QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Il riformismo bipartisan
e di h c a n o cr
Ma il Pdl ha davvero bisogno di Ichino?
di Ferdinando Adornato
di Giuliano Cazzola
LA TEMPESTA NEL PD
i è molto parlato nei giorni scorsi della proposta – che sarebbe stata rivolta da Gianni Letta (immaginiamo che Silvio Berlusconi fosse informato) al sen. Pietro Ichino - di occupare il posto di ministro del welfare (un settore – sia detto per inciso - che ‘‘amministra” circa 500 miliardi di euro l’anno) nel prossimo governo. Della vicenda hanno scritto eccelsi editorialisti – Franco Debenedetti, Oscar Giannino e persino Angelo Panebianco in un «fondo» sul Corriere della Sera – commentando l’evento in vari modi ma sottolineando comunque il segnale di novità. Se ne è parlato persino a «Porta a porta» la sera della vittoria di Alemanno a Roma, dando quasi per scontato che l’operazione si sarebbe fatta come tributo ai nuovi tempi di dialogo. A stare ai retroscena, le cose sarebbero andate, più o meno, nel modo seguente. Il giurista milanese, sicuramente lusingato dell’offerta, avrebbe chiesto qualche giorno di riflessione prima di rispondere (incaricandosi subito di far trapelare la notizia). Poi si sarebbe consultato con Walter Veltroni (essendo sicuramente più corretto di Massimo Calearo il quale si è proposto come ministro ‘veneto’ benché nessuno glielo avesse chiesto) arrivando, poi, a declinare l’offerta, con la seguente motivazione: le proposte del centro destra in tema di lavoro non sono condivisibili.
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9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80430
Si aprono i giochi di Palazzo contro Veltroni, ma rischia di essere l’ennesima occasione persa della sinistra. La sua crisi è molto più profonda delle responsabilità di una persona
Il parafulmine alle pagine 2, 3, 4 e 5
co n ti nu a a p ag in a 2 3
Ritratto del neo presidente della Camera
Ne ha fatta di strada quel ragazzo di via Milano di Mauro Mazza Me lo ricordo ancora Giorgio Almirante quando una sera, vigilia elettorale del maggio 1972, concluse il suo comizio in piazza del Popolo scandendo: «È nell’aria il sapore dei momenti storici che sono fatti per noi». Quella volta la destra missina conobbe un passaggio storico.
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Il 7 maggio Putin lascia il Cremlino a Medvedev
Mosca al bivio di Enrico Singer Pierre Chiartano Francesco Cannatà Ferdinando Milicia da pagina 12
MERCOLEDÌ 30 APRILE 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
79 •
Scontro sulle riforme
In mostra al Prado
E Bossi intima: «Berlusconi obbedisci»
Goya, il primo fotoreporter di guerra
di Nicola Procaccini
di Maurizio Stefanini
Irrefrenabile. Umberto Bossi al suo ritorno in Parlamento è un vulcano che esplode dichiarazioni. Ed il primo di giorno di scuola dei neoparlamentari diventa una manna per i cronisti.
Gli spagnoli la chiamano “Guerra d’Indipendenza”. Curioso, per un Paese che non solo ha uno degli Stati più antichi d’Europa, ma fu anche il centro di un Impero su cui “non calava mai il sole”.
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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il
parafulmine
Nel Pd sotto shock dalla sconfitta Veltroni rischia di diventare il capro espiatorio
«Non chiamatela resa dei conti» Scontro sul congresso anticipato di Susanna Turco
ROMA. Poteva accadere di tutto, e invece - apparentemente - non succede nulla. Resa dei conti? «Nessuna». La leadership di Veltroni in discussione? «Francamente no, anzi», dice il diretto interessato. La linea politica da rivedere? «Per me non lo è», spiega l’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni. Anticipare il congresso previsto per il 2009? «Sarebbe avventato», sostiene Franco Marini. Naturalmente l’immobilismo è soltanto apparente. E nel Pd squassato dall’ultima tornata elettorale non ce n’è uno che pensi che va tutto bene così. Anzi, c’è chi parla apertamente di crisi. E, comunque, il veleno scorre a fiotti. Ma tra lo stordimento per la batosta e la paura di sbagliare mossa ancora una volta, il Partito democratico s’incaglia nel gattopardismo: chi vuole che tutto cambi perché tutto resti come è e chi vuole che tutto resti come è perché altrimenti sarà difficile che si possa cambiare davvero. Il risultato di queste opposte correnti arriva di conseguenza: riflettere, meditare, analizzare. Cioè, nell’immediato, non fare nulla. Se non aprire il dibattito, certo. Con tempi e modi ancora da decidere. E un congresso che, volenti o nolenti, si affaccia sull’orizzonte.
Del resto, di tempo ce n’è. «Abbiamo anni, forse tutta la legislatura da fare all’opposizione», dice Giovanna Melandri che invoca la necessità di rilanciare «Veltroni e la sua linea politica»: «E vorrei che si discutesse al più presto di come farla, questa opposizione, che dovrebbe essere molto radicale su questioni come la televisione e l’emittenza. Spero di non vedere più uno schieramento debole e tremulo in campi come quello della Vigilanza Rai». «Da affrontare è anzitutto una questione psicologica», spiega invece Ermete Realacci, braccio destro di Veltroni, «prima del
risultato romano potevamo illuderci che fosse come il 2001: allora il centrodestra aveva una maggioranza ampia in Parlamento, però dopo poco le dinamiche interne alla Casa delle libertà fecero sì che la situazione divenisse presto più favorevole per noi. Adesso sarà molto più dura». Ma, agErmete Realacci: giunge poi, «Prima della «tutti sanno sconfitta di Roma però che senza potevamo Veltroni e senilluderci che fosse za la scelta di come nel 2001, correre da soli adesso sappiamo saremmo stati che sarà molto davvero mapiù dura. Ma ciullati». senza Veltroni saremmo stati Per la verità, maciullati» girando nel pie-
fermare Soro e Finocchiaro», aveva chiesto Veltroni; e le consultazioni coi singoli parlamentari, non del tutto ortodosse secondo alcuni deputati, hanno confermato la volontà del segretario (la votazione ufficiale, apertasi ieri pomeriggio, si chiuderà oggi alle 14). Con buona pace di chi, come Pierluigi Bersani (spalleggiato da Massimo D’Alema) si era battuto per una soluzione di discontinuità. Alla fine, ha prevalso la linea di chi andava dicendo che non fosse il caso di aprire una guerra adesso su una questione tutto sommato secondaria, almeno rispetto alle macerie che in un modo o nell’altro il partito dovrà ricostruire. «Si confermi chi c’era, poi ci sarà sempre tempo per cambiare», diceva ieri Rosy Bindi.
none della Camera in ghingheri per il battesimo della Legislatura, a parte il volenteroso portavoce del Pd è davvero difficile trovare qualcun altro disposto a sottoscrivere oggi dichiarazioni di stima e di ottimismo. È altrettanto vero che però, nello sperdimento generale del Pd, non c’è nessuno disposto a intestarsi la titolarità di una critica senza ritorno o di una vera e propria iniziativa per cambiare le carte in tavola. Potenziali avversari, da D’Alema a Bersani, passando per Marini, di certo ci sono: ma non si tratta (ancora) di iniziative organizzate, scopi precisi, movimenti coerenti. Così, nell’immediato Veltroni non incontra eccessive difficoltà nello scantonare quella resa dei
Ma il vero capolavoro tattico di Veltroni, la pietra angolare della giornata, è quello che riguarda il congresso del partito. Già, perché per tutta la mattinata, in attesa della riunione del ”caminetto”, ossia dell’ufficio politico del Pd, l’ordine del giorno non scritto tra i maggiorenti più lontani dalla linea del segretario era proprio la necessità di rimettere in discussione tutto, dalla leadership al coordinatore Goffredo Bettini, passando appunto per una anticipazione del congresso, che secondo lo statuto del Pd dovrebbe tenersi nell’autunno 2009. Così, probilmente consapevole di questa volontà serpeggiante, lo stesso Veltroni - bravissimo nell’arte del «se non puoi batterli, alleati con loro», si è presentato alla riunione del partito facendosi portavoce della necessità di anticipare il congresso: di un anno, addirittura. Ossia all’autunno prossimo, magari proprio nell’anniversario delle primarie. Walter Veltroni ha infatti detto di individuare nell’assise lo «strumento più efficace» per risolvere le questioni aperte emerse anche nel voto. «Abbiamo bisogno di un maggiore radicamento, dobbiamo far emergere dalla società le proposte che il partito intende rappresentare, dobbiamo rinnovare il
Rosy Bindi: «Sono due anni che andiamo sempre di corsa. Questa è l’occasione buona per riflettere, elaborare. Ma per analizzare il voto non serve un congresso: è il lavoro che normalmente si fa nei partiti» conti che in mattinata sembrava già scontata, e invece alla fine è stata rimandata a data da destinarsi.
Finisce per esempio senza sorpresa finale la partita sui capigruppo: «con-
gruppo dirigente: per tutti questi obiettivi credo non ci sia strumento migliore del congresso».
E così, a quel punto, proprio i big del partito gli hanno risposto di no, eccezion fatta per Arturo Parisi, Enrico Letta e naturalmente Bettini. D’Alema ha invitato alla cautela, insistendo sul fatto che bisogna prima compiere un’analisi approfondita del risultato elettorale e di quello che è accaduto in Italia, prima di chiedere ai militanti e agli iscritti di confrontarsi in un dibattito. Franco Marini ha spiegato che «Bisogna piuttosto mettersi a lavorare sul territorio». Meglio «evitare inutili accelerazioni», ha chiosato Fioroni. E Bersani, perplesso, ha spiegato che bisognerebbe Giovanna valutare bene Melandri: il percorso da «Abbiamo seguire, prendavanti anni di dendo in conopposizione. E siderazione dobbiamo tutti gli strudiscutere al più menti che lo presto di come del statuto farla: spero di partito offre non vedere più per dare vita a atteggiamenti una riflessione tremuli su tv, interna. «Beemittenza e ne», ha convigilanza Rai» cluso Veltroni, «come volete. Ricordatevi che io l’avevo proposto e se la proposta viene respinta, l’avete voluto voi». Al di là della mossa di Veltroni, tuttavia, la questione di come addentrarsi nella riflessione del dopo sconfitta, e fino a che punto arrivare, è proprio la quinta colonna sulla quale si misurerà nel prossimo futuro la capacità di reazione del partito democratico. «Qualunque tentativo di dare una spiegazione a caldo di questa crisi è inutile, superficiale», spiega l’ex ministro della Famiglia Rosy Bindi. «Perché quando il sessanta per cento del Paese se ne va a destra bisogna fare una pensata seria: è l’occasione per riflettere, elaborare, ragionare. Se invece si pensa di fare un congresso per analizzare il voto è la volta buona che la gente ci manda a quel Paese: per queste cose c’è il partito, questo lavoro qui è quello che si fa normalmente in un partito». Insomma, dopo una marcia a tappe forzate, sarebbe ora che il Pd cominciasse a somiglia-
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re un po’ di più a un’organizzazione politica in senso classico: «Sono due anni che facciamo tutto di corsa: le primarie, lo statuto, le elezioni. Ora stiamo calmi, sereni, e ragioniamo», spiega Bindi. Della necessità di un confronto politico in senso classico si fa portatore anche Arturo Parisi, il quale però ha opinioni opposte per quel che riguarda l’opportunità di arrivare a un congresso in tempi rapidi: «La proposta di Veltroni è coraggiosa e va sostenuta», dice, aggiungendo di sperare «che quello che si è aperto sia un dibattito reale e vero. Il rilievo della sconfitta ci costringe infatti a quel confronto politico che è stato escluso dalle primarie e dalle due riunioni dell’assemblea costituente eletta allora dai cittadini».
Se dunque l’apertura di una riflessione nel Pd è il passaggio auspicato sostalmente da tutti, a fare la differenza è l’obiettivo finale verso cui i vari dirigenti tendono. E quello che emerge tra i tanti tira e molla è proprio ciò che si nega, ossia la resa dei conti, la questione di chi controlla il partito, di chi fa la linea politica. È questa la zona per ora cieca sopra la quale tutti paiono dire le stesse cose (lo stesso Veltroni, per esempio, così come D’Alema o Marini parla della necessità di «un maggior radicamento» e di «rinnovare il gruppo dirigente»). Ma, in sostanza, prima si celebra il congresso, più difficile sarà immaginare una leadership diversa da quella attuale. Più lo si rimanda nel tempo, più ci sarà modo per modellare un rapporto di forze diverso. È probabilmente per questo che Veltroni ha provato a imboccare la strada dell’anticipo. Per altro verso, tuttavia, non pare che le componenti maggiori del Pd (dalemiani ed ex popolari) siano così ansiose di offrire una rilegittimazione al segretario democratico, tantomeno in tempi brevi. Perciò, certo, la «leadership non è in discussione», come dice Fioroni, «e la linea politica neppure»: ma il congresso è meglio non farlo, perché sarebbe un’assemblea «alla cieca».
parafulmine
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Analisi del voto: i democratici non sfondano al Sud. E neppure al Nord
Le solite “regioni rosse” di Andrea Mancia ella vulgata che circola dalle parti del loft, è convinzione diffusa che il Partito democratico abbia perso le elezioni al Sud, mantenendo tutto sommato le proprie posizioni al Nord e nelle “regioni rosse”. Analizzando il risultato delle ultime elezioni politiche in parallelo con quelle del 2006, però, emerge un quadro piuttosto diverso della situazione. A livello nazionale, il Pd alla Camera ha raggiunto il 33,2% dei voti, contro il 32,6% di due anni fa (insieme al 31,3% dell’Ulivo, abbiamo calcolato la metà dei consensi raccolti dalla Rosa nel Pugno nel 2006). Una crescita, modesta, dello 0,6% che si è distribuita in maniera assolutamente non omogenea sul territorio. Le circoscrizioni della Camera in cui il Pd ha migliorato più sensibilmente il risultato dell’Ulivo sono state Lazio 1 (+5.1%), Calabria (+4,2%), Umbria (+3,7%) e Toscana (+2,3%): una regione meridionale, una centrale (anche se più di regione, nel caso di Lazio 1, si dovrebbe parlare dell’area urbana di Roma) e due classiche “regione rosse” (sempre centrali). Il Partito democratico è cresciuto più della media nazionale anche in Lombardia 1 (+1,0%), Friuli Venezia-Giulia (+1,0%); Marche (+1,3%), Lazio 2 (+2,3%), Basilicata (+1,4%) e Sicilia 1 (+0,7%). Anche in questo caso, la distribuzione geografica è tutt’altro che omogenea: una circoscrizione settentrionale, due centrali e due meridionali. Riepilogando, il Pd è cresciuto più dello 0,6% in due circoscrizioni settentrionali, cinque circoscrizioni centrali e tre circoscrizioni meridionali (di cui una margi-
N
Pdl Pd
I risultati del Senato, provincia per provincia. L’intensità dei colori (azzurro: PdL; verde: Pd) è relativa alla percentuale di voti raggiunta dalla coalizione che ha conquistato più voti nella provincia. Più è alta la percentuale, più è scuro il colore
nale). Quasi il contrario di quello che affermano dalle parti del Pd. La sensazione, invece, è che il partito guidato da Walter Veltroni sia riuscito ad attrarre elettori – e soprattutto gli elettori che nel 2006 avevano votato per i partiti della Sinistra Arcobaleno – soprattutto nelle“regioni rosse”in cui, tradizionalmente, il suo apparato di potere è consolidato da decenni. Altrove, le cose sono andate diversamente. In alcune circoscrizioni, il Pd è cresciuto, ma me-
no dello 0,6% che ha rappresentato la sua performance nazionale. Da Nord a Sud: Piemonte 1 (+0,2%); Liguria (+0,5%) e Puglia (+0,4%). In Lombardia 2, il Pd ha conservato il (debole) 24,5% conquistato nel 2006. In tutte le altre circoscrizioni, i voti del Pd sono scesi rispetto a quelli dell’Ulivo (più metà RnP) nel 2006. Sempre da Nord a Sud: Piemonte 2 (-0,5%); Lombardia 3 (-0,4%); Veneto 1 (-1,5%); Veneto 2 (-0,7%); Emilia Romagna (-0,2%); Abruzzo (-0,5%); Campania 1 (-0,6%); Campania 2 (0,8%); Sicilia 2 (-2,3%) e Sardegna (0,4%). Un discorso a parte lo merita il Molise, dove il Pd ha perso la bellezza del 12,6%, subendo da parte dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro una “cannibalizzazione”in piena regola. Anche analizzando il risultato della tornata amministrative il risultato non cambia. Alle elezioni provinciali (e alle comunali di Roma), che hanno coinvolto un numero maggiore di elettori, il Pd perde o guadagna “a macchia di leopardo”, senza un trend geografico significativo. A Roma, il Pd perde quasi il 7% (contando anche la lista civica pro-Veltroni del 2006), mentre ad Asti guadagna 2 punti percentuali. A Foggia la perdita è vistosa (-7,1%), ma a Udine la crescita è solida (+4,6%). A Catanzaro il Pd perde il 7,8%, ma anche nella provincia di Massa-Carrara le cose non vanno molto meglio (-6,5%). Se davvero, dunque, i dirigenti del Pd sono convinti di aver perso le elezioni al Sud, qualcuno li dovrebbe avvertire di rifare i conti. Il Pd, a parte che nelle “regioni rosse”, le elezioni le ha perse in tutta Italia.
