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Oggi il supplemento

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

MOBY DICK

I numeri (controversi) del ministero

SEDICI PAGINE DI ARTI E CULTURA

Tutta la verità sui numeri del ministro Livia Turco

he di c a n o r c

di Assuntina Morresi di Ferdinando Adornato entre il Consiglio d’Europa approva una risoluzione in cui per la prima volta si parla del «diritto delle donne ad abortire», in Italia i dati ufficiali relativi all’applicazione della legge 194 parlano di aborti in diminuzione (3 per cento in meno rispetto allo scorso anno) e di obiettori di coscienza in aumento (70 per cento in tutto il territorio italiano). Con poche eccezioni, questi i due dati messi in risalto dai titoli in prima pagina sui principali quotidiani. La relazione presentata dal quasi ex-ministro della Salute, Livia Turco, sottolinea preoccupata che «in alcune Regioni l’obiezione di coscienza ha raggiunto livelli tali da prefigurare un’oggettiva condizione di grave difficoltà per le donne nell’accesso ai servizi». Eppure i dati presentati non dimostrano precisamente questo: la Puglia, per esempio, insieme alla Liguria è la regione italiana con il più alto rapporto di abortività (304.6 e 304.7 aborti per mille nati vivi, rispettivamente), ma le percentuali di medici obiettori sono molto diverse: 79.9 per cento in Puglia contro il 56.3 per cento in Liguria. Lo stesso andamento si può riscontrare per altre regioni italiane: l’obiezione di coscienza non è quindi correlata al numero degli aborti. L’elevato numero di obiettori non impedisce cioè alle donne che lo chiedono di ricorrere all’aborto, e i dati ufficiali del ministro lo dimostrano.

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ISSN 1827-8817 80426

Promosso da Bush, il generale americano è il perno dell’operazione “Nuovo Medio Oriente”. Ecco come può cambiare il volto dell’area più importante del mondo

Progetto Petraeus alle pagine 2, 3, 4 e 5

ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 29 aprile

I profili di Alemanno e Rutelli

Campidoglio, sfidanti a confronto di Errico Novi e Nicola Procaccini I ritratti dei due candidati a sindaco di Roma che domenica si affronteranno in un ballottaggio dall’esito imprevedibile, destinato a far sentire i suoi effetti anche sullo scenario politico nazionale. Dal risultato di Rutelli dipende la tenuta della leadership di Veltroni.

pagine 6 e 7 SABATO 26 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

nell’inserto Creato

Il Vecchio Continente tra identità e universalismo

di Pier Mario Fasanotti Walt Disney addio. O quasi. A rappresentare l’America di oggi è ormai Homer Simpson, capofamiglia pasticcione, generoso, grasso e amante dei cibi con forte dose di colesterolo.

di Riccardo Paradisi Fabio Melelli Andrea Semprini Daniel Pipes da pagina 12 77 •

WWW.LIBERAL.IT

Dalla televisione alle librerie

La rivoluzione “scorretta” dei Simpsons

Multiculturalismo: un rischio per l’Europa

NUMERO

co nt i nu a a pa gi n a 8

pagina 20 • CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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o scenario mediorientale presenta una serie di criticità congenite alle quali si aggiungono problematiche estremamente attuali, che altro non fanno che rendere ancora più complessa la situazione. Il processo di pace in corso tra israeliani e palestinesi prosegue tra fasi di progresso, che fanno auspicare al raggiungimento di un risultato positivo, e drammatiche escalation di violenza - caso ultimo è quello della Striscia di Gaza - nuovi ostacoli per la realizzazione della pace. Come cornice di questo vanno considerati numerosi fenomeni e fattori che fanno del Medio Oriente l’area geopolitica più instabile del sistema-mondo. D’altro canto, è proprio su questa regione che sono orientati consistenti interessi economici, finanziari e politici dei governi. Le risorse petrolifere - il prezzo dell’oro nero ha raggiunto la quota record di 118 dollari al barile - e la stessa posizione geografica nel cuore dell’Islam sono di per sé motivi validi per fare del Medio Oriente il fulcro della geopolitica mondiale. Contemporaneamente alla questione israelo-palestinese, resta aperto il dossier Iran. Tuttavia sarebbe riduttivo semplificare la questione esclusivamente al settore nucleare. Le ambizioni militari del governo di Teheran, infatti, devono essere contestualizzate in un progetto dal perimetro ben più ampio. Quella iraniana va vista come la concretizzazione del sogno della rinascita sciita, nei confronti della maggioranza sunnita in seno all’Islam. L’Iran sta cercando di controllare una vasta area del Medio Oriente, attraverso un intervento indotto e non diretto. La strategia operativa è quella di coinvolgere le comunità sciite disperse nella macro-area, sostenendole politicamente e finanziariamente. È il caso del Bahrein, Paese abitato da una maggioranza sciita, ma governato da un establishment sunnita. In questo caso - seguendo il modello vincente di Hezbollah in Libano - l’obiettivo è portare le realtà locali a disporre di una forte e influente rappresentanza politica.

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Pressione militare e trattative diplomatiche nella nuova strategia Usa per l’area

Una “surge” per tutto il Medio Oriente di Andrea Margelletti Bambini israeliani, di cui uno mascherato da missile, celebrano la ricorennza del Purim nella città di Sderot, nel sud di Israele, continuamente sottoposta agli attacchi palestinesi. La festa è stata presidiata dai soldati per l’allarme lanciato dai vertici militari di un possibile attacco dalla Striscia di Gaza. Secondo l’intelligence, infatti, Hezbollah era pronta a colpire di stampo politico. Quella degli alSaud resta infatti una rigida monarchia assoluta che non offre alcuno spiraglio alla modernizzazione. Al contrario, il fatto di abitare la regione della Paese dov’è concentrato il 90 percento dei giacimenti petroliferi offre agli sciiti sauditi un potenziale strumento di influenza sul mercato degli idrocarburi. E se in linea teorica, questa regione fosse indipendente, occuperebbe l’invidiabile primato di

al-Maliki a Baghdad è privo di spazi di manovra, in quanto da un lato è appoggiato da Washington, dall’altro subisce la forte influenza di Teheran. Contemporaneamente le violenze subite dalla popolazione sciita non hanno solo la firma degli avversari sunniti, ma nascono anche dagli scontri all’interno della comunità sciita stessa tra le forze filo-governative, affiancate dalle truppe regolari, e le milizie di Muqtada al-Sadr, la cui influenza tra gli strati più umili della società è in crescita. Avvicinandosi alle coste del Mediterraneo, in Libano l’impasse sulla nomina del Presidente della Repubblica è proseguita, in questo ultimi giorni, con il 18esimo rinvio da parte dell’Assemblea Nazionale sulla scelta del nuovo Capo dello Stato. La realtà multi-confessionale del Paese - dove i cristiani maroniti auspicano di riprendere il perduto controllo e la maggioranza sciita insiste nel guadagnare la leadership - non offre in questo momento soluzioni. Il dialogo fra le parti resta quindi ingessato in

L’Iran sta cercando di controllare tutta la regione, attraverso il coinvolgimento delle comunità sciite, sostenendole politicamente e finanziariamente

Non a caso il “Partito di Dio” - sempre più una realtà prettamente politica, e non, come viene classificato da Israele e dagli Usa, un gruppo terroristico - si sta impegnando per la promulgazione di una nuova legge elettorale in Libano. Questa, su base proporzionale, potrebbe permettere la creazione di un’Assemblea Nazionale più rappresentativa e soprattutto svincolata dalle distribuzioni confessionali, come invece è ora. Sulla stessa scia, ma con probabilità di riuscita molto ridotte, va considerata la comunità sciita presente in Arabia Saudita. Qui la posizione di forza intravista dal sempre attento Iran non è puramente

primo Paese produttore di petrolio in tutto il mondo. Per quanto riguarda la crisi irachena, è sotto gli occhi di tutti che i recenti scontri di Bassora e Sadr City, sobborgo della capitale, siano l’ultimo sfogo delle ambizioni di alcune fazioni sciite di dominare politicamente ed economicamente regioni meridionali del Paese. In questo senso l’Iraq è l’area dove la “rinascita sciita” sta assumendo i tratti più complessi. Il governo di

un pericoloso “fermo immagine”, che può generare tutte le ripercussioni possibili, dalle più ottimistiche alle più preoccupanti. La Siria, a sua volta, stretto alleato dell’Iran e di Hezbollah, presenta un ritratto di sé dai tratti poco nitidi. È indiscutibile che le sue ambizioni di politica estera siano inferiori rispetto a quelle di Teheran. Il regime Baath - supportato da una complessa alleanza tra la minoranza alawita e la maggioranza sunnita - sembra portato alla sopravvivenza, piuttosto che a qualsiasi slancio espansionistico. È l’autoconservazione che muove Damasco, non una politica di potenza.

Restano infine i non trascurabili casi di Giordania, Arabia Saudita ed Egitto.Tutti validi e sicuri alleati dell’Occidente, ma ognuno con vistosi punti deboli. Il regno hashemita di Abdallah II è tra i primi interlocutori di Washington, ma a questa amicizia non fa da contraltare una stabilità sociale ed economica interna. La quasi totale mancanza di risorse naturali espone la popolazione locale a crisi cicliche. Il basso tenore di vita porta la società giordana a essere un potenziale bacino di re-

clutamento per tutti i fenomeni di estremismo e di violenza politica organizzata. L’Egitto invece sta attraversando una fase di flessione in campo internazionale. La forza diplomatica di un tempo è stata messa in discussione dall’Arabia Saudita: vero e proprio suo competitor nel dialogo con gli Usa e nel mondo arabo. A questo si aggiunge l’incremento delle forze di opposizione al Presidente Mubarak, il quale oltre a controllare realtà a lui contrarie come la Fratellanza Musulmana, deve anche tentare di risolvere l’incognita della sua successione. Il rais infatti compirà, proprio nei prossimi giorni, ottant’anni e non si sa ancora chi potrà essere il suo erede, a parte il figlio Gamal. Infine l’Arabia Saudita appare combattuta da contraddizioni interne, in quanto patria del wahabismo, ma anche dichiaratamente sostenuta dagli Usa. A questo contrasto strutturale, si aggiunge una vistosa crisi di consenso nei confronti della casa regnante degli alSaud. Sui principi regnanti pesa l’accusa di sperperare l’immenso patrimonio e di non prestare attenzione al processo di riforme politiche, sociali e culturali di cui ne-


progetto cessita il Paese. Questo ha permesso l’attecchimento di al-Qaeda in seno alla sua popolazione. A fronte di tutto questo, stiamo anche assistendo a un progressivo cambiamento della politica occidentale in Medio Oriente. L’annunciata nomina del Generale David Petraeus al comando Usa di Centcom, responsabile delle operazioni nelle aree strategiche del Medio Oriente e dell’Asia centrale, può far presupporre un’inversione di rotta da parte del Pentagono. L’esperienza positiva della strategia irachena torna vantaggiosa. Qui la surge posta in atto dall’ex comandante della 101esima Divisione d’assalto aereo, Petraeus appunto, ha ridotto la violenza nella provincia di al-Anbar e nella stessa Baghdad, sulla base anche di iniziative politiche intese a sottrarne il controllo ad «al-Qaeda in Iraq». L’alto ufficiale gode inoltre della fama di uomo del dialogo, che antepone al confronto militare l’approccio diplomatico. Nella fattispecie della crisi costante con l’Iran quindi si aprirebbero scenari non solo di guerra, ma anche di trattativa politica.

La Francia di Sarkozy, a sua volta, sta dimostrando di voler aumentare la propria presenza militare nella regione. In termini concreti l’apertura della prima base aereo-navale francese ad Abu Dhabi, in prossimità dello Stretto di Hormuz - quindi di fronte all’Iran - è esemplificativo. Ma maggiore risonanza mediatica l’ha riscossa l’intenzione di aumentare il contingente in Afghanistan. Dai 1430 uomini attualmente effettivi, Parigi intenderebbe passare ai 2230. Una strategia, quella francese, che tornerebbe vantaggiosa all’Italia. Una virata di attenzione da parte dell’Eliseo verso altre aree infatti aprirebbe nuovi spazi di intervento, soprattutto politico, per il nostro Paese. Partendo dal presupposto che il Mediterraneo rappresenta il nostro naturale ambiente strategico, la nostra classe politica dovrebbe compiere un’approfondita riflessione su dove e come operare diplomaticamente, per affermare il ruolo dell’Italia quale attore di “serie A”. Con questa chiave di lettura va vista la missione italiana attualmente in corso in Libano. La nostra presenza a Beirut - come ambasciata, ma anche inserita nel contingente Unifil, di cui manteniamo il comando - potrebbe essere la testa di ponte di questo progetto. La stima da noi riscossa in Libano, forte anche del fatto che non abbiamo un passato coloniale che ci penalizzerebbe nell’immagine, è trasversale in seno a tutte le forze politiche locali, nonché tra la popolazione civile. In Libano l’Italia gioca da leader e non da gregario ed è dalle sue coste che si può avviare una nuova politica estera nazionale. Presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali

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Il generale David Petraeus, appena nominato a capo del Centcom e il tenente generale Ray Odierno, che ha preso il suo posto in Iraq

La promozione di un comandante che non corrisponde allo stereotipo muscolare del soldato

Il generale che sa usare la testa di Stranamore l generale David Petraeus non corrisponde affatto allo stereotipo del soldato tutto d’un pezzo e muscolare, ma non sfidatelo in una gara di flessioni (pompate..) perché a dispetto dei 56 anni vi lascerà a terra ansimanti. E non andrà meglio in una corsa zavorrata. David Petraeus può usare frasi ad effetto in tipico “militarese” che ricordano la sua carriera nelle truppe aviotrasportate e lo stile di comando “in prima linea”, ma è un fine intellettuale, riflessivo, che vanta un master ed un dottorato a Princeton e che è uscito da West Point piazzandosi nel primo 5 percento della sua classe. Petraeus è un ufficiale che, nella classificazione di Helmut Von Molte, apparterebbe a quel 25 percento di militari che possiedono grandi doti intellettuali e straordinaria energia fisica, ma senza il difetto più comune: la tendenza al micromanagement.

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Al contrario Petraeus sa lavorare perfettamente in team ed è in grado di ottenere il meglio dai suoi subordinati. Lo conferma ad esempio la quasi simbiosi che è riuscito a creare con il suo vice in Iraq, il tenente generale Ray Odierno. Per non parlare del lavoro che ha svolto insieme al tenente generale dei Marines James Mattis nel coordinare e guidare l’importantissimo sforzo per realizzare il nuovo manuale sulle operazione controguerriglia, l’FM 3-24, durante il suo periodo di comando alla guida del Combined Arms Center di Ft. Levenworth, al rientro dal suo turno di comando in Iraq. Petraeus ha anche imparato abbastanza bene a sopravvivere agli agguati e alle imboscate dei corridoi e delle aule del Congresso a Washington, dove è stato regolarmente “grigliato” da democratici e repubblicani. Anche a Petraeus ovviamente capita di commettere errori e sicuramente la sua esperienza alla guida del progetto di addestramento e formazione dell’esercito iracheno nel 2005 non è stata esemplare e non ha prodotto i risultati sperati, ma il generale impara in fretta e sa correggere la sua rotta. Non solo, possiede anche una dote che giustamente Napoleone considerava importantissima per un generale: è fortunato ed è pronto a cogliere le opportunità, come è avvenuto per la sollevazione dei sun-

niti contro Al Qaida nella provincia di Al Anbar. È logico quindi che Robert Gates abbia scelto Petraeus per sostituire l’ammiraglio William Fallon alla guida del Centcom, il comando operativo che sovrintende alle operazioni in Iraq e in Afghanistan.

Fallon e Petraeus dissentivano su molti punti, compresa la necessità di mantenere quanti più soldati americani in Iraq, che l’ammiraglio non condivideva, o l’atteggiamento da tenere verso l’Iran, che il diplomatico ammiraglio giunto dal Comando del Pacifico suggeriva fosse morbido e di engagement più che di contrapposizione. Petraeus però, molto leale, ha sempre evitato scontri o dichiarazioni critiche nei confronti del suo superiore. E del resto non è che con l’arrivo di Petraeus a Tampa gli Usa si prepareranno ad un conflitto con l’Iran.Tutt’altro. E non ora. Certo prelevare Petraeus dall’Iraq in questo momento delicatissimo, in cui le truppe americane lasciano il Paese al ritmo di 4mila al mese, per stabilizzarsi a fine lu-

Petraeus lavora bene in team ed è in grado di ottenere il meglio dai suoi subordinati. Lo conferma la sua simbiosi con il vice in Iraq, Ray Odierno

glio a 130mila unità, mentre continuano le operazioni contro le milizie sciite di Moqtada Sadr rappresenta un rischio. Il percorso inizialmente previsto supponeva che Petraeus rimanesse sul campo ben oltre l’estate, per poi proseguire la carriera con un comando importante, ma magari un po’meno sotto i riflettori, ad esempio la guida dell’Eucom in Europa. Ma con Fallon dimissionario già a marzo non si poteva trovare una soluzione diversa. E poi Petraeus potrà contare su un “suo” uomo in Iraq: proprio il generale Ray Odierno, che ha contribuito a realizzare compiutamente e ad applicare le dottrine che Petraeus aveva messo a punto.

Non solo, come vice di Odierno c’è il tenente generale Lloyd Austin che in questo primo periodo in Iraq ha dimostrato di essere un sostenitore del corso intrapreso dal suo predecessore. E per fortuna, perché la situazione nel Paese è tutt’altro che consolidata. Ogni ottimismo è fuori luogo, il ritiro di 30mila soldati statunitensi si farà sentire, perché le forze di sicurezza irachene non sono ancora adeguate, né in quantità né in qualità, mentre la guerriglia è in difficoltà, ma non è sconfitta. Peccato davvero che politicamente sia impossibile continuare la surge che ha portato 30mila GI in più nel Paese per circa un anno, senza dimenticare poi che lo Us Army è davvero alle corde. Perché se fosse possibile mantenere più soldati e più a lungo in teatro le prospettive sarebbero un po’ più rosee. La strategia di Petraeus che combina un’energica azione militare con l’impegno alla ricostruzione, la pressione sul governo e le istituzioni irachene, l’approccio bottom-up nei confronti delle autorità locali e la priorità assegnata alla protezione della popolazione funziona, ma va sostenuta. Petraeus è anche riuscito ad individuare i reali schwerpunkt, i nodi vitali, della guerriglia, combinando per la prima volta le operazioni condotte dalle forze speciali contro la leadership e la organizzazione della guerriglia con azioni più “convenzionali” contro le truppe, i rifornimenti, i santuari, le vie di comunicazione del nemico. Per consolidare i risultati ottenuti ci vuole tempo, impegno e fortuna. Se lo chiedete a Petraeus o ad Odierno non li sentirete mai parlare di vittoria imminente in Iraq. Ed è anche per questo che meritano di essere apprezzati.


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Berlusconi, Sarkozy, Merkel e Brown possono aiutare l’America a fare i conti con l’Iran

Rafforzare il legame Usa-Europa adesso è possibile di John Bolton a rielezione di Silvio Berlusconi a presidente del Consiglio è più promettente ed importante per Italia e Stati Uniti, oltre che per i rapporti transatlantici in generale, di quanto la maggior parte dei commentatori abbia ammesso. Sebbene l’Amministrazione Bush resti in carica solo per i prossimi nove mesi, sono possibili ed auspicabili progressi significativi nel rafforzamento dei rapporti tra America ed Europa. I critici del presidente Bush non hanno perso tempo ad accusarlo dell’indebolimento dei rapporti transatlantici, soprattutto a causa del rovesciamento di Saddam Hussein. Sostengono che secondo i sondaggi, i sentimenti dell’opinione pubblica europea sono sfavorevoli agli Stati Uniti. Si beano del fatto che due tra i più fedeli alleati di Bush a livello personale e politico - i primi ministri Tony Blair in Gran Bretagna e Jose Maria Aznar in Spagna - si siano dimessi soprattutto a causa dell’insoddisfazione suscitata dal loro sostegno alla guerra in Iraq.

