QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Le polemiche sulla Fiera di Torino
e di h c a n o cr
Cara sinistra attenta, stai diventando antisemita
di Ferdinando Adornato
SI PROFILA UN’INEDITA FORMA DI GOVERNO: LA “REPARCHIA”
colloquio con Abraham Yeoshua di Luisa Arezzo a tutti questi manifestanti cosa vogliono? Di certo non la pace, altrimenti anziché scendere in piazza contro Irsaele avrebbero dovuto supportare, a gran voce, un accordo con i palestinesi. Invece no. Gridano slogan contro di noi. Ma allora, se è proprio verso il diritto di esistere di Israele che hanno da ridire, perché non sposano direttamente la causa di Ahmadinejad, perché non si accodano all’Iran? E poi, da chi sono manovrati? Chi rappresentano? La sinistra radicale italiana, una parte del mondo arabo?». Si accalora Abrham B. Yehoshua a sentir parlare di boicottaggio. E mentre si tocca nervosamente i capelli grigi, le parole gli escono fuori veloci e ad alta voce. Se li avesse qui davanti, i dimostranti, non gli lascerebbe il tempo di tirar fuori nemmeno uno striscione. «L’Italia ha sottovalutato questi disordini, non deve averli ritenuti possibili, altrimenti non si spiega». Giustifica così, quasi con stupore, il non avere ricevuto nemmeno una telefonata di solidarietà da nessun intellettuale nostrano. Ma non è sorpreso: sa che durante la visita del presidente iraniano Ahmadinejad nessuno ha avuto nulla da ridire, e chiosa secco: «Le cose vanno in questo modo». Ma non è rassegnato: tutt’altro. Sono quarant’anni che usa le parole per cercare la pace, da solo e con Amos Oz e David Grossman, ovvero la triade dei massimi scrittori israeliani.
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Dopo 15 anni Berlusconi ce l’ha fatta: Lega a parte, comanda da solo senza partiti. Quasi tutto l’esecutivo, più che da ministri è fatto da collaboratori del premier. Una novità costituzionale, a metà tra Repubblica e monarchia… Funzionerà?
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È ancora attuale il pensiero dello statista?
Aldo Moro, la nostalgia della politica di Riccardo Paradisi e Sergio Valzania A trent’anni dal suo assassinio si è detto praticamente tutto di Aldo Moro. Eppure in tutto ciò che è stato detto su di lui, del suo profilo intellettuale, della sua visione politica, dei giorni tragici del suo rapimento e della sua morte, qualcosa di essenziale sembra sfuggire.
Intervista con Raffaele Bonanni
È scomparso ieri Luigi Malerba
«Confindustria non ponga veti come la Cgil»
Addio al prestigiatore della scrittura
di Francesco Pacifico
di Maria Pia Ammirati
Riportata sul binario della sana contrattazione la Cgil, ora Raffaele Bonanni sferza Confindustria. Non ha apprezzato le battutine del vicepresidente Alberto Bombassei, teme stalli sulle intese territoriali.
Luigi Malerba è morto ieri nella sua casa romana affacciata sul Colosseo, nella prima giornata di sole estivo, un particolare non irrilevante: Malerba amava il sole, la luce e la rinascita primaverile.
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da pagina 12 VENERDÌ 9 MAGGIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
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c on ti n ua al le p ag in e 4 e 5
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
le roi
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La nuova forma di governo che si profila a metà tra Repubblica e monarchia presidenziale
Funzionerà la “Reparchia“? di Errico Novi
ROMA. Siamo improvvisamente passati a una semi-monarchia? L’Italia ha cambiato Costituzione senza che ci sia stato bisogno dai convocare assemblee? Di sicuro l’assetto dello Stato può mutare senza bisogno di passaggi formali, ricordano storici come Luciano Canfora e attenti costituzionalisti come Roberto D’Alimonte. Silvio Berlusconi ha presentato un esecutivo con molti uomini di sua assoluta fiducia, fedelissimi che si riconoscono pienamente nella sua leadership. «Non vuol dire che è cambiata la Carta fondamentale», dice Canfora, appena reduce da un dibattito sulla parola democrazia con Giovanni Sartori e Angelo Panebianco. Le parole sono importanti, suggerisce il grecista, «ma conta anche lo stile: basti pensare al diverso modo con cui hanno interpretato lo Statuto albertino Giovanni Giolitti e Agostino Depretis. Oggi è chiaro che Berlusconi ha in mente un rafforzamento dei poteri del premier, e teniamo conto che nella nostra Costituzione il punto interrogativo è sempre stato l’effettivo potere del Capo dello Stato: ebbene, possiamo dare per scontato che se Berlusconi diventerà presidente della Repubblica farà di tutto per rafforzare il peso del Quirinale…». Il punto è che tutto può avvenire senza che cambi la Costituzione: «Lo stesso Mussolini non fece Sartori: «Magari gli italiani sono contenti di avere Berlusconi come monarca… Certo non è un governo che farà bene al Paese perché è composto da assoluti incompetenti» altro che cercare di accrescere i poteri del presidente del Consiglio ai danni della monarchia, e anche lui ha governato con lo Statuto albertino».
Giovanni Sartori non trova infondata l’idea del passaggio a una quasi-monarchia, e aggiunge: «È una provocazione sensata, ma la questione in fondo non è importante: magari gli
italiani sono contenti di avere Berlusconi come monarca». E il compiacimento dell’opinione pubblica può corrispondere al bene del Paese? Su questo Sartori corregge il suo proverbiale sarcasmo con una sfumatura d’amarezza: «Un governo del genere non fa bene, la mia tesi è che siamo davanti a un esecutivo fatto totalmente di incompetenti. Forse non è neanche una novità assoluta per l’Italia, ma qui siamo ben al di sotto dei livelli toccati in passato. Siamo al peggior manuale Cencelli, e forse per capire meglio la realtà bisognerebbe andare a ristudiarselo».
Può darsi anche che la Costituzione materiale non sia cam-
denzializzazione strisciante del sistema politico, a livello centrale e locale. Sicuramente si è già manifestato l’impianto di quello che io definisco modello italiano di governo, basato su tre elementi essenziali: elezione diretta dei capi degli esecutivi, abbinata a sistemi proporzionali con premi di maggioranza e a un riequilibrio di poteri Baget Bozzo: «C’è un fatto totalmente nuovo: abbiamo una combinazione singolare tra un governo parlamentare e un presidente plebiscitato. Berlusconi potrà dominare gli alleati» tra esecutivo e legislativo ai danni di quest’ultimo. Questo è oggettivamente vero per sindaci, presidenti di Provincia e presidenti di Regione». E sul piano nazionale? «Parte del modello
Conta molto lo stile – dice lo storico Luciano Canfora – il nuovo presidente del Consiglio ha in mente di rafforzare i suoi poteri, se fosse al Quirinale farebbe la stessa cosa. Si può cambiare assetto anche senza riforme costituzionali
“
biata con il giuramento di ieri a Palazzo Chigi. C’è da capire se ora siamo in una nuova Repubblica, la terza, o se all’aggettivo numerale bisogna aggiungere altre specificazioni, se un tratto semimonarchico ha davvero modificato l’assetto istituzionale, e se non è il caso di ricorrere a un gioco lessicale: la ”reparchia”, appunto. D’Alimonte offre una chiave rigorosamente tecnica, seppur dopo una concessione al liguaggio giornalistico: «È un governo del presidente», ammette, e poi spiega: «Da un certo punto di vista assistiamo a una presi-
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italiano di governo è stata trasferita a livello centrale in modo esplicito: abbiamo un sistema proporzionale con premio di maggioranza non a caso voluto da Berlusconi. In più la legge elettorale prevede l’indicazione del candidato premier da parte delle singole liste: è una quasi elezione diretta del Capo del governo, o un suo parente stretto, potremmo dire. Ed è appunto una traduzione del modello a livello nazionale, quindi si può parlare di presidenzialismo strisciante. Queste elezioni», nota D’Alimonte, «sono un altro tassello della strategia».
Qualcosa è cambiato in modo netto secondo un altro punto di vista, quello di don Gianni Baget Bozzo, tra le voci più ascoltate dallo stesso Cavaliere. «Il fatto totalmente nuovo è che abbiamo un governo parlamentare con un presidente ple-
biscitato: Berlusconi ha vinto con una combinazione singolare tra plebiscito e democrazia parlamentare. Ma a parte il fatto che io personalmente penso che questo governo farà il bene del Paese, che ho sempre sostenuto Berlusconi e l’ho votato anche stavolta, c’è da dire che siamo pur sempre di fronte a un esecutivo scelto dalla maggioranza del corpo elettorale». E quindi, argomenta Baget Bozzo, «non c’è alcun pericoloso stravolgimento della Costituzione, non c’è differenza rispetto a vittorie come quelle di Blair o Zapatero. È indiscutibile casomai che Berlusconi sia diventato il punto di riferimento di tutti, che ci sia stato il plebiscito da lui atteso: ed è per questo che ora può dominare sia la Lega che An, anche perché Alemanno ha potuto beneficiare in proprio del plebiscito per Berlusconi, An ha avuto dunque il suo tornaconto. Se si vuol sostenere che siamo in una situazione completamente diversa rispetto al precedente esecutivo dico che questo è vero: quello di Prodi è stato un colpo di Stato».
Ma oltre a quella illustrata da don Gianni c’è un’altra novità, il rapporto di assoluta fedeltà che lega buona parte dei ministri al presidente del Consiglio. Il professore di Politica comparata dell’università di Bologna Piero Ignazi ritiene che la proporzione sia in fondo equilibrata: «Nella squadra ci sono anche leader politici o comunque dirigenti di partito affermati, come Ignazio La Russa e Altero Matteoli. E non possiamo certo pensare che i leghisti soffrano di soggezione nei confronti di Berlusconi. Altri sono indubbiamente dei fedelissimi o dei giovani promossi dal premier». Ma seppur si vuol parlare di una ”rottura” rispetto al passato non è detto, secondo Ignazi, che si debba considerare la presenza di persone «senza esperienza o con un profilo
professionale non alto» come un fatto necessariamente negativo: «C’è un’età media piuttosto bassa, è un esecutivo composto da persone decisamente giovani, e questo è un aspetto interessante. Anche se alcuni non hanno un profilo particolarmente definito».
Non tutto avviene per la determinazione di Berlusconi: secondo il politologo dell’università di Trieste Paolo Feltrin «il processo che vediamo compiersi parte da lontano, addirittura dal periodo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, quando è stato istituito il dipartimento alla Presidenza del Consiglio. C’è stata sicuramente un’inversione di marcia con il governo Prodi, adesso abbiamo ripreso a seguire una tendenza di lungo periodo». E non c’è dubbio che questo possa presentare anche aspetti problematici: «Abbiamo un Ignazi: «Ci sono dirigenti politici affermati come La Russa e Matteoli al fianco di ministri con un profilo professionale non alto o inesperti. Ma la presenza dei giovani è anche un fatto positivo» esecutivo con una forte presenza giovanile, il che significa un governo fatto con gente che non ha esperienza parlamentare. Zaia, Gelmini, Carfagna: persone tra i 30 e i 40 anni, che non hanno un curriculum politico di lungo corso». Ma intanto, sostiene Feltrin, «la tendenza riguarda tutti i governi: figure giovani scelte personalmente dal premier. Sotto il profilo costituzionale è tutto legittimo, anche se non fa parte dell’esperienza italiana». La novità è letta comunque in modo positivo dal politologo: «Ci saranno tre conseguenze: già abbiamo un minor numero di ministri rispetto al passato, nel corso della legislatura ci saranno riforme per ridurre il numero dei parlamentari e passare a una sola Camera, così come si rafforzeranno i poteri del premier. Tutto concorre ad assicurare una ragionevole governa-
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Il rapporto tra maggioranza e opposizioni
Se la legislatura sarà costituente di Rocco Buttiglione stato detto autorevolmente che questa legislatura deve avere un profilo costituente. Si allude, con questa espressione, alla necessità di riforme costituzionali come per esempio il completamento del modello federalista ed il federalismo fiscale, il necessario rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, il superamento del bicameralismo perfetto… Si tratta della grande riforma istituzionale di cui si parla da due decenni con risultati fino ad ora mediocri. Io voglio oggi sottolineare la necessità che la legislatura abbia un carattere costituente anche in due altri sensi, forse ancora più importanti. In primo luogo il sistema di regole che chiamiamo Costituzione è scritto solo in parte. In parte ( e talvolta, come in Gran Bretagna, in grandissima parte) è non scritto. Si tratta di regole consuetudinarie e di buon senso che sono, per il buon funzionamento delle istituzioni, altrettanto importanti che non quelle scritte. Si tratta anche di norme regolamentari che possono essere per il funzionamento delle istituzioni altrettanto importanti di quelle contenute nelle Costituzione. Una intesa sul regolamento delle Camere e sulle sue consuetudini interpretative può però essere solo espressione di un nuovo clima politico di fiducia e di dialogo. Deve cambiare, in un certo senso, l’idea della politica. Maggioranza ed opposizione devono lavorare insieme per costruire il bene comune del popolo italiano, pur nella necessaria distinzione dei ruoli. La lotta contro il consociativismo, cioè contro la commistione dei ruoli fra maggioranza ed opposizione, è stata spinta troppo oltre. Alla fine anche lo scontro politico deve servire a costruire l’unità della nazione. La politica non può essere una lotta a morte per la distruzione dell’avversario ma deve essere una prudente sollecitudine per il bene comune.
È
bilità». Ammesso che ci sia un prezzo da pagare secondo il professore triestino ne vale assolutamente la pena. D’altronde la ”reparchia”a suo giudizio è in realtà una «oligarchia» o una «poliarchia», nel senso che «non si può considerare Tremonti come lo scudiero di Berlusconi, e ci sono altri ministri con il loro peso, da Scajola a Bossi. Il fatto che i dicasteri con portafoglio non siano molti potrà determinare oltretutto un esecutivo affidato ai sottosegretari, ai veri titolari delle deleghe».
Si procede dritti «verso le modalità classiche delle forme di governo parlamentari», sostiene il costituzionalista bolognese Stefano Ceccanti, «e questo però è da una parte un fatto necessario, considerato che abbiamo alle spalle governi lacerati e divisi, dall’altra è una trasformazione che ha un suo costo, pro-
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C’è una presidenzializzazione strisciante sostiene D’Alimonte - il modello si è trasferito dal livello locale a quello nazionale grazie al sistema proporzionale con premio di maggioranza voluto non a caso da Berlusconi prio perché non ci si può più giustificare con l’eterogeneità delle coalizioni». Nel caso di Berlusconi, sostiene il co-autore della proposta di riforma elettorale del Pd, «bisogna capire se la sua leadership caratterizzata in genere da tratti populistici si dimostrerà davCeccanti: «La leadership di Berlusconi ha avuto finora tratti prevalentemente populistici, si è espressa al meglio in campagna elettorale. Ora non può dire che è frenato dagli alleati, vediamo se saprà governare» vero in grado di governare. Se cioè riuscirà a imporre una linea politica chiara. Perché finora Berlusconi è stato capace so-
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prattutto di vincere le elezioni, mentre la capacità di un leader dovrebbe misurarsi in sperimentate attitudini di governo. Il dubbio rimane: nelle esperienze precedenti ha sempre dato la colpa agli alleati. Se pure vogliamo ammettere che la giustificazione sia fondata, stavolta la scusa non c’è più». La presenza consistente nel governo di ministri legati da un rapporto di fedeltà così personale con il premier non è per Ceccanti un fatto anomalo rispetto alle forme di governo parlamentari: «Il modello originale prevede la scelta diretta dell’esecutivo ma anche il peso di un partito a vocazione maggioritaria che esprime gran parte dei ministri. In questo modo l’elettorato può giudicare il governo più facilmente. E il vantaggio vale anche la pena di accettare che attorno alla leadership vincente ci sia l’inner circle di coloro che sono sodali del premier».
