Ford Madox Ford o Trollope, questi autori rimangono inchiodati allo stereotipo di grafomani e soggetti ad una crudele semplificazione, ricordati per un unico libro e non sempre il migliore. La grossolanità cattedratica e lo snobismo professorale perseguitarono Simenon, che dopo tutto era un
so materiale, uno dei principali temi di Balzac, non interessava Simenon, che si soffermava sugli insuccessi, nonostante egli stesso fosse uno scrittore affermato e se ne vantasse. Incredibilmente, per un’artista prolifico come lui, Simenon era talvolta afflitto dal blocco dello scrittore, e - sebbene nel suo caso ciò sembrasse essere quasi un atteggiamento di maniera – la cosa lo turbava a tal punto da diventare un’occasione per tenere un diario al fine di ritrovare la sua vena ed il suo spirito di romanziere. Nel diario raccontava dei temi che lo ossessionavano: il denaro, la sua famiglia, la madre, l’ambiente domestico e gli altri scrittori.
Durante la stesura di questo diario, Henry Miller gli fece visita e lo lodò in modo eccessivo come persona che conduceva una vita invidiabile; men-
Il confronto con Albert Camus non è gratuito o ingiustificato, lo faceva lo stesso Simenon amareggiato ed inasprito provinciale bibliotecario universitario che scriveva della «merda nel castello con le imposte chiuse / che scrive le sue 500 parole / Trascorre il resto della giornata / dividendosi fra bagni, baldorie e belle ragazze», era la personificazione vivente, quasi intimidatoria, dei versi invidiosi di Larkin, con abbondanza di feste e belle donne, sebbene la sua produzione giornaliera nel castello superasse di molto le 5.000 battute. Simenon si considerava un novello Balzac, e riteneva che i suoi romanzi fossero una sorta di “Commedia Umana”del suo tempo. La sua unica incursione nella critica letteraria fu un lungo e penetrante saggio proprio su Balzac, che assunse la forma di una sorta di requisitoria contro la madre dello scrittore: “Un romanziere è un uomo al quale non piace sua madre o che non ha mai ricevuto affetto materno”. Queste parole rispecchiavano la sua esperienza e sono il fondamento di uno dei suoi libri di memorie,“Lettera a mia madre”. Fu il Balzac delle vite tristi e grame, che scriveva di una sofferenza che fino alla fine della sua carriera non fu così scontata. Il succes-
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tre Simenon lo accontentava interpretando il personaggio che Miller vedeva in lui, superò il blocco e pubblicò quell’insolito e prezioso diario con il titolo ”Quand j’etais vieux”(Quand’ero vecchio). I suoi molti romanzi polizieschi basati sul personaggio del commissario Jules Maigret rientrano in uno schema classico, vale a dire casi fitti ed intricati incentrati sulla lenta e prolungata scoperta della verità, con indizi sottili ed uno scaltro e persino amabile detective dalle consolidate abitudini. La penna di Simenon creò il pacioso, credibile e felicemente sposato Maigret nel 1930 e non si stancò mai di aggiungere a quella serie altri 76 volumi fino al 1972. Ma che dire delle altre sue opere? L’immensità della produzione di Simenon sfugge a qualsiasi semplificazione.
George Simenon, scrittore belga di lingua francese, è stato uno degli autori più prolifici del XX secolo. Maestro del giallo, morì nel 1989. Nella foto in alto a destra Albert Camus, romanziere, filosofo e drammaturgo francese. Premio Nobel per la letteratura nel 1957. In alto a sinistra Paul Theroux, 67 anni, scrittore americano
Come spiegare i suoi anni a Liegi quale cronista e scribacchino, per sua stessa ammissione, ed il suo ritirarsi nel dopo-guerra nel Connecticut rurale? Il viaggio nel Pacifico nel 1935 e l’anno di ritiro per viaggiare su una chiatta lungo i canali navigabili francesi? I romanzi dell’Arizona, i molti castelli, le auto classiche che collezionava, la passione per l’alta cucina e le belle donne? Ha scritto Patrick Marnham in ”L’uomo che non era Maigret”(libro ben documentato dal quale ho attinto per molte circostanze riportate nel mio pezzo), che «La maggior parte della gente lavora tutti i giorni e gode dei piaceri del sesso soltanto occasionalmente. Simenon faceva sesso tutti i giorni ed ogni tanto si lasciava andare ad una frenetica orgia di lavoro».Visse abbastanza per fare l’amore con Josephi-
Le sue cifre di vendita sono così eccessive che ne hanno fatto una vittima ne Baker e fissare con lo sguardo bramoso la scollatura di Brigitte Bardot, e che dire della sua capacità di scrivere un capitolo al giorno e terminare un ottimo romanzo nel giro di dieci, undici giorni per poi pubblicarne un altro alcuni mesi dopo? I detrattori di Simenon lo liquidano come una sorta di scribacchino compulsivo; per i suoi ammiratori invece, tra i quali il poco impressionabile Henry Miller, lo sprezzante, divino Gide, il generalmente riservato Thornton Wilder e l’abbastanza distante Jorge Amado, era uno scrittore consumato, ma per i suoi contemporanei non ebbe tempo. Non era tanto questione del suo complesso di superiorità, semplicemente non faceva caso a loro. Anche all’apice della sua amicizia con Henry Miller, non lesse le sue opere; lasciò intendere che fossero illeggibili, ma scaltramente analizzò l’uomo Miller nel suo Quand j’etais vieux. Nella rivista letteraria“Paris Review”, affermò di essersi ispirato a Gogol e Dostoevsky, ma non scrisse nulla di incisivo su di loro. Come molti altri scrittori odiava il fatto
che qualcuno potesse frugare nella sua vita e di solito mentiva, fornendo false piste o esagerando le sue esperienze. Nel 1932 fece un viaggio in Africa centrale; dichiarò di avervi trascorso un anno ma in realtà vi rimase soltanto alcuni mesi, anche se sfruttò al massimo quell’esperienza scrivendo tre romanzi ambientati in Africa. Quando promuoveva uno dei suoi libri indossava la maschera dello scrittore svelto e vivace, che tira boccate di fumo con la sua pipa celandosi dietro statistiche fenomenali. Le cifre che a lui si associano sono così eccessive che ne sembra una vittima: i numerosi romanzi, i 500 milioni di copie vendute, i 55 cambi d’indirizzo ed il suo spesso citato vantarsi di essere andato a letto con 10.000 donne (ma la sua seconda moglie ridimensionò questa cifra a“non più di 1.200”). Le statistiche sono fuorvianti nella misura in cui lo è il suo essere uomo da record, ma si tratta semplicemente della disarmante adorazione dell’eccezionale. Il Simenon che fa sfoggio e snocciola le sue cifre mi appare come un uomo mendace che fa i conti con se stesso, non tanto diverso dal gruppo modestamente dotato di abitanti dell’isola di Vanuatu che si definiscono Big Nambas (in contrapposizione agli Small Nambas, dalla misura dei cappucci di foglie arrotolate con cui i maschi della tribù erano soliti ricoprire i propri attributi maschili). Tuttavia, anche se danno adito a qualche sospetto, le cifre più improbabili associate a Simenon sono presumibilmente vere; le “circa”400 opere di narrativa che affermava di aver pubblicato sono verificabili: 117 romanzi seri, i libri del commissario Maigret, e quelli scritti sotto pseudonimo. Forse non è sorprendente il fatto che un tale bizzarro esempio di energia creativa non sia studiato seriamente (sebbene esista un Centro di Studi Georges Simenon presso l’Università di Liegi). A parte il mancato Premio Nobel, Simenon non si sentiva ignorato e disprezzato. Disse che «scrivere non è una professione, bensì una vocazione d’infelicità». I suoi personaggi – in linea con la sua nazionalità, di cui diceva che era come essere un uomo senza patria - sembrano spuntare fuori dal nulla, e per questo ogni ristampa, ogni riedizione di un suo romanzo meriterebbe una prefazione.
Sebbene affermasse che nessuno dei suoi libri fosse autobiografico, le sue opere sono una cronaca della sua vita; il suo giovane io appare in tutta la sua lividezza in Pedigree e L’asino rosso, sua madre incombe in L’étoile du Nord e Le chat, sua figlia ne La disparition d’Odile, il suo secondo matrimonio in Tre camere a Manhattan, il suo ménage a tre in In caso di disgrazia, i suoi viaggi nei suoi romanzi ambientati in paesi esteri come Colpo di luna, 45° all’ombra, Turista da banane, Il fondo della bottiglia, I fratelli Rico e molti altri, ed in tutti ritroviamo particolari delle sue fantasie ed ossessioni. Sentendo di essere un outsider, aveva il dono di riuscire a descrivere e ritrarre bene gli stranieri – l’africano senza nome de Il Lungo Uomo Nero, l’immigrato ne L’omino di Arcangelo, i Malou (in realtà i Malowski) ne Il destino dei Malou, e Kachoudas ne I fantasmi del cappellaio. Al contrario, ne La peste di Camus, è difficile capire se ci si trovi in un paese straniero perchè tutti i personaggi sono francesi, e, detto fra parentesi, il loro mondo è un mondo senza donne. «Se sai di avere una bella frase, tagliala», ebbe a dire Simenon. «Ogni volta che mi capita in uno dei miei romanzi, è da tagliare». Simenon esagera: talvolta lascia scivolare una bella frase, ma in genere la sua scrittura è così priva di struttura e consistenza da sembrare trasparente, e non richiede mai attenzione su se stessa, tanto da essere «come scritta da un bambino». L’amore per la lingua non è mai scontata; egli resta anti-lapidario; le uniche parole nuove che probabilmente si possono ritrovare in Simenon sono i termini tecnici occasionali, come il gergo medico ne L’ottavo giorno, le particolarità del governo francese ne Il Presidente, ed alcuni episodi che fanno da trait-d’union in altre opere. La commedia è assente, il senso dell’umorismo raro. Una visione tetra e desolata ed una serietà inflessibile ed implacabile hanno fatto guadagnare alle opere nelle quali il protagonista non è Maigret, l’appellativo di “romans durs”– romanzi duri – ma il termine “dur”ha molti significati; implica peso, serietà. continua a pagina 14
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speciale approfondimenti
segue da pagina 13 Non soltanto freddezza ed insensibilità, ma densità e complessità, una sorta di sfida e persino un certo tedio. (In alcuni contesti con questo termine si intende qualcuno che è la noia in persona). I personaggi di Simenon leggono i quotidiani - di solito cattive notizie, crimini e reati; tramano, mentono, ingannano, rubano, sudano, fanno sesso; spesso commettono omicidi ed altrettanto spesso si suicidano. Non leggono mai libri o fanno citazioni; non studiano (come lo stesso Simenon che, per dirla tutta, aveva imparato sgobbando e prestando attenzione ai dettagli). In genere si agitano e si affannano ai margini del mondo del lavoro, e soccombono precipitando in fondo, verso l’oblio. Per qualsiasi scrittore non è possibile essere prolifico senza possedere un rigido senso dell’ordine e senza essere guidati dalla disciplina. Uno dei più acuti biografi francesi di Simenon, Pierre Assouline,
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sonale sembrava completo. Si trasferiva da una casa fantastica all’altra – ed erano degli universi a sé che contenevano tutto, la sua famiglia e le sue amanti, la sua biblioteca, i suoi svaghi, i suoi appetiti, le sue pipe, le sue matite e le sue automobili di lusso. Viveva da gran signore, padrone del suo principato, dove tutto era ordinato in base ai suoi comandi. La completezza della vita di Simenon è impressionante: l’uomo che vive con la sua ex-moglie, con la moglie attuale e con la sua fedele domestica, dormendo con tutte e tre e trovando anche il tempo di essere infedele a tutte andando con le prostitute e continuando comunque a scrivere. Ecco ciò che eccitava Henry Miller. E d’altronde quale “cascamorto”
Henry Miller era affascinato dalla vita dissoluta di Simenon, almeno quanto lo era dai suoi libri considera l’orologio la sua metafora dominante. I suoi romanzi sono pieni di orologi, cronometri, osservazione del tempo che scorre. Simenon stesso calcolava i tempi di tutti i suoi movimenti, non soltanto dello scrivere; persino i pasti e le uscite erano cronometrati al minuto. E’ famoso per i suoi calendari che scandivano i tempi di scrittura dei suoi romanzi – solitamente otto o nove giorni di furiosa composizione, vale a dire un capitolo al giorno.