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Ma prendiamo in esame l’attuale leadership politica in Europa: Nicolas Sarkozy in Francia ha rimpiazzato il dichiaratamente antiamericano Jaques Chirac. In Germania, Angela Merkel ha sostituto il dispeptico cancelliere Gerhard Schroeder, contrario alla guerra in Iraq. Il primo ministro britannico Gordon Brown parla nuovamente dello “speciale legame” Usa-Regno Unito. E adesso, Berlusconi è sul punto di reinsediarsi a Palazzo Chigi. Come cambiano i tempi. La nuova configurazione politica in Europa si è già in parte manifestata nella decisione Nato di Bucarest a favore del sostegno al dispiegamento delle postazioni missilistiche di difesa americane in Polonia e Repubblica Ceca. Anche il vertice di Bucarest, tuttavia, ha posto l’accento su problemi irrisolti, come ad esempio la riluttanza da parte dell’Europa di dare inizio al percorso di Ucraina e Georgia verso l’ingres-

so nella Nato. Pressata dalla Russia, contraria all’apertura alle suddette ex repubbliche sovietiche, l’Europa si è piegata al volere di Mosca. Ed in Afghanistan, le forze Nato sono divise tra quelle che ogni giorno si trovano a fronteggiare difficili situazioni di combattimento e quelle, come le truppe italiane e tedesche, di stanza in luoghi del Paese meno pericolosi. I critici europei dell’America non perdono occasione di sminuire il suo presunto unilateralismo, sostenendo che gli Stati Uniti debbano modificare le proprie politiche per creare un fronte multilaterale contro minacce quali il programma di riarmo nucleare iraniano. Dal punto di vista degli Stati Uniti, tuttavia, il problema non è rappresentato dall’unilateralismo americano, quanto piuttosto dalla riluttanza europea ad adottare una qualche soluzione per rispondere a minacce esterne, che queste provengano dall’Iran o da una Russia pronta ad assumere nuovamente un ruolo maggiormente incisivo. Ecco perché la decisione Nato sul sistema di difesa missilistico è così positiva, nella misura in cui rappresenta un riconoscimento chiaro e condiviso da tutta l’alleanza della minaccia costituita dall’Iran. Ed ecco perché la decisione su Ucraina e Georgia è a sua volta così negativa, in quanto riflesso della riluttanza da parte dell’Europa a resistere alla nuova influenza esercitata della Russia. Questa continua tensione nel pensiero europeo sottolinea l’im-

Tensione nel Golfo Nel Golfo Persico, ad appena 80 chilometri dalla costa iraniana, una nave da trasporto che lavora per la Difesa americana ha sparato giovedì scorso colpi di avvertimento verso due battelli iraniani. Secondo fonti del Pentagono, il personale di sicurezza dell’imbarcazione Usa ha fatto fuoco contro le lance quando queste si trovavano a meno di 100 metri di distanza. Da Teheran i Guardiani della rivoluzione hanno smentito la notizia.

portanza del ritorno al potere di Berlusconi. Lui e l’Italia possono ora fare la differenza in modo sostanziale, ma soltanto se Berlusconi sarà pronto ad opporsi ad una visione convenzionale circa il futuro dell’Europa. Invero, un ruolo di maggiore incisività per l’Europa richiede un ruolo di maggiore incisività da parte delle singole nazioni europee, e non un’Unione Europea più forte. La storia parla chiaro: ad un maggior ruolo svolto da Bruxelles negli affari della Ue corrisponde un minor ruolo complessivo dell’Europa a livello mondiale.

Impedire all’Iran di dotarsi di armamenti nucleari potrebbe rappresentare un banco di prova decisivo sia per i rapporti transatlantici sia per la leadership di Berlusconi. Per oltre cinque anni, la diplomazia europea di Gran Bretagna, Francia e Germania (EU-3), sostenuta dagli Stati Uniti, non è riuscita a porre un freno al programma nucleare iraniano. Una delle principali ragioni che hanno determinato tale insuccesso è stata la riluttanza collettiva da parte dei Paesi europei ad imporre sanzioni economiche significative - ovvero severe - contro l’Iran. L’Italia - in virtù dei suoi rapporti commerciali con l’Iran - la Germania ed altri Paesi si sono opposti a sanzioni forti, e, di conseguenza, l’Iran prosegue il suo cammino verso il raggiungimento di un potenziale bellico nucleare. Di fatto, gli sforzi messi in atto a livello diplomatico per fermare l’Iran ad oggi sembrano purtroppo aver raggiunto un punto morto. Berlusconi si troverà pertanto ad affrontare una decisione difficile, poiché l’imposizione oggi di sanzioni sia pure particolarmente restrittive arriverebbe troppo tardi per porre un freno ai progressi dell’Iran. Inoltre, l’amministrazione uscente di Romano Prodi ha lasciato in eredità a Berlusconi un’economia nazionale indebolita, che non farà altro che rendere la scelta del futuro presidente del Consiglio più complessa.


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La presenza Unifil nella regione non può continuare ad avere le mani legate. Bisogna impedire l’arrivo delle armi dalla Siria

Libano: cambiare le regole d’ingaggio di Emanuele Ottolenghi a notizia è vecchia - il fatto sarebbe accaduto nella notte tra il 30 e il 31 marzo - ma la sua pubblicazione è recentissima: una pattuglia Unifil avrebbe bloccato un camion carico di armi nel corso di un’operazione di routine nel sud del Libano. Ma i soldati Unifil - una pattuglia italiana - non hanno potuto sequestrare il carico. Accostati da due auto con cinque uomini armati a bordo, i nostri sono rientrati alla base. Le armi di Hezbollah sono arrivate a destinazione, ma non senza un poderoso resoconto delle nostre forze armate. Il Comandante dell’Unifil, il generale Claudio Graziano, ha minimizzato l’incidente. E colpisce il silenzio stampa dell’Unifil fino al riferimento dei fatti da parte del Segretario Generale Onu, Ban Ki Moon.

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Moon ne ha accennato durante la presentazione del rapporto semestrale sull’attuazione della risoluzione Onu 1701 al Consiglio di Sicurezza questa settimana. Nel riportare l’incidente, Moon ha anche ribadito la necessità di disarmare Hezbollah e - dopo averlo fatto nel suo rapporto del 3 marzo sulla risoluzione 1559 - ha criticato nuovamente l’Iran e la Siria per il loro ruolo nel sostegno politico, militare e finanziario dell’organizzazione terroristica. In attesa che il rapporto sia pubblicato e che emergano tutti i dettagli dell’operazione, è bene trarre alcune lezioni dall’episodio, che speriamo il nuovo governo italiano, una volta insediato, vorrà considerare. Primo - a dispetto dell’immagine che emerge dai poveri dettagli resi noti da fonti diplomatiche e giornalistiche, i nostri soldati hanno fatto il loro dovere. Il problema dell’Unifil non è la mancanza di coraggio ma di regole d’ingaggio. L’Italia farebbe un grave errore a ritirare il nostro contingente dal Libano - cosa paventata da alcuni esponenti della nuova maggioranza - perchè il nostro impegno internazionale richiede un comportamento bipartisan responsa-

Purtroppo, tuttavia, le sanzioni deboli - le cosiddette “sanzioni non dolorose”- che da tempo costituiscono per l’Europa la scelta elettiva, sono in realtà peggiori della loro totale assenza. Sanzioni deboli offrono la parvenza di un’azione, nascondendo in realtà il fatto di non avere effetto alcuno.

Il segnale inconfondibile che tale politica lancia agli stati “canaglia”quali l’Iran, è che essi possono continuare impunemente nel loro cammino verso le armi di distruzione di massa. Ed è esattamente ciò che hanno fatto. Sia per l’America, sia per le principa-

bile, che non pregiudichi la nostra partecipazione a importanti missioni militari a ogni cambio di governo. Il problema dell’Unifil è di mandato ed è il mandato e le regole d’ingaggio che vanno rivedute, non la nostra partecipazione alla missione. Secondo - il problema del mandato e delle regole d’ingaggio è secondario rispetto al più ampio problema politico che l’Unifil da sola non può risolvere. La paralisi politica libanese e il rischio di un nuovo conflitto con Israele si riconduce ai giochi di Damasco e Teheran in Libano. I due principali sostenitori di Hezbollah non solo hanno bloccato il sistema politico libanese a suon di veti in parlamento e assassinii per strada, ma con la loro fornitura d’armi e il loro sostegno finanziario a

Hezbollah lo hanno trasformato in un ostacolo alla stabilizzazione del Paese e alla pace nella regione.

La presenza Unifil in Libano non potrà adempiere alla sua missione, in ultima analisi, se continuerà ad avere le mani legate - anche se tale situazione forse ci evita perdite - ma la comunità internazionale ne garantirà il fallimento se non andrà a monte del problema libanese con appropriate contromisure contro Iran e Siria.Terzo - la vocazione della comunità internazionale a procrastinare sui due precedenti temi non farà altro che peggiorare la situazione che l’Unifil si è data di risolvere. In meno di due anni dalla fine della guerra tra Israele e Hezbollah, secondo l’intelligence israeliano Hezbollah ha ricostituito e accresciuto il suo arsenale missilistico. Le armi arrivano via terra dalla Siria e via mare dal porto di Beirut. In poche parole,

L’Italia farebbe un grave errore a ritirare il contingente perché il nostro impegno internazionale richiede un comportamento bipartisan responsabile

li nazioni europee, pertanto, le soluzioni di natura diplomatica volte ad impedire all’Iran di raggiungere i propri obiettivi stanno rapidamente diminuendo. Sebbene a questo punto sanzioni severe arriverebbero comunque troppo tardi, avrebbero almeno il vantaggio di dimostrare che l’Italia ed altre nazioni europee si stanno preparando per il passo ancora più difficile che si potrebbe rivelare necessario, ovvero determinare il cambiamento del regime al potere a Teheran, oppure, in ultima analisi, ricorrere ad un uso mirato della forza militare contro il programma nucleare iraniano.

Naturalmente gli Stati Uniti a novembre dovranno fare i conti con le proprie elezioni, ed il risultato potrebbe determinare un cambiamento nell’attuale direzione del Paese rispetto alla questione iraniana.Tuttavia, nel quadro del sistema costituzionale americano, il Presidente continua a detenere pieni poteri esecutivi fino a quando non lascia la propria carica. Inoltre, a Bush potrebbe succedere John McCain, la cui posizione sull’Iran è perfino più severa rispetto a quella del presidente in carica. Hillary Clinton, che di certo non si può definire una repubblicana che adotta un approccio unilateraterale, poco

Hezbollah si sta riarmando - in chiara contravvenzione con tutte le risoluzioni Onu sul Libano. E il riarmo va contro ogni logica di pacificazione e riconciliazione nazionale - esso è un’ipoteca militare di Hezbollah e dei suoi padroni sul futuro del Libano e il preludio a un possibile nuovo conflitto con Israele, con tutte le conseguenze sottese. L’incidente del 30-31 marzo è un campanello d’allarme per i nostri interessi. La decisione di non divulgare la notizia è un sintomo della più generale tendenza a ignorare il problema vero del Libano, preferendo soluzioni diplomatiche inadeguate. Un’espansione del mandato dell’Unifil e una più robusta politica nei confronti dell’Iran e della Siria sono invece le due risposte che l’Italia deve adottare - non giocherellare con l’idea di ritirare le nostre truppe a ogni cambio di maggioranza o di lasciarle in una situazione pericolosa dove non sono in grado di adempiere ai compiti assegnatile da compromessi diplomatici di dubbia efficacia.

prima delle primarie in Pennsylvania ha detto che “annienterebbe” l’Iran qualora attaccasse Israele. L’argomento a favore del differimento di un’azione decisiva, pertanto, non tiene conto dell’elemento fondamentale per cui uno slittamento lavorerebbe a favore dell’Iran, consentendogli di proseguire nella soluzione dei problemi di natura scientifica e tecnica che si ergono lungo il suo cammino verso gli armamenti nucleari.

Il differimento quasi invariabilmente lavora a vantaggio dei proliferatori, e ciò appare particolarmente evidente nel caso

dell’Iran. Che cosa farà Berlusconi quando entrerà in carica? Una delle soluzioni per far uscire l’Italia dal suo attuale malessere consisterebbe nell’aiutare gli Stati Uniti a prendere le redini della lotta contro le ambizioni nucleari dell’Iran. I Paesi dell’EU-3 – che intenzionalmente ha escluso l’Italia dalle proprie file – negli ultimi cinque anni non hanno raggiunto alcun risultato. Berlusconi può mettere sul piatto una valida alternativa e, fattore ancora più importante, fare qualcosa di concreto per porre un freno alla minaccia che l’Iran costituisce per la comunità del patto atlantico nel suo complesso.


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politica Nel momento più difficile per Rutelli, solo i Ds possono salvarlo

Francesco, la prova più difficile di Nicola Procaccini ROMA. Sono le ore più difficili per Francesco Rutelli. Solo, incompreso e sempre più impotente di fronte all’inarrestabile deriva della sua “ricandidatura” a sindaco di Roma. L’ostentata celebrazione del 25 aprile non è che un balsamo leggero per Rutelli, incapace di lenire il dolore di una probabile sconfitta, fino a pochi giorni fa, inimmaginabile. Le telecamere televisive, impietose, trasmettono il suo sguardo accigliato; le sue parole, un tempo serene, ora sono cariche di rabbia, di un’angoscia difficile da dissimulare. Primo flashback. E’ il 2001 e Silvio Berlusconi sta volando verso una vittoria schiacciante, il suo avversario Francesco Rutelli, già sindaco di Roma, è impegnato in una rincorsa disperata. Escono i risultati ed i primi dati fanno correre un brivido lungo la schiena del Cavaliere: il margine tra i due contendenti a Palazzo Chigi si è ridotto paurosamente rispetto alle previsioni. Alla fine, anche se per poco, vince Berlusconi. Ma quella rimonta, seppure non finalizzata, resterà il capolavoro politico di Rutelli. In pochi nel centrosinistra riconobbero i meriti dell’allora candidato premier dell’Ulivo. Viceversa, si dice che Berlusconi, la prima volta in cui incontrò Rutelli dopo le votazioni, complimentandosi con lui, gli rivelò che se la campagna elettorale fosse durata una settimana in più, dato il trend, avreb-

be vinto le elezioni. Le sliding doors della politica. Quale sarebbe stato il destino di Francesco Rutelli se avesse prevalso nel 2001? Non ci è dato sapere. Ma sappiamo che oggi una rimonta elettorale la sta subendo. E come finirà, lo sapremo fra qualche ora. Resta il fatto che Rutelli sembra essere finito in una spirale di negatività all’interno della quale sta lottando coraggiosamente, ma più si agita e più affonda, come nelle sabbie mobili. Sull’emergenza sicurezza si gioca la partita per il Campidoglio. Rutelli propone i braccialetti salvavita, iniziativa non risolutiva ma certamente utile, eppure scatena una sorta di insurrezione femminile che lo accusa di voler limitare la libertà

«Chi vuole investire nella Roma deve dare garanzie di grandi acquisti per la squadra».

Il problema è che l’atteggiamento di Rutelli viene considerato un tradimento dai tifosi della Lazio ed una grande “paraculata” da quelli della Roma. Morale della favola: per i laziali è un romanista, per i romanisti è un laziale. Nessuno lo vota. D’altra parte, la coerenza nelle idee e nei partiti non è mai stata il punto di forza di Rutelli. Eppure sbaglia chi considera le sue scelte di fondo frutto di una certa disinvoltura valoriale. Secondo flashback. Nel 1975 Francesco abbandona gli studi di architettura e si iscrive al Partito Radicale. In quegli anni (ma pure oggi) il mantra pannelliano è «l’anticlericalismo come obbligo democratico e religioso». Il giovane Rutelli ne è un feroce divulgatore. Diventerà un cattolico fervente ed un punto di riferimento per le gerarchie ecclesiali. Sulla sua conversione si fanno tante ironie e congetture, ma il Vaticano solitamente valuta con attenzione l’affidabilità dei propri interlocutori ed i gesti politici di Rutelli sono sembrati degni di considerazione. Personalmente, resto convinto che dubitare delle convinzioni maturate dal candidato del Pd sia un esercizio scorretto che in troppi hanno già fatto, senza rispetto né titoli adeguati per farlo. Mentre, tornando ad un piano più propriamente politico, bisogna riconoscere che il radicamento di Rutelli nel tessuto sociale e nell’immaginario collettivo dei romani è stato molto meno efficace di quello realizzato da Walter Veltroni negli anni del suo mandato capitolino. Ad aggravare la situazione c’è quel atteggiamento snob che gli è valso soprannomi come “Piacione”,“Cicciobello”,“Er cipria”. Insomma, se Rutelli ce la fa, deve ringraziare l’apparato Ds e l’appeal di Veltroni, deboluccio in Italia, ma fortissimo nella capitale. Il Piacione può ancora vincere, ma ai romani piace sempre di meno.

Il candidato del Pd sta lottando coraggiosamente, ma più si agita e più affonda, come nelle sabbie mobili delle donne. Sceglie allora di essere più propositivo, ed annuncia l’istituzione di una Commissione per la Sicurezza Integrata. Organizza una conferenza per presentarla alla stampa, ma si lascia andare ad una battuta maldestra: «la chiameremo CSI Roma». Dal nome della fortunata serie televisiva americana. E giù una pioggia di sarcasmo generale.

Ormai risulta incalcolabile il numero di dichiarazioni rilasciate alle agenzie giornalistiche. Rutelli sa bene che il calcio a Roma non è un gioco. E tutti sanno che tifa Lazio: una scelta di cuore che dal punto di vista politico paga un certo prezzo poiché il rapporto romanisti-laziali in città è di circa 3 a 1. In queste ore Rutelli sembra posseduto da un demone giallorosso. Ai piedi del letto su cui è disteso Totti, convalescente, sussurra «un saluto doveroso ad un’icona della città». Il finanziere Soros tratta l’acquisto della società e lui dichiara prontamente:


politica

26 aprile 2008 • pagina 7

Ha accettato la svolta del Pdl, ma una sua vittoria può rilanciare l’identità di destra

Gianni il duro che sa dove fermarsi di Errico Novi

ROMA. Ci ha fatto i conti eccome, Gianni Alemanno, con l’inesorabile distacco tra ambizione e realtà. Era il più coraggioso di tutti, raccontano gli allora giovani del Fuan, quando essere missini significava sentirsi sotto assedio sul piano fisico, altro che egemonia culturale. Tanto è «aggressivo», come dicono i massmediologi dopo averlo visto all’opera contro Francesco Rutelli, che a un certo punto è sembrato l’unico in grado di contendere a Gianfranco Fini la leadership interna. Gli è andata male e molti pronosticavano che l’irruenza sarebbe costata a Gianni uno schianto contro il muro. Macché. Si è ripreso come se nulla fosse, ha allontanato da sé l’ombra dell’amicizia con Calisto Tanzi e adesso non mette in discussione la confluenza di An nel Popolo della libertà. Nonostante la base della sua ex destra sociale sia la componente del partito messa più a disagio dallo strappo. Alemanno sa fare i conti con la realtà, appunto. Sa che Fini ha vinto e riesce a stare in piedi senza perdere l’immagine di duro.

sociale del centrodestra. In molti si industriano nel dare un ruolo ”centrale” alla destra, ma questa centralità non deve essere confusa con una generica moderazione». Quei «molti» erano le sue controparti nel partito, da Fini a Gasparri. Apparentemente ha perso, ha rinunciato alla prospettiva postrautiana di «espandere An», e accogliere nel suo raggio d’azione «nuove realtà che consentano alla destra italiana di raggiungere quel 20 per cento dei consensi a portata di mano del partito». Ma anziché autocondannarsi all’esilio come ha fatto Francesco Storace è rimasto dentro con tutti e due i piedi, si è ricandidato sindaco a Roma dopo l’inevitabile sconfitta contro Veltroni nel 2006, e

Sei anni fa considerava troppo moderata la linea di Fini, ora ha saputo proporsi come candidato aperto alla città: le metamorfosi di Alemanno

Strano esempio di meridionale incendiario che sa spegnere gli ardori al momento giusto. Incassa la sconfitta quando è necessario, la elabora e si riadatta al nuovo gioco di forze. E com’è che i suoi fidati lo sopportano? Semplice. Perché Gianni apre i picchetti per i cuori neri assassinati negli anni Settanta, Paolo Di Nella e Francesco Cecchin. Anche da ministro, sotto la pioggia battente, lui va a commemorare i ragazzi uccisi a tradimento prelevati di notte a casa o mentre attaccavano un manifesto da soli. Troverà il modo di conciliare questo spirito comunitario con il nuovo partito del centrodestra. Certo, in un libro intervista pubblicato nel 2002 con Angelo Mellone sosteneva tesi come questa: «Alleanza nazionale si riconosca coerentemente nel ruolo di punta avanzata e di laboratorio dell’anima

persino ieri, venerdì 25 aprile, se l’è cavata benissimo. Ha celebrato la festa con l’omaggio al carabiniere Salvo D’Acquisto, accompagnato da due medaglie d’oro dell’Arma. Senza eludere la cerimonia con il presidente della Repubblica all’Altare della Patria, dove ha riletto il 25 aprile come «liberazione della Nazione da ogni forma di totalitarismo sia di destra che di sinistra» e «affermazione dei valori democratici».