In secondo luogo esistono strutture profondamente consolidate nella società che sono assai difficili da modificare senza uno sforzo che coinvolga maggioranza ed opposizione. Ridurre la spesa corrente cambiando in profondità i meccanismi che regolano oggi il funzionamento della Pubblica Amministrazione, riformare il sistema di veti e controlli che oggi rende praticamente impossibile fare in Italia grandi opere pubbliche, lottare efficacemente contro l’evasione fiscale, liberare il mercato del lavoro dai vincoli attuali e contemporaneamente costruire un sistema di welfare capace di accompagnare il lavoratore da un posto di lavoro all’altro, ridurre le tasse e dare giustizia fiscale alle famiglie, riportare serietà ed efficienza nella scuola, ridurre in generale il peso delle corporazioni a vantaggio di mercati efficienti e dei singoli cittadini … sono tutti obiettivi irraggiungibili per una maggioranza che debba fare i conti con una opposizione spregiudicata e demagogica che mobiliti la resistenza di categorie limitate ma potenti che vengono danneggiate dalle riforme ed ecciti la preoccupazione popolare davanti al nuovo con il suo peso necessario di incertezza e di rischio. Queste riforme non saranno fatte se non saranno fatte in Parlamento, con il concorso dei tutti pur nella giusta dialettica di maggioranza e di opposizione. Per questo è necessario recuperare la giusta centralità del Parlamento. La maggioranza non ha il compito di ratificare senza discutere le proposte dell’esecutivo e la minoranza non ha il dovere di ostacolarle ad ogni costo. Il governo ha tutto e solo il potere esecutivo, ma quello legislativo è del Parlamento e solo esercitando fino in fondo la funzione parlamentare sarà possibile fare le riforme. Quelle “istituzionali” ma anche le altre, forse ancora più importanti.
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israele Il grande scrittore israeliano interviene sulle contestazioni alla Fiera del libro di Torino
Cara sinistra, attenta stai diventando antisemita colloquio con Abraham B. Yehoshua di Luisa Arezzo segue dalla prima E non saranno certo una manifestazione, qualche bandiera bruciata e slogan grossolani a fargli cambiare idea. Per lui, queste, sono tutte occasioni mancate. Un’inaugurazione della
Fiera a porte chiuse, per motivi di sicurezza, non è certo la maniera migliore per celebrare un evento culturale e i sessant’anni di vita di Israele. No, certo. Ma il punto è un altro: questo è il momento di scendere in piazza per sostenere il processo di pace. Israele e
Inaugurata la kermesse aspettando le manifestazioni di sabato
Giorgio Napolitano: «L’odio non può mai produrre la pace» di Nicola Procaccini
ROMA. La quiete prima della tempesta. Potrebbe essere questa la sintesi della giornata di ieri a Torino. La Fiera internazionale del libro ha ospitato l’intervento del capo dello Stato Giorgio Napolitano. Le temute contestazioni della vigilia si sono limitate a poche decine di simpatizzanti dell’associazione Free Palestine che invitavano al boicottaggio di Israele e della Fiera attraverso slogan e striscioni. Il tutto in un tono piuttosto dimesso. Ma è domani la giornata ad alta tensione, quando caleranno a Torino cen-
tri sociali e no global provenienti da tutta Europa, animati da uno spirito ben poco promettente. Contro Israele, con-
Poca cosa le temute contestazioni della vigilia. Ma è domani la giornata a rischio tro i suoi libri, contro la millenaria cultura ebraica si muoveranno sabato alcune migliaia di
contestatori. Cercheranno di forzare i blocchi delle forze dell’ordine per accedere all’interno del Lingotto. Si capisce come ci sia grande preoccupazione nel capoluogo piemontese, non meno che a Roma dove Silvio Berlusconi certamente non si augura di affrontare così presto la prima emergenza del suo quarto governo; e dove Giorgio Napolitano spera che le sue parole di ieri possano aver omaggiato Israele, senza scontentare troppo coloro che pretendevano da lui anche un riconoscimento dei diritti palestinesi. Ad
accogliere il Presidente della Repubblica c’erano le istituzioni israeliane rappresentate dall’ambasciatore Gideon Meir, la comunità ebraica con il suo presidente Riccardo Pacifici, e c’era la politica italiana. Da una parte il centrosinistra con Giovanna Melandri ed il sindaco Chiamparino, dall’altra il centrodestra con un’agguerrita Fiamma Nirenstein. «E’ un momento di grande gioia – ha detto la Nirenstein – non dobbia-
mo lasciare che ombre di un dissenso violento e insensato turbino una festa di libertà e cultura». La speranza è che le ombre restino davvero tali e non si concretizzino sabato in qualcosa di peggio.
In questo senso non aiutano le dichiarazioni di un altro neodeputato del Pdl che ormai sembra onnipresente e purtroppo anche “onnidichiarante”, Luca Barbareschi. «Israele
israele Palestina lavorano strenuamente per raggiungere questo obiettivo. Siamo per la creazione di due Stati, più che manifestare a vuoto e gettare altra benzina sul fuoco dovrebbero scrivere delle petizioni, fare pressioni affinché cessino gli attacchi contro Israele. Il problema non è Torino, il problema è il Medio Oriente. Come risponde a chi dice che sull’Europa sta soffiando un nuovo vento antisemita? Che non sono in grado di dare giudizi perché non conosco bene la situazione. Di certo, l’antisemitismo è un problema che esiste da sempre, ancor prima dell’era cristiana. Ho scritto per Einaudi diversi saggi su questo. Però la mia impressione è che in una società pluralista come quella attuale, dove la gente è abituata a conoscere “l’altro”,
l’antisemitismo possa diminuire. Può darsi. È pur vero, però, che l’Europa nella sua Costituzione non ha voluto fare riferimento ai valori giudaico cristiani su cui si è sviluppata. Ma oggi ci sono talmente tanti
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quali valori puntare. E sono due: la democrazia e i diritti umani. È al Medioriente che si deve guardare, al terribile regime militare in Siria, all’assenza di libertà in Iran, all’Africa, alla Somalia, alla Birmania. All’accordo fra Israele e Palestina. In Israele sono stati aperti
dere, ma è chiaro che un simile comportamento alimenti il pessimismo. E poi stiamo affrontando un problema di endemica corruzione interna: no, decisamente questo non è il nostro periodo migliore. Anche se la cultura continua a fiorire, la tecnolgia è ad eccel-
“
Noi sentiamo fortemente i valori giudaico cristiani, ma non sono realmente importanti. Non dobbiamo puntare il dito sull’origine dei valori, ma su quali valori puntare. E sono due: la democrazia e i diritti umani
valori religiosi nel mondo pensi solo al buddismo - e tante eredità a cui riferirsi - come quella dell’antica Grecia - che è irrilevante porre la questione. Noi sentiamo fortemente i valori giudaico cristiani, ma non sono realmente importanti. Non dobbiamo puntare il dito sull’origine dei valori, ma su
i festeggiamenti per celebrare i sessant’anni della nascita dello Stato. Come sono vissuti? Tristemente. Dieci anni fa avevamo maggiori speranze di adesso. Prenda Gaza: ci siamo ritirati e Hamas continua a sparare. Perché lo fanno? Io non credo la si debba ripren-
”
lenti liveli e l’economia regge abbastanza bene, c’è poco da stare allegri. Noi vorremmo un Paese migliore, con un minor divario fra le classi sociali. Ci sono molte cose da riparare in Israele. Questa festa dimessa non è esattamente quella che mostrano i nostri media... Eppure c’è e viene da lontano. Dal giorno in cui è cominciata la seconda intifada dopo il fallimento dei negoziati di Camp David. Due settimane in cui tutto sembrava possibile naufragate per colpa di Arafat. Poteva alzarsi e dire: questo accordo non funziona, ricominciamo. E invece no, a ricominciare sono stati gli scontri.Terribili, suicidi. Israele sta vivendo una fase psicologicamente cruciale? Non si tratta di capire se siamo in un momento di “buona” oppure no. Oggi in Israele ci
costruzione di uno Stato palestinese e mi metto sempre anche dalla loro parte, naturalmente appoggiando coloro che sono per il confronto e il dialogo, non certo chi cerca il boicottaggio». Il passaggio più delicato è venuto subito dopo: «Penso che si debba dialogare anche con Hamas perché è l’unica via per arrivare a fermare questo stillicidio di morti da tutte e due le parti». Infine Yehoshua ha detto di confidare nella realizzazione di uno stato palestinese entro quest’anno o al massimo il prossimo.
Su questo punto è un paese dove c’è libertà di espressione, è un esempio di grandissima democrazia. Non mi sembra ci sia la stessa democrazia nello Stato Palestinese». Le parole di Barbareschi sono andate esattamente nel senso opposto rispetto a quelle pronunciate pochi minuti dopo da Giorgio Napolitano, il quale ha più volte insistito sull’inopportunità di dividersi in tifoserie contrapposte dell’una o dell’altra causa. Napolitano ha ac-
cusato coloro che invitano al boicottaggio della manifestazione culturale di voler pretestuosamente inserire la problematica del conflitto mediorientale in chiave di esasperata partigianeria, di negazione dei termini obiettivi di un dialogo più che mai necessario. Per questo il Presidente ha chiuso il suo intervento citando un brano del saggio contro il fanatismo del grande scrittore ebreo Amos Oz: «non dovete scegliere tra
essere pro-israeliani o pro-Palestina, dovete essere per la pace». Ieri è stata anche la giornata di un altro celebre scrittore israeliano: Abraham Yehoshua. Il suo ragionamento esposto in occasione di un dibattito pubblico presso il padiglione d’Israele è stato coraggioso, a tratti provocatorio. «Quando ho sentito parlare di boicottaggio, ci sono rimasto malissimo – ha detto Yehoshua – Io sono quarant’anni che mi batto per la
sono 7 milioni e mezzo di ebrei, la metà della popolazione ebrea mondiale. Sessanta’anni fa contavamo solo sull’uno percento. Gli ebrei si stanno normalizzando, radicando, Israele ha buoni rapporti con 160 Paesi nel mondo, la guerra fredda e l’Urss sono alle nostre spalle. I segnali sono positivi, la democrazia si diffonde, ormai anche in America Latina. Il problema è il Medioriente e noi ne siamo parte. Ecco perché non smetterò di dire “aiutateci, siate più determinati nel risolvere questa situazione”». Dopo il fallimento di Annapolis, l’Amministrazione Bush sta nuovamente tentando un approccio negoziale. Crede che porterà a casa qualche risultato? No. E io condanno gli Usa per non aver saputo gestire la situazione. Però condanno anche gli altri: l’Europa e la Lega Araba: non si puà restare muti e passivi e lasciare all’America l’onere di essere l’unico protagonista. Bisogna avere il coraggio di diventare primi attori, prendere posizione e spingere verso una soluzione. È spossato Abrham B. Yehoshua. Ma non demorde. E dopo Torino ieri una soddisfazione l’ha avuta: ha assistito al Teatro dell’Opera di Roma alla messa in scena di Viaggio alla fine del millennio, il melodramma tratto, su suo libretto, dal suo omonimo romanzo del 1999.
liano: «grazie di vero cuore per la sua forte presa di posizione, quest’anno, quando anche nei mesi passati, ci sono stati tentativi e appelli a boicottare la Fiera del Libro per la presenza di Israele». Per fortuna, ieri non si è parlato soltanto di guerra e boicottaggio, ma anche di cose molto migliori come la cultura e la bellezza della vita. Questo è lo scopo della più grande manifestazione letteraria d’Europa, nonostante tutto. Napolitano uscendo dalla Fiera ne ha ricordato i valori di fondo che sono quelli del confronto e del dialogo tra culture, posizioni di pensiero, esperienze creative, senza confini impenetrabili e senza preclusioni. Prima di salutare il capo dello Stato ha salutato i ragazzi che affollavano i padiglioni con queste parole: «Leggete, leggete, leggete. Leggere vi aiuterà nella vita a scegliere e a vivere nella bellezza». In fin dei conti, la giornata di ieri è stata pressoché perfetta, sotto tutti i punti di vista. Ma domani è un altro giorno. Ed è un vero peccato.
Napolitano insiste: «non ci si può dividere in tifoserie contrapposte»
concorda esplicitamente Napolitano che spiega: «Non c’è dialogo se si muove dal rifiuto della legittimità dello Stato d’Israele, delle ragioni della sua nascita, del suo diritto a esistere nella pace e nella sicurezza. Un diritto – ha continuato Napolitano – che può e deve combinarsi con il diritto del popolo palestinese a dare vita a un suo Stato». Quasi commosso è stato il ringraziamento dell’ambasciatore Meir al presidente ita-
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politica
Veltroni lascia in eredità un passivo da 7 miliardi e impegni per la stessa cifra
Alemanno, sindaco senza portafoglio d i a r i o
di Gianfranco Polillo una sfida difficile quella che Gianni Alemanno, neo sindaco della Capitale, dovrà affrontare. Il cosiddetto “modello Roma”, visto in controluce, è tutt’altro che una rosa senza spine. I risultati positivi, che indubbiamente sono stati conseguiti, hanno comportato costi che dovranno essere pagati negli esercizi futuri. La leva del debito, infatti, è stata usata senza parsimonia e ora le finanze comunali presentano una rigidità che non trova riscontro nelle altre esperienze locali. Nulla di male, per carità. Gli Usa sono cresciuti sul debito: debito pubblico e debito dei privati. Ma a Roma ci è limitati al primo punto. Ora i nodi sono venuti al pettine. E le agenzie di rating – Standard & Poor’s e Fitch – si apprestano a tirarne le conseguenze. Per il responso finale c’è tempo – un anno – ma se le cose non cambieranno
È
andamenti favorevoli dei mercati. Prima della grande crisi internazionale l’eccesso di liquidità aveva determinato interessi particolarmente contenuti. Gli amministratori romani ne avevano approfittato, rinegoziando il debito pregresso per ottenere uno sconto. Il debito complessivo poteva quindi diminuire, ma così non è stato. Quei maggiori margini finanziari sono stati invece utilizzati per ottenere ulteriori risorse. Per cui il volume complessivo del passivo, nel periodo 2001-2007, è aumentato di un altro miliardo di euro. La congiuntura, com’era prevedibile, alla fine è cambiata e oggi quel circolo virtuoso rischia di trasformarsi in un piccolo inferno. Le banche saranno disposte a concedere credito agli enti indebitati, ma a tassi crescenti, specie se le agenzie di rating emetteranno il loro verdetto. La bolletta finanziaria sui debiti accumulati diverrà ancora più pesante. Soprattutto se si considera che più del 20 per cento di quegli
sato bloccate dalla presenza della sinistra massimalista; ulteriori apporti dello Stato e della Regione per la rete di un trasporto ecosostenibile. Infine il consolidamento delle entrate proprie del Comune da destinare al miglioramento dei margini operativi, negli ultimi 3 anni particolarmente contenuti. La ricetta, come si vede, è tutta concentrata sulle entrate. La cui struttura presenta più di un elemento di preoccupazione. Aumentare il carico fiscale è difficile soltanto a pensare. Restano le altre poste. Soprattutto le cosiddette altre entrate: proventi dei servizi, canoni di affitto, utili delle società partecipate, nonché gli altri proventi di carattere finanziario. Cespiti non trascurabili se si considera che danno quasi il 30 per cento delle entrate complessive. Alcune poste sono trascurabili, in conseguenza dell’incuria con cui
il declassamento sarà inevitabile. Sono giustificate le apprensioni? Il debito della Capitale è pari a circa 7 miliardi: il 60 per cento del passivo accumulato da tutti i comuni capoluogo, stando almeno alle valutazione del Sole 24Ore. Ma quello che più conta è che saranno necessarie altrettante risorse per sviluppare il programma di investimenti ch’era nella testa dei precedenti amministratori. Il risultato è un indebitamento che comporterà, nei prossimi 10 anni, una rata di ammortamento, come indicato dall’ultimo Documento di programmazione finanziaria, pari a circa 900 milioni di euro all’anno. Qualcosa come un quarto delle attuali entrate correnti.
