2008_05_01

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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Musulmani e democrazia

e di h c a n o cr

L’Islam che vorremmo e l’islamismo reale

di Ferdinando Adornato

di Daniel Pipes è la sensazione che i musulmani risentano eccessivamente dei governi dittatoriali, di quelli tirannici, del dominio di presidenti non eletti, di sovrani, di emiri e di altri uomini forti. Ed è esatto asserire ciò. Un’accurata analisi a firma di Frederic L. Pryor dello Swarthmore College e pubblicata sul Middle East Quarterly (dal titolo “I paesi musulmani sono meno democratici?”) arguisce che “sostanzialmente nei paesi più poveri, l’Islam è associato alla mancanza pressoché totale di diritti politici”. Il fatto che i paesi a maggioranza musulmana siano meno democratici induce a concludere che la religione dell’Islam, il loro fattore comune, sia di per sé incompatibile con la democrazia. Non sono d’accordo con questa illazione. Al contrario, la difficile situazione musulmana odierna rispecchia le condizioni storiche più che i tratti innati dell’Islam. In altre parole, l’Islam, come tutte le religioni pre-moderne, è antidemocratico nella sua essenza. Ma per lo meno esso potrebbe in fieri evolversi in direzione democratica. Un’evoluzione di questo tipo non è facile per nessuna religione. Nel caso cristiano, la lotta per contenere il ruolo politico della Chiesa cattolica durò fin troppo a lungo. Se la transizione ebbe inizio quando Marsilio da Padova pubblicò il Defensor pacis nell’anno 1324, alla Chiesa occorsero altri sei secoli per accettare in toto la democrazia. co n ti nu a a p ag in a 2 3

C’

FLESSIBILITÀ O PRECARIETÀ?

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80501

La festa del lavoro ha avuto nel tempo diversi simboli. Oggi, per noi, il più significativo è quello di Marco Biagi. Saprà il nuovo governo portare a termine il suo progetto?

Il giuslavorista Marco Biagi, assassinato dalle Br il 19 marzo del 2002

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° Il nostro maggio

Il presidente della Camera si schiera col Papa

La svolta di Gianfranco Fini di Susanna Turco Dicono le malelingue di Montecitorio che da ieri Gianfranco Fini si è politicamente murato vivo nelle dorate stanze che già non furono d’auspicio per Fausto Bertinotti, suo predecessore. E che invece, non lontano da lì, Gianni Alemanno è salito al Campidoglio.

pagina 7

La scelta dei libri di testo per le scuole primarie

alle pagine 2, 3, 4 e 5

nell’inserto Socrate

Oggi Londra sceglie il sindaco

«È sparito il fascino di imparare»

di Silvia Marchetti Oggi i cittadini di Londra eleggeranno il loro sindaco. La sfida, sempre più pressante, si gioca tra il laburista Ken Livingstone, attuale primo cittadino, e l’esuberante ma poco esperto conservatore Boris Johnson, rampollo dell’alta società cresciuto a Eton e Oxford.

di Francesco Alberoni Francesco Lo Dico Giuseppe Lisciani Giancristiano Desiderio Giuseppe Bertagna da pagina 12

GIOVEDÌ 1 MAGGIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

Ken Livingstone contro Boris Johnson

ARRIVEDERCI A SABATO Come tutti i quotidiani anche liberal non esce nel giorno successivo al 1° maggio. L’appuntamento con i lettori è dunque per sabato 3 maggio.

pagina 10 NUMERO

80 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 1 maggio 2008

il nostro

1 maggio °

Il testo fu scritto da Gino Giugni nel 1970 su misura per la grande industria ed è lontano da chi produce ricchezza

Lo Statuto dei lavoratori non vale più per l’Italia di oggi di Giuliano Cazzola siste davvero la possibilità – è bene parlarne oggi prima che anche la festività del 1° Maggio diventi un lascito del secolo scorso – di una tendenziale armonizzazione delle regole del mercato del lavoro in un nuovo Statuto dei lavori? Nella XIV Legislatura si adoperò per realizzare questo obiettivo una Commissione di giuristi, istituita dal ministro Roberto Maroni. Poi tutto finì per arenarsi e non approdare a nulla. Il fallimento, sicuramente, non dipese solo dai limiti soggettivi di quanti lavorarono all’impresa o da una inadeguata copertura fornita dalle autorità politiche (questi «vizi occulti» furono presenti ambedue). La questione vera riguardò prevalentemente l’oggettiva difficoltà di individuare un massimo comun divisore in grado di valere per l’intero arco del lavoro (sia esso dipendente, indipendente, parasubordinato). Il legislatore del 1970 aveva dei precisi punti di riferimento: sul piano internazionale poteva avvalersi della legislazione del new deal rooseveltiano (la celebre legge Wagner del 1935), che era alla base della formazione culturale di un grande giuslaburista come Gino Giugni, l’animatore dello Statuto dei lavoratori. Nella contrattazione collettiva, lo storico contratto dei metalmeccanici dell’autunno del 1969 aveva già anticipato taluni diritti sindacali, destinati poi a trovare sanzione nella legge n. 300/1970. Nella struttura produttiva era netto il predominio della grande impresa, che finiva per riassumere in sé il paradigma del lavoro dipendente. C’erano anche le aziende medie e piccole, ma non erano considerate protagoniste della storia: nel 1971 gli occupati in aziende industriali (in senso stretto) fino a 15 dipendenti erano più di 1,7 milioni; nel 2001, 2,9 milioni (il 43% di tutti gli addetti al settore). Oggi, la legislazione di allora finisce per riguardare solo una parte – ancora importante

E

– di un mondo del lavoro che si è profondamente articolato e diversificato. La questione di quali nuove regole non riguarda solo – come spesso si crede il caso, assai diffuso, del lavoro quasi-subordinato, atipico, “grigio”, cresciuto negli ultimi anni, a ridosso delle leggi che hanno modernizzato, nell’ultimo decennio, il mercato del lavoro. Anche il lavoro subordinato si è trasformato, in conseguenza dei radicali mutamenti che hanno interessato, in questi trent’anni, la struttura produttiva e dei servizi. Ci aiuta a comprendere i fenomeni intervenuti uno studio della società di consulenza e ricerca Con.Media, condotto sui dati dei censimenti. Nel periodo 19712001, le imprese con meno di 50 addetti hanno più che compensato (con l’incremento di oltre 1,50 milioni di nuovi addetti) il crollo dell’occupazione (- 1,25 milioni, di cui un milione perduto nel Nord Ovest) nelle aziende con più di 50 addetti, con un saldo attivo di circa 250mila occupati. Ma non occorre andare indietro di trent’anni per scoprire modifiche clamorose nell’assetto produttivo del Paese. Dal 1991 al 2001 si è avuta un’esplosione del numero delle micro-aziende (sono aumentate del 51% quelle con un solo addetto, addirittura sono quasi raddoppiate nei servizi). Secondo il censimento del 2001, su oltre 4 milioni di imprese ben 3,68 milioni avevano meno di 5 addetti (solo poco più di tremila imprese, in Italia, avevano più di 250 occupati). Il numero medio di addetti per impresa era pari a 3,8 (9,2 nell’industria in senso stretto), con una variazione negativa del 12,9% rispetto a dieci anni prima. Se a tale situazione si aggiungono i dati del c.d. lavoro

Le nuove tutele devono andare incontro alle esigenze delle Pmi e dei tanti lavoratori atipici

La Festa del lavoro e il sacrificio di Marco Biagi

Il nostro primo maggio La Festa dei lavoratori ha e ha avuto diverse icone. Immagini nelle quali le tante comunità che la celebrano si identificano e si riconoscono. C’è il primo maggio di Giuseppe Di Vittorio, quello di Portella della Ginestra e quello del “concertone”di piazza San Giovanni. Per noi il primo maggio ha il volto di Marco Biagi. È la sua intelligenza che oggi vogliamo ricordare, la sua eredità che vogliamo preservare e mettere pienamente a frutto. Il suo sacrificio consumato dalle Brigate rosse lo eleggono a moderno martire del lavoro. La legge di riforma del mercato del lavoro non è l’unica eredità di Marco Biagi. Ancor più importante è stato proprio il suo caratteristico metodo di lavoro, di giurista progettuale al servizio delle istituzioni e della modernizzazione del Paese. Sono anni che le parti politiche usano in modo strumentale la sua legge erigendola a bandiera da innalzare o dileggiare, oscurandone in fondo lo straordinario impegno politico e civile da cui nasce. Un impegno vissuto con coraggio e forte senso di responsabilità, ma anche con un entusiasmo e una passione quasi giovanile, sempre al servizio dei più deboli. Del resto, se le intelligenze riescono a rimanere scevre da tali strumentalizzazioni di parte, la più recente evoluzione del mercato del lavoro fornisce una chiara conferma di quanto scrisse nei giorni successivi all’assassinio il suo maestro Gigi Montuschi: «Marco pedalava davvero molto avanti, con la sua bicicletta, e ci precedeva di molti anni». Così, in questo nostro primo maggio, ciò che lascia sgomenti è che ancora qualcuno possa mettere in dubbio che il contributo di Marco Biagi sia stato inequivocabilmente a favore dei lavoratori e mai contro. Il nostro augurio è che il governo trovi ora il coraggio di continuare sulla direzione del suo pensiero completandone l’attuazione.Va infatti ricordato che ancora molto di quel disegno è rimasto inespresso. La riforma dovrà essere applicata per intero affinché il concetto di flessibilità del lavoro non si riduca a precarietà permanente, affinché l’intelligenza e il dono di Marco Biagi illumini il primo maggio di tutti i lavoratori.

atipico non sembra possibile trovare un “centro” unificante sul quale poggiare un nuovo sistema di diritti e prerogative. L’altro problema serio riguarda le finalità dell’operazione. A fronte delle difficoltà a rifondare in maniera unificante le regole ed i diritti del lavoro, è forte il rischio di lasciarsi afferrare dalla logica delle tutele differenziate. Il che lascerebbe il mercato del lavoro più o meno frastagliato come adesso: al vertice la parte (declinante) di classe lavoratrice coperta dalla legge n.300 (con le note gerarchie interne: impiego pubblico, dipendenti delle grandi imprese e “giù per li rami”), poi i vari gironi del lavoro atipico ai quali vengono estesi (per sottrazione) i diritti del mondo del lavoro di prima categoria, in quanto compatibili. Il tutto produrrebbe soltanto un irrigidimento complessivo dell’assetto del mercato, senza determinare una nuova uguaglianza di base. In verità, per smontare il vecchio apparato di tutele e rifondarne uno nuovo si dovrebbe ripartire, da un lato, dalla disciplina del licenziamento, dall’altro dalle protezioni previdenziali ed assistenziali, arrivando a delineare percorsi e trattamenti il più possibile comuni ed uniformi, almeno in una prospettiva non lontana. Ma per questa via si torna alla riforma


il nostro dell’articolo 18 dello Statuto. Salvo dover prendere atto che non esiste un’effettiva volontà politica che consenta di occuparsi di questo problema. Sempre in questo 1° Maggio, Cgil, Cisl e Uil sono alla ricerca (con il medesimo spirito con cui Bertoldo cercava l’albero a cui essere impiccato) di un’intesa sulla riforma del sistema della contrattazione e delle relazioni industriali. Dopo il 1993 (in quella occasione si è istituzionalizzato un modello di relazioni che ha fortemente contribuito a realizzare - nel contesto della politica dei redditi e di un drastico abbattimento della conflittualità - il duplice obiettivo di salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni e di promuovere il rientro dall’inflazione) le finalità strategiche della contrattazione collettiva sono state ricondotte, sostanzialmente, alla difesa del potere d’acquisto sul piano nazionale, mentre, a livello aziendale, dovrebbe essere ripartita una quota degli incrementi di produttività. Perché questo assetto è entrato in crisi? Si prenda, ad esempio, la prospettiva (tuttora molto vaga nei contenuti) del federalismo. Viene spontaneo l’interrogativo: come potrebbe essere vitale un più accentuato decentramento dello stato senza il supporto di una dialettica sociale vera, derivante non già da relazioni politiche, ma da una rete di effettivi rapporti contrattuali? Mantenendo, invece, un assetto verticale (dalla categoria all’azienda) si finisce per irrigidire un’operazione istituzionale che ha bisogno di flessibilità, di aderenza alle realtà locali, di protagonismo sociale vero. Ma la critica più radicale al sistema delle relazioni industriali viene, però, dai nuovi assetti della struttura economica e del mercato del lavoro. Anche troppo si è scritto dei mutamenti intervenuti nel tessuto produttivo: l’occupazione è concentrata nelle piccole imprese, è cambiato il rapporto tra lavoro dipendente e autonomo, tra prestazione impiegatizia e operaia, tra settore primario (agricoltura), secondario (industria) e terziario (servizi). Il modello contrattuale ereditato dagli anni Sessanta non è in grado di inseguire il lavoro nelle sue trasformazioni; mentre i grandi soggetti collettivi, nella loro attuale organizzazione, non sono capaci di rappresentarlo nelle diverse forme in cui si esprime. Di qui l’esigenza di non perdere, come avvenne nel 1998, l’occasione per un riordino del sistema contrattuale più aderente alle esigenze del posto di lavoro e del territorio, allo scopo di remunerare anche in modo differenziato l’effettiva produttività del lavoro.

1 maggio °

1 maggio 2008 • pagina 3

Parla il professore che fu più vicino a Biagi: «Come evitare la precarietà permanente»

Il secondo tempo della Riforma colloquio con Michele Tiraboschi di Francesco Pacifico uando gli si dice che il mondo del lavoro cambia in maniera vorticosa, Michele Tiraboschi, giuslavorista e allievo prediletto di Marco Biagi, quasi si arrabbia. «Veramente il mondo del lavoro è cambiato da almeno 35 anni anni. Il problema è che ce ne accorgiamo soltanto ora. Che scopriamo soltanto oggi il precariato». E dice di parlare con cognizione di causa: «Ho fatto l’assistente volontario alla cattedra di diritto del lavoro a Modena (la stessa della quale è titolare, ndr) per cinque anni». Quando si è registrata la svolta? Con la crisi petrolifera degli anni Settanta, che ha messo in discussione i vecchi assetti organizzativi, partendo dalla fabbrica tayloristica, che assorbiva lavoro a tempo determinato in modo massiccio. Le leggi, Statuto dei lavoratori in primis, sono le stesse di allora. Diversamente da quanto avvenuto negli Stati Uniti o in Giappone, non si è compreso in tempo il cambiamento e non si è favorito il passaggio dalla manifattura ai servizi a valore aggiunto. In Italia parlare di crisi del manifatturiero è quasi una bestemmia. Certo, c’è questo tabù, anche perché da noi il comparto ha una quota quadrupla rispetto ai Paesi avanzati. Ma questo non ha evitato un cambiamento nel settore produttivo. E i governi non hanno introdotto le riforme complessive necessarie. Le stesse leggi Treu e Biagi sono arrivate in ritardo. E il processo è stato ancora più difficile da gestire per una parte del sindacato, massimalista e contrario alle innovazioni. Il sindacato è più riformista che in passato. Eppure considera lavoro soltanto quello fisso. Il loro errore è stato di non capire che così si finisce per garantire un gruppo sempre più ristretto di persone. Ed è qui che si innesca la rivoluzione della Biagi: porre l’accento su chi non ha tutele. Quando lui scriveva il Libro bianco, soltanto il 51 per cento della forza lavoro era contrattualizzata. E oggi? Siamo al 59 per cento, sono stati creati tre milioni di lavoro. A riprova – ed è questo che non ha capito il sindacato – che bisogna agire per far entrare (o rientrare) chi è fuori dal mondo del lavoro, aumentare questo numero. Anche con un contratto a termine, che non va mai ad attaccare l’istituto del contratto stabile. Non c’è, però, una sproporzione tra flessibilità in uscita e quella in entrata, anche per la mancanza di ammortizzatori sociali?

Q

Intanto vorrei ricordare che nel piano iniziale della Biagi era prevista una parte sulla riforma degli ammortizzatori e degli incentivi al lavoro. Ma poi il Patto del lavoro, accantonando l’articolo 18 e la parte sulla flessibilità in uscita, ha rinviato questa materia. E questo tassello manca. Ma vorrei chiarire un altro aspetto. Quale? Il vero tema non è la flessibilità in entrata o quella in uscita, ma la flessibilità organizzativa riguardo mansioni, inquadramento, esternalizzazioni e appalti. I contratti ai affidano ancora al vecchio inquadramento unico del 1973, che parificava operai e impiegati. E che poteva andare bene per la fabbrica fordista. Ma oggi i rapporti di lavoro sono sempre più creativi, nascono e si rafforzano in base al vantaggio ricavato dall’impresa. L’effetto? Non accettando questa distinzione, si creano lavoratori di serie A e di se rie B e non si difendono le figure a valore aggiunto. Ci tratteggia l’identikit del lavoratore creativo? In termini molti generali, nei nuovi lavori si chiede non soltanto di essere un dipendente, ma di entrare nei processi produttivi – nelle fabbriche c’è tantissima tecnologia, ma c’è chi la gestisce e chi la subisce – . Così si dà un valore aggiunto alle imprese, si migliora la macchina. Intanto siamo al paradosso che, nelle categorie più tutelate chi perde lavoro, fatica a trovarne un altro. Vero, penso ai tanti freelance pagati a prestazione, che non godono di tutele e non crescono per non aver avuto in sorte un contratto. Ma l’eccesso di rigidità finisce per spingere gli imprenditori a utilizzare altri strumenti contrattuali. Penso a quelli a contenuto formativo per i giovani usati al posto del tempo determinato. Il lavoratore paga anche la scarsa concorrenza? Il sistema è talmente poco liberalizzato che un quarto del Pil del Paese viene creato da un’economia

L’obiettivo è incentivare la flessibilità organizzativa su mansioni e inquadramento superando le categorie dell’economia fordista

sommersa. C’è sicuramente uno spirito innovativo che non trova risposta nella legge, visti i troppi vincoli burocratici. Ma bisognerebbe distinguere fra ciò che è fraudolento e ciò che è fisiologico. E intervenire. Così la sfida è tra tutelati e non? Non è questa l’asticella. Il problema è che in Italia, con una popolazione di 59 milioni di persone, ufficialmente lavorano in 23 milioni. La produttività del sistema è sulle loro spalle. La priorità, oltre alla modifica all’assetto contrattuale, è l’inquadramento. Non serve pagare tutti allo stesso modo, senza valutare se portano valore aggiunto all’azienda. Un primo passo può essere la detassazione degli straordinari? Sì, perché nelle piccole imprese sono pagati a nero e l’emersione è necessaria. Eppoi non creerebbero problemi ai disoccupati o alle donne, come dice Ichino. L’occupazione femminile è bassa. Certo, ma le donne devono affrontare altre problematiche come la mancanza di servizi di assistenza per conciliare tempi di lavoro e di tempi per la famiglia. Visto quanto ci ha detto, va cambiato lo Statuto dei lavoratori? Io andrei molto cauto a procedere oggi con una riforma epocale. Per prima cosa applicherai la Biagi fino in fondo, dando seguito alla borsa lavoro, alla riforma del collocamento pubblico, all’apprendistato, al lavoro occasionale per le attività di sostegno alla famiglia o alla certificazione dei contratti di lavoro. Gli altri obiettivi? Cancellare almeno il 50 per cento delle leggi sul lavoro, che creano troppi vincoli all’economia, ma non danno tutele al lavoratore. Eppoi ci sono il contrasto al sommerso, le azioni per far entrare più persone nel mondo del lavoro. Dove, ripeto, meglio flessibili, diciamo anche precari, che in nero. Infine gli ammortizzatori sociali. Resta il problema di giovani precari che pagano alti contributi per pensioni da fame Anche qui io non mi avventurerei con una nuova riforma pensionistica, ma lascerei fare al mercato. Cinque anni di precariato ci possono anche stare, ma il rischio è che un giovane entri a 30 nel mondo del lavoro. Quando, con migliore raccordo tra istruzione e lavoro, potrebbe farlo prima e raggiungere una posizione stabile in tempi più brevi. Ancora convinto che non vada riscritto lo Statuto dei lavoratori? Con queste misure lo si migliora, lo si corregge, senza grandi clamori.


il nostro dell’articolo 18 dello Statuto. Salvo dover prendere atto che non esiste un’effettiva volontà politica che consenta di occuparsi di questo problema. Sempre in questo 1° Maggio, Cgil, Cisl e Uil sono alla ricerca (con il medesimo spirito con cui Bertoldo cercava l’albero a cui essere impiccato) di un’intesa sulla riforma del sistema della contrattazione e delle relazioni industriali. Dopo il 1993 (in quella occasione si è istituzionalizzato un modello di relazioni che ha fortemente contribuito a realizzare - nel contesto della politica dei redditi e di un drastico abbattimento della conflittualità - il duplice obiettivo di salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni e di promuovere il rientro dall’inflazione) le finalità strategiche della contrattazione collettiva sono state ricondotte, sostanzialmente, alla difesa del potere d’acquisto sul piano nazionale, mentre, a livello aziendale, dovrebbe essere ripartita una quota degli incrementi di produttività. Perché questo assetto è entrato in crisi? Si prenda, ad esempio, la prospettiva (tuttora molto vaga nei contenuti) del federalismo. Viene spontaneo l’interrogativo: come potrebbe essere vitale un più accentuato decentramento dello stato senza il supporto di una dialettica sociale vera, derivante non già da relazioni politiche, ma da una rete di effettivi rapporti contrattuali? Mantenendo, invece, un assetto verticale (dalla categoria all’azienda) si finisce per irrigidire un’operazione istituzionale che ha bisogno di flessibilità, di aderenza alle realtà locali, di protagonismo sociale vero. Ma la critica più radicale al sistema delle relazioni industriali viene, però, dai nuovi assetti della struttura economica e del mercato del lavoro. Anche troppo si è scritto dei mutamenti intervenuti nel tessuto produttivo: l’occupazione è concentrata nelle piccole imprese, è cambiato il rapporto tra lavoro dipendente e autonomo, tra prestazione impiegatizia e operaia, tra settore primario (agricoltura), secondario (industria) e terziario (servizi). Il modello contrattuale ereditato dagli anni Sessanta non è in grado di inseguire il lavoro nelle sue trasformazioni; mentre i grandi soggetti collettivi, nella loro attuale organizzazione, non sono capaci di rappresentarlo nelle diverse forme in cui si esprime. Di qui l’esigenza di non perdere, come avvenne nel 1998, l’occasione per un riordino del sistema contrattuale più aderente alle esigenze del posto di lavoro e del territorio, allo scopo di remunerare anche in modo differenziato l’effettiva produttività del lavoro.