Non da ieri è riuscito ad allontanare da sé l’immagine del candidato troppo di destra per essere il sindaco di tutta Roma. Lo ha fatto con scelte attente come le frasi pronunciate al Vittoriano, con la prudenza che gli ha sconsigliato l’apparentamento alla Destra di Storace e gli ha garantito il consenso di quella parte della comunità ebraica schierata con il Pdl. Se davvero salisse lui al Campidoglio, se Gianni centrasse l’incredibile record di primo sindaco di destra della Repubblica,

completerebbe il cerchio di un’impresa sottovalutata: ridarebbe fiato all’orgoglio di An, così provato in queste ore in cui si affievolisce l’euforia per il trionfo alle Politiche. Ci sarebbe più spazio per un’affermazione identitaria dentro il partito unico, con la spinta di un primo cittadino eletto nella Capitale. E così la realpolitik di Alemanno renderebbe un servizio inaspettato alla causa della destra sociale.

Come sempre accade a un alpinista, alla meta Alemanno ci arriva a capo di indicibili fatiche. Ha scalato il K2, da ministro è passato per le battaglie anti Ogm e ha presieduto il comitato di collegamento tra governo italiano e Onu per l’alimentazione e l’agricoltura. Ora in Europa scoprono che forse non ha torto chi considera l’autonomia alimentare come una riserva strategica e che dunque un po’ di ragione l’ha avuta anche Gianni il comunitario. Se ci sarà lui a governare Roma può darsi che la città perda un po’ la vocazione di parco a tema e recuperi qualcosa in termini di rigore culturale e memoria storica. Scusate se è poco, per uno che è stato segretario nazionale del Fronte della gioventù quando ancora An non era in programma. Pariolino sui generis che si ispira a Julius Evola anziché passare il tempo a parlare di donne, auto sportive e settimane bianche, avverte che se arriva lui Roma sarà liberata dal «grumo di potere che la tiene in ostaggio da quindici anni». Prudente sì, ma non al punto da rinunciare a mettersi solo contro tutti come ai tempi dell’università.


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pensieri

Il ministro parla di “difficoltà per le donne ad accedere al servizio”. Ma i numeri raccontano una storia diversa

Tutta la verità sui numeri della Turco d i a r i o

di Assuntina Morresi

a settimane, però, quello dell’obiezione di coscienza sembra essere uno dei problemi principali della sanità italiana. Dalla mancata prescrizione della pillola del giorno dopo alle file di attesa per abortire: i media italiani hanno descritto con enfasi situazioni di disagio (non sempre rispondenti alla realtà dei fatti) imputandole ad un ricorso eccessivo, ed a volte improprio o comunque immotivato - come secondo alcuni è il caso della pillola del giorno dopo - all’obiezione di coscienza; e spesso le critiche più aspre vengono proprio da parte di chi per il diritto all’obiezione di coscienza si è sempre battuto, come i radicali o gli intellettuali di area culturale di sinistra, quando non addirittura proposte per l’abolizione di tale diritto. Ma anziché colpevolizzare chi sceglie di obiettare, sarebbe opportuno chiedersi il perché di questa situazione: ritenere che il 70 per cento dei ginecologi italiani sia irresponsabile od opportunista non aiuta certo a capire.

Leader e autorità istituzionali hanno partecipato alle diverse manifestazioni organizzate in tutta Italia per l’anniversario della Liberazione. Doppio impegno per il presidente della Repubblica Napolitano, che ha iniziato la sua giornata all’Altare della Patria, a Roma, deponendo una corona di alloro sul sacello del Milite ignoto (presenti Marini, Prodi, Parisi e Amato, e il presidente della Corte costituzionale Bile). Napolitano si è quindi trasferito a Genova. Marini ha lasciato il Vittoriano per spostarsi a Bologna. Bertinotti non ha partecipato a nessuna delle manifestazioni, così come né Fini né Casini. All’Altare della Patria sono arrivati pochi parlamentari. Tra le file praticamente vuote riservate nella tribuna d’onore, il candidato al Campidoglio del Pdl Alemanno e il capogruppo dell’Udc a palazzo Madama D’Onofrio. A cerimonia in corso, è giunto anche l’altro candidato sindaco di Roma Rutelli.

D

E’ bene ricordare che la 194 prevede che le donne possano abortire solamente all’interno delle strutture ospedaliere pubbliche; molti dei sostenitori dell’aborto con la pillola, invece, chiedono che in ospedale vengano solamente somministrati i farmaci, e che le donne possano gestire la pesante procedura abortiva a casa, ricorrendo all’assistenza medica solamente in caso di complicanze. Una prassi che svuoterebbe di fatto l’attuale legge sull’aborto, stravolgendola e introducendo anche in Italia, come ad esempio in Francia, l’aborto a domicilio. La relazione ministeriale dà molto spazio all’aborto farmacologico,

g i o r n o

25 aprile: Napolitano, Marini e Prodi alle commemorazioni

segue dalla prima

L’introduzione della pillola abortiva Ru486 – che è ancora in discussione all’Aifa, l’ente italiano di farmacovigilanza – sembra essere per alcuni la soluzione del problema. Con questa procedura il medico non obiettore si limiterebbe a somministrare le due pillole abortive a distanza di quarantotto ore l’una dall’altra (la prima, la vera e propria Ru486, fa morire l’embrione in pancia, mentre la seconda, il misoprostol, provoca le contrazioni uterine e ne permette l’espulsione): se prevalesse la prassi di far ritornare a casa le donne anche quando l’embrione non è ancora stato espulso il carico di lavoro sul personale medico e paramedico non obiettore diminuirebbe di molto.

d e l

Governo: la squadra ancora tutta da fare «Abbiamo lavorato non solo alla squadra di governo ma anche alle sue componenti. Tuttavia tutto procede molto bene e stiamo cercando di mettere ad ogni posto uomini in grado di svolgere il compito che gli verrà affidato». Così Silvio Berlusconi, lasciando ieri Palazzo Grazioli, ha risposto ai cronisti che gli chiedevano come fosse andata la riunione della mattina per la formazione del nuovo esecutivo. Alla domanda se la nuova squadra fosse fatta, ha risposto: «Non ancora».

Berlusconi: lavoriamo per pacificare il Paese

Sicuramente la parte meno applicata della 194 è quella sulla prevenzione: il fatto che le interruzioni di gravidanza negli anni stiano diminuendo è positivo, ma non possiamo certo cantare vittoria

spiegando dettagliatamente il percorso seguito per l’introduzione del farmaco abortivo in Italia: pur specificando che tale iter ancora non si è concluso, la lettura fa pensare che l’autorizzazione al commercio della Ru486 in Italia sia oramai prossima. Ma nonostante l’immotivata benevolenza con cui nella relazione si parla di questa procedura, la decisione dell’Aifa a riguardo non appare così scontata: le 16 donne morte a seguito dell’aborto con la Ru486, gli effetti collaterali e gli eventi avversi collegati, più numerosi e spesso di maggior durata di quelli dovuti all’aborto chirurgico, il problema del secondo farmaco, il misoprostol, mai registrato a scopo abortivo ed anzi sconsigliato come tale dalla stessa ditta produttrice, sono ostacoli non da poco all’autorizzazione della pillola

abortiva in Italia. Chiunque sia il futuro ministro della Salute, però, almeno in un punto seguirà la strada tracciata da quest’ultima relazione del ministro Turco: non ci saranno iniziative per cambiare il testo di legge.

Durante la campagna elettorale tutte le forze politiche presenti in Parlamento si sono pronunciate in tal senso, ad eccezione di singoli deputati. Piuttosto ci si muoverà per una sua migliore applicazione, in tutte le sue parti, e su questo si misureranno gli schieramenti politici, e saranno giudicati. Di conseguenza, se venisse autorizzata la Ru486, il futuro ministro dovrebbe vigilare per un suo corretto uso esclusivamente all’interno degli ospedali pubblici. Sicuramente la parte meno applicata della 194 è quella relativa alla prevenzione degli aborti: il fatto che negli anni stiano diminuendo senz’altro è positivo, ma non possiamo certo cantare vittoria per il fatto che siano “solo” 127mila. Sono sicuramente 127mila aborti di troppo. E anche se un mondo senza aborti è probabilmente un’utopia, è quello comunque l’obiettivo a cui dobbiamo tendere, innanzitutto con un’operazione di forte valorizzazione sociale della maternità e di concreto sostegno alle situazioni difficili.

«Oggi ci sono le condizioni storiche e politiche perché questo 25 aprile possa rappresentare un salto di qualità verso la definitiva pacificazione nazionale». Lo ha affermato Berlusconi in una nota. Una pacificazione, ha aggiunto, «non per cancellare memoria, ragioni e torti, ma perché chi ha combattuto per la Patria sia considerato figlio di questa Nazione».

Ue: verso regole comuni per rimpatri clandestini E’ stato raggiunto l’accordo tra Consiglio, Commisione e Parlamento dell’Unione europea sulle regole comuni per il rimpatrio dei clandestini. Si attende solo il via libera definitivo dell’europarlamento (il 4 giugno prossimo) e poi la direttiva che cerca di dare omogeneità alle diverse politiche sul rimpatrio degli immigrati illegali diventerà legge per tutti gli Stati membri. Il testo proposto dalla Ue - al quale ha a lungo lavorato il commissario Franco Frattini - ha lo scopo di rendere equo e trasparente il processo di rimpatrio di quanti giungono in uno dei 27 Paesi dell’Unione senza permesso di soggiorno. Ai clandestini saranno garantiti dai 7 ai 30 giorni per fare ritorno in patria spontaneamente, poi, come secondo passo, verrà emesso un provvedimento di rimpatrio. Inoltre, un clandestino rimpatriato da uno Stato membro non potrà fare ritorno in nessuno degli Stati dell’Ue in virtù di un bando provvisorio che potrà essere reso permanente in caso di grave pericolo per la sicurezza nazionale.

Miccichè sottosegretario con delega al Sud Gianfranco Miccichè, lasciando palazzo Grazioli, contraddicendo quanto dichiarato dal leader del Pdl Berlusconi ha annunciato che la lista dei ministri del futuro governo in realtà è pronta. L’azzurro ha spiegato a di «non aver partecipato” alla lunga riunione che ha impegnato i vertici di Forza Italia con Silvio Berlusconi, ma di essere venuto in via del Plebiscito per un chiarimento con il premier in pectore sulle sue deleghe. ”Sarò sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Mezzogiorno e al Cipe».


&

parole

Il futuro dell’Udc. Parla lo storico Giovanni Sabatucci

ROMA Si conclude con Giovanni Sabatucci, politologo e ordinario di Storia Contemporanea all’Università la Sapienza di Roma, la ricognizione di liberal intorno al futuro del Centro italiano. Un dibattito cui hanno partecipato Stefano Folli, Luca Ricolfi, Sergio Romano, Giacomo Vaciago e Giovanni Sartori. Con la scelta di correre da solo alle ultime elezioni l’Udc di Pier Ferdinando Casini resta fuori dal governo, ma resiste allo tsunami politico che ha cancellato dal Parlamento interi partiti storici italiani. Come spiega il fatto che il Centro abbia tenuto e non sia stato stritolato dal bipartitismo? Lo spiego che sia pure in dimensione ridotte l’area di Centro nel Paese resiste. E non vuole identificarsi coi due blocchi principali anche nel momento in cui entrambi accentuano il loro tratto moderato. Una fetta di elettorato in presenza di un sistema bipartitico preferisce una posizione centrale. E in quest’area l’unica forza è l’Udc. Che ruolo ha ora il Centro? Come dovrebbe capitalizzare e investire la quota di consenso che è riuscito a mantenere? Quello che si è realizzato in questo sistema è l’ipotesi del piccolo centro. Non siamo insomma alla ridefinizione in senso centrista della politica italiana. Piccolo centro però non significa centro ininfluente. Con le sue scelte l’Udc potrebbe di nuovo essere decisivo sull’equilibrio nazionale. Decisivo in che senso però visto che la coalizione guidata da Silvio Berlusconi ha una larga maggioranza di voti? Per resistere bisogna presidiare quest’area. Durare, in attesa che circostanze favorevoli possano maturare una situazione in cui uno dei due schieramenti abbia necessità del Centro. I rancori col centrodestra, che sono lo strascico fisiologico della campagna elettorale, svaniranno e nel centrosinistra mi sembra ci sia già una grande disponibilità al dialogo. Ecco in un futuro non lontano il Centro potrebbe giocarsi la carta di un’alleanza necessaria ai socialdemocratici o al centrodestra. Mi sembra questa d’altra parte una strada obbligata. Casini voleva cambiare il centrodestra dall’interno. Questa cosa non è riuscita. Ha avuto la meglio Berlusconi con il suo modello di leadership. A questo punto il progetto è quello di premere dall’esterno per portare il centrodestra su posizioni diverse o per combatterlo. Da una posizione diversa ovviamente da quella del Pd e battendosi contemporaneamente per un sistema elettorale come il tedesco. Il referendum Guzzetta non va però certo in questa direzione. No, va in direzione opposta, ma non sarei così sicuro che questo referendum possa andare in porto. Credo che Berlusconi lo farà fallire. Al Cavaliere questa legge elettorale va bene, a lui basterebbe cambiare il premio nazionale di maggioranza. È un discorso ancora aperto dunque quello della legge elettorale alla tedesca, vuoi per l’incombere del referendum, vuoi perchè c’è un accordo col Pd, che ha al suo interno componenti favorevoli a questo sistema elettorale.

26 aprile 2008 • pagina 9

«Il Centro resterà una costante del sistema» colloquio con Giovanni Sabatucci di Riccardo Paradisi

La strategia di inseguire i temi eticamente sensibili le ultime elezioni hanno dimostrato che l’Udc ha un consenso moderato liberale più che cattolico A Roma l’Udc si è divisa sulla decisione di appoggiare il candidato di destra Gianni Alemanno o lasciare libertà di voto ai suoi iscritti ed elettori. È un segnale che all’interno dell’Udc restano forti le componenti che guardano al centrodestra? Certo che sono forti. L’Udc e prima il Cdu sono nati da una scelta di schierarsi a destra nel sistema bipolare, la divisione con i popolari nasce da lì. Questo ancora si sente, e pesa anche il fatto che in 14 anni di collaborazione a livello locale col centrodestra si creano delle reti, dei rapporti di interesse. Il partito però ha fatto bene ad assestarsi sulla libertà di voto. Per avere mani libere e non ipotecare nessuna strategia futura e per mantenere questa collocazione pienamente di Centro. Nei giorni scorsi si sono avuti incontri ripetuti tra i vertici dell’Udc e quelli del Partito democratico. Come giudica questo dialogo? Sono prove tecniche di intesa tra Udc e Pd?

Io le giudico alla luce delle divisioni interne al Partito democratico, Massimo D’Alema e i dalemiani non amano questa cosa del partito all’americana: primarie, gazebo, kermesse. Hanno invece forte il senso della manovra politica, per loro la politica è una cosa diversa. Si costruisce attraverso il dialogo e gli accordi e una possibile intesa con una forza di Centro è la scelta più logica, facilitata dal fatto che non c’è la sinistra radicale. La perseguono non solo come alternativa alla leadership veltroniana, ma anche come rivendicazione di una prassi politica tradizionale. Per ora credo ci sia solo questo. Secondo lei il Centro è destinato a rimanere una costante del quadro politico italiano o è una sopravvivenza destinata a essere inclusa e superata dal bipolarismo? Penso che la tendenza sia la formazione e la stabilizzazione di un piccolo Centro, non più dunque il luogo di un centro dove si fa tutta la politica. Se una cosa ha lasciato di duraturo la seconda repubblica è un bipolarismo

reale, incarnato nel Paese. A seconda poi di come si farà la legge elettorale ci sarà più o meno spazio per un Centro che sarà sempre una forza minore rispetto alle principali. Come in Germania. Dove i liberali hanno reso possibili i governi con socialdemocratici e centrontrodestra. I valori eticamente sensibili sono stati i grandi assenti di questa campagna elettorale, dove a parte l’eccezione di Ferrara, non s’è praticamente parlato né di aborto, né di Ru486, né di eutanasia. Eppure la biopolitica si annuncia come il vero tema metapolitico degli anni a venire. Su questo versante l’Udc – che ha contestato la rimozione dei temi etici dal dibattito politico degli ultimi mesi – ha un ruolo specifico da giocarsi? Non funziona. Entrambi gli schieramenti maggiori hanno entrambi nelle lorm file campioni di queste tema. L’un contro l’altro armati dentro gli stessi schieramenti però. Il voto cattolico ormai si indirizza verso gli esponenti cattolici che presentano Partito democratico e Partito delle Libertà. Le ultime elezioni hanno dimostrato che l’insediamento elettorale dell’Udc è un insediamento moderato liberale più che cattolico.


pagina 10 • 26 aprile 2008

mondo

La spesa annuale degli inglesi è aumentata di 800 sterline l’anno

Crisi dei prezzi per le famiglie british Brown sotto schiaffo di Valeria Minetti

LONDRA. La Gran Bretagna fatica ad arrivare a fine mese. E parte della colpa, oltre ai mutui, è l’aumento dei prezzi del cibo. Lo scorso anno il costo di un paniere di 24 generi alimentari di prima necessità quali té, latte, fiocchi d’avena e condimenti per pasta è aumentato del 15 percento. Un chilo di piselli al supermercato Tesco è aumentato da 1.10 a 1.79 sterline; il prezzo di una dozzina di uova medie da Sainsbury è passato da 1.75 a 2.58 sterline ed un pacchetto di fusilli da Asda è quasi raddoppiato salendo da 37 a 67 centesimi. Aumenti che indicano come l’inflazione dei generi alimentari nei supermarket sia sette volte superiore al tasso ufficiale d’inflazione. Tutte le famiglie (praticamente la maggior parte) che spendevano 100 sterline a settimana per mangiare, ne devono ora spendere altre 780 l’anno per acquistare gli stessi prodotti. Queste cifre sono state pubblicate mentre Gordon Brown invocava un’azione urgente per alleviare gli effetti della crescente inflazione de generi alimentari, definita dagli esperti uno “tsunami silenzioso” che minaccia milioni di persone in tutto il mondo. I notevoli aumenti dei costi di produzionedi alimenti di prima necessità come l’olio da cucina, il riso e il frumento, le carenze mondiali di importanti prodotti agricoli e la sempre crescente domanda proveniente dalla Cina sono i fattori principali alla base dell’impennata dei costi all’ingrosso del cibo. Il punto è che i supermercati scaricano l’onere degli aumenti sui consumatori. Le cifre fornite da MySupermarket.co.uk, un sito web che registra i prezzi nelle tre principali catene di supermercati Tesco, Asda and Sainsbury’s hanno dimostrato che milioni di famiglie si trovano ad affrontare l’inflazione dei generi alimentari più alta da una genera-

zione a questa parte. Nel suo rapporto si afferma che un paniere di 24 generi di prima necessità è aumentato in media del 15 percento fra lo scorso aprile e l’aprile di quest’anno, mentre solo lo scorso marzo questo paniere registrava un livello d’inflazione pari all’11 percento. Questa impennata è sette volte superiore al tasso di aumento dell’Indice dei prezzi al consumo (Ipc), il parametro preferito dal governo per misurare l’inflazione che si attesta oggi al 2,5 percento. Ma l’Icp è al momento sotto accusa per la misurazione dell’inflazione in quanto esclude il costo per i mutui ipotecari e le tasse locali, che rappresentano due degli oneri principali per le finanze di molte famiglie. L’Istituto nazionale di statistica difende i suoi calcoli, affermando che si basano su 120mila prez-

na. La statistiche costituiscono un buon indicatore dell’inflazione dei generi alimentari». Ruth Lea, importante economista della City e consulente dell’Arbuthnot banking group, ha dichiarato: «Non vi è dubbio che le famiglie in Gran Bretagna assistano a una notevole diminuzione del loro tenore di vita per via dei prezzi che corrono molto più di quanto non facciano le loro retribuzioni».