E non è tutto. Finora il costo del debito è stato contenuto per gli
I margini sono molto stretti. Non è una missione impossibile, ma richiederà una tenuta e una forte padronanza dei meccanismi amministrativi. Il problema non è soltanto gestire l’esistente, ma innovare nel sistema di governo per liberare risorse oggi male utilizzate. Come uscirne? Il lascito programmatico della vecchia giunta indicava alcune strade: soldi aggiuntivi per Roma Capitale in nome del federalismo; politiche di dismissione e di privatizzazioni in pas-
g i o r n o
Pd, sabato il governo ombra Il leader del Partito democratico Walter Veltroni dovrebbe presentare sabato il «governo ombra». Stanto a quanto si è appreso, l’organismo farà un’opposizione «di merito» al nuovo governo. Veltroni sta anche lavorando alla riorganizzazione del partito, che dovrebbe esser pronta tra martedì e mercoledi prossimo. Il nuovo assetto del Partito democratico dovrebbe comunque prevedere meno responsabili di aree tematiche, vista la presenza del «governo ombra», e personalità di maggior rilievo politico, come l’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni.
Di Pietro: Veltroni deve consultarci Antonio Di Pietro ha fatto sapere di provare «sconcerto e amarezza» per la decisione di Walter Veltroni di «andare avanti da solo». Il leader di Italia dei valori ha aggiunto che «per noi lui è, e resta, il leader della coalizione alleata, ma ci dispiace che prenda decisioni senza consultarci, sapendo che lui da solo non va da nessuna parte visto che non raggiunge neanche il 50 per cento». Di Pietro si augura dunque che Veltroni «superi il suo buonismo di facciata e faccia un’opposizione concreta, altrimenti del governo ombra non resterà che l’ombra».
Frattini, il primo impegno in Perù Sarà la settimana prossima, in Perù, il primo impegno all’estero del nuovo ministro degli Esteri Franco Frattini. Il capo della Farnesina ieri ha fatto sapere che si recherà infatti a Lima, dove dal 15 al 17 maggio è in programma il vertice tra l’Unione europea e i paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Il passaggio formale delle consegne tra l’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema e il suo successore Franco Frattini potrebbe avvenire già nei primi giorni della settimana prossima.
La programmazione dalle giunte di sinistra comporta ammortamenti da 900 milioni di euro annui. Un quarto delle entrate correnti. Poche risorse per i progetti annunciati dal nuovo corso impegni è frutto di swap a tasso variabile, con scadenze molto elevate. La fragilità finanziaria dell’amministrazione capitolina è evidente. Resta il mistero di come siano stati utilizzati i capitali ricevuti in prestito: un problema comune a tutti gli enti locali. Ma a Roma il grosso resta ancora da fare: si pensi solo alle metropolitane. E dovrà provvedervi la nuova giunta capitolina. Ma come?
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Bagnasco: Chiesa dissacrata dai media «Troppo spesso l’informazione dissacra la Chiesa». Lo ha dichiarato il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, spiegando come «la mentalità secolarista dilagante nel nostro tempo, che ha catturato tanti adulti ma che aggredisce soprattutto i giovani, si alimenta della tabula rasa dei valori creata da un’informazione che troppo spesso demolisce». Secondo Bagnasco, invece, «bisogna dire che il bene c’è. Servono occhi capaci di vederlo e successivamente di raccontarlo».
Undici anni fa il delitto Marta Russo il Comune ha curato finora i suoi interessi patrimoniali. Dall’affitto delle case di proprietà si ricavano solo 33 milioni di euro scarsi, 56 dalle società controllate (51 dalla sola l’Acea). Poca roba. Il grosso viene dalle multe: 237 milioni nel 2006, in forte crescita – più del 70 per cento in 5 anni – pari alla metà del gettito proveniente dalla compartecipazione all’Irpef. Se queste sono le entrate da “consolidare”, com’è scritto nei documenti della passata giunta, non c’è da stare allegri. Allora che fare? La via maestra è una profonda riorganizzazione delle strutture burocratiche con conseguenti tagli di spesa. Non facile, ma è quello che si aspettano gli italiani prima di accondiscendere a nuove richieste di finanziamento in nome di “Roma Capitale”.
Sono trascorsi 11 anni dal 9 maggio del 1997, giorno in cui, all’Università La Sapienza di Roma, perse la vita la giovane studentessa Marta Russo. Aureliana Jacoboni, la mamma della 22enne iscritta alla facoltà di Giurisprudenza, nel ricordarla ha voluto ribadire il messaggio che da allora non ha smesso di lanciare: «Donare gli organi significa restituire la vita a chi rischia di perderla».
Difesa, non tornerà la leva obbligatoria La leva obbligatoria non tornerà, salvo importanti emergenze. Lo ha annunciato il neoministro della Difesa Ignazio La Russa che, in un’intervista al quotidiano on line Affaritaliani ha infatti precisato: «La leva non è stata abolita, è stata solo sospesa. E se fosse necessaria una mobilitazione ritornerebbe in vigore, anche se mi auguro che non sia mai necessario». La Russa ha proseguito specificando che «sotto forma volontaria, si debbano e si possano immaginare modi per offrire ai giovani l’occasione di una maggiore vicinanza alle Forze Armate». Quanto poi alle missioni all’estero, il ministro ha declinato spiegando che entrerà nel merito «quando avrò avuto le consegne dal mio predecessore, il professor Parisi, che è uno dei ministri che si è meglio comportato nel governo Prodi, e quando avrò avuto l’occassione di effettuare i briefing con i capi delle Forze Armate».
politica
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Dopo l’accordo dei confederali sulla riforma dei contratti, Bonanni (Cisl) chiede all’impresa di andare avanti nella trattativa
«Confindustria non si metta a porre veti» colloquio con Raffaele Bonanni di Francesco Pacifico
ROMA. Riportata sul binario della sana contrattazione la Cgil, ora Raffaele Bonanni sferza Confindustria. Non ha apprezzato le battutine del vicepresidente Alberto Bombassei, teme stalli sulle intese territoriali. Ma nulla può rovinare l’umore del segretario della Cisl: per lui il 7 maggio 2008, con la piattaforma unitaria sulla riforma dei contratti, resterà agli annali: «Abbiamo dimostrato che Cgil, Cisl e Uil hanno una strategia unitaria sui contratti, su come rafforzare le garanzie dei lavoratori e vivere la democrazia sindacale.Tre punti decisivi per un sindacalismo moderno». Eppure la Cgil vi ha spinto a lasciare poteri al contratto nazionale a scapito del secondo livello. Non mi pare che il nazionale abbia molto spazio. Ci siamo mossi in ottica di sussidiarietà: tutto ciò che non si può fare in basso, lo si fa in alto. E dove, se non a livello nazionale, si possono coprire i vuoti dell’inflazione, avere un quadro degli interventi di secondo livello e della durata delle intese, occuparsi del riordino dei contratti? Altrimenti faremo un’arlecchinata. Cosa rimane al secondo livello? Gli orari, la formazione o il livello della produttività, che non si possono gestire dall’alto. Sbaglia chi dice che i due livelli sono alternativi. Come cambieranno i salari e la produttività? La priorità per chi lavora è assecondare i gusti del mercato. Tradotto, i soldi si prendono se le aziende vanno bene. Per non parlare della valenza in termini di potere contrattuale: un collettivo di lavoratori può chiedere e stabilire meglio il suo stipendio se partecipa alle scelte dell’azienda
sull’organizzazione del lavoro. Bombassei si chiede che vuol dire “l’inflazione ragionevolmente prevedibile”e chi la stabilirà? Non certo lui. E neanche io. Come da Accordo del ’93 – che, ricordo, nessuno ha disdettato – viene stabilita dal tavolo di concertazione fra governo, sindacato e imprese. Nessuno deve fare nuove regole. Cosa cambierà, nella definizione degli aumenti, rispetto all’inflazione programmata? L’obiettivo è recuperare il peso dell’inflazione sul potere d’acquisto, ma gli strumenti attuali di rilevazione sono “starati”. Soprattutto non tengono in
no potere d’acquisto surrettiziamente, per colpa di meccanismi “starati”. Sarebbe un latrocinio. Questi della Bce saranno bravi banchiere ma sono pessimi politici. Sanzioni sul rinnovo dei contratti. Limiti ai subappalti. Obblighi di trasparenza contabile. Non ci sono troppi oneri per le imprese nella vostra piattaforma? C’è un piccolo particolare che si dimentica: in questa trattativa ci sono da un lato i dipendenti che devono ricevere, dall’altro le aziende che devono pagare. Ora che abbiamo finito con la Cgil, non vorrei che inizi la Confindustria a porre veti.
Il leader di via Po: «Abbiamo dimostrato che il sindacato ha una strategia unitaria». E all’industria manda a dire: «Sarebbe un errore non incentivare le intese a livello territoriale» conto quelle voci che maggiormente colpiscono i salariati perché legati a energia e casa: penso a mutui, affiti, acqua o gas. L’ingegner Bombassei farebbe bene a non ironizzare: cerchiamo una risposta ai tentativi di risparmio abusivi fatti dalle aziende, anche speculando sulla stupidità di chi nel sindacato ha chiesto nei rinnovi dei contratti aumenti maggiori rispetto a quanto si poteva. La Bce paventa che così si possa innescare una spirale salari-prezzi. A Francoforte non possono pensare che i lavoratori perda-
Miglioramenti al welfare, riduzione fiscale, liberalizzazioni. Tante le richieste al nuovo governo? Sono le stesse rivendicazioni presentate a Prodi. Eppoi anche il centrodestra, in campagna elettorale, ha accelerato sul taglio delle tasse per lavoratori dipendenti e pensionati. Ora l’esecutivo inizia con la detassazione degli straordinari, ma dobbiamo capire ancora come si muoverà, perché finora non ha presentato un piano d’azione complessivo. Questa riforma, che incentiva le trattative di secondo livello, potrebbe stravolgere la struttura del sindacato ancora troppo centralista? Caso mai sono più centralisti quelli di Confindustria che noi. Questa riforma dei contratti farà saltare tanti luoghi comuni, perché usciranno allo scoperto le vere posizioni degli attori in campo. intanto, Confindustria, non è convinta dalla contrattazione territoriale. E sbaglierebbe perché al proprio al proprio interno ha nel livello territoriale un punto di forza. Penso all’Ance e a tutte le associazioni che già fanno intese con noi.
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pensieri
Perché è difficile per il nostro sistema, ispirato a quello francese, poter diventare federale
Sull’Italia pesa ancora il Risorgimento di Angela Pellicciari utti si interrogano su come imitare il successo della Lega. E nasce l’ipotesi di un Pd del Nord. Come se fosse una formula magica! Come se bastasse mettere un’etichetta, partito del Nord, per tornare a vincere. È possibile che gli eredi del Pci e della Dc diano vita ad un partito regionale, un partito del Nord? Intervenendo nel dibattito sul Corriere del 27 aprile, Sergio Romano prende a modello di dialettica partito nazionale-partito regionale la Cdu tedesca e la Csu bavarese, motivando l’esistenza di due partiti democristiani con le caratteristiche dell’unificazione politica della nazione. In Italia questo modello non
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cui i Savoia possono sperare di conseguire l’obiettivo principale che si ripromettono: la scomparsa del cattolicesimo. Ovvero rifare, fare nuovi, gli italiani. Per ottenere un risultato tanto impegnativo, i liberali hanno bisogno del pugno di ferro. Avendo tutta la popolazione contro, perché è cattolica, non possono permettersi il lusso di rispettare le autonomie locali. Debbono imporre le proprie idee e basta. Un episodio marginale della storia del Piemonte liberale illustra la verità di quanto sosteniamo. Siamo nel 1848 e l’aria della libertà porta con sé quella della persecuzione anticattolica. Dopo aver deciso la soppressione dei gesuiti (accusati in Parlamento di essere “lue”e “pe-
mezzi s’infondono nel cuore delle alunne sentimenti politici e pratiche religiose che non vanno d’accordo con quelli che debbono dominare in un generoso sistema di educazione. La tolleranza loro non è cosa che debba essere approvata dalla Camera. Se si lascia la male sequenza gesuitica in un luogo dello Stato, essa si spanderà presto come la gramigna nel rimanente del Paese». Il fatto è che le Dame reggono una scuola prestigiosa: l’unica rimasta in Savoia dopo la chiusura di quella dei gesuiti. Naturale che tutta la popolazione (liberali compresi) si schieri compatta in sostengo delle suore: il danno procurato dalla soppressione dell’ordine, e
Sergio Romano prende a modello di dialettica partito nazionale-partito regionale la Cdu tedesca e la Csu bavarese: due partiti democristiani con le caratteristiche dell’unificazione politica della nazione.
sarebbe stato possibile, scrive Romano, «perché il Risorgimento rinunciò alla prospettiva confederale e imboccò risolutamente la strada francese dell’Italia ‘una e indivisibile’». Italia e Germania, arrivate quasi contemporaneamente al conseguimento dell’unità nazionale, intraprendono un percorso molto diverso: la Germania rispetta le diversità accumulatesi nel corso del tempo nelle varie regioni che la compongono, l’Italia invece le azzera. La Germania costruisce uno stato federale, l’Italia uno rigidamente centralizzato, costruito sul modello sabaudo. Quali le motivazioni dell’élite risorgimentale? Si tratta solo di una supina acquiescenza al modello francese, come suggerisce Romano? Non sembrerebbe. Uno Stato rigidamente centralizzato è l’unica modalità con
ste” e sottoposti a domicilio coatto senza altra colpa che quella del nome, gesuita), i liberali passano ad attaccare altri ordini religiosi definiti “gesuitanti”. La logica è ferrea: i gesuiti hanno la peste? Bisogna isolare e sopprimere quanti hanno contatto con loro: altri ordini religiosi. Nel novero degli amici dei gesuiti, divenuti pericolosissimi perché appestati (le parole che uso sono quelle, alla lettera, pronunciate nel Parlamento subalpino), ci sono una ventina di suore savoiarde, denominate “gesuitesse”: le Dame del Sacro Cuore di Gesù. Queste le imputazioni addotte a loro carico: «È noto –sostiene l’avvocato Cesare Dalmazziche queste Dame, giustamente chiamate gesuitesse, sono dirette dallo stesso principio (dei gesuiti), che ne sono totalmente dipendenti, e che per loro
«Perché rifiutare alla Savoia la capacità di apprezzare quello che le conviene?». I savoiardi, rincalza Jacquemoud, «sono convinti di avere abbastanza discernimento per decidere cosa convenga loro». Esasperati dalla sordità della maggioranza parlamentare, i deputati invocano una consultazione popolare. La proposta sembra ineccepibile ma non viene nemmeno presa in considerazione. Perché? Perché, come ricorda il ministro della Pubblica istruzione, Carlo Boncompagni, «dalle informazioni che ci mandano le autorità preposte all’insegnamento in Savoia consta che veramente queste corporazioni hanno per sé l’opinione pubblica; abbiamo su questo informazioni di per-
Dopo aver deciso la soppressione dei gesuiti, i liberali passano ad attaccare altri ordini religiosi definiti “gesuitanti”. La logica è ferrea: bisogna isolare e sopprimere quanti hanno contatto con i gesuiti.
