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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Memorie di un alunno speciale discutendo della scuola italiana

di e h c a n cro di Ferdinando Adornato

Comincia in un clima di tensione la Fiera del libro di Torino. Chi contesta lo Stato ebraico deve sapere che attacca tutti noi

Israele siamo noi

I

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Oggi giura il nuovo governo: fedelissimi del premier più la Lega (An irritata) Silvio Berlusconi ha accettato l’incarico e ha presentato subito la lista dei ministri: 12 con portafoglio e 9 senza. Conferme per Frattini, Maroni, Tremonti, La Russa. La Prestigiacomo all’Ambiente, Calderoli alla “semplificazione”. La Brambilla viceministro alla Salute, la Carfagna alle Pari opportunità. Oggi ci sarà il giuramento

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c on ti n ua a p a gi na 14 n el l ’i n se r to So cr a te

Intervista a Marco Follini

Dopo l’ultimo scandalo in Congo

«Pd, con Di Pietro strade separate, guardiamo al Centro»

Onu, addio all’illusione umanitaria

di Susanna Turco

di Stranamore

Mentre nel Pd la tensione si taglia col coltello, e sui blog c’è chi si dispera per la riunione correntizia dei dalemiani che ha scosso i nervi del loft, a Marco Follini, alla sola parola “correnti”brillano gli occhi.

C’è qualche alternativa al metodo che l’Onu utilizza per assemblare, gestire, controllare le decine di migliaia di uomini impegnati in 17 missioni di pace in corso in ogni parte del globo?

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Errico Novi e Marco Palombi a pagina 6 e 7 GIOVEDÌ 8 MAGGIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

di Giulio Andreotti primissimi anni di vita li ho trascorsi a Segni, città dove mio padre era nato e dove tornò malato dal servizio di guerra e attese la fine, giunta solo dopo trenta lunghissimi mesi. Ci trasferimmo allora a Roma presso una vecchia zia, classe 1854, inossidabile devota di Pio IX, che da ragazza era andata quasi ogni giorno ad applaudire nelle sue passeggiate in carrozza per Via Giulia. A questa zia devo tanto: dalla conoscenza di tutte le chiese romane al carattere accomodante. Se qualcuno cerca di farti arrabbiare - diceva – non gli dare questa soddisfazione; resta indifferente. Creperà di rabbia. Papalina nostalgica, la zia evocava l’alluvione del dicembre 1870, poche settimane dopo l’arrivo dei “piemontesi”. Spiegava però che il relativo ricordo marmoreo in Piazza della Minerva era falso. L’acqua non era davvero arrivata così in alto, ma si era dovuto togliere ai “nostalgici” la soddisfazione di utilizzare le iscrizioni per propaganda (vi scrivevano con il carbone “ringraziate chi ha cacciato il Papa”). Con qualche mese di tollerato anticipo, andai alle elementari, per due anni nella Scuola Comunale di Piazza della Maddalena e poi alla Emanuele Granturco, in via della Palombella. È a pochi passi dal Senato, ma allora non lo sapevo.

alle pagine 2, 3, 4 e 5 Alfano alla Giustizia e Sacconi al Lavoro

Se i maestri di oggi fossero come la mia vecchia Bruscani

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Israele

siamo noi

Il nuovo antisemitismo. Le manifestazioni di Torino contro lo Stato ebraico sono in realtà attacchi alla nostra identità

Israele, Italia, Occidente: è lo stesso libro di civiltà di Ferdinando Adornato unque si apre a Torino la Fiera delle polemiche. Polemiche astiose, pesanti, a volte farneticanti contro l’ospite d’onore di questa edizione: Israele. Polemiche che sono arrivate a coinvolgere perfino il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, reo di aver voluto partecipare all’inaugurazione della Fiera. E speriamo che le incredibili espressioni di antisemitismo pronunciate in questi giorni non si trasformino oggi, come spesso accade in Italia, in gesti di violenza e di intimidazione. Ho scritto antisemitismo e lo ripeto, nonostante uno degli intellettuali contestatori Gianni Vattimo si sia prodotto in una bizantina distinzione tra antisionismo e antisemitismo. Caro Vattimo, le vie dell’inferno sono lastricate di (apparenti) buone intenzioni. E l’inferno nel quale tu e i tuoi colleghi vi siete gettati, contestando la celebrazione del sessantesimo compleanno dello Stato d’Israele è il medesimo inferno attraversato dall’intera Europa del Novecento, l’inferno dell’odio totalitario.

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C’è un’amara verità che le assurde polemiche di Torino riportano a galla. Nonostante gli inauditi crimini subiti nel secolo scorso, nonostante oggi la presenza dello Stato ebraico sulla terra sia accettata in maniera sempre più diffusa, la normalità di Israele non si è mai fino in fondo compiuta. Non si è mai sopito l’odio, non sono mai state superate tutte le reticenze e i pregiudizi. Nuove e diverse forme di antisemitismo sono tornate ad affacciarsi sul palcoscenico della storia europea e mondiale fino a far risuonare di nuovo nel consesso internazionale, l’allucinante minaccia della distruzione dello Stato d’Israele. Di fronte a questa minaccia, mai abbandonata, per la verità, dalle più estreme fazioni palestinesi e islamiche, una delle quali ora governa i territori, e oggi fatta propria, con affermazioni deliranti, dal governo di Teheran, l’Europa avrebbe il dovere di schierarsi con molta più forza dalla parte di Israele. Al contrario, nell’atteggiamento europeo permangono ancora ambiguità e astratte equidistanze che alla fine diventano palesi complicità con gli estremisti. In realtà l’Europa non ha ancora capito una cosa: che Israele siamo noi. Stare con Israele significa stare con se stessi. La verità storica ci dice infatti che non si dà Occidente senza Israele. L’esistenza di Israele è parte vitale dell’esisten-

za stessa dell’Occidente. Simul stabunt, simul cadent. Se cade Israele, cade anche l’Occidente. L’ebraismo - come ebbe a ricordare Karol Wojtyla - è il fratello maggiore del cristianesimo ed entrambi convergono nel proporre all’umanità la centralità della persona nella storia, l’etica della responsabilità individuale come motore dell’esistenza umana. Attraverso questa convergenza filosofica l’umanesimo ebraico, l’umanesimo cristiano e l’umanesimo liberale hanno fondato la civiltà occidentale. Non a caso è stato proprio questo triangolo filosofico, religioso, politico il principale bersaglio storico dei totalitarismi del Ventesimo secolo. La volontà di annichilire ebraismo, cristianesimo e liberalismo: questo è stato il crimine del pensiero che ha dato poi vita a quei pensieri del crimine che abbiamo chiamato nazismo e comunismo.

Dovremmo tutti noi europei trovare il coraggio, parafrasando la celebre frase di John Kennedy a Berlino, di dire «io sono israeliano, noi siamo israeliani». Viceversa, non è così, e purtroppo non è così specialmente per noi italiani.

l’espulsione delle religioni dalla nostra vita pubblica, la neutralizzazione dei valori cristiani dal libero confronto delle opinioni. Una sorta di inedito apartheid che vorrebbe relegare le idee di chi crede nella sfera intima della coscienza del singolo, escludendo che esse possano collaborare alla formazione della coscienza pubblica. Ebbene, il tentativo di neutralizzare il ruolo pubblico del cristianesimo e la rinascita dell’antisemitismo o la perdurante diffidenza nei confronti di Israele, se lette sul piano della storia e non della politica, fanno parte della stessa dinamica culturale. Sono tutte figlie della paura e della ripulsa dell’identità storica dell’Occidente, dell’identità giudaico-cristiana. Giovanni Paolo II ci ha ricordato come anche alla base dell’organizzazione sociale israelita non ci sia Abramo, bensì Mosè, in quanto artefice di una particolare forma di “Stato di diritto”fondato sulle dieci leggi donate da Dio al popolo d’Israele. Il rispetto di quel decalogo prefigura un’idea di democrazia con alcuni limiti sacri all’interno dei quali devono vivere gli uomini. Dunque una democrazia pienamente laica e non confessionale, con alcuni limiti che fanno parte del rapporto sacro della vita, del rapporto dell’uomo con il mistero del-

Perfino Napolitano è stato coinvolto nelle polemiche di Torino che ripropongono i dogmi delle culture totalitarie degli anni ‘30: contro gli ebrei, gli americani, il capitalismo Quando alcuni governi europei, si batterono per l’introduzione del riferimento alle radici giudaico-cristiane nella Carta costituzionale d’Europa, si svolse nel nostro continente un dibattito di grande rilevanza storica. Da un lato, c’era chi riteneva naturale, persino inevitabile, che nel manifesto dei valori e principi fondanti dei popoli europei vi fosse contemplata l’origine, il logos giudaicocristiano dal quale la nostra storia traeva fondamento. Dall’altro, c’era chi considerava quel riferimento un inutile orpello, volto a escludere altre identità dall’identità comune europea. Per ora la seconda posizione ha avuto la meglio, però così si è sancito uno dei peggiori esiti del pensiero politico europeo degli ultimi tempi: la paura della nostra stessa identità, l’imbarazzo di fronte alla nostra stessa storia.

Questa filosofia relativista e laicista che sembra aver contagiato una buona parte delle classi dirigenti europee, propugna

la vita. Sono regole invalicabili. Sono le stesse che nella dichiarazione d’indipendenza statunitense del 1776 vengono ricordate come «verità di per se stesse evidenti, quali il diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità». Sono dunque verità universali che collegano Gerusalemme a Filadelfia e che dovrebbero coinvolgere anche l’Europa ma, nel Vecchio continente molti oggi si propongono di declassarle al rango di verità relative, proprio mentre il terrorismo islamico combatte contro di esse l’inedita guerra mondiale di questo nuovo secolo.

Guai a sottovalutare i segni del tempo che abbiamo davanti. Dobbiamo prendere sul serio Ahmadinejad? Molti credono che quello del leader iraniano sia una sorta di gioco propagandistico, un modo di ottenere visibilità nel quadro mondiale. Attenzione a non compiere lo stesso errore compiuto con Hitler. La storia ci ammonisce a prendere sul serio chi è a capo di uno Stato quando fa certe affermazioni, e

quando parla di distruzione di massa. Forse gli europei, che non sono abituati a prendere sul serio se stessi, dimenticano che gli altri possono ragionare diversamente. Sta di fatto che l’antisemitismo europeo si è risvegliato dopo cinquant’anni di sonno. Ha scritto il filosofo ebreo francese Alain Finkielkraut: «Nel disinteresse pubblico si incendiano sinagoghe, molti rabbini vengono insultati nelle strade, i cimiteri profanati, le università devono far ripulire durante il giorno i loro muri imbrattati nella notte di scritte oscene. Ci vuole del coraggio per indossare una kippa nella metropolitana parigina e il sionismo viene criminalizzato da un numero sempre crescente di intellettuali. Gli ebrei hanno il cuore pesante e, per la prima volta dopo la guerra, hanno paura». Che non siano vuote chiacchiere lo dimostrano i numeri. Dalla Francia verso Israele tra il 2000 e il 2005 se ne sono andati in 11.148, e l’anno peggiore è stato proprio il 2005 con 3.300 ebrei immigrati a Gerusalemme. Il numero più alto degli ultimi trentacinque anni. In questo quadro vanno crescendo odio e ostilità verso Israele ed è veramente drammatico il fatto che molti ancora non se ne rendano conto. In questo quadro hanno fatto davvero impressione le parole pronunciate tempo fa dal premio Nobel portoghese Josè Saramago, che, dopo aver paragonato il confinamento di Arafat a Ramallah a «una nuova Auschwitz», ha sostenuto che «il popolo ebreo ormai non merita più alcuna simpatia per le sofferenze che ha passato».

Parole terribili, parole vergognose. Parole di guerra pronunciate da intellettuali che sicuramente pensano se stessi come uomini di pace. Parole echeggiate dallo scrittore egiziano Tariq Ramadam, tra i promotori del boicottaggio della Fiera del Libro, che ha criticato il Presidente Napolitano per aver compiuto l’errore di andare a Torino tacciando «di antisemitismo chi critica lo Stato di Israele». La verità è che le passate parole di Saramago, le recenti polemiche di Torino, rappresentano al massimo livello, l’ipocrita teorema della violenza che viene da sempre usata


Israele

verso Israele. Fateci caso: quando alla televisione giunge notizia di violenze commesse da parte israeliana il commento più frequente rivolto agli israeliani è: «Ma come? Proprio voi che avete così sofferto, come fate a essere così crudeli nei confronti degli altri?». Quando invece giungono notizie di violenze palestinesi si dice: « Bisogna capirli, hanno tanto sofferto, non hanno una terra». Assurda relatività del giudizio sulla violenza! Si fabbrica così, anche sui media, un monumento all’ipocrisia che proietta i due pesi e le due misure fin nelle carni dolenti della storia.

Riflettiamo: qual è il cocktail culturale che questi movimenti no-global o presunti pacifisti propongono? Antiamericanismo, Antiebraismo, Anticapitalismo. Che cosa ricordano queste parole messe una dietro l’altra? Purtroppo ricordano quella lotta contro le nazioni demo-pluto-giudaiche che negli anni Trenta creò poi i presupposti per insanguinare l’Europa. Di nuovo, dopo decenni, queste parole d’odio sono ancora lì che circolano tra noi, e gli intellettuali che le proferiscono sono una sorta di nuovo «fascismo rosso» o «comunismo nero», come si preferisca. Si richiamano comunque a una cultura totalitaria e siamo tutti chiamati a vigilare perché la storia non torni indietro. Nella sinistra più moderata circola invece il ragionevole avvertimento di non confondere un’ostilità preconcetta verso Israele con la legittima critica politica verso il governo israeliano. In sé questa distinzione è sacrosanta: una cosa infatti è essere ostili verso Israele, altra cosa è poter criticare il governo israeliano così come qualsiasi altro governo. Distinzione sacrosanta, dunque: ma è anche vera? No. Perché se fosse vera essa dovrebbe condurre almeno parte della sinistra a rappresentare, quando è il caso, anche la «legittima critica verso il governo di Hamas o verso Hezbollah». Ma ciò non avviene mai: non si ricordano infatti manifestazioni in tal senso, né contro Hezbollah né contro le minacce di Teheran. La musica che si suona a sinistra ha sempre un suo-

siamo noi

no unilaterale: contro gli Usa, contro Israele, contro l’Occidente. Le bandiere offese e bruciate sono sempre quelle americane e israeliane. Non si ricordano manifestazioni a favore di Peres o dei laburisti israeliani, né a favore dell’ala moderata dei palestinesi e contro Hamas. Nulla di tutto ciò. Allora vuol dire che si tratta solo e soltanto di ostilità preconcetta.

La tesi è nota: lo Stato ebraico, la lobby sionista interplanetaria aiutata dagli Stati Uniti sono gli avamposti di combattimento di un imperialismo spietato che alla fine determina tutte le ingiustizie del mondo, la povertà, gli squilibri, le guerre. Come è evidente, alla fine tale tesi è la stessa di Goebbels e del nazismo, che individua-

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glio di dialogo, di tregua, di pace. È difficile, ma è questo il compito che ci spetta. Per questo, per la cruna dell’ago di una vera pace tra Israele e il resto degli Stati che lo circondano, passa molto del futuro della nostra epoca e del benessere della stessa civiltà occidentale.

Anche per questo, bisogna rilanciare l’idea di far entrare Israele nella Nato. Non siamo ingenui: mentre l’ipotesi dell’ingresso di Israele nell’Unione europea è davvero problematica, l’idea di un ingresso di Israele nella Nato lo è di meno. Anche se il rapporto tra Israele e Nato non è sempre stato positivo, anzi è stato

Molti europei dimenticano che tra le due parti in guerra nel Medioriente solo una vuole la distruzione dell’altra: e questi sono gli estremisti palestinesi di Hamas vano negli ebrei la causa della decadenza del mondo intero. Ma sono queste, purtroppo, le tesi che circolano nella cultura di massa della sinistra.

Ecco allora il punto cruciale della questione: l’Europa sembra dimenticare che delle due parti in guerra ce n’è soltanto una che vuole la distruzione dell’altra. E ce n’è soltanto una che, non per errore, ma per scelta, punta su obiettivi civili, sulle stragi di massa e dunque sul terrorismo come metodo riconosciuto e accettato di guerra. Ma come si fa a dimenticarlo? Credo ci sia una sola risposta plausibile: per ragioni storiche, ideologiche o politiche, non tutti gli europei vogliono che gli israeliani si difendano dai terroristi. È amaro dirlo, ma non vedo altre spiegazioni. Il caso Israele è una metafora del grande compito storico che spetta alla nostra generazione: combattere una strenua battaglia contro il terrorismo, il fanatismo, il fondamentalismo, lavorando sempre nello stesso tempo per sfruttare ogni spira-

a lungo caratterizzato da un reciproco atteggiamento di indifferenza, spesso di diffidenza. Ma le cose possono e debbono cambiare. Anzi, stanno già cambiando. Se è vero che il ministro israeliano Livni poco tempo fa disse, commentando un accordo di cooperazione che prevede la partecipazione dello Stato ebraico alle operazioni antiterrorismo nel Mediterraneo che «Israele e la Nato sono partner naturali ed è ormai necessario costituire una difesa comune tra quelle nazioni che condividono i nostri valori e principi». Ebbene, questa è la strada del futuro, e anche se non fosse immediatamente praticabile, se i Paesi europei rendessero uffiviale la proposta di far entrare Israele nella Nato significherebbe dare una forte risposta alle minacce di Ahmadinejad.

Nell’orazione tenuta in occasione della commemorazione di Rabin, David Grosmann ha detto: «Sono una persona asso-

lutamente laica e nonostante ciò, ai miei occhi, la creazione e la stessa esistenza di Israele appaiono come un miracolo che è accaduto a noi come popolo: un miracolo nazionale, politico e umano». Penso anch’io così. Israele è davvero un miracolo: un faro di libertà in una terra dove la stessa parola risulta intraducibile, l’unica fonte di luce europea e occidentale presente nell’area mediorientale. In quella parte del mondo la ruota della storia gira cambiando di volta in volta le scene della propria epifania, ma lascia irrisolto l’enigma di fondo: la possibile-impossibile convivenza tra lo Stato ebraico e i palestinesi, la pace vera, duratura tra una democrazia reale e una solo sperata, tra uomini che credono in religioni diverse, tra famiglie spezzate dalle bombe lanciate da famiglie spezzate dai cannoni, tra gente che muore sognando il martirio della morte e gente che vive sperando che finisca il permanente martirio della vita. È una pace difficile ma non si può raggiungere se l’Europa e l’Occidente lasciano solo Israele. Non lasciare solo Israele è, dunque, la condizione per poter raggiungere la pace. Al contrario di quanto pensano i contestatori di Torino.

Infine: un’accusa che molti europei continuano a rivolgere a Israele è di sentirsi ancora il popolo eletto. Al contrario, penso che mai Israele è stato così incerto, perplesso e inquieto. Eppure non ha perduto la curiosità e il piacere, tutti ebraici, di osservare, comprendere, guardare gli altri e diventare gli altri e contemplare il mondo con occhi sempre diversi. Pochi anni fa, un altro grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua scrisse un romanzo “La sposa liberata” dove esprimeva un affetto così profondo verso i palestinesi da far pensare che quando sentiremo un intellettuale arabo descrivere gli israeliani con un grammo dello stesso amore, forse laggiù, in Palestina, la storia potrà finalmente sciogliersi in vita. A oggi siamo ben lontani, ma malgrado l’indifferenza e l’ostilità di molti, non credo che Israele scomparirà mai dalla terra. Anzi sono certo che prima scompariranno coloro che se lo augurano come i vari Bin Laden o Ahmadinejad, Hamas o Hezbollah. Pietro Citati ha scritto che gli ebrei hanno un dono speciale che ce li rende amici straordinari: amano il mondo con passione in tutta la sua complessità, eppure non appartengono completamente alla terra. Dice Citati che con una parte di sé vivono altrove, dove vaga esiliata la Shekinah, il volto femminile di Dio. Perciò abbandonare questo volto a se stesso, lasciare solo Israele, permettere che esso torni a essere vilipeso, sarebbe per l’Europa un vero suicidio. Un altro rapido passo, dopo quello già compiuto nel Ventesimo secolo, verso la fine di una comune civiltà. Se la Fiera di Torino celebra la civiltà del libro, è proprio il libro della civiltà ad imporci di celebrare Israele.


israele

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siamo noi

Come ho imparato ad amare la terra del mutamento di Renzo Foa onfesso di aver conosciuto Israele abbastanza tardi nella mia vita. Sul piano morale, culturale e soprattutto politico non potevo che sentirmi vicino. Avevo sempre ascoltato con interesse e partecipazione i racconti dei miei amici che ci erano andati e che vi avevano vissuto. Avevo letto molto. Ma mi ero sempre tenuto ad una naturale distanza fisica. Non l’avevo mai messo nell’agenda dei miei viaggi. Lo facevo un po’ istintivamente. Scoprii la ragione vera leggendo una pagina di Ben Gurion, scritta nel 1957. Questa: «Al principio del XX secolo gli ebrei erano circa dieci milioni e mezzo: meno dello 0,5% viveva in Palestina, l’82,6% viveva in Europa e, di questi, i tre quarti nell’Europa orientale; in America c’era non più del 10% degli ebrei. Di fatto il popolo ebraico, negli ultimi secoli, era un popolo europeo; questo popolo oggi quasi non esiste più». Ecco, mi sentivo parte di questo vuoto che era stato aperto e avevo paura di perdere qualcosa della mia identità.