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Parla il professore che fu più vicino a Biagi: «Come evitare la precarietà permanente»

Il secondo tempo della Riforma colloquio con Michele Tiraboschi di Francesco Pacifico uando gli si dice che il mondo del lavoro cambia in maniera vorticosa, Michele Tiraboschi, giuslavorista e allievo prediletto di Marco Biagi, quasi si arrabbia. «Veramente il mondo del lavoro è cambiato da almeno 35 anni anni. Il problema è che ce ne accorgiamo soltanto ora. Che scopriamo soltanto oggi il precariato». E dice di parlare con cognizione di causa: «Ho fatto l’assistente volontario alla cattedra di diritto del lavoro a Modena (la stessa della quale è titolare, ndr) per cinque anni». Quando si è registrata la svolta? Con la crisi petrolifera degli anni Settanta, che ha messo in discussione i vecchi assetti organizzativi, partendo dalla fabbrica tayloristica, che assorbiva lavoro a tempo determinato in modo massiccio. Le leggi, Statuto dei lavoratori in primis, sono le stesse di allora. Diversamente da quanto avvenuto negli Stati Uniti o in Giappone, non si è compreso in tempo il cambiamento e non si è favorito il passaggio dalla manifattura ai servizi a valore aggiunto. In Italia parlare di crisi del manifatturiero è quasi una bestemmia. Certo, c’è questo tabù, anche perché da noi il comparto ha una quota quadrupla rispetto ai Paesi avanzati. Ma questo non ha evitato un cambiamento nel settore produttivo. E i governi non hanno introdotto le riforme complessive necessarie. Le stesse leggi Treu e Biagi sono arrivate in ritardo. E il processo è stato ancora più difficile da gestire per una parte del sindacato, massimalista e contrario alle innovazioni. Il sindacato è più riformista che in passato. Eppure considera lavoro soltanto quello fisso. Il loro errore è stato di non capire che così si finisce per garantire un gruppo sempre più ristretto di persone. Ed è qui che si innesca la rivoluzione della Biagi: porre l’accento su chi non ha tutele. Quando lui scriveva il Libro bianco, soltanto il 51 per cento della forza lavoro era contrattualizzata. E oggi? Siamo al 59 per cento, sono stati creati tre milioni di lavoro. A riprova – ed è questo che non ha capito il sindacato – che bisogna agire per far entrare (o rientrare) chi è fuori dal mondo del lavoro, aumentare questo numero. Anche con un contratto a termine, che non va mai ad attaccare l’istituto del contratto stabile. Non c’è, però, una sproporzione tra flessibilità in uscita e quella in entrata, anche per la mancanza di ammortizzatori sociali?

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Intanto vorrei ricordare che nel piano iniziale della Biagi era prevista una parte sulla riforma degli ammortizzatori e degli incentivi al lavoro. Ma poi il Patto del lavoro, accantonando l’articolo 18 e la parte sulla flessibilità in uscita, ha rinviato questa materia. E questo tassello manca. Ma vorrei chiarire un altro aspetto. Quale? Il vero tema non è la flessibilità in entrata o quella in uscita, ma la flessibilità organizzativa riguardo mansioni, inquadramento, esternalizzazioni e appalti. I contratti ai affidano ancora al vecchio inquadramento unico del 1973, che parificava operai e impiegati. E che poteva andare bene per la fabbrica fordista. Ma oggi i rapporti di lavoro sono sempre più creativi, nascono e si rafforzano in base al vantaggio ricavato dall’impresa. L’effetto? Non accettando questa distinzione, si creano lavoratori di serie A e di se rie B e non si difendono le figure a valore aggiunto. Ci tratteggia l’identikit del lavoratore creativo? In termini molti generali, nei nuovi lavori si chiede non soltanto di essere un dipendente, ma di entrare nei processi produttivi – nelle fabbriche c’è tantissima tecnologia, ma c’è chi la gestisce e chi la subisce – . Così si dà un valore aggiunto alle imprese, si migliora la macchina. Intanto siamo al paradosso che, nelle categorie più tutelate chi perde lavoro, fatica a trovarne un altro. Vero, penso ai tanti freelance pagati a prestazione, che non godono di tutele e non crescono per non aver avuto in sorte un contratto. Ma l’eccesso di rigidità finisce per spingere gli imprenditori a utilizzare altri strumenti contrattuali. Penso a quelli a contenuto formativo per i giovani usati al posto del tempo determinato. Il lavoratore paga anche la scarsa concorrenza? Il sistema è talmente poco liberalizzato che un quarto del Pil del Paese viene creato da un’economia

L’obiettivo è incentivare la flessibilità organizzativa su mansioni e inquadramento superando le categorie dell’economia fordista

sommersa. C’è sicuramente uno spirito innovativo che non trova risposta nella legge, visti i troppi vincoli burocratici. Ma bisognerebbe distinguere fra ciò che è fraudolento e ciò che è fisiologico. E intervenire. Così la sfida è tra tutelati e non? Non è questa l’asticella. Il problema è che in Italia, con una popolazione di 59 milioni di persone, ufficialmente lavorano in 23 milioni. La produttività del sistema è sulle loro spalle. La priorità, oltre alla modifica all’assetto contrattuale, è l’inquadramento. Non serve pagare tutti allo stesso modo, senza valutare se portano valore aggiunto all’azienda. Un primo passo può essere la detassazione degli straordinari? Sì, perché nelle piccole imprese sono pagati a nero e l’emersione è necessaria. Eppoi non creerebbero problemi ai disoccupati o alle donne, come dice Ichino. L’occupazione femminile è bassa. Certo, ma le donne devono affrontare altre problematiche come la mancanza di servizi di assistenza per conciliare tempi di lavoro e di tempi per la famiglia. Visto quanto ci ha detto, va cambiato lo Statuto dei lavoratori? Io andrei molto cauto a procedere oggi con una riforma epocale. Per prima cosa applicherai la Biagi fino in fondo, dando seguito alla borsa lavoro, alla riforma del collocamento pubblico, all’apprendistato, al lavoro occasionale per le attività di sostegno alla famiglia o alla certificazione dei contratti di lavoro. Gli altri obiettivi? Cancellare almeno il 50 per cento delle leggi sul lavoro, che creano troppi vincoli all’economia, ma non danno tutele al lavoratore. Eppoi ci sono il contrasto al sommerso, le azioni per far entrare più persone nel mondo del lavoro. Dove, ripeto, meglio flessibili, diciamo anche precari, che in nero. Infine gli ammortizzatori sociali. Resta il problema di giovani precari che pagano alti contributi per pensioni da fame Anche qui io non mi avventurerei con una nuova riforma pensionistica, ma lascerei fare al mercato. Cinque anni di precariato ci possono anche stare, ma il rischio è che un giovane entri a 30 nel mondo del lavoro. Quando, con migliore raccordo tra istruzione e lavoro, potrebbe farlo prima e raggiungere una posizione stabile in tempi più brevi. Ancora convinto che non vada riscritto lo Statuto dei lavoratori? Con queste misure lo si migliora, lo si corregge, senza grandi clamori.


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il nostro

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La differenza tra l’Italia e i Paesi del Nord Europa dove le parti sociali hanno contribuito a cambiare il welfare

Il sindacato o cambia o muore di Gianfranco Polillo o Statuto dei lavoratori divenne legge dello Stato nel 1970. Fu una delle riforme più importanti del primo centrosinistra. Quello contro cui, tanto per avere un idea, combattè, con estrema determinazione, il Pci. Tutte le innovazioni di quel periodo furono considerate dai comunisti come una semplice razionalizzazione del sistema capitalista. Portate avanti con l’intento di disarmare la classe operaia e negargli la sua missione storica. Che era quella, per la verità, tutt’altro che definita della conquista del socialismo. L’unica riforma apprezzata fu quella dello Statuto. E non solo perché a scrivere quelle norme era stato Gino Giugni, sotto la guida di un ministro della sinistra socialista, come Giacomo Brodolini: quelle norme rispondevano allo spirito del tempo.

L

L’Italia era appena entrata nell’epoca del fordismo. Bruno Trentin, che di queste cose si intendeva, in un convegno del Cespe, il centro studi diretto da Giorgio Amendola, aveva avvisato i compagni del suo partito. Da sindacalista e intellettuale qual era, aveva colto le trasformazioni importanti in atto. L’emergere di una nuova classe operaia e la sua stratificazione, all’interno dell’organizzazione tayloristica. E aveva premuto affinchè il Pci, abbandonata ogni preclusione ideolo-

gica, si dichiarasse a favore di una norma che faceva entrare nel recinto della fabbrica i diritti di cittadinanza. La classe operaia usciva così dall’anonimato e diveniva soggetto giuridico. Rocco ed i suoi fratelli – il bel film di Luchino Visconti – che, nel frattempo avevano costruito la base industriale del Paese a prezzo di enormi sacrifici personali, avevano il loro riconoscimento. Ci sarebbe voluto del tempo affinché quelle norme producessero il loro effetto sulle reali condizioni di vita dei la-

Poi, seppure inavvertitamente, si sono trasformate in una camicia di Nesso. Hanno subito una torsione corporativa dovuta al fatto che la grande mediazione sindacale tra la difesa degli interessi particolari e il respiro più generale della società italiana è venuta meno. Ed è venuta meno nel momento in cui i vecchi schemi di politica economica venivano travolti dai venti della globalizzazione. Ancora oggi il sindacato gestisce quelle norme come se nulla fosse accaduto. Difende i suoi iscritti – sempre meno – chiuso nel fortilizio degli interessi corporativi. E non si avvede della massa di sfruttati – giovani e precari – che ne assediano le mura. Nessuna lungimiranza. Nessuna riflessione paragonabile alle pagine di quel lontano convegno. Nessun tentativo di capire, ma soprattutto di convincere. È la crisi vera del sindacalismo italiano. La sorte di ogni sopravvissuto a cambiamenti che non solo non ha contribuito a determinare, ma che è costretto a subire sull’onda di una spinta di carattere internazionale. Era inevitabile? Sembrerebbe di no: almeno a giudicare dalle esperienze più avanzate. Nel modello scandinavo, un sindacato forte e agguerrito ha gestito il cambiamento. Ha accettato il modello della flessi-

Il modello scandinavo di flexsecurity ha fatto da volano all’economia e ha messo le basi a una liberalizzazione dei mercati e a forti investimenti in formazione e ricerca voratori e un impegno sindacale capace di tenere insieme le istanze puramente rivendicative con i temi più generali della società italiana: la conquista di maggiori spazi di libertà o la difesa della dignità umana. Un’altra epoca. Anzi una diversa era glaciale, rispetto ai problemi di oggi. Come tutte le cose di questo mondo, quelle norme hanno svolto una funzione importante, specie nell’epoca del keynesismo trionfante.

La sinistra tradisce la festa

Risultato? Un tasso di crescita decisamente superiore alle medie europee. Una specializzazione tecnologica nei rami alti della produzione, al riparo dalla concorrenza cinese e degli altri Paesi in fase di industrializzazione. Salari talmente elevati da consentire, nonostante il maggior prelievo fiscale, una vita più che dignitosa. Un sentiero virtuoso che si alimenta di alta formazione e innovazione e di una spinta competitiva che seleziona una classe dirigente degna di questo nome. Sarebbe utile che il sindacalismo italiano riflettesse su quella esperienza. Nessun invito a seguire il modello anglosassone e la sua presunta “rivoluzione conservatrice”. Ma obiettivi da declinare, seguendo strade diverse e tenendo fermo un orizzonte generale. L’unico modo per uscire dalla fortezza Bastiani.

ggi primo maggio dovrebbe essere la festa dei lavoratori. Per quelli delle Ipercoop piemontesi sarà diverso. Loro infatti, maestranze e impiegati dei magazzini nati e cresciuti nell’alveo della sinistra italiana, il primo maggio saranno al lavoro. Con buona pace di quei sindacati – Cgil in testa – che si indignano ricordando le radici storiche di questa data gloriosa. Radici che affondano in tempi lontani, quando La Federation of Organized Trades and Labour Unions indicò nel 1 Maggio 1886 la data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno. O quando in Europa la data del primo maggio viene ufficializzata come giornata festiva dai delegati al congresso della Seconda Internazionale socialista riunito nel luglio del 1889 a Parigi. Il 1 maggio di tre anni prima, una grande manifestazione operaia svoltasi a Chicago, era stata repressa nel sangue. Storie lontane nel tempo. Ormai, soprattutto dopo la scomparsa dal parlamento di ciò che restava del movimento socialista e comunista, nella bussola dei valori orientativi della sinistra il mercato sembra avere sostituito la società. E poco importa che le Coop, oggi pratiche di mercati azionari, siano nate proprio per contrapporsi, più di un secolo fa, all’impresa commerciale capitalistica. Oggi il 70 per cento del personale dell’ipercoop di Courgnè, paese dell’alto canavese, ha contratti atipici: chi di loro e perché dovrebbe rinunciare a 50 euro in più al mese? In questi tempi poi in cui la Cina è vicina, il prezzo del pane aumenta e i mutui fanno sempre più paura? La verità è che a difendere il lavoro non c’è rimasto quasi più nes-

O Clamoroso: oggi in Piemonte le coop lavorano di Riccardo Paradisi

bilità, indotto dall’apertura degli scambi, e contrattato gli spazi di una rinnovata sovranità. Ha preteso una forte liberalizzazione del mercato dei prodotti. Un welfare dinamico e coerente con i nuovi paradigmi dell’economia globalizzata. Ha accettato anche un prelievo fiscale superiore a quello italiano, ma in cambio ha preteso servizi pubblici degni di questo nome. Un impegno continuo e costante nella formazione e nell’istruzione. Nessun permissivismo, ma rigore nella selezione dei meritevoli, per offrire a tutti una chance nella vita.


il nostro

1 maggio °

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Maurizio Sacconi (Pdl) illustra gli interventi del nuovo governo

«Pensioni, non si può tornare alla Maroni» colloquio con Maurizio Sacconi di Marco Palombi agare il 10 per cento di tasse in meno su tutte le parti accessorie del salario: straordinari, premi, gratifiche. Sarà questo il primo passo del Berlusconi IV, «un passo talmente innovativo il cui impatto può essere paragonabile solo al decreto sulla scala mobile dell’84». Parola di Maurizio Sacconi, senatore del Pdl, già sottosegretario al Welfare quando il ministro era Maroni, nonché estensore, con Marco Biagi, del Libro Bianco sul lavoro che fu la base della legge 30. Per un tecnico cresciuto tra i socialisti della Cgil come lui, riformista accasato nel centrodestra e sostenitore da tempi non sospetti della necessità di una mutazione genetica dei rapporti tra sinistra e impresa, questa nuova temperie deve essere un sogno: vittoria netta per la sua coalizione,

P

meritocratico, punito dalla tassazione progressiva. Intendiamo instaurare una disciplina di favore per tutte le parti variabili del salario, che sono quindi naturalmente collegate con l’impegno e il rendimento del lavoratore. Sembra abbiate un atteggiamento più soft coi sindacati rispetto al passato. Non è così. Noi già nella legislatura 2001-2006 facemmo una riforma importante del mercato del lavoro sulla base di un patto firmato da tutte le organizzazioni sindacali eccetto una. Spero che la Cgil ora rifletta sul da farsi anche alla luce del fatto che una parte consistente dei suoi iscritti ha votato per noi. Io però sono molto ottimista, credo che siamo vicini alla rottura degli schemi che hanno caratterizzato il lungo Sessantotto italiano. Anche nel Pd vedo molte persone lontane dall’impostazione cattolica e comunista della sinistra italiana. Nel 2001 prendeste di petto questioni spinose: pensioni, articolo 18… E la detassazione degli straordinari cos’è? È un passo talmente innovativo che il suo impatto può essere paragonato solo al decreto sulla scala mobile del 1984. E poi noi facemmo una riforma delle pensioni sacrosanta. Quindi si torna alla Maroni. No. Dobbiamo prendere atto di un intervento recente che, se rimesso in discussione, provocherebbe nuove uscite dal lavoro causate dall’incertezza delle regole. Dovremo trovare il modo di allungare nei fatti l’età pensionabile. Basta l’intervento sugli straordinari per colmare il deficit di produttività italiano? Penso serva anche un piano straordinario per la formazione che integri i fondi statali e europei con le volontà delle Regioni e delle parti sociali e che, dal punto di vista ideale, risponda al principio che l’impresa è un luogo idoneo a formare il lavoro. Il contrario di quanto fatto finora, in cui la formazione è avvenuta soprattutto all’esterno e ha fatto la gioia solo dei formatori. Capitolo precari. Che politiche servono? Si deve ripartire dal Libro Bianco e, accanto all’indennità di disoccupazione al 60 per cento, favorire la creazione di un secondo pilastro di ammortizzatori sociali organizzato in forma mutualistica, concordato tra le parti sociali e affidato a organismi bilaterali. Poi c’è il problema dell’aumento della contribuzione previdenziale senza che i lavoratori abbiano la piena totalizzazione di quello che pagano: dovremo riconoscere, soprattutto ai giovani, la possibilità di disporne anche verso la previdenza completare.

Le prime misure saranno detassare gli straordinari e i premi dei salari. Dopo, per aumentare il grado di produttività, vogliamo incentivare la formazione dall’interno delle aziende. Più tutele per gli atipici

suno. Prima che sette di loro morissero arsi vivi alla Thyssenkrupp di Torino nemmeno i comunisti si ricordavano bene chi fossero gli operai. La sinistra plurale preferiva inseguire i bisogni secondari: teorizzare sulle differenze di genere, spiegare le virtù del multiculturalismo. È bastato un turno elettorale per cancellare dalla geografia politica italiana quello che ormai era solo un equivoco. E però adesso chi si occupa degli umili? Chi ci resta a proteggere chi lavora? A garantire loro una vita che non sia scandita sui ritmi del termitaio cinese? Dissoltasi nell’acido del mercatismo la cultura della sinistra che fu – che del primo maggio, prima che arrivassero i concerti, faceva la festa laica per eccellenza – ci sono rimasti solo i cristiani a ricordare che al centro del lavoro c’è la persona e non il profitto. Che solo la pausa eleva il lavoro a ideale. Lo scorso agosto Benedetto XVI sulle orme di San Bernardo da Chiaravalle metteva in guardia dai pericoli di «un’attività eccessiva che indurisce il cuore». Nel De consideratione San Bernardo scriveva «Le troppe occupazioni non sono altro che sofferenza dello spirito, smarrimento dell’intelligenza, dispersione della grazia». Sine dominico non possumus! risposero del resto nell’anno 304 alcuni cristiani di Abitene sorpresi nella Celebrazione eucaristica domenicale, che era proibita: ”Senza la domenica non possiamo vivere”. Benedetto XVI ha ricordato questa frase nel settembre scorso nella cattedrale di Santo Stefano a Vienna: «La domenica, la festa, dà al nostro tempo, un ritmo, un ordine, una pausa di elevazione». Morto il socialismo resta il cristianesimo a difendere dal profitto la dignità del lavoro e della persona.

i comunisti fuori dal Parlamento, il Pd che elegge gente come Pietro Ichino, i sindacati che si mettono da soli a scrivere una proposta di riforma delle regole di contrattazione. Un’aria se non di pacificazione, almeno di appeasement sociale che la Repubblica ha conosciuto raramente. «Sono molto ottimista», dice a Liberal, «Credo che siamo vicini alla rottura degli schemi che hanno caratterizzato il lungo Sessantotto italiano». Parole accorte, di un uomo a cui molti vaticinano un futuro proprio da ministro del Welfare e che scriverà la maggior parte delle misure in politica del lavoro. Questa volta potrete mettere mano alla riforma dello Statuto dei lavoratori? Come si sa, sono legato all’idea dello Statuto dei lavori anziché dei lavoratori, però oggi è importante soprattutto cominciare la legislatura con il consolidamento e la semplificazione delle regole del lavoro. Penso comunque che si possa procedere nelle commissioni parlamentari e sono sicuro che il governo guarderebbe con favore a un’iniziativa del genere. Aspetterete l’accordo sindacati-imprese sulla riforma dei contratti per varare la detassazione degli straordinari? No, partirà subito e aiuterà il cambiamento delle relazioni sindacali. La nostra idea è rovesciare il sistema basato sulla penalizzazione del salario


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politica

Nominati vicepresidente e coordinatore di Forza Italia in vista della fusione con An: un derby imprevedibile

Formigoni-Verdini, la strana coppia d i a r i o

d e l

g i o r n o

Napolitano riceve Schifani e Fini Acquisita dopo quella di Renato Schifani anche l’investitura di Gianfranco Fini (consacrato ieri mattina dall’assemblea di Montecitorio con 335 voti), il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha ricevuto nel tardo pomeriggio i neoeletti presidenti di Camera e Senato al Quirinale. Del discorso di insediamento di Fini, il presidente della Repubblica ha parlato in termini positivi come aveva fatto per quello di Schifani: «Certamente non è stato un discorso di parte». Napolitano ha particolarmente apprezzato le parti dell’intervento in cui Fini ha parlatyo del lavoro e della sicurezza sul lavoro.