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La Germania ha rispettato le diversità accumulatesi nelle varie regioni, l’Italia invece le ha azzerate e centralizzate, secondo il modello sabaudo
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quindi della scuola, sarebbe gravissimo. Così affermano tutti i deputati savoiardi: «Come si può sostenere di volere la libertà mentre la si nega ad una ventina di suore?». Afferma Jacquemoud. Vogliamo forse la libertà solo per noi stessi e per le nostre idee senza rispettare quelle degli altri? Si domanda Costa de Beauregard. E soprattutto, continua:
sone di diverse opinioni». I protagonisti del Risorgimento ignorano le sacrosante proteste (suffragate da petizioni sottoscritte da moltissime persone, comprese tutte quelle che contano) di un’intera regione che difende un bene primario come l’istruzione. Lo fanno perché convinti di essere di fronte ad una questione di principio: le Dame, proprio come i gesuiti, debbono essere soppresse perché altrimenti non si possono sviluppare i “principi liberali”. Certi di incarnare le necessità del progresso, i liberali non hanno alcuno scrupolo nel fronteggiare duramente le convinzioni della popolazione: i popoli “or ripugnanti –afferma il deputato Bottone-, benediranno un giorno la nostra memoria, la santa e risoluta nostra deliberazione”. Come, nel 1848, non è riconosciuta alcuna autonomia alla
Savoia, così qualche anno più tardi non sarà riconosciuta alcuna autonomia alle altre regioni italiane. Lasciati a sé stessi gli italiani non avrebbero capito la pericolosità degli ordini religiosi della chiesa cattolica (definita dal primo articolo dello Statuto “unica religione di stato”). Lasciati a sé stessi gli italiani avrebbero continuato ad essere cattolici. E questo non andava bene. Il Risorgimento ha combattuto una guerra a tutto campo contro la religione cattolica e, quindi, contro gli italiani. L’1% della popolazione, di fede liberale, si è arrogato, in nome della libertà e della costituzione, l’onere di decidere per il restante 99. Lo stato liberale è il prototipo dello stato pedagogo che Secondo i protagonisti del Risorgimento le Dame, proprio come i gesuiti, debbono essere soppresse perché altrimenti non si possono sviluppare i “principi liberali”.
avrà la sua massima espansione nelle dittature totalitarie del ventesimo secolo. Tornando a noi e ad un ipotetico Pd del Nord. Quale la caratteristica della Lega? Quella di aborrire le ragioni di uno stato e di un partito pedagogo. Quella di stare dalla parte della popolazione, delle sue tradizioni, delle sue speranze e, anche, delle sue paure. Questa è la motivazione, a nostro parere, del suo successo. La sinistra, viceversa, da quando esiste, si è sempre data il compito di guidare la storia verso il progresso. Di illuminare le convinzioni della popolazione, ritenuta sprovveduta intellettualmente e moralmente immatura. Se così stanno le cose, non è inseguendo un vuoto localismo che il Pd potrà eguagliare il consenso diffusissimo della Lega in ampi settori del Nord.
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parole
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Il futuro del Pd. Viaggio dopo la sconfitta /4 Antonio Polito ROMA. Un partito in pieno «big bang», con una leadership tanto debole da non poter essere nemmeno cambiata, un obiettivo di fusione tra culture sostanzialmente fallito e un futuro talmente incerto da non escludere scissioni ed estinzione. È davvero impietoso il ritratto del Partito democratico fatto da Antonio Polito, ex senatore dell’Ulivo, oggi direttore del Riformista che orgogliosamente difende il suo status di «spirito libero» nonostante i rumores di Palazzo oggi si ostinino a definirlo dalemiano. Allora Polito, D’Alema riunisce i suoi, Fioroni alza le bandiere degli ex popolari, i prodian-parisiani sono di nuovo in attività, i rutelliani in pieno revanscismo. Che fine ha fatto il partito liquido teorizzato da Veltroni? Se ne è andato giù per il lavandino. È finito, per stessa ammissione del segretario. Un partito fondato sulla leadership e il suo appeal mediatico ha obiettivamente una difficoltà a rappresentare gli interessi presenti nel Paese. E le elezioni di aprile hanno confermato che la gente vota ancora sostanzialmente in ragione degli interessi: non si può cambiare il mood del Paese in ragione di una campagna mediatica, Veltroni aveva annunciato uno partito senza correnti e se ne ritrova una decina. Un partito solido può avere correnti o non averle. Ma alla fine se sei oltre il 30 per cento non è immaginabile un partito monolitico o leaderistico, a meno che non ti chiami Berlusconi. È un male necessario? Che ci sia una articolazione interna, delle fondazioni, delle riunioni non è un male: il punto è se a tutto ciò corrispondono orientamenti politico-culturali diversi fra loro. Ed è proprio questo che mi preoccupa: oggi nel Pd c’è una esplosione, un big bang nel quale vengono fuori mille correnti, i cui esponenti però hanno votato tutti Veltroni alle primarie. I popolari addirittura sono in maggioranza con lui e infatti si sono spartiti i posti importanti in Parlamento. Che vuol dire? Più che la politica o l’idealità potè la gestione del potere, la volontà di trattare da posizioni di forza, o di segnare il territorio come i cani. Il male non sono le correnti, il male è la balcanizzazione che secondo me è in atto. Per colpa di chi? Questa situazione deriva da un difetto di leadership: debole, indebolita, incapace gestire il potere interno in maniera condivisa. Eppure tutti si affannano ad assicurare che Veltroni è solido, non si discute. Il vero dramma è questo: c’è una battaglia nel gruppo dirigente, ma non si può mettere in campo un cambio di leadership. La scelta delle primarie è ancora troppo recente ed enfatica e non c’è ancora un candidato alternativo: il Pd non ha la possibilita di cambiare l’allenatore. Per adesso. Sarà così fino alle europee. Però già ci si prepara. Del resto così come è oggi il partito non è sostenibile: uno dei prossimi passaggi formali è proprio darsi un gruppo dirigente eletto e rispettato. Enzo Bianco dice che Veltroni ha la tendenza a circondarsi di collaboratori, invece che di dirigenti. E poi non si capisce perché non ha fatto Bersani capogruppo: rafforzava il gruppo dirigente, incassava l’ingresso di un pezzo da novanta, si faceva amico un potenziale competitore. Invece la parola d’ordine è
«La leadership è debole, il partito si balcanizza» colloquio con Antonio Polito di Susanna Turco
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L’esplosione delle correnti è il segno dell’incapacità di una gestione condivisa. E il dramma è che l’allenatore non si può ancora cambiare. Ma tutti si preparano per il dopo europee “congelare”. Ai poveri parlamentari peones hanno presentato dei pacchetti già fatti, che non erano nemmeno un accordo fra correnti, ma soluzioni di mediazione tra maggiorenti. Ma così non va, alla lunga il partito esplode. D’Alema continua a insistere sul tema delle alleanze. Da parte veltroniana si continua a dire che però indietro non si torna. Lei che ne pensa? Quella sulle alleanze è una discussione finta: ognuno si sceglie un termine per utilizzarlo come una bamboletta voodoo su cui infilzare gli spilloni. D’Alema sa che non si puo rifare l’Unione e Veltroni sa che non si può restare da soli. Nel complesso, è una mimesi per non parlare della guerra in atto nel gruppo dirigente. Non le fa effetto che si continui a disquisire del duo D’Alema-Veltroni nel 2008? Quel che mi fa effetto è la scomparsa della componente politica della Margherita. Che è stata o liquidata con la sconfitta di Rutelli a Roma o fagocitata con la partecipazione consapevole dei popolari al gioco di potere interno agli ex Ds. Non sorprende quindi che si tratti del dualismo Veltroni-D’Alema, perché siamo tornati ai Ds, solo più larghi di prima. Quella che doveva essere una fusione non è avvenuta: c’è stato processo di fa-
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gocitazione. Lei, da ex rutelliano, come si spiega questo risultato? La Margherita ha fatto un grave errore a Fiuggi, quando i popolari hanno deciso di presentarsi da soli all’incontro con i Ds, di fatto liquidando l’esperienza della Margherita. Un grave errore, perché quella formazione sarebbe stata un potente reagente, il lievito, lo spermatozoo che avrebbe consentito la fecondazione: in sua assenza, abbiamo assistito a una partenogenesi. In questo panorama non confortante vede margini di recupero? Certo: la luna di miele di Berlusconi finirà, gli sarà difficile soddisfare l’enormità delle richieste che gli elettori gli hanno messo sulle spalle. Nel medio periodo, il governo perde la maggioranza dei consensi nel Paese. Acquattarsi tra le zampe del “mostro” aspettando che muoia non pare una prospettiva stimolante. Non c’è solo questo. Tanta gente ha votato Berlusconi suo malgrado, da questo punto di vista il Pd ha margini di recupero: deve rimettersi in sintonia col Paese reale, radicarsi intorno agli interessi delle persone. Spesso nel centrosinistra si fanno errori ideologici, come è stato quello di cambiare la Biagi, e si finisce per alienarsi strati sociali inte-
ri. Un altro esempio? Se candidi Colaninno o Calearo vuol dire che non hai capito cosa è quel mondo al quale ti vuoi rivolgere. Ecco: sono ottimista perchè penso che errori così non potranno ripetersi. Ma lei come lo immagina il Pd fra tre anni? Intanto bisogna vedere se ci sarà, non lo darei per scontato. Nel territorio ci sono interi gruppi dirigenti locali che fanno politica per stare al governo: il rischio di una loro diaspora c’è. E poi, non sappiamo come potrebbe rispondere il corpo elettorale del Pd a una seconda batosta elettorale alle europee. In giro ci sono tre milioni di voti non rappresentati, quelli della sinistra: se non ci riesce il Pd nel suo complesso, qualcun altro potrebbe provarci. Ipotizza una scissione? Non arrivo a tanto, ma un D’Alema che domani vuol far rivivere la sinistra, o un popolare che vuole ricostruire orgoglio cattolico magari facendo una alleanza con l’Udc... Nessuno può dire cosa sarà del Pd. In tanti oggi parlano della necessità di un dialogo coi centristi. A parte l’ordinaria amministrazione parlamentare, non credo sia una grande esigenza: Piuttosto si deve aprire il dialogo con gli elettori moderati. I dati sui flussi elettorali sono impressionanti: il Pd ha drenato voti dalla sinistra ma ha perso molto verso l’Udc. E il problema non si risolve inglobando i centristi: dai socialisti ai popolari e la Margherita, il partito continua a inglobare, ma sempre lì resta, sempre al 33 per cento. La realtà è che non è un problema di nomenclature, ma di voti.
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mondo
Per uscire dall’isolamento internazionale Damasco cerca nuovi rapporti con le nazioni occidentali senza rivedere l’alleanza con Teheran e il sostegno dato ai gruppi fondamentalisti. Sopra Imad Mughniyeh ucciso in Siria a febbraio
Il dialogo tra Israele e Siria passa per Ankara ma non tutti lo vogliono
Intrigo internazionale per il Golan di Antonio Picasso i pensava che fosse un capitolo chiuso, invece delle presunte attività nucleari siriane se ne è tornato a parlare. E oggi costituiscono il nodo più recente di una complessa serie di questioni di cui la Siria è protagonista. Da una parte fanno da ostacolo sul piano delle trattative con Israele per la restituzione del Golan. Dall’altro vanno a inserirsi in un già precario equilibrio di politica interna, nelle cui acque Damasco è costretta a “navigare a vista”.
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La cosiddetta “crisi dei jet”, nata a settembre 2007 dal bombardamento di un’infrastruttura militare siriana da parte dell’aviazione israeliana, aveva messo in guardia la comunità internazionale in merito ad alcune probabili ambizioni nucleari nutrite da Damasco e alimentate dalla Corea del Nord. L’episodio era stato oggetto, nelle settimane successive, di vivaci polemiche. Suscitò curiosità soprattutto la mancanza di una qualsiasi reazione. Al raid aereo israeliano, ammesso solo in un secondo momento dalle forze armate israeliane, fecero seguito le formali proteste della diplomazia siriana in sede ONU. Ma nulla più. Quello che poteva costituire il casus belli per un nuovo conflitto tra i due Paesi – a rigor di logica si trattava di una palese operazione militare – non diede vita alle ripercussioni temute. Inoltre risultavano poco chiare le modalità del coinvolgimento della Corea del Nord. Inizialmente si ipotizzò che Pyongyang avesse passato informazioni a Washington, in linea con gli accordi bilaterali per lo smantellamento delle centrali coreane. Restava però in sospeso la domanda su come e perché la Co-
rea del Nord avrebbe aiutato la Siria in una sua corsa al nucleare. Adesso però la questione ha guadagnato nuovamente gli onori della cronaca grazie alla pubblicazione, da parte degli Stati Uniti, di un video in cui si vedrebbe l’installazione di un reattore, presso la base colpita dal bombardamento.Tuttavia il nodo della questione non è tanto la veridicità o meno delle ambizioni nucleari del regime siriano – sarà l’inchiesta dell’Aiea a confermala o meno – piuttosto sulla tempistica. Per quale motivo, a più di sei mesi di distanza, si torna a parlare di un episodio che già allora aveva lasciato perplessi gli osservato-
Tornare a parlare della “crisi dei jet” quindi altro non è che un ostacolo alla risoluzione del contenzioso tra i due Paesi. Ma cui prodest? A chi giova irrigidire i rapporti a tal punto da rischiare un nuovo scontro?