C

Undici anni fa decisi di andarci. Da un giorno all’altro. C’erano stati due attentati kamikaze nel centro di Gerusalemme, si sentiva che l’occasione della pace era stata sprecata, che si apriva una fase di grande incertezza. Capii che la mia identità era ben poca cosa di fronte a quel che stava accadendo. Andai e girai intensamente, guardai, posi domande e ascoltai le risposte. Mi imbattei in panorami tristi, come quello di Kiriat Shemona, in ambienti normali come quelli di Tel Aviv, in scenari suggestivi come quelli di Gerusalemme. Passavo, nel giro di pochi minuti, da luoghi che evocavano guerre passate e conflitti presenti a luoghi che ispiravano tranquillità e serenità. Cercai qualcosa di Ladri nella notte di Arthur Koestler, ma trovai – quella volta e le altre volte che ci sono stato – solo reperti archeologici delle «origini». Cercai allora di capire i ritmi del cambiamento di una società, di una nazione, di una cultura e scoprii che erano rapidissimi. Come non avveniva altrove, da nessun’altra parte. Il primo motivo di fascino di Israele è che lì tutto muta in continuazione. Dalla condizione laica all’approccio alla religione. Dallo stile di vita al modo di guardare al futuro. Dalla percezione della pace all’incontro con la guerra. Se è vero quel che notò Ben Gurion è anche vero che – con la sola eccezione di Gerusalemme – camminando e parlando sei costantemente avvolto da un clima di cosmopolitismo. A cosa è dovuto? Ad una stratificazione che abbraccia millenni di storia – ed è la storia del monoteismo ebraico e cristiano – e che poi arriva a proporti tutte le sfaccettature della contemporaneità. Ecco, è in primo luogo la rapidità dei cambiamenti ad attrarre, a dare un segno di inesauribile vitalità. Il secondo motivo di fascino è immediatamente conseguente. È l’attaccamento all’idea di comunità e di nazione. Lo notai in un viaggio compiuto nel pieno dell’offensiva del terrorismo kamikaze, cioè nel pieno della seconda intifada, quando l’aeroporto Ben Gurion era vuoto e Israele appariva un paese isolato. So bene che tutte le statistiche parlano della mobilità della popolazione. Ma in quel periodo – in cui faceva paura salire sugli autobus o sedersi in un caffé – apparve un’idea inattesa di resistenza. Immaginai quanto fosse difficile vivere nel-

la più totale insicurezza, in una terra dove quasi sempre nel giro di pochi chilometri si alternano etnie e religioni. Ma c’era, pur in un clima di vero e proprio terrore, uno straordinario attaccamento. Non c’era gente che scappava. Il terzo motivo di fascino è allora questo mistero di «sentirsi a proprio agio» in Israele, nonostante tutte le indicazioni contrarie. Forse è inutile dirlo, ma la prima indicazione contraria va ricordata ed è quella di vivere da sempre circondati non da vicini, ma da nemici che ti odiano e che vogliono la tua scomparsa, perché ti considerano diverso in tutto. E quando mi riferisco al tutto non intendo solo il fattore religioso, che forse non è nemmeno il principale tratto distintivo. La principale diversità è piuttosto la democrazia. È l’indistruttibile storia della democrazia israeliana ad aver fatto di questa terra un’identità a sè, peculiare, affascinante e solida. Solida nonostante le spaccature politiche, a volte verticali, le rissosità religiose, i conflitti sociali, le incomprensioni figlie delle varie ondate immigratorie. Una volta mi dissi, per cercare una spiegazione di questa democrazia, che Israele era un pezzo d’Europa intallatosi sulla sponda sbagliata del Mediterraneo. Però non ne ero convinto fino in fondo. Me lo spiegò bene un po’di tempo dopo Amos Oz, quando lessi un suo ricordo in cui sosteneva che tutti i suoi parenti, sia per parte di padre sia per parte di madre, erano degli «europei devoti». «In sostanza dei grandi appassionati dell’Europa. Conoscevano lingue svariate, e storie e culture: nutrivano una inesausta infatuazione per l’Europa... Ma ovviamente il loro amore non fu affatto ricambiato. I più fortunati vennero espulsi con un calcio. Gli altri non lasciarono l’Europa da vivi...». Spiegò Oz che quando suo padre era ragazzino in Polonia, le vie d’Europa erano coperte di scritte quali: «Ebrei, andatevene in Palestina», ma anche di formule ancora meno gentili quali: «Maledetti ebrei tornatevene in Palestina». E che quando poi tornò in Europa, circa cinquant’anni dopo, i muri erano coperti di: «Ebrei, fuori dalla Palestina».

Una volta in Europa si diceva: «Ebrei, tornatevene in Palestina». Oggi si dice: «Ebrei, andate via dalla Palestina»

Queste poche righe mi allargarono la mente. Mi fecero capire che la peculiarità della democrazia israeliana deve ben poco all’Europa. È autoctona. Si è formata attraverso diverse prove. Non penso solo alla resistenza all’assedio e al rifiuto arabo. Penso ad una storia e ad un presente che hanno dato via via vita ad esperienze comunitarie e a scelte più «individualistiche», penso all’incontro fra ondate migratorie che venivano da livelli di civilizzazioni molto differenti, penso alla costante qualità delle sue classi dirigenti. Mi viene in mente una spinta alla razionalità, che è stata una cesura con le grandi correnti dell’irrazionalismo occidentale del Novecento. A volte non capisco certe scelte di questo o quel governo di Gerusalemme, a volte noto comportamenti incoerenti e contraddittori: ma questo non riesce mai ad oscurare il fascino di una terra, di uno Stato, di una comunità che esiste non solo grazie ai rapporti di forza militari, ma in primo luogo grazie alla sua democrazia, grazie ad un’emancipazione culturale dal proprio passato e grazie ad una capacità continua di cambiare.

Perché lo scontro sulla Fiera diventa una metafora mondiale

I pregiudizi della sinistra (e quelli dei media Usa) di Michael Ledeen a letteratura israeliana, quest’anno, è l’ospite d’onore della Fiera del Libro di Torino. Ci saranno parecchie persone, molte delle quali intenzionate ad attaccare Israele e i suoi sostenitori. Il primo maggio, a Torino, un gruppo di manifestanti ha bruciato bandiere israeliane e americane, e ha minacciato di farlo nuovamente una volta cominciata la Fiera. Le autorità locali si sono comprensibilmente preoccupate, ma hanno reagito con quella pavida incapacità di far rispettare le leggi alla quale ci siamo così mestamente abituati, limitandosi a

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vietare a chiunque di portare bandiere israeliane durante il periodo della Fiera. In privato, le forze dell’ordine hanno sostenuto che si tratta di un problema quantitativo. Si aspettano un certo numero di dimostranti anti-israeliani e sono preparati a questo, ma sono al contempo preoccupati perché, se manifesteranno anche i sostenitori di Israele, il numero delle persone potenzialmente violente potrebbe raddoppiare, eventualità che renderebbe necessario l’utilizzo di poliziotti esterni alla città con il compito di presidiare il palco, finendo col creare una situazione molto


israele Già ieri le prime manifestazioni dei Centri sociali

Alta tensione a Torino di Nicola Procaccini

ROMA.

Passerà alla storia come la più infuocata di sempre. La XXI edizione della Fiera internazionale del libro si apre oggi tra polemiche e contestazioni. Sotto accusa Israele, la sua cultura, i

spiacevole. Detto in parole povere, le autorità sono state intimidite ed hanno ceduto. Adesso è perfettamente lecito bruciare bandiere israeliane in Italia, mentre le forze dell’ordine potrebbero usare la mano pesante con chiunque si porti un vessillo per celebrare lo Stato ebraico.

Quanto successo a Torino, una città di sinistra con un’antica comunità ebraica (si pensi a Primo Levi), aiuta a capire perché gli ebrei italiani abbiano sorprendentemente votato centrodestra alle recenti elezioni, anche a Roma, dove la comunità locale ha sostenuto stabilmente il centrosinistra per oltre un ventennio. Quando io e mia moglie vivevamo in questa

suoi scrittori e gli organizzatori dell’evento che hanno “osato” dedicare alla nazione mediorientale questa edizione della Fiera. Non solo il Lingotto, sede della manifestazione, ma l’intera Torino è

città, negli anni Settanta, gli ebrei erano elettori convinti del partito comunista, e più tardi dei suoi successori, ma non questa volta. La metà dei residenti del vecchio ghetto sulla sponda del Tevere ha votato centrodestra, il che ha indotto il Financial Times a pubblicare, il 4 maggio, un insolito, disgustoso titolo: “Fascisti ed ebrei uniti per il sindaco di Roma”. Il corrispondente del giornale, Guy Dimore (che una volta stabilì, in base al nulla, che io ero un monarchico ammiratore dell’Iran), ha chiarito il concetto nei primi due paragrafi: «L’elezione a Roma, la scorsa settimana, del primo sindaco di destra dai tempi di Benito Mussolini, è stata festeggiata dai fascisti come una storica vittoria

siamo noi

stata blindata dalle forze dell’ordine e suddivisa in varie zone di sicurezza, distinte per colori. Il ricordo dei fatti di Genova del 2001 si fa sempre più vivido. La sensazione di deja vu trova conferma in una curiosa, ma poco casuale ricorrenza storica: oggi come sette anni fa si insedia il nuovo governo del cavalier Silvio Berlusconi. Con l’aggravante che la sinistra radicale, nel frattempo, è diventata extraparlamentare.

Q u e s t a m a t t i n a il capo dello Stato Giorgio Napolitano si recherà in visita ufficiale alla Fiera. Si annunciano scontri tra manifestanti e polizia, ma già ieri sera si sono avute le prime avvisaglie di un clima che si va surriscal-

sulla sinistra. Un branco di giovani, violenti sostenitori di Gianni Alemanno, ha accolto l’apparizione del nuovo sindaco al Campidoglio con il saluto romano, urlando insulti ai comunisti ed agli immigrati».

Bisogna informarsi un po’ di più per capire che gli ebrei, alla fine, si sono stancati di una sinistra italiana che sostiene ciecamente chiunque si richiami ai palestinesi e bruci le bandiere israeliane. Questa sorta di ambiguo disprezzo per una comunità religiosa che osa affermare i suoi interessi contro i beniamini dei media progressisti, è coerente con il commento sussiegoso di Christopher Dickey al battesimo pubblico celebrato dal Papa in Vaticano,

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dando. Una gigantesca bandiera palestinese è stata srotolata sulla facciata di Palazzo Nuovo, la sede delle facoltà umanistiche dell’Università di Torino, decine di manifestanti con la kefiah al collo sono scese in strada con fumogeni e striscioni urlando in faccia a passanti e forze dell’ordine slogan contro Israele e a favore della Palestina. La parola d’ordine dei dimostranti è: boicottaggio, senza se e senza ma. Il momento più duro della contestazione è previsto per sabato 10 maggio quando il movimento Free Palestina si muoverà in corteo per le vie della città in direzione del Lingotto. Vi parteciperanno Centri sociali e no global in gran quantità, in arrivo da tutta Italia. Alcuni partiti della sinistra, come Rifondazione solidarizzano Comunista con le ragioni della protesta, ma non partecipano al corteo per paura di essere coinvolti in eventuali incidenti, mentre altri come il Partito Comunista dei lavoratori lanciano proclami di fuoco. Dichiara il leader Marco Fer-

alla vigilia di Pasqua, di uno di più conosciuti intellettuali italiani, Magdi Allam. Sul Newsweek, Dickey ha chiamato Allam un “musulmano che si odia benissimo”, ed ha sostenuto che l’intera cerimonia sia stata una deliberata provocazione di Benedetto XVI al mondo islamico. Non credo che alcuno sia autorizzato a sorprendersi quando il capo della Chiesa Cattolica celebra un battesimo pubblico, e non posso immaginare una descrizione di Magdi Allam più fuorviante di quella di Dickey; Magdi Allam è un egiziano cresciuto in una comunità sunnita molto aperta che si è trasferito in Italia, dove raramente ha praticato la sua religione. Negli ultimi anni, ha vissuto due conversioni parallele, una al cristianesimo, e l’altra ad una cultura politica più conservatrice. Un percorso abbastanza simile, sotto questo secondo profilo, a quello degli ebrei romani. Allam era solito scrivere per il maggior quotidiano di sinistra del Paese, la Repubblica, ma ora è il vicedirettore del Corriere della sera, dove è diventato molto influente e stimato; è esattamente il tipo di persona che i bruciatori di bandiere e i media progressisti temono: brillante, coraggioso e coerente. Mentre accade tutto questo, il leader libico Muammar Gheddafi ha deciso di mettere il naso nelle questioni interne della politica italiana, inviando uno

rando: «Al coro dei “politici democratici” che pontificano sdegnati sulla sacralità dello stato d’Israele pongo una sola domanda: considerano naturale che uno stato nasca dalla pulizia etnica, attraverso la distruzione dei villaggi palestinesi, la decimazione di anziani, donne e bambini e l’espulsione forzate dei sopravvissuti?».

Nonostante

le

parole

non siano rassicuranti, gli organizzatori garantiscono il carattere pacifico del corteo. Ciò che resta incomprensibile delle tante contestazioni culturali e politiche che hanno preceduto ed accompagnano quest’edizione della Fiera è che non si vede cosa c’entri una manifestazione dedicata (peraltro parzialmente) alla cultura ebraica con una parata vetero-rivoluzionaria, gonfia di rancore, in difesa dei palestinesi. La buona notizia è che a Torino cade la sottile distinzione tra antisemitismo ed antiisraelismo, tanto cara alla sinistra italiana. La cattiva notizia è che Genova non è mai stata così vicina.

dei suoi figli ad avvertire il primo ministro designato, Silvio Berlusconi, di non dare un ministero a Roberto Calderoli, una delle figure principali della Lega Nord. Calderoli è già stato ministro nel precedente governo Berlusconi, ed ha estremamente irritato il mondo musulmano e l’intellighenzia politicamente corretta italiana mostrando una maglietta con una delle famose vignette danesi raffiguranti il Profeta. Gheddafi jr. ha minacciato gravi conseguenze (assicurando così a Calderoli il suo posto), e la Lega Araba, chiamata a pronunciarsi su questa sfacciata intrusione negli affari interni di un Paese sovrano – così smaccata che il Ministro degli Esteri Massimo D’Alema, che non ha mai incontrato un radicale islamico che non gli piacesse, lo ha pubblicamente denunciato – ha dichiarato che se gli italiani non hanno ancora deciso non c’è alcuna necessità di fare qualcosa.

Mi sembra, più che mai, che sia in gioco il destino di questo continente, e che l’Italia, come già nei secoli scorsi, sia il laboratorio politico di gran parte del mondo occidentale. Queste minicrisi italiane, probabilmente, si riveleranno molto importanti. Io spero che, alla fine, qualcuno dei maggiori giornali americani manderà qualche serio reporter a Torino per seguire il grande evento della Fiera del Libro.


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governo

Oggi giura il nuovo governo: mentre si conferma l’irritazione di An le scelte dentro Forza Italia seguono solo la logica del legame personale

Fedeli e infedeli I fedelissimi di Silvio nella squadra di governo: Bondi, Gelmini, Vito, Alfano, Brambilla

I ragazzi di Silvio di Marco Palombi

ROMA. Benvenuti nel Berlusconi III, governo della pacificazione nazionale (per stanchezza più che per altro), ma soprattutto “esecutivo del Presidente”quant’altri mai nella storia repubblicana. Nonostante al momento di scrivere ancora balli qualche casella pare certo che il terzo atto dell’epopea berlusconiana segna il debutto di una sorta di ogm politico: una classe dirigente nata e cresciuta (ma non è questione d’età) all’ombra del Capo, scrutandone le mosse, assecondandone le oscillazioni, nutrendo di passaggi nei Tg le sue mutevoli visioni. E’ il momento, all’ingrosso, dei fedelissimi del Cavaliere. E’ il caso di Angelino Alfano, giovane e già lanciato agrigentino alla corte di Re Silvio. Quest’ultimo l’ha detto chiaro: lo vuole in squadra. Il motivo, oltre all’antica stima, è l’ottimo lavoro fatto da Alfano nella sua isola: giovane assistente di Micciché ai tempi del partito di Publitalia, è riuscito a sottrarre la macchina al suo mentore senza inimicarselo; da coordinatore azzurro ha gestito le dimissioni di Cuffaro mantenendo ottimi rapporti con Totò; ha consegnato palazzo d’Orleans a Lombardo ma senza far dilagare gli autonomisti. La sua è la funzione angelicata della politica. Lo descrivono gentile, non un intellettuale, troppo educato per essere uno squalo. La laurea in giurisprudenza (alla Cattolica) è l’unico titolo che gli si conosce utile a fare il Guardasigilli. Ieri commenti tranchantes: “Berlusconi si è preso l’interim della Giustizia”.

Premio anche per Elio Vito, finito ai Rapporti col Parlamento: sarà, in sostanza, il nuovo Giovanardi, anche se la provenienza dei due non potrebbe essere più diversa. Dopo un rapido passaggio giovanile nella sinistra extraparlamentare,Vito trovò infatti la sua via all’ombra di Marco Pannella: prima consigliere comunale a Napoli, nel 1992 addirittura deputato. E’ alla scuola del “signor Hood”che il nostro apprenderà quell’arte dei regolamenti che gli sarà utile in FI. Confermato alla Camera nel 1994 grazie all’accordo Radicali-Berlusconi, nel ’96 passa armi e bagagli in Forza Italia e si lancia in una campagna elettorale gagliardissima e un po’ irritante che gli frutta pure un’imitazione da parte della banda Dandini. Da allora si lega a Scajola e lavora pancia a terra in Aula: nel 2001 è capogruppo, cinque anni

ma e un altro disastro: i guai giudiziari. Niente di male: anche azzoppato, s’è accaparrato la poltrona degli Affari regionali.