Anche la sua sessualità era calcolata. Simenon era nient’altro che un sensuale edonista, un epicureo. Di solito nei suoi libri un rapporto sessuale è descritto in poche righe. Ne L’ottavo giorno si legge: «Stettero a lungo quasi immobili, come certi insetti che si vedono accoppiare». Ne La main invece: «Mi tuffai letteralmente in lei, improvvisamente, violentemente, si leggeva la paura nei suoi occhi». Tutto qui. Ne L’asino rosso: «Lo guardò con stupore. Era già tutto finito. Non avrebbe neppure saputo dire com’era cominciato». Questi esempi eloquenti riecheggiano la vita amorosa di Simenon raccontata nelle sue Memorie Intime. Un giorno, mentre parlava con la sua segretaria inglese, Joyce Aitken, si avvicinò alla moglie, che chiese cosa volesse. “Te!” rispose lui. Quel pomeriggio restò semplicemente distesa sul tappeto piegandosi alle sue voglie. «Sbrigati. Ma non dovevi andartene, Aitken…». La Vedova Couderc è eccezionale nel descrivere molti momenti di seduzione che continuano per alcune pagine. Una frase ripetuta così spesso nei romanzi di Simenon, al punto da essere diventata quasi un sua firma, è: «Indossava un vestito, ma era ovvio che non avesse niente sotto il vestito». La Vedova Couderc contiene altresì una variazione sul tema di quella frase. A differenza della maggior parte dei suoi personaggi, Simenon era un uomo la cui autostima era notevole. Il suo mondo per-
non si sarebbe eccitato? Ma Miller conosceva soltanto una parte della storia. Un giorno (secondo Marnham), vedendo una giovane domestica fra le sue altre quattro spolverare un tavolino, Simenon d’impulso l’afferrò. La ragazza lo raccontò alla Signora Simenon che superò la situazione imbarazzante ridendone come qualcosa di tipico per Georges. Essendo stata testimone di quella stramberia, un’altra giovane domestica si chiese a voce alta: «Allora dobbiamo farci dare tutte una ripassatina?» Contrastano enormemente con l’apparente coerenza e la ricchezza della sua vita le inadeguatezze ed i fallimenti della vita dei suoi personaggi, che sono solitamente abbastanza forti da uccidere, ma di rado abbastanza ingegnosi ed intraprendenti da riuscire a sopravvivere, ma va detto che - avendo vissuto molti decenni scrivendo furiosamente e vivendo da gran signore - trascorse gli ultimi 23 anni della sua vita, dopo il suicidio dell’adorata figlia, in una sorta di solitario confino e di depressione in una casa angusta con la sua governante, seduto su sedie di plastica in quanto - fra le sue fobie - vi era quella di credere che i mobili in legno nascondessero insetti. Alcuni romanzi di Simenon, fra i quali Le train de Venise, La morte di Belle, Dimanche ed Il lungo uomo nero, sono tutti incentrati sul tema del malinteso e della contraddizione tra obiettivi contrastanti. La Vedova Couderc rientra in questa categoria, sebbene le sue descrizioni di violenza e sessualità siano insolitamente grafiche per Simenon, e si tratti di una delle sue poche opere in cui la protagonista è una donna forte. Anche le figure femminili di Betty e la narratrice di Novembre lo sono, ma queste donne tendono ad essere uni-dimensionali, subdole e astute, opportuniste, freddamente prati-
Il commissario Maigret fu protagonista di tanti film e serie televisive. Tra i suoi interpreti più famosi: Bruno Cremer (foto in alto), Rupert Davies (in alto a destra), Gino Cervi (di fianco). Henry Miller (foto in basso) fu tra i grandi ammiratori di Simenon che, poco inclini al sentimento e/o facili prede. Tati la vedova è una contadina che sa il fatto suo e possiede una certa capacità di giudizio. L’azione si svolge nel Bourbonnais, il centro smorto e inerte della Francia, in un piccolo villaggio lungo il canale che unisce Saint-Amand con Montluçon.
Nel primo paragrafo c’è uno strano gioco di luci. Un uomo cammina su una strada che è «tagliata in pendenza ogni 10 passi dall’ombra di un tronco d’albero» – Simenon è asciutto nello stile e stringato al massimo nella sua precisa descrizione. E’ mezzogiorno e siamo alla fine di maggio. L’uomo avanza a grandi passi attraverso queste ombre; poi la descrizione del personaggio: «un’ombra corta, ridicolmente tozza e tarchiata – la sua – scivolò di fronte a lui». Il sole sembra splendere da diverse angolazioni nello spazio di due frasi, creando questo gioco di om-
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bre probabilmente voluto, perchè Simenon odiava riscrivere. Il giovane sale sull’autobus fuori Saint-Amand, in direzione Montluçon. Non ha niente con sé, né impedimenti né chiara identità. «Niente bagagli, né pacchi, né bastone da passeggio, neppure una verga tagliata da una siepe. Le sua braccia oscillavano in libertà». Fra le donne che ritornano dal mercato è uno straniero, ma per i lettori di Simenon è così familiare da sembrare un vecchio amico: l’uomo nudo, un po’ smarrito, un po’ colpevole, che sta per prendere una decisione fatale.