Per Damasco una guerra non è certo la prima tra le ambizioni. Il suo impegno attuale, per giungere alla restituzione del Golan ed eventualmente per tornare a influenzare il vicino Libano, è dichiaratamente politico e non militare. A questo si associa il malcelato desiderio di svincolarsi dalla scomoda alleanza con l’Iran. Va aggiunto, come ulteriore sintomo di disponibilità di Damasco, la scelta di aver ospitato l’incontro fra il leader di Hamas, Khaled Meshal, e l’ex Presidente USA, Jimmy Carter. Lo stesso va detto di Israele. Impegnata com’è nella striscia di Gaza, l’apertura di un fronte a nord creerebbe una situazione analoga a quella della guerra del 2006, quando si trovò invischiata in due operazioni militari difficili da gestire contemporaneamente. Il fatto inoltre che all’ondata di violenza di cui è vittima la popolazione di Gaza siano seguite esclusivamente le dichiarazioni di formale protesta da parte dei governi arabi e degli stessi palestinesi, fa pensare che il governo Olmert disponga di più mano libera di quanto si creda. Ed ecco spiegato il motivo della scarsa insistenza da parte di Israele sulle possibili o meno ambizioni nucleari siriane. A tutto questo fa da sfondo la salute del
Asse nucleare con la Corea del Nord, tensioni in politica interna e strani arresti. Il regime di Bashar el-Assad verso l’instabilità ri più attenti e che, proprio per questo, sembrava destinato a essere insabbiato? Non può essere una semplice coincidenza il fatto che, proprio in queste settimane, le trattative tra Israele e Siria, sulla restituzione delle alture del Golan, con la mediazione della Turchia, stiano toccando un nuovo livello di sviluppo. Certo, il cammino per un accordo è ancora molto lungo, ma l’ottimismo espresso dal governo di Ankara – e soprattutto il fatto che questo non sia stato smentito – fa pensare che alcuni passi concreti si stiano compiendo davvero. E non è un caso che lo stesso ministro della Difesa israeliano Barak,“per non alimentare le speculazioni sull’incognita nucleare”. abbia rimandato il suo viaggio in USA.
regime di Bashar el-Assad. Interessante è infatti notare come le sue linee guida siano dettate più dalla necessità di sopravvivere, rispetto a desideri espansionistici, che invece giustificherebbero una corsa agli armamenti. Damasco sta attraversando una nuova fase di preoccupante incertezza. Resta da scoprire il motivo del presunto arresto – reso noto dall’opposizione – del cognato di Assad, Asef Shawqat, esponente dell’ala più oltranzista del regime e indiziato numero 1 per l’attentato che nel 2005 uccise dell’ex premier libanese Rafiq Hariri. Il fermo dell’alto ufficiale sarebbe stato determinato dalla denuncia di aver ordito un golpe sostenuto dall’occidente. Ad avanzare l’accusa sarebbe stato Imad Mughniyeh, il responsabile per la sicurezza di Hezbollah ucciso a febbraio nella stessa capitale siriana. Si aggiunge poi la recente protesta di alcuni giovani ufficiali alawiti – minoranza islamica alla quale peraltro appartiene Assad – contrari, come si legge in un loro comunicato stampa,“alla tirannia e alla corruzione”del governo e intenzionati a dare “una coscienza politica”al loro Paese. Entrambi gli episodi non fanno altro che confermare le incognite sulle conseguenze che potrebbero sorgere dall’eventuale caduta di Assad. Non è azzardato quindi prevedere che la questione nucleare, proprio sulla base di questi dubbi, torni a essere insabbiata. Certo, l’inchiesta dell’Aiea è solo all’inizio, ma anche una sua conferma quanto potrebbe pregiudicare un processo di pace il cui successo è auspicato da molti? Analista Ce.S.I. Centro Studi Internazionali
mondo
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Domenica si vota a Belgrado per decidere il futuro del Paese balcanico
Serbia di nuovo in mezzo al guado d i a r i o
di Angelita La Spada omenica prossima, per la seconda volta nel giro di tre mesi circa 6,7 milioni di serbi dovranno votare a favore o contro una Serbia più vicina all’Unione europea e convalidare oppure cassare le precedenti scelte. E non solo.
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Le forze nazionaliste e quelle filo-occidentali cercheranno di fare di queste legislative anticipate un vero e proprio referendum sul Kosovo o sull’Europa. Il premier Vojislav Kostunica sostiene che il governo sia caduto perché i partner della coalizione non erano concordi sulla questione kosovara. Il riconfermato presidente Boris Tadic attribuisce la crisi del gabinetto serbo alla mancanza di accordo tra i membri governativi sull’integrazione europea. I nazionalisti, dal canto loro, arguiscono che l’Ue dovrebbe operare una scelta tra Kosovo e Serbia, mentre Tadic reputa che Belgrado può avere tanto il Kosovo quanto l’integrazione europea. È oramai insormontabile il divario esistente tra il blocco europeista guidato dal Partito democratico (Ds) di Tadic e quello popolare, cui fa capo il Partito democratico della Serbia (Dss) di Kostunica. Il Ds reputa possibile proseguire lungo la strada che conduce a Bruxelles, a prescindere dal Kosovo, grazie a una diplomazia e a una politica a doppio percorso, in cui il rifiuto della Serbia di riconoscere l’indipendenza del Kosovo non influenzerebbe né ostacolerebbe il processo di avvicinamento all’Ue. Processo attuabile, passando attraverso la firma dell’Accordo di associazione e stabilizzazione (Asa). Al contrario, il Dss sostiene che sia vana la possibilità di seguire questa politica a doppio percorso, a seguito del riconoscimento del Kosovo da parte dei maggiori paesi europei e dell’invio da parte dell’Ue della task force Eulex. Il Dss, unitamente al Partito radicale, considera il processo di integrazione all’Unione europea un mezzo per conseguire un fine e non il fine in se stesso. Così facendo, essi ritengono sia sconveniente porre sullo stesso piano una questione di natura giuridica e tecnica – quale è l’ingresso di un Paese in un’associazione regionale – e l’interesse nazionale di Belgrado – vale a dire la preservazione dell’integrità territoriale e la sovranità del paese. Il che induce a pensare che ogni futuro governo serbo dovrà dire apertamente all’Ue che
la Serbia è pronta a percorrere il processo d’integrazione, a patto che esso si basi su una chiara ammissione da parte di Bruxelles di accettare l’ex paese jugoslavo nella sua interezza, Kosovo incluso. È utopistico supporre che ciò accadrà. Per i 27 non sarà più possibile farlo, dopo il riconoscimento dell’indipendenza proclamata da Pristina. In quest’ultimo scorcio di campagna elettorale i sondaggi rilevano che l’elettorato serbo è estremamente polarizzato. Gli ultranazio-
In tre mesi è la seconda volta che si va alle urne. Il dilemma è lo stesso, con Mosca o con Bruxelles? nalisti (Srs) conducono gli esiti demoscopici con il 36,5 per cento degli appoggi, seguiti dal blocco filoeuropeo guidato dal Ds e favorito dal 33,5 per cento. In terza posizione, il Dss appoggiato da un 12 per cento, mentre il Partito liberal-democratico si è accaparrato l’8 per cento dei favori. Lo stacco dei radicali si potrebbe spiegare, asserendo che essi abbiano beneficiato dei sentimenti di rabbia e frustrazione nutriti dalla popolazione serba in seguito all’appoggio offerto al Kosovo da parte dell’Occidente. Il punto nevralgico di frammentazio-
d e l
g i o r n o
ne dell’elettorato è costituito dai rapporti con l’Ue. Da pochi giorni Belgrado ha varcato l’anticamera di un’adesione vera e propria all’Unione europea con la sigla dell’Accordo di associazione e stabilizzazione, sebbene la sua ratifica e l’applicazione saranno condizionate al soddisfacimento del criterio della piena cooperazione con il Tribunale penale internazionale dell’Aja per i crimini commessi nella ex Jugoslavia (Tpi), in particolare per facilitare la cattura di Ratko Mladic, uno dei più importanti ricercati del Tribunale. Una simile procedura fu adottata per la firma dell’Accordo di pre-adesione con la Croazia, che divenne pienamente operativo solo dopo la cattura del criminale di guerra Ante Gotovina.
Libano sull’orlo della guerra civile
Una Serbia che emergereb-
Per Benny Morris bisogna utilizare tutti i mezzi per impedire la bomba atomica iraniana. Il professore di storia all’Università Ben Gurion non ha dubbi. Il vero problema per Israele non sono i palestinesi e nemmeno Hamas, ma Teheran che entrando in possesso della bomba la userà contro lo stato ebraico, «Israele è piccolo e può essere distrutto facilmente». L’Iran invece ha sparpagliato i propri impianti in un vasto territorio, da rendere impossibile un attacco convenzionale. Per cui Israele di fronte al nucleare militare iraniano, deve essere pronto ad usare anche le proprie atomiche. Morris ritiene che Hamas non svolgerà sempre il ruolo del “cavalier servente” di Teheran. «È un movimento sunnita e non sciita ed è meno antisemita dell’Iran».
be da una nuova alleanza nazionalista potrebbe demonizzare coloro che discordano con la linea sciovinista e con gli impulsi isolazionisti di Kostunica, incoraggiare gli aneliti secessionisti della Republika Srpska e rafforzare i legami con Mosca. Se in alternativa, le forze filo-occidentali formassero un governo debole, ad esempio con l’appoggio dell’Sps, il paese potrebbe aspettarsi lo stesso clima di instabilità interna avutosi con il governo uscente. A prescindere dall’esito elettorale, il futuro scenario serbo sarà caratterizzato da un’inefficace governance. I tempi di formazione del nuovo governo potrebbero procrastinarsi addirittura di mesi. Se il Ds dovesse mettere insieme una coalizione, bisognerebbe attendere settembre per un nuovo gabinetto, lasciando per tutta l’estate a Kostunica il controllo del governo e della politica in fatto di Kosovo. L’obiettivo di stabilire maggiori legami con l’Ue potrebbe essere dettato più da una necessità finanziaria che da qualsiasi reale simpatia politica nutrita dall’elettorato serbo nei confronti di Bruxelles. Nessun governo post-Milosevic è riuscito a fare della Serbia un paese democratico. In un simile contesto, siglare l’Asa o concedere all’ex repubblica jugoslava lo status di candidato all’Unione europea non farà svanire le opzioni dei radicali. Piuttosto che eliminare le minacce a breve termine, Bruxelles dovrebbe sviluppare delle politiche che incoraggino la democratizzazione e l’europeizzazione della nazione serba.
La decisione presa dal governo libanese di destituire il generale Wafic Choucair dal suo ruolo di responsabile della sicurezza dell’aeroporto di Beirut, equivale a «una dichiarazione di guerra», contro gli sciiti libanesi. L’intervento del leader della formazione islamista libanese Hezbollah, getta altra benzina su un fuoco che da lunedì rischia di incendiare tutto il Paese dei cedri. Ieri pomeriggio è stato Narsallah ad avvertire che la crisi libanese stava entrando «in una nuova pericolosa fase». Il giorno prima il mutfi della repubblica aveva invece messo in guardia gli sciiti. «La pazienza dei sunniti ha dei limiti», aveva dichiarato Mohammed Rachid Qabbani.
Pakistan prova missile da crociera Dopo il test indiano, arriva puntuale la risposta dell’arcinemico di Delhi. Martedì Islamabad ha provato con successo un missile da crociera a testate nucleari. Si tratta del settimo test missilistico effettuato quest’anno dal Pakistan. Il missile del tipo Ra’ad, tuono, ha una gittata di 350 chilometri. Il giorno prima l’India aveva testato un missile nucleare di 3mila chilometri di gittata. Nel quadro delle trattative di pace, iniziate nel 2004 e ancora in corso, India e Pakistan hanno il dovere di informarsi reciprocamente e in anticipo dei rispettivi test militari.
L’Iran è il vero problema per Israele
Putin capo del governo russo Di fronte alla presenza del presidente federale Medvedev, la Duma russa ha confermato la nomina di Putin primo ministro con l’87 per cento dei voti dei deputati presenti. Solo i comunisti hanno negato il consenso all’ex capo dello stato.
Nuovo dialogo tra Cina e Tibet Rappresentanti del governo cinese e di quello tibetano in esilio, dovrebbero riprendere le trattative formali interrotte lo scorso anno. Questo è quanto ha dichiarato l’inviato del Dalai Lama a Pechino, Kasur Lodi Gyaltsen Gyari. La data in cui dovrebbe partire il settimo round del dialogo formale, sarà fissata in maniera consensuale dopo ulteriori consultazioni. Anche se nelle recenti trattative, le due parti hanno fatto mostra di «punti di vista molto differenti», il leader spirituale dei buddisti ha espresso il suo sostegno ai giochi olimpici cinesi.
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speciale approfondimenti
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È ancora attuale il pensiero dello statista ucciso trenta anni fa dalle Brigate Rosse?
ALDO MORO
NOSTALGIA DELLA POLITICA colloquio con Mino Martinazzoli di Riccardo Paradisi
ROMA. A trent’anni dal suo assassinio si è detto praticamente tutto di Aldo Moro. Eppure in tutto ciò che è stato detto su di lui, del suo profilo intellettuale, della sua visione politica, dei giorni tragici del suo rapimento e della sua morte, qualcosa di essenziale sembra sfuggire. Sfugge l’uomo Aldo Moro. La sua complessità, il fatto che se le risposte che dava con la politica del suo tempo sono superate restano aperti gli interrogativi che il pensatore Moro poneva. Di questo aspetto abbiamo parlato con Mino Martinazzoli segretario della Dc dal 92 al 94, gli anni forse più drammatici della storia del partito. Più volte ministro, fondatore del Partito popolare, Martinazzoli nel 1978, l’anno del rapimento e dell’omicidio di Moro, era presidente della Commissione in-
vamento della Renault ci giunge li, un posto frequentato da molti parlamentari. Ci siamo subito messi a correre verso via Caetani in un’atmosfera particolarissima. Nelle strade c’era un fiume di gente che si dirigeva verso il feretro di Moro. Nella Dc c’era la percezione che l’esito potesse essere la morte del presidente? Io personalmente non ho mai avuto la percezione che la morte di Moro fosse inesorabile. Avevo fiducia nel fatto che le trattative in corso portassero a qualcosa. Nell’aprile del ‘78 ricordo di avere rilasciato un’intervista a Panorama dove dicevo che era necessario trattare per prendere tempo nella speranza che si riuscisse a identificare il covo dove Moro era tenuto prigioniero. Qual è il suo ricordo per-
Oggi che le democrazie sono svuotate Moro parlerebbe di necessità della politica
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quirente per i procedimenti d’accusa. Il 9 maggio del 1978 le Br fanno trovare la salma di Moro in Via Caetani a Roma. Lei dov’era onorevole nel momento i cui quella giunse la notizia? Ero appena uscito dal mio ufficio della commissione inquirente di cui ero presidente e stavo per accomodarmi con degli amici in una trattoria in via del Vicario. La notizia del ritro-
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sonale di Moro? Mi colpivano la sua gentilezza e la sua delicatezza. E il fatto che a differenza di come era dipinto da chi lo criticava – un levantino, un dottor Sottile – la gente gli voleva bene. Quando venne a tenere un comizio nel mio paese, Orzinuovi nella provincia bresciana, lo aspettavano centinaia di persone che guardavano a lui con simpatia, con affetto. Insomma un uomo che da tanta polemica saccente era considerato indecifrabile e
enigmatico era amato dalla gente umile che riconosceva la sua statura. Era un uomo educatissimo, dei distinto.Uno miei pensieri amari è ancora immaginarlo nella prigione del popolo delle Br, in questa promisquità, lui che andava anche in spiaggia in giacca e cravatta. E il suo ricordo dell’uomo politico? Il pensatore politico più importante che la Dc abbia avuto. Trovava il bandolo anche quando la matassa era così aggrovigliata da far disperare. Nella crisi del centrosinistra già intravedeva il percorso e la possibilità di un approdo alla democrazia dell’alternanza. Nell’ultimo discorso che fa, nel febbraio del 1978, Moro cerca di convincere i dirigenti Dc dell’opportunità di un governo coi voti del Pci. Mario Segni, che era contrario a questa idea dell’ingresso dei comunisti nel governo, disse non sarebbe allora più dignitoso andare all’opposizoine? Moro gli rispose: «E all’opposizione di che». Moro aveva questa lenta capacità di persuasione per ammorbidire l’ostacolo. In quell’ultimo discorso il suo modo era quello di trovare un punto di debolezza perché le sue opinioni diventassero più convincenti. Si è parlato molto della possibilità che lo statista Dc potesse essere salvato,
A sinistra Mino Martinazzoli A lato i parlamentari della Democrazia Cristiana al Congresso del 1949 con Alcide De Gasperi (l’ultimo a destra è Aldo Moro) che a condannarlo fu la rigidità del fronte della fermezza Dc-Pci. È d’accordo? Io respingo l’idea, che pure ha avuto corso in questi trent’anni, che Moro sia stato ucciso dalla Dc e non dalle Br. La ritengo inaccettabile e assurda. Detto questo la decisione di adottare la linea della fermezza ha indubbiamente pesato sull’andamento della vicenda. Peraltro debbo dire che a me non pare fosse così catafratta la posizione della Dc. Molti tentativi di mediazione ci sono pure stati. E non del tutto sterili se si pensa che anche all’interno delle Br si ingenerò una dialettica accesa sulla decisione di uccidere o no Moro. Di Moro si parla oggi come l’uomo del dialogo ma anche come del padre del consociativismo e come il figlio di un contesto politico ambiguo, caratterizza-
to da una generale mancanza di rigore. Moro era anche queste cose? Io ho sempre considerato questo tipo di giudizi come il frutto di un’incomprensione profonda della natura della personalità di Moro. Incomprensione nata in un tempo di polemica politica accesa, a tratti furente. Di questo presunto bizantinismo di Moro, ne parlavo con il mio amcio Indro Montanelli, gli dicevo che ritenevo spiacevoli tanti suoi giudizi sferzanti come quello che Moro era l’uomo della parole complicate con cui copriva il vuoto dell’azione. Non era così, la dialettica di Moro, come dicevo prima, aveva il senso di una metrica persuasiva, paziente, che stringeva il nucleo del problema in cerchi sempre più stretti. Se ci sono dei limiti nella politica di Moro, e ci sono, non sono addebitabili a questo suo presunto levantinismo.