Un discorso a parte merita l’ascesa al soglio ministeriale di Sandro Bondi.Tutto è già stato detto: già sindaco comunista e dipendente Unipol, fu folgorato da Silvio Berlusconi diventandone, più che un collaboratore, l’aedo. Meravigliose le piccole poesie che settimanalmente scrive per “Vanity Fair”: sorta di sms attraverso cui comunica ad amici e lettori palpiti del cuore, sommovimenti della carne, amicizie di Palazzo. Eppure l’angelico Bondi non ha esitato a giubilare, grazie all’appoggio di Denis Verdini, il conterraneo Paolo Bonaiuti, sottraendogli con destrezza l’agognato dicastero dei Beni culturali. Il tutto a ulteriore prova che un certo habitus curiale si rivela assai utile in molte circostanze della vita nel secolo. Parlare di uomini del Presidente non vuol dire certo sottovalutare l’altra metà del cielo. Peraltro, come si sa, assai cara al Capo. Quasi un simbolo di questa genìa è Maria Vittoria Brambilla, paracadutata alla guida della sanità italiana (un viceministero, ma pesante come due). Di lei si sa tutto e niente: quarantenne, ex capo dei giovani di Confcommercio, fondatrice dei fantomatici Circoli della libertà, secondo “Il Foglio” è una sorta di Cavaliere in gonnella. E’ certo che la sua

Premiati fedelissimi di lungo corso come Sandro Bondi ed Elio Vito, ma anche i giovani di belle speranze che il Cavaliere coccola da tempo:Angelino Alfano, Michela Brambilla, Maristella Gelmini dopo Berlusconi ne impone la riconferma e oggi lo premia col ministero. Anche il pugliese Raffaele Fitto, che riuscì incredibilmente a perdere contro un comunista una delle regioni più destrorse d’Italia, arriva al governo. Figlio d’arte, pollo d’allevamento Dc, ex amici della sua terra lo definiscono“un uomo di plastica, ma molto amato dalla borghesia pugliese”. Solo che la borghesia pugliese sono un paio di decine di persone e Raffaele si dimenticò, quand’era ora, di arare le vere zolle del consenso. Dopo il disastro l’arrivo a Ro-

rapida ascesa, di cui ancora non si scorgono i contenuti politici, non ha fatto piacere a nessuno dentro FI: non sarà contento, in particolare, Giulio Tremonti che, dicono, ha fatto di tutto pur di non averla al governo. Tra i ministri, invece, partorita dal Cavaliere alla vita pubblica come Venere da Giove, si siederà anche Mara Carfagna (Pari opportunità). Ammaestrata al rigore dagli anni in cui studiava danza e pianoforte, laureata (ci tiene), la nostra ha abbandonato precocemente il mondo dello showbiz e dei calendari e dal 2006 studia compulsivamente dando vita a pensosi convegni sulla famiglia e a iniziative bipartisan di femminismo soft assieme a Stefania Prestigiacomo (che sarà ministra anche lei, all’Ambiente). Evidentemente il Cavaliere ha apprezzato l’impegno e il basso profilo di Maria Rosaria da Salerno, tanto che dopo un ruolo di primo piano nel nascente Pdl ora le consegna anche un voto all’interno del Consiglio dei ministri. A palazzo Chigi Mara potrà incontrare un’altra gemma del berlusconismo, la coordinatrice azzurra in Lombardia Mariastella Gelmini, titolare dell’Istruzione. Esperta di diritto amministrativo, gran lavoratrice, la 34enne bresciana è una “Silvio girl” fin dal 1994, quand’era presidente di circolo a Desenzano.Toni pacati, si sa che va in palestra: allenamento grazie al quale in Lombardia ha tenuto botta ai ciellini senza arrivare allo scontro. Poi, a novembre, Mariastella viene immortalata a piazza San Babila, a Milano, nel giorno del predellino mitopoietico. Da cotanto trampolino il balzo al governo è quasi d’obbligo.


governo

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Il nuovo esecutivo Presidente del Consiglio

Giustizia

Riforme federaliste

Silvio Berlusconi

Angelino Alfano

Umberto Bossi

Beni culturali

Sandro Bondi

Pubblica amministrazione

Sottosegretario

Gianni Letta

Pubblica istruzione

Interno

Maristella Gelmini

Roberto Maroni

Politiche ambientali

Esteri

Stefania Prestigiacomo

Franco Frattini

Lavoro

Economia

Maurizio Sacconi

Giulio Tremonti

Salute (viceministro)

Difesa

Ignazio La Russa

Rapporti con le Regioni

Raffaele Fitto Politiche europee

Andrea Ronchi Rapporti con il Parlamento

Elio Vito

Michela Vittoria Brambilla

Pari opportunità

Politiche agricole

Mara Carfagna

Luca Zaia

Politiche giovanili

Altero Matteoli

SENZA PORTAFOGLIO

Giorgia Meloni

Sviluppo economico

Semplificazione legislativa

Attuazione del programma

Claudio Scajola

Roberto Calderoli

Infrastrutture

tutta Italia. Roberto Formigoni coglie l’attimo, o almeno pensa di farlo, e dice al capo che bisogna rifare lo statuto azzurro per arrivare a un partito vero, organizzato sul territorio, mai più così sbrindellato da farsi battere a colpi di brogli. Arriva l’estate del 2006 e Berlusconi sembra dare ragione al governatore: affida a Denis Verdini la revisione dello statuto. Finite le

E la bocciatura dei leader di Errico Novi

ROMA. C’è oppure no un filo che unisce il discorso sul predellino, la svolta del listone unico con altre brusche accelerazioni, come il taglio alle tasse della Finanziaria 2005, voluto contro il parere di tutti i consiglieri? C’è eccome. È nella irresistibile vocazione di Silvio a decidere in fretta, da solo, senza spazi per mediazioni suggerite da altri. Molte scelte cruciali di questi quattordici anni sono arrivate così. Come può incontrarsi un simile metodo con il piglio di chi pone problemi? Non può, infatti. Ecco perché chiunque altro abbia il profilo del leader in Forza Italia è destinato alla solitudine. In queste ore lo hanno capito meglio di tutti Roberto Formigoni, Beppe Pisanu e Marcello Pera. Hanno un comune denominatore: di tutti e tre si è parlato, seppure in momenti e con toni diversi, come possibili successori di Berlusconi. Ma non è questo ad averli tagliati fuori dal nuovo governo. Il nodo è nella loro attitudine al conflitto dialettico.

Renato Brunetta

C’è un’incompatibilità ontologica tra la loro vocazione alla leadership e il carisma di Berlusconi. C’è uno spartiacque, nella storia di Forza Italia: la sconfitta del 10

Beppe Bisanu, Marcello Pera e Roberto Formigoni: per loro porte del governo chiuse

Cos’hanno in comune Formigoni, Pera e Pisanu? L’abitudine di porre problemi. Che entra in conflitto con il metodo di Berlusconi: prendere decisioni in un attimo. Storia di tre esclusioni eccellenti aprile 2006. Appena 25mila voti di distacco, persi dal centrodestra per sciatterie di ogni tipo. Berlusconi è furioso, non può perdonarla a nessuno: nemmeno a molti dei suoi coordinatori locali, che hanno lasciato i seggi senza rappresentanti di lista. Alcuni vengono sostituiti, ma Silvio pensa a qualcosa di più radicale: la sostanziale archiviazione di Forza Italia e la nascita di un nuovo partito. Ne parla alle riunioni con i parlamentari, si incuriosisce allo schema Dell’Utri: circoli di giovani sparsi in

vacanze incarica Bondi di creare una commissione per metterlo ancora meglio a punto. Ne prefigura un’altra per riscrivere le regole congressuali. Formigoni è convinto di aver preso l’onda giusta. Gli vengono dei dubbi quando a dicembre, in una riunione a Palazzo Grazioli, Silvio spiega che bisogna dare spazio ai Circoli della Brambilla. E lo statuto di Forza Italia? Per quello c’è Bondi, dice il Cavaliere: e fa capire a tutti che delle ansie formigoniane non gliene importa un tubo.

Gianfranco Rotondi

Nella parabola del presidente della Lombardia ci sono altri passi falsi, prima e dopo lo schiaffo sulle regole interne: il listino del governatore per le regionali del 2005, messo al bando da Berlusconi; o la pretesa delle primarie, avanzata da Formigoni dopo la notte del 30 gennaio 2007, quella dei Telegatti, in cui il Cavaliere indicò Fini per la successione. Non si torna indietro, ormai. Non può farlo neanche Marcello Pera. E nemmeno lo farebbe: il 2 febbraio 2007 attaccò pubblicamente Berlusconi a un convegno di Magna Charta. Disse che Forza italia non poteva lasciare libertà di coscienza sui Pacs, come Silvio sembrava invece tentato di fare. L’ex presidente del Senato si lascò andare a una requisitoria appassionata quanto fatale. Quel giorno in realtà regalò un assist formidabile a suoi avversari interni, a quella parte dell’entourage di Berlusconi che aveva sempre considerato pericoloso il filosofo per la sua attitudine problematica. Temevano Pera perché capivano che le sue obiezioni rendevano assordanti i loro silenzi. Da quel giorno l’ex presidente del Senato ha conosciuto un’inesorabile emerginazione.

Il suo nome era stato tra quelli vagheggiati per un’improbabile sostituzione di Berlusconi a metà della legislatura 2001-2006. Di una leadership affidata a Beppe Pisanu si era parlato invece dopo la sconfitta del 2006, quando molti davano per scontato che Silvio avrebbe passato la mano. In realtà lui non si è mai fatto avanti, ha sempre e solo espresso punti di vista diversi sull’allargamento della coalizione verso il centro. Alla fine del 2007 ha sostenuto che nel Popolo della libertà bisognava coinvolgere «Montezemolo, Pezzotta, Mario Monti, Andrea Riccardi». Dopo il via libera di Berlusconi e Fini alla lista unica è stato uno dei pochissimi ad auspicare un ricongiungimento con l’Udc. Posizioni assai eterodosse, coerenti però con la sua storia di cattolico per nulla rassegnato alla disgregazione. C’è forse un tratto comune tra l’ex ministro dell’Interno, Formigoni e Pera: l’attenzione ai valori cristiani, e per i primi due l’appartenenza alla tradizione Dc. Ma è solo un caso. La loro inconciliabilità con Berlusconi è nel metodo. Chi pone problemi non può legare con chi decide in un attimo.


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pensieri

Le ragioni culturali del successo della Lega

Quando Bossi mi disse: Cattaneo? Meglio Sturzo di Giuseppe Baiocchi uando, nel 1996, la Lega Nord raggiunse il massimo mai eguagliato di consensi (quasi quattro milioni pari a un 10,8 per cento di voti su base nazionale) non erano stati pochi i vescovi del LombardoVeneto ad avvertire pubblicamente che il “voto alla Lega non era un peccato, ma un errore”. Contava allora la nostalgia prepotente della Dc, la sottovalutazione dello scandalo popolare suscitato dall’ambigua stagione di Mani Pulite e insieme l’incomprensione che la caduta del Muro avesse impetuosamente “scongelato” il rancore accumulato nei decenni verso uno Stato patrigno, oppressore, inefficiente e centralista.

Q

suadere allora l’onorevole Bossi che nell’invenzione della Padania “i Celti erano proprio tutti morti, mentre i cristiani erano tutti vivi…”. E che la magìa di libertà che promanava da Pontida non veniva da un pratone ma dal giuramento tenutosi in un luogo tutt’ora aperto da mille anni, il monastero benedettino di San Giacomo (chiamato così in onore della reliquia che proviene da Santiago di Compostela). Non solo: ma che perfino gli elementi di modernità (anche economica, con la libertà di commercio e di accumulazione di capitale) che avevano portato al duro conflitto con il Barbarossa (che intanto nominava antipapi) erano risultati vinÈ singolare che anche la teodem Paola Binetti, deputato del Partito democratico, dalle colonne di questo giornale si è interrogata sulle ragioni profonde del successo della Lega.

Oggi, mentre si pone aperto il dubbio sull’irrilevanza della presenza politica dei cattolici, si fa forse più acuto il desiderio di interrogarsi (come ha fatto su queste colonne l’onorevole Paola Binetti) sulle ragioni profonde del successo ad esempio della Lega (ma non solo). Se è permessa una risposta estranea al facile clichè del circuito mediatico, è proprio dal quel lontano 1996 che occorre, per capire, provare a ripartire. Allora, al tempo delle ampolle sul Po e dei matrimoni druidici (in primis quello pubblico del senatore Calderoli), era evidente il rischio culturale di una deriva verso forme incattivite di purezza etnica e insieme di una mitica ecologia prealpina: e non fu facile per-

centi un volta sola, e cioè quando quei liberi Comuni avevano stretto alleanza con il papa Alessandro III. Mentre invece il Carroccio aveva conosciuto, prima e dopo, soltanto una serie impressionante di sconfitte nella guerra con l’Impero. Fin qui la storia: ma con radici antiche e non ignobili che aiutavano a spiegare la necessità stringente e contemporanea di prendersi naturalmente cura del territorio, in gran parte abbandonato a se stesso se non proprio dallo Stato almeno dalla maggior parte della politica. E, al di là della protesta, è bastato far emergere uno stuolo di amministratori locali, impegnati a fare davvero le cose possibili. Dalla gestione dei rifiuti, alle buche nelle strade alle condizioni di sicu-

rezza: usando con pratica fantasia i pochi spiragli di manovra lasciati liberi da una normativa centrale minuta e spesso paralizzante. Con in più la capacità, sul terreno del sociale, di mettersi in rete con quel tessuto di volontariato locale, quasi sempre di ispirazione cristiana, tipico del paesaggio storico del Nord. In questa straordinarietà del buon senso nasceva la consapevolezza che la coesione sociale e la tutela delle comunità di territorio meglio fioriva nel sostegno alla famiglia naturale, nell’incoraggiamento alla natalità, nel favore alla libertà educativa. La forza delle cose e l’inquietudine per tempi non tranquilli

Al tempo delle ampolle su Po era evidente il rischio culturale di una deriva verso forme incattivite di purezza etnica e insieme di una mitica ecologica

Dodici anni fa non fu facile persuadere allora l’onorevole Umebrto Bossi che nell’invenzione della Padania “i Celti erano proprio tutti morti, mentre i cristiani erano tutti vivi…”.

ha fatto il resto: con in più l’intuizione che persino il linguaggio truculento e i travestimenti pittoreschi (che non mancano mai nelle immagini televisive del raduni padani) erano solo lo sfogo, l’innocua trasgressione di una dimensione popolana altrimenti moderata, pacifica e lavoratrice che doveva prima o poi ritrovarsi all’ombra del campanile, nel rassicurarsi con la tradizione. Nel rapido tramonto del “prodismo” appare stingersi (anche troppo e troppo alla svelta) quel rifiuto aprioristico e quell’ostilità a lungo coltivata da buona parte dell’intellighentia cattolica. Semmai ora ci sarebbe da porre con forza una questione non piccola: come mai, in un movimento dalla struttura leninista e leaderistica, che

Al di là della protesta sono emersi amministratori locali, impegnati che hanno avuto la capacità di mettersi in rete con il volontariato

abitualmente tritura ogni forma interna di autonomo pensiero, la proclamazione a volte smodata dei valori della tradizione e delle radici cristiane sia maliziosamente affidata a dirigenti che, per storia personale, cultura di riferimento e stili di vita, appaiono più inclini a modelli certamente laici se non a suggestioni massoniche ? È una domanda che resta inevasa nel tempo nel quale furoreggiano (e non tutti sinceri) Nel rapido tramonto del “prodismo” appare stingersi (anche troppo e troppo alla svelta) quel rifiuto aprioristico e quell’ostilità a lungo coltivata da buona parte dell’intellighentia cattolica.

quelli che si definiscono gli “atei devoti”. In ogni caso, se serve a riflettere, ecco un’ultima notazione che, a distanza di un decennio, può uscire dalla riservatezza. Più volte il Senatur confessò a chi scrive che, per propagandare il federalismo, doveva resuscitare il pensiero di Carlo Cattaneo, che giudicava in privato inadatto, illusorio, poco coraggioso e in sostanza perdente. Mentre si ritrovava molto di più (ma non avrebbe mai potuto dirlo) nel pensiero di Sturzo, quanto ai corpi intermedi, alle autonomie di comunità, al rifiuto dello statalismo in economia. Chissà se è venuto il tempo di ammetterlo e se qualcuno trova la voglia di interrogarsi davvero sul vuoto lasciato riempire anche dalla Lega?


&

parole

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Il futuro del Pd. Viaggio dopo la sconfitta /3 Marco Follini

«Con Di Pietro strade separate ora guardiamo al Centro» colloquio con Marco Follini di Susanna Turco

ROMA. Mentre nel Pd la tensione si taglia col coltello, e sui blog c’è chi si dispera per la riunione correntizia dei dalemiani che ha scosso i nervi del loft («correnti, correntine, correntoni, non se ne può più»), al senatore piddino Marco Follini, ex democristiano che non si sente affatto un ex, alla sola parola “correnti” brillano gli occhi. «Personalmente le guardo con un certo disincanto. Ma non sarò certo io a dare la croce addosso alle correnti. E tanto meno a D’Alema», dice il responsabile informazione del partito del Loft. Ma così l’idea veltroniana del partito liquido va a farsi benedire. Quando il partito è forte, le correnti aggiungono qualcosa, accendono i riflettori, stimolano la discussione, scuotono le pigrizie. Viceversa, quando è debole rischiano di mangiarselo. E il Pd sta più di qua o più di là? Dobbiamo lavorare perché sia un partito più forte, più solido. Perché è in costruzione, ha le fragilità di chi è nato da poco e deve fare i conti con un risultato elettorale non proprio lusinghiero. Su questo punto, le interpretazioni divergono. Lei è tra quelli che considerano le percentuali del voto un mezzo successo? Non indulgo in letture consolanti. Il risultato è netto, c’è stata una sconfitta, e anche una delusione. Dietro quella sconfitta ci stanno tante cose, davanti ne abbiamo tante di più, ma la realtà è quella che è. Sul Corriere della Sera Massimo Franco dice che oggi riproporre il tema dell’alleanza con la sinistra rischia di far risorgere il fantasma dell’Unione, ma pure che insistere nell’obiettivo dello sfondamento al centro non è tanto semplice. Una difficoltà certamente esiste, ma occorre insistere. Se ci arrendiamo adesso, non arriveremo da nessuna parte. Insomma: non si torna indietro. Non mi piacciono le frasi stentoree, però va detto che indietro non si torna: la scelta di rompere con la sinistra è stata giusta, coraggiosa e ormai fa parte del patrimonio genetico del partito. Ma, naturalmente, abbiamo separato i nostri destini perché intendiamo aprire un cammino che conduce al centro. Altrimenti che senso avrebbe? Il motto “molti nemici molto onore” ha fatto abbondantemente il suo tempo... I“nemici”a sinistra, amici al centro. Questa prospettiva passa attraverso due passaggi. Primo, il rafforzamento della nostra caratteristica di partito che guarda all’Italia di mezzo, per usare il mio lessico. Secondo, dialogo con l’Udc, che è molto meno lontana dal Pd di quanto

Bisogna dialogare con l’Udc, che è molto meno lontana dal Pd di quanto non lo siano l’Idv e i radicali. D’altra parte, anche il partito di Casini non può restare troppo a lungo in mezzo al guado non lo siano sia l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, sia i radicali. In questo caso, il “ma anche” ci sta tutto: bisogna tenere insieme la proiezione del partito verso il centro e la capacità di dialogo e confronto con l’Udc. E ritiene che anche D’Alema abbia un obiettivo del genere? Guardi, bisogna evitare di avvitarsi in un dibattito sovrastrutturale. Se si guarda al futuro, il tema non è così tanto quello delle alleanze, delle correnti e degli equilibri del Loft. Cosa vede allora nel futuro del Pd? Anzitutto, si deve lavorare a una interpretazione della società italiana nel suo insieme, riconoscendo che si era immaginata una realtà diversa da quella emersa dal voto di aprile. Quel centrosinistra che andava da Scelba a Ingrao, e nel quale mi sono formato anche io, oggi è completamente in minoranza; al contrario la destra, che nella prima Repubblica sostanzialmente non esisteva, era “sotto botta”, oggi ha il dominio dell’apparato politico italiano. È una situazione nuova, con la quale confrontarsi. L’altra questio-

ne che il Pd dovrà affrontare nel prossimo futuro è quella dei temi veri della Legislatura appena iniziata. Nord e sud, centro e periferia: su cose come queste il “ma anche”non è possibile. Si deve decidere, per esempio, se il federalismo è una cosa buona oppure se è un rischio e una forzatura rispetto alla natura del Paese. Io penso che dobbiamo prendere la testa di quella parte dell’Italia che giudica pericolosa quella strada: oggi l’c’è bisogno di centralizzare certe scelte. I termovalorizzatori, la Tav: occorre una politica nazionale che decida su questioni del genere. Ma una parte del mio partito crede invece nel federalismo, non vuole che a rappresentare queste esigenze ci sia soltanto la Lega. Ecco, se posso dare un consiglio al Pd, affrontiamo temi come questi. È da qui che passa la riflessione post-sconfitta. Ed è così sicuro che il Pd postsconfitta possa fare a meno dell’Italia dei Valori? Guardi, io ero contrario all’accordo con Di Pietro sin dall’inizio. Adesso, mi pare che sia contrario lui stesso, quindi non

vedo ragione di continuare con quest’equivoco: prendiamo atto che le strade si sono separate. Con i Radicali ho più affinità, e tuttavia il discorso è sostanzialmente lo stesso. Dall’altra parte, l’Udc non può restare troppo a lungo in mezzo al guado, una posizione subìta, peraltro. Oggi o ricuce con il centrodestra, oppure si accorciano le distanze con il Pd. Che effetto le fa, lei ex uddiccino, predicare “da fuori”un dialogo con i centristi? Sono stato troppo a lungo “dentro”, troppo a lungo ho tematizzato questo argomento. Oggi non mi sento un ex. Né nel bene, né nel male: abbiamo tutti voltato pagina. E quindi non ho la sindrome di dover andare d’accordo con tutti o di dovermi togliere dei sassolini dalla scarpa. Però, visto che li conosco un po’ (gli uddiccini, ndr) penso di poter interpretare le contraddizioni e le incertezze che segnano il loro cammino, ma anche il mio. Si può dire che la partita è finita pari? Se ci si chiede chi ha avuto più ragione tra me e Casini, bisogna rispondere che l’avevamo tutti e due. Ma che avevamo anche torto. Io pensavo che il Pd fosse la nuova Dc, e certamente non si può dire che oggi sia così; lui pensava che l’Udc potesse essere il player decisivo, ed è singolare che sia io a rammaricarmene.