Vi è tuttavia un altro elemento da analizzare e che determina un enorme aumento degli alimenti a livello mondiale, ed è che una crescente superficie della terra è impiegata nelle coltivazioni per la produzione di biocombustibili. Questo ha portato a una diminuzione delle produzioni cerealicole ed ha provocato una sfasatura fra domanda e offerta. Basti considerare che le riserve mondiali di

Al supermercato un chilo di piselli è passato da 1.10 a 1.79 sterline; il prezzo di una dozzina di uova è salito da 1.75 a 2.58 sterline ed un pacco di pasta è quasi raddoppiato: da 37 a 67 centesimi zi rilevati in 23mila diversi negozi, mentre i supermercati affermano che i loro clienti fanno ancora buoni affari. Richard Dodd, del British retail consortium (il Consorzio britannico dei rivenditori al dettaglio), ha affermato: «Alcuni prezzi stanno crescendo rapidamente, ma è importante ricordare che i supermercati assorbono una grande percentuale di tale crescita. Per esempio, il prezzo del grano è raddoppiato, ma il pane nei supermercati è aumentato soltanto del 15 percento». Johnny Stern, di MySupermarket.co.uk, ha affermato: «Noi ci atteniamo alle nostre cifre, che si basano su un paniere di generi di prima necessità che la maggior parte delle famiglie consuma ogni settima-

grano sono ai livelli più bassi dalla Seconda Guerra Mondiale. Il Primo ministro Gordon Brown ha riconosciuto che i negozianti stanno risentendo degli effetti provocati da questo “avvitamento” in un periodo in cui milioni di famiglie lottano per arrivare alla fine del mese e riuscire a pagare le rate del mutuo. Brown, tuttavia, ha allargato la denuncia dichiarando che l’inflazione dei prezzi ha avuto un effetto catastrofico soprattutto sui Paesi più poveri del mondo. Per lui: «Affrontare il problema della fame è una sfida morale che noi tutti dobbiamo raccogliere e costituisce altresì una minaccia alla stabilità politica ed economica delle nazioni. Pertanto ritengo che dovrem-

mo invocare una risposta ben coordinata da parte della comunità internazionale». Distogliendo così l’attenzione sulla crisi interna il governo ha destinato 30 milioni di sterline al Programma alimentare mondiale (Pam) nel quadro di un pacchetto globale di aiuti alimentari pari a 455 milioni di sterline. Nel corso di una riunione di leader politici ed economici, Josette Sheeran del Pam, ha detto a Brown che la comunità internazionale deve rispondere alla crisi alimentare con la stessa efficacia con la quale reagì nel 2004 allo tsunami che colpì l’Asia meridionale, uccidendo 250mila persone e lasciandone altre 10 milioni nella peggiore indigenza. «Questo è il nuovo volto della povertà - ha dichirato Sheeran - i milioni di persone che sei mesi fa non rientravano nella categoria degli affamati che necessitavano un intervento urgente, oggi lo sono». Louis Michel, Commissario europeo responsabile per lo sviluppo, ha detto ai parlamentari di Strasburgo che il costo crescente dei generi di prima necessità è «un disastro umanitario mondiale in divenire». Ha affermato che sono milioni coloro che finora riuscivano a

malapena a sopravvivere e che ora rischiano di morire di fame. «L’emergenza la si constata ora. Abbiamo l’obbligo di agire e di farlo rapidamente», ha affermato.

Fino ad oggi il governo aveva sostenuto con forza l’utilizzo dei biocombustibili prodotti grazie ai cereali, il mais ad esempio, per ridurre le emissioni di carbonio.Tuttavia, per la prima volta, il Primo ministro Brown ha riconosciuto che i biocombustibili potrebbero peggiorare il problema e che la Gran Bretagna deve essere «più selettiva» nel suo sostegno. Secondo il Renewable transport fuel obligation, tutta la benzina e il diesel deve oggi contenere una percentuale di biocombustibile. Ma Brown ha affermato che i nuovi carburanti si sono rivelati «di frequente inefficienti dal punto di vista energetico», aggiungendo: «Dobbiamo considerare con attenzione l’impatto sul prezzo dei generi alimentari e sull’ambiente. Qualora le nostre analisi dimostrassero che dobbiamo rivedere la nostra impostazione, ci adopereremo anche per modificare gli obiettivi dell’Unione europea in tema di biocombustibili».


mondo

26 aprile 2008 • pagina 11

Il presidente colombiano smentisce d’aver organizzato un massacro di contadini con i paramilitari

Uribe nega un “patto col diavolo” d i a r i o

di Benedetta Buttiglione Salazar l presidente colombiano Alvaro Uribe è indagato dalla Fiscalìa General de la Republica, la Procura Generale, a causa di una denuncia fatta da un paramilitare arrestato. Il bandito lo accusa di aver partecipato all’organizzazione di un massacro nel quale persero la vita 15 contadini nella regione di Antiochia. È lo stesso Uribe a dare la notizia in una intervista rilasciata alla emittente radiofonica più popolare del Paese, Caracol Radio, mercoledì 23 aprile. E fornisce anche ulteriori particolari, alla missione di morte avrebbero partecipato due suoi fratelli e sue dichiarazioni «l’operazione è stata un successo», avrebbe detto l’allora governatore di Antiochia. Insomma, dietro il presidente si celerebbe il delinquente. Ovviamente Uribe si dichiara innocente e non sembra neanche troppo preoccupato di tali accuse. Il massacro avvenne nell’ottobre del 1997 e già dal 1988 tutti i suoi movimenti erano noti alle autorità che possono perciò adesso ricostruirli senza difficoltà. Quello che invece è vero è che l’autorità giudiziaria colombiana ha ordinato l’arresto del cugino del presidente, ex-senatore e suo consigliere, Mario Uribe, accusato di rapporti con i paramilitari. Mario Uribe ha chiesto prima asilo al presidente del Costa Rica, il quale, dopo aver parlato con il presidente Uribe, glielo ha negato. Da quando è stato eletto, Uribe ha inaugurato una politica di intransigenza nei confronti sia dei narcotrafficanti delle più note Farc, sia di quelli delle meno note Auc (Autodifese Unite della Colombia), i cosiddetti paramilitari, gruppi armati di estrema destra che hanno deciso di combattere da soli la guerriglia. Nella lotta contro questi gruppi sovversivi la politica del governo ha ottenuto un certo successo, riuscendo a disperderli e a quasi annientarli. Dal 2003 al 2006 sono riusciti a smobilitare più di 32mila membri.

g i o r n o

Israele respinge la tregua di Hamas

I

Quasi annientati, ma non del tutto. Infatti anche i paramilitari - come le Farc - sopravvivono e si armano grazie al commercio della cocaina e ultimamente sono tornati all’attacco. Quello che vogliono è impedire che Uribe si candidi per la terza volta alla presidenza della Repubblica. Uribe si trova a metá del secondo mandato presidenziale. Eletto per la prima volta nel 2002, è stato rieletto nuovamente nel 2006 ed è oggi ancora molto popolare, molto più della maggioran-

d e l

Gerusalemme non prende sul serio la disponibilità al “cessate il fuoco” dell’organizzazione fondamentalista palestinese. Respingendo la proposta di accordo di Hamas il portavoce del governo israeliano, David Baker, ha dichiarato che il progetto permetterebbe solo all’ala radicale dell’Anp di guadagnare tempo per prepararsi alle prossime battaglie. L’organizzazione islamista aveva dichiarato già all’inizio della settimana di essere pronta a una tregua con Israele che in seguito dovrebbe allentare il blocco della “striscia”. Finora si era parlato di una tregua da attuarsi contemporaneamente a Gaza e nella Cisgiordania. Israele ha sempre ripetuto di non voler trattare con il movimento palestinese radicale.

La Csu si “sbriciola”

za dei suoi colleghi europei. Se corresse una terza volta raccoglierebbe facilmente più dell`80 percento dei consensi. Una terza rielezione implicherebbe peró un cambio alla Costituzione, che altrimenti non la consentirebbe. In realtà Uribe non ha mai proposto esplicitamente la propria candidatura, l’unica volta che vi ha fatto cenno ha detto che la prenderebbe in considerazione solo nel caso si verificasse un’ecatombe, cioè una situazione di conflitto

paramilitari. Sarebbero coinvolti almeno trentatrè senatori e alcuni funzionari di governo.

E questo è un problema, non solo per la politica interna colombiana, ma anche per i suoi rapporti con l’estero, in particolare con gli Stati Uniti. Da sempre Uribe è considerato un amico di Bush, ma nonostante l’amicizia che li lega non è riuscito a far approvare dal Congresso americano l’accordo di libero commercio firmato già nel 2006. Sono i democratici quelli che vi si oppongono e sia Hillary che Obama si sono dichiarati contrari alla ratifica. Una speranza ci sarebbe solo se vincesse McCain, che vede nelle esportazioni privilegiate verso la Colombia una possibile soluzione alla stagnazione economica statunitense. Ed è proprio di mercoledì 23 aprile una lunga intervista del New York Times ad Alvaro Uribe, in cui il mandatario colombiano cerca di spiegare come e perché la Colombia sia un partner commerciale affidabile per gli Usa e come abbia sempre combattuto con efficacia il paramilitarismo. Traspare però dal tono dell’intervista una certa perplessità da parte degli americani sul coivolgimento proprio del cugino del presidente colombiano, nonché suo consigliere personale, con i famigerati paramilitari.

In passato diversi membri della famiglia presidenziale sono stati accusati di avere legami con i gruppi guerriglieri di destra, ma finora prove di questi rapporti non ce ne sono molto grave all’interno del Paese. Come dire che scenderebbe in campo solo se ce ne fosse un’estrema necessità. Sempre nell’intervista di mercoledì scorso, di fronte alla possibilità di andare ad elezioni anticipate, Uribe non si è pronunciato. Ha ribadito invece che non cederà alle pressioni di chi crede che in Colombia tutto si risolva con riforme costituzionali. Il governo - ha detto - non getterà il Paese nell’incertezza. Eppure la situazione politica in questo momento è molto delicata. L’ultimo scandalo colombiano riguarda la complicità tra politici e

Tempi duri per i democratici bavaresi che a breve potrebbero essere costretti a cedere il potere assoluto nel Land più ricco della Germania. A cinque mesi dalle elezioni che hanno visto molte importanti città della Baviera diventare “rosse”, o mantenere le amministrazioni socialdemocratiche, un sondaggio indica che un altro “amaro calice” è pronto. L’inchiesta pubblicata dal rappresentativo Istituto per le ricerche di mercato, afferma che in caso di elezioni il partito non supererebbe il 44 per cento. In questo modo, con la Spd al 20, i verdi all’11, liberali ed estrema destra ambedue al nove, e la Linke sotto la soglia di sbarramento, per poter governare la Csu dovrebbe formare un esecutivo di coalizione. Alle ultime elezioni regionali i democristiani avevano, con il 60,7 per cento dei voti e i due terzi dei seggi, di gran lunga la maggioranza assoluta.

McCain contro Bush Il presidente e il candidato alla sua successione saranno compagni di partito ma non si devono amare molto. A sei mesi dalle elezioni presidenziali il candidato repubblicano ha preso duramente le distanze dall’attuale inquilino della Casa Bianca. In una visita a New Orleans McCain ha definito «vergognosa» la gestione governativa della crisi seguita all’uragano Latrina. «Mai più si dovrà trattare una tale catastrofe in quel modo indecente», ha affermato l’ex prigioniero di guerra del Vietnam. Se, nell’agosto 2005, fosse stato lui il presidente sarebbe sbarcato nella più vicina base militare per dirigere «personalmente le operazioni». McCain, che vede sempre più vicina la possibilità di diventare il prossimo presidente Usa, si avvicina cosi agli elettori delusi da Bush.

Accordo commerciale Ue-Cina Pechino e Bruxelles hanno concordato sulla necessità di equilibrare la loro bilancia commerciale. L’intesa è uno dei risultati della missione Ue in Cina. Nel 2007 l’Unione ha registrato un deficit commerciale verso il grande Paese asiatico di oltre 159 miliardi di Euro, mentre i paesi europei hanno aumentato le loro esportazioni cinesi del 27 per cento nei cinque anni passati. Nel corso della visita è stato anche lanciato un nuovo meccanismo per un dialogo economico e commerciale ad alto livello, Hlm.

Attacco all’opposizione in Zimbabwe A quattro settimane dalle elezioni unità della polizia sono penetrate nella sede centrale del Movimento per la svolta democratica, Mdc, il partito di opposizione dello Zimbabwe. Almeno trecento persone sarebbero state fermate.Anche osservatori elettorali indipendenti sarebbero stati intimiditi. Il vice capo della polizia di Harare,Wayne Bvudzijena, ha dichiarato che le persone sono state fermate a causa di atti di violenza compiuti dopo gli scrutini presidenziali e parlamentari del 29 marzo. In Zimbabwe i risultati elettorali non sono ancora stati proclamati.


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speciale bioetica ROMA. Milano, aprile 2007: la comunità cinese scende in piazza per protestare contro un controllo della polizia ad alcuni esercizi in odore di illegalità. Della manifestazione colpisce il tratto politico nazionalista radicale: una comunità tra le più apparentemente integrate sta dimostrando la sua ostile alterità all’applicazione della legge italiana percepita come uno sgarro fatto alla comunità. In questi giorni a Londra, a Parigi, a Berlino le comunità cinesi sono tornate in piazza. Il loro obiettivo stavolta è meno occasionale e più politico: l’Occidente, gridano, deve smetterla di sostenere la battaglia del Tibet per la sua autonomia. I media non devono enfatizzare la repressione cinese di Lhasa. Il complotto contro la Grande Cina. Contemporaneamente a Pechino giovani nazionalisti, con l’appoggio delle autorità governative, si sono radunati davanti alla sede delle rappresentanze diplomatiche di Parigi e hanno dato fuoco al tricolore francese. Connettere Pechino a Parigi, Londra, Berlino – come in un rapporto tra chi dà il segnale e chi si muove – è quello che hanno fatto molti analisti.

Che il multiculturalismo avesse degli inconvenienti del resto avrebbero dovuto insegnarlo altre manifestazioni parigine. È il 1989, centinaia di musulmani sfilano nella capitale francese in occasione della fatwa proclamata per radio il 14 febbraio dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini ai danni di Salman Rushdie, colpevole di aver scritto il libro I versi satanici. Nel 1991 il traduttore giapponese di Rushdie, Hitoshi Igarashi, viene pugnalato a morte a Tokyo, quello italiano malmenato e pugnalato a Milano. Parigi non aveva ancora visto incendiarsi le banlieu ma la benzina su cui il fuoco si sarebbe appiccato era già sparsa in tutta Europa. I fatti però dovranno ripetere a lungo la loro lezione perché vengano registrati come un allar-

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I PERICOLI DEL MULTICULTURALISMO La civiltà del Vecchio Continente può mediare tra universalismo e identità comunitarie

L’EUROPA PATRIA EVITA LO SCONTRO DI CIVILTÀ di Riccardo Paradisi

delle ideologie e cominciava quello dei conflitti culturali e religiosi. Solo che il liberalismo a una dimensione di Fukuyama, convinto che ogni diversità sia riducibile nel letto di Procuste della triade produzione-benessere-consumo, non l’aveva capito. Sicché l’Occidente s’è svegliato nel nuovo secolo con un conflitto di civiltà al suo interno, assistendo al fenomeno di comunità che hanno prodotto nel

«Il pluralismo non può spingersi alla negazione di valori non negoziabili» me. Si è preferito credere – wishfull thinking – alla profezia irenica del politologo nippo-americano Francis Fukuyama: la storia sta per finire, è giunto il tempo, con la fine della guerra fredda e la sconfitta politica ideologica e militare dell’Unione sovietica «dell’avvento della supremazia dello spirito ipotizzata da Hegel». La società occidentale, questa era la convinzione di Fukuyama, ha vinto su tutti i fronti: le sue idee, le sue istituzioni, i suoi valori sono destinati a imporsi dappertutto. La palingenesi. Invece era solo finito il secolo

proprio seno gruppi violenti e intolleranti proprio nei confronti di quella società che non soltanto ne tollerava le differenze ma ne apprezzava anche la diversità. Da queste comunità provengono gli attentatori del World Trade Center di New York o della metropolitana di Londra. I frutti dell’assimilazionismo e dell’integrazionismo non sono stati quelli sperati.

La politica assimilazionista francese puntava a un’integrazione fondata sulla concessione della cittadinanza in cambio della ri-

nuncia alla propria identità religiosa esteriore, la politica multiculturalista britannica concedeva spazi pubblici e diritti collettivi alle minoranze etniche e religiose. Con questi risultati: in Francia elementi della nuova immigrazione musulmana e anche figli e nipoti degli immigrati nordafricani che scelsero di diventare francesi, rifiutano ogni assimilazione e anzi sposano e predicano un separatismo radicale. Allo stesso modo in Gran Bretagna ampi settori del mondo musulmano rifiutano di riconoscersi nelle leggi e nei costumi inglesi e in nome del separatismo culturale tendono a chiudersi in società parallele ostili. Che cosa è accaduto? Che gli esseri umani, come deve registrare con realismo uno dei teorici moderni del multiculturalismo Jacob Levy, sono culturalmente ed etnicamente molteplici e per questo possiedono delle identità collettive culturali ed etniche profondamente differenti. Quando questa molteplicità è incapace di sintesi e le differenze sono irriducibili il rischio dello scontro è altissimo. In un saggio pubblicato sullo Spiegel (N.37, 1994) Bassan Tibi ha paragonato il rapporto fra costituzione e shari’a con quello tra acqua e fuoco: «Credo che un musulmano possa salvaguardare e praticare individualmente la pro-

pria religione – di cui la shari’a d’altro canto non fa parte – senza entrare in conflitto con l’identità laica europea: a meno che per la libertà di religione egli non intenda avere il diritto di convertire l’Europa all’Islam». Il pluralismo insomma non può spingersi oltre dei valori non negoziabili sfociando nel relativismo assoluto. Una società completamente relativista cesserebbe d’altra parte di essere una società e l’emergere di enclavi etnico-culturali, di comunità parallele in seno all’Occidente è la spia che il risultato della disintegrazione è tutt’altro che remoto. Le libertà e le istituzioni liberali come aveva visto bene Toqueville faticano a stare in piedi senza il sostegno di quelle convinzioni forti che sono state garantite dalla tradizione culturale e religiosa e tramandate di famiglia in famiglia. Il liberalismo a una sola dimensione, il mercatismo globalizzatore, ha dimenticato che esistono le radici, che l’uomo nasce dentro una comunità e in una Tradizione. Se ne sono dimenticati anche i costituenti europei visto che nella carta manca qualsiasi riferimento al cristianesimo «l’asse portante cioè», come ha scritto Giovanni Reale «da cui è nata e secondo cui si è sviluppata l’Europa». La paura che traversa l’Europa è in fondo una crisi d’i-

La cattedrale di Notre Dame


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dentità tanto più profonda e pericolosa quanto le identità degli altri si radicalizzano e si strutturano in enclavi o comunità parallele insediate nelle conurbazioni europee. Comunità dove appena sotto una vernice di modernità vigono ancora valori arcaici: etnicismo, primato della forza, religiosità aggressiva, tribalismo. Di fronte a questa cultura calda la civilizzazione europea si presenta esausta e debole mentre i valori costituzionali e repubblicani, già indeboliti dal relativismo occidentale, non garantiscono né integrazione né assimilazione. Mentre l’utopia di un comunitarismo che sogna un mosaico etnico vivibile si presenta come la via più diretta al multiculturalismo della paura. Certo, c’è l’arma dell’educazione: ma se l’educazione può modellare un individuo isolato è molto difficile trasformare i valori di comunità etniche e religiose che sono e vogliono rimanere irriducibili al regno dell’ordine consentito dalla legge comune europea. «Il dramma che rischia l’Europa», scrive Giulio Tremonti nel suo libro La paura e la speranza (Mondadori) «è nella difficoltà a portare fino in fondo il suo esercizio identitario, avendo finora prevalso un tipo di cultura universalistica basata sull’idea assoluta, aprioristica e non selettiva di uguaglianza indifferenziata e di importazione libera, categorie queste progressivamente estese dalle persone e alle merci…L’inclusione degli altri in Europa», continua Tremonti «può proseguire solo se gli altri cessano di essere “gli altri” e diventano “noi”. Quindi o sono gli altri che rinunciano alla loro identità venendo in Europa o è l’Europa stessa che perde la sua identità e va così a porte aperte verso la sua disintegrazione. L’Europa che vogliamo è certo un’Europa con le porte ma non con le porte sempre aperte e per di più sempre aperte“solo”verso l’interno».