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parafulmine
I politologi ragionano sulle prospettive dei democratici dopo le sconfitte elettorali
Calma, non c’è un leader migliore di Riccardo Paradisi
ROMA. E adesso? Dove va adesso il Partito democratico? Forse drammatizza troppo chi parla di un tunnel nero in cui la creatura di Walter Veltroni si starebbe infilando a solo pochi mesi dalla sua nascita ma certo non c’è il sole dell’avvenire a disegnare il suo prossimo orizzonte. L’aria che si respira in casa Pd è pesante. Ieri Francesco Rutelli ha lasciato anzitempo il tavolo del confronto della direzione dimostrandosi nervoso anche con i cronisti che gli chiedevano un commento. Da parte sua Antonio Di Pietro non aveva aspettato un minuto dalla certezza della sconfitta di Rutelli per capitalizzare a modo suo l’impasse di Walter Veltroni: «Ora ricominciamo dall’opposizione dura e pura dell’Italia dei Valori». Si respira aria da resa dei conti nel Pd, i dalemiani chiedono un ridimensionamento del ruolo di Veltroni i veltroniani agitano l’ipotesi del complotto: perché moltissimi romani nelle schede hanno votato Alemanno per il comune e il candidato del Pd Zingaretti per la provincia? Ieri Repubblica scriveva chiaramente che «Il dubbio esplicito tra i rutelliani è che una fetta di diessini (dalemiani per essere più precisi) abbia voluto mandare un segnale non a Rutelli ma a Veltroni». Dunque dove va il Partito democratico? Il politologo Giovanni Sartori, risponde affilato: «Deve chiederlo a D’Alema non a me. Lui è fatto così, se non c’è un complotto non gli piace di giocare. E comunqe, aggiunge Sartori, le sconfitte del Pd non sono attribuibili al povero Veltroni. Avrà tanti difetti ma è chiaro che quello che sta avvenendo è da leggere nell’onda lunga del collasso del podismo». La pensa così anche Massimo Cacciari, il sindaco filosofo di Venezia che da due giorni ripete: ”Veltroni non si tocca”. Certo, dice Cacciari «la vittoria netta di Gianni Alemanno è stato un durissimo colpo per Walter. Non c’è dubbio che vi sarà qualcuno che ne discuterà. Non tanto la leadership quanto la linea seguita e credo che sarebbe devastante se si tornasse indietro rispetto alla linea
Massimo Cacciari: «La linea di Veltroni è quella giusta: un Partito Democratico chiaramente definito nei suoi confini e, quindi, con netta distinzione rispetto alla Sinistra Arcobaleno» di riferimento, sbagliano. È il contrario: si è cambiato troppo poco, si è fatto troppo poco: ora si deve andare avanti, verso la costruzione di una sinistra alla Tony Blair». Paolo Pombeni: «Il Pd ha coltivato l’illusione di ripetere il meccanismo berlusconiano organizzando il partito con la logica verticale aziendale. Logica non trasferibile fuori dall’elemento berlusconiano»
dallo definita stesso Veltroni». Occorre andare avanti dunque secondo il sindaco di Venezia: «La linea di Veltroni è quella giusta: un Partito Democratico chiaramente definito nei suoi confini e, quindi, con netta distinzione rispetto alla Sinistra Arcobaleno. Sarebbe devastante se il Pd mettesse in discussione questa linea. Spero che non lo faccia. Spero che nessuno lo faccia». Andare avanti dunque, ma verso dove? Verso un partito laburista alla Blair, secondo Paolo Pombeni, professore ordinario di storia dei sistemi politici all’università di Bologna. Se non è chiaro questo approdo, dice Pombeni, tutto si rivelerebbe inutile. Anche le lezioni di queste ultime settimane. Il Pd ha coltivato l’illusione di ripetere il meccanismo berlusconiano organizzando il partito con quel sistema, con quella logica verticale aziendale che però non è trasferibile fuori dall’elemento berGiovanni Sartori: lusconiano». Il «Le sconfitte delle Pd per Pombeni politiche e delle da un lato è riamministrative masto vittima di Roma non sono della fusione dei attribuibili al gruppi dirigenti, povero Veltroni. dall’altro di «un Avrà tanti difetti criterio sbagliama è chiaro to di selezione che quello che sta delle persone. avvenendo Veltroni si è limiè colpa all’onda tato a cooptare lunga del collasso dai sottogruppi del podismo» dirigenti quelli che gli uomini e le donne che gli stavano più vicini. Non si forma così una classe dirigente». Insomma il Pd non è ancora un partito vero, non è diventato quello che dovrebbe
essere. «Il consenso dei media», incalza Pombeni, «non significa consenso politico: Veltroni ha avuto grande attenzione da stampa e Tv dopo il battesimo del Pd ma questo non ha determinato consenso. Se la sinistra vuole tornare a vincere deve poter tornare ad essere il partito dell’alternativa non della rivincita». Uno dei fattori decisivi che ha determinato la sconfitta del Partito democratico e della sinistra è il tema della sicurezza. Due anni fa Giuliano Da Empoli, sociologo ed editorialista del Sole 24 ore, ha scritto un libro, Fuori controllo (Marsilio editore) che anticipa la critica all’atteggiamento della sinistra in materia di sicurezza. La tesi del pamphlet di Da Empoli era che di fronte alla paura endemica della società per la criminalità e la precarietà la sinistra era incapace di rispondere politicamente ma capacissima di spiegare perché questa paura è sbagliata e come siano disdicevoli le pulsioni securitarie che covano nella società. «Alemanno», dice Da Empoli, «ha avuto facile gioco nel colpire su questo punto debole del veltronismo, a scoprire quel lato oscuro della contemporaneità – la paura, l’insicurezza diffusa – che la sinistra non riesce ad affrontare e che a Roma il veltronismo tendeva a coprire con una politica di eventi mondani e culturali come le notti bianche e la festa del cinema». Ora dopo l’uno due delle elezioni politiche e romane, a qualcuno potrebbe venire la tentazione di tornare indietro, alla sinistra classica, allergica a ogni fuga in avanti. Per Da Empoli sarebbe un errore fatale: «Quelli che dicono: è cambiato troppo, abbiamo confuso l’elettorato
Adelante con giudizio dunque. È anche la tesi di Michele Salvati, editorialista del Corriere della Sera molto vicino al Pd: «Poche chiacchiere», dice Salvati, «a Veltroni non c’è alternativa. Anche le persone che hanno dubbi sulle scelte fatte dal segretario, con una discrezionalità grande e in assenza di regole statutarie precise, sapevano che la sconfitta era molto probabile. Era anzi prevista. Sapevano anche, sempre quelli che oggi vorrebbero un ridimensionamento di Veltroni che dopo la batosta delle amministrative o si cambiava o davvero era la fine. Marini, lo stesso D’Alema hanno investito Veltroni del ruolo che oggi ha, sono stati loro stessi a chiedergli di farsi avanti, di assumersi queMichele Salvati: sto compito. Vel«Ci si rende troni, continua conto quale Salvati, lo ha fatsarebbe stato to. Ma ci si rende il risultato conto quale saelettorale rebbe stato il ridi una nuova sultato elettorale Unione che di una nuova stavolta magari Unione che stasi sarebbe volta si sarebbe presentata con un programma di presentata con un di seicento pagine?» programma seicento pagine?». Detto questo resta da attraversare il guado. «Certo, prosegue Salvati, ora si dovrà celebrare un congresso dove dovranno essere affrontate questioni come il modo di stare all’opposizione: da soli? con l’Udc? In modo intransigente o scegliendo un profilo dialogico con il Pdl?» Soprattutto però il Pd deve definire la sua identità. «Finora si è scontata l’estrema urgenza con cui si è fatto tutto: la fondazione del partito, le primarie. Ora si ha a disposizione lo spazio e il tempo per definire una strategia. Il Pd dovrebbe volgerlo a proprio favore, completando il suo processo di trasformazione. La destra non starà al governo per sempre». Per Veltroni insomma comincia la traversata nel deserto.
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30 aprile 2008 • pagina 5
Parla Paola Binetti: dobbiamo capire il successo della Lega, senza copiarla
«Veltroni resti. Ma il Pd deve cambiare strada» colloquio con Paola Binetti di Errico Novi
ROMA. «Abbiamo recuperato molti punti, rispetto all’inizio della campagna elettorale. Ma ora dobbiamo pensare ad altro: ad ascoltare le domande che vengono dal territorio, a cominciare dalla richiesta di maggiore sicurezza, e a rispondere meglio di come abbiamo fatto. Senza chiuderci in noi stessi». Paola Binetti immagina un partito diverso da quello che il Pd sono stati finora. Capace di stare tra la gente e non più cristallizzato dal riflesso del leaderismo. Secondo la deputata teodem, candidata ed eletta alla Camera anziché a Palazzo Madama perché considerata non abbastanza omologabile, lo stesso segretario deve essere una sintesi, non la sostanza stessa del Pd, deve «integrare i contenuti specifici che arrivano dai diversi stili delle leadership preesistenti, in modo da arrivare a un disegno complessivo che rappresenti davvero il Paese». È il momento più difficile per voi proprio perché viene improvvisamente meno la sovrapposizione tra personalità del leader e identità del partito. Non so se è il momento più difficile, certo è un momento duro ma a anche di grande elaborazione. C’è bisogno di chiedersi se in questi mesi in cui abbiamo realizzato un manifesto dei valori, un codice etico, uno statuto per le regole interne, siamo stati abbastanza attenti alle richieste che arrivavano dal territorio. O se invece siamo stati troppo piegati su noi stessi per ascoltare il Paese. Domanda non da poco. Giuseppe De Rita ha descritto la Lega come l’unica forza politica che abbia una cultura del blocco sociale sottostante come avveniva per la Dc o il Pci. Né il Pd ne il Pdl, dice il segretario del Censis, hanno la stessa capacità di fare mediazione e mettere dentro tutti. Pd e Pdl sono due formazioni nuove, appena nate, due grandi partiti che ora devono trovare il modo migliore per stabilire un feeling diretto con i cittadini. Non c’è dubbio che negli ultimi mesi siano emersi due grandi pro-
blemi: quello della sicurezza, sul quale la Lega è riuscita a intercettare molti consensi, e quello della povertà, cioè del costo della vita, del dramma della quarta settimana. A quest’ultimo nessuno finora ha saputo dare risposte. E lei dice che la via d’uscita dei democratici, adesso, è farsi carico dei disagi più profondi che attraversano il Paese. È così, se ci sono aspettative del genere bisogna intercettarle, guardare alle persone e ai loro bisogni. Potremmo dire: un discorso popolare e di sinistra nello stesso tempo. Non è semplice ridefinire l’identità, partire da quello che è stato il Pd in questa campagna elettorale e collocarlo nella dimensione di cui parla lei. Ripeto: siamo un partito nuovo e la campagna elettorale ci è piovuta addosso. Quando abbiamo celebrato le primarie non si immaginava di poter tornare al voto in tempi così rapidi.
“
e nello stesso tempo cominciamo ad aprirci al dialogo con il territorio. In campagna elettorale non lo si è fatto abbastanza? Siamo stati convincenti ma non tanto da poter vincere. La folla nelle cento piazze d’Italia non era finta, ora possiamo ripartire dai valori, ed è giusto che quelli cattolici siano rappresentati, e dobbiamo convincerci che il Paese è meno a destra di quanto sembra oggi. La leadership di Veltroni è in pericolo? Non credo che sia in discussione, credo che però vada riconsiderato il modo con cui integrare il suo stile con quello delle leadership preesistenti alla nascita del Pd, in modo da arrivare a un disegno complessivo adatto a dare risposte al Paese. Il fatto che Francesco Rutelli non sia sindaco di Roma lo rende più disponibile a lavorare insieme con gli altri per definire l’identità del partito. Crede che sarebbe stato possibile lavorare meglio su questo, prima delle elezioni? Sul piano mediatico ci siamo identificati nel pullman di Walter, e abbiamo suggerito l’idea di un partito persona. Adesso possiamo dimostrare che il Pd è un fatto davvero nuovo anche rispetto al suo modello di leadership. Prima non ci si poteva pensare, insomma. Ci sono dei tempi di gestazione necessari, che noi non abbiamo avuto.Veltroni ha fatto quello in quel momento ha percepito come la cosa più utile. Nessuno disconosce il suo realismo politico, ha recuperato molti punti: questa è una conquista positiva ma non sufficiente. Dice che va rafforzata anche l’identità cattolica: questo porterà il Pd a intensificare il dialogo con l’Udc? Veltroni, D’Alema e Rutelli hanno aperto questo dialogo, hanno chiesto il sostegno per il ballottaggio. Si può lavorare molto, soprattutto sulle proposte da fare per il futuro del Paese, nell’interesse dei cattolici. Dall’altra parte ci sono i radicali: anche se hanno condotto una campagna elettorale dal profilo basso la loro presenza ha comunque condizionato l’elettorato. C’è anche la sinistra radicale, da cui avete ereditato molti voti: dovrete tener conto anche di questo. Gli elettori di sinistra pongono domande giuste, spetta a noi dare risposte sul tema della povertà. Se saremo in grado di farlo in modo soddisfacente daremo senso a questa eredità.
Serve una integrazione tra lo stile con cui Walter interpreta la leadership e quello degli altri, compreso Rutelli. Prima non sarebbe stato possibile farlo, le elezioni ci sono piovute addosso
”
Adesso abbiamo bisogno di darci un’identità profonda includendo il bisogno di sicurezza. Come fareste a distinguervi da chi come la Lega fa di un tema del genere la propria bandiera? Non ci si può concentrare solo sulla propria sicurezza e sui propri bisogni, come propone la Lega, che prova a dare una risposta in termini immediati ma si ferma lì. Noi dobbiamo andare oltre, non possiamo dimenticarci di essere un partito inclusivo, dimostrando di voler innanzitutto affrontare il nodo della sicurezza. Ci sono priorità da rispettare. Non mi posso occupare di te se non mi sento sicuro: credo che dall’elettorato arrivi un messaggio del genere. La solidarietà deve restare un valore centrale per noi, fa parte della nostra identità. Ma non possiamo ignorare quello che ci chiede il Paese. E che ha determinato la vittoria della Lega come l’esito del voto a Roma. Resta il punto: è una trasformazione profonda per l’identità del Pd. La nascita di un partito non è un atto singolo, ma un processo. Stiamo cercando di dare risposte al nostro interno
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politica 1978
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1987
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1983
1992
Il neo presidente della Camera nei ricordi di un testimone d’eccezione
Ne ha fatta di strada quel ragazzo di via Milano di Mauro Mazza e lo ricordo ancora Giorgio Almirante quando una sera, vigilia elettorale del maggio 1972, concluse il suo comizio in piazza del Popolo scandendo: «E’nell’aria il sapore dei momenti storici che sono fatti per noi». Quella volta, a suo modo, la destra missina conobbe un passaggio storico, toccando vette di consenso tra l’8 e il 9 per cento alle politiche. Per trovare altri “momenti” simili bisogna andare avanti di oltre un…..ventennio e ricordare quel pomeriggio di Casalecchio di Reno – autunno 1993 - quando l’imprenditore Silvio Berlusconi, non ancora “prestato”alla politica (mancava pochissimo, ma nessuno lo immaginava) inaugurò un ipermercato e, rispondendo ad una cronista dell’Ansa, disse: «Se fossi romano e dovessi scegliere al ballottaggio tra Rutelli e Fini, beh voterei per Fini». Fu il giorno dello“sdogana-
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mento” definitivo per la destra missina. Fini perse al ballottaggio con Rutelli, ma il dado era stato tratto e indietro nessuno avrebbe potuto o saputo tornare. E adesso eccola di nuovo, la storia che bussa e bussa ancora. Poche ore dopo la vittoria/rivincita di Alemanno a Roma, questa mattina Gianfranco Fini sarà eletto presidente della Camera. Il leader della destra italiana andrà a ricoprire la terza carica
te scelse quel ragazzo spilungone arrivato a Roma da Bologna, dov’era diventato “fascista” perché un gruppetto di ragazzi comunisti gli aveva impedito di entrare al cinema dove proiettavano “Berretti verdi”.
Quel ragazzo era molto diverso dagli altri “camerati”. Calmo, mai sopra le righe, sempre serissimo dentro un immancabile impermeabile bianco. Non allungava le
Quel giovane era molto diverso dagli altri “camerati”.Calmo,mai sopra le righe,sempre serissimo dentro un immancabile impermeabile bianco.Non allungava le mani,parlava benissimo.Insomma,un “almirantiano”doc istituzionale della Repubblica italiana. E sarà finalmente compiuto un percorso cominciato più di trent’anni fa, quando nel giugno del ’77, per guidare il Fronte della Gioventù Almiran-
mani, parlava benissimo. Insomma, un “almirantino”doc. Allo stipendio da dirigente di partito, preferì il tesserino da giornalista. Ce lo vedemmo arrivare al Secolo d’Italia e, per un paio d’anni,
fare il giornalista a tempo (quasi) pieno. Preciso, ordinato, paziente. Scriveva qualche articolo di fondo, spesso divideva con me la pagina politica. Lui scriveva e commentava notizie e prese di posizione del centro e della destra, dalla Dc al Msi. Io mi divertivo con gli affari della sinistra, tra Berlinguer e i gruppi extraparlamentari. Anni complicati, se dovevi passarli dentro il partito (e il giornale) del Msi. Un partito che conobbe la pesantissima scissione verticale di Democrazia nazionale (se ne andò la metà dei parlamentari in odio ad Almirante) e che la sinistra estrema voleva sciogliere. Un partito che troppo spesso si ritrovava dietro alle bare di militanti morti ammazzati e che, ogni volta, assisteva impotente ad un allarmante esodo di ragazzi verso l’ignoto dell’estremismo terroristico, alla ricerca di un’assurda, folle vendetta. Dieci anni dopo la sua prima nomina,
sempre sotto l’ala protettiva di Almirante, Fini divenne segretario del partito. Ma presto dovette imparare a navigare in mare aperto. In poche ore (primavera 1988) se ne andarono Almirante e Romualdi, che avevano fondato il Msi nell’immediato dopoguerra. I colonnelli missini, tutti della generazione di mezzo, organizzarono un colpo di mano e in un congresso tumultuoso portarono alla segreteria Pino Rauti. Molti “missinologi” sostennero convinti che proprio quei mesi da oppositore interno servirono a Fini per crescere politicamente, per maturare, per conoscere l’altra faccia – meno bella, anzi melmosa – della politica. Imparò a soffrire e quando fu richiamato – a furor di popolo – a guidare il Msi, quel leader ancora giovane era diventato un
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politica
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Scontro nella maggioranza sulle riforme
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altro. Era pronto a gestire una nuova stagione politica: orgoglio di partito, slogan duri, alternativa al sistema, lotta alla corruzione dilagante.
E invece… Sì, Gianfranco Fini è anche fortunato, se la fortuna è componente essenziale del successo o della sconfitta di ciascuno. E’ così nella vita, mica solo nella politica. Nei
In ordine cronologico: 1978: Fini presidente del Fronte della Gioventù a Cava dei Tirreni. 1980: Giorgio Almirante in piedi tra Fini e Gasparri. 1983: la celebre foto della squadra di Via Milano, dov’era la redazione del Secolo d’Italia. 1987: la prima elezione di Fini alla guida del Msi, con lui Roberto Menia, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri. 1991: la seconda vittoria di Fini al congresso missino di Trieste. 1992: il futuro presidente di An è insieme con Bettino Craxi mentre esplode Tangentopoli. 1995: il congresso di Fiuggi, quando l’Msi divenne Alleanza Nazionale. 2001: la prima conferenza stampa di Fini Vice Presidente del Consiglio
primi anni Novanta le fondamenta del sistema cominciavano ad ondulare e a sussultare. Dopo la caduta del Muro, dal colle del Quirinale il Presidente Cossiga picconava ogni giorno quel che restava della Prima repubblica. Il leader missino, coadiuvato dal suo portavoce (il formidabile Storace) stava al gioco, amplificava le picconate e ne faceva un prezioso tesoretto politico. Il resto lo fecero i referendum elettorali di Mariotto Segni e, soprattutto, i magistrati del pool milanese. La storia cambiò registrò. L’imprenditore Berlusconi scese in campo e Fini ne divenne il più leale e fedele alleato: l’unico nel centrodestra – a tutt’oggi – rimasto sempre con lui, in un matrimonio d’amore e d’interesse che, tra alti e bassi, ha resistito al logorio della vita politica moderna, nella buona e nella cattiva sorte. Nel frattempo, Fini ha fatto quel che doveva. Alleanza nazionale ha compiuto un lungo tragitto verso una destra pienamente legittimata, anche a livello internazionale. Il viaggio a Gerusalemme, il ministero degli esteri, l’apprezzamento conquistato presso le diplomazie di mezzo mondo. Mancava un tasello: la costruzione di un partito unitario del centrodestra. Definite le
premesse (valori e intenti comuni) d’improvviso sembrò crollare tutto. La fuga in avanti di Berlusconi sul predellino. La tentazione di ricomporre il tendem con Casini. Sullo sfondo l’idea che il malandato governo Prodi avrebbe avuto vita grama, ma ancora lunga. E invece… Ecco di nuovo quel mix di capacità, istinto e fortuna che fanno di un politico un leader. Esplode il caso Mastella ed è la valanga che travolge il centrosinistra. L’immondizia di Napoli documenta il fallimento. Non ci sono né il tempo, né lo spazio per altre avventure. Non resta che andare a votare. In una notte Berlusconi decide la mossa del cavallo. Propone a Fini un accordo elettorale forte, premessa del partito unitario da realizzare dopo una certissima vittoria che nessuna rimonta veltroniana potrà impedire. In quella stessa notte di gennaio, muore la madre di Fini, che ritarda solo un’ora all’appuntamento con Berlusconi. Il dolore gli spezza il cuore, ma resta lucido e calmo nella trattativa politica più delicata della sua vita. Solo qualche ruga in più sul viso lo fa così diverso dal ragazzo che si guadagnava lo stipendio al Secolo. Oggi è un giorno davvero storico per la destra italiana. Lo aspetta lo scranno più alto di Montecitorio. Il viaggio della destra italiana è quasi terminato. Resterebbe da scrivere il capitolo finale, con il leader a Palazzo Chigi, alla guida del governo. Un altro film. Di sicuro, tutta un’altra storia.