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personaggi

Ritratto di ”donna Rauti”, una «guerriera attrezzata al confronto» che vorrebbe evitare il ruolo di sindachessa

L’altra metà del Campidoglio di Pier Mario Fasanotti

ROMA. «Sarei felice se mia moglie fosse la mia consigliera». Non possiamo dare torto al neosindaco di Roma, Gianni Alemanno. Isabella Rauti, la donna che ha sposato, è culturalmente molto preparata, ironica, arguta e insofferente agli schemi mentali. Immediato commento di lei al corteggiamento politico di lui: «Non ho ancora deciso. Comunque non saremo mai una coppia di sindaci».

Probabilmente non si sbagliava chi faceva dell’ironia sulla mancata first lady capitolina, Barbara Palombelli sposata Rutelli, scrivendo che dietro le ambizioni di lui, “er piacione”, c’erano quelle assai robuste di lei, la piacente. Chi scrive questo articolo è stato poco tempo fa a casa Rauti-Alemanno, alla Balduina, per un’inchiesta sul cosiddetto femminismo di destra, termine pigro e inesatto ma che riassume, grezzamente, il pensiero delle donne di destra sul ruolo femminile nella società. E in quell’occasione azzardai con la professoressa Rauti: «Allora, c’è il caso che suo marito diventi sindaco…». Sorrise e senza esitazioni rispose: «Mi auguro di no». Una dichiarazione tra lo scaramantico e l’affettuoso, che comunque voleva additare quel groviglio di problemi che il primo cittadino di Roma deve affrontare. Una montagna di problemi. Isabella, figlia di Pino Rauti, storico esponente di spicco della destra italiana, è docente a contratto di Storia delle Istituzioni Politiche. Ha pubblicato di-

Cresciuta negli ambienti più intellettuali della destra, è lei nel 1989 a fissare le coordinate di una nuova politica delle donne

versi saggi tra cui Paladini della reazione (1997), Campane a martello (1898), Dalla suggestione all’apprendimento. Modelli di didattica museale (2002), Istituzioni politiche e rappresentanza femminile. Il caso italiano (2004, Editoriale Pantheon). Ma ha anche curato varie pubblicazioni tra cui Questioni di bioetica e Il cammino delle Pari opportunità nella regione Lazio (2002). Se la mancata first lady è una giornalista tuttologa che si coccola e si gratifica con il presenzialismo televisivo e radiofonico, l’attuale prémière dame di Roma di mestiere studia, insegna, approfondisce. Nel fortunatissimo libro della giornalista Annalisa Terranova (che lavora al Secolo d’Italia) intitolato Camicette nere. Sroria di lotta e di governo da Salò ad Alleanza Nazionale (Mursia editore,135 pagine, 15 euro) si legge a proposito della signora Alemanno: «Nel 1989, nel corso di un seminario del Fronte della Gioventù che riunisce i dirigenti per abbozzare le “idee per un movimento di indipendenza nazionale”, è Isabella Rauti, all’epoca presidente dell’organizzazione Futura e oggi consigliera

nazionale di parità al ministero del Welfare, che si incarica, nella sua relazione, di fissare le coordinate di una nuova politica delle donne». Attenzione a un particolare: si dice “delle donne” e non “per le donne”.

Bisogna dare atto al movimento femminile di destra che non ha mai considerato il sesso debole così debole e così bisognoso di “assistenza”. Nessun paternalismo, anzi maternalismo. E, la cosa più importante, nessun antagonismo violento e pacchiano tra uomini e donne. Il cammino, hanno ripetuto e ripeteranno, lo si deve fare insieme. Il “lui” non è l’avversario del “lei”: entrambi sono interlocutori. Ma veniamo a quanto disse la Rauti in quel convegno: «La donna che riscopre se stessa e ripropone con forza il suo specifico, deve sfuggire agli schemi imperanti e ai modelli convenzionali e diffusi, come quello borghese, da un lato, e quello freudiano-liberalmarxista dall’altro; per offrire al mondo un’ipotetica terza via, un progetto cioè da elaborare sulla scorta delle esperienze del mondo femminile (compreso il fenomeno femminista inteso nella sua storicizzazione) e della sua evoluzione nel corso del tempo. La terza via non può prescindere dalla rivalutazione della maternità, dalla restaurata importanza della famiglia e dell’educazione e da un impegno femminile nel politico e nel sociale». Qualche sbrigativo reporter parlò - e qualcuno non si allontana ancora oggi dal solco del conformismo intellettuale - di “Tutte casa e manganello”. Basterebbe leggere gli atti del convegno delle donne di destra, non associabili in alcuna maniera al manganello, vecchio arnese del Ventennio, che si svolse nel giugno del 1991 al Terminillo: «E’ auspicabile la trasformazione del modello culturale della donna-madreamante, della donnaguerriero sensibile al richiamo dell’amor di Patria in donna soggetto politico consapevole


personaggi

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Isabella Rauti e il marito Gianni Alemanno prima delle elezioni che lo hanno eletto sindaco di Roma; in basso, la coppia affacciata dal balcone del Campidoglio subito dopo la vittoria capitolina; nella pagina a fianco una recente immagine di Isabella e una di repertorio del padre, l’ex esponente della destra italiana Pino Rauti

di una missione che la trascende in quanto individuo: quella di scendere in campo attivamente in nome del superiore destino della comunità di appartenenza. Soggetti di opposizione rivoluzionaria e soggetto di restaurazione al tempo stesso. Opposizione contro una cultura che minaccia l’identità nazionale e contro un modello di sviluppo che minaccia la dignità spirituale dell’uomo». Isabella Rauti in quanto studiosa conosce bene gli errori grossolani di chi coniuga, con una ripetizione tremenda, donna e obbedienza. Tanto è vero che ricorda quanto scriveva una intellettuale: «Oc-

corre che le donne si uniscano tutte in questo momento, prefiggendosi la conquista progressiva e ordinata dell’uguaglianza morale, giuridica e politica della donna a parità degli uomini, promovendo al contempo leggi a favore della donna, dell’infanzia e del lavoro».

Ci si chiede: qual è “questo momento”? Un’assemblea degli anni Settanta alla Statale di Milano o a Valle Giulia a Roma? No, la frase è del 1920. Commenta la Rauti: «Io ho sempre creduto e continuo a credere che soltanto un’alleanza trasversale, una rete di donne che a me non piace

chiamare lobby, ma il concetto della pressione potrebbe essere lo stesso, possa veramente raggiungere un obiet-

Non ha il mito dell’America perché «lì le donne stanno peggio», ed è anzi certa che sul tema l’Italia sia più «avanguardista» tivo di parità sostanziale». Secondo Isabella i meccanismi attuali della politica tendono a estromettere le donne: «La democrazia, per essere

funzionale, non può consentire forme di asimmetria». Quanto alla manifestazione dello scorso anno a Roma durante la quale le arrabbiatissime della sinistra radicale contestarono donne del centrodestra, Isabella Rauti è perentoria: «Basta con gli estremismi, con i riti collettivi isterici e malati, con la conflittualità totale verso l’uomo. Il problema vero è quello di non essere tagliate fuori dal mondo, di conservare la nostra identità… certo, le ondate del femminismo degli anni Settanta spiazzarono in qualche modo il nostro partito…». Spiazzate? «Be’, mica tutte. Cominciarono a ragionare

sul tema le frange dell’area rautiana, non certo le befane tricolori tutte prese dal tè e dalla canasta. Nel partito sono sempre convissute due anime, una conservatrice e una riformista sociale. Noi che facevamo politica negli anni di piombo non eravamo delle marziane come non eravamo i soliti angeli del focolare. Eravamo attrezzate al confronto, a discutere su pregiudizi e stereotipi decennali, anzi secolari». Isabella non esita ad ammettere che la rivoluzione femminista abbia avuto aspetti positivi. Soprattutto quello di avviare una rivoluzione dei costumi, anche se traumatica. Ma i movimenti delle arrabbiatissime di sinistra, aggiunge, «erano molto autoreferenziali, per cui scomparve il dialogo tra uomo e donna. Negli anni Ottanta abbiamo poi assistito al rampantismo femminile, tutto imperniato sull’imitazione del maschio. Basta ricordare i messaggi pubblicitari a cavallo tra gli ’80 e i ’90: edonismo, immagini femminili stereotipate e volgari. E così lontane dal vero mondo della donna».

Le abbiamo chiesto un parere sulla passività con cui anche le arrabbiatissime di sinistra accettano l’inno del fondoschiena (siamo stati derisi per questo dai giornali americani), della donna che si muove sempre bambolina sessuale, sui giornali e in televisione. Mai una parola contro, mai un corteo contro le tette consumistiche, l’ammicco al rimorchio. Invece silenzio. «Indignazione femminile? In effetti non la vedo proprio. Ma sarebbe sacrosanta. Io le donne non le penso né veline, né buoniste, né grasse, né magre, ma libere dagli stereotipi. E soprattutto se stesse». Un’altra domanda: le donne americane? Risposta: «Stanno peggio. La loro condizione di capofamiglia è molto diffusa in una società che vive su sperequazioni sociali ed economiche. Sostanzialmente però quelle donne sono l’anello più debole della catena. No, io non ho proprio il mito dell’America. E riconosco che l’Italia dal punto di vista normativo non è affatto indietro, anzi è moderna, all’avanguardia, anche se in fatto di parità sostanziale lasciamo molto a desiderare. I paesi trainanti sono quelli del Nord-Europa. Noi per il tasso di occupazione femminile siano al penultimo posto, prima di Malta. Sono dati del World Economic Forum».


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mondo

Con la vittoria in Nord Carolina e il “quasi pareggio” in Indiana, il senatore dell’Illinois è vicinissimo alla nomination

Obama vede la luce in fondo al tunnel di Andrea Mancia prima vista sembra un pareggio. In realtà, Barack Obama ha ottenuto una vittoria al di sopra di ogni aspettativa. Una vittoria forse decisiva per le sorti della nomination democratica. Il senatore dell’Illinois ha stravinto in Nord Carolina (56,3% contro 41,5%) con oltre 200mila voti di vantaggio. E ha sfiorato un clamoroso successo anche in Indiana, dove Hillary Rodham Clinton è riuscita ad imporsi solo per il rotto della cuffia (50,9% contro 49,1%), malgrado un background demografico a lei molto favorevole. Adesso Obama conduce nel conto dei delegati con un margine piuttosto comodo (+152), che lascia confinata al mondo della fantascienza la possibilità che Hillary riesca a ribaltare lo svantaggio entro il 3 giugno, giorno in cui - con le primarie in Montana e Sud Dakota si concluderà questa appassionante (e masochista) cavalcata democratica verso la convention di Denver. Per la verità, la data decisiva per le residue speranze di sopravvivenza dell’ex First Lady è quella del 31 maggio. In quel giorno, infatti, a Washington un meeting ristretto del partito democratico deciderà la sorte dei “delegati virtuali”di Florida e Michigan, stati vinti dalla Clinton (soprattutto per mancanza di avversari) ma “puniti” dal partito per aver anticipato la data delle elezioni primarie. Questo comitato di 30 membri di cui pare che almeno 13 siano sotto il controllo “diretto” di Hillary - avrà carta bianca nell’assegnazione di 366 potenziali delegati. Potrebbe distribuirli in base al risultato delle primarie, assegnarne soltanto la metà (e sembra che questa sia la decisione più probabile), decidere di seguire la linea punitiva scelta originariamente del partito o addirittu-

A

ra stabilire una ripetizione del voto. Comunque vada, dopo le primarie in Nord Carolina e Indiana, il sottile filo di speranza che lascia Hillary legata alla nomination passa da Washington e dal suo disperato tentativo di spostare nelle stanze della burocrazia di partito una sfida che, nelle urne, per ora la vede perdente.

Per John Kass del Chicago Tibune, «Hillary è come un gatto che ha nove vite, ma le ha finite tutte». E il risultato delle ultime primarie sembrerebbe confermare questa tesi. Jay Cost, l’analista elettorale di Real Clear Politics, ha comparato la prestazione della Clinton in Indiana con quelle di due stati demograficamente non troppo diversi, come

della vigilia. La “coalizione”clintoniana, insomma, sembra perdere colpi vistosamente. Mentre quella obamiana (neri, studenti ed élite metropolitane) si consolida progressivamente. I problemi, per Obama, potrebbero derivare proprio da questo incrociarsi di dinamiche. Perché, come ha scritto ieri David Brooks sul New York Times, all’inizio di questa campagna elettorale Obama era visto come un candidato di garantirsi un sostegno «bipartisan e post-partisan». Capace, insomma, di fare presa anche su un elettorato «indipendente e moderato». Se guardiamo agli exit-poll delle ultime primarie, invece, ci troviamo di fronte ad un candidato estremamente spostato a sinistra rispetto all’asse mediano dell’elettorato statunitense. «Più ci

Le ultime speranze di Hillary sono riposte nella sorte dei “delegati virtuali” di Florida e Michigan, su cui un comitato ristretto del partito democratico deciderà il 31 maggio Ohio e Pennsylvania (in cui si è votato in marzo e in aprile). Ebbene, Hillary ha confermato i propri numeri in alcuni segmenti (uomini bianchi, over 65, protestanti bianchi, indipendenti), ma è clamorosamente crollata in altri (donne bianche, elettori con istruzione inferiore, iscritti ai sindacati) che costituivano il “nocciolo duro”del suo elettorato di riferimento. A questo si deve l’inaspettato “quasi pareggio”di Obama. In Nord Carolina, sotto il profilo strettamente demografico, le cose per Hillary sono andate leggermente meglio, ma il senatore junior dell’Illinois ha letteralmente travolto la rivale nelle aree urbane (e, naturalmente, tra gli afro-americani), ottenendo un vantaggio vicino al 15%, superiore a quello registrato dai sondaggi

si sposta a sinistra - scrive Brooks - più Obama diventa forte. Più ci si sposta verso il centro, meno intensa diventa la sua capacità di attrarre consensi. Una volta Obama aveva un discreto sostegno da parte di chi si definiva “molto religioso”. Adesso fa il pieno tra gli strati più secolarizzati dell’elettorato».

Brooks, come altri commentatori in passato, si spinge fino a paragonare i sostenitori di Obama a quelli del famigerato duo McGovern-Dukakis (i due candidati più “di sinistra” della storia recente del partito democratico), per sottolineare le difficoltà che avrebbe una proposta politica del genere nell’imporsi in una elezione presidenziale. E c’è un’altra cattiva notizia per Obama tra le pieghe de-

gli exit-poll, soprattutto in Indiana: quasi la metà degli elettori di Hillary si dice pronta a votare per John McCain in caso di sconfitta del loro candidato alle primarie. Si tratta di una opzione che, seppure con numeri più ridotti, si ripete specularmente anche in campo obamiano. Segno che il violentissimo e prolungato scontro tra Hillary e Obama sta iniziando a lasciare il segno sull’elettorato democratico, perché queste percentuali sono cresciute sensibilmente nell’ultimo mese. L’avversione dell’elettorato clintoniano nei confronti di Obama, poi, solleva anche la questione “politicamente scorretta” della razza. Agli ultimi comizi di Hillary, la presenza di afro-americani si poteva contare sulle dita di una mano. E la moglie del «primo presidente nero della storia» ormai non riesce a raccogliere che le briciole di questa importantissima constituency del partito democratico. Questo dato di fatto apre la strada a due diversi ordini di problemi. Per Hillary diventa molto difficile convincere i “super-delegati” che non si sono ancora espressi (267, contro i 217 ancora da assegnare con le prossime primarie) a scegliere di appoggiarla, per paura di scatenare un’ondata di astensionismo nero, soprattutto nelle città. Per Obama, una sovrapposizione troppo marcata con l’elettorato afro-americano rischia di schiacciarlo troppo sulle posizioni tipiche del “candidato della minoranza”, che piace tanto al sistema dei media e alle “anime nobili”, ma in genere perde rovinosamente le elezioni. Forse, con la scelta di McCain, candidato anomalo in grado di giocare di sponda con queste spinte opposte che sembrano dilaniare la sinistra americana, l’elettorato repubblicano ha davvero compiuto la scelta più saggia.


mondo

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Lo scandalo in Congo suggella l’incapacità delle Nazioni Unite a gestire le missioni

Onu, addio all’illusione umanitaria d i a r i o

di Stranamore è qualche alternativa al metodo che l’Onu utilizza per assemblare, gestire, controllare le decine di migliaia di uomini impegnati in 17 missioni di pace in corso in ogni parte del globo? La domanda è spontanea alla luce del più recente scandalo che riguarda una delle missioni Onu, la Monuc in corso dal 2000 in Congo. In realtà è ben noto che certi comportamenti abbietti non sono certo esclusiva dei contingenti Onu. Negli eserciti di ogni epoca che i soldati si macchiassero di crimini anche gravi non è mai stata una eccezione. Questo vale anche per gli eserciti professionali di Paesi europei, per non parlare delle truppe statunitensi. Ma un conto è che si tratti di episodi circoscritti, che , non sempre, vengono denunciati e perseguiti, altro è se la “devianza” diventa sistematica e vede coinvolti interi contingenti, dal vertice fino alla truppa. E questo è proprio quanto accade spesso con i contingenti Onu. Il perché è ovvio: a fornire le truppe non sono certo i paesi più sviluppati e i propugnatori di nobili ideali, ma una massa di paesi grandi e piccoli (quasi 120) che mettono a disposizione delle Nazioni unite migliaia di uomini e mezzi. Un affare anche economico, perché a pagare gli stipendi ed i costi è l’Onu ed anzi, visto che il soldo rinosciuto dalle Nazioni Unite ai governi è ben più alto di quel che i governi riconoscono ai loro soldati oltre a risparmiare, si guadagna. In più le truppe, i quadri hanno modo di fare esperienza sul campo, mentre il paese che li offre acquista benemerenze internazionali.