L’idea radical chic del melting pot planetario, del multiculturalismo ineluttabile è oggi tanto pericolosa quanto il richiamo tellurico al blut und boden che anima i demoni del razzismo, pronti a incarnarsi di nuovo nelle coscienze oscurate degli uomini. Di fronte a queste due alternative, che poi sono i due archi di uno stesso cerchio, sta la civiltà dell’Europa. La nostra possibilità e il nostro destino: «Nel rispetto delle frontiere europee, delle sue tradizioni e della sua integrità territoriale», scrive Pascal Bruckner, «si colloca lo sviluppo delle nostre persone. La chiusura completa sarebbe una morte spirituale, l’apertura completa un disastro: all’idea di una totalità planetaria o di una civiltà universale si tratta di sostituire l’idea di una separazione che resista alla sintesi». Questa idea ha un nome: si chiama patria. La terra dove riposano i nostri padri.

Quando il cinema è politicamente scorretto

La lezione di Van Gogh di Fabio Melelli

ROMA. Da qualche tempo a questa parte il cinema italiano sembra aver scoperto il tema della multiculturalità, licenziando una serie di film di diverso valore, ma tutti ugualmente interessanti sotto il profilo dell’analisi sociologica. Anche la nostra commedia più leggera non è rimasta immune dal fenomeno, tanto che tra le righe del simpatico Questa notte è ancora nostra di Genovese e Miniero si può leggere qualche dato sulla condizione dei cinesi in Italia e sulla loro difficile integrazione. Forti di antiche tradizioni e costumi peculiari i cinesi del film di Genovese e Miniero sembrano una comunità a parte, con pochi punti di contatto con il resto della popolazione romana. Questo riguarda almeno le vecchie generazioni, perché le nuovissime, cresciute nel clima culturale occidentale, sembrano più aperte all’altro e tolleranti: così la bella Valentina Izumi, può sottrarsi al matrimonio combinato dai genitori con un ricco rampollo della borghesia cinese, per unirsi al belloccio Nicolas Vaporidis, impiegato nella ditta di pompe funebri del padre, un eccellente Maurizio Mattioli. Alcune sequenze del film rimandano direttamente a quel capo d’opera del cinema popoare che è Delitto al ristorante cinese di Bruno Corbucci: basti vedere i tentativi del romanissimo Mattioli con la cucina asiatica, preferita a quella patria in un empito di solidarietà etnica, che ricordano quelli altrettanto comici di Nico Giraldi - Tomas Milian nel film di Corbucci. Il tema dell’integrazione multiculturale è al centro anche del modesto Bianco e nero di Cristina Comencini, in cui Fabio Volo è un uomo felicemente sposato con una italiana che perde la testa per una bellissima africana, a sua volta sposata con un connazionale, mediatore culturale. Il film si svolge in una Roma pacificata, illuminata con luci soffuse e avvolgenti, in cui sembrano non esistere contrasti etnici e sociali e tutto è annacquato da un buonismo in salsa veltroniana: sembra quasi di assistere a una riedizione fuori tempo massimo del classico hollywoodiano Indovina chi viene a cena? con la differenza che al posto della pur diligente Ambra An-

giolini nel film di Stanley Kramer c’era Katherine Hepburn! Ma per fortuna non c’è solo politically correct in questo ambito tematico, ci sono anche film in cui il tema è trattato in chiave maggiormente realistica e problematica.È il caso di Saimir di Francesco Munzi, autentica sorpresa di un paio di stagioni fa: con toni duri e non concilianti viene raccontata la storia di un giovanissimo albanese che arriva in Italia e sperimenta sulla propria pelle quello che significa essere un clandestino vittima del lavoro nero, ridotto in sostanziale schiavitù.

L’Italia non è un eldorado nel film di Munzi, ma un paese in cui si può vivere solo se si accetta di farlo nella piena legalità: nelle sequenze finali il protagonista si rivolge finalmente alle forze dell’ordine per porre fine a un traffico di esseri umani. Il film di Munzi che ha avuto una circolazione molto limitata è il classico esempio di opera didattica, che andrebbe proiettata nelle scuole per introdurre gli studenti a un dibattito centrale nella nostra vita quotidiana. Spesso si preferisce smussare o edulcorare certi temi, soprattutto nelle fiction, per non urtare certe sensibilità, ma in alcuni casi compito del cinema è proprio quello di risvegliare le coscienze, anche a costo di dispiacere a una parte dell’opinione pubblica. Anche perché per fortuna, in Italia, non c’è stato un caso come quello di Theo Van Gogh, “giustiziato” nel novembre 2004 da degli estremisti islamici per aver realizzato un cortometraggio, Submission, in cui criticava la condizione della donna in certe realtà arabe. Un omicidio che dimostra come il cinema possa ancora essere un’arma di liberta e mettere in pericolo fanatismi di ogni sorta, quando abbandona narrazioni convenzionali e stereotipate per parlare dei mali del presente. Come succede anche in molto cinema hollywoodiano contemporaneo, dove film come Babel, 21 grammi e Leoni per agnelli, tanto per citare un paio di titoli recenti, mostrano l’altro lato del sogno a stelle e strisce, la parte oscura dell’American Dream e della globalizzazione mettendosi dalla parte degli altri.


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speciale bioetica

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La nazionale di calcio francese è stata per anni presa come simbolo di una società multiculturale compiuta. Un’idea andata in crisi, prima coi fischi alla Marsigliese dei giovani di seconda generazione delle banlieues durante le partite della Francia e poi con le rivolte scatenate nelle periferie, in nome del separatismo culturale. Nella pagina a fianco: la metropolitana di Londra dopo l’attentato del 7 luglio 2005

L’ideologia dell’assimilazionismo della convivenza fondata sulla laicità è contraddetta ogni giorno dai fatti

Il fallimento francese di Andrea Semprini

PARIGI Per ragioni storiche e culturali, la Francia fatica non poco a riconoscere la complessità della problematica multiculturale. Questa difficoltà nasce in primo luogo dalla diffidenza profonda verso l’idea stessa di multiculturalità. Il modello sociale e politico francese è centralizzatore, giacobino e statalista, con un forte attaccamento all’uniformità e un’altrettanto forte diffidenza nei confronti della differenza. Da un punto di vista storico, uno degli obiettivi espliciti della Rivoluzione era di creare un uomo nuovo e di attribuirgli dei diritti

la nozione, anch’essa coniata sulle barricate della Rivoluzione, di cittadinanza repubblicana. Essa opera una netta distinzione tra la sfera pubblica, dove sono applicati rigidamente i valori universali e dove nessuna discriminazione può essere tollerata, e la sfera privata, dove viene relegato quanto riguarda la vita personale.

Gli orientamenti religiosi o sessuali, per esempio, appartengono alla sfera privata e in quanto tali non devono essere manifestati e ancor meno rivendicati nella sfera pubblica.

La legge sul divieto di portare simboli religiosi è semplicemente vessatoria universali che lo proteggessero dalle discriminazioni e dai privilegi dell’Ancien Régime. Questa vocazione universalistica, consegnata nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, esercita ancora oggi una fortissima presa ideologica e culturale non solo sulla classe politica francese ma anche sull’opinione pubblica. La Francia si considera la culla e il difensore dei Diritti dell’Uomo e ne trae una grande fierezza. Da questo contesto emerge

Questa distinzione tra privato e pubblico fa ormai parte del canone politico liberale ed é alla base di praticamente tutti gli ordinamenti sociali degli stati occidentali, inclusa l’Italia. La Francia tuttavia si distingue per la rigidità e il dogmatismo con cui talvolta applica questa separazione. Appare chiaro che il credo universalistico e repubblicano si coniuga difficilmente con il rispetto e l’accettazione delle differenze. Ne è esempio l’adozione nel 2004 di una leg-

ge, voluta dall’allora presidente Jacques Chirac, che vieta di manifestare la propria fede religiosa in tutti i luoghi pubblici: scuole, uffici, ospedali. La legge vieta l’uso ostentativo di qualsiasi emblema o abbigliamento religioso (crocefisso, stella di David, kippah, foulard, turbante) ma la sua finalità esplicita è quella di vietare l’uso del foulard islamico, in particolare nelle scuole, tanto che la legge è stata battezzata dai media francesi ”la legge del foulard”. La legge ha ricevuto un ampio supporto dell’opinione pubblica ed è entrata senza troppi scossoni nel corpo legislativo. Di primo acchito si può essere tentati di sottoscrivere alle ”buone” intenzioni di questa legge e alla sua vocazione di riaffermare i principi universalistici della sfera pubblica. Ma nella pratica la legge ha creato numerose situazioni di sofferenza psicologica su giovani in età scolastica che si sono visti obbligati a ritirare un indumento o un emblema che è per loro parte integrante della loro identità e della loro tradizione culturale. In numerosi casi, più di 100 riconosciuti dal Ministero dell’Istruzione per il solo 2004, l’applicazione della legge ha portato all’espulsione pura e semplice di studenti che hanno rifiutato di rinunciare al foulard. Al lettore italiano cattolico praticante è facile immaginare l’aspetto manifestamente vessatorio di una legge che gli imponga

di rinunciare al crocefisso o alla medaglietta che porta al collo fin da bambino e che incarna tanto un emblema religioso quanto un oggetto familiare carico di ricordi di affetti. Questa legge illustra i limiti del modello d’integrazione repubblicana alla francese, che mira molto più ad uniformare gli individui a un modello sociale dominante che a riconoscerne e ancor meno accettarne le differenze. Essa illustra soprattutto la difficoltà della cultura politica francese a comprendere i cambiamenti sociali intervenuti negli ultimi trent’anni e ad accettare che le popolazioni immigrate (in particolare d’origine africana e di religione musulmana) possano contribuire attivamente e in modo positivo alla definizione della cultura francese, invece che limitarsi ad aderire passivamente ad un modello monolitico preesistente.

L’ideologia universalistica non permette di contemplare la possibilità di posizioni intermedie tra il relativismo culturale assoluto, che porterebbe a tollerare manifestazioni culturali inaccettabili (omicidi d’onore, mutilazioni sessuali, integralismo), e il riconoscimento di attese e rivendicazioni divergenti rispetto alla cultura dominante, ma perfettamente accettabili e socialmente positive. La visione universalistica francese è entrata in crisi anche perché essa viene sistematicamente

contraddetta dalla realtà della vita quotidiana. Se l’ideologia repubblicana condanna e reprime tutte le forme di discriminazione, l’esperienza di moltissime persone alla ricerca di un lavoro o di un appartamento è di tutt’altra natura. Un nome arabo o un colore di pelle troppo scuro ”garantiscono” il rifiuto automatico di un curriculum o di un contratto d’affitto. Queste forme di discriminazione non sono certo un’esclusività transalpina, ma appaiono particolarmente difficili da risolvere proprio perché non sono riconosciute dai poteri pubblici, che restano fedeli alla loro visione, astrattamente ideologica, di un Paese dove tutti i cittadini sono uguali. La realtà della discriminazione nel mondo del lavoro, ad esempio, pur essendo flagrante, comincia solo ora ad essere esplicitamente evocata dai media e dai responsabili politici. La rivolta dei quartieri-ghetto del novembre 2005 è stato senza dubbio il segno più allarmante di questo senso di abbandono e di relegazione sociale vissuto da tutta una generazione di giovani nati in Francia da genitori immigrati. Essi constatano nella loro vita quotidiana la distanza tra quanto viene loro insegnato a scuola, ovvero il fatto di godere degli stessi diritti formali di qualsiasi altro cittadino, e la realtà delle discriminazione e della mancanza di prospettive scolastiche, professionali, economiche.


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ggi esiste un nuovo movimento totalitario che si chiama radicalismo islamico. Si tratta di una versione utopica ed estremista dell’Islam, di una lettura della religione islamica odierna e inusuale che ha provocato povertà e miseria (come in Algeria e Darfur), e che si basa sul terrorismo suicida, su governi tirannici e brutali e sull’oppressione delle donne e dei non musulmani. Questo fenomeno minaccia il mondo intero: Marocco,Turchia, Autorità palestinese, Egitto, Arabia Saudita, Iraq Iran, Pakistan, Afghanistan e Tunisia, spingendosi oltre il tradizionale mondo islamico verso la Russia, la Francia, la Svezia e – oserei dire – il Regno Unito…La differenza tra il mio punto di vista e quello di altri non sta nella consapevolezza di dover resistere a questa minaccia, ma nel metodo, in chi crede nel multiculturalismo e chi, come me, nel vincere la guerra e sconfiggere un terribile nemico. Molti definiscono il multiculturalismo come la giusta via per portare avanti i principi delle differenti culture con l’unico obbligo per ciascuna di non interferire con gli stessi diritti delle altre, e ritengono che una città come Londra ne sia un esempio, mentre io sono convinto che proprio qui la smania multiculturalista stia producendo un disastro perché ignora la crescente, pericolosa presenza del radicalismo islamico. Un segnale evidente di questo pericolo è che questa città e questo Paese siano diventati una minaccia per il resto del mondo. Nel 2003, il Ministro dell’Interno David Blunkett ha presentato un dossier alla Commissione per l’immigrazione nel quale ammetteva che la Gran Bretagna era un porto sicuro, una base significativa per i sostenitori del terrorismo globale. In effetti, la base inglese del terrorismo ha portato a termine operazioni in almeno quindici Paesi. Da Occidente ad Oriente si possono includere Pakistan, Afghanistan, Kenya, Tanzania, Arabia Saudita, Yemen, Iraq, Giordania, Israele, Algeria, Marocco, Russia, Francia, Spagna e Stati Uniti. Posso ricordare Richard Reid, bloccato in un aeroporto statunitense con una bomba nella scarpa, ma c’è stato un ruolo inglese anche nell’11 settembre così come nello scampato Millennium Plot di Los Angeles. Il Presidente egiziano Mubarak, sconfortato, ha pubblicamente denunciato l’Inghilterra per la“protezione degli assassini”, e dopo l’attentato sventato all’aeroporto di Heathrow di qualche tempo fa, due scrittori americani, sul The new Republic, hanno sostenuto che dal punto di vista americano non può esserci dubbio sul fatto che la minaccia peggiore agli Stati Uniti non provenga dall’Iran, dall’Iraq o dall’Afghanistan, ma dalla Gran Bretagna.

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Esiste dunque un problema, il radicalismo islamico, anche noto come Islam fondamentalista, Islam politico o Islamismo. Non è – come ho già detto – l’Islam religioso, ma la sua ideologia radicale, che si caratterizza per tre aspetti. Primo, la sua essenza, la completa adesione alla Sharia, la legge dell’Islam, e l’estensione di questa ad aspetti che non l’hanno mai riguardata prima. Secondo, la sua visione manichea che costituisce la base per l’ideologia dello scontro di civiltà. Essa divide il mondo in due parti, morale e immorale, buona e cattiva. C’è una citazione di

È nel Regno Unito la maggiore minaccia terroristica islamista

Gran Bretagna, multiculturalismo ko

di Daniel Pipes un islamista inglese, Abdullah el-Faisal attualmente in carcere – che dice: «ci sono due religioni nel mondo di oggi, quella giusta e quella sbagliata, l’Islam contro il resto del mondo». Non esiste una visione più orientata allo scontro di civiltà di questa. C’è l’odio per il mondo esterno, il mondo non musulmano e l’Occidente in particolare, e c’è l’intento di rifiutare quanto più possibile ogni influenza esterna. La terza caratteristica è la sua natura totalitaria. Essa trasforma una fede personale in una ideologia, una dottrina, un sistema onnicomprensivo di gestione del potere e del benessere… Molti di coloro che condividono la mia visione politica sono allarmati dall’avanzata islamica in Occidente, mentre tante

stessi nemici», che lui stesso ha specificato essere Israele, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna... D’altra parte, la sinistra si sente vicina agli attentati islamici all’Occidente, li perdona, li giustifica.

Il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen ha chiamato gli attacchi dell’11 settembre “il capolavoro dell’ universo”, mentre il romanziere americano Norman Mailer ha commentato in proposito che “le persone che lo hanno portato a termine erano menti brillanti”. Alcuni atteggiamenti portano la sinistra a non prendere seriamente in considerazione la minaccia islamista all’Occidente, tanto è vero che con John Kerry, ad esempio, l’argomento è stato retrocesso a semplice Questa “seccatura”. dunque è una ragione, il legame tra i due campi. La seconda è che a sinistra c’è la tendenza a parlare di terrorismo ma non di islamismo, non di radicalismo islamico. Il terrorismo è considerato una conseguenza del colonialismo occidentale dei secoli passati, del neo-imperialismo di oggi, delle politiche occidentali – specialmente in posti come l’Iraq e la Palestina – oppure prodotti della disoccupazione, della povertà, della disperazione. Il problema è che queste idee hanno prodotto un’ideologia aggressiva…La nostra vittoria, oggi, deve essere l’affermazione di un Islam moderno, moderato, democratico,

La sinistra giustifica il radicalismo islamico: ha i suoi stessi obiettivi persone di sinistra affrontano l’argomento in un modo più rilassato. Perché questa differenza? Perché generalmente la destra si allarma, mentre la sinistra è molto più fiduciosa? Ci sono varie ragioni, ma vorrei soffermarmi su due. Una è la condivisione dell’avversario tra islamisti e certa sinistra. Gorge Galloway ha spiegato nel 2005 che «il movimento progressista mondiale e i musulmani hanno gli

umano, liberale e pacifico, che rispetti la donna, gli omosessuali, gli atei e chiunque altro, e che garantisca ai non musulmani gli stessi diritti dei musulmani. In conclusione, tutti - musulmani e non, destra e sinistra - dobbiamo essere d’accordo sull’importanza di lavorare insieme per raggiungere questo obiettivo. Credo che lo scopo possa essere centrato non attraverso il multiculturalismo, ma stringendo forti alleanze per il mondo, soprattutto con le voci liberali del regno saudita, i dissidenti iraniani e i riformatori in Afghanistan. Propongo anche un’alleanza con le loro controparti in Occidente, con personaggi come Ayaan Hirsi Ali, già deputato olandese ora in esilio negli stati Uniti; con Irshad Manji, lo scrittore canadese, con Wafa Sultan, una donna siriana in esilio in America che ha fatto una comparsa fenomenale su Al-Jazeera, e con persone come Magdi Allam, un egiziano e un importante giornalista italiano, Naser Khader, un deputato danese, Salim Mansur, professore e scrittore canadese, e Irfan Al-Alawi, un attivista britannico. Al contrario, se non stiamo dalla parte di queste persone ma da quella di chi li perseguita, gli islamisti tipo Yusuf al-Qaradawi, significa che ci schieriamo con coloro che giustificano gli attacchi suicidi, che difendono la peggiore, più oppressiva forma di pratica islamica, e che abbracciano il punto di vista dello scontro di civiltà. Testo estratto da un colloquio di Daniel Pipes con il sindaco di Londra Ken Livingstone.


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economia

Se il nucleare è l’energia del prossimo futuro, il business del presente è il decommissioning: smantellare vecchi impianti

Rottamare centrali,affare da 300 miliardi di Strategicus l mondo sta riscoprendo l’atomo. Le urne in Italia hanno dimostrato come non solo la classe politica, ma anche la maggioranza dell’opinione pubblica si sia liberata del “catastrofismo pessimista”, che ha portato alla disastrosa decisione di chiudere il programma nucleare in Italia. La previsione di 200 nuovi reattori nei prossimi 15 anni, con un costo stimato di circa 2 miliardi di euro ciascuno, porta a un mercato potenziale di 400 miliardi di euro. Ma accanto si apre un altro business: entro il 2020, 300 centrali entreranno in decommissioning (70 nella sola Europa), con un giro d’affari per chi si occupa di smantellamento dei vecchi impianti pari a oltre 300 miliardi di euro nei prossimi 30 anni. Così, intorno al 2030, la dimensione economica del decommissioning raggiungerà quella della costruzione di nuove centrali. Potrebbe essere addirittura superiore con l’avvio dei programmi di rinnovo degli impianti nucleari di Usa e Russia. Si profila la sostituzione di quelli esistenti con nuovi reattori di maggiore sicurezza, con minore produzione di scorie e più economici.

diare la frontiera tecnologica del mercato del decommissioning e fungere da stimolo per investire nella crescita del rango dell’Italia in tale mercato. Deve essere chiaro che, senza una programmazione politico-istituzionale – oltre che industriale – l’operazione durerà troppo tempo, con un’inaccettabile dilatazione dei costi a carico dei cittadini. Ciò genererebbe una perdita di affidabilità industriale e programmatica dell’Italia a livello internazionale.