Alemanno si insedia: «Via l’Ara pacis»

di Errico Novi

ROMA. Chi ha sperimentato quel metodo in Fininvest ne parla con il tono di un sopravvissuto: «Marcello Dell’Utri era un capo straordinario ma ci faceva soffrire le pene dell’inferno: per stimolarci a dare il massimo ci metteva l’uno contro l’altro, scatenava competizioni durissime e ci teneva sempre sotto pressione». Poi nessuno veniva estromesso o sottoposto a pene crudeli, ma il percorso di guerra lasciava i suoi segni. Silvio Berlusconi crede ancora nell’efficacia di quel sistema e continua a utilizzarlo all’interno di Forza Italia. Che da ieri vede più o meno affiancati Roberto Formigoni e Denis Verdini: «Insieme avranno il compito di gestire con i rappresentanti delle altre forze che hanno aderito al Popolo della libertà il processo costituente del nuovo grande movimento politico», dice un comunicato di Sandro Bondi. Da una parte il governatore lombardo, a cui va l’incarico di vicepresidente degli azzurri in temporanea coabitazione con Giulio Tremonti, dall’altra il deputato toscano, massese di Fivizzano esattamente come il predecessore Bondi, che diventa coordinatore organizzativo. Strana coppia, non c’è dubbio, che si giocherà una partita delicatissima: la transizione del più grande partito italiano verso un nuovo enorme aggregato politico. Dei due il più ambizioso è senz’altro Formigoni, da anni indicato tra i possibili eredi di Silvio. Avrebbe voluto partecipare alla competizione partendo da un ruolo più visibile, da ieri la sua esclusione dal governo ha il crisma dell’ufficialità, ove mai questa fosse ancora neces-

Ambizioso il primo, che ha dalla sua la struttura di Cl, riservato il secondo, che conosce meglio di tutti la macchina del partito: gestiranno la fusione con An

«Ci sarà un testa a testa», scommise. E i fatti gli avrebbero dato ragione. Tra i dirigenti azzurri,Verdini - che già prima di ieri era il numero tre del coordinamento nazionale dietro Bondi e Cicchitto – è uno dei più schivi. Davvero quella delle Politiche 2006 è l’eccezione che conferma la regola, perché per il resto è sempre stato lontano dai riflettori e concentrato sulla macchina del partito, fino ad assumersi le responsabilità più fatidiose, compresa quella della compilazione delle liste. È amministratore delegato del Foglio e presiede il Credito cooperativo fiorentino, ed è soprattutto l’uomo di ferro a cui Berlusconi si affida per gestire la fusione con An. Missione assai delicata, in cui bisognerà far pesare un’organizzazione come quella forzista considerata in genere più debole di quella finiana. Probabilmente nei fatti non è così, ma ci vorrà un negoziatore molto fermo proprio come Verdini per farlo presente.

necessariamente più complicata: dipende da lui, dalla forza che dimostrerà di avere nel confronto gomito a gomito con Verdini. Formigoni potrà mettere in campo il peso della struttura di Comunione e liberazione, corpo da sempre dotato di una sua autonomia rispetto a via dell’Umiltà. Ma dovrà vedersela con un cliente difficilissimo, quel Verdini che fu l’unico ad avere il coraggio di misurarsi con le telecamere il 10 aprile del 2006, quando tutti gli exit poll davano l’Unione di Prodi in vantaggio di cinque punti:

E se non sarà semplice per uno come Ignazio La Russa è facile immaginare che giornate attendano Roberto Formigoni. È stato proprio lui dopo la sconfitta al fotofinish delle elezioni di due anni fa a sollecitare un nuovo statuto e nuove regole congressuali per Forza Italia. Adesso avrà l’opportunità di disegnare il passaggio politico più importante da una posizione privilegiata. Dovrà costruire alleanze sul territorio, non può certo illudersi che bastino Cl e la Lombardia. Ma da questo punto di vista Verdini parte con un largo vantaggio.

saria: «Il presidente Berlusconi ha chiesto al presidente Formigoni», si legge nella nota di Bondi, «di continuare a guidare la Regione Lombardia per proseguire l’esperienza di buon governo anche in vista dell’Expo».

Ha parlato dei «tanti no che bisogna dire», il futuro premier, come di una «cosa dolorosissima». Tra questi devono esserci anche le obiezioni opposte al pressing del governatore lombardo. Il quale può coltivare adesso il sogno della leadership per una strada diversa da quella che aveva immaginato. Non

Si è svolta ieri in Campidoglio la cerimonia di insediamento del nuovo sindaco di Roma Gianni Alemanno. «Entro metà maggio avremo la nuova giunta», ha assicurato nel corso della sua prima conferenza stampa. Il primo cittadino ha affrontato anche la questione dell’Ara pacis, sulla quale tutto il centrodestra aveva a suo tempo duramente contestato Walter Veltroni: «Credo che la teca di Richard Meyer che protegge il monumento sia un intervento invasivo da rimuovere ma, ovviamente, non è una priorità». Più in generale Alemanno ha detto che la sua amministrazione si impegnerà «a rivedere gli interventi negativi fatti nel centro storico dalla precedente giunta ma ovviamente ci sono prima da affrontare altre emergenze». Alemanno ha commentato anche la contemporanea elezione di Fini a presidente della Camera: «Insieme con la mia vittoria qui a Roma si completa un percorso per la destra».

Soro presidente con 50 voti in meno Antonello Soro è stato eletto ieri mattina presidente del gruppo del Pd alla Camera con 160 voti su 208. Un esito scontato dopo le consultazioni informali di tutti e 211 i deputati (organizzate dal partito) che ne avevano preannunciato la nomina. Ma che evidenzia comunque alcune consistenti sacche di dissenso. Non solo perché dieci voti sono andati in ogni caso a Pier Luigi Bersani, suo più accreditato rivale se ci fosse stato quel ballottaggio che i vertici del Pd hanno voluto evitare; ma anche perché sono state ben 35 le schede bianche, tre gli astenuti e sempre tre i voti ”dispersi”, attribuiti rispettivamente a Walter Veltroni, Gianni Cuperlo e Massimo Zunino.

De Gennaro a Palazzo Grazioli In un lungo incontro a Palazzo Grazioli è stato fatto ieri pomeriggio il punto della situazione sull’emergenza rifiuti in Campania. Il commissario straordinario Gianni De Gennaro ne ha discusso con il presidente del Consiglio in pectore Silvio Berlusconi ed il futuro sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta. Nel corso del colloquio, si è parlato anche della scadenza, prevista per l’8 maggio, del mandato di De Gennaro.

La Svimez: federalismo è incostituzionale Secondo il presidente della Svimez Nino Novacco ci sono rischi di incostituzionalità nel federalismo fiscale: «Al di là di ogni questione di natura tecnica, vadano tenuti fermi i principi che la Costituzione della Repubblica stabilisce. Per le questioni dell’andamento finanziario e dell’ordinamento finanziario dello Stato vale il principio dell’uguaglianza dei cittadini, dovunque essi risiedano. Scelte fiscali che in via di fatto, precludano, agli Enti più poveri l’esercizio dell’autonomia, sono contrarie alla tenuta civile dell’ordine costituzione in Italia».


politica

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ROMA. Dicono le malelingue di Montecitorio che da ieri Gianfranco Fini si è politicamente murato vivo nelle dorate stanze che già non furono d’auspicio per Fausto Bertinotti, suo predecessore. E che invece, non lontano da lì, Gianni Alemanno è salito al Campidoglio, celebrando davvero un «anno zero» della politica e aprendosi un potenziale futuro che fino a ieri non c’era. Epperò, nel suo non caldo ma ecumenico discorso di insediamento come presidente della Camera (11 pagine, 17 minuti di orazione), il leader di An è riuscito - da laico - a strappare il plauso dei cattolici più intransigenti. E - pur dichiarandosi uomo di parte - a seminare quanti andavano cercando tra le sue parole un’altra più o meno impercettibile svolta post-Fiuggi. Nell’uno e nell’altro caso Fini è andato ben oltre. C’era infatti molto di più del dichiarato «deferente omaggio» a Papa Benedetto XVI, nel suo primo discorso da presidente. C’era una declinazione originale - e in linea con la battaglia che il Pontefice va conducendo da tempo contro la «dittatura del relativismo» - del concetto di libertà e dei rischi che la insidiano, ossia il «relativismo culturale e morale».

Fini spiazza così chi era pronto a vivisezionare ogni sua parola alla ricerca dell’ennesima condanna dell’ideologia fascista. Da subito imprime alla sua presidenza un carattere «bipartisan», citando due date simbolo per la sinistra: la festa della Liberazione del 25 aprile (che lui però chiama «della Libertà», senza riferimenti al fascismo) e quella del Primo Maggio. «Giornate in cui si onorano valori autenticamente condivisi e avvertiti come vivi e vitali da tutti gli italiani», dice il primo presidente post-missino di Montecitorio, per poi aggiungere che «coloro che si ostinano ad erigere steccati di odio o a negare le infamie dei totalitarismi sono pochi quanto isolati nella coscienza civile degli italiani». Fini infatti considera ormai «traguardi raggiunti» la «ricostruzione di una memoria condivisa, una sincera pacificazione nazionale, nel rispetto della verità storica, tra i vincitori e i vinti di ieri».

Ma oggi, aggiunge sapendo di sorprendere, il bene «insostituibile» della libertà è in pericolo. «La minaccia non viene dalle ideologie antidemocratiche del secolo scorso, che sono ormai sepolte nella quasi totalità delle coscienze del nostro popolo, con il Novecento che le ha generate». «L’insidia maggiore -

democrazie liberali, è il nocciolo stesso della laicità e della libertà».

Il discorso d’insediamento alla Camera del leader di Alleanza nazionale

La svolta di Fini, il neo presidente si schiera con il Papa di Susanna Turco conviene con il Papa Fini - viene dal diffuso e crescente relativismo culturale e morale: dall’errata convinzione che libertà significhi pienezza di diritti e assenza di doveri e finanche di regole». «La libertà è minacciata nello stesso momento in cui nel suo nome si teorizza la presunta impossibilità di definire

esprimere le inquietudini dei cittadini») e Rocco Buttiglione, ma pure la teodem Paola Binetti. La deputata del Pd trova infatti che Fini abbia «dimostrato grande sensibilità al tema della ricerca della verità. Ha ricordato a tutti l’obbiettivo di vivere le proprie idee, diciamo scolpite e non in forma liquida. E ha ri-

piddino Andrea Sarubbi, che prima applaude Fini (ma «solo per cortesia»), poi lo accusa di strumentalizzare la Chiesa. Assai più perplessa Rosy Bindi che, pur «promuovendo» complessivamente in discorso trova «non condivisibile e in un certo senso preoccupante che si assegni alla politica il compito di de-

«La minaccia alla libertà non viene dalle ideologie antidemocratiche del secolo scorso, che sono ormai sepolte. L’insidia maggiore viene dal diffuso e crescente relativismo culturale e morale» ciò che è giusto e ciò che non lo è», conclude affidando a Parlamento e politica «il dovere primario» di una difesa della «libertà autenticamente intesa».

Parole che piacciono a Pier Ferdinando Casini («ha saputo

proposto la necessità di ripartire dai fondamentali, superare ogni ambiguità, richiamando tutti all’osservanza dei diritti ma anche dei doveri, in un contesto in cui su questo secondo punto si registra una certa distrazione». Incerto il cattolico

finire una gerarchia di valori. Dovrebbe essere, credo, esattamente il contrario». Ma a criticare esplicitamente questo passaggio così delicato sono in pochi, tra cui il socialista Franco Grillini, per il quale «il tanto vituperato relativismo etico, nelle

Nessuna obiezione, quindi, per gli altri - assai meno controversi - passaggi del discorso finiano. Come quello sul carattere «costituente» della sedicesima legislatura. «Non siamo all’anno zero», dice, convinto che sia necessario tutti insieme «definire una nuova architettura costituzionale», che «nel nome di un autentico interesse nazionale» conduca ad una democrazia «più rappresentativa e più governante». «Sono anch’io un uomo di parte, fortemente convinto della bontà dei valori che hanno ispirato il mio impegno politico», mette in chiaro, richiamandosi poi al «principio irrinunciabile della laicità delle istituzioni» unito al riconoscimento del «ruolo fondamentale della religione cristiana»; l’invito, soprattutto nella culla del Mediterraneo, al «reciproco rispetto» tra cultura ebraico-cristiana e Islam. E infine, alla vigilia del Primo Maggio, un incoraggiamento a «confrontarsi con il tramonto delle ideologie classiste e veteroliberiste del Novecento» per vincere la sfida della globalizzazione con risposte (anche queste bipartisan) «capaci di rafforzare la credibilità delle istituzioni e di far imboccare al Paese la via della ripresa economica, dello sviluppo e della giustizia sociale». Resta il tempo per rendere onore ai cittadini caduti per servire la patria, dalle forze dell’ordine ai magistrati passando per i militari. Di indicare «la famiglia e la scuola come i luoghi dove si formano i cittadini di domani». Di definire il Mediterraneo «epicentro del pianeta», luogo di nascita e d’incontro delle tre religioni monoteiste e per questo punto da dove far ripartire la pace o farla precipitare «nel baratro di quello scontro tra civiltà evocato e invocato dagli integralisti». Alla fine applausi bipartisan e in piedi. Dall’Austria il presidente Napolitano fa arrivare la sua soddisfazione: «Intervento non di parte, adesso spero in un confronto costruttivo in Parlamento». La seduta è sciolta. L’Aula è riconvocata per martedì. C’è il tempo per un brindisi - Ferrari - tra vecchio e nuovo, Fini, Berlusconi, Bertinotti, D’Alema (Veltroni è in clinica per un problema di calcoli renali) alzano insieme il calice. Resta il tempo anche per qualche battuta e di inviti a cena: D’Alema sarà «volentieri» ospite del senatur in Padania perchè «dobbiamo parlare insieme di federalismo. Lo ha detto Fini...».


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pensieri

La ’ndrangheta è l’organizzazione criminale più potente, ma anche la meno conosciuta. Ecco perché

Come funziona l’al Qaeda di Calabria di Giancristiano Desiderio

a ‘ndrangheta è misteriosa nel nome e nella cosa. Il nome è di origine incerta, forse grecanica, deriva forse da andragathos e significa uomo valoroso. Ma la ‘ndrangheta non è questione filologica: è questione di vita e di morte. Ecco perché desta stupore il sentire e il leggere che la criminalità organizzata calabrese, per quanto oggi sia la mafia più forte, agguerrita, aggressiva, influente, è molto poco conosciuta. La ‘ndrangheta comanda, minaccia, controlla, governa, uccide, ma era e resta un oggetto misterioso. Perché? Prima l’omicidio Fortugno, poi la strage di Duisburg: e l’Italia

L

stralia, Spagna, Colombia, Francia, Canada. Il Parlamento italiano ha finalmente riconosciuto questo nuovo e triste primato casalingo con la relazione della Commissione antimafia: «Nella Calabria di oggi gran parte delle attività economiche, imprenditoriali e produttive sono condizionate, infiltrate e alcune dirette dalle cosche della ‘ndrangheta». Lo stesso attentato con autobomba contro Antonino Princi, imprenditore di Gioia Tauro, testimonia l’intreccio perverso tra economia e criminalità: Princi era considerato la mente finanziaria dei Piromalli, la famiglia di ‘ndrangheta più potente. La

L’omicidio di Francesco Fortugno ha fatto conoscere il fenomeno nel mondo. Quando è stato arrestato Pasquale Condello la stampa internazionale lo ha paragonato a Bernardo Provenzano

- non solo il mondo - scoprì la ‘ndrangheta. Un esempio fa capire meglio: quando recentemente è stato arrestato Pasquale Condello, detto il Supremo, stampa e televisioni per dire chi fosse lo hanno paragonato a Bernardo Provenzano. Non solo. Per rendere al meglio la pericolosità dell’organizzazione criminale calabrese si è utilizzato un paragone con al Qaeda. Questo perché la tipologia e la storia del crimine calabrese sono poco studiati, poco conosciuti e avvolti nel mistero. Nonostante - ecco il paradosso - la ‘ndrangheta sia la mafia più forte, più flessibile, più dinamica e più affidabile nel traffico internazionale della droga, la più radicata in Italia, nelle regioni del centro e del nord, e anche all’estero: Germania, Au-

‘ndrangheta è suprema. Ma l’Italia lo ignora, o quasi. Forse non è un caso se a pubblicare un documentato libro sul fenomeno criminale calabrese sia oggi proprio un editore calabrese come Rubbettino: il volumetto ‘Ndrangheta di Enzo Ciconte (storico calabrese e docente di “Storia della criminalità organizzata”, perché non bisogna farsi mancare niente) racconta, analizza e finalmente studia il fenomeno criminale calabrese che, per la sua struttura organizzativa a base familiare, sfugge al “pentitismo”ed è così la più affidabile agli occhi delle altre organizzazioni criminali e dei cartelli internazionali del traffico della droga. Quando il 15 agosto 2007 - la strage di Ferragosto - in Germania, a Duisburg, la ‘ndran-

gheta uccise sei persone, tutte provenienti da San Luca, ci si chiese: ma perché la ‘ndrangheta va ad uccidere in Germania? Cosa c’entra la Calabria con la Germania? Perché la vulgata sulla ‘ndrangheta è quella di una mafia di serie B: i criminali calabresi sono i cugini poveri dei mafiosi siciliani. La Calabria stessa, una splendida terra dove mare e terra e cielo si incontrano più che altrove, sembra essere una regione per caso, una terra senza storia. Tutti conoscono almeno un film celebre che racconta la mafia. Qualcuno saprebbe indicare un film o un romanzo che parlino della ‘ndrangheta?

Il fenomeno è poco conosciuto e avvolto nel mistero ma comanda, minaccia, controlla, governa e uccide

Dopo la strage di Duisburg dell’agosto 2007 tutti si sono meravigliati che gli affari di una famiglia da un piccolo paesino della locride fossero arrivati anche nella lontana Germania

Nella percezione comune, ma anche negli studi e nella produzione letteraria e cinematografica, la ‘ndrangheta o non esiste o è considerata un fenomeno minore, addirittura marginale e folkloristico. Niente di più falso. E pericoloso. La ‘ndrangheta è semplicemente potente. Il decennio degli anni Novanta, mentre i corleonesi pensavano e realizzavano le stragi di Capaci e via D’Amelio, la ‘ndrangheta si rafforzava, si espandeva, si ramificava in Italia, in Europa, nel mondo con droga, armi, riciclaggio, appalti: «Negli anni a cavallo del passaggio dei due millenni e fino ad oggi, centinaia e centinaia di operazioni e di inchieste della magistratura, della Dia, della polizia, dei carabinieri, della

Oltre a essere radicata in Italia per il traffico di stupefacenti è potente anche in Germania, Australia, Spagna, Colombia, Francia e Canada

guardia di finanza e dei loro corpi specializzati hanno messo in luce le caratteristiche della ‘ndrangheta mostrando come essa sia oramai davvero l’organizzazione più ramificata e radicata territorialmente nelle regioni del centro-nord e in molti paesi stranieri». Altro che mafia di serie B, qui è la mafia ad essere una ‘ndrangheta minore. Anche in politica? Il rapporto tra ‘ndrangheta e politica è di ieri, di oggi e sarà di domani. In discussione non è la cosa, ma la sua forma. Non sono più i tempi in cui sul lungomare di Reggio Calabria era possibile incontrare sotto

Lo storico calabrese Enzo Ciconte in un libro racconta come la struttura organizzativa a base familiare che sfugge al ”pentitismo” è più affidabile agli occhi delle altre organizzazioni

braccio Paolo De Stefano e Lodovico Ligato. Altri tempi. L’ex deputato della Dc fu ucciso il 26 agosto 1989 davanti alla sua villa. Il 16 ottobre 2005 Francesco Fortugno, vice presidente del Consiglio regionale della Calabria, fu ucciso davanti al seggio elettorale durante le votazioni per le primarie dell’Unione. Messaggio elementare: non c’è politica senza ‘ndrangheta. Il processo contro i presunti autori e mandanti dell’omicidio Fortugno apre le porte dell’inferno calabrese: i confini tra interessi politici e interessi di ‘ndrangheta sono molto, molto labili. Un motivo in più per conoscere cosa sia e come pensa e agisce la ‘ndrangheta: il fenomeno criminale più organizzato, il fenomeno più misterioso.