C’

Il carrozzone delle missioni di pace costa intorno ai 6,8 miliardi di dollari all’anno ed impiega 110mila uomini e donne, in massima parte militare (75mila), ma anche poliziotti e osservatori, oltre a funzionari civili Onu o locali e volontari. Il Palazzo di vetro deve accontentarsi di quello che riesce a trovare, tenendo conto che non ha neanche le risorse finanziarie per pagare i costi di contingenti “occidentali”. Un tempo si era pensato di dotare l’Onu di un proprio esercito permanente, multinazionale, ma, per fortuna, questi sogni sono svaniti. Del resto le Nazioni Unite sono anche incapaci di gestire in modo corret-

to le missioni. Soprattutto se si tratta di missioni impegnative e che possono degenerare. In realtà se la missione è pericolosa…molto meglio che l’Onu la appalti a qualche organizzazione esterna, come accade per la Nato in Afghanistan. Anche quando la missione ha le insegne Onu si possono trovare formule per assegnarle a paesi “guida” in grado di assumersi la responsabilità e di evitare disastri. E’ il caso

Un carrozzone di 7 miliardi di dollari l’anno che riempie le casse di alcuni stati e non da risultati della Unifil in Libano. Ma non sempre ciò è realizzabile è possibile e per fronteggiare crisi gravi, specie nel continente africano, l’Onu si deve arrangiare e spesso non riesce ad assemblare i contingenti necessari. Pensiamo alla Unamid in Darfur: conta 7.400 soldati. Rispetto ai 19mila previsti e 1.700 poliziotti rispetto ai 6.400 autorizzati. Visto che nessuno e men che meno i paesi europei, gli Usa, la Nato o l’Unione Europea vogliono farsi coinvolgere più di tanto nelle lunghe, costose, poco popolari missioni africane si potrebbe pensare a qualche soluzione alternativa.

Si tratta certamente di una provocazione, ma diversi analisti hanno proposto di privatizzare le missioni di mantenimento della pace o addi-

rittura anche quelle di imposizione della pace. In pratica si tratta di ricorrere alle tanto vituperate Pmc, Private Military Companies, e non solo per compiti di supporto o sicurezza. Il vero problema consiste nella capacità di verificare compiutamente lo svolgimento del “contratto” da parte della società che si aggiudichi l’appalto, la qualità del personale e dei mezzi, il rispetto del mandato e dei compiti. Dato che i contratti dovrebbero essere assegnati su base competitiva, la società che non dà soddisfazione…sarebbe sostituita, perdendo il suo business e subendo un discredito internazionale. Invece nessuna reale “sanzione”, neanche politica è applicabile ad un paese che invia in missione un contingente disastrato e che si macchia di crimini: non ci sono neanche vere inchieste o punizioni individuali, perché in genere si insabbia tutto, salvo trovare qualche raro capro espiatorio, in genere di basso rango. Prima di iniziare con i moti di orrore ed i vade retro, conviene riflettere sul fatto che i “buonissimi” paesi occidentali non prendono neanche in considerazione la maggior parte delle missione Onu. Pensiamo poi ai problemi della missione di “supporto” europea a guida francese per Sudan/Darfur. Senza dimenticare che la stessa Nato non riesce a trovare i soldati e neanche gli elicotteri da trasporto che le occorrono in Afghanistan. E che almeno per i mezzi si sta ricorrendo alla privatizzazione del servizio. Almeno un tentativo quindi vale la pena di farlo. Inoltre si potrebbe partire con missioni relativamente semplici e con forze schierate che non superino il livello brigata e poi, con gli aggiustamenti dell’esperienza, salire di livello e complessità. Inoltre sarebbe più facile convincere i paesi membri ad aprire i cordoni della borsa e stanziare quattrini in una sorta di trust fund come quello che la Nato si appresta a creare per l’Afghanistan (ben gestito e amministrato, cosa che in genere riesce difficile all’Onu), istituire effettivamente gli organismi tecnici di comando e controllo necessari e procedere con appalti che facilmente sarebbero vinti da società occidentali, almeno inizialmente, piuttosto che pagare i conti delle armate brancaleone dipinte d’azzurro che producono ben scarsi risultati.

d e l

g i o r n o

Collaborazione nucleare tra Usa e Russia Interessanti i contenuti dell’accordo nucleare siglato martedì a Mosca dall’ambasciatore Usa, e futuro “numero tre” del Dipartimento di stato, William Burns, e il capo dell’agenzia russa dell’energia, Sergej Kirijenko. Il trattato che prevede la cooperazione tra i due Paesi sul mercato del nucleare globale, punta a raggiungere maggiore sicurezza nel settore della tecnologia di reattori e combustibili nucleari e impedire la proliferazione di armi nucleari. Per Washington si tratta anche di rafforzare la traballante alleanza con Mosca contro il nucleare iraniano. Il dipartimento di stato Usa, preferirebbe invece l’isolamento della strategia nucleare del Cremlino. L’accordo, una svolta rispetto alla politica seguita da un decennio da Washington, non ha però il consenso del senato americano.

Nuova Delhi testa missile atomico Agni III, è questa la tipologia del nuovo missile atomico indiano in grado di raggiungere Pechino e Shangai. L’arma è stata lanciata da una piattaforma mobile situata sull’isola di Wheeler sulla costa orientale del Paese. È la terza volta che l’India testa un missile di questo tipo. Agni III, dal nome del dio indiano del fuoco, ha una gittata di 3mila chilometri, la più potente di tutto l’arsenale missilistico di Delhi. Secondo gli esperti l’ordigno, lungo 16 metri e pesante 1,5 tonnellate, svolgerà soprattutto funzioni di deterrenza anti cinese.

Monta la tensione con Hezbollah L’opposizione libanese guidata dal movimento islamista pro iraniano Hezbollah, ha paralizzato Beirut con uno sciopero generale. Ieri le principali strade della capitale sono state bloccate con sacchi di sabbia e roghi di pneumatici dai simpatizzanti dell’organizzazione sciita. Il primo ministro libanese, Fuad Siniora, ha messo in guardia Hezbollah e i suoi alleati, dall’ utilizzare le proteste dei lavoratori per i propri scopi politici. Lo sciopero proclamato dai sindacati contro gli aumenti dei prezzi, ha visto l’adesione massiccia degli islamisti. Il giorno prima altre tensioni tra esecutivo e Hezbollah erano venute dal “licenziamento” del militare addetto alla sicurezza dell’aeroporto della capitale, ritenuto troppo vicino agli sciiti.

Germania: bocciato l’uso degli Awacs L’uso di soldati e i voli di ricognizione fatti dalla Bundeswehr in Turchia nel 2003, all’inizio della guerra in Iraq, sono stati anticostituzionali. I giudici di Karlsruhe hanno dato ragione al gruppo parlamentare liberale, Fdp, che aveva motivato il ricorso col fatto che l’esecutivo, nel prendere il provvidimento, aveva ”snobbato” il Bundestag. Schroeder aveva ritenuto superfluo consultare il parlamento in quanto si sarebbe trattato di «lavori di routine dell’alleanza». Per la Corte invece si è trattato di una «azione armata» per la quale si devono sempre consultare i «rappresentanti del popolo».

In Zimbabwe decideranno i giudici A cinque settimane dalle elezioni governo e opposizione per uscire dall’impasse dei mancati risultati ufficiali, si appellano alla magistratura di Harare. Ora i voti della metà delle circoscrizioni elettorali del Paese saranno passati al setaccio dai magistrati. Secondo quanto ha scritto il giornale The Harald, il partito di governo del presidente Mugabe non ritiene valido l’esito degli scrutini in 53 delle 210 circoscrizioni elettorali dello Zimbawbe, mentre l’opposizione vuole il riconteggio in altre 52. Secondo la costituzione del Paese i giudici hanno sei mesi di tempo per pronunciarsi.


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speciale educazione

Socrate

Dalla vita “quasi militare” di Giulio Andreotti alle classi difficili di Secondigliano raccontate in un bestseller da Marcello D’Orta. Come è cambiata l’educazione dei giovani

UN SECOLO DI SCUOLA di Giulio Andreotti se gue da lla p rima

Della maestra fino alla quarta ho un ricordo meraviglioso. Bruttina e nubile, Orsola Bruscani era stupenda. Ci curava uno ad uno, invitandoci anche a piccoli gruppi a desinare nella sua casa di Via Po. Nulla da dire sul maestro Grossi (quarta e quinta) ma eravamo tutti nostalgici della Bruscani. Salto un certo numero di anni. Il Complesso Celio – Villa Fonseca tra ospedale, caserma e Collegi Medici era superaffollato. Nelle camerate vi erano letti a castello, su due piani. Dopo i primi giorni vidi che era possibile andare a dormire a casa e tutto andò bene fino al giorno nel quale, non sapendo che era iniziata l’uniforme estiva, rientrai al mattino con il cappotto. Scattò così la punizione rimasta in sospeso per un’altra mancanza: andare in uscita senza baionetta. Così sperimentai la “prigione semplice”, con notte in cella. Dei tre giorni fissati, i

termine, mi sembrò inevitabile il tornare in Caserma, pensando di dedicare alla FUCI le ore della libera uscita. Ma sperimentai quale fosse nelle Forze Armate la potenza di Padre Gemelli, che da Milano telefonò al Direttore Generale Ingravalle. Fui subito chiamato, rimproverato per non aver chiesto un’altra visita (!) e inviato a casa per un anno (con esattezza burocratica “dodici mesi”). Scaduto questo… riposo, non seppero più cosa fare di me e mi si tolsero dai piedi, messo in congedo assoluto. Un giorno mi vidi convocare dal Distretto Militare e appresi che avevo diritto a due stellette annuali di servizio di guerra. Arrossii. Il generale Bucciante, persona veramente notevole sul piano intellettuale, in virtù della sua competenza pensionistica, era stato nominato Consigliere della Corte dei Conti. Cambiate le cose governative, fu epurato con la stupida motivazione che non era laureato in

Della maestra Orsola ho un ricordo meraviglioso: ci invitava a casa a pranzo

primi due li evitai, ma la terza notte non volli rischiare complicazioni e la trascorsi appunto sul “tavolaccio”, insieme ai commilitoni che raccontavano fanfaronate e non la smettevano di pronunciare sconcezze. Anche se con qualche agevolazione, il servizio era logorante e ne risentii, compensato con centottanta giorni di licenza di convalescenza. Al

Giurisprudenza. Stupida perché erano ancora in servizio alla Corte Consiglieri privi di laurea. Avendo nel frattempo io fatto… azione politica, potei intervenire e far revocare la decisione. Avevo potuto ricambiare al generale Bucciante la bontà che aveva avuto verso il piccolo soldato di Sanità, capitato nella sua orbita. Quante coincidenze nella mia vita!

ROMA. «Quando io andavo a scuola si recitavano le poesie a memoria e le tabelline si imparavano come filastrocche. Per noi bambini di allora, i maestri meritavano un assoluto rispetto. Non guadagnavano molto neppure a quel tempo, ma nei loro gesti fermi e nelle loro parole calme, nel loro modo di incedere fiero tra i banchi, indovinavamo in loro una dote straordinaria. Loro possedevano il sapere, e noi la speranza di rubargliene un pezzetto. I nostri genitori ci tenevano molto che a scuola andassimo bene. Ci ripetevano sempre che era quel pezzo di carta che un giorno ci avrebbe dato lavoro. Il sapere ci avrebbe portato un giorno la stima e il rispetto della gente, e noi figli, quando chinavamo la testa sui libri, cominciavamo a nutrire un sogno segreto. Volevamo essere colloquio con Vincenzo Cerami migliori dei nostri padri. Non c’edi Francesco Lo Dico ra nulla di male a desiderarlo. Erano loro a incoraggiarci, e chi tra noi aveva la fortuna o la possibilità di studiare, non faceva che assecondare quel desiderio paterno nutrito a rimbrotti e piccoli

«Volevamo essere migliori dei nostri padri»

elogi. Forse volevamo soltanto essere alla loro altezza, ma di questo ce ne accorgevamo poi. Crescendo». Vincenzo Cerami, una vita dedicata alla scrittura e nessun bisogno di presentazioni, sembra scrivere anche mentre parla. Era un bimbo timidissimo, a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, e alle scuole medie si imbatté in un maestro che forse decise del suo destino: Pier Paolo Pasolini. Maestro, nostalgia della scuola di allora? No. Credo che la scuola di un tempo non debba essere rimpianta. Ciò che in me suscita nostalgia è quel senso di identificazione, allora molto vivo, tra il potere e la cultura. Non si trattava affatto di denaro o successo, quando la gente mostrava ammirazione nei confronti di qualcuno. C’era qualcos’altro che aveva a che fare con una sorta di stupore. Lo stupore per chi ce l’aveva fatta affinando i suoi modi e le sue conoscenze sui libri. Gli uomini di cultura, e dunque anche gli insegnanti, avevano agli occhi dei nostri genitori un


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Anni Sessanta: aboliti gli istituti di avviamento, cambia il metodo d’insegnamento

L’addio al nozionismo nell’era del maestro di Vigevano di Orio Caldiron l maestro sta per spiegare in modo libresco la scoperta dell’America. Il direttore, appena entrato in classe, invece manda tutto all’aria e trasforma la scolaresca nella ciurma delle tre caravelle e assegna al maestro il compito di avvistare la terra con una specie di cannocchiale.

I

La scena di Il maestro di Vigevano di Elio Petri – e prima del romanzo omonimo di Lucio Mastronardi, pur con qualche diffe-

moderni, attivi, partecipativi di dopo. Stralunato e grottesco, il film prefigura solo in parte il clima apocalittico dei successivi Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e di La classe operaia va in paradiso, ma descrive nei modi sarcastici della commedia amara la claustrofobia dell’istituzione scolastica con i suoi rituali frusti e asfittici, refrattaria al nuovo come i tanti insegnanti ripiegati su se stessi e sulla propria mediocrità.

La riforma apre inaspettate prospettive ai ceti più umili. Ma l’università va in tilt renza – coglie in modo particolarmente vivace il cambiamento in corso nella scuola, segna la svolta tra i metodi tradizionali d’insegnamento di prima e quelli

ruolo fondamentale. Dai loro voti, e dalla maniera in cui essi trovavano il modo di tirar fuori da noi stessi il fascino per la cultura e la dedizione allo studio, dipendeva il nostro futuro. Quando i nostri genitori andavano a parlare con i maestri, si mostravano sempre molto ossequiosi e attenti. Se le cose non andavano bene, annuivano preoccupati e poi scuotevano la testa nella nostra direzione. Vederli così provati o sollevati rispetto alle parole dei nostri maestri, significava per noi dover prendere la scuola molto sul serio. Eppure se guardiamo alla situazione attuale della scuola, non c’è da stare molto allegri. Davvero non rimpiange niente? Forse una cosa sì. Il tema libero. Oggi si tende a considerarlo qualcosa di superato, ma a ripensarci oggi consentiva a noi bambini di sbrigliare la fantasia. Ci permetteva di conoscere di più alcune cose di noi stessi, e ne imparavamo alcune altre che non pensavamo di sapere. Qualche anno fa

La grande novità di quei primi anni Sessanta è la nascita della scuola media unica, la scuola dell’obbligo estesa fino ai quattordici anni, che cancella per

raccontai a dei giovani di Torino un aneddoto. Ero ancora alle medie, e il maestro Pasolini ci assegnò un tema dal titolo classico, “Una gita al mare”.Avevo otto anni, e io il mare non l’avevo mai visto. Non osai dire niente, e mi misi a scrivere. Tentai di inventare dettagli e situazioni che lasciassero credere che io, al mare, ci fossi stato davvero. Molto tempo dopo capii di aver scoperto la verosimiglianza. E, già da piccolo, che mi scrivere mi piaceva. Che cosa ricorda dei libri di scuola? Che erano pochi, e custoditi molto bene. Le famiglie povere li tenevano sugli scaffali e li plastificavano con quello che capitava per farli resistere all’usura del tempo. Spesso passavano di mano da un fratello all’altro insieme a pochi altri libri. Noi bambini amavamo molto quelli d’avventura. Si trattava di pochi volumi, che spesso rileggevamo a fondo. Era una catena, un filo invisibile che legava tutti noi ragazzi. E che univa noi ragazzi ai nostri fratelli e ai nostri padri.

sempre la vergogna degli istituti di avviamento professionale: una specie di penosi sottoscala che non portavano da nessuna parte con la scusa di immettere subito nel mondo del lavoro chi non poteva continuare gli studi.

Nonostante i suoi vistosi limiti – mancanza di vero aggiornamento degli insegnanti, carenza cronica di strutture adeguate, programmi pericolosamente sospesi tra vecchio e nuovo, ossessive circolari scritte in burocratese al limite del nonsense – la scuola dell’obbligo nata nel 1962 apre nuovi, insperati orizzonti a migliaia di ragazzi dei ceti medi e della classe operaia. Non pochi di loro decideranno di continuare gli studi fino all’università, contribuendo a sconvolgere un sistema scolastico già sgangherato e poco funzionante. Le università più grandi, attrezzate per accogliere circa cinquemila studenti, già allora ne ospitavano cinquanta, sessantamila. Non appena si decide di liberalizzare l’accesso agli studenti provenienti da tutte le scuole superiori, compresi gli istituti tecnici, l’intero sistema va in tilt. La storia successiva non riguarda più la scuola media né la scuola elementare, che è al centro di Il maestro di Vigevano. Riguarda l’università, il movimento degli studenti e soprattutto il Sessantotto: tutti temi complessi che non è ora il caso di affrontare. Il cuore del problema rimanda all’autoritarismo, anzi al radicale anti-autoritarismo del movimento studentesco. Che un film del ’63 abbia presagito cosa stava per succedere, non è un merito da poco. Che dire poi dell’intuizione che gli insegnanti contano meno delle scarpe, soprattutto in una città in cui le scarpe sono tutto? Un modo intelligente di alludere a un problema ancora attuale non soltanto dello status degli insegnanti ma anche più banalmente del rapporto tra insegnanti e soldi, e cioè degli stipendi degli insegnanti. Si sa che sono sempre stati troppo bassi, anche in confronto al contesto europeo. Si sa anche che si tratta di una categoria a cui, come a Charlot, il senso della dignità ha impedito di scende-

re in piazza quanto avrebbe dovuto. Come è interessante che nel corso del film affiori tutto uno scenario di rapporti tra scuola, famiglia, impresa, in cui il vento del Nord si imbatte nelle contraddizioni della complessità. Sparare sulle esili spalle del maestro Mombelli un carico da novanta del genere mi sembra però ingiusto. Come sarebbe sbagliato chiedergli di impersonare la figura tipica del docente novecentesco. Chissà, il maestro, che ha lo sguardo sornione e vittimista del miglior Sordi, forse ha fatto propria la scritta che appariva all’epoca sui muri di una università: «Voglio essere orfano». Com’è del resto l’insegnante-tipo dell’ultimo scorcio del passato millennio? Se ne può abbozzare un ritrattino? La prima tentazione potrebbe essere quella di recuperare i tanti amarcord degli insegnanti che ho avuto nelle varie tappe della mia storia scolastica – dalle elementari all’università – per proporvi una sorta di coperta di Arlecchino imbastita nel filo trasparente dei fatti personali.

Vicende troppo personali per esibirle qui in una peregrina moltiplicazione dell’irripetibile posto delle fragole. Verrebbe fuori di tutto. Anche l’amore. Anche l’odio. Anche l’indifferenza. Anche la saccente sicumera di chi pretendeva inopinatamente di sbirciare nella palla di cristallo del nostro futuro. Ma verrebbe fuori anche la gratitudine per le tante cose che ho imparato. Soprattutto per le lezioni di vita, forse le più importanti, anche se sul momento potevano sembrare le più detestabili. Senza parlare dei cattivi maestri, che pur ci sono stati. Ma è arrivato il momento di ribadire l’energia dell’errore. La prova del nove del buon insegnante è la sua capacità di sbagliare. Nella trasmissione del sapere e nei comportamenti interpersonali. È allora che, fragile come i suoi allievi, finalmente umano, è in grado di scendere dalla cattedra e di insegnare sul serio. Forse per questo il maestro di Vigevano, che sbaglia quasi tutto in classe e in famiglia, assurge ai vertici, esagerati e parossistici, dell’esempio. Davvero inimitabile.