La vedova Couderc lo squadra, scorgendo in lui qualcosa che nessun altro riesce a vedere. Successivamente capiamo il perché: somiglia in un certo qual modo al figlio, un fannullone buono a nulla ed ex-truffatore che si trova nella Legione Straniera. Vede che il passeggero di quell’autobus non sta andando da nessuna parte, che non ha nulla; lo capisce e lo vuole. In questo primo capitolo, mirabilmente costruito con un sottile crescendo di effetti, anche il giovane nota la donna e nel bel mezzo di quel gruppo di donne del mercato curiose e chiacchierone i due «si riconoscono». Perchè anche lui ha bisogno di lei. La donna, Tati, scende dall’autobus e subito dopo il giovane, Jean, fa lo stesso. Jean le chiede se può darle una mano a portare i suoi pacchi, un gesto che lei si aspetta da quando i loro occhi si sono incrociati ed incontrati, e va a casa con lei. Qualche giorno dopo, di domenica, dopo essere tornata dalla chiesa, lo sfiora con gentilezza, gli versa
spiegazzati e dall’ esistenza precaria fra i suoi litigiosi parenti acquisiti, vi è la vivacità animalesca di Tati, la furbizia e la perspicacia contadina, in particolar modo nei confronti della nipote. La giovane Félicie vive lì vicino; l’effetto che questa bella giovane ha su Jean turba Tati. I suoi sospetti sul passato del ragazzo sono subito confermati da una visita dei gendarmi: Jean è stato di recente liberato dopo aver scontato cinque anni di prigione e la precarietà di quel giovane non è poi così diversa dalla sua. Lo aveva preso per uno straniero – lo sembrava in tutto e per tutto, un vero outsider – ma in realtà proviene da una distinta famiglia di Montluçon ed è figlio di un facoltoso distillatore amante delle belle donne. Allontanato dalla sua famiglia, è «libero come l’aria, un uomo davvero senza legami». «Libero come un bambino», vive in un «magnifico presente rischiarato dal sole». «Non camminava come gli altri. Sembrava non andare da nessuna parte». Ma era finito in una trappola. Ancora non lo sapeva, ma per lui, come per Meursault ne Lo Straniero, non c’è futuro. Rivela a Tati di aver ucciso un uomo, quasi casualmente ed in parte per un incidente in cui era coinvolta una donna, sebbene lui non l’amasse. Lungi dall’essere seriamente toccato dall’omicidio, dal processo o dagli anni trascorsi in prigione, «si rendeva conto a malapena che era a lui che stava accadendo tutto ciò». L’omicidio lo aveva portato alla deriva, e dopo la prigione niente più gli importava: «non si impegnava in niente, niente che possedesse aveva peso o importanza». Nella sua mancanza di rimorso o di pietà somiglia allo spietato killer Frank Friedmaier de La neve era sporca, o a Popinga de L’uomo che guardava passare i treni, e, ovviamente, prefigura Meursault, persino nell’immagine del sole, perché in un punto cruciale del romanzo, quando si rende conto del suo desiderio nei confronti di Félicie, si legge: «In un sol colpo, il sole si era impossessato di lui. Un altro mondo li
Tutti i personaggi, compreso Maigret, si agitano e si affannano ai margini del mondo qualche bicchiere e finiscono a letto. Non è bella, ma è dura e tenace, persino intrepida e coraggiosa, quel tipo di contadina indistruttibile che si sentirebbe a suo agio nella tela di Van Gogh “I mangiatori di patate”. Non amata, malvestita, persino sudicia e sciatta, in un vecchio cappotto logoro e sdrucito che lasciava intravedere la sottana, e con un neo peloso sulla guancia, ha 45 anni e fra lei e Jean ci sono 25 anni di differenza. Lascia intendere al ragazzo che può aspettarsi del sesso occasionale, ma che di tanto in tanto lei deve anche andare a letto con il suocero, offensivo e scurrile, perchè vive nella sua casa di campagna. Celata dai vestiti
stava ingoiando». Va a letto con Félicie come era andato a letto con sua zia, ma senza dire una sola parola, consumando in fretta i rapporti fra le case di campagna. Continua a fare l’amore con Tati, ed è sempre duro e brusco, se non addirittura brutale: «La spogliava come si scuoia un coniglio». Ed in questo ménage, si palesa un’altra situazione familiare a Simenon, quella degli amanti separati da una barriera fisica, le passioni della vicinanza, della gelosia che sempre si ritrovano nella trama. Ne La Vedova Couderc, gli amanti nelle casette vicine sono separati dal canale, mentre in altri romanzi da una porta comunicante, una scala di ferro o ostacoli analoghi. Tutti questi romanzi terminano con un omicidio. Sullo sfondo campestre di questo conflitto – terre fertili, animali che pascolano, contadini litigiosi – Jean va lentamente in pezzi, consumato dall’auto-disgusto e dal
fatalismo. Come sempre accade in Simenon, la condizione di Jean è suggerita dal sottile crescendo di effetti piuttosto che da una vera e propria analisi. Sentendosi posseduto da quella disperata donna più grande di lui, che non lo lascerà andare, e dalla donna più giovane che è indifferente nei suoi confronti, Jean si rende conto che è in un vicolo cieco, che il crimine è inevitabile e «aspettò quello che sarebbe sicuramente accaduto». Il romanzo diventa esplicitamente esistenziale, sebbene Simenon avrebbe schernito e dileggiato anche il solo utilizzo della parola: «non esiste meditazione filosofica in narrativa». Jean è stato avviato dall’autore su una strada che porta dritto dritto alla rovina. Molti, se non proprio tutti i romanzi di Simenon che descrivono il verificarsi di un equivoco, implicano che non c’è via d’uscita, ma - anche se il personaggio ormai condannato non la vede - il lettore capisce che c’è. Ma Jean non può fare altro che andarsene o salire di nuovo su un autobus. Afferma con forza di essere indifferente al suo crimine, ma ne è danneggiato e stravolto, è oppresso dalla colpa, ne è posseduto e quando Tati lo implora di restare con lei e di amarla si sente impotente e non può far altro che colpirla e fracassarle il cranio. «Era già scritto nel destino!»
Nel descrivere quest’anima persa ed il suo atto disperato, Simenon stava riflettendo sul fatalismo della sua epoca. Scrisse quel libro in un periodo buio, sulla costa francese – il nome “Nieul sur Mer”viene indicato come luogo di composizione dell’opera, un posto vicino a La Rochelle. La Francia era in guerra, l’occupazione tedesca era alle porte, ed il Giorno del Giudizio sembrava imminente. In quella guerra incerta, soltanto la violenza o un atto di passione davano significato al passare del tempo. Come Meursault, Jean è avviato verso una sicura distruzione – ne ha consapevolezza per tutto l’ultimo terzo del romanzo – ed è autore del suo destino. Si era imbattuto inaspettatamente in un idillio senza rendersi conto di trovarsi in un Eden che era anche una trappola, un’insidia nascosta, la sua corruzione che si accompagnava alla sua costante perdita di innocenza. Rileggendo il romanzo, ci si accorge che (come accade nella maggior parte dei libri di Simenon) Jean è condannato sin dal primo paragrafo, sin da quando cammina attraverso le ombre. E possiamo facilmente comprendere perché Simenon fosse così infuriato per il fatto che Camus avesse vinto la lotteria svedese del Premio Nobel; perché romanzo dopo romanzo, Simenon drammatizzava lo stesso tipo di dilemma, la vita che offre scelte limitate (ma sempre con sottili differenze di trama, di tono, di ambientazione e di effetti), l’assumersi dei rischi da parte di un uomo che non ha nulla da perdere, la sua vanità, la sua presunzione, la sua volontaria autodistruzione. In precedenza, Jean desiderava impegnarsi, anelando che il destino intervenisse, ma quando ci medita sopra (ed alla fine ottiene ciò che desidera), Simenon scrive: «Voleva qualcosa di finale e definitivo, qualcosa che non offrisse alcuna prospettiva di rifugio, di ritiro». L’autore sembra parlare a se stesso, mentre manda un altro dei suoi personaggi verso la morte in un mondo senza lieto fine. Copyright © Paul Theroux, 2008
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economia
Mentre produzione industriale e esportazioni salgono, anche Confindustria conferma che si viaggia verso la crescita zero
C’era una volta la domanda interna di Giuliano Cazzola rutte notizie arrivano dal Centro Studi della Confindustria: nonostante un piccolo recupero derivante dall’aumento della produzione industriale la prospettiva rimane, per l’anno in corso, quella di una crescita zero. Per la precisione si stima un aumento del Pil dello 0,1 per cento nel 2008. Perché, mentre crescono nel primo trimestre dell’anno la produzione industriale (+1,5 per cento), l’export verso i Paesi extra-Ue (+17,7) e verso l’Eurozona (+6,4), la domanda interna cala dello 0,5 per cento.
B
E l’annuncio cade come un presagio sinistro mentre sono in atto i preparativi per la formazione di un governo che ha sicuramente davanti a sé la possibilità di lavorare – avvalendosi di una solida maggioranza nelle due Camere – per un’ intera legislatura, ma che non può permettersi di rinviare talune misure urgenti per favorire un’inversione del ciclo economico. Certo, miracoli non se ne possono fare. Vi sono condizionamenti internazionali molto forti: il costo del greggio è arrivato a livelli non solo impensabili, ma anche difficilmente sostenibili; l’inflazione è tornata a preoccupare; l’euro si rafforza ogni giorno di più rispetto al dollaro e crea problemi alla competitività delle nostre esportazioni (il cui andamento rimane uno dei tratti meno negativi della fase che il paese attraversa).
Ciò che induce maggiore preoccupazione, però, è il senso di impotenza che pervade le istituzioni e le forze politiche e sociali nella terra di nessuno sospesa tra due legislature: quella abortita e quella non ancora nata. Dai programmi e dalla campagna elettorale non vengono dei suggerimenti utili e immediatamente operativi. Le indicazioni dei partiti si sono concentrate piuttosto sulle promesse (corredate di precisazioni molto vaghe e incerte con riferimento alla quantificazione e alla reperibilità delle risorse occorrenti), invece che sulle soluzioni necessarie. Paradossalmente il solo che ha saputo indicare una strategia (sia pure di medio periodo e assai discutibile) è stato Giulio Tremonti attraverso il suo celebre saggio, La paura e la speranza. E non solo. Quello di Tremonti è un sostan-
Il declino in atto si supera colmando il gap di produttività verso i partner europei. E il primo passo è la riforma dei contratti
ziale ripiegamento – impraticabile perché avrebbe bisogno di una concertazione almeno tra i Paesi Ue – alla ricerca di economie nazionali maggiormente al riparo dagli effetti della globalizzazione. La linea di Tremonti, però, costituisce la prova provata di un antico detto: anche un orologio rotto segna, per due volte al giorno, l’ora esatta. Che cosa fare, allora, per rilanciare la crescita o almeno per contenere il declino? chiaro: Parliamoci per quanto si cerchi di raschiare il fondo del barile, non sarà facile reperire – nel breve periodo – risorse adeguate allo scopo di sostenere la domanda interna (è la sua stagnazione il principale problema da affrontare) con provvedimenti di natura fiscale o con trasferimenti monetari. Qualche misura potrà
essere adottata. Se si completerà l’abolizione dell’Ici con interventi compensativi a favore dei Comuni, resteranno infatti disponibilità sufficienti ad agire sulla detassazione dello straordinario e sulle voci flessibili della retribuzione.
Occorre però colmare al più presto il gap di produttività nei confronti con i Paesi partner. In caso contrario non ci sarà spazio per migliorare i redditi (e rilanciare i consumi interni ) agendo pure dal lato delle retribuzioni. Di qui nasce l’importanza delle riforma della struttura della contrattazione, sollecitata anche da Emma Marcegaglia, nel suo primo discorso da presidente di Confindustria. Nel breve periodo, tuttavia, non sarebbero in vista le inversioni di rotta invece indispensabili. Ecco perché occorrerebbe volare alto realizzando un’operazione politica di grande spessore destinata ad aprire una nuova prospettiva per il Paese. Nel 1993 il protocollo sulla politica dei redditi ebbe questa valenza (al pari dell’intesa del 1992 raggiunta dalle parti sociali con il primo governo Amato che tanto contribuì a superare la crisi finanziaria seguita all’uscita dallo Sme). Si tratta di creare un clima politico orientato al cambiamento e alle riforme. Quello di tentare un meganegoziato con le parti sociali in vista dello sviluppo dovrebbe essere, dunque, la carta che il governo potrebbe giocare per prima.
economia
25 aprile 2008 • pagina 17
Svolta per la“provincia ribelle”nel dialogo con Pechino: c’è da rafforzare un business da 125 miliardi di dollari
Taiwan,incrocio degli affari tra Cina e Usa d i a r i o
di Pierre Chiartano
g i o r n o
Tremonti conferma l’abolizione dell’Ici
ina e Taiwan si annusano. Dopo circa sessant’anni l’incontro c’è stato, il 12 aprile, fra il presidente della Repubblica popolare, Hu Jintao, e il vicepresidente eletto della “provincia ribelle”, Vincent Siew. Tutto all’insegna del pragmatismo e della cautela politica, ma il mercato azionario di Taiwan è felice del risultato elettorale del 22 marzo, che ha visto la vittoria del Kuomintang (Kmt) e del suo candidato alla presidenza Ma Ying-jeou. Dopo gli anni della presidenza di Chen Shu Bian del Democratic progressive party (Dpp), era giunto il momento per l’economia dell’antica isola di Formosa di un periodo di maggiore stabilità nei rapporti con Pechino: troppo stress e politica “indipendentista”nuocevano alla business community.