I

Ad arricchire questo mercato anche i programmi di smantellamento degli arsenali nucleari militari ereditati dalla Guerra fredda. Al riguardo, il governo italiano ha stipulato un accordo bilaterale con il governo russo “Global Partnership” per lo smantellamento dei sottomarini e di un incrociatore nucleari ex sovietici, e per la gestione sicura dei rifiuti radioattivi e del combustibile nucleare esaurito. È previsto l’esborso da parte dell’Italia di 360 milioni di euro in dieci anni. Questo mercato va poi allargato alla costruzione di depositi di stoccaggio delle scorie. Il decommissioning presenta un’enorme dinamicità di mercato. Un Paese in-

dustrializzato come l’Italia, con un passato nucleare di elevato spessore e con buone capacità programmatiche e produttive – pur se in fase regressiva – e che vuole rilanciarsi, non può e non deve rinunciare a questo business. E l’Italia, per mantenere viva l’opzione del nucleare deve partire da ciò che pos-

decommissioning delle installazioni nucleari e la gestione dei rifiuti radioattivi. L’azienda è anche impegnata in attività in campo nucleare, energetico e ambientale in ambito internazionale. Oltre a Sogin, si muovono nel settore altre realtà che danno lustro nel mondo al Paese: basti pensare ai progetti in esse-

Entro il 2020 circa 300 reattori dovranno essere sostituiti. E con la gestione delle scorie si crea un mercato dalle alte potenzialità, nel quale l’Italia – grazie a Sogin – può dire la sua siede e che sa fare bene: il decommissioning delle installazioni nucleari e la messa in sicurezza delle scorie. Leader in Italia del settore è la società Sogin SpA. È stata costituita nel 1999, nell’ambito della riforma del sistema elettrico nazionale, con la mission del

re di Enel, di Ansaldo, di Edison e di altre piccole e medie imprese sparse su tutto il territorio nazionale. E ciò rappresenta una buona base di partenza. Serve, però, un’intesa sistemica tra apparato industriale e classe politico-istituzionale, con l’industria che deve presi-

Il decommissioning rappresenta per l’Italia qualcosa di più di un’attività commerciale. In primo luogo, esiste un filo diretto tra la necessità di accelerare il decommissioning italiano e gli interessi nazionali e le ambizioni politiche, istituzionali e industriali, considerate le attuali capacità progettuali, manageriali e autorizzative. In secondo luogo, saper fare bene il decommissioning avrebbe l’effetto di mantenere aggiornato il livello tecnologico e di competenze, di evitare la fuga dall’Italia di ingegneri nucleari, di ricomporre le esperienze e il comparto industriali italiani, per non disperdere per sempre un patrimonio storico unico, e di adottare una politica di reclutamento e di stimolo per la formazione di giovani ingegneri e tecnici senza farli gravare sulla tariffa elettrica. In terzo luogo, il decommissioning sarebbe da stimolo per l’ambiente pubblico nucleare, favorendo la scelta della politica, in virtù di interessi connessi allo sviluppo del sistema Paese. Per concludere, investire in Italia oggi nel decommissioning significa essere in grado nel prossimo futuro di ripagare gli investimenti per il ritorno al nucleare, con grandi positività sull’occupazione, sul costo della bolletta, sulla sicurezza energetica, sulla salute dei cittadini e sulla tutela ambientale.

La fallita riconversione di Montalto di Castro dimostra che non si può tornare all’atomo riattivando le strutture chiuse dopo il referendum del 1987

Che errore voler ripartire da Trino Vercellese e da Caorso Il referendum del 1987 ha determinato una moratoria di 5 anni sulla prosecuzione del programma nucleare italiano. Alla scadenza, tale moratoria è divenuta prassi, con un Paese finito ormai in possesso di un equilibrio energetico basato sui combustibili di origine fossile. A partire dalla fine degli anni Cinquanta, l’Italia ha costruito quattro centrali elettronucleari. I siti scelti furono Latina, Trino Vercellese, Caorso e Garigliano. Quest’ultima fu fermata per modifiche nel 1978 e non più riavviata, mentre gli altre tre impianti furono fermati a seguito del referendum. Una delle voci circolanti nel dibattito sul ritorno al nucleare in Italia dava per opportuna la riapertura delle vecchie centrali nucleari italiane. Su questa ipotesi è giunta, ultimamente, anche Energy Lab. La logica è: visto che già le abbiamo costruite e che

stiamo spendendo soldi per buttarle giù, perché non riaprirle e risparmiare qualche euro. Qualcuno ha anche parlato della economicità di una rimessa in esercizio di tali centrali. Ma sono tutte voci infondate. Riaprire una delle centrali nucleari italiane dismesse da trenta anni avrebbe un costo pari, se non superiore, alla costruzione di una nuova centrale. Inoltre, oltre alla dimensione politico-scientifica, il nucleare possiede una caratterizzazione sociale. Esiste una diretta proporzionalità tra la chiusura dell’esercizio di una centrale e la popolazione e il territorio locali. Soprattutto in Italia, elementi quali paura e idealismo convivono nelle menti e nei cuori di chi si trova nelle vicinanze di una centrale. Riaprire una centrale dismessa vorrebbe dire rischiare di generare un caos emotivo nelle popolazioni locali nuclearizzate. Meglio, allora, chiudere

definitivamente con il nostro passato, attraverso uno smantellamento accelerato, e riaprire l’opzione nucleare con la costruzione di nuove e più moderne centrali. Le competenze ci sono. Alla non convenienza sulla riapertura delle vecchie centrali dismesse, si deve aggiungere che la riconversione di una centrale nucleare non è scientificamente possibile. Il fallimento di Montalto di Castro ne è, infatti, una chiara evidenza, con la costruzione di una centrale convenzionale limitrofa alla centrale nucleare, mai finita di costruire. Lo smantellamento delle quattro centrali e dei cinque impianti nucleari presenti sul territorio italiano va avanti. Ma parallelamente, serve una scelta chiara e, soprattutto, lungimirante nel campo di politica energetica. Ne va del futuro del nostro Paese e, se vogliamo, dei nostri figli e nipoti.


economia

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d i a r i o

d e l

g i o r n o

Contratti, Bonanni apre a Confindustria «Ben venga un incontro subito. Sono molto d’accordo che al più presto ci sia un tavolo». Così il segretario generale della Cisl, Raffele Bonanni, risponde all’invito lanciato dal presidente designato di Confindustria, Emma Marcegaglia, a portare a termine al più presto la riforma del modello contrattuale. Il sindacato «accoglie l’invito». Riguardo alle questioni relative ai tagli fiscali e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, «per me si parte dalla detassazione sul secondo livello di contrattazione». Su questi temi, ha proseguito Bonanni, «saremo sicuramente impegnati in uno spirito di collaborazione».

Zaleski rinuncia alle acciaieria Gandrange

La compagnia smentisce un’offerta o la partecipazione a una cordata

Lufthansa non fa rotta sulla disastrata Alitalia di Alessandro Alviani

La Carlo Tassara di Romain Zaleski ha dichiarato che l’interesse per il sito siderurgico Gandrange, di proprietà di Arcelor-Mittal, non è più di attualità perché il colosso indiano dell’alluminio non ha voluto dar seguito alla proposta. «La società Carlo Tassara e un altro gruppo di investitori italiani avevano l’intenzione di rilevare il sito di Gandrange di cui Arcelor-Mittal conta di fermare una parte», ha sottolineato la società di Zaleski in un comunicato, aggiungendo che «erano già stati fatti dei passi preliminari ma Arcelor-Mittal ha fatto sapere che non intende più intraprendere tale progetto».

Nomura in “rosso” per la crisi dei mutui Il gruppo giapponese di servizi finanziari Nomura Holdings ha annunciato di aver concluso l’anno fiscale 2007-2008 in rosso a causa delle perdite subite sul mercato immobiliare americano e delle avverse condizioni dei mercati.Tra l’aprile 2007 e il marzo 2008, Nomura ha perso 67,85 miliardi di yen (435 milioni di euro) contro utili per 175,73 miliardi di yen nell’anno precedente.

Enel acquista il 50 per cento di Ems BERLINO. Ha impiegato una sola frase, Stephan Gemkow, direttore finanziario di Lufthansa, per mettere a freno le voci che vorrebbero la compagnia di Wolfgang Mayrhuber pronta a rientrare nella partita Alitalia. «Non abbiamo avviato nessun colloquio col governo o col management», ha detto ieri con tono asciutto, nel corso di una conference call. I tedeschi, dunque, continuano sì a seguire quanto avviene al di là delle Alpi, tuttavia, nonostante le indiscrezioni di questi giorni, l’ipotesi di scendere in campo con una propria offerta (o all’interno di una cordata italiana) non sembra al momento allettarli. «La nostra posizione non è cambiata», ha ribadito Gemkow. A non far cambiare tale posizione non sono bastati né l’interesse mostrato da Aeroflot per Alitalia né la rottura delle trattative con Air France. Anzi. «Gli sviluppi delle ultime settimane hanno confermato il nostro giudizio», ha spiegato il direttore finanziario. Del resto, i motivi che hanno spinto Lufthansa a non presentare nessuna offerta a dicembre restano inalterati: gli svantaggi, in particolare le ripercussioni negative legate a una perdita dell’investment grade rating in caso di acquisizione, continuano a pesare di più degli eventuali vantaggi. A sbilanciare ulteriormente il piatto dalla parte degli svantaggi (o, quanto meno, delle incertezze legate all’affare) sono le ultime evoluzioni relative alla compagnia di bandiera. Proprio ieri è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il decreto legge per la concessione di un prestito ponte da 300 milioni di

euro per Alitalia, deciso per «far fronte a pressanti fabbisogni di liquidità», come si legge nel testo. Sul provvedimento Bruxelles continua a nutrire forti dubbi. E ha confermato che vaglierà il prestito, per individuare se rientra nella categoria degli aiuti di Stato.

I tedeschi temono di perdere il loro rating annettendo gli italiani. Dopo Ryanair, British studia ricorsi sul prestito ponte Nel frattempo le pressioni sulla Ue aumentano: dopo gli irlandesi di Ryanair, adesso sono British Airways e gli svedesi di Sas a far

sapere di seguire con attenzione la vicenda e a minacciare ricorsi. In queste condizioni e dopo lo stop di Gemkow, l’ipotesi che l’assemblea degli azionisti Lufthansa, in programma martedì, possa affrontare il dossier Alitalia in vista di un’eventuale offerta appare poco realistica.Tanto più alla luce dei solidi conti presentati ieri dai tedeschi. Se da una parte Mayrhuber ha annunciato di voler giocare un ruolo attivo nel processo di consolidamento in atto nel settore, dall’altra il suo sguardo sembra rivolgersi al momento altrove. Agli Stati Uniti, ad esempio. La pressione ad agire sul mercato americano è sensibilmente cresciuta dopo l’accordo tra Delta e Northwest e i tedeschi hanno già messo piede nel continente, entrando nella compagnia lowcost Jetblue.

Enel ha acquistato da Electrica il 50% del capitale sociale della società romena Electrica Muntenia Sud (Ems) per un corrispettivo di 395 milioni di euro, diventandone così il principale azionista. L’operazione è stata effettuata nell’ambito del processo di privatizzazione di Electrica Muntenia Sud e in conformità con quanto previsto dal contratto per la privatizzazione di questa società stipulato l’11 giugno 2007 tra Enel e la società statale Electrica. Ems, che è una delle otto società regionali di distribuzione elettrica della Romania e la quinta privatizzata dallo Stato romeno.

Weber, la sfiducia continua a pesare La fiducia tra le banche nell’Eurozona resta «fortemente disturbata e questo impedisce il normale funzionamento dei mercati monetari». È il pensiero di Axel Weber, presidente della Bundesbank e coansigliere della Bce, in un discorso pronunciato a Eltville. I mercati azionari, ha detto Weber, stanno inviando da metà marzo segnali più positivi, ma le tensioni sul mercato monetario, dove circolano i finanziamenti interbancari, stanno continuando. Per ritrovare «un minimo di fiducia, è assolutamente necessario che le istituzioni finanziarie siano più trasparenti sui livelli della loro esposizione e sulle potenziali svalutazioni».

In programma l’assemblea del Leone con l’elezione del collegio sindacale. Ma non si attendono scossoni ai vertici

Generali:da Serra nuovi attacchi,ma Bernheim è saldo di Vincenzo Bacarani

MILANO. In agenda c’è il bilancio e le incentivazioni ai manager, ma l’assemblea di Generali di oggi rischia di passare alla storia dopo la battaglia del collegio sindacale. Di storico sicuramente c’è che per la prima volta il Leone aprirà l’organismo ai soci di minoranza (non solo i due posti del collegio, ma anche la presidenza). Ma difficilmente questa partita sarà decisiva per i futuri assetti di Trieste dove il presidente Antoine Bernheim, nonostante gli attacchi dei fondi azionisti, sembra ancora saldo al suo posto. Eppure è stata una battaglia particolarmente vivace e ha visto scendere in campo due contendenti principali: Assogestioni (0,6 per cento del capitale) e il fondo inglese Algebris (forte dello 0,5), il cui gestore Davide Serra forse oggi ripeterà le sue critiche a governance, strategie e vertici del Leone.

A tentare un’azione di disorientamento ci ha provato edizione Holding (Benetton), di fatto una lista “civetta” in quanto secondo la Consob “collegata”alla maggioranza. Escluso dunque il cartello di Ponzano Veneto che ha ritirato la sua candidatura, resistono Assogestioni e Algebris. Se Unicredit (4,6 per cento) potrebbe astenersi o appoggiare la linea del consiglio d’amministrazione), IntesaSanpaolo (2,3) potrebbe sostenere Serra. E si attende di capire come voteranno Zaleski (2,2) e De Agostini (2,5). Ma a fare da ago della bilancia sarà comunque Bankitalia (4,5 per cento). Comunque vadano le cose, Bernheim, forte anche della tenuta del gruppo rispetto alla crisi finanziaria internazionale, si appresta a essere il vincitore di questa mini-guerra. A Serra, forse, l’onore delle armi


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cultura

In libreria l’ultimo lavoro di Italo Zandonella Callegher sull’epopea degli alpini durante la Grande guerra

Una valanga d’eroismo di Massimo Tosti u la “loro”guerra, senza alcun dubbio. Per ragioni geografiche e logistiche. Perché il fronte dei combattimenti si bloccò per tre anni sugli altopiani e le montagne del Veneto. Perché nessun corpo militare conosceva quel territorio come il loro. Perché nessuno come loro era allenato alla fatica, al rigore dell’inverno, agli ostacoli naturali, alle piste impervie che si dovevano percorrere per conquistare una quota di importanza strategica, o una cima che consentisse di spiare le mosse del nemico. Di fronte avevano i Kaiserjager: la stessa dimestichezza con le arrampicate e i dirupi, con il gelo e il silenzio spaventevole delle notti in trincea. Con il sacrificio.

riservisti impegnati a rifornire l’avamposto incaricato di conquistare il Passo della Sentinella, che alla fine fu conquistato, anche se cadde di nuovo in mano nemica nel successivo mese di ottobre, quando il nostro esercito si ritirò al di qua della linea del Piave dopo Caporetto. Le truppe alpine erano state costituite nel 1872, per iniziativa di un capitano di fanteria che aveva presentato allo Stato Maggiore la proposta di creare unità speciali per difendere i 1540 km di confine alpino del recentemente costituito Regno d’Italia.

F

Gli alpini e la Grande guerra. Gente semplice e ruvida, che ha avuto dalla Storia riconoscimenti inferiori al proprio valore, forse anche per via del carattere chiuso, impermeabile alla retorica, refrattario alle leggende. Le oltre duecento medaglie d’oro conquistate in 136 anni sono la testimonianza aritmetica dell’eroismo delle penne nere. Che, però, non hanno avuto dalla loro chi ne celebrasse le gesta. Poche opere letterarie, pochi film. Soltanto le canzoni, molte delle quali risalgono appunto alla Prima guerra mondiale, e le rimpatriate oceaniche che si concedono con i raduni annuali. Esce ora in libreria un libro di Italo Zandonella Callegher (La valanga di Selvapiana – La grande guerra: l’eroismo degli Alpini nelle Dolomiti del Complico, Corbaccio editore, 314 pagine, 18,60 euro) che aiuta a colmare le lacune storiche. L’autore è uno di loro: nato a Dosolédo di Complico Superiore, alpinista e scrittore, è accademico e socio onorario del Club Alpino Italiano, e autore di numerose guide escursionistiche. Ma anche lui rivela gli stessi pudori dei protagonisti della sua storia: racconta le imprese con una prosa asciutta, che rifugge da ogni retorica. Le fonti sono rigorose, la

Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata

Alessandro Manzoni

Il reclutamento doveva avvenire

Nessuno come loro era allenato alla fatica, al rigore dell’inverno, agli ostacoli naturali, alle piste impervie che si dovevano percorrere bibliografia è imponente, ma il tono e la prosa sono quelle degli storici più seri: distaccati, ai limiti della pedanteria. Il suo libro aiuta a ricostruire alcuni momenti durissimi di quella guerra spietata, ma senza enfasi. È un testo di documentazione, senza alcuna concessione all’epopea. Proprio per questo aiuta a ricostruire i fatti, non le emozioni. L’episodio che ha dettato il titolo si verificò nell’inverno del 1915-1916, quando una valanga travolse una cinquantina di territoriali riservisti impegnati a rifornire l’avamposto incaricato di conquistare il Passo della Sentinella. Era il 24 febbraio 1916, alle ore 15. Una valanga preceduta da un rombo sordo, “quando qualcuno cerca di fuggire ma sa

che è inutile, quando si fa buio perché la valanga è un enorme batuffolo che oscura il cielo, quando il soffio strappa i berretti e fa volare gli zaini, quando i padri pensano ai loro piccoli che resteranno soli nella miseria, quando qualcuno si fa il segno della Croce, quando qualcun altro tira giù tutti i Santi e le Madonne del Paradiso, quando tutti insieme gridano ‘Mamma?… arriva la Morte Bianca”. Morirono in 46 sotto quella slavina.

È stato calcolato che nei due peggiori inverni di guerra (1915-16 e 1916-17) furono diecimila i caduti di morte bianca, che si aggiunsero – ovviamente – a quelli che lasciarono la vita colpiti in battaglia. I quarantasei di Selvapiana erano

tra gli uomini dalle stesse valli e montagne che si sarebbero dovute difendere. Per ironia della sorte, questo corpo di montanari ebbe il battesimo del fuoco nel clima torrido del Corno d’Africa, ad Adua, nel 1896 (dove il capitano Pietro Cella meritò la prima medaglia d’oro conquistata dal Corpo) e fu impiegato poi anche in Libia nel 1911. Nella Grande Guerra il loro contributo fu decisivo: furono chiamati a combattere in un ambiente ostile, a subire perdite altissime per conquistare pochi metri di roccia o per mantenere piccole posizioni fra i ghiacciai, dimostrando il loro valore, la loro tenacia e la validità del loro estenuante addestramento. Furono le Penne Nere ad ottenere i decisivi sfondamenti sul Monte Grappa, sul Monte Adamello e sul Monte Tonale. Lasciando sul terreno, sommersi dalla neve, molti eroi che erano anche – come scrive Zandonella Callegher – “poveri cristi”.Vittime di una guerra che si vinceva (e si vinse) anche con lo spirito di sacrificio e con l’umiltà di chi trascinava i cannoni in quell’inferno bianco, dove un rombo sordo poteva annunciare le batterie nemiche o “un enorme batuffolo che oscura il cielo”.