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speciale educazione

Socrate

Destra e sinistra devono smettere di farsi la guerra usando come agone politico la scuola

«Speriamo che se la cavino» colloquio con Marcello D’Orta di Francesco Lo Dico

ROMA. «Ho insegnato a Secondigliano negli anni ’80, nel periodo in cui si fronteggiavano due bande, quella della Nuova camorra organizzata e la Nuova famiglia composta dagli altri clan che si opponevano a Cutolo. In classe , io e altri colleghi avevamo capito abbastanza presto che alcuni ragazzi erano legati indirettamente ai due clan, ma quando scrivevano i loro temi era abbastanza evidente che prendessero, in un modo molto netto, le distan-

nei loro temi che la camorra li protegge e che grazie ad essa non hanno nulla da temere. Eppure non c’è affatto da meravigliarsi, perché in occasione di retate delle forze dell’ordine in quartieri come il rione Sanità o Secondigliano le famiglie si armano in difesa dello scippatore inseguito o del boss di turno. È successo quindi qualcosa di molto grave, perché lo Stato, almeno in questi territori, ha cessato di far sentire la sua presenza. Mancano

Servono regole. Poche, benedette e subito. Il caos spezza le vite dei ragazzi

ze dalla malavita» Marcello D’Orta, maestro e scrittore assurto alla fama internazionale con Io speriamo che me la cavo, sceglie di raccontarci la scuola contemporanea a partire da una realtà molto dura. Com’è cambiata la scuola, a diciotto anni dall’uscita del suo romanzo? Rispetto a diciotto anni fa trovo la situazione molto peggiorata. Di recente alcuni bambini di Secondigliano hanno scritto

servizi e posti di lavoro, e la camorra riesce a mettere al proprio servizio centinaia di persone. E con esse, il destino di centinaia di bambini, che trovandosi in determinate realtà familiari, non trovano nella scuola nessuno stimolo e nessun riscontro. Forse il Sud è un caso limite, ma anche nel resto d’Italia la scuola vive un periodo di grande depressione. Ha qualche idea

sul perché tutto questo sia accaduto? Credo di potere identificare per questo disastro cinque cause fondamentali. Innanzitutto il Sessantotto e gli anni della contestazione giovanile. Ha ragione Veneziani quando dice che è stata una rivoluzione riuscita soltanto nella prima metà: è riuscita come “sess-” e fallita come “antotto”. Da una parte è arrivata un po’ di emancipazione, dall’altra ha prodotto nell’ambiente scolastico danni irreparabili. Gli slogan di allora, da “vogliamo tutto”a “proibito proibire”, durarono molto più a lungo di quella stagione. Hanno riecheggiato nelle aule per quarant’anni, producendo indisciplina, buonismo pedagogico, bullismo, e ogni forma di giustificazione edipica per qualunque atto di ribellione o insofferenza. Con la complicità dei genitori. C’entrano qualcosa anche loro? Con i decreti delegati del 1974 i genitori degli alunni entrarono a far parte della vita scolastica. Si trattava di una risoluzione positiva, che lentamente trasformò però la collaborazione familiare in ingerenza. Da allora non ci fu provvedimento, o idea dell’insegnante che potesse essere approvata senza essere vagliata dai genitori. Una

situazione che ha spesso impedito a chi era specializzato in pedagogia, psicologia e didattica di mettere a punto strategie di insegnamento efficaci. Negli anni sono aumentate le denunce a carico degli insegnanti, e molti sono stati minacciati o sottoposti a percosse. Per di più, quando si boccia un ragazzo , in nove casi su dieci il Tar da ragione ai genitori e dunque l’autorità e la credibilità valutativa si dell’insegnante svuota di senso. Innanzitutto agli occhi degli alunni. necessaria È un’altra riforma, insomma. È necessario in realtà che destra e sinistra smettano di farsi la guerra usando come agone politico la scuola. I nostri parlamentari hanno la terribile abitudine di far coincidere una nuova riforma a ogni nuovo governo, aggiungendo confusione a confusione. Nell’ambito della valutazione, ad esempio, c’è chi usa lettere, chi preferisce i numeri e chi opta invece per gli aggettivi. Il risultato resta però identico, perché nel 98 per cento dei casi, i ragazzi che affrontano l’esame di matu-

LETTERA DA UN PROFESSORE

INSEGNARE A INSEGNARE: UN MITO DA SFATARE di Giancristiano Desiderio i può insegnare a insegnare? Si può insegnare a imparare come s’impara? Le due domande si possono anche riassumere in questa: è possibile insegnare come si fa una buona lezione? La risposta è no. Giuseppe Bertagna, riprendendo un mio articolo sulla tradizione della lezione dagli Antichi a oggi, ha detto di condividere il fine (la buona lezione) ma di voler discutere il mezzo (come si insegna). Ma l’insegnamento dell’insegnamento è un mito pedagogico. Per insegnare come si insegna bisognerebbe che esistesse una scienza dell’insegnamento da tramandare al futuro insegnante. A sua volta l’insegnante-scienziato dovrebbe imparare da un altro insegnante la scienza dell’insegnamento e così all’infinito. Se esiste questo mito pedagogico è perché si crede che quella strana ma necessaria cosa che si chiama “le-

S

zione” sia scomponibile in mezzo e fine. Una lezione, invece, è sempre insieme mezzo e fine perché non è un’azione tecnica (per esempio la costruzione di un tavolo) ma un’azione morale. La differenza tra un’azione tecnica e una morale è questa: la prima costruisce, la seconda agisce. Il tavolo si costruisce, la comprensione no. Ancora: se fosse possibile tagliare di netto mezzo e fine avremmo risolto non solo tutti i problemi scolastici, ma anche tutti i problemi della vita perché avremmo ridotto la vita a scienza. Ma è proprio questo che non si può fare. Per fortuna. Come dicevano Croce e Gentile la pedagogia si deve risolvere nella filosofia. Se non si può insegnare a insegnare non si può neanche insegnare a imparare. Sia il primo insegnamento sia il secondo presuppongono l’esistenza di un metodo universale che se anche ci fosse (e c’è) sa-

rebbe ottimo per controllare e costruire cose, ma non per educare giovani. A questo punto, però, se le cose stanno così, la domanda è inevitabile: a cosa serve la scuola? La mia risposta rischia di disorientare: la scuola deve mirare proprio a insegnare come s’impara. Lo si può fare se si capisce che l’insegnamento non è metodologismo ma maieutica. Il metodo di apprendimento è un fantasma della mente (pedagogica ma non solo). Il rapporto tra professore e alunno o, per usare parole più belle, tra maestro e discepolo mediante l’insegnamento non può essere sostituito da alcun metodo. Insegnare è questo stesso rapporto. Insegnare come s’impara significa suscitare problemi, domande, interessi. La comprensione è autocomprensione. La buona lezione crea domande più di quanto non dia risposte.


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Alcune riflessioni sull’educazione statale e del futuro

Dalla pedagogia pesante a quella leggera di Giuseppe Lisciani

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rità vengono promossi. L’Italia ha il record europeo di promozioni. Il problema è che, dati alla mano, fa il palio con un altro primato: il tasso di asineria più elevato d’Europa. Una situazione paradossale che deve far riflettere. Ed eccoci al quarto motivo. Televisione e cinema hanno avuto un ruolo di rilievo nel dipingere un immaginario scolastico molto leggero che ha penalizzato l’intera classe degli insegnanti. Supplenti sexy, alunni svogliati e andazzi da barzelletta hanno preparato in qualche maniera l’esplosione di video volgari e violenti dell’era di internet. Gli strumenti tecnologici consentono ai giovani di produrre intorno alla scuola un continuo flusso di esempi negativi, un circuito di modelli e controvalori da emulare. Basti pensare a quante volte gli insegnanti siano messi in ridicolo dagli allievi.

Certo alcuni di loro potrebbero risparmiarsi alcune libertà. Il fatto è che gli insegnanti sono sempre più demotivati perché nessuno li tiene più in considerazione. Non contano più nulla di fronte ad alunni e genitori, guadagnano gli stipendi più bassi d’Europa e quindi lavorano senza stimoli, nella semplice idea di tirare a campare. In una parola, servono regole. Occorrono. Poche, benedette e subito. A dispetto di tutte le utopie e i facili libertarismi. Nell’Ottocento Tolstoj diede vita a una scuola libera in cui ciascuno entrava e usciva a piacimento e studiava quello che gli pareva. L’esperimento, studiato come esempio di anarchismo pedagogico, durò una settimana. D’altra parte la storia insegna ancora, tranne che a chi non vuole imparare.

uale scuola progettiamo per il nostro Paese? Quali insegnanti? Quale educazione? Quale pedagogia? Ecco un reticolo di domande che razzolano tutte nello stesso orto. Non daremo, perciò, risposte singolarmente dedicate, ma cercheremo di percorrere alcuni ragionamenti che avvolgono e coinvolgono tutte le domande, lasciando al lettore il compito di traslare da un interrogativo all’altro le eventuali risposte emergenti. Il filosofo e pedagogista russo Sergej Hessen (1887-1950) distingue due tipi fondamentali di educazione statale. Nel volume Ideologia e autonomia dell’educazione e della pedagogia, tradotto in Italia dall’editore Armando nel 1962 ma pubblicato a Varsavia nel 1939, Hessen così descrive il primo tipo: «Se nella concezione dello Stato si pone l’accento sull’elemento del potere e della forza, l’educazione statale si riduce allora alla formazione dell’individuo secondo un modello stabilito dal partito al potere. Essa assume allora il carattere di addestramento e di propaganda di massa, per la quale l’individuo [...] rappresenta [...] uno strumento del potere e non una personalità che possegga un proprio valore». Il secondo tipo di educazione statale, nella distinzione di Hessen, si ispira sia al liberalismo democratico che al socialismo democratico e «acquista il carattere di educazione civica. Il suo scopo è dato da ciò che gli inglesi chiamano sense of cooperation, cioè l’educazione delle capacità di cooperazione, del sentimento di solidarietà “sociale” collegato al rispetto della persona altrui e alla coscienza del proprio dovere di fronte all’insieme sociale». Hessen considera una educazione statale cattiva quella del primo tipo, mentre considera buona e auspicabile quella del secondo tipo. E, diciamolo, a prima vista verrebbe spontaneo, persino ovvio, considerare giusta e sacrosanta la scelta di Sergej Hessen. Bene. D’accordo. Tenendo però conto che Hessen scriveva e argomentava nel 1939, mentre in Russia c’era Stalin, in Germania c’era Hitler e in Europa spiravano minacciosi venti di guerra. Ma dopo la guerra mondiale, la Guerra fredda,

gli anni di piombo e la caduta del muro di Berlino, ci siamo guadagnati il diritto e il dovere, in Occidente e perciò anche in Italia, di ripensare in modo più calzante il nostro modello di sistema scolastico e, perciò, anche la pedagogia che ne descriva il fondamento. Certo, la scuola statale di un regime totalitario (vedi Cuba o la Cina) è meno desiderabile di una scuola statale di un Paese democratico. Ma la vera cifra discriminante oggi non è la contrapposizione stato-totalitario/stato-democratico, ma piuttosto scuola-statale/scuola-non statale. In altri termini, lo Stato democratico, considerato dal punto di vista del sistema scolastico, non è indispensabile in se stesso, ma in quanto potrebbe garantire una scuola democratica. E una scuola democratica non è di Stato. È, invece, una scuola che opera in regime di autonomia: qui ogni istituto concepisce e offre un proprio curriculum e chiama a insegnare i docenti che ritiene i migliori, in una situazione di concorrenza con gli altri istituti. Una scuola statale, che appartenga a una struttura politica totalitaria o che appartenga a una struttura democratica, impartirà comunque una educazione di Stato e farà comunque riferimento a una pedagogia di Stato (come è successo e succede ancora in Italia). Questa pedagogia io la chiamo pedagogia pesante, perché si assume il compito di portare sulle spalle il fardello di una visione prevalente del mondo, da distribuire alle nuove generazioni come viatico filosofico e ideologico nel cammino della vita. Di contro, l’Italia più aperta al cambiamento, meno condizionata da filosofemi e schemi pietrificati, fa pressante richiesta di autonomia del sistema educativo. Parallelamente, si va delineando una pedagogia che preferisce accudire situazioni formative in cui siano in gioco strategie dell’in-segnare e dell’apprendere valutate per il loro grado di efficacia. Strategie di cultura, che non mirano a perpetuare il presente. Strategie del sapere che aprono un occhio creativo sul futuro. Questa pedagogia io la chiamo pedagogia leggera, che, vi assicuro, è gravida di promesse.


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isitare la mostra romana Il ‘400 a Roma. La rinascita delle arti da Donatello a Perugino, inaugurata il 28 aprile al Museo del Corso, è come sfogliare le pagine di un manuale di storia dell’arte, tale è il valore dei molti e indiscussi capolavori da ammirare a distanza ravvicinata. I curatori della mostra, Claudio Strinati, Soprintendente al Polo Museale Romano, e Marco Bussagli, docente all’Accademia di Belle Arti di Roma, hanno raccolto testimonianze culturali e artistiche che dimostrano a tutto tondo la cultura del primo rinascimento romano, con disegni, dipinti, sculture, oreficeria, ceramiche, medaglie, libri, lettere, strumenti musicali, modelli architettonici e con l’ausilio anche di tecnologia moderna per vedere ciò che era impossibile portare in mostra, e cioè affreschi e palazzi. Divisa per sezioni, in quella dedicata all’architettura all’inizio del percorso si è attratti da un modellino ligneo che ricostruisce la Basilica di San Pietro prima dell’intervento bramantesco, e quindi, a parte alcune trasformazioni di epoca gotica e di metà ‘400 ascrivibili ad Antonio Rossellino, ancora nell’originario impianto paleocristiano. Tale era il San Pietro agli occhi dei pellegrini del XV secolo, e con grande curiosità indaghiamo questo modellino, per immaginare ciò che non esiste più, e che le cronache dell’epoca ricordano, per la prima metà del ‘400, ancora scintillante all’interno di mosaici preziosi, campeggiati nella conca absidale dalla croce gemmata di Costantino. Fulgore coruscans, così era descritta ancora in epoca medioevale, e sebbene siamo ora orgogliosi del San Pietro bramantescomichelangiolesco-berniniano, non possiamo tuttavia non avere un po’di nostalgia per l’edificio costantiniano, meno grandioso, ma forse più mistico. Percorrendo le sale del Museo del Corso ci si rende conto che la distruzione della Basilica Petriana delle origini non è la sola perdita di cui possiamo dolerci, dal momento che altri e importanti capolavori che avrebbero reso più giustizia alla stagione protoumanistica romana, sono andati irrimediabilmente perduti. A cominciare dai cicli affrescati da Pisanello e Gentile da Fabriano all’interno di San Giovanni in Laterano, distrutti nel 1650 in seguito ai pur meravigliosi rifacimenti barocchi di Francesco Borromini, che ebbe cura, prima di mettere in opera le sue trasformazioni, di fissare sulla carta disegni raffiguranti alcune sce-

cultura

V

Il ’400 nella città dei papi: una mostra racconta la rinascita delle arti da Donatello a Perugino

Quando Firenze s’ispirò a Roma di Olga Melasecchi ne di quei cicli, e che ne costituiscono ora l’unica testimonianza. Uguale destino hanno subito gli affreschi di Piero della Francesca nelle Stanze Vaticane, coperti agli inizi del Cinquecento dalle intoccabili pitture di Raffaello. Per supplire a questa grave perdita, a cui si può aggiungere anche l’altro perduto lavoro di Piero in Santa Maria Maggiore, è stata portata in mostra la Madonna di Senigallia, proveniente da Urbino, e che la critica ipotizza essere stata dipinta a Roma. La presenza di Pisanello e di Gentile è testimoniata analogamente da disegni e dipinti in qualche modo collegati con il loro soggiorno romano. Il Rinascimento è per antonomasia fiorentino e Firenze era nel ‘400 certo più potente e ricca di Roma, ma Roma era un museo a cielo aperto e la curiosità antiquaria e il fervore umanistico portarono a Roma, fin dagli inizi del secolo, per stu-

Al Museo del Corso anche opere di Piero della Francesca, Melozzo da Forlì e di molti altri che trovarono nel soggiorno romano ispirazione

A sinistra: Melozzo da Forlì, “Angelo che suona la viola”; a destra: la “Madonna di Senigallia” di Piero della Francesca; sopra: Benozzo Gozzoli, “Madonna con il Bambino benedicente e Spirito Santo”; in alto: la “Nascita di san Nicola, Vocazione, Elemosina alle tre fanciulle povere” di Beato Angelico

diare e misurare gli antichi monumenti, Donatello, Brunelleschi e Leon Battista Alberti, i capostipiti del rinascimento toscano. La presenza di Donatello è mostrata da un inedito e grande rilievo proveniente dal sepolcro di Santa Caterina da Siena in S. Maria sopra Minerva. Si veniva dunque a Roma per studiare e copiare opere fondamentali come la statua colossale di Costantino, di cui è in mostra il calco della gigantesca mano con il globo, o il monumento equestre di Marco Aurelio, studi testimoniati da disegni, stampe e bronzetti. Ma Roma oltre a essere la miniera preziosa delle antichità era anche la città dei papi, ossia del potere religioso, e comittenti delle opere più importanti erano spesso lo stesso pontefice o i cardinali della curia, e, come dimostrano sia alcune opere in mostra, come, ad esempio, gli imponenti frammenti dell’antico ciborio della basilica di S.

Pietro, realizzato da Paolo Romano, che i cicli noti ancora esistenti, come gli affreschi del Beato Angelico e di Benozzo Gozzoli nei Palazzi Vaticani, l’opera d’arte diventava manifesto di propaganda religiosa. L’arte nella Roma cristiana ha sempre avuto questa particolare funzione, che diventerà esplicita nell’epoca della Controriforma, e a cui gli artisti si sono in genere adeguati, trasformando appositamente il loro linguaggio abituale, fenomeno che il critico Federico Zeri aveva definito come «bifrontismo». Il nuovo linguaggio veniva allora costruito arricchendo le composizioni di citazioni classiche, come nel caso degli affreschi di Filippino Lippi nella cappella Carafa alla chiesa della Minerva, di cui in mostra è possibile ammirare una ricostruzione tridimensionale (realizzata dall’Enea che per la prima volta ha applicato la tecnologia di un radar ottico a colori a un monumento artistico), oppure modellato secondo i venerati esempi delle pitture e dei mosaici paleocristiani, come nel ciclo più affascinante di tutto il Quattrocento romano, ossia l’Ascensione di Cristo di Melozzo da Forlì, già nell’abside della Chiesa dei Santi Apostoli. Purtroppo anche questo ciclo ha sofferto, nel 1711, una parziale distruzione, e ora alcuni grandi frammenti sono divisi tra il Vaticano e il Quirinale, da dove provengono per l’esposizione un Apostolo e un Angelo musicante, opere di grande respiro costrette in uno spazio un po’ troppo angusto (la sede del Palazzo di Venezia, dal cui museo provengono fra l’altro molte opere, sarebbe stata ideale sia per analogia cronologica che per monumentalità spaziale). A parte il caso del prolifico Antonio Aquili più noto come Antoniazzo Romano, del quale è possibile in mostra ammirare diverse e belle tavole, il livello qualitativo della pittura autoctona, romana o laziale, si rivela invece piuttosto arretrato rispetto alla coeva pittura toscana, mostrando ancora caratteristiche tardo gotiche se non volutamente neo bizantine, e questo nella migliore delle ipotesi, in quanto, come viene spiegato nel ricco doppio catalogo di alto profilo scientifico, edito da Skirà, sono ancora molti i dipinti o interi cicli pittorici della Roma del ‘400, come quello dell’Ospedale di S. Spirito in Sassia, rimasti senza un nome o recanti firme di autori del tutto sconosciuti e sui quali gli studi, con il contributo di queste dovute ricognizioni, dovranno fare luce.


sport

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Privatizzazione degli impianti: il calcio italiano è la cenerentola d’Europa

Anche i tedeschi ci battono nel business degli stadi di Bruno Cortona li esperti finanziari di George Soros, il settantasettenne magnate e filantropo statunitense di origini ungheresi che è interessato all’acquisto della Roma, sono rimasti di stucco: hanno scoperto che lo stadio Olimpico al Foro Italico, dove la squadra gioca le partite in casa, non è di proprietà del club. Un concetto assurdo per gli States, dove ogni società professionistica di sport possiede un proprio impianto. Ma un concetto obsoleto anche nella Vecchia Europa del pallone, dove ormai tantissimi club di grande e medio livello mettono a bilancio il loro stadio di proprietà, e con pieno profitto, come dimostra lo studio della Deloitte sulla Premier League ripreso negli ultimi giorni dai media italiani. I precursori di questa filosofia gestionale sono stati gli inglesi, poi appresso gli spagnoli, ora anche tedeschi, greci e portoghesi hanno fatto dell’impianto il pilastro economico dei loro bilanci.