E Bossi intima: «Silvio obbedisci» di Nicola Procaccini
ROMA. Irrefrenabile. Umberto Bossi al suo ritorno in Parlamento è un vulcano che esplode dichiarazioni tutto intorno. Ed il primo di giorno di scuola dei neoparlamentari diventa una manna per i cronisti annoiati. Festeggiato dentro e fuori da Montecitorio, il leader del Carroccio ne ha avute per tutti. Innanzitutto Malpensa, vero e proprio mantra leghista. Alla Lega Nord le sorti di Alitalia interessano poco, e Bossi non ne fa certo mistero: «Bene ha fatto la Lega a fare un accordo su Malpensa con Lufthansa. Ho dato io il via libera a Bonomi – dichiara il leader leghista alla folla accalcata intorno a lui – gli ho detto “vai, vai”». Poi, quando qualcuno gli do-
stata applicata». Ma ci sono da superare le obiezioni del Cavaliere, che sembra ancora lontano dalla quadratura del cerchio dei ministri. Ed allora Bossi si fa più minaccioso: «Alla fine Berlusconi troverà una soluzione: sono fiducioso, sennò avrei preteso i ministri prima del voto dei presidenti delle Camere, quando avevo ancora il coltello dalla parte del manico». Poi perché il messaggio arrivi forte e chiaro a Palazzo Graziali dichiara: «Berlusconi manterrà la parola, si è sposato con la Lega e ora deve eseguire i nostri ordini». Sì, ha detto proprio così.
manda dell’uscita di Berlusconi che ha minacciato l’Unione Europea di acquistare la compagnia di bandiera attraverso le ferrovie statali, Bossi si fa improvvisamente duro e dichiara: «Non credo che si possa fare perché sarebbe una concentrazione di potere. Non so cosa voglia fare Berlusconi, ma la soluzione c’era ed è la legge Marzano». Ovvero: la liquidazione della Parmalat.
chi giorni fa: «Da 21 anni la Lega è un partito democratico ma il linguaggio del Carroccio è fatto di iperbole e anche un po’ rozzo. E quindi dovrebbe cambiare». Le ultime parole famose. Umberto Bossi ieri sembrava il leader di Hezbollah, la sua ultima dichiarazione è stupefacente: «O si fanno le riforme o scoppia casino. Abbiamo 300 mila uomini, 300 mila martiri, pronti a battersi e non scherziamo. Mica siamo quattro gatti. Credete che avremmo difficoltà a trovare degli uomini pronti a combattere? No, perché verrebbero giù anche dalle montagne». Il primo giorno di Parlamento sembra una rimpatriata fra vecchi amici. Bentornato Senatur.
Da lì in poi è tutto un crescendo. Su Roberto Maroni al Viminale, per esempio, l’Umberto non transige. «Noi sappiamo già cosa fare, e lo sa bene Maroni perchè con lui ho un patto preciso: si tratta di applicare la Bossi-Fini, che finora non è
A questo punto il ricordo vola alle sconfortate dichiarazioni del Cavaliere di po-
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politica
Il presidente Luigi Alici: «Difendere i valori per combattere il partito trasversale dell’individualismo»
L’Azione cattolica del Terzo Millennio d i a r i o
di Francesco Rositano
ROMA. Primo maggio di lavoro per l’Azione cattolica che da domani fino a domenica si riunirà a Roma per la XIII Assemblea Nazionale dal titolo “Cittadini degni del Vangelo - Ministri della sapienza cristiana per un mondo più umano”. Più di 1.200 delegati avranno il compito di elaborare il Manifesto programmatico e di eleggere il nuovo Consiglio Nazionale. Quest’organo a sua volta sceglierà una terna di tre nomi da sottoporre al Consiglio Permanente della Cei che, infine, nominerà il nuovo presidente nazionale. Per il momento quello attuale, Luigi Alici, professore ordinario di Filosofia Morale all’Università di Macerata, non ha annunciato l’intenzione di ricandidarsi anche se, ha affermato, «non esiste divieto esplicito a esercitare un secondo mandato». L’Assemblea avrà il suo culmine domenica 4 con la messa in Piazza San Pietro presieduta dal cardinal Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente dei vescovi italiani. Poi a mezzogiorno, in occasione dell’Angelus il popolo dell’Ac – uomini, donne, bambini e anche delegazioni dell’America Latina, dell’Est Europa – riceveranno l’abbraccio di papa Benedetto XVI che indirizzerà loro un messaggio personale. Quattro giorni di lavoro ma anche di festa. Piazza San Pietro, annunciano all’Ac, ospiterà una coreografia dal significato simbolico: le gigantografie di santi, beati e venerabili che si sono formati presso l’Associazione fondata ormai centoquaranta anni fa da Mario Fani e Giovanni Acquaderni. Era il 2 maggio 1868 quando l’Ac riceveva il riconoscimento pontificio. Saranno questi santi della Chiesa a tracciare, idealmente, la strada sulla quale vuole camminare l’Associazione.
Il cardinale Angelo Bagnasco domenica prossima celebrerà la santa messa in piazza San Pietro; sotto il presidente nazionale dell’Azione cattolica, Luigi Alici; in basso monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina ciazione, infatti, si è radicata nelle parrocchie, negli oratori, ma ha attraversato la società civile, entrando nelle scuole, nelle università, nel mondo del lavoro. E senza dubbio nella politica. Uomini chiave della storia d’Italia come Aldo Moro e Vittorio Bachelet venivano proprio dalla Ac. Entrambi vittime innocenti delle Br. Aldo Moro, che dalla Fuci era arrivato a Palazzo Chigi, fu rapito il 16 marzo del ’78 e ritrovato morto il 9 maggio dello stesso anno, nel cofano di una macchina in via Mario Fani. Il secondo, Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura fu ucciso a Roma il 12 febbraio 1980. Questi uomini continuano
autentica laicità, ricercando un’armonia sempre possibile tra piazze e campanili». Come ha sottolineato monsignor Sigalini l’impegno nella vita civile del Paese trova la sua ragione nel forte radicamento dell’Ac nell’Italia reale. «Siamo presenti in 228 diocesi, in contatto con la vita concreta della gente: il pendolare che ogni mattina fa la spola, i ragazzi che frequentano le scuole, gli universitari, le madri di famiglia, gli anziani. Gente che riesce ad alzare la testa e a guardare oltre, senza lasciarsi folgorare dalle cose effimere. Non vogliamo essere né talebani della fede, né smidollati che non hanno a cuore il destino della propria nazione». Il presidente Alici ha riflettuto sulla necessità di lavorare per quell’ethos condiviso di cui si accenna nel Manifesto consegnato a Giorgio Napolitano. «Il vero problema del Paese – ha affermato - è che sta crescendo un partito trasversale: l’individualismo. E questo sta delegittimando il senso di una partecipazione a una storia comune, scritta nella Costituzione».
Dal 1 al 4 maggio, l’assemblea nazionale dell’Ac incentrata sul tema ”Cittadini degni del Vangelo”
Ieri i lavori dell’Assemblea sono stati presentati a Roma dal presidente in carica Luigi Alici e dall’assistente nazionale, monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina. I relatori hanno fatto il punto sulla storia di questa realtà che ha attraversato due secoli, affacciandosi alle porte del Terzo Millennio. Ma ne hanno anche ribadito le finalità per il futuro: essere sempre tra le piazze e i campanili. L’asso-
a guidare ancora oggi il cammino dell’Ac che vuole essere presente nei luoghi in cui tradizionalmente si è radicata: le piazze e i campanili. Non è un caso dunque che anche “il Manifesto dell’Azione Cattolica al Paese”, consegnato al Presidente della Repubblica e firmato da più di 24.000 persone, abbia lo stesso titolo del video preparato per il suo 140° anniversario. Un manifesto che ribadisce lo spirito che ha sempre animato questa realtà ed è riassunto in queste righe: «Il Paese merita un futuro all’altezza del proprio patrimonio di fede cristiana, cultura umanistica e scientifica, di passione civile e di solidarietà sociale. Ha diritto alla speranza. Vogliamo compiere un passo avanti verso questo Paese, con il Vangelo e con la vita: incontro alla gente nel segno di un ethos condiviso, secondo uno spirito di
Naturalmente Alici non si schiera né a destra né a sinistra ma è netto su un punto: «Esistono legami, valori a cui il Paese non può rinunciare. E che noi ci sforziamo di onorare, coltivare, far crescere nelle scuole, nelle università, nelle associazioni sportive. E naturalmente controlleremo chi governerà affinché siano garantiti». La preoccupazione del filosofo va a quell’Italia «dove si alternano un mix perverso di illegalità, criminalità organizzata, disoccupazione giovanile». È a questa parte del Paese che dice di guardare l’Ac anche perché «spesso è toccato a questa associazione sostituirsi alle mancanze della politica». Ciò vuol dire che l’Azione cattolica ha intenzione di lavorare, far sentire la propria voce. Il metodo è la discrezione. Come ha affermato Alici, citando Emmanuel Mounier: «La discrezione è la firma di Dio». E conclude con una sua massima: «In Italia c’è chi lavora di forbici, valorizzando solo le contrapposizioni. A noi piace lavorare di ago e filo perché siamo certi che solo in questo modo il Paese può crescere».
d e l
g i o r n o
Schifani presidente del Senato Con 178 voti, 117 schede bianche e 2 nulle, Renato Schifani è stato eletto ieri presidente del Senato. Nel suo discorso d’insediamento, salutato da applausi che provenivano anche dai banchi dell’opposizione, l’ex capogruppo di Forza Italia a Palazza Madama ha assicurato che sarà il «garante delle regole, dei diritti dell’opposizione, della maggioranza e delle esigenze del governo». Il neo presidente si è detto consapevole di dover assumere «le ragioni di tutti e, prima ancora, il bene supremo dell’assise che sono chiamato a presiedere nella piena consapevolezza che dal concorso di tutti, e nella salvaguardia di ruoli e posizioni politiche, etiche ed ideologiche, dovrà aver luogo anche la necessaria riscrittura delle regole». Schifani ha anche insistito sul tema della legalità, citando anche Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: «Da siciliano, sento forte la necessità di un impegno crescente per la sicurezza e per l’affermazione dei valori di legalità perché ho vissuto, insieme a tutti gli altri siciliani, il dolore di vedere la mia terra ferita, vessata, umiliata e, insieme, l’orgoglio di vedere una Sicilia che non si è mai piegata né mai data per vinta ed è stata capace invece di rialzarsi e gridare il suo rifiuto della violenza, della prepotenza e dell’illegalità».Schifani ha anche difeso le radici cristiane d’Europa e ha ricordato «i ragazzi di Nassiriya e i caduti per la pace hanno iscritto i loro nomi nel Pantheon degli eroi della Patria».
Alemanno: «Un commissario straordinario per la sicurezza» Serve un «commissario straordinario governativo sulla sicurezza a Roma». È la proposta che il neo sindaco della Capitale, Gianni Alemanno, lancia in una intervista. L’esponente di An replica anche alle critiche mosse da sinistra: «La mia vittoria significa anche la fine di un certo modo di fare politica. Me ne hanno dette di tutti i colori, mi hanno presentato come l’uomo nero». Il primo cittadino di Roma respinge l’accusa di aver parlato di sicurezza in modo strumentale per la campagna elettorale: «Ne parliamo da anni, ma ci hanno sempre risposto con indifferenza». Ora, spiega il sindaco della Capitale parlando degli immigrati, «bisogna espellere da Roma tutti coloro che hanno commesso reati, poi proseguiremo con gli sgomberi dei i campi nomadi, che sono 85 in tutta la città». Alemanno anche annuncia cambiamenti per la Festa del cinema di Roma. Il sindaco propone che venga riservata «ai filmprodotti in Italia, per promuovere la nostra cinematografia, non le star di Hollywood».
Il governo Berlusconi giurerà il 9 o il 10 maggio Il nuovo governo Berlusconi dovrebbe giurare il 9 o il 10 maggio. È l’indicazione che arriva dallo stesso premier “in pectore”, interpellato dai giornalisti in Transatlantico. Della squadra di governo, spiega, «inizieremo a parlare a colazione» e «l’unico infungibile», chiarisce, «è Gianni Letta». Quanto alla data di insediamento, Berlusconi aggiunge che il governo «dovrebbe giurare il 9 o il 10 maggio».
La Russa: «Formigoni presidente fino al 2015» «Anche in vista delle future scadenze internazionali che interessano Milano e la Lombardia, sono pienamente d’accordo Maria Stella Gelmini, Berlusconi e Formigoni per assicurare un altro settennato di stabilità nel governo della Regione Lombardia prevedendo che Roberto Formigoni resti Presidente anche nella prossima legislatura regionale 2010-2015» . Secondo Ignazio La Russa, presidente dei deputati di Alleanza Nazionale, «Formigoni saprà guidare con l’abituale equilibrio, capacità e passione la Regione Lombardia in questa fase delicata di grandi impegni istituzionali e di nascita del nuovo partito del PdL nel quale, a quanto si apprende, avrà un meritato ruolo di spicco».
pensieri & parole
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Gli sceriffi del Nord. Viaggio tra i nuovi sindaci leghisti/2 Michele Marinello ROMA. Domodossola è una di quelle cittadine che tutti conoscono e nessuno sa perché. Sarà forse un retaggio di giochi infantili, di quelli che si fanno con i nomi delle città quando il professore non guarda. Ma pochi sanno che Domodossola è un paese vivace di quasi ventimila abitanti, posto nel cuore dell’Ossola, nella parte alta del Piemonte. La città, inoltre, ha un passato recente glorioso: per un breve periodo fu capitale della Repubblica Partigiana dell’Ossola, proclamatasi indipendente dopo essere riuscita a cacciare i tedeschi. La Repubblica partigiana ebbe vita dal 10 settembre al 23 ottobre 1944: per 33 giorni il territorio liberato fu gestito democraticamente da una giunta governativa presieduta da Ettore Tibaldi, e che annoverava, tra gli altri, la milanese Gisella Floreanini. Nelle vesti di ministro dell’Assistenza, la Floreanini fu la prima donna a ricoprire incarichi governativi in Italia. Oggi qui nelle sue sette vallate, confluiscono tanti turisti italiani e stranieri, e tantissimi voti alla Lega Nord. Il sindaco, Michele Marinello, è ovviamente un leghista doc, alla guida di una coalizione di centrodestra dal maggio del 2005. Il dato biografico che lo riguarda conferma in pieno il clichè del giovane amministratore padano: è nato appena 35 anni fa. Eppure il suo percorso politico non è per nulla recente. Il mio impegno in politica risale al 1992, quando frequentavo il Politecnico di Milano e mi lasciai coinvolgere nella campagna elettorale di Formentini. L’anno dopo mi sono candidato al consiglio comunale di Domodossola e sono stato eletto. Ho fatto il consigliere per otto anni, l’assessore in provincia dal ’99 al 2003, il presidente dell’aula consiliare per 5 anni, ed infine sono diventato sindaco della mia città. Beh, complimenti, lo sa che alcuni giovani parlamentari appena eletti si vantano in tv di non avere alcuna esperienza politica? La nostra caratteristica è propria questa, pensiamo che un ricambio generazionale in politica ci debba essere, ma solo con persone che sappiano la differenza tra una determina ed una delibera. Abbiamo molti esempi positivi nella Lega: Tosi a Verona, Giordano, Buonanno, Bitonci, Garavaglia. Se non sbaglio, alcuni di loro sono stati candidati in Parlamento dal Carroccio. Certamente, e sono stati anche eletti. E si vedrà la differenza. La verità è che la Lega ha ridato dignità al ruolo di sindaco. Questo è uno dei segreti del suo successo, del suo straordinario radicamento territoriale. Mi spieghi meglio. La Lega ha ridato ai sindaci un ruolo significativo. Li ha portati al cuore della sua azione politica. Ha creato dei veri e propri modelli di gestione amministrativa, dove si evitano gli sprechi e si risolvono i problemi senza tante chiacchiere. Il sindaco viene considerato il primo gradino della scala politica: e questo vale per quello di 300 abitanti come per
Nella Valle dell’Ossola trionfa il decisionismo colloquio con Michele Marinello di Nicola Procaccini
A destra un’immagine del centro di Domodossola; sotto il sindaco Michele Marinello
quello di Treviso. Nella Lega gli amministratori locali hanno una visibilità, la possibilità di dire loro. Insomma hanno un peso determinante. Ma come mai il vostro linguaggio è sempre così colorito? E’ una precisa strategia di comunicazione? Noi parliamo come Molto mangiamo. spesso s’intende il sindaco come la figura
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che ha fatto, appena si è insediato? Un’azione di pulizia straordinaria della città, una ripulita generale del verde pubblico, la seconda cosa che ho fatto è stato riorganizzare gli uffici comunali, spostando alcuni servizi al piano terra in modo che la gente trovi subito i servizi più importanti di cui hanno bisogno. E qual è la cosa che invece farà certamente,
La Lega ha ridato ai sindaci un ruolo significativo. Li ha portati al cuore della sua azione politica. Ha creato dei veri e propri modelli di gestione amministrativa, dove si evitano gli sprechi dei salotti buoni, mentre la nostra impostazione è diversa. Quando diciamo di stare tra la gente, non si tratta propaganda scema, ma della verità. La gente da noi non si aspetta il politichese. Chiaramente, funziona solo se alle nostre sparate, si associa un’azione amministrativa efficace. La cittadinanza vuole sindaci che capiscano i problemi, capaci di parlare con tutti, e di fare i fatti. Ecco, qual è stata la prima cosa
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prima della scadenza del suo mandato, costi quel che costi? Pena: il fatto di non ripresentarsi agli elettori domodesi per la riconferma. Bella domanda, sicuramente la riapertura di Palazzo San Francesco. Una struttura bellissima nel cuore di Domodossola che è chiusa da più di vent’anni. Voglio ridonare quel palazzo alla città. La seconda cosa che voglio fare è
risolvere la grana dei parcheggi. Un problema vero per noi. Titolo di studio? Diplomato. La politica, secondo Lei, è un lavoro? Assolutamente non può essere un lavoro. Diverso è il discorso di impegnarsi a tempo pieno quando si ha un incarico di responsabilità pubblica. Mi occupavo di commercio, di telefonia, prima d’impegnarmi in politica. Mi considero in aspettativa. Dal momento in cui assumi un incarico devi dar tutto, ma non puoi dipendere dalla politica perché se perdi le elezioni perdi il lavoro. E questo ti obbliga a compromessi. Qual è la parola chiave, il mantra che ripete a se stesso? Decisionismo. Qual è la ragione sociale della Lega Nord? La Lega ha una missione: la ristrutturazione dello Stato in senso federalista, avvicinando i centri di potere e le risorse ai cittadini. Se i soldi rimangono lì dove sono prodotti, si diffonde il senso di responsabilità. Mentre a livello locale abbiamo questo compito: far capire alla gente che il municipio non è distante, che si può lavorare insieme sul futuro delle nostre città. Per questo, dobbiamo dare loro delle visioni sul futuro, magari osando, magari rischiando. Le nostre amministrazioni costruiscono il domani della nostra gente.