C
La Cina è il più grande mercato per i prodotti «made in Taiwan» e molte società e tycoon di Taipei hanno investito al di là dello stretto i loro soldi. Tanto per dare qualche cifra, nel 2007, l’interscambio commerciale fra le due Cine ammontava a 125 miliardi di dollari, con un incremento del 15,4 per cento rispetto all’anno precedente. Circa metà degli investimenti esteri sono calamitati dal Chung Quo (Impero di Mezzo) e Taipei si trova nella top ten, essendo il secondo miglior partner nelle importazioni. A Washington si tira un respiro di sollievo: l’economia taiwanese fa vedere la sua splendida forma, mostrandosi pronta a non importare inflazione e disoccupazione dagli Usa. Il Pil, però, ha subito una leggera flessione dal 2007, scendendo da 5,5 a 4,3 per cento e questo ha alimento qualche ansia. Le proiezioni lo stabilizzano al 3,8 fino al 2012, con un indice dei prezzi al consumo che, dall’incremento del 2,3 per cento – previsto per il 2008 – dovrebbe scendere all’1,2 nel 2012. Naturalmente con i conti pubblici a posto. Queste le previsioni degli esperti, tra i quali l’Economist intelligence unit. Le sfide continue di Chen a Pechino – non ultimo il tentativo d’ingresso all’Onu con annesso referendum, che tante palpitazioni aveva provocato nell’isola e dalle parti di Foggy Bottom – sembrano essere archiviate da una più “matura” politica di coinvolgimento proposta dal nuovo presidente Ma. Anche se ciò non significa assolutamente che a Taipei sia calato il desiderio di essere trattati come uno Stato sovrano. In un recente sondaggio il 71 per cento dei suoi abitanti si sono definiti taiwanesi e solo il 5 per cento, cinesi.
d e l
Totale eliminazione dell’Ici dalla prima casa, senza oneri per i Comuni. Così, Pdl e Lega Nord si sono impegnati a confermare quanto scritto nel programma elettorale, al termine dell’incontro svoltosi ieri presso la sede di Forza Italia, tra il Presidente dell’Anci, Leonardo Domenici e una rappresentanza della neomaggioranza tra cui Giulio Tremonti, Giovanni Collino, Massimo Garavaglia. L’abolizione dell’Ici a cui sta lavorando il futuro ministro dell’Economia Giulio Tremonti non riguarderà ville e case di lusso.
Il Fmi invita l’Italia a liberalizzare «Azioni rapide» dal punto di vista fiscale, per «salvaguardare» i livelli raggiunti nel 2007, oltre a riforme strutturali - in primo luogo le liberalizzazioni - per rilanciare l’economia. E’ il suggerimento del Fondo monetario internazionale al nuovo governo italiano. Allo scopo di «garantire ulteriori progressi nel consolidamento di bilancio». A dirlo è stato Masood Ahmed, responsabile per le relazioni esterne dell’Fmi, rispondendo alle domande dei giornalisti nel consueto briefing bimensile. Tra «i bisogni urgenti dell’Italia», il dirigente ha citato «la salvaguardia dei buoni progressi realizzati nel 2007 sul fronte fiscale», con la diminuzione del deficit.
Ue, per BusinessEurope la crescita a +1,7 L’organizzazione imprenditoriale europea ha abbassato ieri le previsioni di crescita della zona Euro per il 2008 portando il tasso atteso dal 2,1 per cento all’1,7, ma dichiarandosi comunque «ottimista» per l’anno in corso. Una prognosi che è comunque bel al di sopra delle stime del Fondo monetario internazionale. Per il 2009 BusinessEurope punta su una crescita dell’1,9 mentre il Fmi ritiene che il Pil della zona Euro aumenterà solo dell’1,2 per cento.
In forte aumento l’utile di Mps Ma Taipei è anche il miglior prodotto dell’advising americano sulla econ-democracy bulding. Da Paese in via di sviluppo è diventata la ventunesima economia mondiale per prodotto interno lordo ed è l’incrocio privilegiato della catena delle forniture componentistiche sulla rete mondiale.
Per Washington Taipei è tra i principali fornitori per l’information tecnology ma soprattutto un veicolo per controllare gli equilibri nel Far East Società come Asustek computer, Quanta, Foxconn e Taiwan semiconductor manufacturing sono industrie globali, leader nel mercato e fornitrici strategiche di giganti Usa dell’informatica, come Apple – Foxconn e Quanta producono milioni di iPhone – Dell, HewlettPackard e Qualcomm. I guadagni delle prime 25 società che producono tecnologia superano i 122 miliardi di dollari e sui prodotti Ict, nel 2006, sono stati incamerati più di 30 miliardi di dollari. Le industrie Ict sono anche leader
mondiali dei prodotti wireless e modem dsl. Dell e Hp, da sole, importano componenti informatiche per decine di miliardi. Anche nella logistica Taiwan fa la voce grossa. Il porto di Kaohsiung gestisce più container di qualsiasi altro scalo giapponese o sudcoreano. Grandezze per dimostrare una realtà che assomiglia tanto a un’idra a due teste: una rivolta a Pechino, l’altra a Washington. Potrebbe diventare il veicolo di più stretti legami fra Occidente e Cina, oppure la “pietra dello scandalo” per uno showdown che avrebbe come premio, per Pechino, il controllo del Mar cinese meridionale e, in prospettiva, un duro colpo al controllo americano delle rotte del Pacifico, garantite oggi dalla Settima flotta della Navy con le basi giapponesi e di Guam.
I più di mille vettori missilistici del People liberation army, puntati sull’isola non sono un elemento di stabilità, mentre gli Usa sono ancora alla ricerca di un nuovo equilibrio nel triangolo dei rapporti PechinoTaipei-Washington, messi in crisi dalla passata politica “indipendentista”. Oggi che i venti di recessione colpiscono gli Stati Uniti, vedremo se l’allievo “prediletto”, la “silicon island” asiatica, saprà fare meglio della “Land of freedom”.
Utile in crescita del 58 per cento rispetto al 2006, pari a 1,4 miliardi di euro. E’ il dato di bilancio di Banca Monte dei Paschi di Siena, approvato ieri dall’assemblea degli azionisti, che il presidente Giuseppe Mussari ha definito un «risultato eccellente». La Consob ha poi autorizzato la pubblicazione del prospetto informativo sull’offerta pubblica in opzione di azioni ordinarie del Monte Paschi di Siena nell’ambito dell’aumento di capitale di massimi 5 miliardi di euro, deliberato dal cda lo scorso 20 marzo.
Marchionne: «Obiettivi 2008 raggiungibili» Gli obiettivi per il 2008 del gruppo Fiat «sono raggiungibili facilmente». Sono le dichiarazioni dell’ad del gruppo Sergio Marchionne nel corso della conference call con gli analisti sui risultati trimestrali. L’ad ha quindi spiegato che il gruppo conta di raggiungere quota 2,4 milioni di vendite nel 2008. Sul fronte dei conti il gruppo Fiat ha chiuso il primo trimestre con un indebitamento netto industriale di 1,1 miliardi di euro, determinato da una crescita stagionale del capitale di funzionamento per 1,3 miliardi di euro, acquisizioni per 0,1 miliardi di euro e acquisti di azioni proprie per 0,2 miliardi di euro. La liquidità rimane forte a 4,8 miliardi di euro. Marchionne ha poi confermato l’interesse per il costruttore serbo Zastava, «i cui impianti rivestono per noi un interesse strategico».
Nuovo presidente dei giovani di Confindustria Federica Guidi è stata eletta nuovo presidente dei Giovani di Confindustria dal consiglio nazionale dell’organizzazione. Guidi, manager della Ducati Energia di Bologna, ha raccolto 131 voti a favore, mentre allo sfidante Cleto Sagripanti sono andati 86 voti.
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cultura Desta scalpore il libro della scrittrice francese Corinne Maier No Kid. Quaranta ragioni per non avere figli (in alto la copertina), promosso all’estero dalla critica e adottato come manifesto dal movimento di liberazione dai figli child-free
Il successo del libro della Maier e la cultura antinatalista, i tragici segni dell’imbarbarimento moderno
Il rumore degli innocenti di Guglielmo Piombini l consumo di contraccettivi a livello industriale e l’aborto di massa danno la misura di quanto la società moderna si sia scristianizzata e allontanata dagli insegnamenti biblici. Nel libro della Genesi la prima cosa che Dio dice all’uomo e alla donna è di avere figli: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra». La procreazione e la fertilità umana sono così centrali nella narrazione biblica, da formare le basi del patto di Dio con Israele: «La mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli, e ti renderò fecondo, molto fecondo», dice Dio ad Abramo. In generale l’Antico Testamento vede la mancanza di figli come la peggiore delle disgrazie e condanna il sesso non procreativo, come nell’episodio di Onan. Anche Gesù, nel Nuovo Testamento, dà prova di un atteggiamento assai raro nel mondo antico, elogiando lo spirito meraviglioso dei bambini: «Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”. E prendendoli fra le braccia e imponendo loro le mani li benediceva».
I
Mentre la Bibbia non fa che celebrare la discendenza numerosa, la mentalità prevalente nell’attuale Occidente secolarizzato vede nei figli, più che una benedizione, un peso insopportabile. Questa visione ha trovato una compiuta espressione nel libro della scrittrice francese Corinne Maier, No Kid. Quaranta ragioni per non avere figli (p. 148, ¤ 13,50), appena pubblicato dalla casa editrice Bompiani sull’onda del successo di critica ricevu-
to all’estero, dove è stato adottato come manifesto dal child-free, il movimento di liberazione dai figli.