G

Solo in Italia siamo rimasti indietro. E di tanto. Nel 1996 il governo Prodi stabilì che le società di calcio, fino ad allora spa senza fine di lucro, lo diventassero. Da quella svolta è nata l’idea di Lazio, Roma e Juventus – rigorosamente in ordine cronologico – di entrare in Borsa, con un titolo proprio a Piazza Affari. Senza stadi di proprietà, quella trasformazione voluta dall’allora vicepremier Walter Veltroni e il successivo ingresso nel mercato finanziario dei tre club sono stati dei fallimenti. Perché senza stadio di proprietà un club di calcio è legato a pochissime certezze: i diritti televisivi, gli sponsor, il parco giocatori. Tutte voci destinate a variare nel tempo a seconda delle fortune agonistiche del club. Per la Borsa e

per bilanci sani serve altro. E lo sanno bene il Real Madrid o il Manchester United: i loro stadi, rispettivamente il Santiago Bernabeu nella capitale spagnola e l’Old Trafford della finalista di Champions, rappresentano un terzo del loro guadagno. Dei 351 milioni di euro del Real Madrid, 120 provengono dallo sfruttamento dell’impianto che ha visto l’Italia di Bearzot diventare campione del mondo nel 1982. Meglio ancora per i conti del Manchester fa l’Old Trafford, che di vecchio ha solo il nome: un impianto moderno e polifunzionale per 56.000 spettatori tutti a sedere che, nell’ultima gestione, ha fruttato 140 milioni di euro. Come? Non soltanto grazie agli incassi, ma anche e soprattutto attraver-

Bayern di Monaco, la squadra di Luca Toni: grazie a un accordo con il colosso finanziario Allianz è stato costruito un nuovo impianto da 69.901 posti a sedere. Un gioiello di architettura e praticità che ha permesso al club bavarese di mandare in pensione lo storico Olympiastadion (quello dei Giochi olimpici del 1972) e ottenere quasi 85 milioni di euro di fatturato dei 223 denunciati nell’ultima gestione. Stesso destino per l’Amburgo e per lo Shalke 04, la squadra di Gelsenkirchen. Con loro il salto più ricco alla voce stadio lo ha fatto l’Arsenal, lo storico club della Premier League inglese. La formazione dei Gunners (i Cannoni) tanto cara allo scrittore Nick Honrby – tifosissimo e autore dell’arcinoto Febbre a 90 – ha trovato un accordo con uno sponsor ricchissimo: la compagnia aerea Emirates, della famiglia Al Marktoum, gli emi-

glio catalano da quasi 100mila posti, inaugurato nel 1957 e via via sempre più ammodernato.

Da noi invece la situazione è nera. Milan, Inter, e Roma, le tre squadre tricolori più ricche tra le prime dieci in Europa, vedono gli affari di San Siro-Meazza e Olimpico incidere in minima parte nello sviluppo del fatturato. Sono stadi di concezione antica, non possiedono ristoranti e spazi multimediali e soprattutto non sono di proprietà. Dei tre club appena ricordati, almeno, sono gli unici due stadi italiani a norma rispetto ai parametri europei. Lo standard generale della serie A è alquanto deficitario: impianti vecchi, non funzionali, scomodi e in affitto. Per questo Gianni Alemanno, neosindaco dellla Capitale, ha messo all’ordine del giorno il via libera alla costruzione di uno stadio per la Roma e di uno per la Lazio. A patto che non venga speso – come accadde in occasione del rifacimento dello stadio Olimpico nel 1990 – nemmeno un euro di denaro pubblico. Un passo indispensabile per far diventare i nostri club moderni e competitivi con quelli di mezza Europa. Ecco perché oggi la Juventus pensa di uscire dalla Borsa e gestire in proprio il Delle Alpi, stadio costruito per i mondiali del ’90 e poi abbandonato perché poco funzionale. Con un progetto di ammodernamento, il club bianconero potrebbe rinfoltire il proprio bilancio, dopo che il mercato in meno di dieci anni ha decretato il dimezzamento del valore delle azioni bianconere a Piazza Affari. Destino che ha segnato anche la Roma – le quotazioni del club giallorosso dal debutto in Borsa a oggi sono scese del 68 per cento – e soprattutto la Lazio: quello biancoceleste è un vero e proprio crack: dieci anni fa il titolo valeva il 98 per cento in più.

Negli Usa le società sportive sono sempre proprietarie della loro ”casa”: Soros è rimasto di sasso quando ha scoperto che l’Olimpico non è della Roma

so lo sfruttamento degli spazi polifunzionali degli impianti, le sponsorizzazioni ad essi legate, l’affitto di negozi e ristoranti che, scegliendo il marchio del club, accrescono il valore del merchandising, davvero protetto in Spagna e in Inghilterra.

Ma nella classifica europea dei maggiori club che ”fanno soldi” grazie agli stadi si è inserita da poco anche la pattuglia tedesca. Perché grazie ai mondiali del 2006 molti club hanno potuto scegliere nuovi stadi. C’è chi a dire il vero ci aveva pensato per proprio conto anche prima, come il

ri di Dubai: in un anno e mezzo alla modica cifra di 390 milioni di sterline, circa 585 milioni di euro, è stato realizzato l’Emirates Stadium: poco più di sessantamila spettatori tutti a sedere, ristoranti, negozi, spazi multimediali. Abbandonato lo storico impianto di Higbury, piccolo e obsoleto, il fatturato dell’Arsenal – come d’incanto- dal 2005 ad oggi ne ha tratto giovamento, come documentato dal ”dossier”della società di servizi Deloitte. La gestione del 2007 denuncia 263,9 milioni di euro di fatturato, di cui più della metà provengono dal bellissimo impianto alla periferia nord di Londra. Così anche per il Liveropool, grazie al mitico impianto di Anfield Road o per il Barcellona, con l’imponente Camp Nou, orgo-

Vicino al titolo l’Emirates Stadium dell’Arsenal; in alto l’Allianz Arena di Monaco; sopra George Soros; a sinistra l’Old Trafford di Manchester e a destra il Santiago Bernabeu di Madrid


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hollywood

Da Peter Falk a Wesley Snipes: le star che vivono male il declino

Viale del tramonto 2008 di Priscilla Del Ninno l declino dell’impero hollywoodiano: potrebbe riassumersi sotto questo titolo – parafrasi del celebre film di Denys Arcand che rimandava a ben altri spunti di riflessione – il mare magnum di gaffes, scandali e, ahinoi, clamorose indiscrezioni e amare constatazioni, che da settimane dilaga da una sponda all’altra dell’oceano sulle colonne dei quotidiani, rubando spazi, primati e gossip alla stampa specializzata e rivelando il volto umano, fallace, (ingannevole?) dei miti spinti giù – tra processi mediatici e condanne penali - dal podio dall’empireo spettacolare che esigerebbe impenetrabilità e fascino incorruttibile.

I

Sbalzati dagli onori delle cronache che li ritraggono in giro per gli angoli più remoti del mondo e nei gironi più infernali del disagio sociale in cerca di bambini da adottare, di cause umanitarie da sponsorizzare, agli oneri del vivere trasgressivamente, o remunerativamente, secondo il più imprescindibile dei copioni divistici. Certo siamo lontani dalle atmosfere rarefatte e caustiche che aleggiavano nel Viale del tramonto di Billy Wilder: anzi, per la verità, di quell’impietoso ritratto del jet set, specchio di un mondo e di un’epoca, non resta nemmeno l’austerità del melodramma di base o il sottofondo da commedia delle note a margine del tema filmico; le notizie in cronaca oggi, semmai, rimandano a contesti meno aulici e a motivazioni decisamente più profane. Così, solo qualche giorno fa, a neanche un anno da quel 16 settembre 2007, quando una platea internazionale festeggiava i suoi ottant’anni di talento e di successi, le tv di mezzo mondo trasmettevano, impietosamente, le immagini degradate di Peter Falk, al secolo Nick Longhetti ma per tutti intramontabile tenente Colombo della serie poliziesca, trovato e fotografato barboneggiante per le strade di Beverly Hills. La telecamera, decennale occhio amico trasformatosi nello spazio di pochi attimi in spietato mirino indiscreto, lo trafigge mentre si aggira, visibilmente fuori di sé, in abiti logori e con lo sguardo perso nell’irrazionalità, per uno dei tanti viali del tramonto di Los Angeles, mentre cerca di sottrarsi aggressivamente all’intervento della polizia: e in un istante, quel simbolo simpaticamente stropicciato della legalità bonaria, riconosciutogli in decenni di acclamazioni catodiche e con ben quattro Emmy Awards e un Golden Globe, si spoglia del suo impermeabile di celluloide e appare al mondo in tutta la sua scoperta fragilità. Sarà dura per lui, attore ancora oggi in attività che ha reci-

tato recentemente con Val Kilmer in una commedia dal titolo Cowslip, risalire la china della credibilità. E sempre a proposito di fotogrammi sviliti e svilenti e di attendibilità perduta sulla strada della fama e nei meandri dell’illegalità, che dire dell’attore afroamericano Wesley Snipes, immortalato nelle classiche pose di prospetto e di profilo, ma decisamente non per il casting di un film? L’attore, protagonista della serie cinematografica Blade, solo nei giorni scorsi è stato condannato per evasione fiscale da un giudice federale della Florida, dopo un lungo percorso procedurale che ha visto sfilare sul banco dei testimoni persino convocati eccellenti del calibro di Denzel Washington. Niente da fare però: accusato di non avere pagato le tasse tra il 1999 e il 2004, il giudice ha deciso per il massimo della condanna prevista dal codice per questo genere di reati, infliggendo alla star in declino tre anni di carcere. Quasi assuefatti al rituale divistico maledetto che impone al jet set eccessi di alcool e di droghe, ci si sente storditi da questa inversione di tendenza della trasgressività, quasi più obsoleta e per questo, forse, meno consona ai protagonisti dell’illusione cinematografica che la cronaca nera, più che rosa, tende ultimamente a restituirci come operai della fabbrica del sogno sfibrati dal tempo o sedotti dall’illecito più banale. Scontati, ecco: questa forse è la delusione più grande che i divi d’oltreoceano – stando alle notizie delle ultime ore – riservano al pubblico dei cultori del loro traballante mito.

Il jet set di oggi sempre più in declino, frequentato da attori sorpresi a vivere come clochard o arrestati per possesso di droga

Così, non stupisce più di tanto che – sulle orme dell’inquieta Lindsay Lohan, già beniamina dei cinefili in pantaloni corti e treccine, ora celebre più che altro per flirt non sempre blasonati e un viavai decisamente meno degno di nota dalle cliniche di disintossicazione da una qualche dipendenza – anche l’ultima eroina di casa Disney, Miley Cyrus, stella quindicenne amatissima dai ragazzini che non perdono un appuntamento con la serie tv record d’ascolti della casa di Topolino, Hannah Montana, compie il suo passo falso e rischia di cadere nella trappola del cliché da starlette in ascesa divistica, crescita anagrafica, e inevitabile trasformazione d’immagine. Il tutto riassunto e

stigmatizzato in una posa osé da copertina – quella di Vanity Fair firmata Annie Leibovitz per l’esattezza, che ritrae la Miley coperta a malapena da un lenzuolo di raso – che uscirà a giugno ma che già è rimbalzata in Rete amplificando una polemica che rischia di mettere in crisi oltre che un personaggio televisivo, un impero di marketing costruito a sua immagine (prodotti griffati Hannah Montana, makeup, scarpe, vestiti, accessori). Ma se la Disney ha i suoi grattacapi per rimettere in carreggiata la corsa della sua beniamina in erba, non se la passa certo meglio la Mattel, che deve arrendersi alla crisi di una delle sue più amate decane: l’indimenticabile Barbie. Anche le vecchie glorie piangono, insomma, e giù con analisti di Wall Street che tracciano possibili scenari futuri del marchio in declino, e opinionisti dell’ultim’ora chiamati a leggere tra le righe di una crisi che declassa il mito biondo per antonomasia da simbolo cult a oggetto vintage che sa troppo di naftalina. Complici gli anatemi islamici (la vendita delle Barbie non è conforme ai dettami dell’Islam); le polemiche intorno al tema dell’anoressia (il prototipo della bambola vira troppo sul filiforme e la Mattel allarga subito il bacino dei modelli); un mercato

A sinistra in alto l’afroamericano Wesley Snipes: a destra un’immagine recente di un Peter Falk; in alto una scena del famoso film di Billy Wilder Viale del Tramonto girato in America nel (1950); a destra la biondissima Nicole Kidman e la cantante-attrice Jennifer Lopez spietato che ha ceduto alle lusinghe della manifattura cinese che, utilizzando vernici con eccessivo uso di piombo, ha costretto al ritiro di migliaia di pezzi fabbricati e trasformato la favola della compagna di giochi candida nell’ultimo modello di bad girls inanimata che avvelena i bambini. E dire che la ditta produttrice ha fatto davvero di tutto per svecchiare l’immagine di un tesoro per collezionisti, ma il target di riferimento continua a preferirgli il look più smaliziato delle spregiudicate Bratz della Mga Entertainment, che tra piercing, hit della pop music e tatuaggi rispecchiano più fedelmente i miti


hollywood

8 maggio 2008 • pagina 21

Chiari e purtroppo incontrovertibili i dati della “Crisi Cruise”: dopo l’insuccesso di Leoni per agnelli di Robert Redford, in cui recitava l’ex Top gun, costato alla United Artists che lo distribuiva circa cinquanta milioni di dollari, in questi giorni è la volta del flop annunciato di Valkyrie, il kolossal sull’attentato a Hitler nel quale l’attore veste i panni di un ufficiale tedesco che complotta per uccidere il dittatore. Il film, prima ancora di uscire già ha fatto parlare di disastroso fallimento. Tra un calendario distributivo da mal di mare, (la pellicola doveva uscire lo scorso giugno, poi lo scorso ottobre, e adesso l’arrivo nelle sale sembra rinviato a febbraio 2009); problemi con le autorità tedesche, (che hanno respinto la richiesta di girare scene del film nel Bendler Block di Berlino dove si svolsero alcune delle vicende cruciali al centro del plot); incidenti di percorso tecnici, (parte della pellicola danneggiata in laboratorio e materiale ancora da girare), la star hollywoodiana sembra aver perso molto dello smalto divistico e istrionico che sembrava inossidabile solo fino a poco tempo fa. E certo non contribuisce a migliorare la situazione l’amara constatazione che il talentuoso Tom non apparirà sul grande schermo prima della travagliatissima uscita di Valkyrie se non in un piccolo cameo di cui già molto si è discusso, nel quale presta volto e impolverata professionalità a un produttore cinematografico, in quella che è già stata definita la «mediocre commedia» di Tropic Thunder.

delle cattive ragazze di oggi, stile Wynona Ryder la cleptomane, o modello Britney Spears e Paris Hilton.

Queste ultime, in particolare, prototipi biondi in carne e ossa della dissolutezza glamour che maschera un’inconsistenza dannatamente reale a cui Hollywood e dintorni preferisce ormai decisamente il modello mamma promulgato a suon di gravidanze ostentate tra scatti, blog e passerelle, dalle splendide stelle quarantenni d’oltreoceano: da Jennifer Lopez a Nicole Kidman, passando per l’immarcescibile Julia Roberts, tutte indiscutibilmente capitanate dall’eclettica Angelina Jolie che, dopo aver adottato tre bimbi in diversi continenti (dall’Asia all’Africa), e aver partorito una figlia naturale, attende ora due gemelli. E tutti a inchinarsi alla maternità dilagante e globalizzata della diva tutta cause umanitarie e tour di beneficenza che, tra un parto in Namibia e un trasferimento nella disastrata New Orleans, progetta le sue nozze con Brad Pitt, che dovrebbero tenersi in estate a bordo di un lussuoso yacht da 45 metri e 200 milioni di dollari, l’Octopus, dotato di pista

per elicotteri, cinema e campo di basket, di proprietà di Paul Allen, neanche a dirlo amico della coppia impegnata e, tanto per capirsi, co-fondatore di Microsoft: alla faccia della lotta al disagio, dei paesi poveri e del low profile…

Spiritualità e business: ecco le coordinate che guidano il cammino socioindividuale delle stelle del firmamento hollywoodiano. «Noi star», ha infatti dichiarato recentemente Richard Gere presentando il suo ultimo film, The hunting party, «abbiamo il dovere morale di usare il nostro potere mediatico per promuovere le buone cause». Un messaggio promulgato dall’ex “american gigolò”, oggi portavoce del Dalai Lama negli Stati Uniti e tra i più indefessi sostenitori del boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino, che deve essere arrivato distorto in qualche modo al divo più gettonato degli ultimi anni, l’immancabile George Clooney, a cui tra un ciak, un flirt e uno sponsor, deve essere sfuggito qualche dettaglio. Il regista e attore, infatti, alla presentazione londinese del suo ultimo film, In amore niente regole, (titolo che deve

avergli suggerito qualcosina anche nella linea di condotta da tenere negli affari, umanitari e non), è stato rumorosamente contestato per le sue stravaganti contraddizioni. Come gli è stato gentilmente rinfacciato, infatti, il divo risulta essere contemporaneamente testimonial della Omega, sponsor delle Olimpiadi di Pechino, e portabandiera della lotta contro l’appoggio del governo cinese alle autorità del Sudan, responsabili di non fermare gli eccidi nel Darfur. Come dire «no sponsor, no causa, no party per George». Infine, a proposito di volontariato preferiamo non sparare sulla Croce Rossa e non infierire ulteriormente sulla stella ormai più che opaca di Tom Cruise, che della sponsorizzazione della setta holding di Scientology, di cui è ormai uno dei vertici dirigenziali, ha fatto la sua missione umanitaria. Peccato però che tra un lavoro di conversione (vedi l’opera di convincimento portata avanti con successo sul collega Will Smith, e quella ancora in via di definizione perpetrata ai danni dei coniugi Beckam), e un dramma coniugale (sembra che anche il suo matrimonio con Katie Holmes stia percorrendo un sentiero accidentato), Tom non indovini un copione.

Ora, tutto considerato possiamo concludere con inevitabile cinismo che ormai i proseliti del rito spettacolare devono rassegnarsi a sacrificare sull’altare dell’arrivismo e dell’ipocrisia dei loro miti la credibilità delle loro immagini riflesse sul grande schermo o sulle passerelle. E con questo spirito bisognerebbe prendere la notizia di domenica dell’arresto di Gary Dourdan, uno degli interpreti più amati della serie investigativa Csi, beccato in possesso di ogni genere di droga. A patto però che si scherzi con i fanti e si lasci stare i santi. E allora, si può tollerare tutto, ma non accettare la profanazione registrata con la diffusione di un video hard relativo – forse – ai tormentati inizi della carriera dell’intramontabile Marilyn Monroe, di cui un paio di settimane fa aveva dato notizia il New York Post parlando della vendita al prezzo di un milione e mezzo di dollari a un misterioso collezionista, di un sex tape che ritrarrebbe scandalosamente la diva scomparsa. Una moda, quella della circolazione e vendita di video porno con protagonisti eccellenti che a fine aprile ha investito anche una stella del rock leggendaria come Jimi Hendrix. E allora, in questa Babilonia hollywoodiana che non risparmia nessuno, protagonisti di oggi e miti di sempre; che viola il valore della memoria ostinandosi a ricercare gossip anche negli angoli bui del passato di divi scomparsi da decenni, ci chiediamo se percorrendo il viale del tramonto si approdi alla fine dell’epoca divistica o solo a uno dei crocevia delle sue molte - troppe? - degenerazioni.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

A cosa serve il Garante se interviene in ritardo? L’AUTHORITY È IMPORTANTISSIMA, MA IO PUBBLICHEREI LA LISTA DEGLI EVASORI

SENZ’ALTRO È UTILE, MA ORMAI IL DANNO È FATTO

Credo che la figura del Garante non possa mancare in Italia, anche se i provvedimenti presi sono tardivi. Concordo comunque con quanto detto due giorni fa da Sergio Romano: «Chi opera correttamente non dovrebbe avere timore della trasparenza delle dichiarazioni fiscali o dei conti bancari o della sua vita economica». L’editorialista del Corriere della Sera ha poi aggiunto: «Non è vero che in materia di dichiarazioni dei redditi vi sia in Italia un deficit di trasparenza. Conosciamo i redditi delle persone che hanno un profilo pubblico, come i parlamentari. Possiamo accedere alle liste dei contribuenti depositate negli uffici comunali». Ma soprattutto poi ha dichiarato: «Però fra l’ accessibilità e la totale esposizione dei dati relativi all’ intera comunità nazionale corre una considerevole differenza. Mi chiedo quale scopo si proponesse con questa iniziativa l’ Agenzia delle Entrate. Se voleva servirsene per meglio combattere l’ evasione fiscale avrebbe dovuto pubblicare piuttosto la lista degli evasori individuati dalle autorità finanziarie». Non c’è da aggiungere altro.