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Ammetterà che alcuni suoi ragionamenti apparivano enigmatici, involuti. Descriveva una realtà involuta, complicata, tremendamente difficile. Sceglieva di non semplificare, di rispecchiarla per quello che era. Diceva dei limiti politici di Moro. Quali sono stati? Moro è stato un pensatore politico, ma era a tutto tondo un politico. Un uomo che non si limitava dunque a riflettere ma che doveva agire. Aveva dunque la necessità di fare le cose con la materia che c’era, tesseva col filo che trovava. E spesso ce n’era poco, e di non grande qualità. Voglio dire che a un certo punto Moro poteva apparire come il demiurgo di una materia che non consentiva di essere plasmata. Per esempio? Moro aveva immaginato il compromesso storico, lo aveva preparato, lo aveva calato nella realtà, ma questa realtà era riottosa a un’evoluzione del genere. Lui se ne rendeva conto ma spingeva lo stesso in quella direzione. Però la mattina del sequestro non si sapeva che il Pci avrebbe dato la fiducia. La soluzione venne affrettata da quanto era accaduto in Via Fani. D’altra parte nelle sue lettere dalla prigionia, nelle più dure contro la Dc, questa rabbia rimossa sul ritardo della Dc, sulle riottosità del partito, di cui lui era evidentemente consapevo-
le, affiora in modo molto forte. C’è un’altra versione che circola su Moro dopo la sua morte, soprattutto a sinistra: Moro l’antagonista, il grande accusatore dell’immoralità della Dc. Ma fu Moro che si alzò in Parlamento per dire che la Dc non accettava di essere processata. Non proprio un giustizialista ante litteram quindi. Moro entra a 29 anni nella Costituente parla senza complessi di inferiorità con Nenni, con Croce, spiega quelli che secondo lui devono essere i fondamenti della nuova Costituzione. Ha una visione alta ma laica della politica. Realistica, senza scorciatoie giustiialiste o moralistiche. «Lo so anchi’io, dice, che la politica è un fatto di forza ma ci sarà pure una misura morale con cui si esercita il potere». È una riflessione religiosa: Cristo o Machiavelli, avrebbe detto Prezzolini. Moro sapeva che l’azione politica per un cristiano è un rischio: una cosa doverosa e impossibile. La politica cristiana si alimenta di un non appagamento continuo, dello sforzo di cavare qualcosa di buono dalle cose avendo di fronte sempre la prospettiva di un processo storico di liberazione umana. Ma in Moro, come politico cristiano, c’era anche l’idea del limite della politica che può sviluppare il valore umano ma non lo crea. Dalla morte di Moro tutto è cambiato: il panorama internazionale, i soggetti politici, la società. Che sguardo avrebbe oggi sulla società e la politica italiana? Uno sguardo malgrado tutto ottimista io credo. Moro aveva la capacità di cogliere gli aspetti evolutivi delle situazioni. Nel 1968, nel 1969 Moro è il politico italiano che meglio riesce a cogliere i fermenti positivi di quanto sta accacdendo. Moro non avrebbe guardato con sospetto nemmeno oggi il suo Paese. Certo, avrebbe còlto che il vento che tira va in una direzione diversa a quella che era la sua navigazione, al suo obiettivo di allargare la quantità democratica nella sfera della decisione. Che oggi si è contratta? Oggi l’interrogazione è a che punto è la notte della democrazia, la sua crisi. Moro ha pensato lo Stato democratico, tanto da essere stato accusato di averlo pensato con troppa politica. Ma oggi assistiamo allo svuotamento della politica come del resto Giulio Tremonti ha colto bene nel suo libro. In questo, nella necessità di una politica alta e pensata, Moro è attualissimo. Su questo andrebbe ancora interrogato.
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speciale approfondimenti
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Identikit di un uomo che ha incarnato un’espressione storica
La Dc era lui di Sergio Valzania n collega, laureato in giurisprudenza alla Sapienza, mi raccontava delle lezioni di Aldo Moro professore. Fissati in orari agevoli per gli studenti e non nascoste nelle brume dell’alba o nelle ombre della sera gli appuntamenti erano rispettati dal docente con attenzione e rigore. Al loro termine se era appena possibile Moro si fermava a discutere con chi voleva parlare con lui tenendo
U
il programma Alle 8 della Sera, il suo rapporto con lui, in una biografia che oggi esce a stampa per i tipi della Sellerio, come sedicesimo volume della collana tratta dalla trasmissione radiofonica. Come ci si poteva aspettare la testimonianza di Guerzoni è del tutto particolare, è quella di un uomo che faceva parte del circolo più ristretto dei collaboratori di Aldo Moro e che si trovava al suo fianco in molti dei momenti
Guerzoni: «Sapeva interpretare il desiderio di una società dotata di caratteri ben definiti» occupata l’aula, tanto che la lezione successiva spesso stentava a cominciare. Ebbene, questo collega mi assicurava che quasi sempre Moro arrivava in facoltà accompagnato da Corrado Guerzoni e con lui se ne allontanava.
In occasione del trentennale dell’uccisione del leader democristiano Guerzoni ha accettato di raccontare in venti puntate su Radio2, per
qualificanti della sua carriera politica, fino a rimanere fra i pochi stretti a fianco della famiglia nei giorni tragici del suo sequestro e in quelli tremendi successivi al suo assassinio. Corrado Guerzoni non ha quindi la freddezza e il distacco dello storico di professione o del cronista quando racconta la vita e la morte di un uomo che per lui era insieme maestro di politica, leader
ideologico e capo operativo. Ha invece tutto il calore della partecipazione di chi era affezionato al leader democristiano e condivideva appieno il suo progetto politico. Nel libro il pensiero di Aldo Moro uomo di stato non ha niente di astratto, non è parte di una teorizzazione, di una speculazione filosofica, emerge invece dalla trama quotidiana dei suoi comportamenti, dall’insieme delle sue scelte politiche e dal modo con il quale le spiegava ai suoi collaboratori.
Nel
raccontare
Moro,
Guerzoni spiega anche le ragioni profonde della Democrazia Cristiana, aiuta a comprendere la grandezza, e i limiti, di una forza politica che ha guidato l’Italia attraverso un mutamento di proporzioni enormi e che solo alla fine, dopo quasi cinquant’anni di governo ininterrotto del paese ,si è ritrovata senza il largo consenso elettorale che ne aveva segnato l’esperienza fin dal 1945. Secondo Guerzoni Moro interpretava al meglio la tensione democristiana fra il progetto politico, il desiderio di una società ideale dotata di caratteri definiti, e la consapevolezza dei limiti insiti
nelle realtà sociali, del tempo necessario per l’elaborazione di un disegno condiviso da far crescere all’interno del sistema democratico di un paese in rapida trasformazione. Molto interessanti le pagine dedicate al rapporto di Moro con i comunisti. La testimonianza di Guerzoni è chiara: lo statista democristiano immaginava di attraversare un periodo di collaborazione diretta di governo con il Pci che doveva costituire la premessa per un nuovo decisivo confronto elettorale fra i maggiori partiti italiani, sull’esempio di quella vinto da De Gasperi il 18 aprile del 1948. Sul rapimento e la morte di Moro il giudizio di Guerzoni è durissimo. Sostiene infatti che «non si fece nulla per salvare Moro, che non si fece nulla per trovare il rapito e la sua prigione. Se qualcosa si fece sul piano dell’ordine pubblico lo si fece male. L’interrogativo – se fu per incapacità, per distrazione, per
dolo – rimane e non ha trovato finora risposta».
Certo lo Stato Italiano non dette buona prova di sé nei cinquantacinque giorni della detenzione di Aldo Moro, ma Guerzoni racconta qualcosa di più sulle emozioni di quel momento attraverso il ricordo di un evento crudele e preciso: la corsa in macchina insieme ai familiari per salutare la salma dello scomparso prima dell’inizio dell’autopsia. In quelle pagine la forza tragica dei fatti e la sintesi narrativa del testo esprimono in modo esemplare il dramma che si era consumato: «Il cadavere quando ci fu mostrato era rattrappito sulle gambe piegate, ancora vestito come era stato trovato nella macchina in via Caetani». «Quando spostarono il cadavere, quelle gambe ripiegate sospese qualche attimo per aria sembrava fossero rivolte al cielo in una grottesca ginnastica irrigidita per sempre».
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In un libro di Giorgio Guidelli la storia dell’automobile nella quale fu ritrovato il cadavere dello statista Dc
Quella Renault rossa finita in un garage di Macerata ROMA. «Allora lei deve comunicare alla
ro Guidelli si trova davanti un articolo pubblicato il 10 maggio del 1978: «Era targata Macerata l’auto col cadavere dell’onorevole Aldo Moro», è il titolo del pezzo. Il giorno dopo il Carlino torna sulla notizia e titola, «È di Serravalle il proprietario dell’auto con la salma di Moro. Da oltre dieci anni vive e lavora a Roma ma d’estate e durante la stagione venatoria ritorna al suo paese. Il nome dell’uomo è Filippo Bartoli, 42 anni, operaio, residente a Roma da una decina d’anni…». A Guidelli si accende una lampadina: Bartoli potrebbe avere ancora quell’auto o sa dove è finita visto che gli sarà stata riconsegnata. A questo punto il cronista fa la cosa più semplice: guarda le pagine bianche su Internet, di Filippo Bartoli ce n’è uno solo. Telefona e trova il proprietario della Renault. L’auto, dice Bartoli al cronista, la tiene ancora con lui, la custodisce nel garage di casa, avvolta da un telone. Guidelli convince Bartoli a esporre quell’auto alla macchina di un fotografo che viene mandato da Macerata. Il Carlino pubblica con grande evidenza la notizia.
famiglia che troveranno il corpo dell’onorevole Aldo Moro in via Caetani. Via Caetani. Lì c’è una Renault 4 rossa…». La voce al telefono è quella di Valerio Morucci è lui che la mattina del 9 maggio 1978 a nome delle Brigate Rosse annuncia che il cadavere del presidente della Democrazia cristiana si trova dentro il bagagliaio di un auto parcheggiata tra via delle Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. Dopo 55 giorni di prigionia – Moro è stato rapito il 16 marzo del 1978 – le Br hanno eseguito dunque la sentenza che avevano annunciato. L’attesa, le tensioni, le contraddizioni dei quasi due mesi della prigionia di Moro – una vicenda che tiene il Paese in una dimensione sospesa e quasi irreale – ora si scarica e si concentra su quella Renault rossa, dentro il cui bagagliaio è raggomitolato sotto un plaid il corpo senza vita di Moro.
Davanti a quell’auto, che diventerà il simbolo del momento più drammatico degli anni di piombo, si addensa in pochi minuti tutta la classe dirigente della Prima repubblica. Muta, attonita, smarrita. È come se nel bagagliaio di quell’auto rossa – su cui convergono gli occhi di milioni di persone – non fosse finito solo il cadavere di Aldo Moro ma l’intero stato democristiano. Quel bagagliaio diventa la bara metallica di un’intera classe dirigente, un simbolo, una concreta metafora del momento più buio della storia repubblicana. Un reperto carico di storia, di angoscia, di interrogativi irrisolti: chi e quanti hanno voluto la morte di Moro? Quanti e quali sono ancora i misteri irrisolti, le omissioni, le coperture? Che parte hanno giocato le due grandi potenze internazionali nella vicenda del rapimento e dell’uccisione del presidente della Democrazia cristiana? Un simbolo scomodo quella Renault 4 e per questo rimosso. Sembra incredibile infatti ma quell’auto è stata dimenticata per trent’anni. Nessuno è mai andato a cercarla, si è domandato che fine avesse fatto. Nessuno tranne un giovane cronista del Resto del Carlino, Giorgio Guidelli, un giornalista curioso e attento alla storia degli anni di piombo che pochi mesi fa dopo un lavoro d’indagine paziente e ostinata ha riportato alla luce quell’auto. Scoprendo che la Renault in tutti questi anni è stata conservata a Roma da un operaio marchigiano trasferitosi nella capitale negli anni Sessanta a cui l’auto era stata rubata sul Lungotevere alla vigilia del rapimento di Moro. «Quella Reanult rossa era rimasta come tre decenni fa. Ancora con le tracce di sabbia che quell’uomo trasportava den-
di Riccardo Paradisi tro quell’auto. Che di fatto è rimasta insabbiata davvero, senza che per lo Stato costituisse un monito, una prova o un ricordo del tragico misfatto». L’auto insabbiata. La bara di Moro ritrovata 30 anni dopo (Quattroventi edizioni) è il libro dove a trent’anni esatti dal suo ritrovamento in Via Caetani, Guidelli racconta la storia dell’indagine giornalistica che ha portato alla scoperta della Re-
re in pubblico quell’auto da quella che fu la classe dirigente dell’epoca c’è solo la volontà di dimenticare e far dimenticare. «Da uno di loro e di fronte alla proposta di esporre quella Renault (o un solo suo frammento) nella viuzza del misfatto mi sono sentito rispondere che la faccenda è troppo delicata, qualunque dichiarazione si rilasci». Eppure ciò che è rimosso, come insegna la psicanalisi, non scompare. Si nasconde, magari per un po’, per poi tornare a galla.