&

parole

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Gli sceriffi del Nord. Viaggio tra i sindaci leghisti/3 Massimo Garavaglia

Dove nacque l’Italia trionfa la Lega

ROMA. Il 4 giugno del 1859 nella celebre battaglia di Magenta l’Italia (con l’aiuto di Napoleone III) vinse la sua seconda guerra d’indipendenza dagli austriaci. Dopo quattro giorni Vittorio Emanuele II e l’imperatore francese entravano vincitori in Milano sfilando sotto l’Arco della Pace in corso Sempione. Teatro di quel sanguinoso scontro fu la campagna intorno a Marcallo, a pochi chilometri dal capoluogo lombardo. Undici anni dopo Marcallo ha unito il nome e le proprie sorti amministrative con quelle di Casone. Dal 1999 questo curioso “bicomune” è governato dalla Lega Nord. Lo guida Massimo Garavaglia che ha da poco compiuto 40 anni, ed è stato appena eletto a Palazzo Madama tra le fila del Carroccio, si tratta del più giovane senatore della storia della Repubblica Italiana. Potremmo dire che Garavaglia ha inaugurato il corso dei giovani sindaci leghisti di successo, quando si è ripresentato al voto dopo il primo mandato, nel 2004, è stato riconfermato con oltre il 61 % dei voti. Da notare che la sua giunta comunale è un monocolore leghista: destra, sinistra e centro sono all’opposizione da un decennio. Senatore o sindaco Garavaglia, mi sembra un testimone autorevole dell’esistenza di un modello amministrativo targato Lega Nord. E come molti suoi colleghi è stato premiato dal suo partito con un seggio in Parlamento. Crede di esserselo meritato? Non lo so, ma so che la Lega è un movimento democratico; sceglie i propri candidati su base territoriale e facendo questo è come se tenesse le elezioni primarie. E’ logico che gli amministratori locali sono più conosciuti e se hanno operato bene hanno più chance di essere candidati. Si ricorda del suo primo giorno come sindaco di Marcallo con Casone? Quale fu la prima emergenza da affrontare? Ci siamo trovati subito un problema pesante da risolvere. Facemmo una grande bonifica ambientale poiché l’ex assessore dei verdi ci aveva lasciato in eredità un capannone enorme con i rifiuti dentro che andò a fuoco. Abbiamo scelto di bonificarlo con i nostri soldi, piuttosto che aspettare che arrivassero da fuori. Tra un anno dovrà consegnare il comune nelle mani di un successore, quale sarà il suo bilancio di questa lunga esperienza amministrativa? Abbiamo tenuto il bilancio in un prezioso equilibrio. Con tasse al minimo e buoni servizi. Da quando mi sono insediato ho ridotto il personale del 20%. Abbiamo fatto asili, case di riposo, strade, il palazzo comunale. L’ultima opera sarà un grande polo culturale con annesso teatro che realizzeremo restaurando una chiesa del 1700. Beh, complimenti.

colloquio con Massimo Garavaglia di Nicola Procaccini

In alto, Massimo Garavaglia, 40 anni interviene ad un comizio della Lega Nord A sinistra, il palazzo del comune di Marcallo con Casone

Basta voler bene al proprio paese. Ciò di cui vado più orgoglioso è l’aver creato un senso di comunità che prima non c’era. In città c’è almeno un evento a settimana. Abbiamo una fiera che richiama 50000 persone. Creiamo occasioni per ritrovarsi in piazza e questo fa bene per-

coniuga con le politiche tipicamente leghiste di controllo del territorio: sicurezza, video sorveglianza, lotta all’immigrazione clandestina, al nomadismo. Ha fatto anche Lei delle ordinanze anti-immigrati, come molti altri sindaci della Lega? Sì, ma soprattutto abbiamo tenuto sottocchio la questione della sicurezza igienica e del rispetto degli standard sanitari per gli appartamenti presi in affitto. Attraverso questo lavoro, fatto sistematicamente, si può selezionare chi ha un reddito e viene per lavorare rispetto a chi viene per delinquere.

Ciò di cui vado più orgoglioso è l’aver creato un senso di comunità che prima non c’era. Quando la gente è contenta di ritrovarsi in piazza guarda un po’ meno la televisione ché la gente esce di casa ed è contenta, e guarda un po’ meno la televisione. Ma qual è il tratto comune alle amministrazioni leghiste, secondo Lei? Abbiniamo lo spirito giusto alla politica del tombino. La buona amministrazione richiede un’attenzione spasmodica anche agli arredi, alle aiuole, ai fiori. La cura dell’aspetto estetico della città si

Domanda d’attualità. Ha sentito delle polemiche su Bossi a proposito del tricolore? Che bandiere ci sono nel suo ufficio? La bandiera lombarda e quella padana. Quindi anche per lei… Semplicemente il tricolore italiano c’è già fuori dal comune, ed è giusto così, insieme alla bandiera della città. Due domande personali per con-

cludere. Nella sua biografia vedo che ha due lauree e faceva il docente di matematica, che cos’è per Lei la politica? Guai se la politica fosse un lavoro. Quando un politico non ha alternative diventa troppo vulnerabile ai compromessi. Soprattutto, non dimentico mai che la politica è protempore, instabile. Io ho due figlie e devo dargli da mangiare in ogni caso. Guai poi se si perde il contatto con la realtà, io mi occupo di bilancio, di economia ed ho bisogno restare con i piedi per terra per accorgermi di ciò che succede intorno a me. Chi vive solo nel Palazzo non ha idea di cosa avvenga fuori e le sue soluzioni sono sempre sbagliate. Nella Sua biografia leggo che è amante della musica, batterista e fondatore di un gruppo di musica dialettale chiamato Gamba de Legn. Sa che in questo momento in cima alle classifiche si trova un certo Davide Van De Sfroos che canta rigorosamente in dialetto lumbard? Sì e fa piacere perché è anche una questione di semplicità. Noi abbiamo imparato prima il dialetto e poi l’italiano. Certe cose ti vengono più spontanee in dialetto. La prima lingua non si scorda mai.


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mondo Londra oggi alle urne per eleggere il nuovo sindaco

LONDRA. Oggi i cittadini di Londra eleggeranno il loro sindaco. La sfida, sempre più pressante, si gioca tra il laburista Ken Livingstone, attuale primo cittadino della capitale, e l’esuberante ma poco esperto conservatore Boris Johnson, rampollo dell’alta società cresciuto a Eton e Oxford. Ben due sondaggi pubblicati alla vigilia di queste elezioni amministrative danno Ken “il Rosso” quasi per vinto. Stando ai risultati usciti sul quotidiano pomeridiano Evening Standard, ci sarebbe uno scarto di ben undici punti percentuali tra i due contendenti. Livingstone, che corre per un terzo mandato, rischia di non prendere piu’ del 35 percento dei suffragi, mentre Johnson potrebbe trionfare con il 46 percento dei consensi. Una sconfitta annunciata anche dal sondaggio ComRes apparso sull’Independent, secondo cui il partito Tory avrebbe un vantaggio addirittura superiore, di quattordici punti percentuali. Certo, non è ancora detta l’ultima parola. Gli elettori indecisi i famosi “swing voters” che alla fine determineranno l’esito della votazione - sono numerosi e molto dipenderà dal sistema elettorale, basato sulle prime e seconde preferenze. Oltre alla capitale, domani si voterà in altre importanti città dell’Inghilterra e del Galles tra cui Liverpool, Cardiff e Birmingham.

Le elezioni amministrative rappresentano il primo banco di prova per il governo laburista di Gordon Brown, in crisi dopo l’ondata di scioperi che ha colpito il Paese. Ma la partita londinese resta il vero ago della bilancia degli equilibri politici nazionali: se Livingstone perde, insieme a lui crolla la roccaforte laburista che per otto anni ha governato una delle più grandi capitali del mondo. Inoltre, una vittoria di Johnson rafforzerebbe la leadership conservatrice del giovane David Cameron. Gordon Brown, che ieri con Livingstone ha visitato alcuni quartieri-chiave di Londra, sa che la posta in gioco è alta. Lo stesso Ken non si fa troppe illusioni, sa che la distanza tra lui e Johnson è davvero minima e che le ultime ore saranno cruciali per mobilitare il maggior numero di sostenitori. In questa corsa disperata a racimolare più voti possibili, il web diventa fondamentale. Sul suo sito internet istituzionale Ken “il Rosso”ha lanciato un’ultima chiamata alle armi ai suoi fan, quasi un grido di soccorso. Per raccogliere il supporto di tutti i “suoi londinesi”ha pubblicato una mappa con i luoghi principali della città dove chi

Ken Livingstone “vede rosso” Boris Johnson spera di Silvia Marchetti vuole può aiutarlo di persona: punti di volantinaggio alle stazioni della metropolitana, luoghi di raccolta e distribuzione di materiale elettorale e di cartoline con l’elenco di tutte le cose positive che Ken ha fatto per Londra, istruzioni per convincere gli indecisi andando a bussare porta a porta o tramite telefono. Una corsa contro il tempo, nella quale ognuno può dare un piccolo contributo, come affiggere un semplice poster con la faccia di Livingstone alla finestra. In-

somma, l’obiettivo è spingere i simpatizzanti di sinistra alle urne ricordando loro che «le elezioni non sono uno scherzo». Sul sito vengono forniti tutti i numeri di contatto degli attivisti elettorali, quartiere per quartiere. Il tempo è prezioso e gli amici di Ken gireranno per le strade di Londra anche do-

mani, sfruttando l’ultimo minuto utile. In gioco c’è anche il voto degli elettori liberaldemocratici, guidati da Nick Clegg. Il sistema elettorale riconosce la seconda preferenza e i Lib Dem, dopo il loro candidato a sindaco Brian Paddick (con il 12 per cento del consenso), dovranno fare un’ulteriore scelta tra Ken e Boris. Livingstone, per conquistare la loro preferenza, ha scritto una lettera aperta agli elettori Lib Dem, ricordando i “valori comuni” che

Anche la religione tra i temi chiave del voto

È aperta la caccia ai fedeli LONDRA. Nella corsa per diventare il futuro sindaco di Londra la religione gioca un ruolo chiave. I candidati in corsa si sono lanciati alla conquista del voto dei fedeli delle varie confessioni. Stando a un sondaggio effettuato dall’organizzazione cristiana Tearfund, nella capitale il 73 percento dei cittadini si dice «religiosa» e prega quotidianamente. E così Londra, tra le più grandi città multietniche al mondo, per la prima volta nella storia scopre la sua profonda fede spirituale. Gli aspiranti sindaci hanno capito il potenziale elettorale di questo grande “meltingpot”e sperano di racimolare il voto di cattolici, protestanti, sikh, hindu, musulmani ed ebrei facendo visita ai diversi luoghi di culto. «Non si puo’ governare senza l’appoggio delle comunità religiose - ha detto Ken Liv-

ingstone, da sempre sostenitore di una politica di apertura multiculturale - considerando che a Londra c’è il maggior numero di credenti di ogni altra città del Regno Unito, non si può pensare di prenderne le redini senza avere il loro sostegno». Boris Johnson, pur non rilasciando nessuna dichiarazione ufficiale, ha partecipato al festival sikh a Southall, ha visitato moschee e il tempio hindu di Neasden e ha pranzato con i membri del Jewish Forum. Queste elezioni vedono un forte attivismo da parte dei gruppi religiosi, pronti a presentare al futuro sindaco di Londra una roadmap di priorità. L’Alleanza Evangelica e il Consiglio Induista hanno distribuito opuscoli di approfondimento politico per i seguaci, con una serie di domande utili a scegliere il candidato migliore. (S.M.)

uniscono laburisti e liberaldemocratici e promettendo di distribuire alcune poltrone ai membri del partito Lib Dem in caso di vittoria al Comune. Entrambi i laburisti e i liberaldemocratici, scrive Ken, appartengono alla stessa “tradizione progressista” e la pensano allo stesso modo su ambientale e welfare.

Resta il fatto che la scelta non sarà facile perché nessuno dei due sfidanti è riuscito fino a oggi a polarizzare il voto. Ken Livingstone ha migliorato i trasporti pubblici e ha ridotto il traffico automobilistico nel centro di Londra grazie all’introduzione della congestion charge, l’ecopass, ma ha perso in popolarità dopo alcuni scandali per corruzione che hanno investito certi suoi stretti collaboratori. Inoltre, dopo due mandati consecutivi molti londinesi sono stufi di vederlo alla guida della capitale e vorrebbero un volto nuovo. Ma se Ken rappresenta la “vecchia guardia” senza più alcuna novità da offrire, il suo concorrente Boris Johnson, giornalista d’assalto ex direttore di The Spectator famoso per le sue frequenti gaffes, incarna l’immagine del “nuovo” sindaco privo, tuttavia, di qualsiasi esperienza amministrativa. Non a caso, i conservatori hanno subito messo le mani avanti sostenendo che in caso di vittoria Johnson potrà contare su un team di esperti collaboratori. Una cosa è certa: l’esito del voto londinese avrà ripercussioni a livello nazionale, sia in casa Labour che Tory. A mettere in ulteriori difficoltà i laburisti le dichiarazioni rilasciate in una sua autobiografia dall’ex tesoriere del partito, Lord Levy. Nel suo libro Levy sostiene che Gordon Brown, quando era numero due del partito e ministro dell’Economia, avrebbe complottato per costringere alle dimissioni il suo amico e predecessore, Tony Blair. Ma non finisce qui: Levy afferma inoltre che Blair considerava Brown un bugiardo, incapace di vincere le prossime elezioni contro il leader dei Conservatori, David Cameron. Una testimonianza, quella di Lord Levy, che ha già creato un putiferio dentro il partito del Labour. L’amicizia tra Tony Blair e Gordon Brown è sempre stata ambigua, caratterizzata da una forte rivalità. Ma l’autobiografia di Levy non poteva uscire in un momento politico meno adatto, quando le elezioni amministrative, rese cruciali dal voto di Londra, rischia di mettere in ginocchio il New Labour e di scatenare una pericolosa resa dei conti interna.


mondo

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Forte dei suoi 55 delegati da scegliere nelle primarie democratiche del primo giugno, gioca un ruolo decisivo

Tra Barack e Hillary irrompe Portorico di Raffaele Cazzola Hofmann el pieno delle primarie democratiche al termine delle quali verrà scelto lo sfidante del repubblicano John McCain, il partito di Barack Obama e Hillary Clinton volge lo sguardo verso Portorico. Il governatore dell’isola caraibica che fa parte degli Stati Uniti con uno status di semiautonomia (che si traduce in alcune esenzioni fiscali, ma nella piena ricezione di fondi federali) Anibal Acevedo Vilà è stato rinviato a giudizio per presunti casi di finanziamenti illeciti legati al periodo in cui, tra il 2001 e il 2004, aveva ricoperto la carica di delegato portoricano senza diritto di voto nel Congresso americano. I diciannove capi d’imputazione decretati dalla magistratura potrebbero costare al governatore non meno di venti anni di carcere. In novembre Portorico andrà alle urne per scegliere se dare nuovamente fiducia a Vilà, che quattro anni fa aveva sconfitto l’ex governatore Pedro Rossello con uno striminzito vantaggio dello 0,2 percento al termine di una serie infinita di riconteggi elettorali al cardiopalma, o voltargli le spalle sull’onda dello scandalo. Apparentemente Vilà fa buon viso a cattivo gioco e si presenta sicuro della propria innocenza contrattaccando a sua volta la procuratrice Rosa Emilia Gonzalez e il capo della locale sezione dell‘Fbi che starebbero architettando un caso politico. Anche il suo schieramento, il Partido Popular Democratico, che fra le tre storiche formazioni politiche portoricane è quella che sostiene da sempre l’attuale rapporto di semiautonomia con Washington (a volte dando l’impressione di voler allargare la distanza: l’anno scorso Vilà annunciò contatti per portare in qualche modo il dossier Portorico nelle stanze dell’Onu), sembra sostenerlo in modo compatto. Domenica scorsa, nel corso della convention che lo ha nuovamente investito del ruolo di candidato alle elezioni di novembre, non è stata neanche necessaria una conta formale dei delegati. Vilà ha ricevuto un’autentica ovazione e lo stadio di San Juan, la capitale portoricana, ha cantato in modo compatto: «Altri quattro anni!». Il paradosso è che, mentre Vilà

d i a r i o

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Aperto l’archivio delle vittime del nazismo

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Nel Land tedesco dell’Assia è stato aperto al pubblico il più grande archivio del mondo di documenti riguardanti le vittime del nazionalsocialismo. Si tratta degli atti della Croce Rossa che il responsabile dell’istituzione, Reto Meister, dopo sessanta anni ha deciso di rendere accessibile a studiosi, cittadini e istituzioni. Nella cittadina di Bad Arolsen, si trovano più di cinquanta milioni di informazioni e documenti riguardanti il destino di oltre diciassette milioni di prigionieri dei campi di concentramento, condannati ai lavori forzati e deportati. Negli anni scorsi erano stati digitalizzati settanta anni di documenti. Mentre prima era solo possibile visionare queste fonti, ora si potranno copiare.

Minsk espelle diplomatici americani Il ministero bielorusso degli affari Esteri ha dichiarato ieri «persona non grata», formula che equivale ad una espulsione, diversi diplomatici americani, dopo il rifiuto statunitense di ridurre il personale dell’ambasciata Usa a Minsk.

Jacques Vergès difenderà Tarik Aziz Anibal Acevedo Vilà è stato rinviato a giudizio per presunti casi di finanziamenti illeciti legati al periodo in cui era delegato portoricano senza diritto di voto nel Congresso americano.

adombra in modo più o meno velato il sospetto che l’azione giudiziaria contro di lui sia dovuto al timore delle autorità federali di un suo appoggio indiretto al movimento nazionalista portoricano (autore di alcuni sanguinosi attentati negli anni Settanta e Ottanta), le critiche più dure alla sua ricandidatura siano giunte

Lo statuto di semiautonomia con cui l’isola caraibica è stata associata agli Usa, permette di godere di forti esenzioni fiscali senza che ciò significhi meno fondi federali proprio dal leader del fronte pro-indipendenza totale Garcìa San Inocencio. Secondo cui «la convention del Ppd è stata una farsa» e «il plebiscito per Vilà l‘antitesi della democrazia tipica di una colonia». In altre parole, mentre dalla madrepatria si guarda a Vilà con inquietudine per il rischio di collusioni tra un governatore e movimenti accusati di estre-

mismo, il caso giudiziario viene considerato dagli stessi indipendentisti come una macchinazione montata ad arte da Vilà e da Washington per tenere Portorico saldamente nello status quo e continuare a spartirsi allegramente introiti fiscali e fondi federali.

L’affaire che sta tenendo col fiato sospeso l’isola caraibica, storicamente sempre in secondo piano a livello politico e alla ribalta soprattutto per il suo basso tenore di vita (diecimila dollari annui pro-capite) rispetto alla madrepatria e per il continuo flusso di migranti verso gli Usa, non è un fatto semplicemente locale. Infatti il Ppd è ufficialmente gemellato con i Democratici Usa. Mentre la sfida tra Obama e Clinton è sempre più accesa ed equilibrata, per la prima volta la marginalissima Porto Rico, forte dei suoi 55 delegati da scegliere nelle primarie del prossimo primo giugno, che proprio per l’importanza della posta in gioco rimpiazzeranno gli usuali e più caserecci caucus, potrebbe giocare un ruolo decisivo nella conta finale dei delegati a favore dell’uno o dell’altra aspirante alla nomination presidenziale nelle file democratiche. Non solo. Come tutti i governatori degli Stati americani appartenenti allo schieramento opposto ai Repubblicani, anche Vilà sarà uno dei cosiddetti superdelegati. Quindi siederà di diritto alla convention democratica della prossima estate che dovrà scegliere lo sfidante di McCain potendo esprimere un voto in teoria libero e indipendente rispetto all’esito delle primarie portoricane. Un voto che però, secondo molti osservatori, appare già indirizzato verso Clinton visto che i portoricani residenti negli Usa vivono nella quasi totalità a New York. Cioè una delle roccaforti elettorali dell’ex first lady.

L’avvocato francese Vergès intende difendere l’ex vice primo ministro iracheno di Saddam Hussein. La dichiarazione è stata fatta ieri da Badie Izzat Aref, anche lui avvocato di Tarik Aziz. Jacques Vergès, 80 anni, è celebre per aver difeso in passato militanti e dirigenti della lotta anticoloniale francese, ma anche il nazista Klaus Barbie, il terrorista Carlos e i dignitari del regime cambogiano dei Khmer rossi.

La fiaccola olimpica arriva in Cina Dopo 27 giorni e un percorso attraverso venti Paesi che definire complesso sarebbe un eufemismo, ieri la fiamma dei giochi è arrivata a Pechino. Il giorno prima ad Hongkong vi erano stati piccoli atti di protesta. Dopo gli incidenti di Londra, Parigi, San Francisco, Dehli, Canberra e Nagano, la fiaccola ha avuto il sostegno delle comunità cinesi all’estero. I giochi olimpici verranno inaugurati l’otto agosto a Pechino.

Lega araba in azione La lega araba ha annunciato che i suoi organi incaricati della risoluzione dei conflitti, esamineranno domenica il contenzioso frontaliero tra l’Eritrea e Gibuti, in seguito alla richiesta di quest’ultima. Il consiglio raggruppa cinque membri: Arabia Saudita, Sudan, Algeria, Tunisia e Gibuti. La tensione tra i due Paesi del corno d’Africa, risale a una incursione, avvenuta il 16 aprile, di truppe eritree nella regione frontaliera di Ras Doumera, nel territorio di Gibuti. La tensione per questi territori situati alle porte del mar Rosso ha già opposto i due Paesi nel 1996 e nel 1999.