Gli argomenti contro i bambini della Maier, che oltretutto è madre “degenere” di due figli, rappresentano in realtà un perfetto distillato di quella “cultura della morte” infarcita di edonismo, materialismo e mathusianesimo che sta conducendo la civiltà europea al congedo dalla storia. La popolarità del libro spiega infatti le ragioni culturali che stanno alla base della grave decadenza demografica europea. Agli inizi del ’900 l’Europa costituiva circa il 30 per cento della popolazione mondiale, ma alla metà del XXI seco-
Mentre nella Bibbia si celebra la discendenza numerosa, l’Occidente secolarizzato vede nei figli un peso insopportabile lo si ridurrà a un misero 7 per cento. Le proiezioni sull’Europa dei prossimi decenni prospettano un futuro preoccupante, nel quale pochissimi giovani in età produttiva e riproduttiva dovranno mantenere un numero esorbitante di anziani, e contemporaneamente vedersela con masse crescenti e bellicose di immigrati musulmani. Anche coloro che non vedono la denatalità come un problema morale dovrebbero considerarla un’emergenza sociale.Tuttavia, invece di correre ai ripari, i responsabili culturali della catastrofe che si va materializzando continuano a predicare e diffondere l’ideologia antinatalista. Dato che l’Italia detiene
quasi il record mondiale di denatalità, la pubblicazione di un libro in cui si esortano le donne italiane a non fare figli appare un’operazione di cattivo gusto. In realtà vi sono molte analogie tra la mentalità antinatalista di oggi e quella dell’epoca precristiana. Per un bambino essere concepito nella Grecia o nella Roma classica era estremamente pericoloso, proprio come lo è oggi nell’Occidente secolarizzato, dove l’aborto è diventato la prima causa di morte. In tutte le società antiche, infatti, l’abbandono dei neonati, l’infanticidio, l’aborto e perfino i sacrifici rituali di bambini (ad esempio tra i cananei e i cartaginesi) erano largamente diffusi. A causa di queste pratiche, le famiglie numerose erano molto rare nella società greco-romana. Spesso le prime vittime della cultura antinatalista erano le bambine. Nell’antica Grecia era un fatto raro, persino tra le famiglie più ricche, allevare più di una figlia.
L’orientamento fortemente favorevole ai figli degli ebrei e dei cristiani, invece, li distingueva nettamente dalle altre popolazioni antiche. Non a caso lo storico romano Tacito deprecava gli ebrei per la loro singolare opposizione all’infanticidio: «Tra di loro è un crimine uccidere un neonato, ed è strana la passione con cui propagano la loro razza». I cristiani non solo avevano famiglie più numerose, ma spesso adottavano i bambini abbandonati. L’avvento di Gesù Cristo segnò dunque “il trionfo degli innocenti”, cioè dei bambini da sempre disprezzati, maltrattati, respinti o eliminati. Al contrario, il consenso di cui godono oggi le idee di Corinne Maier danno il segno dell’imbarbarimento in cui è precipitato l’Occidente moderno che ha voltato le spalle alla propria tradizione morale e religiosa.
cultura
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Raimondo di Sangro, Gran Maestro della Massoneria, tra scienza, mistero e «strani fenomeni di magia»
Il piccolo principe dell’alchimia settecentesca di Adriana Dragoni ome esperto militare, ebbe gli elogi di Luigi XV e del Maresciallo di Sassonia. Con il suo elevatissimo ingegno e la sua cultura, acquistò la stima del papa Benedetto XIV e del re Carlo di Borbone, che lo onorò del Sacro Ordine di San Gennaro e per suo consiglio affidò la cattedra di Economia (la prima al mondo) all’abate Antonio Genovesi.
C
Fu Gran Maestro della Massoneria ma abiurò prima che essa diventasse politicante e giacobina e la disputa tra clericali e anticlericali scadesse a litigio tra negozianti troppo vicini di bottega. Ebbe numerosi riconoscimenti accademici e stupì i contemporanei con le sue invenzioni: la macchina tipografica a più colori, la carrozza anfibia, nuove materie, fuochi pirotecnici colorati (a lui si devono i razzi con il fischio) e finanche il lume eterno. Eppure Raimondo di Sangro principe di Sansevero (1710-1771) ha fama di diabolico alchimista e, secondo la superstizione popolare, gli scheletri conservati nella cappella di famiglia, che mostrano il sistema circolatorio, vasi e capillari, meravigliosamente incor-
rotti, apparterrebbero a schiavi uccisi, all’uopo, da Raimondo. Ora i discendenti del principe, che ebbe nove figli, desiderando che il loro avo sia liberato dalla superstizione e rivalutato come scienziato, hanno affidato a studiosi stranieri la spiegazione di questo strano fenomeno. E mentre si annunciano grandi manifestazioni per il 2010, trecentesimo anniversario della sua nascita, si sta preparando per il Teatro Festival Italia la rappresentazione, diretta dal maestro Roberto De Simone,
d’Avalos, famosa per la sua bellezza e la sua ars amatoria. Lì vicino, il sangue raggrumato di santa Patrizia, che ritorna vivo sciogliendosi come quello di san Gennaro, è conservato nel monastero di san Gregorio Armeno. E più in là c’è la Pietra Santa, insanguinata, e una chiesa grandiosa che ne prende il nome. Del resto la Napoli più antica è legata a storie affascinanti di magie, luoghi che fanno vibrare l’atmosfera e rendono esplicita quella affermazione di Lèvi Strauss (nel Pensiero selvaggio), secondo cui i miti e
(1696/1787) e Giambattista Vico (1668/1744), che abitava là vicino. Da un passaggio segreto che non è stato ritrovato, il principe, entrava nel suo laboratorio e attraverso un ponticello accedeva alla cappella di famiglia, uno straordinario gioiello d’arte, da lui ristrutturato. Lì sono custodite le statue delle virtù, quelle che un massone doveva possedere per intraprendere il cammino verso la
Stupì i contemporanei inventando la carrozza anfibia, ma ebbe la fama di mago e di assassino. Ora i discendenti vogliono sia «liberato dalla superstizione e rivalutato come scienziato» del Tempo felice, una cantata composta per le nozze del principe da Giovanni Battista Pergolesi. Ma mistero e sangue sembrano essere protagonisti dei luoghi in cui visse Raimondo di Sangro. Nel suo palazzo, a piazza san Domenico Maggiore, si dice che di notte vaghi il fantasma insanguinato di una giovane donna assassinata mentre era a letto con l’amante. La pianse, in versi, Torquato Tasso, suo vicino di casa. Era il 1590. Lei era Maria
le favole non sono fole ma una «scienza del concreto». Ora, nel palazzo Sansevero, vi è un’antica liuteria di mandolini che, dopo un lungo periodo di crisi dovuto all’inflazione delle chitarre elettriche, è carica di ordinativi, soprattutto dal Giappone. E, al secondo piano, c’è lo studio di Lello Esposito, l’artista noto per i suoi pulcinella.
Ma al tempo del principe giravano per sant’Alfonso
queste strade de’ Liguori
conoscenza, e le statue dei santi, membri della famiglia, Oderisio e Rosalia (ma anche san Tommaso vi apparteneva), e le simboliche statue della Pudicizia e del Disinganno. La Verità, visibile attraverso un velo, è rappresentata nel famoso Cristo velato, opera di Giuseppe Sammartino (1720-1793), utilizzata ora in una pubblicità dall’Assessorato alla cultura e al turismo della Regione Campania
col simbolico slogan «munnezza a chi?». Di recente, c’è stata un’esposizione bibliografica dedicata a Raimondo di Sangro, «Libri antichi e rari per il principe di Sansevero», nella quale sono state esposte nuove edizioni, ora in commercio, di alcuni suoi scritti tra cui la Lettera apologetica (1750), che in contrasto con l’ortodossia cattolica, fu messa all’Indice, ma a seguito di una Supplica che il principe indirizzò a Benedetto XIV, fu liberata a proscriptione.
I volumi dei suoi scritti sono stati ristampati dalla casa editrice Alòs (081 5518788/081 5422329). Napoli è una città dove «si pensa di più e meglio che altrove», diceva il principe che lì era nato e sempre vissuto. E insieme a lui, filosofi meridionali come Giordano Bruno e Telesio, espressioni dell’Antiquissima italorum sapientia, e Giambattista Della Porta con la sua associazione dei «Secreti» o gli Investiganti napoletani seicenteschi, alla ricerca della verità «al di là delle pareti di carta» stanno a dimostrarlo.
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personaggi Mario Monicelli a tutto campo: dal cinema alla politica
«I giovani registi non sanno più raccontare le storie» di Stefano Coletta difficile non restare colpiti da una conversazione con Mario Monicelli. Con lui si sa da dove si comincia, ma non quale percorso si faccia per arrivare da tutt’altra parte. E poi perché ha un modo di affrontare gli argomenti feroce e leggero al tempo stesso, sembra che le frasi servano a divertire chi le ascolta, pronunciate come sono con quella bonomia caustica e cinica propria della toscanità di uno dei più intelligenti uomini di cinema italiani. E invece hanno una funzione più seria. Quella di richiamare all’intransigenza, vogliamo definirla morale? di chi continua a preoccuparsi della cultura di questo paese, un paese in cui essa è considerata una spesa più che un investimento. «La domanda che mi fanno tutti è proprio questa - esordisce Mario sorridendo - perché non fate più un buon cinema? E lo chiedono a me? Ma perché proprio io dovrei farlo? Qualcuno, per spiegare l’assenza di un cinema interessante, dice: perché la società non è più quella di una volta. Già, come se fosse una buona ragione… Un cineasta potrebbe comunque raccontare storie che siano, come dire, penetran-
È
ti, e magari qualcuno lo fa. Ma in generale sono storie che non incidono, che ti dimentichi quasi subito. E poi ci sono registi che la raccontano questa società, che sanno come si muove la gente, come parla, come cammina, come litiga, ma è come se non bastasse, come se si fermassero in superficie, e questo naturalmente non basta». Mario ci pensa su qualche secondo e poi prosegue: «E che storie si raccontano? Le faccende sui call-center? O i giovani
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La crisi del cinema è iniziata negli anni Settanta, con la generazione che aveva fatto il Sessantotto, sul quale aveva ragione De Gaulle
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che non si possono sposare perché c’è la crisi economica, e non possono fare figli e restano a vivere con i genitori? Ma che sciocchezze sono? Ma chi se ne frega! Restiamo chiusi, abbarbicati al nostro bunker, il bunker occidentale!». Monicelli non ha peli sulla lingua. E non risparmia nessuno, giovani e meno giovani. «Chissà, forse chi scrive cinema non possiede
più la cultura di una volta. Lo spessore culturale si è assottigliato. Allora chi scriveva veniva dal fascismo, la scuola formava davvero, l’insegnamento era una cosa seria. Poi c’è stata la guerra. insomma erano eventi drammatici!».