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polemiche

26 aprile 2008 • pagina 19

ROMA. Quando nell’aprile del 2002 Francesco Alberoni arriva al Centro sperimentale di cinematografia questo aveva cambiato nome, si chiamava Scuola Nazionale di Cinema, aveva 54 studenti in tutto, la produzione cinematografica era scarsa – si pubblicavano soprattutto libri di storia del cinema – il destino che aveva di fronte era quello di diventare una specie di formazione propedeutica alla laurea in scienza della comunicazione. Con il nuovo consiglio di amministrazione formato da Carlo Rambaldi, Giancarlo Giannini, Dante Ferretti, Gavino Sanna e Francesco Alberoni è stato ripristianto il vecchio nome, i corsi sono stati annualizzati, la produzione viene spostata dall’editoria al cinema, per l’ammissione viene chiesta una laurea o un titolo equivalente, così da dargli lo status di scuola di eccellenza postuniversitaria. Sul piano economico il Centro sperimentale pre-Alberoni aveva gli stessi contributi di oggi, circa dieci milioni, ma ne spendeva ogni anno alcuni in più di quelli che riceveva. I due grandi studi erano in rovina, le attrezzatura tecnologiche obsolete. Oggi il bilancio è risanato, gli edifici sono restaurati, è stato creato un dipartimento di cinematografia digitale, sono stati fatti tagli a consulenze e personale. Il numero degli allievi della scuola nazionale di cinema è passato da 54 nel 2002 a 250 nel 2007 – molti di loro vengono da paesi extraeuropei come Australia e Giappone – a parità di contributi ministeriali. Di fronte a queste cifre, a questi dati, a questa situazione verrebbe da dire che il centro sperimentale di cinematografia è una di quelle poche cose che in Italia funzionano. E che riescono a mettere d’accordo, tanto si tratta di constatare e non di giudicare, destra e sinistra, maggioranza e opposizione. Il plauso dato al Csc dalla settima Commissione permanente del Senato della Repubblica nel corso di un’audizione del 26 giugno 2007 fu del resto unanime e bipartisan.

Dunque? Dunque quando martedì scorso Gabriella Carlucci, deputato del Pdl, ha definito il Centro di cinematografia una piaga dolente, parlando di gestione opaca e non trasparente e alludendo a un presunto rileivo della corte dei Conti su «metodi operativi non sufficienti a garantire una gestione controllata» sono stati in molti a domandarsi che film avesse visto l’ono-

Il Centro sperimentale di cinematografia di Roma al centro di una misteriosa polemica. La gestione di Francesco Alberoni (in basso a sinistra) funziona, ma Gabriella Carlucci (in basso a destra) la critica

L’attacco di Gabriella Carlucci (Pdl) al Centro sperimentale di cinematografia

Una buona gestione? Attacchiamola di Riccardo Paradisi revole azzurra. Tanto più che la Corte dei conti nella relazione sul Centro sperimentale al Parlamento riferisce «che i risultati della gestione confermano saldi positivi sia sotto il profilo economico che finanziario». Marcello Foti, direttore generale del Csc, è

cinquina negli Oscar. Ogni anno vinciamo il premio Solinas per la sceneggiatura. A Ivrea», continua Foti, «abbiamo aperto il centro del cinema d’impresa dove sono state messe insieme 20mila pellicole di sola cinematografia industriale, restauriamo 50 titoli all’anno e tutto questo con un contributo privato che assorbe il 50 per cento della spe-

fermano anche fonti esterne ed estranee al Csc.

Perchè allora l’attacco alla gestione Alberoni? Nell’ambiente del cinema e dei Beni culturali si avanzano diverse ipotesi. La prima è che la Carlucci voglia candidarsi, con una strategia movimentista, a qualche incarico go-

Con la presidenza Alberoni il Centro ha ripianato il bilancio, rimesso in sesto gli istituti in rovina, moltiplicato allievi e iniziative su tutto il territorio nazionale ancora stupefatto dell’attacco a freddo e ci tiene a ricordare alcune tappe salienti del lavoro del Csc in questi anni. «La gestione Alberoni ha segnato la rinascita del Csentro», dice a liberal Foti, «in questi anni sono state fatte cose straordinarie. Abbiamo rimesso in moto la didattica, creato una società di produzione, partecipiamo a 60 festival in tutto il mondo. Un nostro corto ha vinto il festival di Torino e l’anno scorso sempre un nostro corto è stato selezionato per una

sa e con il contributo degli enti locali che assorbe l’altra metà». Il Csc ha anche inaugurato un piano di regionalizzazione delle attività didattiche, con l’avvio, accanto alla attività di Roma dei corsi di Animazione cinematografica presso la sede di Chieri (Torino), della Scuola di Fiction televisiva a Milano, della Scuola di Cinematografia d’Impresa a Milano, della scuola di Documentario e Docufiction Storico Artistica orientata al mediterraneo e all’oriente di Palermo. Un lavoro notevole come con-

vernativo nell’ambito dello spettacolo. Ma si tratterebbe se fosse così, di un movimentismo scomposto. Seconda ipotesi: il 16 giugno prossimo il Cda del Centro sperimentale esaurisce il suo mandato, si tratterà di rinnovarlo: la deputata azzurra potrebbe avere l’idea di sostituire Alberoni con qualche altro nome. Ma se così fosse perchè perchè screditare un lavoro di anni senza nemmeno darsi la pena di verificare nemmeno l’efficacia delle armi usate nell’attacco? Ter-

za ipotesi – ancora più lunare delle altre: la destra ce l’ha con Alberoni per aver ringraziato pubblicamente il ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli per il sostegno dato al centro dopo i tagli che invece lo avevano colpito nel 2006. Da parte sua il presidente del Csc Alberoni fa sapere di non tenerci proprio di scendere in polemica. «Non mi interessano le motivazioni di questo attacco che sinceramente non mi spiego. Mi interessa però e molto una cosa: rivendicare la specificità del modello del centro sperimentale. Il criterio di decentramento cioè che è stato applicato alla struttura e che non solo ha consentito un largo finanziamento da parte delle regioni e degli enti locali ma ha permesso che il Centro tornasse ad essere un punto della formazione d’eccellenza in grado di prendere il meglio da ogni realtà con un’articolazione diffusa su tutto il territorio nazionale. Ecco non vorrei che questa combinazione di unità e molteplicità andasse distrutta». Nemmeno Luca Barbareschi, deputato neo eletto del Pdl, che pure è capace di eruzioni incendiarie, vuole fare polemiche su questa vicenda: «non siamo nemmeno al governo e già ci mettiamo a polemizzare tra noi...ma no». Però ci tiene a dire che «quanto fatto da Alberoni in questi anni al Csc è stato straordinario. A Milano ha aperto un centro di cinematografia con dei ragazzi in gambissima, il suo lavoro merita il massimo rispetto».


pagina 20 • 26 aprile 2008

cultura

In libreria due volumi sulla famiglia più celebre degli Stati Uniti

La rivoluzione “scorretta” dei Simpsons di Pier Mario Fasanotti alt Disney addio. O quasi. A rappresentare l’America di oggi, e tutti quei paesi (il nostro compreso) che al nuovo continente somigliano sempre di più, è ormai Homer Simpson, capofamiglia pasticcione, generoso, grasso e amante dei cibi con forte dose di colesterolo, timido e sfrontato allo stesso tempo. Ha una moglie, la paziente Marge, tre figli, e un padre a carico (Abraham) vedovo e rompiscatole che non la smette mai di raccontare dell’ultima guerra e a nessuno, in famiglia, di quelle cose frega niente. Dopo decenni di buonismo disneyano, dove tutto è super-corretto e molte cose sono taciute per pruderie (per esempio il sesso tra i genitori), ci siamo tolti un gran peso identificandoci in Homer Simpson, un po’ cafone, d’animo tenero ma goffo e cialtrone in molte occasioni a partire dal posto di lavoro, in un centrale nucleare.

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Se Topolino è mellifluo con il suo senso civico così accentuato da parere un modello ingombrante, se Paperino fa il filo a Paperina senza mai baciarla o accarezzarla, ecco che Homer strizza l’occhio al figlio Bart nel momento in cui disobbediscono alle regole sociali oppure si fa vedere arcicontento di andare a letto con la moglie (e lei pure). Un gran sollievo per un pubblico che vede finalmente sullo schermo, in modo spregiudicamene giocoso, i propri difetti, i propri limiti e il desiderio di mettersi alla berlina secondo un nuovissimo canone americano che, per fortuna, usa l’autoironia e non si sottrae alla critica più feroce verso vizi e vizietti made in Usa. È un’America molto più europea di un tempo. Come se avesse introiettato (ed era ora) il libero modo di pensare, e di criticare, di Woody Allen. Siamo alla resa dei conti nell’identificazio-

ne: Topolino è diventato un mito dolciastro e stucchevole appunto perché collocato nella sfera del perenne politically correct, Homer Simpson è il mito ravvicinato, quindi credibile, per una società che vuole specchiarsi e ridere in personaggi come noi piuttosto che far fatica ad applaudire a eroi di carta consumati dal tempo. Non a caso il settimanale “Time” ha inserito questi personaggi pacchiani, simpatici e con la faccia gialla, tra le figure più influenti del nuovo secolo. Insomma: è proprio un caso che la matita del nuovo Omero americano abbia partorito lo scansafatiche che si chiama Homer? I Simpson, con le loro sit-com a cartoni animati, hanno una fama dilagante. A tal punto

Il capofamiglia, Homer, ha 36 anni e pesa 140 chili. È un ozioso, adora stravaccarsi sul divano e trangugiare cibo-spazzatura, ossia birra, patatine e panini con quintali di burro

zione limitata e numerata. Si legge in un sito internet: «La Simpson-card aiuterà ad alleggerirsi dal senso di colpa che assale quando si spende troppo?». Grandi cartelloni pubblicitari sono ben visibili alla stazione Termini di Roma. In questi giorni la Rizzoli manda in libreria una bellissima serie di album dedicati ai Simpson. C’è l’”Album di

rica. E poi “Guida a Springfield, la città dei Simpson”. La pattumiera d’America? La città più squallida della terra? Un divertentissimo elenco delle bellezze metropolitane ma anche delle schifezze di ogni città moderna. Con notevole disinvoltura la guida indica anche lo SheShe Lunge, uno dei vari «bar di lesbiche…dove grazie alla sua atmosfera amichevole e rilassata si può stare davvero be-

regolano in base all’Orologio atomico di Boulder, Colorado. Qui aumentano i prezzi del 30 per cento due volte l’anno, così «da spezzare il flusso della “plebaglia medio-alto borghese” e concentrarsi su clienti veramente ricchi».

Se qualcuno vuole conoscere le origini di Springfield, situata «in una valle verdastra e beige… un cumulo di fango bene-

La serie tv, creata più di 20 anni fa, ha ormai superato i 450 episodi. In Italia - il Paese non anglosassone dove ha avuto più successo va in onda in prima serata su Italia 1 e via satellite su Fox-Sky che è stata inventata una carta di credito intitolata proprio al capo di una famiglia sgangherata ma nello stesso tempo molto unita. Ecco quindi la Simpson-card, la carta di credito prepagata e ricaricabile con sopra l’immagine della famigliola di Springfield (città dove si svolgono avventure e disavventure).

Lanciata in anteprima alla fiera del fumetto di Lucca, è una carta emessa da Ducato (gruppo Banca Popolare) dal costo di 5 euro l’una, disponibile in vendita direttamente sul sito web, ad eccezione di una che ritrae Homer e che è in edi-

famiglia senza censure” (64 pagine, 10 euro). Non manca niente: dall’albero genealogico alle foto di Bart neonato, Marge al ballo del diploma, Homer con i capelli e il nonno con i denti. Nulla viene risparmiato della vita segreta della famiglia più brutta e divertente d’Ame-

ne… comunque tenete gli occhi aperti per godervi l’unico, patetico sfigato che frequenta il locale sperando di trovare una preda facile tra le amiche e le parenti etero delle proprietarie». A Springfield c’è pure un’armeria che si chiama “Bagno di sangue”, dove «per aiutare i clienti ansiosi di ammazzare il tempo - e per farli sentire in qualche modo “grandi”prima di avere in mano una pistola - si fornisce loro armi giocattolo». Le cose più imprevedibili le si possono comprare a “Eccessi perversi”: dai panciotti di mogano ai videoregistratori che si

detto da Dio», sappia che il fondatore si chiama Jebediah Zacharia Jedediah Springfield, tipico pionere americano con l’immancabile berretto di procione. Come la fondò? In modo sbrigativo, decisionale diremmo oggi: «“Qui!” disse dopo aver lanciato il bastone da viaggio, “Qui costruiremo una metropoli brulicante e colorata, che offrirà parcheggi liberi dove verranno servite leccornie locali come le Gomme da Masticare Joe Senzadenti». Il sindaco, che possiede «più fast food Krustyburger per chilometro quadrato di ogni altro posto sulla Terra», fa candidamente sapere che «grazie a uno stato di recessione economica quasi permanente, offrirà ai tu-


cultura

26 aprile 2008 • pagina 21

anti-eroi con gli occhi sporgenti che paiono uova e la pelle gialla che ricordano i “cattivi” combattuti da Flash Gordon sul pianeta Mongo. Homer ha 36 anni e pesa 140 chili. Tentò inutilmente di farsi assumere in un bowling di Springfield, poi accettò il posto di responsabile della sicurezza delle centrale nucleare della città: immaginiamo i pericoli

risti più divertimento di Beirut e Tijuana messe assieme». Una gran presa in giro del modello efficientista dell’economia americana. I cartoni animati in prima serata, ha superato i 450 episodi. L’Italia - dove la serie va in onda su Italia 1 (con il 20 per cento di share) e Fox-Tv di Sky - è il Paese non anglosassone in cui i Simpson hanno più successo, come dimostrano i siti web a essi dedicati, i gruppi d’ascolto e le maratone tematiche.

L’inventore di questi esseri tondeggianti e disobbedienti alle diete è l’americano Matt Groening. Successe 23 anni fa, quando il disegnatore, abbastanza noto per la serie “Life is Hell” (La vita è inferno) che aveva come protagonista il coniglio Binky, fu contattato dal direttore della produzione J.L. Brooks. Questi gli chiese di girare un cortometraggio per pubblicizzare il suo “Tracy Ullman Show”. Secondo la leggenda - ma sarà poi solo una leggenda? - a Groening bastò solo un quarto d’ora per disegnare i cinque personaggi principali. Un colpo di genio ed ec-

co Homer, Marge, i figli Bart, Lisa e Maggie (sempre con ciucciotto in bocca). Una famiglia di

che corre la popolazione visto che si addormenta spesso. È un ozioso, adora stravaccarsi sul divano e trangugiare cibospazzatura, ossia birra, patatine e panini con quintali di burro. All’allora ministro della salute Girolamo Sirchia venne la tentazione di proibire i cartoon, proprio per questo. Per fortuna non se ne fece nulla. Homer, leale, scorretto talvolta e sempre pasticcione, si salva sempre alla fine di ogni episodio e strappa applausi da amici ed ex nemici.

Il termine “homerata” ha ormai un preciso significato nel lessico dei giovani fans dei Simpson: «Aver successo nonostante l’idiozia». Marge (34 anni, 47 di scarpe) è la classica casalinga di buon senso, conformista, affettuosa, arrendevole. I suoi capelli sono una specie di cilindro blu ipercotonato, dal quale può sbucare di tutto. Maggie, la più piccola, è teledipendente e quando non è davanti alla tv gattona dappertutto sradicando piante e fiori. Il figlio maggiore si chiama Bart (anagramma di “brat”, che in inglese significa monello), ha dieci anni ed è un ribelle. Invece di gridare il «vogliamo tutto» dei sessantottini, quando s’arrabbia dice «ciucciati il calzino» (frase che piace molto ai nostri figli). Infine c’è la saccente e acutissima Elisabeth Marie detta Lisa. Ha otto anni, è prima della classe, è l’unica in famiglia a possedere un’anima politicamente corretta e si pone come la coscienza critica del gruppo. Mangia soia salata, legge molti libri, ascolta gli Stones. Ed è nota per le sue folgoranti battute. C’è un sito in internet che raccoglie le sue più celebri frasi. Qualche esempio: «Un uomo che invidia la nostra famiglia è un uomo che ha bisogno di aiuto»; «Credi in te stesso e non otterrai mai nulla». Il nonno Abraham qualcuna la spara pure lui: «Si dice che la più grande tragedia è quando un padre sopravvive al proprio figlio. Questa non l’ho mai capita. A essere sincero, io ci vedo solo lati positivi». Il capofamiglia Homer non si monta mai la testa e sembra che si ridirettavolga mente al suo pubblico, in un outing autoironico, quando dice: «Oh, Marge! Le vignette non hanno alcun significato profondo. Sono solo stupidi disegni per una risata a buon prezzo». Noi sappiamo che ha torto.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Quale il numero massimo dei ministeri di governo? DIPENDE DAL CRITERIO CHE SI SCEGLIE, DAI 12 AI 15 MINISTERI SAREBBE MEGLIO Forse sarà perché siamo abituati da sempre ad avere una pletora di ministri (e sottosegretari. Record i 102 dell’ultimo governo Prodi) che pensare di avere ora solo 12 dicasteri lascia perplessi. Non contrari perché il costo della politica si contiene anche così, però essendo il governo il risultato di alleanza tra più partiti, si comprende la difficoltà del premier per accontentare gli alleati e di rispettare le proporzioni esistenti tra questi. Da qui comprendiamo l’espressione di Berlusconi «sono giorni di afflizione». Penso che si andrà alla risoluzione cui ricorse anche Prodi: giureranno dodici ministri - secondo legge - e poi si procederà allo sdoppiamento di qualche ministero. Certo questa riforma sembra tanto costituire l’ultimo dispetto del Prof. al Cav. Lui stabilì il record di proliferazione dei ministri, al suo avversario spetterà quello del contenimento. Quanti dovrebbero essere i dicasteri? Secondo me dipende dal criterio che si vuole seguire. Se si assume quello della rappresentatività 15 ministri andrebbero bene. Se invece dovesse essere assunto quello della funzionalità la riduzione a 12 è giusta. Addirittura io vedrei bene anche l’accorpamento tra Beni cultu-

LA DOMANDA DI DOMANI

Con i Verdi fuori dal Parlamento, ci sarà spazio per un ambientalismo non di sinistra? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

rali e Istruzione. In fondo i sottosegretari servono proprio a questo: a ricevere la delega per lo svolgimento delle attività in cui si articola il ministero.

Corrado Grisanti - Padova

IL COSTO DELLA POLITICA È ESAGERATO, I DICASTERI DOVREBBERO ESSERE POCHI Va bene dodici ministeri e non più di dodici. Mi sembra di poter dire che è l’unica giusta risoluzione del governo Prodi. Anche se stupisce che la riforma provenga proprio da colui che ha stabilito il record contrario: 102 o 103 tra ministri e sottosegretari. Quando si dice predica bene e razzola male! Comunque anche così si dà un segnale positivo al popolo: il costo della politica in Italia è esagerato, addirittura assurdo se paragonato a quello degli altri Paesi occidentali. E però ora la Lega, dopo l’indiscutibile successo elettorale, alza la voce e chiede una maggiore rappresentatività nel governo. Ma io ricordo che durante la campagna elettorale sia Castelli che Calderoli affermarono che alla Lega non interessavano le poltrone, ma le riforme. Giusto. E allora perché ora pretendono più poltrone pure in presenza delle assicurazioni di Berlusconi che le riforme richieste verranno realizzate?

Marco Pace - Pescara

PERCHÉ PENSARE AL NUMERO INVECE DI MIGLIORARE LE DIVERSE COMPETENZE? Credo che non ci sia un vero e proprio numero esatto di ministeri che dovrebbero operare in un governo. Certamente in Italia, paese dove si discute e litiga su tutto e dove si perde tempo a chiacchierare di quanti e quali ministeri dovrebbero esserci (invece di fare in modo che questi lavorino bene), forse sarebbe il caso di metterne un numero massimo piuttosto basso. Dodici mi sembrerebbe abbastanza ragionevole, anche perché credo che il nuovo governo Berlusconi debba far dimenticare, tra le diverse oscenità di quello di Prodi, proprio lo spreco di denaro e il record di ministeri. Che poi, a conti fatti, abbiamo visto a cosa ha portato, abbiamo notato cosa ha prodotto. Anzi, cosa i ministeri non hanno prodotto. Cordialità.