Attentato ad ambasciata italiana Non è ancora chiaro se era veramente l’edificio dell’ambasciata d’Italia nello Yemen l’obiettivo dell’attentato con due autobomba. I veicoli sono esplosi ieri mattina senza fare vittime presso la direzione doganale del Paese arabo, vicina ai locali diplomatici italiani, nella capitale Sanaa.A Roma il ministro degli esteri ha detto di avere poche informazioni al riguardo, confermando solo che «non vi sarebbero danni a persone o cose».

Teheran primo stato terrorista al mondo L’Iran di Mahmud Ahmadinejad che cerca di espellere gli Stati Uniti dal Medio Oriente e rafforzare la sua influenza regionale intimidendo gli altri stati, resta il principale Paese terrorista del mondo secondo un rapporto del Dipartimento di stato americano pubblicato ieri. La lista degli stati che sostengono dei movimenti terroristi, pubblicata ogni anno, nel 2008 è rimasta uguale a quella del 2007. Oltre l’Iran comprende la Siria, cuba, Corea del Nord e il Sudan.


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speciale educazione

Socrate

I libri di testo per le scuole di primo e secondo grado vengono scelti in questi giorni da maestri e insegnanti. Francesco Alberoni ne ha sfogliati alcuni per liberal

«È SPARITO IL FASCINO DI IMPARARE» colloquio con Francesco Alberoni di Francesco Lo Dico o avuto tra le mani dei testi di scuola elementare, che probabilmente seguono i programmi ministeriali. Confesso che la loro consultazione mi ha lasciato molto stupito. Dalle pagine che ho scorso in rassegna, ho presto ricavato l’impressione di un enorme disordine mentale». Francesco Alberoni, milioni di libri venduti nel mondo e una vasta collezione di titoli e rettorati, mette subito le carte in tavola. Professore, sembra molto perplesso. Ricorda qualche esempio in particolare? Un libro di storia della terza elementare, cui ho dato un’occhiata di recente. Della storia intesa in senso classico, fatta di personaggi e battaglie, di racconti avventurosi mossi dalle gesta di esseri umani singoli o attori sociali collettivi, non c’era nessuna traccia. C’era soltanto un po’ di paleontologia umana – cioè qualche accenno alla scimmia e all’evoluzione – si passava poi ai metodi di costruzione di un villaggio, alla descrizione di un lago, ad alcune brevi notazioni sulla montagna con tanto di attrezzature consigliate per ascenderle, e da lì si finiva, non si sa per quale salto logico, alla presentazione di una piramide egiziana, del tutto priva del suo contesto storico. Nei libri per le scuole medie sono invece scomparse le date e trionfa anche in que-

«H

sti una totale indifferenza per il racconto storico e per la cronologia degli eventi. Azzerata la fascinazione e deposta la cronologia, non desta meraviglia che i ragazzi non sappiano più se è nato prima Maometto o Gesù Cristo, Carlo Magno o Federico II. Mi è sembrata evidente una totale mancanza di sistematicità e di ordine logico e cronologico. E questo per restringermi alla storia. Infierisca pure. Ho provato analoghe perplessità nello sfogliare un paio di testi di italiano adottati nelle scuole primarie. I classici, nazionali o stranieri, accessibili o inarrivabili che fossero, non avevano voce in capitolo. Una moria generale, in cui i grandi scrittori e i brani tratti dalle

to, gli ho chiesto di indicarmeli su una cartina geografica: hanno poggiato il dito sull’America Latina. Almeno avevano azzeccato l’emisfero. Ha una spiegazione per tutto questo? Può darsi che si tratti di casi isolati, ma esistono curiose carenze nell’insegnamento di storia e geografia. È come se il docente si preoccupasse di insegnare a un bambino le cose a lui più vicine a scapito di quelle generali, preziose per aprire la sua mente. Gli si parla del lago sotto casa sua nell’illusione che questo gli risulti molto più facile da capire. E invece serve un po’ di fantasia e di immaginazione, se non si vuole che la conoscenza ristagni, o appassisca prima anco-

La guerra al nozionismo ha creato un’enorme fatica nell’apprendere loro opere, erano stati sostituiti da pagine che pullulavano di oscuri autori contemporanei. E la geografia? A questo punto parliamone. Sarò breve. Le basti sapere che di recente ho conosciuto dei ragazzi che erano di ritorno dall’Africa. Entusiasti del viaggio, ma non troppo precisi sui posti che avevano visita-

ra di fiorire. Per un bimbo non c’è niente di più bello che imparare, nonostante migliaia di chilometri di distanza, che esistono per esempio i grandi laghi nordamericani. Semplicemente attraverso la fascinazione del racconto. A occhio e croce, manca all’appello la matematica. Qualche impressione? Anche in questo caso mi pare

sia stato complicato tutto secondo criteri discutibili. Già dalla più tenera età i bambini sono predisposti alla manipolazione dei numeri e ai processi di astrazione, ma spesso non se ne tiene conto in nome di un insano pragmatismo. Il pallottoliere ha senso soltanto se diventa un’interfaccia tra il concreto e l’astratto. Senza la base del concetto, in presenza di un’operazione da svolgere, per il bambino non c’è possibilità di sapere ma soltanto un ammasso di biglie da mettere in fila. C’era, ad esempio, un insegnante che non voleva che i suoi alunni imparassero a memoria le tabelline. Ogni volta che assegnava loro le moltiplicazioni, li obbligava a fare dei calcoli pazzeschi. Così che, molto prima che arrivassero al risultato, si manifestava in loro un incontenibile odio verso la matematica. A proposito di innamoramenti e amori, non è che alcuni pedagogisti siano troppo affezionati alle loro teorie, a dispetto dei risultati? Temo che una certa pedagogia bizzarra, che privilegia il metodo dell’apprendimento rispetto alla conoscenza, abbia grosse responsabilità rispetto alla difficile situazione scolastica italiana. Si ritiene che non bisogni imparare a nulla a memoria, pena la caduta nel nozionismo. Eppure ci sono prove evidenti che l’assimilazione e la ritenzione di nozioni siano caratteristiche irrinunciabili, che appartengono

a tutti i giovani e che producono ottimi risultati in presenza degli stimoli giusti. Il nozionismo tanto bistrattato, cacciato dalla scuola, si ripropone in tutta la sua valenza nelle canzoni di Vasco Rossi. I ragazzi le imparano a memoria in men che non si dica, e il che va benissimo. Non si capisce però perché l’esercizio della memoria, tanto utile quanto più e ripetuto, debba escludere le poesie. Ricordo che Lina Wertmuller, dovendo far recitare delle poesie per i provini di recitazione al Centro Sperimentale, si trovò in grandi difficoltà. L’unica poesia che era riuscita a farsi recitare era San Martino di Giosuè Carducci: «La nebbia agli irti colli piovigginando sale». Fiorello ne aveva cantato i versi in una canzone, e quindi tutti la ricordavano anche se a scuola non gliela aveva insegnata nessuno. I ragazzi di oggi sono svegli quanto quelli di un tempo. Il problema è che fanno fatica ad apprendere perché fanno fatica a ricordare. E anche scrivere non è proprio una passeggiata. Credo anche qui si tratti di aver sottostimato enormemente le capacità intellettuali dell’essere umano. L’anno scorso ne ho avuto esperienza diretta perché mi è stato proposto di svolgere le tracce degli esami di maturità. Come è andata? È andata che ho letto le tracce e ho consegnato foglio bianco. Mai visto niente di più cervellotico.


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l libro di testo ha di specifico di essere l’incontro tra esperienza didattica e conoscenza disciplinare. Come tale non è un’opera d’arte genuina, avrebbe detto il buon Croce, perché non è creazione pura, ma arte “dedicata”. L’arte per l’arte si esprime e basta, il libro di testo riferisce e si sforza di fare assimilare ciò che riferisce. È scienza e nello stesso tempo metodo. Non è mai solo storia, per fare un esempio, ma insieme storia e modo di insegnare la storia. Può essere un buono o un cattivo libro. Ma questo è un altro discorso. Sarà anche figlio di un dio minore, ma non è una creatura del diavolo, come spesso lo si è dipinto, confondendo “essere”(del libro di testo), e categorie inferiori come prezzo, costo, peso, addobbi. Tanto per non cominciare dai soliti luoghi comuni impressionistici, diciamo se è vero che nessuno ha mai visto un editore scolastico fermo ai semafori a lavare i vetri alle automobili fame coactus, è anche vero che l’industria editoriale scolastica è la sola branca aziendale per la quale lo Stato non versa una sola lira per la ricerca. Perché il libro di testo è ricerca (metodologica, almeno) e arte dello sceverare il miglio dal loglio. Ricerca senza la quale si avrebbe solo il libro di Stato, come quello che il ministro fascista Belluzzo introdusse nel 1929 e che si mantenne fino alla Liberazione. Al contrario, i prezzi, come il peso dei libri di testo, vengono di frequente calmierati. L’odio che si scatenò nel Sessantotto-lungo, che si trascinò in maniera virulenta fino agli anni Ottanta del secolo scorso, e che ancora non ha finito di esalare i suoi veleni, fino alle accuse di cartello, nacque dal complessivo luddismo che invase la scuola in uno dei rari connubi tra studenti e docenti. Gli stessi docenti ai quali la ricerca privata aveva fornito spesso, attraverso il libro di testo, in assenza di altre occasioni di formazio-

I

Li difendo comunque, creano le basi del sapere

Odiati da molti, utili a tutti di Nicola D’Amico ne, quella guida didattica senza la quale non avrebbero potuto esercitare il loro mestiere. Come è vero, d’altra parte, che il Sessantotto e quel che segue operò anche una grossa operazione di denuncia di quanto di peggio l’editoria scolastica, nel boom dell’istruzione degli anni SessantaSettanta, conseguito alla creazione della Scuola media unica, era stata capace di produrre. Non c’è settore della vita umana in cui non esistano le pecore nere. Pecore che continuano a pascolare anche oggi. A chi scrive è capitato personalmente di trovare nel libro di storia del nipotino (scuole medie) che Giovanni dalle Bande Nere era il capo dei Lanzichenecchi e che l’enciclica Rerum novarum era stata dettata da Pio IX. Detto questo, la domanda è: la scuola potrebbe fare a meno del libro di testo? La risposta esclude, per cominciare, la discriminazione tra libro cartaceo e libro elettronico. Un discorso a parte, che a parte si può fare. Stabilito che per il momento non facciamo differenza tra libro elettronico e libro cartaceo, la domanda chiede respiro da un’altra: che cos’è esattamente un libro di testo? Risposta: un libro di testo è una raccolta stabile di informazioni, integrate da giudizi chiarificato-

ri e generalmente (libri di storia, antologie) politicamente orientati (obiettivi, bugiardi) o anodini in chiave di banalizzazione della interpretazione dei fatti. La qualità e la originalità di questi giudizi avvicinano o allontanano il testo dalla parentela dei saggi, quei libri che aggiungono un plusvalore alle conoscenze. Eugenio Montale disse una volta all’inviato speciale del Corriere della sera che uno dei più acuti giudizi sulla sua poesia si trovava su un’antologia scolastica di Salvatore Gugliemino, docente di italiano al liceo Carducci di Milano. (Il nome di Guglielmino è ricordato nel Famedio del Cimitero monumentale di Milano) Potremmo aggiungere che gli autori di libri di testo si chiamavano a cavallo del Novecento Giovanni Pascoli (editore Sandron di Palermo), Giosuè Carducci (Zanichelli) e il matematico Federico Enriques. Il “Giannetto” di un intellettuale e maestro milanese, Alessandro Parravicini, fu il primo best-seller della scuola nazionale italiana.Vendette centinaia di migliaia di copie in oltre sessant’anni di permanenza nelle librerie. Più del Cuore di De Amicis. Era un libro grande quanto un messalino della domenica, quello che le pie donne portano nel palmo di una ma-

no. Parlava di grammatica come di far di conto, di storia, geografia e computisteria. Non aveva disegni, ma tante tabelle. Accompagnò generazioni di alunni italiani per tutto l’Ottocento. La scuola è “sistematizzazione”delle conoscenze. Il libro è parte essenziale nella costituzione di questa identità della scuola. Il libro di testo deve essere scelto dall’insegnante. L’insegnante sceglie tra tante opere quella che più gli assomiglia, quando non quella che più gli insegna il mestiere. La costante preoccupazione dell’autore per bene, infatti, non è quella di dire cose sensate (questo gli è connaturato, perciò è “perbene”), ma quella di farsi capire, di“fare metodo”. Nel momento della scelta, tra libro di testo e insegnante si crea una simbiosi virtuosa. Il libro, a questo punto, diventa il ponte tra l’allievo e il docente. E’ una sorta di “protesi” del docente prolungata nel resto della giornata dell’allievo. Giovanni Gentile si rifiutò sempre, quando era ancora docente di liceo, di insegnare filosofia su testi scelti da altri; e continuò ad adottare quello su cui aveva studiato da studente liceale. Quando l’insegnante non può scegliersi il testo, è meglio non far spendere soldi agli alunni e dettare dispense. Con il che si ritorna al punto di prima: che cosa sono le dispense se non un libro d’artigianato? Libro elettronico? Qui il problema è collegato alla struttura generazionale. A chi ha i capelli bianchi e forse solo brizzolati è arduo non avere davanti la pagina stampata. I ragazzi di oggi forse possono leggere con la stessa produttività e senza stress la pagina luminosa.Tanto, a fare la “stampata”si fa sempre in tempo. Eppure, spesso nelle case non esistono altri libri che quelli di testo dei figli. Per qualcuno conservarli significa conservare i mattoni con cui (anche) si è costruita la propria giovinezza.


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speciale educazione

Socrate

I testi per i bambini, scritti e ideati nel nome del pedagogista cèco Comenio, hanno una storia lunga cinquecento anni

MA SONO LIBRI VERI? di Giuseppe Lisciani opo li tre anni li fanciulli imparano la lingua e l’alfabeto nelle mura, camminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano ed insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e scapigli, fin alli sette anni…». Così Tommaso Campanella (1568-1639) (cfr. La città del Sole, Feltrinelli 1962, p. 10). I bambini della Città del Sole hanno, come primo libro di testo per imparare a leggere, le mura della loro città, dove sono rappresentati diversi alfabeti di diverse lingue, vicende storiche, fenomeni naturali, con nicchie che contengono campioni di rocce e metalli… «Dopo li sette anni», alle esperienze giocose con quel singolare “libro di testo” che sono le sette cinta di mura della Città del Sole, fanno seguito le «lezioni delle scienze naturali» e,

«D

«mentre gli altri si esercitano il corpo, o fan li publici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e concorrenza…».

Ma, al di là del singolare abbecedario immaginato da Tommaso Campanella (e che, ante litteram, potremmo considerare come una idea didattica postmoderna) l’inventore del libro di testo, quale oggi immaginiamo e usiamo nelle scuole primarie, è un contemporaneo di Campanella, il pedagogista cèco Jan Amos Komensky (1592-1670), italianizzato in Comenio. Anche Jean Piaget, intorno agli anni Sessanta, scrisse di lui che «ha visioni straordinariamente anticipatrici». Comenio conobbe grande fama nel nostro continente, soprattutto per la sua attività di educatore e di scrittore

di didattica, e in particolare per l’opera Ianua linguarum reserata (Porta delle lingue aperta) del 1631 e per l’Orbis rerum sensualium pictus (Il mondo delle cose sensibili illustrato) del 1658. È, quest’ultimo, un vero e proprio libro di testo illustrato, in cui l’allievo impara a leggere le parole (in latino, tedesco, italiano e francese) associandole alle corrispondenti immagini. L’idea madre, che suggerisce a Comenio la soluzione didattica della lettura dell’immagine e della parola assieme, è questa: le parole sono segni delle cose e perciò senza le cose sono segni vuoti; siccome i segni debbono essere appresi con i loro significati, bisogna che l’allievo apprenda contemporaneamente parole e cose (vere o disegnate che siano). Il libro di testo ideato e realizzato da Comenio non è una invenzione occasionale, ma la coerente manife-

stazione di una ragionata fiducia nei poteri della didattica. Ne danno testimonianza i numerosi scritti del pedagogista cèco. Ad esempio, ne Il labirinto del mondo e il paradiso dell’anima, il cap. XIX è dedicato a enunciare e descrivere i «princìpi di un insegnamento rapido fondato sull’economia del tempo e della fatica»; nella Didactica Magna, Comenio promette «un metodo universale per insegnare tutto a tutti». Ma valga come prova emblematica ciò che il grande pedagogista del ‘600 afferma con orgoglio nel Dialogo primo de Il tirocinio dell’esprimersi, che è la parte terza del Tirocinium (breve opera composta nel 1654, scoperta a Halle, Belgio, nel 1935 e tradotta in italiano dall’editore Armando nel 1970): «Ecco, figlio mio, hai imparato a leggere e scrivere! [...] Prima alcuni in tre anni imparavano a stento quello che tu impa-

LETTERA DA UN PROFESSORE

DECALOGO PER IL NUOVO MINISTRO di Giancristiano Desiderio ppunti sparsi per il prossimo ministro della Pubblica istruzione sotto forma di decalogo. Non sono i dieci comandamenti, ma qualcosa di buono c’è. Uno. Gentile ministro (o gentile ministra) metta da parte ogni proposito di Grande Riforma. Non ne è più il tempo, servono solo interventi mirati e pratici. Due. Sia accantonato, meglio, sia cancellato il sistema dei crediti e dei debiti. Non serve a nessuno, produce confusione, è di ostacolo all’insegnamento. Tre. Ripristini senza esitazioni gli esami di riparazione a settembre senza nascondersi dietro a un dito: esami a settembre, punto. La scusa delle lezioni private è una scusa: sia perché il mercato delle lezioni private non è mai scomparso, sia perché le lezioni private sono una buona cosa.

A

Quattro. Stessa cosa per gli esami di Stato. I quiz vanno bene in tv, non certo per sapere se dei ragazzi sanno o non sanno. Il compito di Italiano ritorni a essere quello che era e si punti sulla seconda prova particolare per ogni indirizzo di scuola. All’orale tutte le materie. Sì lo so: non è una riformetta, ma da sempre la scuola si riforma mettendo mano al sistema degli esami. Cinque. Telefonino vietato per legge. Chi lo porta a scuola ha l’obbligo di consegnarlo all’ingresso e ritirarlo all’uscita. Sei. Accertarsi (ma è chiaro che è un controllo che compete al preside) che i professori diano il buon esempio. Sette. Dare sostanza all’autonomia delle scuole, visto che di fatto è solo una parola. Otto. La scuola deve ritornare a fare selezione durante l’anno scolastico e non a

fine anno.Va bene recuperare chi è rimasto indietro, chi è svogliato, chi non ce la fa, ma bisogna soprattutto dedicare le forze a chi mostra interesse e capacità. Le scuole devono avere su questo mani libere, cioè autonomia. Nove. Prima o poi bisognerà giungere a questa soluzione: le scuole scelgono i professori (e viceversa). Dieci. La scuola italiana attuale è solo la distruzione della scuola di un tempo (quella di Giovanni Gentile). Non è possibile ritornare a prima del 1969, ma occorre un nuovo sistema di selezione: per gli alunni e per i docenti. Ci sarebbero tante altre cose da dire, a iniziare dall’incubo delle riunioni che ha trasformato il docente in un impiegato. Ma ne parliamo un’altra volta.

ri in tre mesi, e lo imparavano meno bene. Ed era cosa penosa e spiacevole, che procedeva quasi sempre a bastonate e a frustate. [...] Proprio così. E perciò la gioventù sfuggiva la scuola, considerandola una prigione o un supplizio: adesso invece la scuola è un giuoco».

La scuola è un giuoco! Così scriveva già Comenio nel 1654. E così diciamo noi ancora oggi, soprattutto riferendoci alla scuola dell’infanzia e a quella elementare. Del resto, nei libri di scuola, nulla è didatticamente cambiato rispetto all’Orbis pictus di Comenio e, se ci riferiamo ad alfabetiere e cartelloni murali (spesso dati in omaggio dagli editori con l’adozione dei libri di testo), anche Tommaso Campanella è ancora con noi, sono con noi le mura istoriate della sua Città del Sole. I libri di testo della scuola elementare sono tutti la testimonianza di una consolidata fiducia nel connubio costante e funzionale tra la parola e l’immagine (come la didattica di Comenio, appunto, teorizzava e praticava: una sorta di esaltazione del contesto, che trova riscontro anche in tutta l’editoria del settore, a cominciare dall’editore Giunti, che ne è il numero uno, per proseguire con Fabbri, Cetem, Raffaello, La Scuola, Il capitello, Ardea Tredici, De Agostini


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rimenti adeguati affinché i libri di testo si manifestino come progetto didattico articolato e coerente. Con le conseguenti attività di verifica e valutazione.

Libreria

ANCHE LA LEZIONE SI IMPARA di Giuseppe Bertagna

Ma i libri di testo

A sinistra il pedagogista ceco Comenio, che nel ’600 gettò le basi della pedagogia moderna secondo il meccanismo di associazione tra parole e cose. Al centro e in basso esempi di moderni libri di testo per le elementari. Sopra Tommaso Campanella, filosofo che espose le sue teorie ne La città del sole

Più che di letture, si tratta di percorsi didattici che stimolano ad apprendere ed altri ancora. Prendiamo, a esempio, Un arcobaleno in classe per la prima elementare (di Chiara Pratici, Fabbri Editori 2008), che si articola in tre volumi. C’è un primo volume, chiamato metodo, costituito da attività in cui continuamente, per imparare a leggere, il bambino collega immagini a parole e lettere dell’alfabeto. Un secondo volume contiene brevi testi, che hanno, in realtà, il compito di fare da pretesti per piccole indagini ambientali, attività manipolative, test di comprensione, ricognizione di particolarità linguistiche, ecc. Un terzo volume è un eserciziario di matematica, scienze, storia, geo-

grafia, informatica, in cui nuovamente decisivi sono – come, del resto, devono essere – il connubio e la collaborazione tra segno significante e immagine significata.