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mondo Il sindaco di Teheran, Mohammad Bagher Qalibaf, sorride dal tetto del Comune della capitale. Sostenitore di Ahmadinejad, è comunque considerato un politico più moderato e, assieme ad Alì Larjani, potrebbe emergere in futuro come un credibile rivale del presidente
l secondo turno delle elezioni per il Parlamento iraniano conferma il dato già emerso lo scorso 14 marzo, quando il primo round ha visto prevalere lo schieramento neoconservatore. Benché facilitata dall’esclusione di molti candidati vicini a Khatami e Rafsanjani, non si tratta di una vittoria da poco. I conservatori raggiungono il 69 percento lasciando al fronte riformista solo il 16,4 percento, cui forse si potrà aggiungere parte di quel 14,3 di indipendenti che pure è stato eletto. Questo risultato, che di fatto rafforza la Repubblica Islamica, induce a qualche riflessione sulla natura del movimento dei neoconservatori e sulla strategia che è opportuno tenere nei confronti dell’Iran. La Repubblica Islamica, sin dalle sue origini, è stata governata da politici che si erano formati nei lunghi anni di opposizione allo Shah.Tra questi alcuni, quali Rafsanjani e Ali Khamenei, sono religiosi, seguaci di Khomeini, altri, quali Bazargan e Bani Sadr, sono piuttosto laici, il primo sulle posizioni del Movimento di Liberazione dell’Iran, il secondo ispirato dal pensiero di Shariati.
I
Queste diverse tradizioni, ed altre ancore quale il partito Tudeh, sono tutti elementi costituenti della Rivoluzione del 1979, e la Costituzione iraniana, varata con referendum nello stesso anno, riflette le diverse tradizioni culturali di cui furono portatori questi movimenti politici. Il punto di rottura, e la definitiva sanzione del predominio del movimento islamico, si ebbe con la presa degli ostaggi americani e la conseguente rottura dei rapporti con
Iran, al secondo turno delle elezioni si rafforza la Repubblica islamica
Ahmadinejad piccoli rivali crescono di Carlo G. Cereti gli Stati Uniti, che produsse un certo isolamento della RI nella comunità internazionale. L’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein, ed il sostegno che questi ebbe dal mondo occidentale, aggravarono ancora di più questa rottura e tacitarono il dibattito politico interno, portando all’emarginazione dei movimenti politici di opposizione. Lo stesso Bani Sadr, esautorato da Khomeini, riparò in Francia, aprendo la via alla presidenza di Khamenei.
to presidente, guidò la ricostruzione post-bellica, cercando di ristabilire dei rapporti con l’Europa. Seguirono gli anni dell’apertura e della speranza con la presidenza di Khatami, troppo presto abbandonato dall’Occidente al suo destino. Nel 2005, la grande sorpresa: mentre nelle cancellerie occidentali tutti erano pronti a scommettere sul ritorno al potere di Rafsanjani, e sulla graduale riapertura dei rapporti dell’Iran con gli Stati Uniti, il
Si è delineata la nuova classe dirigente con cui biosgnerà trattare, consapevoli che la vera richiesta del Paese è il riconoscimento di potenza regionale, osteggiata da altre nazioni del Golfo Fu però in quegli stessi anni che si andò formando una nuova classe dirigente, prevalentemente laica, che si consolidò nella comune militanza nelle file dei Pasdaran e dei Basij. Una classe dirigente più giovane, che si era formata negli anni della rivoluzione o immediatamente successivi, e che ora si affaccia al potere. Alla morte di Khomeini, Khamenei fu scelto quale Guida e Rafsanjani, elet-
voto popolare premiava un politico poco conosciuto, da poco divenuto sindaco di Teheran: Mahmud Ahmadinejad. Il suo elettorato si concentra nelle province centrali dell’Iran, di popolazione persiana, dalle quali provengono la maggioranza dei giovani che hanno combattuto nella lunga guerra con l’Iraq. Il 2005 segna, dunque, il passaggio del potere politico ad una nuova generazio-
ne, che rappresenta una sintesi della tradizione politica della rivoluzione. Accanto al filone più strettamente religioso s’affaccia sempre più forte un profondo e sentito nazionalismo, quel sentimento nazionale che fa sì che in Iran, anche tra gli oppositori, pochi si pronuncino contro il diritto della nazione ad avere l’energia nucleare. Rispecchiando questo sentimento, tra i candidati alle presidenziali del 2005 nessuno si espresse contro l’energia nucleare: non Ahmadinejad, non Larijani, non Qalibaf, non Karrubi, non lo stesso Rafsanjani. I risultati della tornata elettorale appena conclusa con l’assegnazione di 169 dei 290 seggi disponibili ai neo conservatori, confermano questa tendenza e le parole dell’ex Presidente Khatami, che fanno trapelare la sua decisione di non presentarsi alle prossime elezioni presidenziali, se confermate, aprono definitivamente le porte ad una nuova stagione politica, guidata da quanti erano giovani militanti al momento della Rivoluzione. Questo rinforza la posizione di Ahmadinejad, ma è proprio tra i neoconservatori, come Qalibaf e Larijani, che potrebbe emergere un credibile rivale
dell’attuale presidente nelle prossime elezioni.
Questa è la nuova classe dirigente con la quale la comunità internazionale dovrà trattare, conscia che la vera richiesta dell’Iran è il riconoscimento quale potenza regionale, fortemente osteggiata da altre importanti nazioni del Golfo, prima tra tutte l’Arabia Saudita. Intanto, a riprova della ritrovata centralità dell’Iran, i 15 Paesi che l’anno scorso hanno dato vita al Gefc (Gas exporting countries forum), tra cui la Russia, s’incontrano a Teheran per definire la creazione di un cartello del gas, creato sul modello dell’Opec. La collaborazione dell’Iran, di un Iran che sappia rinunciare ai tratti più estremi della sua politica, o almeno al tono aggressivo di molte dichiarazioni dei suoi maggiori esponenti politici, è e rimarrà necessaria per la ricerca di una pace duratura in quella vasta regione che dai monti dell’ Afghanistan giunge sino al Mediterraneo. Sapranno le nazioni occidentali trovare un dialogo riconoscendo all’Iran il ruolo cui questa nazione aspira? E saprà la nascente classe dirigente iraniana abbandonare lo schema sviluppato al seguito della presa degli ostaggi americani, quando l’isolamento internazionale e il conflitto a muso duro con l’Occidente fu utilizzato a fini di politica interna, per emarginare tutte le componenti non khomeiniste della Rivoluzione. Dalla risposta a questa domanda dipende il futuro dell’Iran e, più in generale, del Medio Oriente. Professore di Filologia, Religione e Storia dell’Iran, Università La Sapienza
mondo
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Germania, il primo referendum nella storia di Berlino conferma un trend politico nazionale
Ai tedeschi piace la democrazia diretta d i a r i o
di Alessandro Alviani
BERLINO. Ottantamila: tanti sono i voti che hanno sancito, domenica, il fallimento del referendum per non chiudere lo storico aeroporto berlinese di Tempelhof. L’asticella del quorum era fissata al 25 percento degli aventi diritto; i sostenitori dello scalo si sono fermati a circa il 21 percento. E questo malgrado avessero ottenuto il deciso appoggio prima dei quotidiani dell’editore Axel Springer, poi di alcuni imprenditori e, infine, della cancelliera Angela Merkel, che aveva chiesto di tenere in vita Tempelhof in due interviste nel giro di pochi giorni. Tutto andato in fumo per ottantamila voti, e per l’ostinazione di un governo locale che ha sempre chiarito di voler chiudere in ogni caso i battenti dello scalo. E così a fine ottobre, 85 anni dopo l’inaugurazione di quello che l’architetto Norman Foster ha definito «la madre di tutti gli aeroporti», partirà l’ultimo volo da Tempelhof. Malgrado tutto, il primo referendum nella storia di Berlino ha confermato un trend che si sviluppa ormai da tempo: in Germania cresce la voglia di democrazia diretta. Che si tratti di una privatizzazione, di un ponte nel bel mezzo di un paesaggio idilliaco o di un aeroporto: i tedeschi si organizzano, mettono in piedi un’iniziativa civica e chiamano alle urne i propri concittadini. Dalla metà degli anni Novanta a oggi il numero dei referendum nella Repubblica federale è triplicato, passando da meno di 100 all’anno a circa 300 nel 2007. La metà ha avuto successo. Per scoprire che la sconfitta dei sostenitori di Tempelhof a Berlino, seppur bruciante, non frenerà questa tendenza, basta spostarsi di pochi chilometri, a Potsdam. Nel capoluogo del Brandeburgo è partita all’inizio di questa settimana una petizione per una proposta di legge di iniziativa popolare. Obiettivo: introdurre nel Land un biglietto dei trasporti pubblici a prezzo dimezzato, ad esempio per disoccupati o richiedenti asilo. Tallonato dai cittadini, il governo regionale è già tornato sui suoi passi, dopo il no dei mesi scorsi, e ha annunciato la creazione di un biglietto simile. E questo, prima ancora che la raccolta firme avesse inizio. Ad essere messi sotto pressione sono ormai politici in decine di comuni tedeschi. Come a Lipsia. Qui a gennaio il sindaco socialdemocratico Burkhard Jung è stato costretto ad annullare la vendita del 49,9 percento di un’azienda municipalizzata a Gaz de France, dopo che, in un referendum, l’87 percento dei
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Belgrado si avvicina all’Europa A due settimane dalle prossime elezioni parlamentari, le forze pro europee della Serbia ricevono un messaggio di sostegno da parte della Ue. Ieri i ministri degli esteri dei 27 Paesi membri dell’Unione si sono accordati per sottoscrivere l’Accordo di associazione estabilizzazione con Belgrado che entrerà in vigore solo dopo la piena collaborazione di Belgrado con il tribunale per i crimini di guerra dell’Aja.
Iraq, iniziato processo a Tarek Aziz È iniziato ieri a Baghdad il processo a Tareq Aziz, il volto presentabile sulla scena internazionale del regime di Saddam Hussein. Le udienze si tengono nella “zona verde”, la cittadella fortificata della capitale. Alla sbarra insieme con Aziz sette imputati, tra cui il famigerato Alì il chimico, già condannati in altri procedimenti e che in questo processo devono rispondere dell’uccisione di 42 grossisti alimentari, colpevoli di aver aumentato i prezzi dei generi di prima necessità durante il periodo dell’embergo Onu. Tareq Aziz, cattolico caldeo, dal 1983 al 1991 fu ministro degli Esteri e dal 1973 al 2003 vice primo ministro. Consegnatosi spontaneamente alle forze di occupazione dopo l’invasione anglo-americana del 2003, da allora è rinchiuso a Camp Cropper, non distante da Baghdad.
I ribelli di Timor est disarmano
Dalla metà degli anni ’90 a oggi i referendum sono triplicati, passando da meno di 100 all’anno a circa 300 votanti si è espresso contro. A Monaco di Baviera i cittadini volevano silurare allo stesso modo il progetto del treno a levitazione magnetica Transrapid. Non ce n’è stato bisogno: il governo federale e quello regionale hanno deciso che il collegamento non si farà, per via dei costi esorbitanti.
Presto gli abitanti di Dresda potrebbero essere chiamati a esprimersi sullo stesso tema su cui avevano già votato tre anni fa: la costruzione di un ponte nella valle dell’Elba, dichiarata patrimonio dell’umanità dal 2004. Dopo che l’Unesco ha minacciato di ritirare il titolo per via del ponte, la città ha deciso di consultare i cittadini sull’ipotesi di passare a un meno invasivo tunnel. E questo, malgrado nel 2005 due terzi dei partecipanti a un referendum avessero già appoggiato la nascita del ponte. La minuscola Ensdorf, vicino il confine con la Francia, ha bloccato tramite un referendum la prevista costruzione di una centrale a car-
bone. E la lista è ancora lunga. Così, mentre la partecipazione alle elezioni cala e i partiti tradizionali, a cominciare dalla Spd, perdono iscritti, i tedeschi sembrano preferire nuove forme di attivismo. A scoraggiarli non è neanche il fatto che, a volte, le amministrazioni cittadine hanno aggirato il responso delle consultazioni dirette. Il fenomeno, anzi, si allarga, e contagia anche internet. Sul sito del Bundestag (la camera bassa del parlamento nazionale), ogni cittadino può avviare una petizione. Nel 2007 sono stati 17mila a farlo; quest’anno si attende una crescita fino a 20mila. Se 45mila tedeschi sottoscrivono la richiesta, il testo passa alla Commissione per le petizioni e, all’occorrenza, al governo.
I liberali della Fdp, i Verdi e la Linke preparano intanto una bozza di legge per chiedere l’introduzione di referendum non solo a livello locale, ma anche nazionale (ipotesi finora non prevista). Nel frattempo arrivano le prime proposte per il futuro dell’enorme complesso di Tempelhof. C’è chi vorrebbe crearvi degli studi cinematografici, chi costruirci un parco e chi trasformarlo in un museo dell’aviazione. Chissà, forse alla fine la decisione potrebbe essere affidata proprio a un referendum.
Martedì le componenti più importanti della guerriglia dell’isola del Pacifico hanno deposto le armi. Il capo dei ribelli Gastao Salsina, che si era arreso alcuni giorni fa, insieme a dodici dei suoi uomini hanno consegnato le armi davanti al palazzo del governatore nella capitale dello Stato più giovane del mondo, Dili. Secondo la radio australiana il leader delle formazioni armate e il capo dello Stato, Ramos-Horta, dopo la cerimonia si sono stretti la mano.
La Grecia raggiunge South Stream Secondo l’agenzia di stampa, Afp, Mosca e Atene avrebbero sottoscritto ieri al Cremlino un accordo che suggella l’ingresso della Grecia nel progetto di gasdotto russo-italiano South Stream.
Onu, nasce task force per crisi alimentare Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha annunciato l’istituzione di una task force per affrontare la crisi alimentare mondiale provocata dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari primari. In una conferenza stampa a Berna, seguita a un vertice delle agenzie dell’Onu nella capitale elvetica, Ban ha denunciato come il mondo stia affrontando «fame, malnutrizione e disordini sociali senza precedenti» a causa dell’aumento dei prezzi del cibo. Di qui la proposta di dare vita a una task force, che sarà composta dai capi delle agenzie dell’Onu (tra cui Pam, Fao, Ifad) e della Banca mondiale.
Hu Jintao va a Tokyo È arrivata la conferma definitiva di Pechino: il presidente cinese Hu Jintao si recherà in visita ufficiale in Giappone dal 6 al 10 maggio. È la seconda nella storia per un capo di Stato cinese, e la prima da dieci anni. Il primo presidente cinese a visitare il Giappone fu nel 1998 il predecessore di Hu, Jiang Zemin.
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speciale esteri
Occidente
Cremlino si cambia: il 7 maggio Putin lascia e Dmitrij Medvedev diventa il terzo presidente della storia post-comunista russa
MOSCA AL BIVIO Il solo rispetto della Costituzione formale da parte del presidente federale uscente, avvicinerà il grande Paese slavo e ortodosso verso lo stato di diritto? Con il nuovo inquilino del Cremlino dovrà affrontare questioni che Putin preferiva rinviare.
di Enrico Singer l Cremino il cerimoniale è già definito. Prima le quattro righe del giuramento: «Nell’esercizio dei poteri di presidente della Federazione russa, giuro di rispettare e difendere i diritti dell’uomo e dei cittadini, di osservare e proteggere la Costituzione, di salvaguardare la sovranità, l’indipendenza, la sicurezza e l’integrità dello Stato e di servire fedelmente il popolo». Poi la consegna dei due emblemi che dimostrano il suo rango: la catena dorata con lo stemma della Russia – un’aqui-
A
che i discorsi che la tv trasmetterà in diretta. Ma su quelli non ci sono indiscrezioni. Anche se è facile prevederne almeno la parola-chiave: continuità. E’ la fase della Reggenza che si apre a Mosca. Con un sapiente dosaggio dei compiti che consentirà a Putin, nel suo nuovo ruolo di primo ministro, di conservare il massimo del potere reale. E Medvedev, certo, nel giorno del suo insediamento rispetterà senza sbavature il patto di ferro stretto con il suo predecessore che, dopo diciassette anni di lavoro in squadra sotto
La domanda che tutti si pongono è quanto durerà il patto di ferro tra i due leader la bicipite con al centro del corpo l’immagine di san Giorgio che uccide il drago – e lo stendardo quadrato col tricolore bianco, rosso e celeste che sarà sistemato dietro la sua scrivania. Gli consegneranno anche la copia speciale della Costituzione, con la copertina rossa rigida e le iscrizioni dorate, sulla quale avrà giurato. Così, tra una settimana esatta, mercoledì 7 maggio, Dmitrij Medvedev diventerà il terzo presidente della storia post-comunista russa: il successore di Boris Eltsin e di Vladimir Putin. Sono pronti an-
tante esperienze – dalla guida dello staff presidenziale a quella di Gazprom – lo ha scelto come delfino e lo ha imposto con il suo appoggio diretto nelle elezioni del 2 marzo stravinte con il 70,23 per cento dei voti.
In Russia, si sa, i simboli contano ancora molto. Sono la traduzione visibile, anzi, molto spesso ostentata, dell’influenza personale che supera anche le etichette formali. Così non è davvero un caso che Putin continuerà a vivere nella dacia presidenziale di Novo Ogarevo
mentre Medvedev rimarrà in quella, assai più modesta, di Kalchuga Odinzovskij che lo Stato gli assegnò nell’ormai lontano ottobre del 2003 quando sostituì Alexandr Voloshin nell’incarico di capo dello staff di Putin. E non solo. E’vero che Dmitrij Anatolievich Medvedev s’installerà nel sontuoso ufficio presidenziale del Cremino, ma è altrettanto vero che per Vladimir Vladimirovich Putin è stato già preparato un nuovo maxiufficio al quinto piano dello stesso palazzo da dove eserciterà le sue nuove funzioni di primo ministro della Federazione russa. Simboli, appunto, che non cambiano la sostanza del passaggio dei poteri, ma che aiutano a capire con quanta prudenza gli stessi Putin e Medvedev vogliono affrontare questo bivio. A Mosca sono in tanti a sottolineare i legami tra i due e, soprattutto, le ragioni che hanno determinato la scelta del delfino che, adesso, sta per salire sul trono. Dmitrij Medvedev ha appena 42 anni e tutta la sua fulminante carriera è stata trainata da Putin. I due si conobbero a San Pietroburgo – allora ancora Leningrado – all’inizio degli anni ‘90: Medvedev era un giovane avvocato che lavorava per il sindaco della città, Anatolij Sobchak, che era uno degli esponenti più liberali delle perestroijka gorbacioviana. Putin, che è anche lui di Leningrado e ha oggi 56 anni, allora aveva appena lasciato il Kgb ed era stato nominato da
Sobchak consigliere per gli affari internazionali: proprio l’ufficio in cui lavorava anche Medvedev. Ma è nel 1999, quando Putin (in agosto) diventa primo ministro di Boris Eltsin e poi (in dicembre) assume la presidenza dopo le dimissioni di zar Boris, che comincia la vera collaborazione. Putin chiama a Mosca molti dei suoi amici di San Pietroburgo e tra questi c’è Medvedev che viene subito nominato vice capo dello staff presidenziale. Nel giugno del 2002 il grande balzo, sempre grazie a Putin, alla testa del colosso dell’energia Gazprom. E poi tutto il resto della scalata ai posti di comando fino all’incarico di primo ministro e alla designazione come presidente.