«Era come se i personaggi, una volta scritti, vivessero di vita propria, erano indipendenti dagli autori. D’altra parte non si capisce bene cosa fare perché come diceva De Filippo: “Non è che si può perdere ogni volta una guerra per far fare un film a Rossellini!”». Però, mi azzardo ad aggiungere, esiste ancora una forma di conflitto sociale… «Certo che esiste ancora, ci mancherebbe! Ma non esce, non si riesce a esprimere - e qui il discorso abbandona l’angusto orizzonte del cinema facendosi più vasto - Per un paio di generazioni abbiamo creduto che le cose fossero rimaste le stesse delle generazioni precedenti». Cioè? «Cioè non abbiamo capito fino a che punto la caduta dell’impero sovietico abbia determinato un cambiamento epocale. Abbiamo creduto ancora che ci fosse il tradizionale conflitto tra le classi… la sinistra ha cercato, con la svolta di Occhetto, di mimetizzare, di trasformare un comunismo che
personaggi non esisteva più. Ha cercato di essere accettata confondendo le acque, mentre il comunismo era scomparso vergognosamente per moto interno. Invece tutto è cambiato. La classe operaia vota per la Lega, ad esempio. Perché la sinistra non ha capito quello che stava succedendo? Forse perché ancora la descriveva come se si fosse prima dell’Ottantanove? Nella lotta che è durata per tutto il secolo scorso tra capitale e lavoro ha vinto il capitale. Ma questo non vuol dire che non esista più il conflitto. Vuol dire che i conflitti cambiano, ma per coglierli bisogna essere diversi, mentre l’impressione che ho è che i registi, anche i più giovani non sappiano, non colgano le novità… restino in sostanza dei registi borghesi».
«La crisi viene da lontano, dalla cultura, anzi, dal deficit di cultura, perché tutto quello che si impara a scuola sembra superficiale, i rapporto tra insegnanti e allievi si sono rovinati. Pare che l’insegnante voglia arrivare alla fine della mattinata al più presto, qualunque cosa accada vivendo in uno stato di minoranza, di soggezione dagli studenti. Non si insegna più il rispetto per il lavoro, per l’intelligenza. E tutto questo, ripeto, viene da molto lontano, comincia dal Sessantotto. È stata quella la generazione che ha messo in crisi i propri genitori, ha considerati dei vecchi inutili quelli che venivano dalla guerra, avevano sconfitto la dittatura, ricostruito l’Italia, restaurato la libertà, creato il benessere… Nel Sessantotto quella generazione ha detto basta, si esce per le strade, si occupano le scuole e le università, si sputa in faccia ai professori chiedendo il voto politico, una vera aberrazione. Pasolini l’aveva capito bene, quelli che protestavano erano solo giovani bor-
ghesi, la vera classe proletaria era costituita dai poliziotti, e quei borghesi sarebbero divenuti, corrotti, la futura classe dirigente di questo paese: bella fine che hanno fatto! Allora credevano di fare la rivoluzione perché uscivano di casa, viaggiavano avendo le spalle coperte dalla sicurezza che dava loro la ricchezza dei genitori. Anche oggi c’è un sacco di gente che viaggia. Prende una barca dalla Libia e che fa? O annega durante la traversata, o, quando arriva, se non trova lavoro si mette a fare il delinquente o il disperato e vive dentro baracche fatiscenti». «L’unica cosa positiva ha riguardato le donne, che finalmente sono state più libere di
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E invece che è successo? Niente! Che delusione!».
«La crisi del cinema è cominciata proprio negli anni settanta perché quel cinema era fatto dalla generazione che veniva dal Sessantotto, e che descriveva il conflitto in maniera vecchia, con slogan superficiali, per cui aveva ragione De Gaulle quando diceva, rivolto agli studenti, avanti ragazzi che la ricreazione è finita. Negli anni ottanta, gli anni di Craxi, la generazione al potere era appunto quella del sessantotto, quella degli ex-studenti violenti, dileggiatori di chi insegnava e faceva cultura… quella era la generazione che è andata al governo! Insomma, per essere chiari: quella del sessantotto non è stata una rivolta per cambiare il mondo, ma solo per essere più indipendenti e andarsene per il mondo liberi… Che rivolta era? Che cosa si è ottenuto? Avere le femmine che uscivano di casa? Tutto qui? Tutte rivendicazioni
Nella lotta del secolo scorso tra capitale e lavoro ha vinto il capitale. Ma questo non vuol dire che non esista più il conflitto
lavorare, di non restare prigioniere in casa e, nei casi peggiori, di imitare i comportamenti maschili, ma per il resto… E il cinema? Che ha fatto il cinema? Ha scoperto il sesso. E da allora siamo travolti da immagini turpi che nascono proprio dal sessantotto. Abbiamo creduto che la rivoluzione sessuale fosse la gran rivoluzione di cui avevamo bisogno, ti puoi immaginare che razza di rivoluzione… per cui neanche la liberazione delle donne è servita a molto. Slogan stupidi come vietato vietare o il sesso è mio, sembrava che il mondo dovesse esplodere grazie alle donne.
25 aprile 2008 • pagina 21
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borghesi! Te l’ho detto: tutte all’interno del bunker occidentale!». «Io mi considero un marxista e perciò mi interessano i rapporti economici nei quali l’uomo vive. E credo che in tutti i film che ho fatto fosse questa la cosa fondamentale. Degli altri conflitti, quelli per così dire esistenziali, per quanto importanti siano, a me francamente me ne importa poco. Da buon marxista sono un po’ sprezzante. Voglio dire: siccome le cose vanno bene, allora puoi pensare ai conflitti esistenziali. Solo che dopo qualche giorno i film che parlano di queste cose spariscono.
Certo, puoi fare un film carino, confezionato bene, divertente, ha successo, incassa bene nelle sale, bella gente, belle cose… e poi si perde, magari resta solo l’attrice o l’attore che va di moda in quel momento. Mi sembra che manchi l’intransigenza morale perché chi fa questi film non ce l’ha pur credendo d’averla. Faccio un esempio. In Nigeria ci sono dei poveracci che fanno la guerra contro i colossi del petrolio. Allora sequestrano qualche borghese occidentale che va a fare un safari, e che magari ci lascia anche la pelle. Questo succede nel mondo, no? E chi se ne importa se il sequestrato ci lascia la pelle! Se si racconta qualcosa del genere, dalla parte di quei disperati, voglio dire, allora, forse, un pensiero forte esce fuori, lo fa lo spettatore. Però bisogna aver il coraggio di dirle certe cose in un certo modo, avere il coraggio di essere sgradevoli. Se hai coscienza del mondo queste cose le dici. Mentre invece continuiamo ad affrontare solo faccende in funzione dell’occidente, in questo occidente che sta diventando una caserma nella quale ci rinchiudiamo per difenderci dall’esterno. Come dicevo prima: un vero e proprio bunker… e noi ne difendiamo i privilegi».
so più vecchio, forse più inutile e non è il migliore sentimento che sia lecito provare quando la mattina ci si sveglia. Sarà un conforto leggere su un quotidiano che anche Scalfari ha espresso pesanti riserve sul senso di quella stagione. Anche lui ha tirato in ballo il rifiuto dell’autorità, l’accentuazione del “qui e ora” e la conseguente perdita di valore del passato e della memoria storica. Timidamente rifletto: è vero, quarant’anni non sono passati invano. Distanze incolmabili continuano a esistere perché i conflitti, a differenza di qualche facile giudizio, oggi come allora, vivono anche di memoria storica. Oppure sarà perché Scalfari nel ’68 aveva più di quarant’anni e io, allora, mi auguravo di non arrivare neppure ai trenta.
Confesso che, mentre faccio alcuni passi dopo essere uscito dall’abitazione di Monicelli, c’è qualcosa che mi lascia interdetto. Sarà probabilmente, anzi certamente, quel riferimento al ’68 così poco rispettoso della memoria che io ne coltivo. Sarà che le cose cambiano e a volte nel ricordo acquistano un altro sapore, a tratti più aspro, lasciando nella mente un’indecisione inedita, fatta di percorsi che familiari erano e da cui non crediamo sia lecito staccarci. Sono passati tanti anni dalla nostra giovinezza, e non invano. Qualcuno considera se stes-
Alcuni fotogrammi dei capolavori diretti da Mario Monicelli da sinistra Philippe Noiret e Ugo Tognazzi in ”Amici miei”; il regista con Vittorio Gassman sul set di ”L’armata Brancaleone”; Alberto Sordi e Gassman in ”La grande guerra” e Marcello Mastroianni, Tiberio Murgia e Vittorio Gassman in ”I soliti ignoti”
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Alitalia, Air France lascia. Colpa di chi? LA RESPONSABILITÀ È DEI SINDACATI, IL VETO PIÙ GRAVE PROVIENE DA LORO
PARLARE DI COLPA NON È GIUSTO, NON C’È ERRORE NEL NON VOLERE AIR FRANCE
Alla faccia di tutti i detrattori nostrani, la vicenda Alitalia sembra potersi risolvere come sempre auspicato dal presidente del Consiglio in pectore. La cosiddetta cordata italiana si sta materializzando. Pian piano, ”il piano”sta prendendo forma. Ieri l’altro il possibilismo di Banca Intesa, ieri l’avance di Ligresti. E’ probabile che nei prossimi giorni si facciano avanti altri imprenditori, magari affiancati da Air One e Aeroflot. Berlusconi forse parla troppo, e comunque non chiaramente, visto che ancora una volta ha dovuto precisare il significato di una sua affermazione. Ma ben più gravi sono le dichiarazioni dei sindacati che tentano di scaricare la colpa su Berlusconi per il ritiro di Air France. Il veto è stato loro. Del resto anche nella lettera sottoscritta da 2.300 dipendenti Alitalia, che auspicano il ritorno alla trattativa della Compagnia francese, viene giudicato ”sospetto”il comportamento dei sindacati da cui non si sentono più rappresentati. Come italiano dico: sappiate assumervi le responsabilità che vi competono, non è edificante scaricarle su chi nella vicenda è stato sempre coerente.