Oppure prendiamo Proprio come me per le classi seconda e terza elementare (di Edi Zanchetta, Chiara De Somma e Francesca Furlan, edizione Cetem 2008). Ogni classe ha in dotazione due volumi: uno di letture, percorsi multidisciplinari e riflessione linguistica, in cui ogni testo è ancora un pretesto per una serie di attività (comprendere, produrre, ricordare, approfondire, saperne di più, riflettere sulla lingua, scoprire somiglianze e differenze, ecc.); l’altro volume è un eserciziario di storia, geografia, scienze, tecnologia, matematica, informatica. E pure in questo caso – come, possiamo dire a questo punto, in tutti i libri di testo della scuola elementare – vi è l’unione collaborativa e funzionale tra la parola e l’immagine. Da segnalare, anche, in ogni kit, la costante presenza di una guida didattica riservata all’insegnante, in cui sono contenuti gli elementi di programmazione e i sugge-

sono veri libri? Il dizionario della lingua italiana – ad esempio, il vecchio caro classico Zingarelli – dà, di libro, una definizione che chiamerei “meramente tecnologica”. Eccola: «Volume di fogli cuciti insieme, scritti, stampati o bianchi». Secondo questa definizione, sì, anche un libro di testo è un libro vero. Ma nell’età “tecnetronica”, nell’età di internet e di tutto il resto, vorrei insinuare l’esigenza di una distinzione. Noi, oggi, possiamo e dobbiamo considerare libro soltanto tutto ciò che – in forma di libro – si pone l’obiettivo di entrare in interazione personale con il lettore: precisamente, in una interazione intrinseca, che esaurisce in se stessa il suo compito e il suo significato. Potremmo dire, con apparente banalità, che libro è soltanto ciò che è veramente da leggere, inteso, il leggere, come operazione diversa dal consultare. Possono definirsi libri un romanzo, un poema, un saggio, un… Beh, l’argomentazione sarebbe, in verità, lunga e complessa. È preferibile, qui, procedere per negazioni. Diciamo allora, per esempio, che oggi non puoi considerare vero libro una enciclopedia. E non insegnerai, perciò, la magia della lettura e l’amore per il libro facendo ricorso alla consultazione regolare e costante di una enciclopedia in forma di libro. Non considererai vero libro un libro di testo, soprattutto nella scuola elementare, poiché non di libro si tratta ma di progetto e percorso didattico, che rimanda a ricerche, offre materiali da analizzare e/o assemblare, offre occasioni per apprendere e riprodurre questa o quell’altra struttura, offre parole da catalogare. E, magari, alla fine offre anche il pretesto e lo stimolo per leggere un libro vero… Ma, appunto, non è libro vero esso stesso. Nessun insegnante saggio penserà oggi (qualcuno lo pensava un tempo) che il libro di testo sia il primo libro del bambino. Il miglior uso che se ne fa a scuola è la riprova che si tratta semplicemente di un mezzo: per comodità, oggi lo esprimiamo ancora in forma di libro, ma domani potremmo concepirlo in forma multimediale e gestirlo in via informatica. Come già comincia a succedere seriamente per le enciclopedie.

i riferisco all’intervento di Giancristiano Desiderio sul recupero dell’importanza della lezione a scuola, del 24 aprile scorso. Niente da dire sull’obiettivo. Recuperare la materia e lo spirito della tradizionale lezione è buon senso. Soprattutto in una scuola nella quale regna spesso l’improvvisazione e la superficialità, e dove i contenuti sono stati retrocessi alle fumisterie dell’improbabile metodologismo dell’‘imparare ad imparare’ (come se si potesse, per restare all’analogia, imparare a mangiare senza mettere sotto i denti carne o frutta o formaggio ecc.). Questo auspicabile recupero della lezione, tuttavia, può essere ancora più pericoloso del suo abbandono se non si precisano alcune condizioni che la rendono davvero efficace. La prima rimanda all’Aristotele citato nell’articolo. Non è vero che, a suo avviso, chi sa insegna. Egli ricordava piuttosto che si può insegnare solo ciò che si sa. La prospettiva è diversa. Si può sapere anche molto, dunque. Essere perfino premi Nobel. Ma non essere affatto competenti nell’insegnamento di ciò che si sa. L’insegnamento, insomma, va imparato: è esso stesso un contenuto. La seconda ricorda che ogni insegnamento non è mai soltanto intellettuale. Socrate, nella Repubblica di Platone, dopo una lezione logicamente impeccabile e stringente sulla giustizia, non riesce a trasmettere la sua idea a Trasimaco, che anzi la respinge. La ragione deve sempre andare di pari passo con una buona immaginazione che l’accompagni, con emozioni opportune, perfino con una posturalità corporea che sia coerente a questo insieme, e il tutto inserito in un contesto relazionale tra docente e allievo che sia significativo e, soprattutto, basato sulla stima e sulla fiducia reciproca. La terza condizione è che neanche a questo punto l’insegnamento diventa di per sé apprendimento. Perché avvenga questa trasformazione qualitativa è necessario che la distanza esistente tra la struttura mentale, immaginativa ed emotiva presupposta dal docente che insegna e quella dello studente che apprende non sia eccessiva e, soprattutto, che tra le due strutture non esista incompatibilità. Quando, per fare una buona lezione, si invita a conoscere la ‘testa’, il ‘cuore’ e la ‘mano’ dell’allievo, perciò, non si fa del pedagogismo da sbertucciare, ma si esplicita soltanto un elemento necessario per l’efficacia di qualsiasi insegnamento che intenda trasformarsi in apprendimento. Bisogna dire, infine, che tutto questo non si improvvisa. Per fare buone lezioni di matematica, quindi, non basta saperla, e bene. Bisogna anche saper insegnare la matematica a preadolescenti piuttosto che ad adulti, a scuola piuttosto che in università o in corsi liberi. Bisogna essere laureati non solo in matematica, ma anche in insegnamento della matematica, perciò. Cose ovvie da tempo immemorabile. Ma non tanto se, oggi, si è ancora costretti a chiedersi, ad esempio, se il nuovo governo saprà mai recuperare le lauree per l’insegnamento introdotte dal ministro Moratti ma eliminate dal ministro Fioroni in nome di non si sa che.

M


Un’idea, una buona idea, è davvero rara. Albert Einstein

C A M PA G N A

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DELLE IDEE


economia

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Smentendo la Marcegaglia, lo Smi-Ati-Confindustria non vuole sentir parlare d’intese aziendali

Tessili,l’impresa vuole il contratto unico d i a r i o

di Vincenzo Bacarani

d e l

g i o r n o

ROMA. Dopo i metalmeccanici, i

Inflazione ferma, volano gli alimentari

tessili: stessa voglia di bloccare la produzione per ottenere le richieste, ma se i primi rivendicano sempre la loro essenza massimalista, gli altri rivendicano il loro riformismo. Che sembra mancare alla controparte: le aziende del settore legate a Confindustria. La presa di posizione ufficiale e unitaria è arrivata proprio ieri da Filtea-Cgil, Femca-Cisl e Uilta-Uil con un duro comunicato: da domani è indetto lo stato di agitazione con immediata sospensione degli straordinari, attivi regionali e assemblee a tappeto dal 9 al 16 maggio e sciopero generale della categoria il 6 giugno.

Con uno 0,1 per cento in più l’inflazione resta stabile ad aprile (ma a livello tendenziale sale del 3,3). Nota dolente nel paniere i beni alimentari, che segnano un +0,5 rispetto a marzo e +5,5% rispetto allo stesso mese del 2007. A fare la parte del leone pane e cereali, (+10,6 su aprile 2007), mentre formaggi e uova hanno registrato un +8,3 e il latte +10,8 per il latte. La frutta tocca, invece, un +6,3. Le associazioni agricole notano che il quintuplicarsi dei prezzi degli alimentari nel passaggio dal campo alla tavola.

I sindacati dei tessili, con un comunicato congiunto, sono tornati sul piede di guerra subito dopo la rottura delle trattative per il rinnovo del contratto scaduto il 31 marzo scorso. Un contratto che interessa oltre 600 mila lavoratori. L’aspetto un po’ paradossale della vicenda è che a provocare la rottura sia stato soprattutto un argomento attualissimo e che vede Confindustria in prima linea a sostenerlo: la contrattazione di secondo livello, cioè aziendale o territoriale. Nel caso dei tessili le parti si sono, in un certo senso, rovesciate. Se i sindacati sono d’accordo, e anzi spingono, per i due livelli di contrattazione, lo Smi-Ati-Confindustria (che rappresenta la stragrande maggioranza di imprese del settore) rifiuta in sostanza questa ipotesi. Dunque, il cavallo di battaglia della neopresidente Emma Marcegaglia (nei rinnovi contrattuali parte normativa e minimo aumento salariale a livello nazionale e poi parte economica differenziata a livello locale) incontra perplessità e timori tra gli imprenditori tessili. Ma perché? Il motivo principale è in via ufficiosa – in quanto i rappresentanti confindustriali del tessile al momento non vogliono pronunciarsi ufficialmente – la dimensione delle aziende. Il 90 per cento delle imprese del settore occupa meno di dieci addetti e dunque sarebbe irrealistico e dannoso per loro aggiungere agli aumenti di stipendio stabiliti su base nazionale, un altro aumento legato all’andamento di così piccole aziende.

Un ragionamento valido? Secondo il segretario generale della Fil-

Visco nel mirino per i 730 su internet

Il settore tessile riprende a correre dopo la crisi. A sinistra, Paolo Zegna, Ad dell’omonimo gruppo e vicepresidente di Confindustria tea-Cgil, Valeria Fedeli, non proprio. «Nella nostra piattaforma», spiega, «abbiamo previsto una contrattazione di secondo livello, ma per filiera o per distretto. E lo abbiamo fatto proprio perché siamo consci che la complessità del comparto non può, per esempio, consentire l’applicazione di una contrattazione strettamente a livello aziendale». In sostanza, dice il segretario Filtea, i tessili non sono uguali ai me-

Le industrie, reduci da una crisi, vedono le indennità di secondo livello come un peso insopportabile per un settore fatto di piccole realtà. I sindacati annunciano lo sciopero generale talmeccanici, settore nel quale nelle piccole aziende vige la cosiddetta indennità sostitutiva o indennità di perequazione stabilita a livello nazionale: cioè quella piccola somma di 30 euro mensili in più rispetto al contratto nazionale valida per tutte le piccole imprese del settore. «Una cosa del genere», prosegue Fedeli, «l’abbiamo applicata nel settore dell’occhialeria, dove abbiamo istituito un’indennità di perequazione che però viene erogata ai lavoratori alla fine dell’anno». In

maniera tale da dare respiro alle imprese e incentivare la produttività dei dipendenti. Per i tessili, però, il discorso va inserito in un’altra e più complessa prospettiva. «Perché è il fare sistema», sostiene ancora il segretario Filtea, «che ci assicura la competitività». Ma non è soltanto l’argomento dei due livelli di contrattazione a dividere sindacati e imprenditori del tessile. C’è anche un motivo economico in questa querelle: la richiesta dei sindacati, 95 euro mensili al terzo livello a regime nel biennio, ha fatto trasalire la controparte. Secondo alcune voci, lo Smi-Ati sarebbe stata spaventata da una richiesta di aumento pari al 7,3 per cento non intenderebbe oltrepassare la trincea dei 65 euro.

Altri argomenti di forte contrasto sono la riduzione da tre a due delle settimane di ferie consecutive e l’introduzione di 40 ore di straordinari obbligatori, richieste avanzate dagli imprenditori e immediatamente bocciate dai sindacati. Sulla questione ferie Filtea, Femca e Uilta fanno sapere che si tratta di un argomento da affrontare attraverso accordi presi “azienda per azienda”. Per quanto riguarda gli straordinari, i sindacati ritengono sufficiente il mantenimento dello straordinario volontario. Un confronto dunque “caldo”che si è interrotto bruscamente in questi ultimi giorni e che giunge in un momento molto delicato. La pesante crisi del settore cominciata nel Duemila ha travolto aziende anche importanti (basti pensare alla Manifattura Legnano che ha dovuto chiudere la metà dei suoi stabilimenti). Ora si assiste a una fase di recupero, ma c’è anche il rischio che la riapertura di una conflittualità possa agire da freno.

Nuove polemiche su Vincenzo Visco, dopo che l’agenzia delle entrate ha lanciato l’“operazione trasparenza” e deciso di pubblicare su internet le dichiarazioni dei contribuenti del 2005. Un’iniziativa stoppata dal Garante della privacy, che ha fatto fare dietrofront all’agenzia. Il viceministro uscente alle Finanze si è giustificato: «È un fatto di trasparenza, di democrazia, non vedo problemi: c’e’ in tutto il mondo, basta vedere qualsiasi telefilm americano». Ma tanto non è bastato a frenare le ire di Pdl e consumatori.

Alitalia: controricorso alla Sea Controricorso dell’Alitalia alla Sea, che ha chiesto 1,3 miliardi di risarcimento per l’abbandono di Malpensa. La compagnia di bandiera ha chiesto alla società di gestione cento milioni di euro per danno emergente e 1,1 milioni per lucro cessante.Alitalia poi ha comunicato di aver ridotto, al 31 marzo, l’indebitamento a 1.353 milioni di euro e di poter contare su una liquidità pari a 180 milioni. Intanto il fondo di tournaround brasiliano Multi-Long Corporation sì è detto pronto a fare un’offerta per il vettore italiano.

Fiat, firmata intesa con serba Zastava Riparte ufficialmente l’espansione all’estero di Fiat. Ieri il Lingotto ha siglato un memorandum per la creazione di una joint venture con la serba Zastava Auto, controllata al 70 per cento dagli italiani. In serata l’amministratore delegato della casa torinese, Sergio Marchionne, ha anche incontrato a Belgrado il presidente serbo, Boris Tadic. Quest’intesa ha un valore di quasi un miliardo di euro di investimenti. A chiusura dell’operazione, Standard & Poor’s ha promosso il rating assegnato a Fiat portando il gruppo a “investment grade”: il rating passa da BB+ a BBB-, con outlook stabile.

Indesit pronta a fare shopping all’estero L’Assemblea degli azionisti di Indesit Company Spa, riunita ieri a Fabriano, ha approvato il bilancio separato al 31 dicembre 2007 e la distribuzione di un dividendo pari a 0,509 euro per le azioni ordinarie, superiore del 32,2 per cento rispetto all’anno precedente (0,385 Euro), e di 0,527 euro per le azioni di risparmio, superiore del 30,8 rispetto all’anno precedente (0,403 euro). L’amministratore delegato, Massimo Milani, ha annunciato «un’acquisizione importante entro l’anno in America o in Paesi emergenti come la Cina. Abbiamo già individuato due o tre casi».

Bazoli: Passera resta in IntesaSanPaolo Giovanni Bazoli, il presidente del consiglio di sorveglianza di IntesaSanpaolo, smentisce l’uscita del suo consigliere delegato, Corrado Passera: «Lui rimane. La stabilità della presenza del dottor Passera nel gruppo non è mai stata in discussione». Bazoli ha confermato i target per il triennio 20072009, tra cui possibilità di distribuire nel 2010 dividendi straordinari se la patrimonializzazione della banca a fine 2009 vedrà un core tier 1 ratio superiore al 6 per cento


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arte

Fino al 28 giugno in mostra a Pontedera 35 tra le più belle e significative opere di Giorgio de Chirico

La galleria dell’ultimo mago di Mario Bernardi Guardi i sono i cavalli: code e criniere come capelli ricci e mossi dal vento marino, rotonda plasticità palpitante di vita, zoccoli lanciati contro il tempo,in nome del mito e dell’avventura, oppure che il tempo lo ritmano attraverso ignoti richiami. C’è Venezia, la città cullata dal mare, l’andare e venire della sua silenziosa bellezza, l’acqua e il cielo che inteneriscono l’architettura di chiese, palazzi, ponti. Ci sono le piazze d’Italia abitate dai simboli, dove tutto è nitido e misterioso, diritto e obliquo, e l’eloquente immobilità del passato - la statua - fissa uomini che parlano parole che non suonano, perché tutto è stato detto ab aeterno e la voce è la trama stessa delle cose, evocate con nostalgia nella modernità audace e smarrita. C’è la “vita silente” della frutta, l’uva, le pere, le mele, le arance appena colte, che non sono natura morta, ma polpa da gustare e colore che ti riempie la vista, e nel volume e nella forma comunicano ancora con la voce della terra, tanto che chi le guarda dice: come sono belle, sembrano vere, sembra che si possano toccare. Ci sono i manichini metafisici delle Muse inquietanti e di Ettore e Andromaca, le stravaganti, bizzarre marionette che danno all’epica una dimensione eroicomica, facendola entrare nel grande teatro della vita, dove tutto, ancorché precario e appeso a un filo, ha comunque una sua cifra ieraticomagica che l’artista deve cogliere e sublimare.

C

C’è la grande avventura di Giorgio de Chirico nelle 35 opere in mostra fino al 28 giugno al Museo Piaggio “Giovanni Alberto Agnelli” di Pontedera. La grande avventura “stazione dopo stazione”, e ognuna prepara l’altra, l’anticipa e la contiene, come in un “viaggio iniziatico” in cui tutto di necessità concorre alla conoscenza. Rivelando il mistero, nel duplice senso di illuminarlo e di occultarlo nuovamente. Bene ha fatto, dunque, Giovanni Faccenda, attento curatore, a intitolare questo percorso: Giorgio de Chirico. L’enigma della pittura (cfr il bel catalogo edito da Bandecchi e Vivaldi, pp. 117, euro 35,00). Del resto, il pittore elesse a pro-

pria insegna l’eracliteo Et quid amabo nisi quod aenigma est?, come aveva fatto Friedrich Nietzsche, il filosofo di Zarathustra, morto folle nell’agosto del 1900. In quella stessa estate, il dodicenne Giorgio, nato a Volos, in Tessaglia, inizia a studiare disegno al Politecnico di Atene e crea la sua prima opera: una natura morta di limoni. La vita lo attende al varco, ed ecco gli “strappi”. Nel 1904 muore il padre, il barone Evaristo, un ingegnere di origine siciliana (ma con profondi ancoraggi fiorentini), responsabile di una compagnia ferroviaria. La madre, Gemma Cervetto, ligure, decide di lasciare la Grecia. La terra dell’infanzia diventa paesaggio della nostalgia per Giorgio e per il fratello Andrea (il futuro Alberto Savinio, scrittore e pittore, anche lui di alto rango): e nostos e algìa afferma-

Nato in Tessaglia, studi ad Atene e frequenti viaggi in Europa, si nutrì di eredità classiche, romantiche e barocche

Sopra Il Trovatore (1954); in alto Cavalieri e rovine (1963); a destra Archeologi (1965-75) e Vita silente di frutta (1958)

no insieme il dolore per la lontananza, la memoria mitopoietica, il desiderio di ritorno. De Chirico, uomo moderno, è immagine di Odisseo: ha una patria e la ricerca. Ritrovando dappertutto quel profilo esemplare che “rende visibile l’invisibile” perché attinge all’arcaico e all’arcano. Qui sta il “destino”di de Chirico, sin dagli anni di Monaco (1906-1909), quando

s’incanta dinnanzi alle incisioni di Max Klinger, coglie nei paesaggi di Arnold Böcklin affinità visionarie, vaga per le pinacoteche cittadine affascinato dai marmi greci e romani, da Dürer, dai maestri veneziani, da Rubens e si immerge nella lettura di Schopenhauer, Nietzsche, Weininger, traendone vitale alimento. Seguiranno tante altre città e tante altre esperienze: Firenze, Torino, Parigi, Ferrara, le scintillanti invenzioni, il dispendio creativo di quelle avanguardie alle quali Giorgio appartiene ma non fino al punto di non ritorno, il ribollire di idee, passioni e sangue della Grande Guerra e delle rivoluzioni, e poi Roma, col “ritorno all’ordine”di Giorgio e degli altri incendiari, e Milano, Parigi, la Germania, con le consacrazioni di rito, fino a quella di New York nel 1928. E ci saranno altri cinquant’anni di mirabili venture (de Chirico muore nel 1978) sigillate in un’arte carismatica e insondabile.