«L’auto era rimasta come tre decenni fa. Ancora con le tracce di sabbia» nault 4 rossa, «simbolo e custodia di un corpo e d’un anima sacrificati alla Prima Repubblica». Un simbolo tenuto però lontano dalla memoria collettiva, un reperto appunto rimosso: troppo carico di brutti ricordi, forse anche di segreti pericolosi. E se persino da qualche brigatista, come Valerio Morucci, scrive Guidelli, è arrivata la proposta di espor-
Alla redazione del Carlino di Macerata c’è un ottimo archivio giornalistico. Guidelli ci passa intere serate dopo l’orario di lavoro per approfondire le ricerche sugli anni di piombo, un tema a cui ha già dedicato Operazione Peci e Terra di piombo lavori che sottolineano come le radici più importanti delle Br – Moretti è di Porto Sant’Elpidio, Peci di San Benedetto del Tronto – affondino proprio nelle tranquille Marche. Consultando i numeri del Carlino dei giorni del sequestro Mo-
È un colpaccio quello di Guidelli ma è anche un servizio che fa al Paese e una lezione di impegno civile la sua. Perché con l’auto di Moro riemergono dall’oblio i dubbi, i misteri, gli omissis. Come quello della sabbia. Tracce di sabbia furono trovate nella Renault 4. Si disse per questo che Moro potesse essere stato portato a Ostia per depistare le indagini o ucciso lì. Ma l’auto aveva sempre trasportato sabbia e bitumi visto che Bartoli la utilizzava per carreggiare quel materiale. Sembra un particolare insignificante, invece è inquietante. Nelle versioni ufficiali e in quelle dei brigatisti c’è sempre del resto qualcosa che non torna. Qualche verità che fatica a venire fuori. Sarà per questi interrogativi inquietanti che a differenza di altri reperti – come l’A112 in cui furono uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie, o come il Morane Saulnier con cui saltò in aria Enrico Mattei – la Renault 4 di Serravalle di Chienti non è mai stata esposta. E ha continuato a rappresentare uno scheletro da nascondere, da non riportare più alla luce. Se da quell’oblio, dopo trent’anni è tornata fuori, si devono ringraziare un operaio marchigiano con il senso della memoria storica e un giovane cronista che da anni, con serietà e passione, scava nella nostra storia più buia per riportarne alla luce nessi e pezzi sepolti. La classe dirigente da parte sua preferisce dimenticare e, soprattutto, far dimenticare. Se su quegli anni si facesse finalmente un po’ di luce sarebbe bellissimo.
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economia
ampio consenso politico attribuito al PdL sarà condizione sufficiente per realizzare, finalmente, una vasta opera di digitalizzazione e di riorganizzazione della pubblica ammnistrazione, finalizzata a raggiungere standard accettabili di efficienza dei servizi, almeno in linea rispetto alla media europea? Fino ad ora, la particolare complessità del sistema burocratico italiano, l’insufficienza di investimenti strategici, ma anche una certa resistenza interna al rinnovamento istituzionale e all’innovazione tecnologica si sono rivelati ostacoli insormontabili. Questa volta, però, le condizioni del Paese non ammettono insuccessi.
L’
I cittadini gravati dagli effetti della crisi economica e dal peso di una eccessiva tassazione, avvertono oggi in modo più sensibile le disfunzioni dello Stato e non sono più disposti ad accettare i costi, le inefficienze e i ritardi del servizio pubblico come un tributo inevitabile da rendere alla burocrazia. Ma cosa significa riorganizzare e digitalizzare la pubblica amministrazione? Essenzialmente, rendere facilmente fruibili tutti i servizi e le informazioni di cui quotidianamente il cittadino ha bisogno, attraverso l’utilizzo di reti e tecnologia digitale, realizzando un sistema nazionale di “amministrazione pubblica digitale” (e-government). L’innovazione, in particolare nel settore dell’informazione e delle telecomunicazioni, è individuata quindi non solo come strumento sostitutivo di risorse manuali o obsolete, ma come fondamentale mezzo di partecipazione democratica alla vita delle istituzioni, tramite un nuovo modo di amministrare e di erogare servizi fondato sul dialogo, sulla consultazione dei cittadini, sulla condivisione dei contenuti (e-democracy). Da una forma di comunicazione monodirezionale di tipo divulgativo, l’amministrazione digitale deve consentire il passaggio a forme di comunicazione partecipata e interattiva, secondo la logica dei “blog”, al fine di uniformare i servizi alle concrete esigente degli utenti, consentendo loro di rilevarne la qualità percepita. Molte pubbliche amministrazioni, per la verità, hanno cominciato già da tempo a operare secondo tale impostazione, ma con progetti isolati, non coordinati e non integrati rispetto a un piano generale. Ciò ha determinato sovrapposizioni di funzioni e ruoli amministrativi, favorendo fenomeni di esclusione sociale di aree geograficamente o economicamente disagiate. Così parte della popolazione non ha accesso ai nuovi servizi digitali (digital-divide). Occorre che tutti i vari interventi, a livello nazionale e locale, si realizzino secondo un piano strategico condiviso, con un’azione di coordinamento governativa che eviti la frammentazione delle iniziative e la dispersione delle risorse e che favorisca l’integrazione virtuale di tutti i segmenti di processo, gestiti ancora separatamente da ciascuna struttura amministrativa. È inoltre necessario ampliare la platea dei destinatari dell’offerta telematica già esistente, tramite piani di alfabetiz-
Soltanto attraverso la tecnologia si potrà riorganizzare la pubblica amministrazione
Una burocrazia digitale per unire l’Italia di Gabriele Mastragostino zazione e accompagnamento alla fruizione dei servizi in rete, semplificazione delle interfacce e delle procedure di accesso e di incentivazione all’acquisto di personal-computer e di altri strumenti operativi. Tutte le amministrazioni dovranno dotarsi delle tecnologie di comunicazione più innovative (per esempio reti a banda larga, con sistemi wi-max, mobile, IP multimedia subsystem), capaci di rendere fruibili in tutto il territorio nazio-
utilità potranno contare su informazioni più complete, rapide e sicure. Per realizzare tali obiettivi, le banchedati pubbliche, di proprietà delle singole amministrazioni, dovranno essere pienamente accessibili: sia all’interno del circuito amministrativo sia all’esterno per favorire, attraverso l’interoperabilità e la cooperazione degli archivi, i processi decisionali delle pubbliche amministrazioni quanto una maggiore fruibilità dei servizi pubblici.
Reti a banda larga e multimedialità per rendere accessibili i contenuti e migliorare i servizi. Il nuovo governo deve lanciare un piano nazionale per evitare frammentazioni e sprechi di risorse nale i servizi digitali e di garantire l’interoperabilità dei sistemi, dei dati e delle informazioni.
Le attività di comunicazione e di intelligence delle forze dell’ordine, il controllo dell’evasione contributiva e fiscale, le attività di videosorveglianza, il monitoraggio della mobilità e della viabilità dei cittadini, l’assistenza a malati e anziani, il controllo dei livelli d’inquinamento e molti altri servizi di pubblica
L’uso della tecnologia telematica impone ovviamente una particolare salvaguardia della integrità e dell’autenticità delle informazioni trasmesse nonchè della privacy e dei diritti del cittadino: la firma digitale dei documenti, che identifica in maniera inequivocabile l’utente, la posta elettronica certificata o il protocollo informatico sono alcuni degli strumenti di protezione necessari che devono essere estesi al più presto a tutte le amministrazioni.
L’integrale digitalizzazione dei servizi comporta un processo di dematerializzazione dei documenti, con l’auspicato passaggio dall’archiviazione cartacea a quella elettronica, garantendo adeguata conservazione dei documenti e completa sicurezza delle procedure. Da tale passaggio ci si può attendere un risparmio di spesa notevolissimo che potrà essere destinato ad altri investimenti tecnologici mirati. L’innovazione tecnologica richiede ovviamente anche la riorganizzazione delle strutture e la ridefinizione delle funzioni amministrative. Sul primo versante, gli uffici che erogano servizi, suddivisi tra attività di sportello (front-office) e attività di assistenza e supporto (backoffice), dovranno essere sostituiti da strutture multimediali operative, più snelle, e radicate su tutto il territorio, con personale specializzato addetto alla consulenza del cittadino e alla trattazione, in tempo reale, delle pratiche. Uffici più piccoli, dunque, interamente telematizzati, che elaborano le richieste in tempo reale, minor numero di impiegati, preparati all’uso delle tecnologie multimediali, maggiore vicinanza territoriale del servizio al cittadino. Queste, in sintesi, le caratteristiche fondamentali dell’“ufficio pubblico digitale”. Lo snellimento organizzativo comporta anche il trasferimento di attività non essenziali ai privati (per esempio attraverso la soppressione di enti inutili) e l’accorpamento delle strutture che svolgono compiti analoghi o comuni, con progressiva riduzione degli organici del personale. Le amministrazioni, se si attuerà un blocco parziale del turn-over, potranno procedere a nuove assunzioni solo entro una ristretta percentuale rispetto al numero dei pensionamenti.
Sulla riduzione di organici e sulla soppressione di enti e strutture, certamente, non sarà facile ottenere l’assenso del sindacato che ha nella pubblica amministrazione la roccaforte dei propri iscritti. Sarà dunque indispensabile coinvolgere i rappresentanti dei lavoratori su un progetto pluriennale chiaro e circostanziato che ammetta, nell’ambito della concertazione, la possibilità di modifiche o integrazioni, senza subire poteri di veto e stravolgimenti che ne frustrino le finalità. La riorganizzazione degli uffici e la digitalizzazione dei processi, in ogni caso, va di pari passo con un piano di risanamento complessivo del lavoro pubblico, secondo principi di gestione manageriale della cosa pubblica. La politicizzazione della dirigenza pubblica e la sua debolezza rispetto al sindacato, l’egualitarismo e l’appiattimento retributivo, la scarsa cultura del merito e dei risultati, la burocratizzazione e il formalismo dei controlli, la scarsa attenzione all’aspetto motivazionale del lavoro, l’insufficiente mobilità del personale, sono, infatti, problemi ancora irrisolti che pesano come macigni sull’efficienza del servizio pubblico e sulla competitività del nostro Paese in Europa e nel mondo. Non soltanto sul versante tecnologico, ma anche su quello – per così dire – culturale, è lecito attendersi un deciso impegno da parte del nuovo governo.
economia
9 maggio 2008 • pagina 17
Nel primo trimestre utile in calo del 51 per cento. Profumo conferma gli obiettivi
Piccole ombre su Unicredit di Ferdinando Milicia
ROMA. Luci e ombre sulla trimestrale di Unicredit. La crisi dei mercati finanziari e dei mutui americani ha colpito anche il gruppo bancario di Piazza Cordusio che, seppure senza subprime, ha dimezzato l’utile nel primo trimestre. L’istituto guidato da Alessandro Profumo ha realizzato un utile netto consolidato di 1 miliardo, in calo del 51 per cento rispetto al risultato dello stesso periodo dello scorso anno, con una stima sull’utile per azione fra 0,52 e 0,56 euro. I risultati di ieri erano comunque attesi dopo che la stessa Unicredit li aveva anticipati lo scorso 23 aprile, quando dalla controllata tedesca Hvb (che ha chiuso in rosso di 282 milioni di euro) erano emerse le voci sulle svalutazioni degli strumenti finanziari Abs, pari a 625 milioni. Queste hanno colpito fortemente la divisione mercati e investimenti (Mib) che nei primi tre mesi dell’anno ha lasciato sul terreno una perdita di 1 miliardo di euro. Ma a deludere gli analisti e gli investitori sono state le stime dell’utile
per azione per il 2008 che, nella presentazione dei conti a marzo 2007, la banca non aveva voluto comunicare, vista l’incertezza dei mercati. Secondo il piano, erano comprese fra 0,65 e 0,66 euro, anche se nelle ultime settimane circolavano stime più realistiche intorno a quota 0,56. Non entusiasmanti sono anche i da-
Il peso dei subprime e la fusione con Capitalia rallentano la corsa di Piazza Cordusio ti trimestrali sui risultati operativi e i ricavi. Tuttavia a rincuorare Profumo sono stati i risultati della banca commerciale, in crescita del 15 per cento, degli istituti nell’Europa centrale e orientale (+25 per cento) e dell’ex Capitalia, la cui integrazione, secondo l’ad, «procede bene», anche se alcuni analisti sostengono che il calo degli utili dipenda pro-
prio da quella fusione. Da Piazza Cordusio fanno sapere che l’opera di «pulizia va avanti» e nei primi quattro mesi dell’anno il portafoglio Abs «si è già ridotto di 3,4 miliardi e scenderà ulteriormente di oltre 2 miliardi nel corso del 2008». Non si arresta neanche la decisa politica di taglio dei costi, in grado di sostenere gli obiettivi di utile. Anche la qualità del credito migliora e Profumo conferma gli obiettivi dell’indice di patrimonializzazione Core Tier 1 al 6 per cento per l’anno in corso. «Solo una recessione negli Stati Uniti ma soprattutto in Asia potrebbe creare problemi», spiega l’ad. Del resto la trimestrale, in virtù anche delle anticipazioni diffuse ad aprile, non ha riservato particolari sorprese, e diversi analisti ritengono che il gruppo si stia muovendo lungo un percorso in linea con le previsioni. Ma sul colosso bancario grava quel downgrade dell’outlook, deciso nei giorni scorsi da Moody’s, che fa aumentare le preoccupazioni di Profumo.
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Petrolio inarrestabile Ennesimo record per il greggio. Alla borsa di New York va oltre i 123 dollari, toccando i 123,46 dollari, dopo essere sceso fino a 120,54 come conseguenza della statistica sulla consistenza delle giacenze settimanali statunitensi, migliore del previsto. Nel giorno in cui il petrolio è arrivato ai suoi massimi i carburanti hanno raggiunto nuovi record storici in Italia: la benzina è schiazzata a 1,472 euro al litro, il gasolio ha raggiunto quota 1,455 euro al litro. Tutto questo mentre la società Autostrade ha lanciato l’iniziativa per il pieno scontato per domenica prossima presso i distributori self-service autostradali.
Indagato il direttore delle Entrate Massimo Romano, direttore dell’Agenzia delle Entrate, è stato iscritto nel registro degli indagati della procura di Roma con l’ipotesi di reato di violazione della legge sulla privacy in relazione alla diffusione in Rete dei dati dei contribuenti del 2005, diffusi dalla stessa Agenzia delle Entrate il 30 aprile scorso. A Romano il procuratore aggiunto Franco Ionta e il pm Francesco Polino hanno inviato un invito a comparire.
Fiat, forse uno stabilimento in Ontario Si profila uno stabilimento canadese per l’Alfa Romeo. Il premier dell’Ontario, Dalton McGuinty, sarà a Torino il 21 maggio nell’ambito di un viaggio lampo in Europa, dove le uniche tappe saranno l’Inghilterra e l’Italia, precisamente a Torino, dove incontrerà Sergio Marchionne per convincerlo ad aprire in Ontario uno stabilimento Alfa romeo.