Io devo essere diventato proprio intollerabilmente fazioso. Ma come colpa di chi? Spinetta aveva detto che entro il 31 di marzo i sindacati, tutti, avrebbero dovuto accettare le condizioni, tutte, poste dalla Compagnia franco-olandese, oppure addio, anzi adieu. I Sindacati hanno fatto sapere che le condizioni poste erano inaccettabili, 2.100 esuberi una pillola troppo amara eccetera eccetera. Quindi adieu, Spinetta ha detto adieu! E allora di chi la colpa? Ma certo dei sindacati, non c’è dubbio. Però, perché parlare di colpa? Parlare di colpa presuppone dover analizzare le ragioni di un errore. Ma è stato davvero un errore respingere le condizioni di Air France? Tuttavia questo è un altro discorso. Il fatto che mi lascia basito - ora bisogna dire cosiì, basito, per essere à la page - è leggere che i sindacati scaricano la colpa su Berlusconi e così naturalmente anche Veltroni. Ma, dico io, in questa vicenda condotta così maldestramente da Prodi e Tps, l’unico dato positivo è stato il comportamento di Berlusconi, sempre contrario alla svendita, sempre in favore di un intervento nazionale, ed ora che si sta materializzando la cordata italiana sostenuta dal Capo del Pdl, ora che si sta reinserendo nella probabile nuova asta la russa Aeroflot, la ”colpa”è di Berlusconi? In Italia mi sa che siamo diventati matti. O forse tutti faziosi.
Lorenzo Magni - Pisa
LA DOMANDA DI DOMANI
Quale dovrebbe essere il numero massimo di ministri in un governo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Giustino Conti - Isernia
LA QUESTIONE ALITALIA VA RISOLTA PRESTO, ANCHE ALL’ESTERO ORMAI CI RIDONO DIETRO Senz’altro colpa dei ”no” continui dei sindacati. Ma anche colpa di Berlusconi e dei suoi atteggiamenti che tutti conosciamo. Quanto al prestito ponte, ecco cosa si sta dicendo di noi all’estero. Wall Street Journal: bisogna che Barrot «respinga il finanziamento, può e deve farlo». E se Roma dovesse comunque tirare dritto, l’Ue dovrebbe avviare una procedura di infrazione perché secondo il giornale americano questo prestito «ha tutta l’aria di un aiuto di stato, illegale» e «all’Italia non dovrebbe esser consentito di farsi beffe delle normative Ue».
LASCIAMO ALITALIA AL SUO DESTINO (IL FALLIMENTO). E così, in barba a tutti i proclami dei seguaci del liberalismo (per la verità sempre meno) è stato stanziato un “prestito ponte” ad Alitalia per la bella cifra di 300 milioni di Euro! In totale, negli ultimi 15 anni, tra prestiti, ricapitalizzazioni, e aiuti di Stato di vario genere, la nostra compagnia di bandiera è già costata a tutti noi oltre 5 miliardi di Euro. 5 miliardi per tenere in vita un’azienda strutturalmente inefficiente, che perde 1 milione al giorno. Alitalia riesce infatti nella straordinaria impresa di essere la compagnia aerea con i biglietti più costosi d’Europa e con le perdite più alte del mondo. Le cause sono molteplici e lungi da noi voler semplificare, tuttavia un contributo notevole viene sicuramente dal numero elevatissimo di dipendenti (ad es. si parla addirittura di 135 piloti per 5 aerei cargo!) e dai privilegi d’altri tempi di cui godono. Mentre la quindicina di sindacati che vive all’ombra di Alitalia preferisce difendere i privilegi dei dipendenti piuttosto che accettare i tagli necessari per salvarla. Si preferisce dun-
FUOCO HAWAIANO Spettacolare scatto del fumo e della cenere fuoriusciti dal cratere del vulcano Kilauea, Hawai, il 23 aprile scorso. L’area è stata evacuata a causa dei livelli elevati di anidride solforosa ”QUOTE ROSA” SECONDO LA MARCEGAGLIA Su vari quotidiani ho letto la squadra scelta dalla signora Emma Marcegaglia, neo eletta presidente di Confindustria per il biennio 2008-2010. Mi ha colpito una curiosità: su sedici componenti destinati ai vari settori, due sole donne. Come funziona la questione bla bla delle ”quote rosa”? Mi aspettavo una percentuale diversa, alla Zapatero. Poi ho capito: quando si tratta di pubblico vale la teoria Zapatero, quando si tratta di privato vale la giusta pratica della meritocrazia. ”Capisci a me” ha detto l’altra sera Di Pietro nel salotto di Porta a Porta, commentando un suo pensiero. Espressione arcaica, per intenderci, ma espressiva che, nel caso della Marcegaglia, suonerebbe più o meno: capisci a me, stiamo par-
dai circoli liberal Flavia Simonetti - Napoli
que il fallimento e la perdita di tutti i posti di lavoro alla riduzione dei privilegi! Alitalia è l’unica linea aerea nazionale in Europa che non offre, direttamente o tramite una controllata, voli a basso costo, nel momento in cui il low-cost conosce un vero e proprio boom. Questo è un errore gravissimo, ed è ottuso non capire che l’aereo non è più un lusso per pochi, ma un mezzo di trasporto diffusissimo in tutte le classi sociali e d’età. I giovani, che fino a dieci anni fa giravano l’Europa in treno, oggi lo fanno in aereo. Perché costa meno ed è molto più rapido. Ma Alitalia non è in grado di intercettare questi nuovi segmenti di mercato. Certamente non si risolleva Alitalia con lo slogan “Io volo Alitalia” lanciato da Berlusconi. Perché quasi nessuno è disposto a pagare un biglietto molto più del suo prezzo di mercato al fine di perpetuare i privilegi dei dipendenti della compagnia. Neppure Berlusconi, in bocca al quale lo slogan fa sorridere, visto che il Cavaliere da almeno vent’anni vola solo sul jet personale… Il Governo, attuale e prossimo, dovrebbe invece avere il coraggio di abbandonare Alitalia, ormai irrecuperabile, al suo
lando di soldi nostri, non dello Stato, pochi bla bla e solo capacità. Come dire che Berlusconi dovrebbe pensare al buon governo, donne o non donne: a sinistra ne avrebbero di che parlare e scrivere per almeno un mese!
L. C. Guerrieri - Teramo
IL PD E L’ARTE DI OMBREGGIARE (I COMUNISTI) Sapevamo che il Pd poteva avere tante attrattive e che, col ricorso all’inventiva e alle astuzie di tante intelligenze, col suo timbro verde e decorativo, avrebbe potuto ravvivare il giardino della nostra politica. Ma non avremmo mai immaginato che esso sarebbe riuscito ad ombreggiare i comunisti e che il rosso puro, smagliante e genuino sarebbe passato inosservato. O, per meglio dire, non votato.
Pierpaolo Vezzani
destino, lasciandola fallire e poi favorendo la nascita di una nuova compagnia, in grado di riassorbire almeno parte dei dipendenti ma su basi molto diverse, e finalmente in grado di muoversi nel mare della concorrenza, nel quale Alitalia si trova come un pesce fuor d’acqua. Ma continuare ad usare i soldi degli italiani, questo non si può più fare. Giorgio Masina CIRCOLO LIBERAL SIENA
APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29 Avvocato Massimo Golino
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog AL VIMINALE? MARCELLO PERA
T’amo come neanche tu puoi intendere Giuditta, la mia Giuditta, che io possa dirti una volta nella mia lingua, nella tua lingua che mi sei cara, che ti amo disperatamente, che ti amo ogni giorno di più, che né tempo né altro farà mai che io t’ami meno, che penso a te sempre, sempre, che sogno di te, che vivo per te, che ti ricordo come un progioniero la Patria, e la libertà, che da te sola mi vien gioia, e dolore; che t’ho amata, e ti amo come né posso dirti, né tu, perdonami, puoi intendere, né forse è bene che tu intenda. Cara tanto, Angiolo mio, di’, m’ami tu ancora? Potresti dirmelo ancora con vera gioia? Un mio bacio ti farebbe piacere, e tu dandomi un bacio, un lungo bacio, vedresti sfumar tutto, tutto dimenticheresti, tutto fuorché il nostro bacio? Se tu sapessi, Giuditta, con che profonda melanconia ti dico queste cose. Se tu sapessi come mi vien voglia di piangere, di piangere tanto, scrivendoti! Giuseppe Mazzini a Giuditta Sidoli
FRANCESCO RUTELLI, LA POLITICA DEL NON-FARE ”Rutelli e D’Alema insieme per il buon governo di Roma”. Sbaglio o hanno già dato, insieme, nello stesso periodo, il primo per otto anni ed il secondo per un anno e mezzo? Non c’è tanto d’arrovellarsi il cervello: dico solo che il Sig. Rutelli, attuale vicepresidente del Consiglio e Ministro in carica, era già sindaco di Roma quando Berlusconi scese in politica, nel 1993, alla faccia del nuovo che avanza! E come se non bastasse, le sue capacità amministrative e le sue non-priorità per la città sono note. Elencarle è sciocco, girarsi intorno, in periferia ed al centro è cosa tangibile: se tutto questo è paragonabile ad una città moderna europea, chi ha visto e toccato con mano , senza ”puzzetta sotto il naso”e senza rassegnazione, bensì per amore proprio alla città eterna, ha la possibilità di cambiare e recarsi a votare per il ballottaggio. Il cambiamento ed il futuro diverso, o almeno il tentativo di provare, è nel voto di domenica, il resto è il solito bla bla.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
25 aprile 1719 Viene pubblicato il romanzo Robinson Crusoe di Daniel Defoe 1859 Iniziano i lavori per la creazione del Canale di Suez 1926 Prima assoluta dell’opera lirica Turandot di Giacomo Puccini 1945 Liberazione in Italia da parte dell’insurrezione partigiana. 1953 Sulla rivista Nature compare l’articolo A Structure for Deoxyribose Nucleic Acid di James Dewey Watson (ornitologo) e Francis Harry Compton Crick (fisico), con il quale viene descritta la struttura ad elica del DNA, per il quale riceveranno nel 1962 il premio Nobel per la medicina 1974 Portogallo: l’MFA (Movimento das Forças Armadas) composto da ufficiali e truppe dei diversi corpi delle forze armate, occupa militarmente Lisbona e altre città portoghesi dando vita ad un colpo di stato incruento che mette fine al regime dittatoriale di Marcelo Caetano
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
Da udiccino, non sono favorevole alla nomina di Maroni e di Scajola al ministero degli Interni, perché del primo ho avuto modo di conoscere il suo scarso impegno e la sollecitudine di rispondere alle necessità di quel particolare momento storico e politico, mentre del secondo non nutro particolare ammirazione per la sua ministeriale apparizione nel dicastero Berlusconi, dal quale è stato costretto a dimettersi a causa delle abnormi affermazioni dopo l’assassinio del giuslavorista Biagi. Mi sembrano due personaggi poco indicati a presiedere un ministero di tanto rilievo e importanza per la vita pubblica nazionale di questa seconda o terza Repubblica. Io credo che, anche se quei nomi fossero proposti da Berlusconi al capo dello Stato, questi dovrebbe rifiutarsi di firmare la loro nomina. Al ministero degli Interni dovrebbe andare un uomo, appartenente al centrodestra, che ha vinto le elezioni, ma anche di fermo carattere e consolidata esperienza parlamentare, democratica e cristiana, quale io vedo l’onorevole Marcello Pera. Consiglio a Berlusconi di rivedere i propri piani e le sue idee in proposito.