Un vero patto di ferro. A Mosca i maligni dicono che il rapporto tra i due è favorito anche da un fatto fisico. Putin non è un gigante, è alto 1,68, e al fianco di Medvedev - che è alto appena 1,62 - si trova bene. Vero o falso che sia, anche questo aneddoto entra nella serie dei simboli della fase della Reggenza che sta per aprirsi a Mosca. Anche se alle tante similituditini tra i personaggi corrispondono altrettante differenze che non si possono trascurare. La prima, e sostanziale, è che Dmitrij Medvedev non è mai stato iscritto al Pcus, tantomeno ha fatto parte del Kgb. Proviene da una famiglia d’intellettuali, è laureato in Giuri-
sprudenza, parla un buon inglese, è conoscitore esperto dei meccanismi economici, si presenta come un innovatore attento in particolare al miglioramento della qualità della vita dei russi. Caratteristiche queste che offrono una delle possibili chiavi di lettura dei ruoli complementari che attendono Putin e Medvedev. La domanda che tutti gli osservatori si pongono alla vigilia dell’insediamento è quanto durerà il patto di ferro tra le due teste del potere della nuova Russia. O meglio: la linea della continuità che Dmitrij Medvedev illustrerà tra una settimana è davvero il frutto di un comune sentire con Vladimir Putin, o è l’inevitabile tributo a chi gli ha consegnato la presidenza che uscirà dalla bocca di un uomo che vorrebbe fare dei passi più lunghi e più veloci verso la liberalizzazione del Paese? Azzardare oggi una risposta a questa domanda non è possibile a meno di voler indossare gli improbabili panni dell’indovino. C’è un fatto, però, dal quale partire: anche se Putin cercherà di mantenere il massimo del potere reale, ha comunque rispettato la Costituzione che gli imponeva di passare la mano dopo due mandati presidenziali. E questo non è poco in una democrazia ancora fragile come quella russa. Un grande esperto dei rapporti di forza che si muovono dietro le quinte del Cremlino come Andreij Illarionov, ex consiglie-
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Molti sperano che la Russia vada oltre il petrolio e diventi un’economia stabile
Un motore slavo per la crescita globale di Pierre Chiartano arà il 2020 l’anno del sorpasso. Quando l’economia russa diventerà più forte di quella tedesca, da qualche tempo una locomotiva un po’ arrugginita. Questa almeno è la tesi della Goldman Sachs e di altre major della finanza internazionale. Tutti spaventati dalle nubi recessive spinte da subprime, cds e altre “derivazioni” finanziarie, che stanno rendendo fragili le economie di mezzo mondo. Tutti pronti a guardare al Paese di Putin, come ad un porto sicuro, al riparo dai marosi economici che spirano dall’Atlantico.
S
re economico di Putin, sositiene che la vera stanza dei bottoni è in mano a un’oligarchia composta da almeno cinquecentomila persone - sui quasi 150 milioni di abitanti della Russia - che rappresentano i ranghi alti delle forze armate e dei servizi segreti (l’Fsb che ha preso il posto del Kgb), i capi delle amministrazioni locali della sterminata Federazione e quelli delle imprese pubbliche e private che fanno correre l’economia a un tasso di crescita che è stato del 6,7 per cento nel 2007. Lo stesso Putin ed ora anche Medvedev devono fare i conti con questa oligarchia che Illarionov chiama ”corporazione” - che possono influenzare ed anche modificare con purghe o estromissioni, ma che a sua volta li condiziona. Nel gioco a scacchi tra le due teste del Cremlino e la ”corporazione” è possibile che Putin abbia in mente di affidare a Medvedev il compito di tentare aperture in campo interno e, forse, anche internazionale riservando per sé la posizione più sicura di chi ne può condividere i successi e può prendere le distanze dagli eventuali errori. La formula della Russia della Reggenza potrebbe essere proprio questa. E il quarto giocatore sulla scacchiera l’Occidente - dovrà imparare in fretta le nuove regole per evitare che le turbolenze già esistenti - dal progetto di scudo antimissile all’allargamento della Nato - finiscano per favorire chi a Mosca sostiene ancora la linea dura.
Questo nonostante l’assenza dello stato di diritto e di garanzie reali per gli investimenti stranieri. Ma non è tutto “oro nero”quello che luccica nell’ex Paese forte dell’Urss. L’inflazione per esempio è già un grande problema. Nel 2007, ha superato l’obiettivo programmato dalla Banca centrale russa. La vigilanza, nata nel 1990 dalle ceneri della vecchia istituzione sovietica, aveva stabilito un tetto dell’8 per cento su base annua. Si è invece al 12 per cento, grazie al forte aumento dei beni di consumo, soprattutto nel settore alimentare. C’è poi un accoppiata di dati che piacciono poco a un economista come Desmond Lachman dell’American enterprise institute (Aei). Il primo è l’incremento salariale annuo che raggiunge il 20 per cento – un vanto per Putin - mentre la produttività rallenta. Il secondo è il forte aumento del denaro circolante, legato probabilmente ad un rilassamento della disciplina sui conti pubblici: un regalo della successione, da dicembre dello scorso anno a marzo 2008, del clima elettorale. Comunque le previsioni sulla spesa pubblica, da qui al 2010, ne prevedono un incremento pari a 2,5 punti percentuali del Pil. Secondo le stime dell’Fmi il surplus di bilancio che nel 2006, grazie anche alle entrate petrolifere era positivo, 7 per cento del Pil, nel 2009 dovrebbe atterrare su di un pareggio. Risultato ottenuto al netto degli aumenti del prezzo del greggio, passato dai 30 dollari al barile del 2000 agli oltre 117 dollari di questi giorni. Le riserve in valuta straniera ammontano, secondo dati ufficiali a 511,8 miliardi di dollari. Comprensibile dunque la voglia che ha preso gli imprenditori russi di fare incetta di aziende straniere. Ci si domanda quanto tempo servirà alla nuova Russia della coppia Putin-Medvedev per mettersi in pari con la lotta alla corruzione e con un sistema legale efficiente che garantisca la proprietà privata. Un esempio di come funzionino ora le cose è la lotta fra oligarchi, scatenata nei tribunali inglesi, fra l’ex king maker di Putin, Boris Berezov-
sky, poi caduto in disgrazia, e l’ancora in auge multimiliardario, proprietario del Chelsea, Roman Abramovich.
Un conflitto fra “scippatori” di aziende pubbliche russe, tipo Sibneft, Rusal e Ort tv. Una volta collega di acquisti di aziende di Stato a prezzi stracciati, Berezosky ha poi accusato l’ex socio di averlo costretto alla vendita di quella fortuna. Un tesoretto fatto di petrolio, alluminio e un canale televisivo, liquidato per un solo miliardo di dollari. Quindi neanche fra gli ex tovarishchi convertiti a tempo di record al turbo capitalismo si arriva facilmente ad intendersi sulle garanzie alla proprietà. Solo petrolio e gas dentro il motore dell’economia russa? Lo sviluppo economico del grande paese slavo e orto-
duta dei prezzi delle materie prime, hanno rapidamente insegnato a Mosca quanto sia utile mettere il fieno in cascina. Nel 2003, costituendo il Fondo di stabilizzazione, il Cremlino è riuscito a ripagare i debiti accumulati negli anni ottanta e novanta del secolo scorso. All’inizio del 2007 la riserva strategica da utilizzare in caso di cambiamenti improvvisi del prezzo del petrolio, era pari al 10 per cento del Pil russo, circa 144 miliardi di dollari. Anche l’accumulo di riserve pregiate è in pieno boom, dato che si trova al terzo posto nella classifica delle economie mondiali. Seconde solo a quelle di Giappone e Cina. Il reddito procapite è passato dai 2mila dollari del 1998 agli odierni 9mila dollari. In molte città è oggi possibile trovare al-
Gli ultimi due presidenti federali si raccolgono davanti al monumento in memoria di Eltsin dosso ha imboccato un percorso caratterizzato da stop and go. Cominciata nel 1997, quando il costo del greggio era a prezzi “popolari”, la crescita è stata interrotta dalla crisi finanziaria del 1998, per riprendere di nuovo l’anno successivo. Solo con l’arrivo degli aumenti del 2004, l’economia è stata sostenuta e spinta dalla bolletta petrolifera. Non solo, perché in questi anni, a subire uno sviluppo, con forti investimenti, è stata l’industria di processo, come quella chimica, e non quella estrattiva dove le infrastrutture stanno cadendo in pezzi. Un trend accompagnato da buone prestazioni nell’esportazione del settore dei macchinari per l’industria.
Nonostante tutto però il bilancio statale dipende molto dagli incassi sui prodotti energetici e sui minerali, che costituiscono l’80 per cento di tutto quello che si vende all’estero. E il cui andamento rivela quanto la Russia sia immersa nell’economia globalizzata, nel bene come nel male. Infatti le due grandi crisi del 1998 e del 2001, provocando una ca-
berghi decenti, ristoranti italiani e negozi di Hugo Boss. L’iniziativa privata è in movimento e i parametri macroeconomici sono stabili. Quest’ultimo dato è uno dei pochi cui gli esperti danno merito a Putin. L’unico dubbio è che la Russia, una neofita dell’economia di mercato, sia poco abituata alle crisi cicliche che “sbatacchiano” le democrazie occidentali. Per tale ragione la sua classe dirigente ha maggiori possibilità di compiere scelte sbagliate. Non è infatti facile per un governante proporre politiche virtuose. Cassa vuota o colma di petrodollari il problema è sempre lo stesso: far quadrare il cerchio. Questo sottolineava l’economista e, nel 1992, primo ministro per un semestre, Egor Gaydar, dalle colonne del Financial Times. Occorre dunque guardare con attenzione all’attuale fase di transizione dalla monarchia assoluta alla diarchia PutinMedvedev, sperando che la voglia di riforme non sia come la volontà di Aleksej Ivànovic, «il giocatore» d’azzardo di Dostoevskij, che rimandava sempre a domani la sua definitiva redenzione.
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speciale esteri
Occidente
La chiesa ortodossa sta colmando il vuoto lasciato dalla fine del comunismo
Tutto per la difesa della patria di Francesco Cannatà storozhno religija, Attenzione religione. Alla mostra inaugurata il 14 gennaio 2003 al museo Sacharov di Mosca, artisti russi e stranieri esponevano opere che non dicevano nulla di nuovo. Il newyorkese Aleksandr Kosolapov giocava, come al solito, con il logo della Coca Cola. Sullo sfondo rosso appariva Cristo, il simbolo della bevanda più famosa al mondo e la scritta “Questo è il mio sangue”. Altri avevano avvolto lampade colorate con stoffe su cui era stampato «Cor», le iniziali della Chiesa ortodossa russa. In giro bottiglie di vodka
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essere ortodossi feriti nei loro sentimenti religiosi.
Un anno dopo, stessa scena a San Pietroburgo. Il 17 febbraio 2004 la galleria commerciale S.p.a.s. inaugura una mostra di icone cosmopolite dell’artista Oleg Janushevskij. Le opere, icone russe in salsa pop, l’anno precedente erano state esposte in numerose chiese tedesche. La mostra durava quattro giorni. Un gruppo in tuta da combattimento autonominatosi «gioventù ortodossa», distruggeva tutto. Difficile dire se tale “gioventù” esista davvero nella Russia di oggi. È invece indub-
Il cristianesimo russo può adattarsi all’attualità della Federazione vuote con un bastone infilato nel collo, simbolizzavano il fatto che il Patriarcato di Mosca durante la presidenza El’tsin, curava le proprie finanze importando e vendendo, senza pagare tasse, sigarette e bevande alcoliche. La mostra durava pochi giorni. Sei giovani, che per far capire bene chi fossero, avevano lasciato ovunque scritte del tipo, «odiate l’ortodossia, siate maledetti» e «diavoli tornate all’inferno», l’avevano chiusa a suon di randellate. Arrestati, riconoscevano di
bio che il grande Paese slavo è percorso da correnti che rendono possibile atti di questo tipo. Gleb Jakunin, prete e attivista dei diritti umani, nel 2002 ha dichiarato che il “talibanismo ortodosso” esistente in Russia ha un forte consenso sociale. Come in tutta la Russia, anche nell’ortodossia la bancarotta dell’ideologia sovietica ha dato vita a posizioni differenti che vogliono colmare il vuoto politico e intellettuale lasciato dalla fine del comunismo. Ovviamente questo bisogno è stato
coperto meglio da concetti che riescono ad interpretare in modo “totale” la realtà. Né le ideologie utilitaristiche con la loro visione di stato del benessere, né quelle basate sui diritti umani, potevano svolgere questo ruolo. La Russia di questi anni continua ad aver bisogno di una “religione che non c’è”. Il comunismo, si può sostituire solo con una visione del mondo impregnata come il bolscevismo da forme di religiosità secolare. Poiché nella tradizione russa non esiste nulla comparabile alla “religione civile” statunitense e la sacralizzazione della politica ha dato vita in passato alla tragedia stalinista, quello che sta avvenendo in questi anni è una sorta di “politicizzazione”della religione tradizionale del Paese.
Naturalmente il “cristianesimo russo”, straordinariamente ricco di correnti spirituali, possiede una grande quantità di “offerte”. Slavofilismo del conte Uvarov, «prigionia della libertà» di Berdaev, cristianesimo socialista di Fedotov e rinnovatori degli anni Venti con il loro «Cristo primo comunista». Persino i dissidenti religiosi dell’ultima fase dell’Unione sovietica, pur accomunati dall’esperienza del lager, rappresentavano posizioni differenti che andavano dall’ecumenismo dello stato di diritto, a pensieri statal-sciovinisti. A queste visioni del mondo, tutte pronte a colmare il vuoto morale post totalitario bisogna aggiungere
quelle nate, dopo il 1991, dentro la chiesa russa. È in questo decennio che diventa palese la polarizzazione, ancora in corso, tra una tendenza ultra nazionalista e fondamentalista e un’altra, che per analogia con le categorie politiche e sociali, si può definire liberale.
Il 2002 è un altro momento importante nella storia della chiesa russa contemporanea. In ottobre gli spettatori di un teatro nel centro di Mosca vengono sequestrati da terroristi ceceni. Per il Patriarca l’epilogo della vicenda, conclusasi con la morte di tutti i terroristi e la strage di buona parte degli ostaggi, è fonte di enorme dolore. Aleksii II, vittima di un grave attacco di cuore, perde per due mesi l’amministrazione della chiesa. L’assenza del Patriarca mette in moto la lotta per il potere dentro le gerarchie ecclesiastiche. Il metropolita Kirill diventa la guida di fatto dell’ortodossia russa. Durante la malattia del Patriarca il Dipartimento per gli affari internazionali, già influente centro di potere religioso, diventa la vera “stanza dei bottoni” dell’ortodossia russa. Alla sua testa vi è Kirill che alla fine del 2002 darà una nuova interpretazione ecclesiastica dell’idea nazionale. Secondo il “ministro degli esteri” spirituale della federazione, la Russia è un «paese ortodosso con minoranze religiose e nazionali». Il concetto di «Paese ortodosso», inserendosi nella strategia di rinascita russa del
nuovo presidente Putin, sostituisce quella del «Paese multiconfessionale», nel quale tutte le confessioni tradizionali russe -cristianesimo, ebraismo, islam, buddismo - hanno uguali diritti. Anche l’idea che il popolo russo, «ortodosso per nascita”», sia parte inseparabile del «territorio canonico» della federazione affonda in quel concetto. Il 2002 è l’anno della querelle con il Vaticano, accusato dagli ortodossi di «proselitismo cattolico», in Russia. Nel 2004 è sempre Kirill ad esprimere la comprensione della chiesa verso la “gioventù” ortodossa che aveva attaccato le mostre. La strategia dei dignitari ortodossi è finora riuscita a tenere in scacco le correnti liberali, anch’esse presenti nelle fila del Patriarcato e dei fedeli russi. Il loro “conservatorismo”, possiede elementi caratteristici non solo del periodo sovietico, ma congeniali a tutta la tradizione russa. La collettivizzazione della vita economica e sociale, è fatta rientrare nella categoria della sobornost’, la conciliarità ecclesiale, che ritiene il contrasto una maledizione per la vita delle collettività politiche. L’impero di Stalin è trasformato in impero ortodosso. Gli eroi nazionali sovietici diventano santi russi. In questo modo, gran parte dell’eredità intellettuale del recente passato russo, reinterpretata religiosamente, viene ritenuta valida anche oggi. Dimenticando che quel passato non è riuscito a risolvere i problemi della Russia.
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adyrovtsy, jamadaevtsy, “baisarovtsy”, kakievtsy. Tutte milizie cecene che per anni hanno combattuto l’esercito federale russo. Poi diventate alleate di comodo del Cremlino. Ora invece si scontrano tra di loro. Una mutazione “genetica” di un conflitto che da guerra contro l’occupante russo si è trasformato in battaglia tra clan rivali. Una repubblica lacerata da anni di scontri uscita dal clamore mediatico, ma dove violenze e crimini di ogni genere continuano ad essere commessi nel silenzio. E’ la Cecenia del presidente Ramzan Kadyrov, figlio di Akhmad Kadyrov, ex leader della guerriglia e presidente della Cecenia, ucciso il 9 maggio 2004 in un clamoroso attentato allo stadio “Dinamo”di Grozny. L’ultimo episodio di questa guerra non dichiarata tra i clan è avvenuto la scorsa settimana, quando un banale incidente tra due cortei di macchine è stato il pretesto per dare inizio ad un cruento scontro armato.
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Questa volta a darsi battaglia nei pressi di Gudermes, una ventina di chilometri a est di Grozny, non sono soldati governativi e ribelli separatisti, bensì opposte fazioni delle forze armate cecene “fedeli” a Mosca. Da una parte i soldati dell’esercito governativo del presidente Ramzan Kadyrov, dall’altra quelli del battaglione Vostok, Oriente, guidato dall’ex comandante guerrigliero Sulim Jamadayev. La Cecenia torna una polveriera pronta ad esplodere. Una bomba ad orologeria il cui timer, inconsapevolmente innescato da Mosca, potrebbe iniziare il conto alla rovescia dopo il passaggio dei poteri del sette maggio a Mosca. Il fuoco della discordia cova sotto le ceneri. Una regione che nonostante sia sotto il controllo delle forze militari russe, si trova in uno stato che non è né di guerra, né di pace. Il conflitto finalmente “cecenizzato” inizia ad essere fuori dal controllo di Mosca. Alcuni osservatori sostengono invece che questo stia avvenendo all’insegna del divide et impera putiniano. A contendersi le leve
In Cecenia le milizie alleate di Mosca si contendono il potere
Dopo la guerra è scontro tra i clan di Ferdinando Milicia del potere sono due gruppi, le milizie governative del presidente Kadyrov, definito da Putin un eroe della Russia, ma considerato dalle Ong internazionali un criminale di guerra, e il famigerato battaglione Votsok dei fratelli Sulim, Ruslan e Badruddi Jamadayev. L’antagonismo tra questi due clan affonda le sue radici nel primo conflitto russo-ceceno. Tra il 1994 e il 1996, jamadaevtsy e kadyrovtsy si combattevano su fronti opposti. Dal 1999, Jamadayev e i suoi uomini sono passati armi e bagagli dalla parte delle forze d’occupazione russe. La seconda guerra cecena iniziata quell’anno, si è progressivamente “cecenizzata”. Il Dna del conflitto è mutato e i ribelli che prima combattevano le truppe federali ne sono diventati alleati. L’esercito russo si è gradualmente ritirato, lasciando il campo a chi condivideva la strategia del Cremlino. I collaborazionisti più spietati erano raccolti intorno al Battaglione Vostok, integrato nella 42esima divisione di fanteria motorizzata del ministero della Difesa russo, guidato da Sulim Jamadayev, una figura controversa nel panorama politico-militare caucasico. Ex militante ai vertici della guerriglia indipendentista, Jamadayev, come Kadyrov padre, ha sposato la causa indipendentista nella prima guerra cecena. Un tempo fedele alleato di Shamil Basayev, ricercato numero uno dei russi ucciso in un attentato due anni fa, Jamadayev ha cambiato casacca a causa delle sempre maggiori infil-
libri e riviste
itolo molto esplicativo sul ruolo che in molti Paesi mediorientali svolgono i militari. Dietro un’apparente facciata d’istituzioni più o meno democratiche e bene all’interno del recinto di regime, si muovono le classi dirigenti delle forze armate. Egitto, Algeria e anche Turchia fanno parte di questa categoria di Paesi, analizzati molto in profondità nelle pagine del libro di Cook, che è un esperto di Medio Oriente del Council on foreign relations. Una presenza ben occultata quella dei generali, in rispetto della regola che vuole che il vero potere si eserciti e non si mostri. L’analisi svela il complesso intreccio d’interessi che spinge i militari a voler mantenere una facciata di democrazia, dimostrando come si possa sequestrare ed utilizzare stru-
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menti come le elezioni, il sistema dei partiti e una stampa relativamente libera, come mezzi per assicurare la sopravvivenza di un sistema fondamentalmente autoritario. Viene utilizzata la Turchia come punto di partenza dello studio, con le sue recenti politiche di riforma, per attraversare tutto lo spettro delle connivenze e dei metodi utilizzati per tenere saldamente in mano il potere. Il libro spiega come la politica informale sappia limitare e ingabbiare l’azione di quella istituzionale. Steve A. Cook Ruling but not governing Johns Hopkins University Press 208 pagine – 55 dollari
trazioni di estremisti islamici nel movimento ribelle. Ma i più ritengono che la sua defezione, come quella degli altri clan, sia stata comprata da Mosca. Il suo battaglione è tristemente noto per i metodi brutali con cui agisce contro gli ex compagni separatisti. Il mosaico dei clan ceceni non finisce qui. Ci sono i miliziani di Movladi Baisarov, denominati baisarovtsy, qualche centinaio di armati e i soldati kakievtsy, una banda comandata da Said-Magomed Kakiev, ex
rollo del valore del dollaro e decollo del prezzo del petrolio, sono due fattori che nell’ultimo quinquennio hanno messo in seria difficoltà l’economia americana. Una dinamica che avrebbe però lasciato il tempo necessario al sistema per attuare le necessarie modifiche e riforme, secondo gli autori. Ma il futuro potrebbe non essere più così benevolo con quella che è ancora la più formidabile economia mondiale. La crisi dei subprime ha dimostrato, quanto oggi, il mercato globale sia interconnesso e sia molto complesso da gestire. Questo apre scenari da guerre economiche e finanziarie. Innescate da Paesi non propriamente amici degli Usa e dell’Occidente, dimostrando l’attuale vulnerabilità del sistema.