UNIONE DI CENTRO, LIBERAL: OBIETTIVO SUD A campagna elettorale chiusa rimane aperta una vecchia, irrisolta, mai completamente affrontata questione meridionale. Gioia e dolore della politica nazionale, il Sud però oggi non è più quello di una volta. Non vuole e non può essere trattato da ”argomento” elettorale, perennemente malato terminale. Anche perché le potenzialità, l’intellighentia e le eccellenze socio-economico-produttive si sono imposte nei vari settori di appartenenza in Italia, in Europa e nel mondo. Soprattutto non vuole più ”salire al Nord” per cercare ciò che naturalmente gli tocca. Le ”gentili concessioni” dei dirigenti leghisti non rappresentano un interesse reale, un Pdl ostaggio di Bossi & company non è tanto meno una garanzia sufficiente per un popolo e un territorio notoriamente all’indice della base leghista e della sua svariata estrazione. Lombardo e il Movimento per l’autonomia da lui presideduto non sono il Sud, ma forse solo la Sicilia. An non è né il Sud né la Sicilia, ma solo un partito in

LA VIE EN ROSE Costa 50 dollari, si chiama Kitty Wig e in Usa è già un piccolo business. Pensato per «far rilassare cani e gatti», il pacchetto include 4 modelli di parrucche diverse, più un piccolo topo di peluche per il gioco UN GOVERNO PER LE RIFORME

DIVERSITÀ ETICA DELLA SINISTRA: IL CASO DI PECORARO SCANIO

Ormai è chiaro che sarà la capacità di governare con reale efficacia riformatrice il vero banco di prova di questa nuova stagione della politica italiana. In particolare, per realizzare quella complessiva riforma liberale, federale, sussidiaria, che quasi tutte le forze politiche considerano necessaria e indifferibile, sarà fondamentale costruire un ampio consenso in Parlamento e nel Paese. Un ”governo per le riforme”dovrà quindi garantire un atteggiamento di moderazione istituzionale, di equilibrio politico, di responsabilità nazionale, alla guida di un Paese diviso da tensioni e contraddizioni. Per questo sarà importante anche il contributo specifico del centro moderato e del Presidente Casini.

Viene dalla cucina un profumino così piacevole che ci rianima lo spirito lasciandoci in trepida attesa. Ecco giungere lo stufato fumante: il 25 Aprile c’è, i comunisti, le bandiere rosse, l’Anpi, Napolitano, Rutelli, Bertinotti e Veltroni anche. Che piatto squisito, succoso e appetitoso. Peccato che manchi, anche quest’anno, un’ingrediente fondamentale: l’obiettività storica e il ricordo dei nostri veri liberatori, gli americani. Proprio vero: se c’è un settore dell’umana attività in cui tutto raggiunge il massimo significato, bene, questo è quello della politica. Soprattutto della politica della nostra sinistra.

dai circoli liberal Gaia Miani - Roma

cerca di autore. Forza Italia, confusione di idee e di valori con un grande leader che risponde al nome di Silvio Berlusconi, che però non si è accorto di aver creato dietro di sé e sui territori soprattutto del Sud un vuoto assoluto. Anche in termini di rappresentanza parlamentare. Resta l’Unione di Centro, non perché sia il nostro partito di riferimento, ma perché baluardo di valori a difesa dei temi e dei contenuti in cui il Sud si riconosce: l’etica e la morale, i valori moderati, liberali e cattolici cristiani. Come garante e fulcro su cui innestare la politica pro Sud, come opportunità e valore aggiunto per quello che i singoli territori e le proprie eccellenze riescono a esprimere per l’economia del Paese e del Sud d’Europa. Liberal, attraverso i propri circoli, lo fa da tempo, tant’è che la presenza dei nostri ciroli in regioni come la Campania, la Puglia, la Basilicata e la Calabria non solo è numerosa ma è anche rappresentata da uomini e da dnonne di successo nel mondo

Matteo Prandi

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

dell’impresa, delle professioni, della società civile locale. Ci segnaliamo anche per questo. Oltre che per l’aspetto culturale che arricchisce i nostri scritti e che attraverso l’Unione di centro vuole essere fermento e riferimento politico per questa area del Paese. Vincenzo Inverso

SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29 Avvocato Massimo Golino


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Ti scrivo per dirti che sei molto cattiva Mio bebè piccolo e capriccioso, me ne sto in casa solo soletto, eccetto l’intellettuale che sta mettendo la carta alle pareti (sfido, la dovrebbe forse mettere sul soffitto o sul pavimento?), e lui non conta. E come ti avevo promesso, fanciullina, ti scrivo per dirti che sei molto cattiva; eccetto che in una cosa: l’arte di fingere, in cui mi accorgo che sei eccellente. Losai? Ti sto srivendo ma non sto pensando a te. Sto pensando alla nostalgia che ho dei tempi in cui davo la caccia ai piccioni; e questa è una cosa, come sai, in cui tu non c’entri per niente. Non ti stupire se la mia grafia è un po’ strana. Ci sono due motivi. Il primo è che questo foglio è troppo liscio e la penna ci corre sopra troppo velocemente; il secondo è che ho trovato qui in casa una bottiglia di eccellente porto, che ho aperto e di cui ho già bevuto la metà. Un bacio solo, che dura tutto il tempo. Sempre tuo. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz

IL NUOVO GOVERNO LAVORI SULLA SICUREZZA Il tema della sicurezza dei cittadini è un’esigenza fortemente sentita nel nostro Paese e che non ha colore politico. Anche il governo di centrosinistra nella passata legislatura aveva avvertito l’importanza del problema e si era mosso in questo senso varando un decreto legge, che doveva essere approvato dal Parlamento nei sessanta giorni previsti. Ma non ci riuscì a causa della contrarietà e della resistenza di una parte della stessa compagine governativa. Un fallimento che non poteva non pesare sul giudizio della gente e sulle conseguenti valutazioni al momento del voto. Ma si erano mossi, prima del governo, alcuni sindaci particolarmente avveduti e responsabili, che avevano avvertito meglio di altri politici il disagio crescente della gente comune sul tema della sicurezza nelle loro città. E avevano, molto responsabilmente chiesto con insistenza al governo Prodi interventi appropriati in materia di sicurezza e di ordine pubblico, ma invano, tranne qualche loro improvvisata, libera iniziativa. E nel frattempo si verificavano e si ripetevano, fino pur-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

26 aprile 1478 Firenze: Congiura dei Pazzi contro Lorenzo de’ Medici; il fratello del Magnifico, Giuliano viene ucciso in cattedrale 1889 Nasce Ludwig Wittgenstein, filosofo e matematico austriaco 1915 Londra, Salandra, per conto del Regno d’Italia, firma un patto con Gran Bretagna e Francia, impegnandosi ad entrare in guerra contro la Germania e l’Austria 1954 Si apre la Conferenza di Ginevra: scopo riportare la pace in Indocina ed in Corea 1961 Italia, prima trasmissione di Tribuna politica 1986 Disastro di Chernobyl: A Chernobyl, in Unione Sovietica, l’esplosione in una centrale nucleare provoca trentuno vittime. Nei giorni seguenti una nube radioattiva contaminerà buona parte dell’Europa, Italia compresa. Le conseguenze sulla popolazione locale dureranno per decenni

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

troppo ai giorni nostri, gravi episodi di violenza nelle nostre città (un’altra giovane donna aggredita e violentata all’uscita di una stazione della metropolitana a Roma, dopo il caso della signora Reggiani, aggredita, violentata e morta in ospedale sempre a Roma; a Milano, una studentessa americana stuprata da un clandestino extracomunitario, dopo che sempre a Milano, a gennaio, una turista era stata violentata e rapinata da un egiziano). E così via, la lista potrebbe allungarsi all’infinito. Mi sembra giunto il momento che lo Stato affronti il tema della sicurezza con rigore, anche se con l’indispensabile equilibrio e fermezza. E dovrebbero essere specificati, una buona volta e per sempre quali i sacrifici e per chi; quali gli equilibri sul terreno proprio della salvaguardia dei diritti. Sarebbe importante e doveroso che le forze politiche, superata l’emergenza elettorale, si aprissero in Parlamento al confronto sul tema della sicurezza, e adottassero misure legislative bipartisan da tutti condivise e fatte rispettare dalle forze dell’ordine, dai singoli Comuni e dalla stessa magistratura. Cordiali saluti.

Angelo Simonazzi Poviglio (Re)

PUNTURE Ignazio La Russa dice di non essere il liquidatore di An: “Non saremo mai ospiti a casa d’altri”. Perché? C’è tanto spazio a Palazzo Grazioli.

Giancristiano Desiderio

Rivoltatela come vi pare, prima viene lo stomaco, poi viene la morale BERTOLT BRECHT

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di BENEDETTO PAPA Spesso i libertari e più in generale i libertari, allo scopo di difendere giustissimi ideali laici si sono scagliati contro il Vaticano e contro il Papa. Troppe volte però, la giusta dialettica si è trasformata in una presa di posizione ottusa che criticava tali entità a priori. In un mondo sempre più allo sbando, dominato dal connubio Stato onnipotente - gruppi di pressione , che generano deliranti idee neoprotezioniste alla tremonti e tragiche idee ambientaliste alla Al Gore, io, che mi sono sempre rifiutato di criticare a priori il comportamento del Vaticano, trovo sia importantissimo portare a conoscenza dei liberali, dei libertari, e ancor più di tutti coloro che, non definendosi tali, sono comunque decisi a non finire sotto un regime totalitario mondiale, le parole del Papa Benedetto XVI all’Onu. Perché se è lecito criticarlo quando cerca di imporre visioni eticamente cristiane della società mondiale, non si può fare a meno di applaudirlo quando, di fronte ad una congrega di rappresentanti di tutti i dittatori del mondo pronuncia le seguenti frasi: «I diritti umani sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà… Non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti». Una feroce critica a chi vuol ridefinire i diritti umani in base al tempo in cui si vive, in base alla ”cultura” di provenienza, in base ai contesti politici. Il papa ha centrato l’essenza stessa del liberalismo, sparando ad alzo zero sul diritto di sovranità degli stati nazionali. Minando il concetto secondo cui il diritto pubblico è superiore al diritto privato. Ha colpito le balzane idee ecologiste riaffermando la centralità dell’essere umano nei confronti delle altre

forme di vita. L’autore dell’articolo linkato informa infatti che all’Onu sia stata sostituita la dichiarazione dei diritti umani con la Carta della Vita, promulgata nel 2000, ove si sarebbero sanciti i diritti della comunità della vita, dove uomini piante ed animali hanno gli stessi diritti. Il papa con questo discorso ha avversato in maniera netta l’idea che il consenso della maggioranza sia il metro di giudizio della ”giustizia”. Ha insistito sulla fondamentale differenza tra legalità e giustizia, cosa che sempre più è andata scemando nella mente delle persone, vieppiù fuorviate dalla neolingua governativa, creata ad hoc per confondere e far perdere il senso alle parole. Ha intimato l’alt alle manie di costruttivismo imperanti nel mondo odierno, rifacendosi al giusnaturalismo classico. L’idea che i diritti siano in evoluzione, va avversata con tutte le nostre forze, perché spalanca le porte all’arbitrio della classe dirigente. Pone la stessa al di sopra del mondo stesso, la eleva a demiurgo, a semidio, a creatore della società stessa. Come giustamente si fa notare in questo libro, si finisce non per ricercare norme di giustizia, ma solo il metodo più ”equo” per imporre la propria visione costruttivista al resto del mondo. (...) Il pericolo, come ho sempre cercato di far notare, è immenso. Sono lietissimo che Benedetto XVI si sia apertamente schierato con il liberalismo contro le ideologie socialiste di ogni genere che infettano, o più realisticamente, sono alla base dell’Onu. Credo che sia stato il discorso libertario più ascoltato al mondo, in ogni tempo. Dovrebbe far riflettere i liberali nella loro avversione contro il cattolicesimo. Da cui peraltro deriva la scuola di economia Austriaca, non dimentichiamolo.

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PAGINAVENTIQUATTRO Partiti in 50 da Dharamsala, oggi sono più di 300. Ma di loro non si sa quasi nulla

La marcia silenziosa degli esuli tibetani verso

PECHINO di Aldo Forbice ontinua la marcia, poco trionfale, della torcia olimpica verso il Tibet, per poi imboccare il percorso, anche questo accidentato, verso Pechino. Nel frattempo c’è un’altra marcia, che si potrebbe definire alternativa, della “fiaccola della vergogna”: quella degli esuli tibetani partiti da Dharamsala (dove ha sede il Dalai Lama e il governo tibetano in esilio) diretta a Khatmandu, e quindi nella capitale cinese alla vigilia della cerimonia di apertura delle Olimpiadi dell’8 agosto.

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Erano partiti in 50, subito dopo le centinaia di arresti dei tibetani del marzo scorso da parte della polizia indiana, su mandato del governo cinese. Da 50 sono diventati oltre 300. Fra di essi anche alcuni italiani, col medico Riccardo Zerbetti, che sta nelle prime file. Man mano che vanno avanti i “marciatori”si infoltiscono, aiutati dalla popolazione dei villaggi indiani che attraversano. Infatti, nonostante l’ostilità delle polizie indiane e nepalesi la “marcia del ritorno”in Tibet prosegue, nel silenzio dei media cinesi (ma anche della stampa internazionale), anche perché i giornalisti non riescono a ricevere i visti d’ingresso per poterla seguire. E se non scoppieranno incidenti, con morti e feriti,difficilmente i direttori dei giornali troveranno il coraggio di mandare inviati per seguire una manifestazione, per il momento, pacifica. Le uniche informazioni che riceviamo quindi sono quelle trasmesse dai tibetani e da qualche operatore umanitario che partecipa alla “marcia”. Molte più notizie, invece ci arrivano dal fronte della fiaccola olimpica che si sposta da un paese all’altro dell’Asia e dell’Australia. Lungo il difficile percorso, tra contestazioni, arresti, pestaggi e improvvisi cambiamenti di rotta (che viene sempre più accorciata) continuano anche le diserzioni di tedofori e altri atleti. Una notissima tedofora (presidente del Consiglio servizi sociali), Lin Hatfield Dodds, si è ritirata giovedì scorso dalla staffetta a Camberra con una pubblica dichiarazione di sostegno alla lotta per i diritti umani in Tibet. Ha detto: «Il

simbolismo della staffetta della fiaccola è cambiato con quello che sta accadendo con la Cina e il Tibet». Anche l’ex nuotatore americano Mark Spitz, intervenendo sull’opportunità o meno di boicottare le Olimpiadi, in un incontro a Milano con 200 studenti delle scuole medie superiori, ha detto che «nell’assegnazione delle Olimpiadi contano solo tre cose: fare soldi, ancora più soldi e più soldi possibili». E ha aggiunto: «Al Cio interessa solo accontentare le emittenti tv, soprattutto quelle Usa. Infatti molte finali saranno disputate in orari compatibili con la trasmissione in prima serata oltreoceano». E’una conferma questa di quanto questi Giochi olimpici siano poco coerenti con la spirito decubertiano. Sono stati traditi cioè i quei valori della pace, della fratellanza, della solidarietà tanto evocati dal Cio e dai comitati nazionali olimpici. Di fronte al business tutti i valori, compresi i diritti umani, finiscono all’ultimo posto. E la stessa sanguinosa repressione tibetana viene considerata «una mera questione interna» dalle autorità di Pechino. Secondo il regime comunista le Nazioni Unite, l’Unione europea, il Consiglio d’Europa e le altre organizzazioni internazioni non hanno titolo neppure di protestare. Sono convinti che, anche per la debolissima reazione dell’Occidente di poter stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di contestazione della fiaccola, utilizzando anche gli stretti rapporti politici ed economici, nei paesi dove la staffetta è passata o passerà: a Camberra, a Nuova Delhi, a Kuala Lumpur (Malaysia), Islamamad, Bangkok, Giakarta, Nagano (Giappone), Seul (Corea del Sud), Pyongyang (Corea del Nord) e Vietnam (Ho Chi Minh, ex Saigon).

A Nagano la staffetta doveva partire dal Tempio di Zenkoji, ma i monaci hanno opposto un netto rifiuto e allora gli organizzatori hanno deciso di farla partire da un parcheggio pubblico in segreto. A Giakarta al passaggio della torcia, blindata dalla polizia e dall’esercito, hanno parteci-

pato solo 5000 persone munite di inviti. Fra i manifestanti anche i fedeli del movimento religioso cinese Falung Gong e i militanti di Greenpeace. Prima e durante il percorso della fiamma olimpica la polizia ha proceduto a centinaia di arresti di manifestanti o semplicemente di sospetti. Intanto si prepara la tappa dell’Everest, anche se questo appuntamento è stato molto ridimensionato. Infatti sono stati drasticamente “tagliati” i visti per i giornalisti stranieri: ufficialmente «a causa del maltempo» ma, in realtà, perché il governo di Pechino teme nuove manifestazioni tibetane. Anche la “cerimonia di saluto”per il cammino della torcia sul tetto del mondo, a 5500 metri, è stata cancellata senza spiegazioni. Eppure prima delle rivolte di marzo in Tibet la tappa della montagna più alta del mondo veniva pubblicizzata come la più significativa e spettacolare: era stata persino creata una torcia speciale in grado di resistere alle bassissime temperature dell’alta montagna e dei venti fortissimi. Persino spedizioni alpinistiche che si trovano in Tibet vengono sbrigativamente mandate a casa, revocando i permessi per le scalate, soprattutto se i militari trovano negli accampamenti qualche bandiera o maglietta con i colori del Tibet. Una testimonianza ci è arrivata anche dallo scalatore italiano Silvio Mondinelli che, poche ore dopo l’arrivo al campo base, si è dovuto misurare con le rigide regole imposte dai militari, compreso il sequestro dei telefoni satellitari alla sua squadra (poi è stato accordato il permesso di utilizzarli solo due ore al giorno). Ma le minacce più dure sono arrivate dal governo del Nepal, che ha dichiarato di voler «usare le armi da fuoco per impedire le minacce anticinesi» quando la torcia olimpica arriverà, all’inizio di maggio, sull’Everest .

Le parole del ministro degli Interni nepalese hanno suscitato proteste vivaci da parte di Amnesty International e delle altre organizzazioni umanitarie. Anche perché negli ultimi giorni in questo paese sono stati attuati oltre 400 arresti arbitrari di tibetani e di altri simpatizzanti del Dalai Lama, con la minaccia di deportare i dissidenti in Cina, dove finirebbero inevitabilmente in un laogai. Nel frattempo la repressione cinese continua non solo contro i tibetani, ma anche nei confronti delle altre minoranze etniche e religiose (uighuri, aderenti al Falung Gong, cristiani di tutte le chiese, eccetera). Il governo tibetano in esilio ha lanciato un appello urgente alla comunità internazionale perché intervenga con misure efficaci e non solo con le parole. Parole, aggiungiamo noi, che quasi sempre appaiono generiche, imbarazzate e deboli, e che vengono spesso smentite dai fatti. Soprattutto, come è avvenuto con la Francia di Nicolas Sarkozy, che di fronte alle minacce economiche cinesi (a cominciare dal boicottaggio dei prodotti di aziende francesi), la reticenza si è trasformata in clamorosa marcia indietro. Gli interessi economici non si toccano, anche se sulla facciata del Comune di Parigi continua a campeggiare la scritta: «La Francia tutela i diritti umani, in tutto il mondo». Anche questo sarà un coraggioso tentativo da relegare nella storia, come il ’68? Avremo modo di verificarlo presto. Intanto però il Dalai Lama non molla e ha rinnovato a Hu Jintao la richiesta di consentire una sua missione a Lasha per cercare di“raffreddare”la tensione in Tibet. Ma, ancora una volta,questa disponibilità è rimasta lettera morta. Lo stesso destino hanno avuto, finora, gli appelli dell’Unione europea. Qualche giorno fa ci ha provato anche il commissario europeo per gli affari esteri, Benita Ferrero-Waldner, ma Pechino ha dato la solita scontata risposta: «Il Tibet è un problema interno della Cina». Nelle ultime ore però, dopo l’incontro di Barroso col governo cinese a Pechino, sembra essersi aperto qualche spiraglio di trattativa, anche se non dobbiamo farci troppe illusioni. Ma i tibetani hanno già ottenuto una grande vittoria, costata molto sangue di monaci e di inermi cittadini, con oltre 300 morti, centinaia di feriti e migliaia di incarcerati. I tibetani hanno vinto perché, dopo cinquant’anni dall’occupazione militare del regime comunista, si è ricominciato a parlare di libertà, di indipendenza del Tibet, degli orrori commessi dai cinesi e del “genocidio culturale”in corso da decenni, come non si stanca di ripetere il Dalai Lama.


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