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
PUNTURE Luca Zaia, probabile ministro dell’Agricoltura, cita addirittura il filosofo Hobbes. Sta per iniziare la guerra di tutti contro tutti.
Giancristiano Desiderio
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La violenza può avere un effetto sulle nature servili, ma non sugli spiriti indipendenti BENJAMIN JONSON
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Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di PREMIER TIBETANO: LA TRAPPOLA DELLA CINA PER DISTRUGGERCI In questo momento “una campagna di rieducazione politica del Tibet non serve a nulla. Continuare questa campagna denigratoria contro il Dalai Lama ferisce in profondità il popolo tibetano, che davanti a queste provocazioni non riesce a stare calmo e crea le condizioni per essere dipinto come violento. È una trappola”. È il commento sulle nuove politiche tibetane di Pechino rilasciato ad AsiaNews dal primo ministro del governo in esilio, Samdhong Rinpoche. La Cina, spiega il politico, “sa che attaccare il nostro leader farà perdere le staffe alla popolazione. L’emarginazione economica, il disastroso stato della sanità pubblica, la mancanza di scuole adeguate sono situazioni con cui il Tibet ha imparato a convivere: denunciare il Dalai Lama è l’unico modo con cui i comunisti possono provocare i tibetani, facendoli apparire violenti”. È chiaro a tutti, riprende Rinpoche, “che il governo comunista ha uno scudo enorme: quello del mercato internazionale, che lo ripara da tutto. Le ‘pressioni verbali’ della comunità internazionale non creano problemi al regime, che continua con le sue violazioni esattamente come prima. Negli ultimi 30 anni, la Cina ha dimostrato di non tenere in alcun conto le opinioni della comunità internazionale, ed il mondo lo sa”. Proprio per questo, il governo tibetano in esilio ha pubblicato un appello urgente alla comunità internazionale, che deve intraprendere misure immediate ed efficaci per fermare la repressione brutale della popolazione tibetana ed interrompere il genocidio culturale del Tibet operato da Pechino.
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LAVAGGIO DEL CERVELLO RUSSO Così come ai cinesi una martellante propaganda di regime che non ammette contraddittorio e confronto racconta che l’occidente finanzia i ”terroristi” tibetani per sovvertire l’ordine e la stabilità della Cina, così in Russia si producono film-documentario sul come la guerra russocecena fu tutta una provocazione ordita dalla Francia, la Germania e la GB per smembrare la Russia. Una volta pensavo si dovesse essere malati di mente per credere che queste siano le vere cause delle guerre, ma pare che molti ci cascano... Probabilmente è un modo come un altro per fare il lavaggio del cervello ad una popolazione a cui si nega di ascoltare ”verità” diverse per organizzare l’annessione dell’Abkhazia e del Sud Ossezia alla Russia. Yamadayev, il comandante ceceno fedele a Mosca ma antagonista all’attuale presidente con cui finì per prendersi a mitragliate commenta sulla situazione ”gli xe-ribelli [oggi alleati con Mosca] sono pronti per una nuova guerra”. I radicali, bisogna dargliene atto, indefessi, sono gli unici a continuare ad occuparsi della questione russo-cecena. Ora che in Cecenia finalmente si ricostruisce qualcosa il Consiglio d’Europa avrà nuovi pretesti per dire che tutto va bene. Il suo Presidente si compiace perfino con Zyazikov, cioè il ben noto dittatore ingusceto che a suo tempo organizzò le deportazioni forzate, per la sua grande disponibilità nel assistere i rifugiati ceceni. Invece di pensare a questi consimili, noi preferiamo sorridere alla bambina cecena profuga in Inguscezia che sogna di diventare un giorno una fotografa famosa....
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PAGINAVENTIQUATTRO Quindicimila i pellegrini giunti a San Giovanni Rotondo da tutto il pianeta
Perché il mondo si mette in fila per rivedere di Francesco Rositano ronaca di una giornata speciale. Ieri San Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia – nel cuore di un Sud che ancora fa fatica – è stato il centro del mondo. La ragione è scritta sempre nello stesso nome: padre Pio. Sono stati 15.000 i pellegrini giunti da diverse parti del globo, compreso lo Sri Lanka, che ieri si sono messi in fila, in turni rigorosamente organizzati, per venerare la salma del santo da Pietralcina. Dopo la messa solenne celebrata nella nuova-gran-
C
persona ha omaggiato padre Pio di un gesto personale: una preghiera, un semplice saluto, una genuflessione, una richiesta particolare. Ieri è stata la dimostrazione che in molti hanno ancora bisogno di credere. Ma anche e soprattutto di vedere, quasi di toccare con mano le manifestazioni del Divino. E forse anche per questa ragione la Chiesa ha deciso di esporre la salma, di renderla visibile a tutti. Ed ecco perché, conclusa la causa di beatificazione, avverrà la stessa co-
PADRE PIO La riesumazione del Santo da Pietralcina è stata la dimostrazione che in molti hanno ancora bisogno di credere. Ma anche e soprattutto di vedere, quasi di toccare con mano le manifestazioni del Divino de basilica di San Giovanni Rotondo dal cardinale José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione per la Causa dei Santi, le spoglie del sacerdote sono state esposte nella cripta del santuario di Santa Maria delle Grazie. E le persone hanno potuto venerarle. Dietro a quello che le voci più pungenti bollano come un mero fenomeno di marketing, che abusa della religione per rilanciare un’economia terribilmente in affanno, c’è la fede sincera di molta gente.
Di quella gente che continua a chiamarlo padre Pio anche se, nel 2002, Giovanni Paolo II, lo ha fatto salire agli onori degli altari. Sì perché lui, San Pio - che ha combattuto con il diavolo, ha compiuto miracoli e avvicinato molte persone alla fede - è soprattutto “il Santo della gente”. Con questa espressione l’ha ricordato il cardinale Josè Saraiva Martins, prefetto per la Congregazione delle Cause dei Santi, che ha preceduto la celebrazione. “Un uomo – ha proseguito il porporato - che ha evangelizzato il mondo con il Vangelo superiore della sofferenza. Dopo la messa, la folla ha sfilato lentamente verso la cripta del santuario di Santa Maria delle Grazie dove le spoglie sono esposte dal 26 settembre 1968, giorno della sepoltura del santo. Ogni
sa con le spoglie di Giovanni Paolo II. Non è un caso, infatti, che ad esempio anche per la Sacra Sindone, il lenzuolo che si pensa abbia coperto il corpo di Cristo al momento della sepoltura sia stato esposto a Torino.
Ai fedeli che sono andati a venerarlo San Pio è apparso così: una maschera in silicone sul viso; un abito realizzato dalle suore di clausura del Monastero di San Giovanni Rotondo. I mezzi guanti e le calze sono, invece, quelle che Padre Pio custodiva nella sua cella in un armadio a muro, tra gli indumenti non ancora utilizzati. Da qui a Natale sono già 800.000 le richieste di prenotazione. L’organizzazione prevede che le visite avverranno secondo un ritmo di 600 all’ora, dalle 7 alle 19. Alla messa c’era il fior fiore dei giornalisti stranieri, delle televisioni. C’erano le autorità locali, il presidente della Regione, Nichi Vendola, l’arcivescovo di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, mons. Domenico Umberto D’Ambrosio Non è mancata nemmeno la tv araba Al Jazeera. Durante il periodo dell’ostensione il corpo di padre Pio sarà custodito in una teca in cristallo. Poi il passaggio definitivo: la salma verrà deposta in un sarcofago scolpito da un artista georgiano ma da tempo residente a Parigi, Guy George Anachoukeli, che ha utilizzato per il monumento ferro battuto e calcare duro di Beauce, lo stesso con cui sono stati costruiti i castelli della Loira. L’opera presenta forti simbologie ispirate alle Sacre Scritture: i capitelli sono dodici, come le porte di Gerusalemme e le dodici pietre dell’Apocalisse; le colonne sono quattro come i Vangeli; le pietre rosse richiamano invece la passione di Cristo, mentre quelle celesti il manto della Madonna. Una degna accoglienza per un uomo che, per bocca di molti, ha cambiato loro l’esistenza.