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Felix K. Chang, Jonathan Goldman Deterring the debt weapon The American Interest – May/June 2008
battaglione Zapad, Occidente. Tutti questi gruppi agiscono autonomamente, hanno proprie prigioni e caserme nei dintorni di Grozny, dove nessuno osa avvicinarsi.
Le bande operano sul frastagliato e incerto crinale tra legalità e illegalità. Un arresto può trasformarsi in sequestro di persona. Una perquisizione può diventare rapina. Un inseguimento in un assassinio. Nessuno ne risponde. Nessuno può distinguere un’operazione segreta da un’azione criminale. I membri di queste bande non agiscono nei confronti degli altri abitanti della repubblica sulla base di un principio etnico. I nemici non sono ceceni astratti, ma persone e famiglie concrete, con le quali si hanno contrasti personali. La partecipazione alla guerra dalla parte dei militari russi non è motivata politicamente. È piuttosto un modo di risolvere i propri problemi con l’aiuto delle istituzioni, le quali garantiscono sicurezza, diritto di impunità e necessità materiali. La pratica più diffusa, i sequestri di persona. Con un prezzo da pagare: combattere i separatisti. Poi ci sono gli assassini mirati per eliminare sospetti di terrorismo e avversari politici. L’esercito federale e l’Fsb,ex Kgb, spesso mescolati alle milizie, agiscono in concorrenza con i ceceni. Tra gli uni e gli altri c’è un ramificato commercio di armi e traffico di droga. Un quadro d’illegalità in cui le autorità governative locali si muovono in maniera opaca. La corruzione dei pubblici ufficiali, russi e ceceni, è senza limiti. Gli stanziamenti di Mosca per la ricostruzione non arrivano ai destinatari. Non esiste attività economica che non sia sottoposta al racket. Un magistrato che volesse fare giustizia dovrebbe effettuare il più spericolato degli slalom tra questi eserciti di “lanzichenecchi”. Non è solo la pace ad essere lontana, ma la stessa vita civile. Questa strategia politica ricorda alla popolazione il genocidio compiuto dagli apparati federali. Il terrore messo in atto dalle milizie locali fa rivivere gli stessi incubi.
ritica ragionata sui Preferencial trade agreement (Pta), cioè quegli strumenti messi in campo da qualche anno per superare gli stalli e le difficoltà create dagli accordi multilaterali. E di come questi strumenti contrattuali - al di là delle intenzioni – possano mettere in pericolo il sistema del commercio internazionale. Sulla falsa riga dei free trade agrement, starebbero ricreando, secondo l’autore, le stesse condizioni discriminatorie degli anni Trenta. Un pericolo per l’intero sistema del commercio globale.
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Jagdish Bhagwati Termites in the trading system Oxford University Press 144 pagine – 24,95 dollari
a cura di Pierre Chiartano
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economia
Il gruppo transalpino non ha rinunciato al dossier e attende di capire il peso della cordata tricolore. Berlusconi attacca la Ue
Alitalia, Air France sta alla finistra di Francesco Pacifico
ROMA. La pulce nell’orecchio l’ha messa l’economista JeanPaul Fitoussi. A domanda sul futuro di Alitalia, l’economista e soprattutto consigliere economico del presidente francese Nicolas Sarkozy, è stato abbastanza netto: «Il ritiro di Air France è una cosa di strategia, forse si riattiveranno i contatti tra Roma e Parigi». E tutto mentre nelle stesse ore Silvio Berlusconi, non ancora a Palazzo Chigi ma già con il tavolo oberato di dossier, faceva sapere dopo i dubbi della Ue sul prestito ponte: «Se l’Unione Europea si mette a zignare, allora potremmo prendere una decisione, per cui Alitalia potrebbe essere acquistata dallo Stato, dalle Ferrovie dello Stato. Questa è una minaccia, non una decisione».
Una battuta, nella quale si può vedere al massimo la volontà, nella cordata tricolore che Bruno Ermolli sta mettendo in piedi, che qualche fiches l’ha metta anche una controllata del Tesoro, per dare maggiore stabilità al nuovo azionariato della compagnia. Fatto che la situazione di Alitalia è ancora in alto mare. E una schiarita ci sarà forse quando si insedierà il nuovo governo. Fino ad allora non sarà annunciata la nuova cordata né ci sarà un rilancio di Air France. Eppure Jean Cyril Spinetta non avrebbe riposto nel cassetto il dossier. Chi ha parlato con il manager corso, dice che è stan-
due maggiori compagnie europee – le uniche veramente interessate a sbarcare in Italia – rendono più complesso il lavoro di Bruno Ermolli, incaricato dal premier a trovare soci per il vettore.
co di una trattativa infinita e con troppi interlocutori. Teme ripercussioni per il caro greggio e la debolezza dell’economia mondiale. Non a caso Fitoussi ha parlato che il caso Alitalia «è una questione molto difficile perché si vede che oggi ci sono parti delle attività nazionali che sono elementi forti della sovranità di un Paese». Di conseguenza serve un governo forte e la volontà di trovare una mediazione equa per tutti. A quanto si sa i francesi continuano a monitorare la situazione, fanno telefonate a destra e a manca per capire che impatto ha avuto il prestito ponte da 300 milioni sull’emorragia di prenotazioni di Alitalia e sulla
Fitoussi: Si possono riaprire i colloqui. Spinetta non vorrebbe riaprire una trattativa andata avanti troppo a lungo, ma deve difendere un mercato strategico per il vettore. Problemi per Ermolli: senza un piano le banche nicchiano consistenza della cordata: se esiste, se può essere un vero concorrente o un possibile partner commerciale o societario. Perché Air France, più che all’azienda Alitalia, è interessata a garantirsi il peso che ha oggi sul mercato italiano, il secondo al mondo per il vettore transalpino. Gli accordi del 2001 per l’ingresso in Sky Team firmati con l’allora amministratore di
Alitalia, Pier Francesco Mengozzi, garantiscono alla compagnia francese tanto traffico drenato da Roma sull’aeroporto Charles De Gaulle. E qualcosa potrebbe cambiare, visto l’attivismo di Lufhtansa a Malpensa: i tedeschi, dopo aver garantito sei voli della controllata Air Dolomiti, potrebbero intensificare i rapporti con la Sea. Se lo sbarco dei tedeschi alleggerisce le polemiche per
l’abbandono da parte di Alitalia dello scalo lombardo, c’è il timore da parte francese che il concorrente riesca a intercettare un bottino che nessuno ha potuto conquistare: il ricco traffico del Nord Italia, oggi parcellizzato da tante compagnie e su troppi scali locali. Dopo aver ribadito che si è in cerca di prede, il Ceo di Lufhtansa, Wolfgang Mayrhuber, ha ricordato che l’Italia resta per loro il «secondo mercato più importante», ma ha ribadito di essere «riluttante» all’acquisto di Alitalia «perché devono esserci tutte le condizioni». E i tedeschi si presentarono in passato a Roma con un piano da 5mila esuberi… La volontà di non uscire allo scoperto delle
Berlusconi – ed è difficile non credergli – ha spiegato «che gli imprenditori a disposizione non mancano», ma tutti si aspettano di avere certezze su due aspetti che sembrano assenti nella cordata tricolore: un piano industriale credibile (a quanto pare non basta più quello lanciato da Carlo Toto qualche mese fa, scritto con la collaborazione di Intesa e di Seabury) e un partner straniero forte, in grado di garantire l’inserimento in una forte alleanza internazionale. Non a caso Marco Tronchetti Provera ha detto di essere pronto a investire «qualche milione», quando il deal di Air France prevedeva, direttamente o indirettamente, un intervento di tournaround da 10 miliardi di euro. Ancora più netto Enrico Salza, presidente del consiglio del consiglio di gestione di quell’IntesaSanpaolo, che si è presa in carico le ambizioni e i debiti di Carlo Toto: «Le bocce sono ferme, non c’è nessuna novità e aspettiamo che qualcuno produca delle idee». Ma per Ermolli non sarà possibile ipotizzare un piano, fino a quando il Tesoro – con Tremonti insediato – non darà il via libera per una due diligence.
economia
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Compromesso tra la Merkel e la Spd sul via libera per portare in Borsa il 24,9 per cento di Deutsche Bahn
Privatizzazione timida per i treni tedeschi d i a r i o
di Alessandro Alviani
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g i o r n o
BERLINO. Con un ritardo di svaria-
In Europa inflazione record
ti mesi sulla tabella di marcia, la Grande coalizione è riuscita a trovare un’intesa sulla privatizzazione parziale di Deutsche Bahn (le ferrovie tedesche). Ai privati verrà ceduto il 24,9 per cento delle attività di trasporto merci e passeggeri. Stazioni ferroviarie e rete resteranno invece allo Stato. Il compromesso viene, da un lato, incontro alle richieste dei socialdemocratici della Spd, che, pressati dalla sinistra interna, avevano bocciato la vendita del 49,9 per cento inizialmente prevista; dall’altro, ai timori dei Länder, preoccupati di un eventuale taglio delle tratte regionali meno redditizie in caso di passaggio della rete ai privati. Nonostante i rallentamenti e le modifiche in corso d’opera, l’intesa sembra al momento soddisfare tutti, o quasi. È un successo parziale per la Cdu di Angela Merkel, che appoggia sì la privatizzazione, ma vorrebbe vendere molto più del 24,9 e potrebbe recuperare il tema nella prossima legislatura, in caso di vittoria alle elezioni del 2009. È un trionfo per il numero uno delle Ferrovie, Hartmut Mehdorn, che chiede da tempo di accelerare la privatizzazione, sulla quale ha rischiato il posto dopo l’estenuante scontro perso coi macchinisti, e che avrà ora a disposizione i fondi per rafforzare la posizione di Deutsche Bahn come uno dei principali gruppi logistici al mondo. Ma, soprattutto, è un segnale: la Germania, che in passato aveva dato l’impressione di chiudersi in se stessa quando in gioco c’erano le sue imprese chiave, inizia ad aprirsi. Il modello renano, che aveva tra i suoi cardini la difesa delle aziende tedesche dai take over, vuoi attraverso il peso delle banche nella proprietà, vuoi attraverso l’ombrello protettivo dello Stato, sta cambiando volto. La prima conferma di tale evoluzione è arrivata lo scorso ottobre, quando la Corte di giustizia Ue ha bocciato la “Legge Vw”, che ha protetto per oltre quarant’anni Volkswagen dalle scalate ostili, limitando i diritti di voto al 20 per cento e affidando a soggetti pubblici (il Land della Bassa Sassonia) un potere di veto sulle decisioni. Quella sentenza ha aperto la strada a Porsche per avviare l’acquisizione del controllo di Vw, malgrado le resistenze del Land, dei rappresentanti dei lavoratori e dello stesso governo federale, pronto a elaborare una nuova “Legge Vw”. Ora è la volta delle Ferrovie, ultimo gioiello statale a finire – interamente o in parte – in mani private dopo
L’inflazione in Eurolandia si attesterà nel 2008 su livelli record, al 3,2 per cento. Mentre nel 2009 scenderà al 2,2 per cento. È quanto prevede la Commissione Ue nelle sue previsioni di primavera, in cui invita tutti i governi ad «evitare l’innescarsi di spirali inflazionistiche che colpirebbero particolarmente le famiglie a basso reddito». Nell’Ue-27 l’inflazione si attesterà quest’anno al 3,6 per cento e il prossimo al 2,4 per cento. Sul banco degli imputati soprattutto «i crescenti prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari». Per quanto riguarda l’Italia, invece, le stime indicano un taglio al Pil calcolato per l’anno in corso allo 0,5% e la crescita del deficit al 2,3%.
Eni, dividendo da 1,30 euro L’assemblea dei soci Eni ha approvato il bilancio di esercizio 2007 che si è chiuso con un utile netto di 10 miliardi. Via libera anche alla distribuzione di un dividendo complessivo di 1,30 euro (di cui 0,60 già distribuiti ad ottobre) in aumento del 4 per cento rispetto a 1,25 nel 2006 con stacco cedola il 19 maggio e pagamento il 22. Un maxi assegno da oltre 1,5 miliardi quello che Eni stacca a Tesoro e Cdp. Nel dettaglio, il Tesoro, che detiene il 20,31 per cento, incassa oltre 1,057 miliardi e Cdp, azionista con il 9,999 per cento, oltre 520 milioni, per un totale di 1,577 miliardi. Il dividendo totale prevede un acconto di 0,60 euro pagato già a ottobre mentre il saldo di 0,70 euro sarà pagato a maggio.
Fiat e Zastava, accordo alle porte È in dirittura d’arrivo l’accordo tra la Fiat e il governo serbo per una partnership tra il Lingotto e la Zastava cars. Lo ha confermto il ministro dell’economia serbo, Mladan Dinkic, che secondo quanto riferito dall’agenzia di stampa Onasa ha precisato che l’intesa con la Fiat è ormai «alla fase finale» aggiungendo che il top management Fiat sarà in Serbia. Entro pochi giorni verrà siglato «un accordo per una partership strategica - ha concluso - sarà una collaborazione strategica tra la Fiat e la Repubblica della Serbia».
La Cancelliera spera in una nuova vendita nel 2009, ma dalla Germania arriva un segnale di apertura alla concorrenza inaspettato Deutsche Telekom e Deutsche Post. Secondo il ministro federale dei Trasporti, Wolfgang Tiefensee, la privatizzazione parziale potrebbe concludersi a fine anno e assicurare introiti compresi tra 5 e 8 miliardi di euro. Per Mehdorn, la quotazione in borsa di Deutsche Bahn dovrebbe partire già in autunno.
Resta da capire chi mostrerà interesse al 24,9 in vendita. Al momento l’ipotesi più probabile è che tale quota finirà a fondi di investimento, banche o grossi imprenditori, anche esteri. I quali, in ogni caso, non avranno nessuna «influenza strategica sulle decisioni aziendali importanti», come ha spiegato Tiefensee in un’intervista alla radio Deutschlandfunk. Un settore che resta invece difficile per gli ingressi dall’estero – se si eccettuano alcuni casi come quello di Alessandro Profumo e di HypoVereinsbank - resta quello bancario. Basta guardare gli sviluppi de-
L’Italia crescerà più dell’1 per cento L’economista Jean Paul Fitoussi contesta le stime di crescita diffuse dalla Commissione Europea e afferma che secondo lui quest’anno l’Italia crescerà più dell’1 per cento. «Non sono completamente d’accordo con la Commissione europea . Per Fitoussi, «le stime della Commissione si avvereranno se verranno fatte scelte sbagliate». L’economista ricorda come le stime al ribasso di Bruxelles riguardino non solo l’Italia ma tutta l’Europa, comprese Francia e Germania, Per quanto riguarda invece l’inflazione Fitoussi sottolinea che «c’è un’emergenza mondiale ma il tasso d’inflazione europeo è tra i più bassi del mondo e quindi non c’è un problema specifico». gli ultimi mesi per trovarne conferma. Quando, la scorsa estate, la banca pubblica regionale SachsenLb è entrata in difficoltà per le conseguenze della crisi dei mutui statunitensi, è stata messa in piedi in fretta un’azione di salvataggio guidata da Lbbw, l’istituto pubblico del Baden-Württemberg. In pole position per l’acquisizione di Postbank, la prima banca tedesca per numero di clienti privati, che le Poste venderanno nei prossimi mesi, ci sono Deutsche Bank e Dresdner Bank. La crisi finanziaria e la necessità di consolidare questo settore potrebbero comunque aprire la strada all’ingresso di nuovi soggetti esteri anche nelle banche tedesche.
Banco Sicilia: Ivan Lo Bello presidente Ivan Lo Bello, presidente degli industriali siciliani, è stato eletto presidente del Banco di Sicilia nel corso dell’assemblea di Unicredit svoltasi ieri mattina. Nel consiglio sono stati nominatati, tra gli altri, anche José Rallo, titolare dell’azienda vinicola Donnafugata e Maria Luisa Averna, presidente dell’omonimo gruppo.
Hera, a maggio si decide mega fusione Entro maggio si decide. Tomaso Tommasi di Vignano, Presidente di Hera stringe i tempi e fa capire che sul progetto di mega aggregazione per dare vita ad una azienda multiutility che possa fare concorrenza al colosso A2A (Milano-Brescia) non si può andare per le lunghe. Il confronto formalmente è ancora a quattro con Hera, Iride, Enia, Acea. Hera (che ha un bacino che va da Modena a Rimini arrivando anche a Ferrara) ha lanciato la proposta all’inizio di marzo e da quel momento ci sono stati due incontri fra i vertici delle aziende interessate. Il nostro obiettivo è quello di arrivare ad una conclusione a maggio.