Di indiscussa fertilità, tra l’altro: si nutre e nutre, cova eredità classiche, romantiche e barocche, fa dischiudere “uova” metafisiche e surreali, stimola e suggerisce. E giustamente a Pontedera viene riproposta questa “fisionomia” variegata, feconda di influssi: infatti, in contemporanea a “L’enigma nella pittura”, un’altra Mostra “sodale”, ”La lunga ombra del Metafisico” (Galleria “Il Germoglio”, anch’essa aperta fino al 28 giugno, catalogo con saggi di Giovanni Faccenda e Valeria Ricotti, Bandecchi & Vivaldi, pp.73, euro 24), ci presenta una rassegna di opere in cui è avvertibile l’influenza del pictor optimus: e si tratta di lavori di maestri del Novecento come Soffici, Rosai, Sironi, Fiume, Bueno, Alinari, de Pisis, Annigoni… Pictor optimus, de Chirico, e per fiera rivendicazione: dunque, consapevole della propria forza originale-originaria e fiero della propria eccellenza. Ma anche provvido seminatore. Lui che fece proprio il comandamento di Nietzsche «volere tutto ciò che è accaduto», e che talora apparve sprezzante nel suo “superomismo”, sapeva che l’enigma è anche inquietudine, e che l’arte del Novecento è anche enigmatica inquietudine condivisa.


cultura

1 maggio 2008 • pagina 19

A sinistra, lo scrittore Arturo Perez Reverte. In basso, la locandina del film “La nona porta”, tratto dal suo libro “Il club Dumas”

Storia di un giornalista spagnolo che è diventato uno dei più importanti scrittori viventi

La guerra di Arturo Perez Reverte di Roberto Genovesi el 1997 esce in Italia un romanzo dal titolo un po’ particolare: “Il Club Dumas”. L’autore è un giornalista spagnolo che, dopo aver lavorato per quasi vent’anni come reporter di guerra per giornali, radio e televisioni, ha deciso di dedicarsi pressoché interamente alla scrittura creativa. Marco Tropea, probabilmente il miglior editor italiano, è pronto a scommettere su questo nuovo talento della scrittura che in patria ha già pubblicato numerosi volumi. “Il Club Dumas” esce in sordina i Italia e all’inizio non riesce a sfondare. Ma il tam tam tra i lettori consente una repentina inversione nel trend delle vendite e ben presto il libro è tra i più venduti ma, soprattutto, tra i più letti nella cerchia degli intellettuali che contano. Ma non basta e allora ci pensa il cinema a dare una mano al successo tricolore del volume. Roman Polanski ne acquista i diritti e ne trae un film nel quale il ruolo del protagonista viene affidato ad un giovanissimo Johnny Deep.“La Nona Porta”, per quanto ispirato “di striscio”a“Il club Dumas” è un discreto successo di botteghino nonostante tutto sommato un pessimo film ma da quel momento Arturo Perez Reverte, giornalista di guerra spagnolo, comincia la scalata che lo porterà nel giro di dieci anni a diventare uno tra i più importanti e stimati scrittori europei viventi. A sentire Marco Tropea, che spesso vola a Madrid per andarlo a trovare, Reverte è un uomo schivo, che non ama i riflettori e le interviste. Probabilmente per-

N

ché nella sua vita di giornalista di guerra, di rumore (esplosioni, grida e proiettili) e di eventi (morti, sangue, distruzione) ha fatto indigestione. È infatti la guerra il comune denominatore di molti suoi romanzi. La guerra raccontata con sobria freddezza ma anche con lucida consapevolezza. Da “L’Ussaro”, romanzo d’esordio del 1986 a “Il Pittore di Battaglie”, ultimo, fenomenale capolavoro apparso sempre per i tipi di Tropea quest’anno, Reverte racconta la guerra come inevitabile quanto devastante conseguenza della presenza del genere umano sul globo terracqueo. I suoi personaggi

traverso alcuni capolavori tra cui “La Tavola Fiamminga”. Ha provato a raccontare il lato più eroico delle donne e lo ha fatto in maniera esaltante attraverso La Regina del Sud. Ha provato perfino ad esplorare gli scenari più classici del romanzo mainstream e sempre in modo concreto. Ma tra le pagine dei sui tanti romanzi, tra le righe delle sue tante storie, sembra riecheggiare sempre il rumore sordo della sofferenza inspiegabile ed inarginabile della violenza armata al servizio della incomunicabilità tra i popoli. Quella guerra che qualche scellerato si è ostinato a definire la continuazione della politica. E non c’è protagonista creato da Reverte, anche il più fantastico, il più svinco-

Lui la violenza tra gli uomini la ha vista davvero, fotografata, filmata e raccontata nei suoi libri l’affrontano invariabilmente con primordiale noncuranza per poi esserne sistematicamente violentati nel corpo e nello spirito. Reverte la guerra l’ha vista davvero, l’ha raccontata, l’ha filmata e l’ha fotografata cosi’ come il suo alter ego Falques, l’ex fotografo tornato dal fronte che decide di rinchiudersi in un faro per dare vita ad un interminabile affresco che raffiguri tutte le possibili declinazioni della violenza umana in guerra.

Lo scrittore spagnolo, che nel 2003 è diventato membro della Real Accademia Espagnola de la Lengua, la più alta istituzione spagnola in campo culturale, ha all’attivo tanti romanzi e tanti personaggi. Ha provato a parlare di esoterismo e l’ha fatto in modo eccellente at-

lato dalla realtà, che non testimoni questa ostinata voglia di mettere in guardia il mondo dall’ineluttabile presenza della complessa geometria del disordine che l’uomo riesce a creare attorno alla sua speranza di crescere. E’ il compito che viene affidato perfino a quel capitano Alatriste, anche lui diventato eroe in pellicola attraverso le sembianze di Viggo Mortensen, che testimonia con disincanto la possibilità di un uomo di maturare nella vecchiaia portandosi sulle spalle con spaventoso cinismo il ricordo della violenza come ragione di stato. Arturo Perez Reverte ha cominciato la sua lunga carriera di scrittore

parlando e raccontando di guerre. Poi è passato al racconto esoterico, fantastico, quasi cercando di uscire dal reale per dimostrare la capacità dell’architettura del Mito di raccontare la realtà. Ma poi è tornato sui suoi passi per riprendere il filo del discorso solo temporaneamente interrotto perche, molto probabilmente, la ferita provocata dalla testimonianza diretta di tanta inutile, perversa distruzione, ha lasciato nella sua coscienza dei segni non celabili.

Perché, come egli stesso scrive «ci sono luoghi dai quali non si torna». E Il Pittore di Battaglie, capolavoro assoluto con il quale Reverte si candida con autorevolezza al premio Nobel per la letteratura, è la punta massima, lo zenit di un percorso che porta in scena per l’ennesima volta la violenza «come esistenziale simbolo dell’assurdo» (Wikipedia), come presenza costante nell’evoluzione di un genere umano che troppo spesso vuole dare un significato morale ed etico allo strumento attraverso cui pone in atto la sua sistematica, quotidiana e silenziosa distruzione. Reverte condanna la guerra ma non condanna i suoi eroi, soprattutto quelli che l’hanno fatta subendola, come lo sgangherato battaglione spagnolo ne “L’ombra dell’Aquila” o i ribelli spagnoli dell’ultimissimo “Un dia de colera” (di prossima uscita sempre per Marco Tropea editore) che quest’aquila proprio non la volevano vedere incombere sulle loro terre e che il 2 di maggio del 1808 testimoniarono questo rifiuto con il sangue. Perché il sacrificio dei più deboli è l’unico ammirabile quando cominciano a crepitare i fucili.


pagina 20 • 1 maggio 2008

personaggi Si è concluso ieri a Firenze il convegno “Donne in rivolta tra arte e memoria”. Tra le relazioni una delle più interessanti quella su “Madame Bovary”. Perché l’eroina di Flaubert non cessa di essere d’attualità

Casalinghe disperate ecco vostra madre di Sandra Teroni n quante e quali circostanze una donna può prendere coscienza del fallimento del proprio matrimonio, della perdita di ogni illusione e speranza, della chiusura di ogni orizzonte? Flaubert sceglie uno dei momenti canonici del tête à tête quotidiano, quello in cui i due coniugi si ritrovano a tavola. Sentiamo le sue parole: «Ma era soprattutto alle ore dei pasti che sentiva di non poterne più, in quella saletta a pianterreno, con la stufa che faceva fumo, la porta che strideva, le pareti che trasudavano, l’impiantito umido; le sembrava che nel piatto le venisse servita tutta l’amarezza dell’esistenza, e al vapore del bollito le salivano dal fondo dell’anima come altre zaffate di squallore. Charles era lento nel mangiare; lei sgranocchiava qualche nocciolina, oppure, appoggiata al gomito, si divertiva a rigare con la punta del coltello la tela cerata». È analizzando queste poche righe, in cui coglie il vertice della pittura della disperazione di Emma Bovary, che Auerbach mostra la singolarità del realismo di Flaubert: il pranzo è rappresentato alla luce dello sconforto e del disgusto di lei, ma chi parla è lo scrittore, il quale porta a maturazione linguistica quanto la sua protagonista, proprio per quello che è, non saprebbe esprimere. In questa congiunzione narratore-personaggio risiede, mi sembra, il segreto di Flaubert.: in un miracoloso equilibrio che fa convivere capacità di proiezione e presa di distanza, senso del tragico e sarcasmo, empatia e comprensione, scavo nella complessità psicologica e coscienza storica. Senza un giudizio morale portato sul personaggio stesso, né direttamente né per bocca di mediatori interni. Che questo equlibrio fosse delicato

I

lo dimostrò immediatamente il carattere del dibattito che si svolse in Tribunale (gennaio-febbraio 1857), dove Madame Bovary finì sin dalla pubblicazione a puntate su rivista, con l’accusa di oltraggio alla morale e alla religione.

Pagine e pagine furono lette dal pubblico ministero a sostegno della tesi che scrittore ed eroina sono complici nella «glorificazione dell’adulterio»; altrettante pagine furono lette dal difensore per dimostrare che lo scrittore sanziona i comportamenti di Emma denunciando i vizi dell’educazione ricevuta, e soprattutto facendole subire una espiazione senza precedenti, portata all’eccesso, intollerabile (furono citate al riguardo le parole di Lamartine). Alla fine il giudice condannò con fermezza l’estetica del realismo e più precisamente di quel particolare realismo “impersonale”, “oggettivo”, che rifiuta ogni intrusione d’autore - di fatto il procedimento letterario fino allora sconosciuto di cui Flaubert aveva

successo di scandalo, fondato appunto su una riduzione a manifesto trasgressivo della morale borghese. Solo Baudelaire - che lo stesso pm, sostenendo a pochi mesi di distanza la stessa accusa di oltraggio alla morale, riuscì a far condannare alla mutilazione delle Fleurs du mal - solo Baudelaire, dicevo, ne colse la sfida e la modernità, nel contrasto volontario tra la perfezione artistica e la trivialità dell’argomento, così come nella scelta di “farsi donna”da parte dello scrittore. Bisognerà aspettare Proust perché quella rivoluzione venga colta e analizzata nel vivo del tessuto linguistico, e valutata per gli effetti profondi e di lungo periodo: «con l’uso interamente nuovo che ha fatto del passato remoto, del passato indefinito, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni» scriverà l’autore della Recherche, Flaubert «ha rinnovato la nostra visione delle cose quasi quanto Kant con le sue Categorie, le teorie della Conoscenza e della Realtà del mondo esterno». Che attraverso il suo stile Flaubert abbia profondamente modificato la nostra visione delle cose in una direzione segnata dalla crisi del senso, dalla problematica della temporalità, da un mutato riferimento alla materia nella e della lingua, da una tendenza a caricare di valore figurale il più banale dettaglio, è quanto riconoscerà anche Sartre, fin dalla Nausée e ben prima di accingersi a quell’interminabile scavo su come e perché Flaubert, “L’idiota della famiglia” (que-

La storia si regge su un miracoloso equilibrio che fa convivere capacità di proiezione e presa di distanza, senso del tragico e sarcasmo, empatia e comprensione fatto uso -, ma assolse lo scrittore, riconoscendo la qualità del suo impegno e del suo lavoro. Inaugurando quel lungo processo critico nei confronti del romanzo “romanzesco”a vantaggio del mezzo espressivo, il primo romanzo di Flaubert produceva “una vera rivoluzione nelle lettere”, come ben vide Maupassant ma in pochi capirono al momento della pubblicazione, quando il grande successo fu un

In alto a sinistra e in basso a destra, due ritratti di Gustave Flaubert. Verità o leggenda, non ha poi molta importanza: l’identificazione dello scrittore con Emma è attestata dalla corrispondenza degli anni in cui scriveva il suo romanzo. Creata dalla sua osservazione puntigliosa della realtà, dalle sue fantasie, dai suoi desideri, dalle sue idiosincrasie, Emma diventò l’amante immaginaria da cui Flaubert si sentiva “posseduto” e che finì, del resto, col soppiantare quella reale, Louise Colet. Qui a fianco, un fotogramma tratto dal film “Madame Bovary” (1991) del regista Claude Chabrol

sto è il titolo provocatorio), era diventato Flaubert, l’autore di Madame Bovary.

Il personaggio di Emma, che dà senso a tutto ciò che è raccontato e persino descritto, entra in campo ed esce di scena all’interno della storia del marito, indissolubilmente legata al nome di lui, al suo status di signora Bovary, come le farà notare Rodolphe, il suo primo amante - «Madame Bovary!… Eh! vi chiamano tutti così!… E invece non è il vostro nome; è il nome di un altro!» - e come sancisce il titolo del romanzo. Il quale si apre connotando Charles Bovary, fin dalla prima pagina e fin dall’adolescenza, come “ridicolo”, inadeguato alle situazioni in cui si viene a trovare, condannato alla derisione e alla rassegnazione; e si chiude portando tali connotazioni alle estreme conseguenze, con questa perfida necroscopia: «[…] accorse il dottor Canivet. Lo aprì, e non trovò nulla». Dove il sostantivo “nulla” ha tutta la sua pregnanza semantica, e suggella un’occorrenza tematica di fondo. È a questa inconsistenza che, ignara, Emma si unisce, con il suo bagaglio di sogni, di vaghe aspirazioni, di buoni propositi anche; ed è questa inconsistenza che scopre nella compiaciuta felicità del marito, nelle sue effusioni, nella sua sordità e cecità, nella ristrettezza del suo orizzonte. La sua rivolta non è dunque contro un potere che limita i suoi diritti bensì - in un crescendo che va dalla delusione, il senso di estraneità e la noia, alla ripulsa fisica e all’odio - contro un amore che non


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di Zeus», che conserva «tutte le seduzioni di un’anima virile in un seducente corpo di donna».

esclude l’indifferenza, contro una mancanza di presenza mascherata dal rispetto di abitudini e convenzioni, contro un’acquiescenza che la priva di limiti e contorni, di confronto e contenimento.

La struttura a cornice del romanzo figura il cerchio in cui lei è imprigionata e che solo la sua morte potrà mandare in pezzi. È a partire dal momento in cui passa dallo status di figlia a quello di moglie che Emma assurge al ruolo di protagonista. Ancora in crescendo: da una laconica e indiretta espressione del suo desiderio di «sposarsi a mezzanotte, con le fiaccole» che precede la lunga descrizione dell’orripilante festa di nozze campagnola, alla constatazione dello scarto fra i suoi sogni di ragazza e ciò che la vita coniugale le riserva fin dai primi mesi della cosiddetta luna di miele, alla «noia mortale» che ben presto sente piombarle addosso (...). Nel contrasto con il suo mondo Emma diventa espressione di energia positiva, per la forza autentica del suo desiderio, per la sfida alle convenzioni sociali e alla propria quiete, per il rifiuto della rassegnazione e della rinuncia, preferendo andare incontro alla rovina e alla morte violenta piuttosto che diventare un’anima morta. Mentre continua a costruirne il ritratto fisico per accumulazione di dettagli, come oggetto del desiderio maschile (compreso il suo), Flau-

bert ne esplora la soggettività svelandone i segreti, a cui dà volto, voce, legittimità. La mostra chiusa nel suo silenzio impenetrabile e seduttiva, ribelle e prostrata, fedele a se stessa e spergiura. La mostra combattiva, indomita, risorgere ogni volta che la sofferenza l’abbatte; ma anche compiacente, remissiva, patetica nella sua dedizione, sopraffatta dall’umiliazione. Ne fa il soggetto agente - soggetto desiderante e soggetto nella rivolta e nel rifiuto - e la vittima del calcolo altrui oltre che dei propri sogni. Ma lo scrittore non rinuncia a prendere con discrezione le distanze dal suo personaggio. E soprattutto rende anche lei partecipe di quella bêtise nei confronti della quale nutriva un orrore affascinato; nei momenti positivi in particolare, dialoghi e fantasie ripercorrono i più triti clichés della letteratura romantica. Il sarcasmo quindi investe anche lei, nella dissacrazione di momenti canonici delle storie d’amore come ad esempio il primo incontro e il discorso della seduzione: il ricorso al contrappunto nelle due grandi scene dialogate - la prima conversazione con Léon alla locanda e quella con Rodolphe ai Comizi agricoli - così come il crescendo nell’orchestrazione dall’uno all’altro, producono un effetto di portentoso grottesco. Un effetto che risponde agli intenti dell’autore, perfettamente consapevole della sua carica provocatoria: «Per la prima volta, credo, si vedrà un libro che si

prende gioco della sua prima attrice e del suo primo attore». Prendersi gioco, dice Flaubert, non condannarla; ma neanche idealizzarla. Semplicemente attenersi a una logica dell’inclusione che rifiuta la semplificazione riduttiva dell’aut-aut a favore della complessità della contraddizione. Fino all’inclusione del maschile. O almeno così sembrò a Baudelaire, il quale con entusiasmo salutò in Emma Bovary un «bizzarro androgino», una «Pallade armata uscita dal cervello

«Madame Bovary, c’est moi», avrebbe detto Flaubert.Verità o leggenda, non ha poi molta importanza: l’identificazione dello scrittore con Emma è fin troppo attestata dalla Corrispondenza degli anni in cui scriveva il suo romanzo. Creata dalla sua osservazione puntigliosa della realtà, dalle sue fantasie, dai suoi desideri, dalle sue idiosincrasie, Emma diventò l’amante immaginaria da cui Flaubert si sentiva “posseduto”e che finì, del resto, col soppiantare quella reale, Louise Colet, destinataria di circa 200 lettere ma tenuta a distanza (a Parigi) per preservare una creazione che per quasi cinque anni di accanito, tormentato corpo a corpo lo assorbì completamente, nell’isolamento della casa materna, alimentando la leggenda del “solitario di Croisset”. Ma la“possessione”lamentata è anche possesso. Mettersi in un corpo di donna significò far giocare insieme identificazione e alterità: una soluzione di compromesso che gli permetteva di esprimere il proprio lirismo represso; e autorizzava la proiezione delle proprie passioni, nonché il recupero di esperienze personali come la propria “malattia nervosa”per rappresentare gli stati parossistici di Emma nell’intensità del desiderio. Rappresentò dunque un momento decisivo – e per lui obbligato - in quel processo di oggettivazione di sé, di autoanalisi e socioanalisi, già avviato al maschile con la prima stesura dell’Education sentimentale e che per essere ripreso doveva passare anche per una morte simbolica (il suicidio di Emma), assicurata fin dall’inizio dal fatto di cronaca da cui lo scrittore aveva preso spunto. Attraverso la «sua piccola donna» che si perde nell’illusione romanzesca, era possibile dar voce alla propria scelta di vivere nell’universo

La struttura a cornice del romanzo è un cerchio in cui lei è imprigionata e che solo la morte potrà spezzare. È nel momento in cui passa da figlia a moglie che Emma diventa protagonista

delle parole e della finzione per rifuggire la vita («Tutto quello che è vita mi ripugna, tutto quello che mi travolge e mi ci rituffa mi spaventa»). Essere dentro e fuori il corpo e la mente di una ragazza di campagna che sogna di sottrarsi al suo destino, che insegue la pienezza invano perché non possiede gli strumenti per rovesciare linguaggio, immagini, rappresentazioni che la condannano a una passività sognante, gli permetteva di spostare la sua passione, le sue speranze e potenzialità sullo stile, identificato con un “modo di pensare” quindi capace di cambiare lo sguardo sulla realtà. Grazie al lavoro dello stile, storia, ambienti e personaggi entrano in un tessuto di immagini e figure inquietanti. Immagini spaziali di distese piatte su cui lo sguardo vaga nell’inutile attesa di veder comparire qualcuno all’orizzonte. Immagini più materiche, come quelle della citazione che vi ho letto all’inizio, con la stufa che fa fumo, la porta che stride, le pareti che trasudano, l’impiantito umido, il vapore del bollito. Immagini di contorni vacillanti sotto l’effetto di nebbie e vapori che sembrano esalare dagli stessi corpi e oggetti, facendoli pericolosamente scivolare verso l’indefinito. Descrizioni proliferanti su se stesse che accomunano nel trattamento esseri umani, animali, luoghi e oggetti. E quest’ultimi, a cominciare dall’assurdo e famoso berretto di Charles, si arricchiscono di una valenza simbolica. È così che Emma diventa anche emblematica di un disgusto e di un rifiuto più radicali: «persegue l’Ideale!», esclamava Baudelaire, nel definirla un essere «ultrasublime nella sua specie, nel suo ambiente ristretto e nel suo ristretto orizzonte»; rappresenta «l’avventura più estrema» della nostra modernità, il vuoto di realtà, scrive Nadia Fusini. Emblematica dunque, Emma, di quella interrogazione sempre aperta sul senso della vita, e del disinvestimento che sempre minaccia; dell’impossibilità di accettare la vita così com’è, di appropriarsi del presente come esso si presenta, nella sua presenza ostinata e, perciò, terrificante. O ancora, di una problematica dell’identità: un’identità sempre più fragile fino a coincidere con il senso di un vuoto costitutivo che, in mancanza di alternative concretamente percorribili, sospinge alla ricerca dell’altra metà, alla fuga in avanti, allo stordimento nell’eccesso, all’annullamento nell’amore come nel fervore religioso o ideologico. Sotto la rivolta palese di Emma cova un’altra rivolta, di carattere esistenziale, che troverà espressione in personaggi ben più demoniaci o straniati e che passerà per una rilettura del mito di Sisifo, nel cui ripetitivo, vano sforzo Camus identificherà l’assurdo della condizione umana, premessa di uno stato di rivolta che fa la condanna ma anche l’orgoglio della condizione umana.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Immigrazione in Italia: l’Islam è una minaccia? NESSUN PERICOLO DAGLI ISLAMICI, LO SCONTRO TRA CIVILTÀ NON ESISTE Quello che ci stanno delineando come uno scontro di civiltà altro non è che il tentativo, messo in atto da una parte del mondo islamico e del mondo occidentale, di distorcere e strumentalizzare la realtà. Non si tratta di alcuna guerra religiosa: il loro obiettivo è fomentare le masse ed alimentare un focolaio di odio contro ogni fede, contro ogni religione, contro l’unico Dio. Invitiamo tutti i cristiani, i musulmani, i praticanti di altri credi, gli atei e gli agnostici a non lasciarsi confondere e a non farsi trascinare nella cultura dell’odio contraria ad ogni fede ed a ogni ragione.