Il Garante della privacy ha finalmente deciso. La diffusione dei redditi di 38 milioni di contribuenti italiani in Internet è illegittima. L’Agenzia delle entrate rende noto che si adeguerà alla decisione del Garante. «Meglio tardi che mai» ha commentato Clemente Mimun (Tg5 delle ore 20 di l’altroieri 6 maggio). Ma il ”meglio tardi che mai”vale anche per la decisione del Garante. Da quanto si è appreso dagli organi di stampa la diffusione in internet dei redditi era iniziata da diversi giorni, ma solo quando un giornale ha denunciato il fatto il Garante ha preso posizione e finalmente è intervenuto sanzionando di illegittimità la sortita di Visco. Meglio tardi che mai sì, ma fino a un certo punto, perché il danno ormai è fatto ed è legittima la domanda: ma serve o è inutile la figura del Garante della privacy? Diciamo che se dovessimo giudicare da questo episodio dovremmo concludre col dire «risparmiamo questi soldi», ma nella speranza che questa istituzione si svegli e svolga il suo compito con tempestività, concludiamo dicendo: sì è utile.

Luigina Pacinotti - L’Aquila

LA DOMANDA DI DOMANI

Emergenza sicurezza: paura reale o percepita? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Camillo Ragni - Verona

CHE COSA ACCADREBBE ALLA PRIVACY SE IL GARANTE NEANCHE ESISTESSE? Io credo che la tutela dei cosiddetti dati sensibili sia una cosa molto, ma molto utile, addirittura sacrosanta. Certo, la bufera sollevata dalla diffusione online dei redditi dei contribuenti italiani e il tardivo intervento del Garante rendono legittima la domanda di questo giornale. Ma a mio parere non si deve mettere in discussione la necessità di questa istituzione. Mi chiedo: se nonostante l’esistenza del Garante la privacy del cittadino viene così spesso violata, cosa avverrebbe se non esistesse proprio? Restando nell’episodio si dirà: «Il danno ormai c’è stato, chi ha voluto impicciarsi ha avuto tutto il tempo necessario per farlo». Questo è vero e allora il problema è circoscritto alla tempestività dell’intervento. Non solo. La decisione del Garante, seppur intempestiva, rende impossibile la diffusione dei redditi a partire da quelli del 2006 in poi. E’ già qualcosa.

DOPO IL VOTO Il nuovo governo Berlusconi è ai nastri di partenza. Siamo in attesa di conoscere la lista completa dei ministri e così si può dar corso al programma elettorale. Gli Italiani attendono che il premier cominci a lavorare affinché possa anche mantenere alcune promesse fatte agli elettori. Prima fra tutti l’abolizione totale dell’Ici, seguono la detassazione degli straordinari e dei premi di produttività che dovrebbero rendere più “interessanti” le buste paga e poi ancora l’aumento delle pensioni minime e il bonus per i neonati. Sarà un lavoro difficile da svolgere poiché bisognerà trovare la finanza sufficiente per avallare simili programmi; ma siamo abituati a sorprese mirabolanti dello stesso Berlusconi e del ministro (?) Tremonti. Staremo a vedere. Vi sono, poi, altri argomenti che rendono i cittadini particolarmente sensibili e sono quelli relativi alla sicurezza all’interno del Paese che si intreccia con il problema della razionalizzazione dei flussi migratori degli extracomunitari e dei nuovi cittadini comunitari come per esempio i Rumeni, e ancora, la questione dello sviluppo economico. Temi ampia-

QUA LA ZAMPA E’ nato appena due mesi fa, non ha ancora un nome ma, dicono dal giardino zoologico di Lima, non smette mai di giocare con gli altri ospiti dello zoo Huachipa. Il cucciolo è il terzo della specie nato in Perù LA FESTA DEL CINEMA NON È MAI STATA UTILE Inutile la Festa del cinema di Roma? E perché mai avrebbe dovuto servire a qualcosa? Anche in tempi non sospetti è da sempre sembrata una brutta copia del ben più glorioso Festival di Venezia (ricordate le polemiche sulla scelta del nome?), un uso personale di denaro pubblico per soddisfare le manie ”artistiche” del colto sindaco Veltroni, esperto di cinema in forza del suo diploma di tecnico cineoperatore. Ora che il tempo dei vaneggiamenti è passato, è ora che l’Urbe torni a pensare alle questioni più vitali, ridare dignità alle sue periferie e non solo addobbare a festa il centro fingendo che la vita finisca lì. Evidentemente l’ex sindaco, nonostante la sua conoscenza dell’ottava arte, non ha imparato molto la lezione di Accattone di

dai circoli liberal Corrado Filippi - Siracusa

mente dibattuti in campagna elettorale che hanno permesso al centrodestra di vincere le elezioni e di farle vincere anche all’ on. Alemanno per la poltrona di sindaco di Roma. Cavalli di battaglia dell’armata berlusconiana, ma naturalmente non ci sono soltanto questi motivi a spiegare la sconfitta di Veltroni e compagni. Uno dei principali fattori che possono spiegare in parte il risultato elettorale sta nella poca, pochissima considerazione delle ideologie che hanno caratterizzato il secolo scorso. A ben ricordare, in Italia c’erano partiti importanti e con una lunga tradizione come il Pci, il Psi e l’Msi. Oggi queste ideologie hanno lasciato il posto a idee che rispondono a bisogni concreti e attuali dei cittadini che, per esempio, la Lega Nord ha saputo bene intercettare. Le generazioni più giovani sembrano poco interessate alla memoria del passato e anche le prospettive future appaiono lontane. Oggi non esiste più la classe operaia e anche per questo non esiste in Parlamento una forza politica che rappresenti questa porzione di elettori. In conclusone la società di oggi preferisce vivere più il presente del futuro, avere maggiori garanzie in tema di protezione

Pasolini. Eppure votavano entrambi per lo stesso partito.

Davide Viganò

L’UNITÀ, LA REALTÀ E LA VERITÀ Nel mese di Aprile è avvenuto in Italia e a Roma l’infelice sbarco dei capetti Veltroni e Rutelli, un evento che nelle fonti ufficiali viene, ancora oggi, misconosciuto e minimizzato. Prendete il quotidiano l’Unità, ad esempio. Non cambia mai, resta poco disponibile ad accettare il principio della realtà e della verità. I compagni non escono mai dalla loro adolescenza sciagurata e nefanda, fatta di cromatismi da laboratorio, di jam session musicali e di canti ”Bella ciao”. Si decideranno mai a crescere, a tagliarsi i capelli e a indossare i pantaloni lunghi?

Pierpaolo Vezzani

economica, di protezione del lavoro, della propria identità. Ma questo modo di “vedere le cose”è un navigare “a vista” e senza una programma di lungo respiro. E’ opportuno, invece, recuperare la memoria del passato e cercare di proporsi con modelli interpretativi nuovi e innovativi. E’ questo lo sforzo culturale che deve essere fatto al fine di essere identificati come portatori di idee di medio-lungo respiro attraverso le quali si possa immaginare un Paese moderno e che abbia come principio inspiratore il Bene Comune. In questo contesto, I Circoli liberal possono fare molto, ed essere interpretati come una vera “palestra”all’interno della quale si dibattono i temi attuali della società italiana e si individuano possibilità di soluzioni nuove. I liberal possono contribuire a “inventare” modelli alternativi che recuperino la memoria storica di questo grande Paese e i valori provenienti dalla sua antica Tradizione. Sta, allora, a tutti noi provare a cimentarsi in un impegno civile e politico la cui misura è determinata da diversi fattori ma anche dalla nostra volontà. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Addio Amalia, senza molta tristezza Era tempo! Era tempo di frapporre tra noi due molti mesi e molti chilometri! Non già che io fossi per commettere qualche pazzia (non ho amato purtroppo fin ora e forse non amerò più; non amerò mai se non ho amato Voi) ma il desiderio della vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con una crudeltà spaventosa; ora l’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riusciva umiliante, mostruosa, intollerabile... Addio Amalia, senza molta tristezza. Di lungi vi scriverò, e voi anche. Ma non parleremo della nostra passione e del nostro passato. La passione è un ingombro del cammino, e ciò che è stato è come se non fosse stato. In alto i cuori Amica mia valorosa! Addio! E un franco lontano arrivederci. O anche (è bene pensarci) non arrivederci più. Guido Gozzano ad Amalia Guglielminetti

SÌ AL GAY PRIDE, MA SENZA OSTENTAZIONI Vorrei dire la mia circa le polemiche e i commenti sul prossimo gay pride. E cioè: un conto sono le rivendicazioni di diritti civili, altro le ostentazioni fastidiose che non aiutano nessuno e, al contrario, indispettiscono. Conosco molti gay e sono contrario a ogni forma di discriminazione verso il mondo omosessuale. Il gay pride però somiglia ogni edizione a una ostentazione fastidiosa con scene sinceramente raccapriccianti mascherate presunto orgoglio gay. Gli omosessuali di buon senso lo sanno e dovrebbero essere i primi a rifiutarle.

Lucio Pinti - Roma

ANDARE ALL’ESTERO FORSE FA MALE Dopo aver letto un editoriale di Furio Colombo, ho sentito lo stesso in un dibattito su Sky Tg24: in entrambi la tesi di Colombo è «in Italia si sta meglio che a Chicago, dove muoiono 5 persone a notte». Castelli, della Lega, ha cercato di fargli capire che la risposta alle sue argomentazioni la dà la gente, che ha paura di essere aggredita, stuprata, uccisa. La mor-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

8 maggio 1880 Muore Gustave Flaubert, scrittore francese 1886 Il farmacista John Styth Pemberton inventa una bevanda gasata che verrà chiamata CocaCola 1898 A Torino si disputa in un’unica giornata il primo Campionato di calcio di Serie A: se lo aggiudica il Genoa, che supera in finale l’Internazionale di Torino 1903 Nasce Fernandel, attore e regista francese 1906 Nasce Roberto Rossellini, regista e sceneggiatore italiano 1914 Viene fondata la Paramount Pictures 1936 Benito Mussolini proclama la fondazione dell’Impero dal balcone di piazza Venezia 1936 Muore Oswald Spengler, filosofo, storico e scrittore tedesco 1982 Gilles Villeneuve muore in seguito ad un tragico incidente avvenuto durante le qualifiche per il gran premio del Belgio di Formula 1 1984 L’Unione Sovietica annuncia che boicotterà le Olimpiadi estive di Los Angeles

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

bida chioma bianca di Colombo ondeggiava in un diniego: come dire, lei non può capire cosa sto dicendo, lei è troppo lontano da me culturalmente, lei legga il New York Times ecc. Giulietto Chiesa la Russia l’ha lasciato prigioniero di un sogno assassino (alias comunista), Furio Colombo gli Usa l’hanno riconsegnato all’Italia comunista: cos’è, fa male andare all’estero? Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

LA REPUBBLICA E LA SINISTRA IN VOLO i timonieri del quotidiano della nota lobby, La Repubblica, ancora oggi, non hanno dubbi sui politici davvero emergenti, con notevoli prospettive evolutive e di sicure ed elevate prospettive. Nella speciale classifica, per loro, in testa, ci stanno ancora i signori Rutelli e Veltroni. Siamo molto impressionati. E’ risaputo, la sinistra è potenzialmente capace di raggiungere qualsiasi altezza. Ma ora, è proprio lassù in alto in alto, in volo. Sapprà mai tornare quaggiù, tra noi? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Lettera firmata

PUNTURE Calderoli sarà ministro. Ci saranno ripercussioni catastrofiche solo sull’Italia. La Libia stia tranquilla.

Giancristiano Desiderio

La famiglia è il test della libertà, perché è l’unica cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé GILBERT CHESTERTON

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di YES, YOU MUST Certo che piu’ il margine di vittoria diventa consistente piu’ l’avversario diventa pernicioso e per Obama il percorso lastricato da tutti i possibili trabocchetti e tutte le congetture piu’ complicate che legittimano ancora la presenza di Hillary Clinton in questa corsa . Ma con la schiacciante vittoria in North Carolina, Obama chiude tecnicamente la corsa alla nomination assicurandosi piu’ delegati di Hillary Clinton che se anche vincesse tutti le rimanenti primarie non riuscirebbe a sorpassare Obama in numero di delegati. Per chiunque questa sarebbe la fine , non per i Clinton convinti di essere predestinati alla guida di un paese che li ritiene ormai piu’ divertenti che interessanti. Una macchina da guerra la loro, che ha macinato sondaggi, delegati, consulenti e consiglieri, ex ministri, segretari fidati e nuovi compagni ma che nonostante il dispendio di energie e di capitale politico non convince e non interessa. .Ma i Clinton non demordono e preparano un’altra fase di queste primarie esasperate, la lotta per la riconquista dei delegati del Michigan e della Florida dove Hillary ha concorso da sola pur sapendo che quel voto non avrebbe contato cosi’ come stabilitodalle regole impartite dal partito democratico. Ora questi due stati sono l’unica speranza per scavalcare Obama senza ricorrere ai superdelegati - La corsa non e’ ancora finita assicura Hillary Clinton, ma Obama stravince, promette l’unita’ del partito davanti alle divisioni dei democratici e le difficolta’ di questa America alla quale inneggia e

che esalta nelle sue contradizioni e nelle sue grandezze -con tutto il paese che guarda, Obama deve ora potersi misurare non solo davanti al suo partito ma di fronte a tutta la nazione.. ...e il resto sara’ la nostra storia.

Stelle&Strisce stelleastrisce.splinder.com

PUTIN LASCIA (?) La guerriglia cecena all’offensiva mentre Putin lascia il Cremlino. Cinque poliziotti uccisi a Grozny a causa di una bomba piazzata sui lati di una strada. In Daghestan, dove i servizi segreti sono onnipotenti al di sopra di tutto e tutti come d’altronde in tutta la Russia, fanno chiudere l’unica clinica ginecologica. Era un po’ troppo popolata da islamici che, come noto, specialmente nel Caucaso si moltiplicano molto di più che in altre repubbliche. E questo forse da fastidio a qualcuno... L’Inguscezia, una repubblica russa una volta fedele a Mosca, è ai limiti di una insurrezione dopo l’arrivo dei guerriglieri ceceni e le truppe federali che fanno sparire dozzine di innocenti. Essere rifugiati ceceni è già dura in Europa, e in Azerbaijan non va meglio. Secondo la JT l’annessione e militarizzazione russa dell’Abkhazia continua indisturbata. Consueto rapporto di Freedom House sullo stato della libertà di stampa nel mondo. Che in Russia si vada di male in peggio (passa dal 165-esimo al 170-esimo posto su 195) non è una novità. Che lo stesso succeda anche in Italia.... nemmeno. L’Italia condivide con Samoa il 65esimo posto nella classifica.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30


PAGINAVENTIQUATTRO Il viaggio senza ritorno negli inferi della postmodernità di Massimiliano Parente

Vi siete accorti che Internet e la tv sono di Angelo Crespi opo Maria De Filippi e Simona Ventura serve a poco essere, solo e semplicemente, Céline. Ed è per questo motivo che Massimiliano Parente si spinge oltre il Céline maledetto di “Viaggio al termine della notte”, confezionando una catabasi senza ritorno negli inferi della postmodernità che assumono oggi il nome di televisione e internet. “Contronatura” - uscito ieri in libreria per i tipi di Bompiani (pp. 516, euro 19,00) e che si appresta a diventare il caso editoriale dell’anno anche se molti non avranno fegato per parlarne - è un pugno nello stomaco del politicamente corretto con cui spesso addolciamo le nostre colpe e i nostri vizi. La vicenda è presto detta: il protagonista è Massimiliano Parente (l’eteronimo del vero Parente), di professione scrittore con ambizioni letterarie, ma costretto a campare scrivendo la biografia di una star della tv, tale Nike Porcella. Questo non basta: per una serie di casualità e un congenito sfrenato masochismo, Parente è diventato anche il compagno della suddetta Porcella, con cui, controvoglia e per sbaglio, ha procreato una bambina che addirittura vorrebbe uccidere. In verità, Parente soffre di gelosia per la fine dell’amore con Scarlett, starlette provocante del piccolo schermo, sparita chissà dove, ma su cui aleggia l’ombra maledetta del conte di Montefeltro, una sorta di belzebù che regge le sorti del triangolo amoroso. A coté, una se-

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rie di personaggi equivoci come il massmediologo Korkenzieher, ospite fisso delle trasmissioni della Porcella e coscienza intellettuale del gruppo.

Detta così la trama potrebbe sembrare perfino banale. Eppure il merito (o il demerito) di Parente (quello vero) è di raccontare questo mondo senza nessuna pietà, ovviamente neppure per se stesso. Sorretto da una scrittura agghiacciante nel senso primo del termine, che scava fino al limite dell’umano appalesando i nostri desideri reconditi e meno confessabili, il romanzo si spinge dalla coprolalia alla coprofagia,

CONTRONATURA? in un crescendo drammatico di situazioni sempre più macabre e scioccanti che alla fine illuminano la vera essenza del male. Che è poi l’unica categoria con la quale comprendere il libro e secondo Parente motore della vita. Il male è dunque il mondo della irrealtà che diventa realtà, anzi del dopo realtà che diventa unica realtà dell’uomo, esemplificato – come si diceva – nella televisione e in internet. Strumenti diabolici dentro i quali si esalta l’abiezione di chi ha perso il paradiso e si bea dell’inferno, di chi ha venduto l’anima al diavolo, alla Bestia, e cerca una liberazione infinita da Dio e dalle sue regole. Il fulcro di questa maledizione, e del contrappasso che segue lo scatenamento morale, è la moltiplicazione delle immagini e attraverso ad esse l’esplosione delle nostre turbe, specialmente sessuali, che trovano nella Rete ognuna la propia eco, il proprio riverbero, la propria giustificazione terrena. Parente, con la lucidità dei grandi scrittori, non descrive la fine del mondo, semmai registra il mondo dopo la fine dell’umano; auspica appunto l’avverarsi della fine della specie che è, a suo parere, unica e perseguibile meta. Ed in questo, sta il fascino del libro, che è appunto il fascino perverso del male, il fascino dell’orrido in cui ognuno di noi potrebbe da un momento all’altro sprofondare. Ma in questo è anche il limite di un libro nichilista (per ideologia e precon-

cetto) che non dà speranze e in questo non dare speranze, nega la parte buona dell’uomo che comunque c’è, esiste, produce significanza perfino e soprattutto “contronatura”.

Molti ovviamente si fermeranno al dato narrativo, magari cercando di scoprire chi si nasconde dietro i nome de plume scelti da Parente: a quale vip attribuire i molti vizietti sessuali, a quale le perversioni così sapientemente descritte da un novello De Sade. Nonostante lo schermirsi della nota introduttiva (“non si tratta di opera giornalistica, ma d’arte”) è scontato che tutto quanto raccontato in chiave grottesca sia la descrizione veritiera di quel intreccio diabolico tra politica e televisione che è diventato oggi l’essenza del potere, specialmente nella Roma decadente di questi ultimi anni. Alla fine del racconto, l’amata Scarlett subirà una sorta di crocifissione tecnologica, una metamorfosi che la trasformerà in una chimera, meta donna metà macchina, immolata a soddisfare i molteplici e stravaganti coiti del jet set e che potrebbe perfino essere intesa come una sorta di strumento di redenzione collettiva. Ciò nonostante, questa immagine di definitiva caduta non è emendabile, neppure dalla speranza che Parente in limine accorda, se non all’opera in questione, almeno alla letteratura in generale come possibilità di etermarsi e resistere alla morte, almeno fino a quando “l’animale uomo non si estinguerà”.


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