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cultura
Due libri raccontano il progressivo distacco tra le correnti storiche della destra Usa
I libertarian in fuga dai repubblicani? di Giampiero Ricci bama che durante una delle Freedom; Taking on the Left, the Right, mente chi preferisce la morte alla vi- tratta il libro di Brian Doherty “Radisue celeberrime omelie si rivol- and threats to our liberties” (Cato, ta), vuol quindi dire essere anche “pro cals for Capitalism: a freewheeling history of the modern American libertage ai sostenitori del Liberta- 2008, pagg. 329). Editorialista del New life”. rian Party e si chiede se davve- York Times, del Wall Street Journal e Avventurismo in politica estera, falli- rian movement” (Public Affaire, 2007, ro voteranno anche per John Mc Cain, del Los Angeles Times, Boaz è un fine mento nella lotta alla droga, rifiuto pagg. 741). Il volume traccia la diretrispondendosi «Non ci credo», non è studioso della filosofia della libertà, della competizione globale, tradimen- trice del pensiero contemporaneo lisolamente un tentativo velleitario per specializzatosi a partire dalla pubbli- to dei valori costituzionali, ce n’è per bertarian a partire da Jefferson, pasaccaparrarsi qualche voto in più nella cazione del suo precedente libro “Li- tutti i gusti quanto a critiche alla presi- sando per la scuola austriaca di Von eventualità di una corsa alla presiden- bertarianism: A Primer” nella dinami- denza Bush; Boaz delinea comunque Mises e di Hayek, per le tre furie liberza, ma è la rappresentazione del rag- ca delle battaglie culturali in essere tra un presente americano tutt’altro che tarian, tre donne: Isabel Paterson la fosco dopo la sconfitta del socialismo, divulgatrice delle eccezionalità amerigiungimento del momentum più basso la destra e la sinistra americane. nella armonia tra l’anima libertarian e l’apprezzamento globale sul ruolo dei cana; Rose Wilder Lane che si autodele altre protagoniste nel Grand Old Per Boaz le vecchie etichette sono mercati, lo sviluppo dell’era informati- finiva una «fondamentalista americaParty. superate. Ciò che prima della presa ca e della New Economy, ma si è al co- na»; Ayn Rand la filosofa dell’oggettiDacché con il processo fusionista ini- delle redini del partito da parte dei spetto di un futuro di lotta in difesa dei vismo. ziato ai tempi di Barry Goldwater, li- conservatori distingueva la destra valori costituzionali che disciplinano Il libro allaccia poi i legami della deribertarian, destra religiosa, nazionalisti americana era una tensione senza esi- senza tema di smentite il ruolo del go- va anarco-capitalista i cui semi erano e neocon, sono andati a braccetto se- tazioni verso la ricerca e la disciplina verno («to secure these rights, govern- stati gettati da Murray Rothbard con la gnando la storia e gli ultimi quaranta di un “governo limitato”, ma la recente ments are instituted among men, deri- società americana contemporanea. anni degli Stati Una società caratUniti, appare eviterizzata dalla dente, con le prespinta alla autosidenziali alla determinazione porte, la necessità che si osserva andi una resa dei che a livello di entità locali minime, conti culturale alsempre alla ricerl’interno del Partica di una separato Repubblicano. zione almeno amCiò era già suffiministrativa da cientemente chiaqualsiasi governo. ro all’indomani Infine Doherty delle elezioni di mette il dito sulla mid term, allorpiaga riportando ché la sconfitta l’eccezione prindel partito dell’ecipe mossa dal relefantino era arristo del partito revata soprattutto pubblicano: «ai liper l’astensionismo di cui furono bertarian interestacciati proprio i sa poco degli omicidi di massa in libertarian indiIraq». Doherty spettiti per la denel tracciare le liriva protezionista nee guida della e compassionevopolitica estera lile del Governo bertarian, ricorda Bush e dalla scaril rifiuto delle Nasa attenzione ai zioni Unite a fasegnali che pure vore della autoreerano stati mangolamentazione dati (come il flirt Un camper di sostenitori di Ron Paul, il candidato “libertarian” che si è presentato alle primarie del partito repubblicano tra i popoli (ma vorrei-ma-nonun rifiuto basato posso andato onsulle consuetudini nel diritto internaline sul sito del Cato Institute - princizionale e non sulla arroganza militapale think tank americano d’area lire), il principio di non aggressione cabertarian - tra intellettuali del partito ro alla tradizione statunitense al condi Nancy Pelosi e quelli del Cato Institrario di quanto contenuto nella Dottute riunitisi in una tavola rotonda pretrina Bush, il fervore ideale di questa elettorale), ma oggi i rapporti con il resto della galassia multicolore repubbli- esperienza governativa ha palesato un ving theiri just power from the con- parte politica dietro le battaglie contro cana vengono addirittura messi in di- partito repubblicano egualmente tax sent of the governed») in difesa di di- il nazifascismo e il comunismo. scussione arrivando qualcuno a ritene- and spending come nella peggiore tra- ritti naturali minacciati dall’annacqua- Per il Gop le questioni sono tutte sul mento della tradizione dei padri, la tavolo e il tempo stringe. Quando il re necessario di dover cominciare a dizione democratica. mettere sulla bilancia quale dei due Secondo questa visione essere “pro mancanza di una leadership autentica- Presidente G.W. Bush si presentò la Big Government, quello dei Conserva- choice” e cioè per la facoltà di sceglie- mente libertaria, la minaccia alla pro- prima volta davanti all’elettorato ametives ovvero quello dei Democrats, sia re autonomamente ad esempio per il sperità scaturita dalla spinta alla cen- ricano l’opzione in politica estera era più distante dalla visione della società perseguimento del proprio benessere o tralizzazione e da un retaggio cultura- paradossalmente - la più libertarian cara al partito che fu di Thomas Jeffer- per l’educazione dei propri figli, riba- le anti-business che permane all’inter- possibile. L’isolazionismo è certamenson, un partito che ancora oggi, pur es- dire come nessuno possa arrogarsi il no dei professionisti della comunica- te un lusso che il paese a stelle e strisce non può permettersi ma allo stessendo da anni parte integrante del par- potere di vietare in negativo o in posi- zione. so tempo quello che gli Usa non postito repubblicano, resta da se stesso il tivo scelte come quella dell’aborto (un non problema per questo filone cultu- Proprio della necessità di rinvigori- sono permettersi è un mondo libertaterzo partito americano per voti. Se lo chiede David Boaz in “Politics of rale giacché non può esistere razional- re la tradizione libertarian americana rian separato dal resto del Gop.
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David Boaz del Cato Institute se la prende con la “deriva conservatrice” del Gop. Mentre Brian Doherty riscopre le radici del movimento: da Ludwig von Mises ad Ayn Rand
spettacolo
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Da Non è la Rai a Saturno contro, tutti i successi della «smorfiosa con lo zainetto»
Il favoloso mondo di Ambra di Roselina Salemi er una che ha avuto Saturno contro (e non solo) Ambra Angiolini non se l’è passata male. Ha condotto una trasmissione tivù senza avere alcuna esperienza, ma ha imparato a cavarsela, ha cantato con la voce in prestito, ma alla fine ce l’ha fatta anche da sola, ha parlato con i pensieri di altri (Gianni Boncompagni, soprattutto), ma ne ha elaborati di suoi (memorabile il «Dio sta con Berlusconi, il diavolo sta con Occhetto»), ha recitato se stessa e si è beccato in un solo colpo Ciak d’Oro e Globo d’Oro, Nastro d’Argento e David di Donatello, roba che onestissime professioniste ci mettono una vita. E invece lei: migliore attrice non protagonista, personaggio rivelazione del 2007 e subito dopo, madrina al festival di Venezia. Potrebbe andare in pensione, ma non è il tipo. A trentun anni appena compiuti, ricomincia da sé con uno show su Mtv (Stasera niente Mtv) dove prende in giro la televisione, le pause dilatate dei quiz e delle nomination al Grande Fratello, balla sulle canzoni di Rihanna e Britney Spears tradotte in italiano, così si capisce quanto è profondo il testo di «Gimme
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More: Mettimi in una posizione assurda, guarda come ballo porca». Se Umberto Eco ne avesse la forza (Mike Bongiorno l’ha sfinito), potrebbe scrivere la Fenomenologia di Ambra, ragazza prodigio con ampio seguito di biografi ed esegeti, tre libri che la raccontano, segnalando il fondamentale taglio di capelli del ’96 (basta con i ricci!), carte telefoniche e, diciamolo, manca un francobollo.
A chi si domanda le ragioni dell’irresistibile ascesa dopo l’eclissi dovuta a Generazione X, bisogna ricordare che, dovendo sbagliare qualcosa è meglio farlo da gio-
vani, e avendo avuto successo a quindici anni, si può cominciare un’altra vita a trenta e si possono riempire pagine e pagine di giornali, compresa questa, raccontando la magnifica incarnazione del sogno medio italiano. Famiglia normale, papà severo, mamma un po’meno, una sorella, Barbara, un fratello, Andrea, a scuola dalle suore, passione per il mondo dello spettacolo, non una gran voce, non una gran bellezza, creatura di Gianni Boncompagni, critiche feroci, adolescenti adoranti, top e flop, dischi non memorabili e poi due bambini, Jolanda e Leonardo, un compagno, il cantautore Francesco Renga e, grazie a Saturno contro di Ferzan Ozpetek, dove non era neanche la protagonista ma si è mangiata
vestita da Madonna con l’attillato abito celeste o da arcangelo con le ali arancione, ma per una che non ha una grande storia, anche gli aneddoti delle elementari significano. E aiutano a capire che la ragazza aveva da subito un feroce istinto di sopravvivenza, un’inesorabile spontaneità, un’allegra ignoranza televisiva, senza se e senza ma, era insomma un perfetto prodotto di marketing. Le femministe la credevano scema. C’erano i cartelloni «Non siano Ambra-nate, siamo studentesse autodeterminate!». A Non è la Rai Gianni Boncompagni le suggeriva le battute con l’auricolare e lei nemmeno le capiva, ma il quiz dello zainetto (che cosa c’è dentro?) era il più seguito, e le risposte bru-
Creata da Gianni Boncompagni, nella sua giovane carriera ha acciuffato critiche feroci, adolescenti adoranti, top e flop, dischi non memorabili e i due figli Jolanda e Leonardo tutto il cast, ingresso in pompa magna nel mondo del cinema. Un po’ come aveva fatto a suo tempo con Paolo Bonolis, conduttore di Non è la Rai che pensava di doverle dare una mano, poverina: «Adesso c’è Ambra, ha quindici anni, trattatemela bene». La marzianetta da lì a poco gli avrebbe scippato la trasmissione. Certo, la nostra deve essere una società malata se ha bisogno di sapere come si sentiva Ambra ai tempi della recite scolastiche
sche al pubblico telefonante da casa facevano tendenza. Nel ’94 un suo topless era valutato un miliardo, però lei era pur sempre una brava ragazza, e non avrebbe mai fatto un calendario. Soltanto molti anni dopo, si sarebbe spoglicchiata per Max e neanche tanto.
Non era scema, per niente. Altrimenti sarebbe rientrata nell’ombra, o andata in depressione, avrebbe preso farmaci consolatori o uomini da passeggio, invece insiste. Fa un
film dove la prendono senza provino, Favola (record di ascolti su Italia uno), quattro serate dedicate a Carosello, una sfilata in abito da sposa, un Dopofestival con Pippo Baudo, un Sanremo Top con Mike Bongiorno, una trasmissione sul sesso alla radio, la parte di Maria Maddalena, la madrina del Gay Pride, il duetto con Platinette, Crozza Italia, un po’ di Questo e di Quello, tutto con la tenacia di una che non si è fatta stroncare dall’overdose di successo e non si è mai guardata indietro. Prima dei reality e dei grandifratelli, ha capito che doveva soltanto essere se stessa e poi, semmai, imparare qualcosa. Beh, ha imparato. Adesso su Mtv, quando canta e balla, voce e piedi sono suoi, anche se c’è chi la preferiva prima: presuntuosa, innocente, perdonabile. Adesso, nelle interviste dice cose tipo: «Una come me se si rimette in gioco lo fa con i suoi incubi o i suoi sogni e se va male, fa nulla», «Ozpetek mi ha convinto a fare il suo film, io avevo paura di rovinarglielo», «Non cerco la sicurezza, però ho anche un negozio di scarpe a Brescia, il piano B. Poi ho anche un piano C e un piano D». Piacerà? Certo che sì. Ambra, brava figlia e quasi moglie, diva e donna, donna e mamma, è la Rossella O’Hara di casa nostra nella versione dei Ricchi e Poveri: «So far tutto o forse niente/da domani si vedrà e sarà/sarà quel che sarà».
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arte
In mostra al Prado i dipinti sull’insurrezione spagnola contro i francesi
Goya, il primo fotoreporter di guerra di Maurizio Stefanini li spagnoli la chiamano “Guerra d’Indipendenza”: locuzione curiosa, per un Paese che non solo ha uno degli Stati più antichi d’Europa, ma fu anche il centro di un Impero su cui proverbialmente “non calava mai il sole”, e contro il quale di altre guerre d’indipendenza ne sono state fatte in quantità. Da quella olandese, a quelle latino-americane. Ma esattamente due secoli fa Napoleone aveva deciso di aggiungere anche la Spagna al suo sistema di dominio continentale. Proprio il 2 e 3 maggio 1808 iniziò il grande scontro, che avrebbe inchiodato intere armate di Napoleone per anni, arricchendo le lingue europee di una nuova parola: guerriglia. Non c’era ancora la fotografia, ma due tremende istantanee esistono lo stesso: altrettanto potenti dell’immagine del miliziano che cade a braccia aperte durante la Guerra Civile che sempre in Spagna si sarebbe combattuta 128 anni dopo; o della bandiera a stelle e strise issata su Iwo Jima; o della bambina vietnamita bruciata dal napalm; o del gabbiano del Golfo Persico inzuppato di petrolio.
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El Dos de Mayo del 1808: la mattina dell’inizio della rivolta davanti al Palazzo Reale, con la folla dei popolani che salta addosso ai soldati francesi; un mamelucco che cade già morto, ma un uomo dalle lunghe basette e dagli occhi spiritati agganciato con una mano alla sua larga cintura con l’altra continua a menare pugnalate, mentre un altro insorto con lo sguardo altrettanto folle pugnala il cavallo; un altro cavallo costretto in ginocchio, da cui cade un secondo mamelucco pugnalato da un uomo di spalle coi calzoni corti; un terzo e un quarto mamelucco e un dragone che cercano di fermare l’ondata umana menando fendenti con due sciabole un pugnale; e, a terra, il tappeto dei cadaveri insanguinati che si sono già ammucchiati. Su un altro tappeto di cadaveri insanguinati si svolge anche l’altra “istantanea”, El Tres de Mayo de 1808. Ma qui è di notte, e la fila degli spagnoli ancora in piedi ha lo sguardo spiritato non perchè stravolta dall’odio, ma perché stan-
no per venire fucilati da un’infilata di soldati francesi di cui non si vede il volto: fucili, spade, zaini, berretti allineati, come una disumanizzata e impersonale macchina per dare la morte. Sono due quadri, quelli di Francisco Goya. Ma quadri che nel violento contrasto che esprimono non anticipano solo l’arte moderna, espressionista o surrealista. In pratica, Goya è appunto il primo fotoreporter di guerra: la Colonna Traiana, con la sua dettagliosità celebrativa, al massimo anticipa il fumetto. Anzi, il “dialogo” tra le braccia aperte dell’uomo che sta per essere fucilato al centro della scena e le identiche braccia aperte del cadavere in primo piano hanno un piglio quasi cinematografico. Tant’è che Luis Buñuel vi fece iniziare il suo film Il fantasma della libertà. E poco importa se qualcuno ha poi dimostrato che Goya non era stato probabilmente un testimone in prima persona di quegli aventi, ma se li era fatti raccontare. Parecchio ci aveva anche elaborato per conto suo: nel Dos de Mayo le uniformi dei francesi e i vestiti dei popolani sono un po’ troppo rappresentativi dell’intera gamma di specialità dell’esercito napoleonico e della geografia spagnola, per non rivelarsi una contrapposizione idealizzata dello scontro tra i due “mondi”. Ma anche la fotografia di
Il 2 e 3 maggio 1808 iniziò la grande battaglia tra i ribelli e le armate di Napoleone
Iwo Jima era stata ricostruita dopo la battaglia; sull’autenticità del miliziano morto e sul gabbiano sporco ci sono dubbi annosi; e quanto alla ragazzina simbolo della “barbarie” americana in Vietnam, sopravvissuta al dolore dopo la vittoria dei Viet Cong scappò coi boat people, e ora vive esule proprio negli Stati Uniti. Goya, comunque, era renitente alle tentazioni propagandistiche, anche se quei due quadri famosi furono dipinti su commissione, per festeggiare la restaurazione dei Borbone dopo la sconfitta di Napoleone.
La Spagna di oggi affida proprio alla mostra Goya en tiempos de guerra, uno dei momenti clou della celebrazione del
Bicentenario di quella strana Guerra d’Indipendenza: al Museo del Prado dal 15 aprile al 13 luglio, ben 193 opere che in realtà vanno dal 1793 al 1820. Da molti anni prima dell’invasione napoleonica, dunque, a qualche tempo dopo. Ma una sorta di sinistra profezia degli orrori futuri comincia molto presto a distogliere Goya dai più proficui ritratti di potenti, nei quali pure mostrava un gusto del realismo e un genio per l’invenzione di posizioni diverse da quelle ormai stereotipate, anch’essa quasi fotografiche. Incendi, cannibali, l’interno di un manicomio, sabba demoniaci, un Cristo attorniato da sbeffeggiatori con le facce spaventevoli, la famosa allegoria del Sonno della ragione che genera
arte
30 aprile 2008 • pagina 21
A sinistra ”Il tre di maggio 1808, l’esecuzione sulla collina Principe Pio”; nelle altre immagini due disegni di Francisco Goya e un autoritratto del pittore
Grande hazaña! Con muertos!, ormai si è accertato, le vittime della barbarie erano stati invece francesi. E in Lo mismo è lo spagnolo che sta dando un’accettata al soldato francese ormai indifeso ad avere lo sguardo del pazzo, ancora più dei volti del Dos e Tres de Mayo. Anzi, quella dello sguardo allucinato è per Goya una cifra dei combattenti spagnoli: altrettanto regolare che non la visione d’infilata o anche dei soli fucili che invece caratterizza i soldati francesi.
Nella fucilazione del Tres de Mayo come in quelle di Bárbaros, o di Y no hai remedio, o di No se puede mirar. Con razón o sin ella, titolo che più emblematico non potrebbe essere, mette direttamente queste due rappresentazioni l’una contro l’altra: la solita fila d’infilata dei francesi con la baionetta puntata, contro l’impeto dei due spagnoli che gli si buttano contro armati uno con una rozza lancia e l’altro di coltello. Tutti e due, la violenza burocraticamente impersonale del potere, quella impazzita dall’odio della rivolta, pretendono di avere la ragione. Ma continuano comunque nella loro selvaggia orgia di sangue anche senza averne nessuna. E le stesse due grandi opere commissionate e nate apposta per celebrare la Rivolta antifrancese, alla fine, rivelano a sorpresa uno svolgimento molto più articolato. Il 2 di maggio viene prima del 3, dunque sono stati gli spagnoli a cominciare. Con più di una motivazione, ma alla fine ubriacandosi di eccessi altrettanto inutili di quelli dei due ribelli in promo piano nel Dos de Mayo, accaniti a pugnalare un uomo e un cavallo ormai già morti. Il Desastre 79 mostra una morta dal volto bellissimo che sembea mandare luce, in fondo a una fossa dove sta per buttare palate di terra una folla di sinistri figuri in abito clericale. Nel Desastre 80, la luce proveniente dal volto della morte sembra però abbagliare i loschi figuri. Titoli: Murió la verdad; Si resuscitará?. Lo slogan “in guerra, la prima a morire è sempre la verità”: pure quello, l’ha inventato Goya
In esposizione fino al 13 luglio 193 opere del pittore spagnolo nel periodo che va dal 1793 al 1820
mostri… E anche dopo, il ricordo dell’incubo continua a ispirare le visioni cupe delle cosidette Pinturas Negras. Il bello è che Goya sostanzialmente simpatizzava per i francesi: non solo la mo-
stra non lo nasconde, ma permette anche al visitatore di conoscere questo risvolto poco noto. Non ci sono solo i ritratti di alcuni pezzi grossi del regime bonapartista: Goya come tutti gli artisti dell’epoca viveva di commissioni, e dunque quelli possono essere stati anche lavori per la pagnotta. Ma ci sono anche alcuni “manifesti” ante litteram piuttosto espliciti. In particolare, quel contadino che lavora curvato sotto il peso di un frate corpulento, quasi a voler dire che Giuseppe Bonaparte aveva avuto ragione a sciogliere gli Ordini Religiosi. No
sabias lo que llebabas a questas?, chiede beffardo il titolo: non lo sapevi cosa ti portavi sulle spalle? Più in generale, nella serie dei suoi celeberrimi Desastres de la guerra Goya non nasconde niente delle atrocità francesi: donne stuprate davanti ai loro bambini bambini, le vittime di un bombardamento, fucilati, impiccati. Né manca qualche momento effettivamente oleografrico: in particolare “Que valor!”, l’acquaforte della donna che spara un cannone arrampicandosi verso la miccia su un mucchio di cadaveri. O anche i gruppi di guerriglieri che preparano polvere da sparo e pallottole alla macchia. Ma nelle tremende scene dei cadaveri straziati di Este es peor e
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Cosa succederà ora nel Partito democratico? SE BUFERA DOVRÀ ESSERE, CHE SI ABBATTA SUBITO SU VELTRONI
AUGURIAMOCI CHE D’ALEMA NON AGGUANTI LA GUIDA DEL PD
Terremoto a Roma. Battuta la sinistra, anzi travolta di nuovo. Grave e pesante la sconfitta al Comune di Roma; così ha commentato a caldo Veltroni la disfatta capitolina. E ora cosa succederà nel Pd? Mentre scrivo, sul Corriere della sera si sta svolgendo un sondaggio su questa domanda: Dopo la sconfitta alle Politiche, la vittoria del centrodestra anche a Roma. Secondo voi Veltroni dovrebbe lasciare la guida del Pd? Ebbene il 52% di 14161 votanti dice sì. E’ veramente una grossa bufera quella che potrebbe abbattersi sul neo partito della sinistra. Ma se l’è pure cercata. Ha strombazzato in largo e lungo di costituire la vera novità del panorama politico italiano. Ma quali sono le novità? Il segretario prende già la pensione,t utti gli ex ministri e sottosegretari del precedente governo confermati nelle liste elettorali, presenta come candidato a sindaco di Roma un Rutelli già Sindaco della Capitale per otto anni e mai rimpianto dai romani. Infine annuncia di auspicare che come capigruppo ai due rami del Parlamento vengano confermati Soro e Finocchiaro. Continuano con le novità. Come no.