Salvatore Presutti - Pescara

L’IMMIGRAZIONE È UN PROBLEMA, MA ATTENTI A NON STRUMENTALIZZARLA L’immigrazione? E’ un problema. Gli islamici? Anche. Ma il punto è un altro: la strumentalizzazione della vicenda. Alemanno ha vinto a Roma e qualcuno a sinistra dovrà fare il mea culpa. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Ora, come ho già avuto occasione di dichiarare, andremo incontro ad una deriva democratica, all’oscuramento dell’informazione, ad

LA DOMANDA DI DOMANI

E’ giusto pubblicare online i redditi degli italiani? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

una campagna mediatica che mirerà a farci credere che tutto funziona, e sarà una presa in giro, ma Veltroni e compagnia, Sinistra Arcobaleno compresa, sono i responsabili perché non hanno capito nulla degli umori e dei bisogni della gente.

Carlo Minetti - Verona

BISOGNA AVERE IL CORAGGIO DI DIRE CHE LA FINTA SOLIDARIETÀ NON SERVE A NULLA Puo’ una religione essere una minaccia? Proprio no. Anzi, le religioni vanno fortemente rispettate. Alimentando una sorta di scontro di civiltà, si alimenta solamente un clima di tensione che non fa comodo a nessuno. L’immigrazione va bloccata, colpendo però le cause a monte, non colpevolizzando quei poveracci che cercano di passare dalla disperazione e dalla povertà ad una vita migliore. Bisogna avere il coraggio di dire che la finta solidarietà non serve a nulla. E allora bisogna andare nei paesi della disperazione ad aiutarli a ricostruire una vita normale a casa propria. Come italiani dovremmo considerarci un ponte di dialogo verso il vicino oriente. Senza mai pensare di avere davanti a noi dei nemici. Cordialità.

Alfredo Signore - Genova

ROMANIA, MAROCCO, ALBANIA, I VERI PERICOLI ARRIVANO DA LÀ Lo scandalo degli immigrati è sotto gli occhi di tutti. Quelli onesti, islamici o romeni che siano, non si offendano, ma sono i primi a sapere che ci sono molte mele marce. E ci vogliamo dimenticare degli altri? Albanesi e marocchini: in 11 di 13 reati diversi (dalla rapina all’omicidio) le prime tre nazionalità sono ricorrenti: Romania, Marocco e Albania. Inoltre queste tre nazionalità entrano in oltre la metà dei denunciati per questo tipo di reato: 52% dei furti di autovetture, 50% dei furti in abitazione, 51% dei furti con destrezza. Per non parlare di reati come il racket delle donne o degli infermi ai semafori. Il colmo? Se stanno male vanno al pronto soccorso. E secondo voi il ticket lo pagano?

AIUTI AD ALITALIA Alitalia: ha senso affrontare oggi la questione in modo decisamente “vecchio”, e cioè erogando altro denaro pubblico? Sul piano pratico, finanziare Alitalia innanzitutto significa sottrarre in buona sostanza fondi al nostro penoso – ma indispensabile – sistema ferroviario e stradale: ciò avverrebbe poi proprio in un momento di grave crisi generale. Inoltre, siamo sicuri che Alitalia serva realmente? E’ assurdo pensare che gli spazi, lasciati liberi da Alitalia, non possano essere usati da operatori decisamente più efficienti ed economici, interessati a offrire i voli richiesti dal mercato. Interessa forse minimamente al contribuente l’esistenza o l’idea stessa di una “compagnia di bandiera”? Oppure il contribuente/consumatore privilegia la bontà dei servizi che riceve, volendo pagare solo ciò che realmente usa al prezzo che vale? Sul piano giuridico, verosimilmente è aiuto di Stato qualsiasi conferimento di denaro pubblico in favore di Alitalia, a prescindere dal modo in cui

GIOCHI D’ACQUA Prove generali a Pechino per le prossime Olimpiadi: il Water Cube (letteralmente cubo d’acqua), che al suo interno ospita la piscina olimpionica, viene illuminata ormai tutte le sere PENSIAMO SUBITO A UN PIANO ENERGETICO

CONTINUIAMO A SOSTENERE LA CAUSA DEI TIBETANI

Mi auguro che la nuova legislatura porti presto ad una stesura di un piano energetico nazionale. Infatti, senza di esso, è impossibile coordinare una vera politica energetica ed infrastrutturale, ad esempio, nel campo dei rigassificatori e nell’ormai indispensabile riequlibrio del mix energetico che vede l’Italia assai lontana dai Paesi europei avanzati. Questi temi così complessi richiedono più di una sola legilatura per essere resi operativi; è necessario quindi che tali interventi siano il più possibile bipartisan in quanto l’energia e le infrastrutture energetiche non devono avere colore politico ma servire solo al bene del Paese. Cordialmente ringrazio per l’attenzione.

Lo scontro tra tibetani e cinesi dentro e fuori la Cina sembra proprio non placarsi mai. La polizia cinese, ci hanno fatto sapere ieri, ha aperto il fuoco e ucciso un manifestante filo-tibetano nella provincia di Qinghai, un’area popolate da molti tibetani. Lo ha anche confermato la stampa cinese e la notizia è la prima ammissione ufficiale da parte delle autorità di Pechino di una vittima provocata dalle forze di polizia cinesi. Nello scontro a fuoco con gli agenti è rimasto ucciso anche un poliziotto. Quando ci renderemo conto davvero di ciò che sta accadendo in Tibet e Cina? Perché le diverse manifestazioni e contestazioni a sostegno dei tibetani adesso sono scemate? Passate di moda?

dai circoli liberal Giorgia Lorenzetti - Foggia

venga concesso (prestito, garanzia, acquisto di azioni, nazionalizzazione tout court), perché nessun privato sarebbe disposto ad “investire” nel modo in cui lo Stato intende fare. Una volta classificato il finanziamento come aiuto, la sua incompatibilità con il mercato comune è quasi scontata, siccome in concreto si tratta di prolungare ancora la sopravvivenza artificiale di un operatore decotto, che in passato ha già ampiamente “abusato” di analoghi sostegni per gli stessi fini. Ciò a discapito di chi affronta il mercato facendo affidamento solo sulle sue tasche. Siccome il diritto comunitario non solo vieta di erogare aiuti incompatibili, ma impone anche a chi ne beneficia di restituirli, quali sono le implicazioni per il bilancio di Alitalia? Il suo consiglio di amministrazione può spendere tranquillamente i fondi pubblici che riceverà oppure deve subito “portare i libri in tribunale”, onde evitare l’incriminazione per bancarotta fraudolenta? Sul piano politico, agli inizi del proprio lavoro il nuovo Governo rischia di dare il peggio-

Luigi La Mantia Caltanissetta

Diana Pacini - Bologna

re segnale possibile, abiurando la difesa del libero mercato e perseguendo un obiettivo degno dello statalismo più integralista. Nella triste scorsa legislatura, Prodi fu ferocemente fischiato in Parlamento dal centro-destra, quando con orgoglio egli rivendicò di avere guidato in passato l’IRI, la holding pubblica italiana che ha soffocato le nostre finanze, proprio erogando a pioggia aiuti ad un sistema di imprese altamente inefficiente e fallimentare: erano i tempi dei “boiardi” di Stato, tanto vituperati quando si diede avvio alle (finte?) privatizzazioni nel nostro paese! Nella legislatura ancora precedente, poi, fu proprio il presidente Berlusconi a negare gli aiuti di Stato alla Fiat, che allora annaspava. Decisione però quanto mai saggia che spronò la proprietà ad affrontare le proprie difficoltà, portando così detta società nuovamente in attivo ed ai vertici del mercato. Possiamo adesso sperare nel nuovo? Ermenegildo Mario Appiano CIRCOLO LIBERAL TORINO


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Il tuo amor e è un piano di guerr a L’amore senza una fede profonda fra le due parti non può esistere. Io l’aveva questa fede; ora è distrutta; e da chi? Quando io presi ad amarti, forse mi abbandonai troppo alla mia naturale caldezza, forse diedi troppo ascolto all’infinito bisogno d’amore che mi affannava. Io non notai in te certi segni, certi indizi d’anima e di temperamento che, meglio osservati, mi avrebbero persuaso a lasciare scorrere questa occasione. Una forza irresistibile mi trasportava a ingannarmi, ed era così soave, così lusinghiero l’inganno! Le mie labbra assetate bevvero l’onda avidamente, senza guardare se era amara o dolce, salubre o mortifera. Mea culpa, mea culpa. L’amor tuo non era un affetto limpido, spontaneo, ma un affare diplomatico, concertato, un piano di guerra. Questi amori di testa non reggono; sono mostruose, informi creazioni d’un cervello stretto, sconnesso, sono ragnatela che possono prendere una mosca, ma un uomo giammai. Carlo Bini ad Adele Perfetti De Witt

LA CONTROINFORMAZIONE DEL PARTITO DEMOCRATICO L’episodio riportato durante la campagna elettorale per il ballottaggio di Roma da alcuni esponenti del Pd circa una presunta aggressione da parte di ignoti pericolosi golpisti squadristi fascisti con teste rasate, mazze da baseball e felpe di Alemanno, è stato il triste epilogo dei contenuti espressi dalla sinistra in questi giorni di campagna elettorale. La sinistra non avendo altri argomenti se non quelli della solita e puntuale minaccia fascista, era arrivata a fare dichiarazioni deliranti e anche un po’ comiche in merito ad una presunta aggressione che a quanto ci sembra di aver capito è stata solo verbale. Se durante questa campagna noi giovani di centrodestra avessimo dovuto denunciare tutti gli episodi di insulti e minacce ricevute dai soliti gruppettari della sinistra, avremmo dovuto passare i giorni elettoralmente utili a far denunce e comunicati stampa. Fortunatamente durante la campagna elettorale abbiamo avuto altro a cui pensare. A differenza di altri. E i romani hanno premiato Alemanno.

Francesco Paganini - Roma e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

1 maggio 1786 Prima dell’opera Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart, a Vienna 1886 Inizio dello sciopero generale che porterà a ottenere le otto ore lavorative negli Stati Uniti. Questo evento viene oggi commemorato come Primo maggio, Festa dei lavoratori 1960 Guerra Fredda: Crisi degli U-2 - Francis Gary Powers, a bordo di un aereo-spia U-2, viene abbattuto nel cielo dell’Unione Sovietica: inizia la crisi 1994 Il pilota di Formula 1, Ayrton Senna muore durante il Gran Premio di San Marino 2004 Unione Europea: entrano a farne parte dieci nuovi paesi: Polonia, Slovenia, Ungheria, Malta, Cipro, Lettonia, Estonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia

LA PROVINCIA DI ROMA E IL CORPO DI POLIZIA In 5 anni le guardie provinciali di Roma non sono state mai valorizzate e gli investimenti per la loro qualificazione e ammodernamento degli equipaggiamenti sono stati a dir poco ridicoli se confrontati Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

L’Islam che vorremmo e l’islamismo reale di Daniel Pipes Per quale motivo la transizione dell’Islam dovrebbe essere più agevole o più facile? Il processo volto a conformare l’Islam alla democrazia necessiterà di profondi cambiamenti nella sua interpretazione. Ad esempio, la Shar‘ia, la legge islamica antidemocratica, costituisce il fulcro del problema. Concepita oltre un millennio or sono, essa immagina governanti autocratici e sudditi sottomessi, enfatizza la volontà divina ai danni della sovranità popolare, ed incoraggia il jihad violento ad ampliare i confini dell’Islam. Inoltre, la Shar‘ia preferisce i musulmani ai non-musulmani, gli uomini alle donne e le persone libere a quelle ridotte in schiavitù. Affinché i musulmani riescano a costruire delle democrazie funzionanti, essi devono essenzialmente ricusare gli aspetti pubblici della Shar‘ia.Atatürk affrontò questo problema a viso aperto in Turchia, ma altri offrono degli approcci più sottili. Mahmud Muhammad Taha, un pensatore sudanese, contestualizzò le leggi islamiche pubbliche, re-interpretando radicalmente il Corano. Gli sforzi di Atatürk e le idee di Taha implicano che l’Islam sia in perenne evoluzione e che considerarlo come immutabile sia un grave errore. Oppure, come nella colorita metafora di Hassan Hanafi, docente di filosofia all’Università del Cairo, il Corano “è un supermercato: uno prende ciò che vuole e lascia ciò che non desidera”. Il problema dell’Islam più nel suo essere antimoderno, consiste maggiormente nel fatto che il suo processo di modernizzazione non è affatto iniziato. I musulmani possono modernizzare la loro religione, ma ciò richiede dei cambiamenti importanti. Bisognerà eliminare il ricorso al jihad per imporre il governo musulmano, i cittadini di serie B perché non sono musulmani e le condanne a morte per blasfemia e apostasia. Occorrerà, piuttosto, introdurre le libertà individuali, i diritti civili, la partecipazione politica, la sovranità popolare, l’eguaglianza davanti alla legge ed elezioni rappresentative. Ma due ostacoli intralciano questi cambiamenti. Specialmente in Medio Oriente, le appartenenze tribali continuano a rivestire primaria importanza. Come spiegato da Philip Carl Salzman nel suo re-

alle ingenti spese per feste, banchetti, telegatti voluti e promossi dalla Giunta Gasbarra. Il di nuovo eletto presidente Zingaretti ha millantato in televisione di utilizzare le guardie provinciali allo scopo di mantenere l’ordine pubblico. Quali sarebbero stati gli addestramenti Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

cente volume Culture and Conflict in the Middle East, questi legami creano un complesso schema di autonomia tribale e di centralismo tirannico che ostruisce lo sviluppo del costituzionalismo, la supremazia della legge, la cittadinanza, l’eguaglianza tra i sessi e gli altri prerequisiti di uno stato democratico. Fino a quando questo arcaico sistema sociale basato sulla famiglia non verrà eliminato, la democrazia non potrà fare dei passi in avanti in Medio Oriente. A livello globale, il seducente e potente movimento islamista ostruisce la democrazia. Esso ambisce a conseguire l’esatto opposto delle riforme e della modernizzazione, vale a dire la riaffermazione della Shar‘ia nella sua interezza. Può darsi che un jihadista come Osama bin Laden possa dichiarare più esplicitamente questi obiettivi rispetto a quanto possa fare un politico che appartiene alla classe dirigente, come il premier turco Recep Tayyip Erdo\\u011Fan, ma entrambi cercano di creare un ordine interamente antidemocratico, se non totalitario. Gli islamisti reagiscono in due modi alla democrazia. Innanzitutto, essi l’accusano di non essere islamica. Il fondatore dei Fratelli musulmani, Hasan al-Banna, considerava la democrazia un tradimento dei valori islamici. Sayyid Qutb, teorico dei Fratelli musulmani, ricusava la sovranità popolare, al pari di Abu al-A‘la al-Mawdudi, fondatore del partito politico pachistano Jamaat-e-Islami.Yusuf al-Qaradawi, imam dell’emittente televisiva Al-Jazeera, sostiene che le elezioni siano eretiche. Malgrado questo sdegno, gli islamisti sono impazienti di utilizzare le consultazioni elettorali per ottenere potere e si sono dimostrati degli attivi votanti. Perfino un’organizzazione terroristica (Hamas) ha vinto un’elezione. Questi precedenti non rendono gli islamisti democratici, ma denotano la loro flessibilità tattica e la determinazione ad ottenere il potere. Come Erdo\\u011Fan ha chiaramente spiegato: “la democrazia è come un tram. Quando si arriva alla fermata si scende”. Il duro lavoro potrà un giorno creare un Islam democratico. Nel frattempo, l’islamismo rappresenta la principale forza antidemocratica mondiale.

che rendono questo corpo formato da giovani dalle grandi capacità ma addestrati a fare tutt’altro? Qualche zelante dirigente tirapiedi in Provincia sembra aver obbedito in campagna elettorale alle indicazioni di non meglio indicate gerarchie politiche, mandando in giro

agenti della polizia provinciale nelle stazioni non si sa bene a fra che se non a mettere a rischio, la loro stessa incolumità. E’pazzesco strumentalizzare il corpo della polizia provinciale facendogli fare cose inutili e pericolose.

Federico Muccioli

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Circa 15 i miliardi di dollari di danni

Sulle coste dell’Africa e dell’Asia tornano di Maurizio Stefanini o scorso 4 aprile fu sequestrato lo yatch francese Ponant, con 30 uomini a bordo. E lì in capo a una settimana la soluzione fu militare, con l’assalto delle Forze Speciali francesi che ha ucciso tre pirati e catturato gli altri sei, di cui il Governo Federale di Transizione somalo ha poi autorizzato l’estradizione a Parigi. Ma il riscatto di 2 milioni di dollari, in realtà, è stato pagato. Semplicemente gli elicotteri sono partiti subito dopo la liberazione degli ostaggi, recuperando metà della somma. Poi, il 20 aprile è stato il peschereccio basco Playa de Bakio a essere preso all’arrembaggio dai pirati somali, mentre era intento alla pesca del tonno. Anche Zapatero ha mandato la fregata Méndez Nuñez, ma i 26 marinai sono stati liberati dopo sei giorni dagli stessi pirati, e a differenza della marina francese quella spagnola non si è lanciata in rappresaglie, ma si è limitata a scortare le vittime sulla via del ritorno. Nel frattempo, il 23 aprile la portacontainer italiana Neverland era stata attaccata a colpi di mitra e missili anticarro da cinque barchini mentre era in rotta verso l’India. Ma stavolta era in zona proprio una corvetta della nostra Marina, la Comandante Borsini. Non stava lì per caso: anche la Comandante Borsini fa parte di un Joint Force Command con base a Gibuti, con obiettivi antiterrorismo. Solo che i pirati somali non solo jihadisti. I cosidetti “marines somali”sono un’organizzazione militare vincolata al clan Hawiye, che approfitta del vuoto di potere causato dalla dissoluzione dello Stato in un’area densa di imbarcazioni: sia perché ricchissima di pesce; sia perché vi passa l’importante rotta del Mar Rosso all’uscita dal Canale di Suez. Equipaggiati con radar, satellitari e armi da guerra, sono in condizioni di colpire in un raggio fino alle 400 miglia dalla costa. E si sospetta siano in contatto con uomini d’affari residenti nel Golfo, che passerebbero loro informazioni chiave sul traffico marittimo.

L

Nel corso del 2007 al largo della Somalia sono state attaccate 38 navi, la marina militare francese ha dovuto mettere sotto scorta perfino le navi del Programma alimentare mondiale che portano il cibo ai campi profughi di Mogadiscio, e lo scorso 30 ottobre i pirati hanno perfino cementato contro di sé un inedito asse Washington-Pyongyang, quando a 70 miglia al largo di Mogadiscio il cacciatorpediniere James E.W illiams ha sorpreso una battaglia in corso sulla nave nord-coreana Dai Hong Dan,

I PIRATI con i pirati che si erano ormai impadroniti del ponte mente i marinai resistevano barricati tra timone e sala macchina. L’intimazione degli americani agli assaltanti permise agli aggrediti di passare al contrattacco, uccidendo due pirati e catturandone altri cinque, mentre tre nord-coreani feriti furono curati a bordo del James E. Williams. La Somalia non è però l’unica di queste nuove Tortughe. L’International Maritime Bureau (Imb) stima in 13-16 miliardi di dollari all’anno i danni provocati dalla pirateria su scala planetaria, e tra le zone più pericolose in questo

momento sono segnalate nell’ordine Nigeria, India, Indonesia, Tanzania e Perù.

Oltre ai clan somali ci sono pescatori malesi e del Sud islamico delle Filippine, per i quali la pirateria è un tradizionale business complementare. E criminali comuni cinesi. E le Tigri Tamil in rivolta contro il governo dello Sri Lanka. E i ribelli del Delta del Niger in Nigeria. Dopo quella Dichiarazione di Parigi del 1856 che mise fuori del Diritto Internazionale la corsareria vietando la concessione di ”Patenti” a privati, un punto di riferimento in materia è quella convenzione di Montego Bay che nel 1982 consentì a tutti l’intervento militare in acque internazionali. Ma in acque territoriali ciò è possibile solo da parte del titolare legittimo della sovranità, e pr questo lo “Stato fallito” della Somalia è diventato un pericoloso buco nero. Per «riconquistare il Corno d’Africa al Diritto Internazionale» Sarkozy propone a Organizzazione marittima internazionale e Consiglio di Sicurezza dell’Onu di consentire un diritto di inseguimento «per mare e per acqua». Londra, Washington e Madrid sono d’accordo. Restano da convincere Russia e Cina.

Ribattezzati “marines somali”, non sarebbero jihadisti, vengono equipaggiati con radar, satellitari e armi da guerra, e sono in condizioni di colpire in un raggio che arriva fino alle 400 miglia dalla costa


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