Non credo che nell’immediato possa succedere qualcosa di importante. E forse è giusto così. Dopo le due batoste subite in soli quindici giorni c’è da riflettere, e tanto. Agire in modo avventato potrebbe causare effetti devastanti. Mi riferisco soprattutto al ventilato cambio al vertice del Pd. Se si dimettesse Veltroni chi andrebbe al suo posto, D’Alema? Sarebbe un cambio generazionale al contrario, sia per età sia per linea politica. Certo che però, col tempo, una rivoluzione sarà necessaria. In pochi mesi di guida Veltroni ha cacciato dal Parlamento la cosiddetta sinistra radicale, ma anche ex diessini del calibro di Mussi, Salvi, Angius e tanti altri. Per ottenere che cosa? Botte da tutte le parti. L’età anagrafica conta relativamente.Berlusconi, a oltre settanta anni, è ancora un uomo nuovo, Veltroni è un eterno secondo, ora anche plurisconfitto, e D’alema è già vecchio perché, seppure con parole diverse, dice le stesse cosi di un decennio fa. Nomi nuovi? Quali? Cordialmente ringrazio. Distinti saluti.
Alessandro Forti - Roma
Andrea Di Lorenzo - Cremona
L’EX SINDACO DI ROMA DOVREBBE FARSI DA PARTE IL PRIMA POSSIBILE
LA DOMANDA DI DOMANI
Due milioni e mezzo di immigrati: l’Islam è una minaccia? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Aria di resa di conti nel Pd. Ieri Veltroni, ai microfoni di SkyTg24 ha tenuto a precisare che «in realtà non è così». Ha anche penosamente aggiunto che «non so se con questo posso rassicurare o rattristare, so che sarebbe più spettacolare, ma non è così». Fatto sta che sembra che la riunione del partito tenutasi in mattinata, ieri, sia stata «molto chiara e netta. Il Pd è nato sei mesi fa, ereditando una situazione difficile dal punto di vista elettorale e politico. Abbiamo fatto un grande lavoro. Ma certo la cosa peggiore sarebbe tornare indietro». Forse però, ancora peggiore sarebbe se adesso Veltroni non si facesse da parte lasciando la leadership del Partito democratico. Magari, perché no, a Massimo D’Alema. Grazie per l’ospitalità sulle vostre pagine. Cordialità.
LA STANGATA Dispiace constatare, analizzando il voto dei ballottaggi, che il pasticcio di come si è andati alle elezioni e di come sono state gestite in termini di rapporto tra partiti e liste conferma alcune considerazioni. Per quanto sia importante il voto di Roma, non mi pare che il grande successo del centrodestra abbia trovato conferma a distanza di pochi giorni dalle politiche. Perché il grande successo in realtà è stata una grande truffa. Non si è trattato di un voto “normale”, ma di un tentativo alchemico da parte dell’elite postcomunista dei Ds e di Berlusconi di salvare se stessi in questo momento di crisi del Paese. Le due elite infatti sono responsabili di questi ultimi 15 anni di governo e hanno dimostrato egoismo, incapacità di persone e cultura di fronte ai problemi. L’elite postcomunista ha puntato da tempo sulla questione sociale incentrata sul precariato e sull’inadeguatezza di salari e pensioni di fronte ad un’inflazione molto più alta di quella ufficiale. L’elite Berlusconiana invece ha puntato, per la sua natura
CANE DA PESCA Ecco Mondex, un chihuahua di cinque anni, equipaggiato come un sub durante una sfilata di «moda per cani» a Manila, nelle Filippine
SI CONSOLINO RUTELLI E VELTRONI Si consolino Rutelli e Veltroni: torneranno per loro giorni migliori. Siamo infatti certi che sapranno regalarci, di nuovo, grandi soddisfazioni. Qualche anima pia non mancherà infatti di riprendere i nostri amati e apprezzati statisti dal dimenticatoio politico per riproporceli, riadattati, ripiantati e concimati. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani
LUCA CORDERO IL NUOVO LIBERISTA Oggi potrebbe essere il gran giorno per Luca Cordero di Montezemolo. Quello della
dai circoli liberal Antonella Scarlatti - Lecce
reale di destra, sul tema della sicurezza. L’alternativa sia a destra che a sinistra era comunque dentro l’alleanza e verso partiti (Di Pietro e Lega Nord) che dovevano raccogliere il voto di protesta che poi con il tempo sarebbe stato riassorbito. Dovevano quindi essere annullati a sinistra simboli quali i socialisti e i radicali e a destra la tradizione dei partiti democratici cristiano liberali. Gli elettori poi hanno ovviamente scelto la sicurezza rispetto il portafoglio. Il motivo è molto semplice: mentre l’aspetto economico in qualche modo il singolo individuo può avere speranze di risolverlo autonomamente, sa bene che l’aspetto della sicurezza può essere risolto solo dallo Stato. Probabilmente a Roma, per il numero di elettori, ha contato quindi ancora l’effetto delle politiche. Alemanno infatti su questo ha rappresentato una soluzione migliore di Rutelli. In giro per l’Italia le cose per la sinistra non sono andate poi male in quanto ha prevalso il più delle volte la figura del candidato. Per tutti l’esempio di Udine: alle politiche il centrodestra aveva raccolto il 53,60% e il
metamorfosi da ricordare e della conversione da festeggiare. Il Nostro ha parlato di riforme esplicitamente liberali, meno tasse e meno sindacato: s’è proprio trasformato. Noi diciamo: finalmente ci è arrivato. Ma qualche politico di sinistra e imprenditore dell’ancien règime non ha apprezzato. Ai loro occhi il suo biondo è ora più slavato e subodora di industrialismo sovversivo. Chissà perchè, in Italia, il capitalismo con l’aiuto dello Stato e del sindacato è ancora il più reclamato. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine di liberal.
Lettera firmata
centrosinistra il 46,40%. Alle comunali il candidato del centrosinistra ha raggiunto il 52,76%. La sconfitta del candidato del centrodestra quindi (in una regione tra l’altro conquistata dalla stessa coalizione con Tondo) è da imputarsi al riemergere della perdita di consenso di Fi che il trucco ha occultato: l’alleanza elettorale con An (Pdl) aveva nel primo turno significato appena il 24,07%. Dove l’elettore ha potuto non votare Ds-Margherita e Berlusconi scegliendo comunque partiti non dell’antipolitica, lo ha fatto. Questo era il pericolo che Veltroni e Berlusconi hanno voluto evitare e per questo hanno deciso di “spartirsi la Polonia”. Sono state quindi elezioni truffa e il Paese si avvia verso un acuirsi della crisi: abbiamo un Primo ministro e un capo dell’opposizione controvoglia. Tutto ciò, a mio avviso, evidenzia anche l’inadeguatezza della nostra Costituzione anche nel ruolo del Capo di Stato come garante delle Istituzioni. Sempre nella più rosea delle ipotesi e cioè della buona fede. Leri Pegolo circolo liberal pordenone
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L e c os e m e d e s im e t u c t e r it o r n a n o Machiavello carissimo. Quando io leggo i vostri titoli di oratore di Repubblica e considero con quanti Re, Duchi e Principi voi havete altre volte negociato, mi ricordo di Lysandro, a chi doppo tante victorie e trophei fu dato la cura di distribuire la carne a quelli medesimi soldati a chi sì gloriosamente haveva comandato. E dico: vedi che, mutati solum e visi delli huomini ed i colori extrinseci, le cose medesime tucte ritornano; né vediamo accidente alcuno che a altri tempi non sia stato veduto. Ma el mutare nomi e figura alle cose fa che soli e prudenti le riconoschono: e però è buona ed utile la hystoria perché ti mette innanzi e ti fa riconoscere e rivedere quello che mai non havevi conosciuto né veduto. Di che seguita un syllogismo che molto è da comendare chi vi à dato la cura di scrivere annali: e da exhortare voi che con diligentia exequiate lo officio commesso. Io li ho scripto come qualmente che non lo aviso della venuta, perché mi confido alla perspicacia dello ingegno suo. Francesco Guicciardini a Niccolò Machiavelli
ADESSO BERLUSCONI SI OCCUPI DI AMBIENTE Intervengo a proposito dell’ambientalismo trascurando di occuparmi del fatto (positivo) che i Verdi di Pecoraro Scanio siano fuori dal Parlamento. Tanto per quello che hanno fatto e per quello che contavano nei governi di centrosinistra... Contavano solo per dire ”no” a tutto: no Tav, no ponte di Messina, no valico tra Italia e Francia, no centrali termonucleari. In sostanza, no a tutte le infrastrutture e alle grandi opere necessarie per il progresso del nostro Paese.Voglio ricordare come gli economisti seri, italiani ed europei, si rendono conto da tempo prmai dell’assurda distruttività dell’attuale sistema di organizzazione produttiva. Giorgio Ruffolo per esempio individua nella crescita senza limiti «il più ideologico degli errori». E mette in rilievo come per John StuartMill e lo stesso Adam Smith (padri del liberalismo, che è l’opposto di liberismo) vigeva l’idea di «equilibrio economico che mette in correlazione le risorse naturali e quelle sociali”, secondo «un equilibrio stazionario», esattamente l’opposto di quanto è avvenuto dopo la rivoluzione indu-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
30 aprile 1789 Sulla balconata della Federal Hall di Wall Street, a New York, George Washington presta giuramento, divenendo il primo Presidente degli Stati Uniti 1939 Franklin Delano Roosevelt è il primo Presidente degli Stati Uniti ad apparire in televisione 1945 Adolf Hitler ed Eva Braun si suicidano dopo essere stati sposati per un giorno, il grandammiraglio Karl Dönitz diventa nuovo presidente del reich 1977 Prima marcia delle Madri di Plaza de Mayo, che reclamavano informazioni sui figli desaparecidos, scomparsi. 1998 La Nato si espande approvando l’ingresso di Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia (le nazioni verranno ammesse formalmente in occasione del 50o anniversario della Nato, nell’aprile dell’anno seguente) 2002 Un referendum in Pakistan approva in maniera schiacciante il governo militare di Pervez Musharraf per altri cinque anni
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
striale. E, con coerenza, Ruffolo fa notare che, nelle condizioni attuali, il Pil (prodotto interno lordo) si trasforma irrimediabilmente in ”Lip”, lordura interna prodotta, fino alla tragedia, per fortuna non ancora verificatasi interamente, degli attuali sconvolgimenti climatici, assai indicativi. E che indicano a tutti noi che se vogliamo sopravvivere come specie umana, per quanto riguarda l’economia, dobbiamo da subito correre ai ripari, stando almeno a quanto ci hanno detto gli scienziati che hanno redatto l’ultimo rapporto Onu del febbraio 2007 sugli sconvolgimenti climatici, avvisando che ci stiamo avvicinando a un punto di non ritorno che, nel giro di 10 anni, potrebbe renderci impossibile evitare danni irreparabili all’abitabilità della Terra. Auguriamoci che il nuovo governo Berlusconi si faccia carico, in sede internazionale, di questi gravi e seri problemi. Cordialmente ringrazio per l’ttenzione, distinti saluti.
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
PUNTURE Gianni Alemanno, nuovo sindaco di Roma, è amico di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Speriamo non inizi subito a mangiare.
Giancristiano Desiderio
“
Un uomo saggio coglie più opportunità di quante ne trovi FRANCIS BACON
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
SEGUE DALLA PRIMA
Ma il Pdl ha davvero bisogno di Ichino? di Giuliano Cazzola
Si tratta, a nostro avviso, di argomenti parecchio discutibili e ben poco eleganti, in quanto, una volta al governo, sarebbe stato proprio Ichino a proporre e a promuovere quelle politiche del lavoro che adesso sottopone a critica anticipata e pregiudiziale. Così il professore – che avrebbe potuto cavarsela con un semplice e secco «Grazie, ma sono stato eletto in quota Pd» - si è messo nella stessa condizione di quella volpe della poesia secondo la quale l’uva è acerba perché non arriva a mangiarla. Sarebbe corretto, allora, chiudere il discorso e andare avanti. Per fortuna, nonostante il «non possumus» di Pietro Ichino, Silvio Berlusconi può trovare benissimo, all’interno del Popolo delle Libertà, ottimi titolari del welfare, tra le personalità che lavorarono con Marco Biagi, sotto la direzione di Roberto Maroni. Invece no. Pietro Ichino è tornato sull’argomento con una lettera al direttore sul Corriere della Sera di domenica 27 aprile, spiegando che per fare il ministro non sarebbe sufficiente avere, nella compagine, le medesime posizioni in materia di lavoro, ma che si dovrebbe concordare su tutto con il premier e gli altri colleghi. Evidentemente qualco-
sa continua a turbare il nostro professore, dal momento che insiste nel seguire lunghi itinerari dialettici quando sarebbero sufficienti poche parole («No, grazie») per declinare l’offerta. Gratta gratta si scopre anche il motivo di tanta dialettica a fondo perduto: la presidenza della Commissione Lavoro del Senato per il giurista milanese neo eletto. Se è così (ma che cosa ne penserebbe Tiziano Treu eletto lui pure a Palazzo Madama per il Pd e, sicuramente, giuslavorista autorevole ?) lo si dica. In fondo, non sarebbe male che le politiche del lavoro e del welfare diventassero un terreno di incontro tra i «riformismi» del PdL e del Pd. Come ha dimostrato il convegno dello scorso 20 ottobre, in difesa del pacchetto Treu e della legge Biagi, esiste e può essere messo a frutto un «comune sentire» sull’esigenza di modernizzare il diritto del lavoro e le relazioni industriali. Ma per portare avanti il new deal è proprio necessario – è questa la domanda che ha posto Maurizio Sacconi nella sua lettera al Corriere – superare le distinzioni e i ruoli, nella direzione delle Commissioni parlamentari di merito, da sempre esistenti tra maggioranza ed opposizione ?
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PAGINAVENTIQUATTRO Per il dissidente Roberto Escalona «la nuova Cuba è solo uno specchio per le allodole»
Per favore, non fatevi ingannare da colloquio con Roberto Escalona di Antonella Giuli on ha il minimo dubbio Roberto Luque Escalona: per vedere Cuba vivere una nuova stagione politica, sociale ed economica bisognerà aspettare a lungo. Senz’altro non prima di «esserci tolti definitivamente dai piedi almeno i leader che oggi accompagnano Raul Castro, gli stessi macellai dell’era di Fidel». Dissidente rivoluzionario, più volte arrestato per le sue attività in favore dei diritti umani, dal ’91 membro del gruppo diretto dalla poetessa Maria Elena Cruz Valera “Criterio Alternativo”, Escalona vive negli Stati Uniti dal ’93, paragona Fidel Castro a Hitler, («anzi, è un mostro peggiore»), definisce Chavez un «buffone con i soldi», crede nel ”modello Irlanda” «perché ha saputo risollevare un Paese a terra», e ha appena dato alle stampe il romanzo Lorenzo e l’agnello del diavolo (edizioni Spirali), oltre 160 pagine di fuoco in cui il protagonista insegue il sogno-ossessione di uccidere il leader Maximo improvvisando un attentato all’Avana. Un progetto che lei ha più volte confessato di aver immaginato di mettere a punto realmente. Cosa le ha impedito di uccidere Fidel Castro?
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né energie per dare a Cuba gli strumenti necessari a rialzarsi. La recente dichiarazione sulla volontà di innalzare le pensioni, così come le altre trovate circa la possibilità di poter utilizzare liberamente le tecnologie, non solo sono diversivi per far star buoni i cubani, ma certamente non possono rappresentare le basi per l’inizio di una nuova stagione. Soprattutto fin quando Raul continuerà ad accompagnarsi ai fedelissimi criminali complici del fratello nella distruzione di Cuba. Non lascia aperto il minimo spiraglio... No. Oltre tutto oggi i cubani vivono in una sorta di brodo primordiale. È come se il loro slancio verso il futuro fosse pari a quello degli uomini di Neanderthal: corrono, corrono. Ma solo per guadagnarsi cibo e un piccolo posto a metà tra la
RAUL CASTRO La mancanza di soldi. Solo questo. Quando mancano le risorse necessarie a vivere, possono mancare anche quelle necessarie a uccidere. Anche se a meritare la morte è un mostro come Fidel. Che manca dalle scene ormai da tempo... Se è vivo, e questo davvero nessuno lo sa, sta sopravvivendo artificialmente. E’ impossibile che un uomo rimanga ”ufficialmente”in stato di convalescenza per quasi due anni, come invece si vuol far credere. L’ombra lunga del leader Maximo fa comodo. Ma la gente non si fa troppe domande. Tutti distratti da Raul. Da Raul e forse dai processi di liberalizzazione annunciati e portati avanti di recente. Specchietto per le allodole o primi segnali di una nuova stagione? Uomini vecchi non fanno cose nuove. E Raul Castro ha 76 anni suonati. Non ha né autorità
sopravvivenza e la decenza. L’innalzamento delle pensioni promesso da Raul può far vivere meglio i cubani... Pura illusione. Ma almeno qualcuno potrà an-
“
Il cambiamento sarà impossibile fin quando i cubani continueranno a vivere come gli uomini di Neanderthal: correndo solo per guadagnarsi cibo e un piccolo posto a metà tra la sopravvivenza e la decenza
st’ultimo non proverà ad avere una macchina, ma farà di tutto perché l’altro vada a piedi. Per arrivare a questo scopo si esaltano miti e personaggi che una volta al potere poi risultano pericolosi. Come giudica chi in Europa strizza l’occhio a Fidel Castro sposando la causa dell’antimperialismo? L’antiamericanismo non mi interessa. Mi preme la coscienza del mio popolo. Gli Stati Uniti, prima o poi, riusciranno ad aiutare i cubani nel lunghissimo processo di ripresa economica e sociale. Ma non illudiamoci che una potenza esterna, e soprattutto gli Usa, che in realtà non hanno la minima voglia di impegnare risorse economiche per uno staterello satellite che gli è ostile, possa rappresentare la panacea di tutti i mali. Il castrismo cubano ha distrutto Cuba, ai cubani spetta ricostruirla... Precisamente.
”
dare avanti più sereno aggrappandosi a questa speranza. Perché ha fallito la rivoluzione castrista? La revoluciòn è figlia dell’invidia e Fidel Castro la incarna più di chiunque altro. A Cuba se uno possiede un’automobile e un altro no, que-