Generali, l’alleanza con Ppf spinge l’utile L’alleanza con i cechi di Ppf spinge a 910 milioni l’utile di Generali (+27 per cento) nel primo trimestre, mentre i premi restano sostanzialmente stabili a 18,4 miliardi (+0,8%). Dopo la movimentata assemblea del 26 aprile sul rinnovo del collegio sindacale, il Cda del Leone ha esaminato le prospettive del gruppo che, secondo quanto riferisce una nota, sono positive per l’intero anno
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cultura
Stanziata tra l’oceano e le sabbie dell’Oman, si fondava sul principio delle alleanze tra famiglie
Dal deserto riaffiora la civiltà Magan di Rossella Fabiani na società con un potere basato, o meglio legittimato, dal concetto dell’alleanza e non da quello della regalità, della gerarchia, della religione o di una struttura in qualche modo piramidale. Questa è stata la novità assointrodotta luta dalla civiltà di Magan, in Oman, che ci ha fatto scoprire la missione archeologica diretta dal professor Maurizio Tosi, che da quarant’anni lavora in quella terra. La scoperta di Magan e della prima civiltà d’Arabia nel sultanato dell’Oman è il tema affrontato da Tosi insieme al professor Serge Cleziou, nel volume In the Shadow of the Ancestors – The Prehistoric Foundations of the Early Arabian Civilization in Oman, dove i due accademici illustrano gli importanti ritrovamenti archeologici. Il volume è stato da poco presentato a Roma, all’Isiao (Istituto Italiano per l’Oriente), ed è uno strumento straordinario per approfondire, ma anche semplicemente per conoscere, «l’incredibile forza erculea con la quale uomini e donne, generazione dopo generazione hanno trasformato un paese desertico, con scarse e imprevedibili risorse, in un modello di progresso umano».
U
popolazione. In questo modo, negli anni, l’Oman è cresciuto tantissimo. L’archeologia in Oman è una disciplina molto giovane, ha soltanto quarant’anni e non si è ancora arrivati a una seconda generazione di studiosi. Ma soprattutto, le condizioni storiche e geografiche del Paese sono uniche rispetto ai Paesi vicini come Iran, India e Iraq (l’antica Mesopotamia). Come per il resto dell’intera Arabia, l’evoluzione della complessità sociale in Oman è stata atipica. Mentre i Paesi lungo il Nilo, l’Eufrate e l’Indo
cune iscrizioni su tavolette sumeriche. Oggi si conoscono tombe, migliaia di tumoli funerari, capanne di sabbia, strutture in legno, ceramica, che all’inizio proveniva tutta dalla Mesopotamia.
L’Oman era una terra tra deserto e oceano, ricchissima di minerali, dove le balene arrivano a riva, con ampie zone colpite da tempeste, da tifoni e dal monsone. E complessa è la sfida che pone agli uomini. Per questo motivo si crearono le basi elementari per una civiltà: quello dell’alleanza e del consenso. I diversi gruppi etnici dovevano affrontare insieme problemi durissimi in un ambiente di scarse risorse. Fondamentale era il sistema di scambi e per questo occorreva la pace. Da qui nasce la logica di legittimare il potere attraverso l’alleanza delle famiglie in una pretesa di uguaglianza «perché anche il più forte
Ci sono voluti 40 anni, 100 specialisti e 400 studenti per tirar fuori il segreto di un popolo che è riuscito a mantenersi autonomo già nel terzo millennio avanti Cristo stabilivano le loro civiltà su gerarchie, amministrazioni e famiglie reali, gli arabi scelsero un’altra strada. Le istituzioni comuni di questa società tradizionale erano basate sulla famiglia, sulla stirpe, sull’alleanza, sulla credenza di comuni antenati e sul legame tra gli individui. Prima di questa missione archeologica, la più lunga compiuta in Oman, la civiltà di Magan ci era nota soltanto da al-
degli uomini, da solo, viene ucciso dal più debole dei leopardi». Una società composta da pescatori, dove il mare era la loro casa e la navigazione oceanica una speranza. I ritrovamenti mostrano migliaia di mandibole di testuggine ritrovate in una tomba,
collane di conchiglie, spesso sono state trovate perle nella mano sinistra del defunto, centinaia di migliaia di pietre e di perline, sepolture costruite a forma di testuggini, in una tomba una donna ha il viso coperto da una conchiglia ed è faccia a faccia con una tartaruga marina, ami, galleggianti d’osso, corde, cesti, molta lavorazione di conchiglia, avorio, sigilli di bronzo con iscrizioni, piccoli altarini con tracce di incenso, vesti, scarpe, sudari. Le condizioni di conservazione sono straordinarie grazie alla precipitazione dei materiali di fibra in calcite.
Ci sono voluti quarant’anni, oltre cento specialisti e quasi 400 studenti italiani per tirare fuori dalla sabbia il segreto di un popolo che è riuscito a mantenersi autonomo e florido già nel terzo millennio avanti Cristo. L’impresa è cominciata negli anni Settanta, racconta Tosi, quando l’Oman si aprì al mondo e agli investimenti stranieri. Da poco era cambiato il sultano, considerato troppo conservatore, ricorda il professore, sostituito da suo figlio, Qabus bin Said, che si è rivelato uno stupendo sovrano. L’intelligenza del suo agire si mostrò da subito con la politica del farsi ricchi facendo ricchi gli altri e con la capacità di fare investimenti e restituire gli utili alla
Tra i ritrovamenti più significativi, lo scheletro di una donna sepolta con i figli ancora in grembo (foto in alto a sinistra); e una tomba al cui ingresso sono disegnati due uomini che si tengono per mano (foto in alto), simbolo del principio della solidarietà
Ma quello che oltre ogni cosa mostra la novità della prima civiltà d’Arabia sono le tombe. All’ingresso di una di questa sono stati disegnati due uomini in piedi che si tengono per mano affiancati da due obici. Nelle necropoli sono state trovate anche tombe collettive come se fossero delle unità domestiche che vogliono vivere insieme. Tutti i siti sono accumunati da una «struttura dell’uguaglianza». Perché bisogna restare insieme per affrontare i tanti rischi e problemi come rivela il ritrovamento di cinquanta casi di bimbi con schiena bifida e di una madre sepolta con i suoi due gemelli, uno ancora in grembo.
cultura
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Luigi Malerba è morto a Roma. I funerali si svolgono oggi alle 12, nella chiesa di Santa Maria in piazza del Popolo. Sul prossimo numero del “Caffé letterario” uscirà l’ultima intervista che ha rilasciato a Maria Pia Ammirati
uigi Malerba è morto ieri nella sua casa romana affacciata sul Colosseo, nella prima giornata di sole estivo, un particolare non irrilevante: Malerba amava il sole, la luce e la rinascita primaverile. Amava i luoghi e le case, e in particolare la sua casa di campagna a Orvieto dove per anni ha lavorato ai suoi libri, alle sue piante e al suo giardino. I luoghi, lo spazio, temi di riflessione poetica che attraversano tutta l’opera dello scrittore e che sono stati oggetto di una sua inesausta passione per l’architettura e il paesaggio. Lui stesso amava dire che avrebbe fatto volentieri l’architetto se la scrittura non lo avesse legato per più di quarant’anni a una attività quasi sedentaria. Malerba è stato infatti uno scrittore prolifico che in circa mezzo secolo di carriera ha prodotto quaranta libri senza contare la pubblicistica, la drammaturgia e le sceneggiature. Parliamo proprio di sceneggiature quando ripercorriamo la biografia dello scrittore. Malerba era nato nel 1927 a Berceto in provincia di Parma e la sua primissima attività è quella cinematografica. Già ai tempi del liceo fonda una rivista di critica del cinema chiamata Sequenze e in quegli stessi anni decide di usare lo pseudonimo Malerba, il suo vero nome infatti è Bonardi. In questa sua scelta giovanile di darsi un altro nome possiamo sicuramente già leggere quel culto per le identità altre, per il camuffamento e per il doppio che fanno da fondamento alla sua narrativa. Per seguire la stella del cinema Malerba si stabilisce a Roma in una casa a via del Tritone che era stata di Longhi, dove passano scrittori già affermati come Pasolini e Delfini. Mentre collabora alla stesura di sceneggiature importanti comincia a scrivere il suo primo libro, La scoperta dell’alfabeto, l’unico legato all’ambiente agricolo parmense e dell’infanzia. I racconti della Scoperta appaiono immediatamente mirabili dal punto di vista espressivo e forti nella costruzione delle storie. Il primo lettore è Ennio Flaiano che porta tutto a Valentino Bompiani. La raccolta esce
L
Luigi Malerba è scomparso ieri a 81 anni
Il prestigiatore della scrittura di Maria Pia Ammirati nel 1963, anno cruciale per la letteratura italiana e la cultura del paese, anno della nascita del Gruppo ’63 a cui Malerba aderisce già dalla famosa riunione dell’Hotel Zagarella di Palermo. La grande forza di rinnovamento, la via allo sperimentalismo sono elementi di libertà che il neoa-
Dal primo amore, il cinema, all’approdo alla narrativa. Con lui se ne va un pezzo della grande letteratura italiana
vanguardista Malerba coglie come opportunità espressiva e tematica dei suoi libri. Malerba però non ragionerà mai in termini distruttivi facendo prevalere di fatto l’elemento sperimentale, o lasciandosi trascinare dall’ossessione del controllo del meccanismo narrativo. Per lo scrittore par-
mense resta sacro l’elemento della narrazione e la storia. Negli anni Sessanta escono due altri importanti romanzi, nel 1966 Il serpente e due anni dopo Salto mortale. Due romanzi fondamentali per capire lo scrittore Malerba e tutto il suo armamentario narrativo, ma importanti anche per definire il percorso dei decenni a venire. Entrambi con protagonista un io-narrante, io-narrante che Malerba preferisce alla terza persona, fagocitatore di cose e persone nonché di linguaggi. Personaggi ossessionati dalla realtà circostante ma soprattutto strumenti di uno scrittore che li usa come veri e propri smascheratori di verità precostituite. Grandi ribaltatori di sistemi, i due protagonisti dei romanzi citati si muovono sul crinale del patologico e del criminale (come molti altri personaggi di Malerba), mimando il genere (dal poliziesco al noir) per liquidarlo. Ma altri elementi strutturali affiorano da questi due testi e saranno rintracciabili negli altri: il tema del doppio che avrà largo spazio nel Pianeta azzurro, la carnalità e il corpo come campo di indagine che metterà in moto una serie di morti ammazzati ritrovabili un po’ dappertutto, da un romanzo a sfondo storico come Il fuoco greco a un romanzo tutto scritto sul versante del comico come Il Pataffio, dove la morte serve quasi a riequilibrare un sistema naturale alterato dalla barbarie (e stupidità) dell’uomo. «Muoiono come mosche» è l’espressione preferita del protagonista di Salto mortale, Giuseppe detto Giuseppe. Uno scrittore disincantato, grande prestigiatore di parole e strutture, attento osservatore della realtà, polemista e critico (famoso il suo diverbio acceso con il Premio Strega l’anno in cui presentò un suo romanzo), Malerba ha guardato sempre molto da vicino la vita non amando deformarla, ma ha anche sostenuto con fierezza lo sguardo della morte descrivendola per quello che è, un puro accidente. Con lui se ne va un pezzo della grande letteratura italiana, di una generazione di straordinari narratori, ma soprattutto di romanzieri.
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il caso
Esperimenti. In California un professore dell’Università Mason ha riunito alcuni studiosi per discutere insieme del film di John Ford. Ecco cosa ne è venuto fuori...
OMBRE ROSSE Le 7 facce dell’amore di Michael Novak jai, in California, è il posto giusto per parlare di film western, in parte perché il suo paesaggio è in assoluto contrasto con le aride praterie di Monument Valley, tra l’Arizona e lo Utah, dove sono stati ambientati molti di questi film, tra cui Ombre rosse. Ojai è in una posizione alta, sulle montagne sopra Santa Barbara, in un piccolo bacino formato dalle vette che lo circondano. Una di queste sommità è stata il set del film Shangri-La, ed è su questo pendio, che ancora porta il nome del film, che il professor Frank Buckley, dell’Università George Mason, ha riunito un ardito gruppo di produttori, studiosi e critici per dedicare un giorno di riflessione al capolavoro di John Ford, Ombre rosse, il film che ha cambiato il modo in cui il genere western fu affrontato da allora in poi. Ogni dieci minuti di visione abbiamo colto spunti importanti, sui quali si è acceso un animato dibattito tra i componenti del gruppo. In tre determinate parti abbiamo rilevato una virtù in particolare, la presenza di varianti teologiche: come sono state affrontate la fede e la speranza in Ombre rosse, e cosa sono? E l’amore? Nonostante le prime domande mi abbiano stimolato di più, le mie osservazioni riguardano quest’ultimo tema.
O
Nella parte anteriore dell’abside, ha voluto fossero dipinti quattro riquadri che rappresentano altrettante figure: Fede, Speranza, Carità e Amore. Non è chiaro quale differenza la signora Stanford ritenga ci sia tra le ultime due, ma è del tutto evidente che amore non è un concetto semplice.
La prima lettera di S. Giovanni analizza la questione in tutta la sua complessità: quando parliamo del nostro amore per Dio, come facciamo a sapere che lo amiamo veramente? Dal fatto - scrive appunto S. Giovanni - di provare amore per qualcun altro; e ancora: colui che non ama il fratello che
Il dr. Boone, l’ubriacone “Affectio e Caritas”
Poco lontano da Ojai, la signora Leland Stanford, in lutto per la morte del giovane figlio, ha costruito un’università in suo onore – un tributo e un dono alla giovinezza – ed ha contribuito a progettare, in sua memoria, la chiesa del campus.
Nella diligenza tutti provano per lui una sorta di ironico disprezzo per la sua dipendenza dall’alcool. Poi quando si redime, e aiuta Lucy a partorire, cominciano a nutrire un grande affetto ha conosciuto, come può amare qualcuno che non conosce? Secondo la tradizione ebrea e cristiana, quando gli uomini dimostrano amore per il proprio vicino, e, in generale, per tutti gli altri esseri umani, compreso uno straniero o addirittura un nemico, essi colgono la questione fondamentale della vita. In greco e latino esistono molte parole diverse per il termine amore, mentre in inglese ce n’è una sola, ma in effetti esistono diversi tipi di amore, e ciò significa, per un artista, che l’esplorazione di questo sentimento nei suoi molteplici significati si presta a svariate inter-
pretazioni. Nel suo famoso Ombre rosse (1939), John Ford ha chiuso sei tipi di persone, del tutto estranee le une alle altre, nello spazio ristretto di una carrozza, creando un contrasto molto forte con il grande cielo e le immense pianure che caratterizzano Monument Valley. Il loro destino è strettamente legato al conducente ed allo sceriffo seduti sulla panchina sopra di loro, e così queste otto persone si ritrovano bloccate in una corsa inconsapevole verso la guerra degli Apaches che si avvicina minacciosa. I greci e i latini avevano individuato sette tipi di amore; li riassumo perché Ombre rosse ne presenta varie sfumature: Amor è il più generico tipo di attrazione; quella di un uomo nei confronti di una donna tra tante; il sussulto improvviso del cuore, come quando Rebecca vede da lontano la figura di Isacco – che ancora non conosce – muoversi verso la sua casa; o l’attrazione divina che muove gli astri attraverso i cieli, come nelle parole di Dante Alighieri: «L’Amor che muov’ Il Sol ed altre stelle». Affectio è una passione passiva, indotta dal comportamento degli altri; le fusa di un gatto, una donna che poggia la testa sulle spalle dell’uomo di cui si fida, un uomo che si sente legato ai suoi amici per tutto quello che hanno fatto insieme o per il conforto del calore di una donna.
Eros è il desiderio illimitato, uno stimolo dirompente per la crescita e il miglioramento, ma anche un tipo pericoloso di amore, perché il suo fuoco divora gli esseri umani. In una determinata fase è la linfa dell’amore romantico, che cerca l’estasi permanente e la felicità perenne, ed è perciò facilmente distrutto dai limiti
umani. Eros è l’essere innamorati dell’amore, invece che di qualcuno che può solo suscitarlo ma mai soddisfarlo. L’amore romantico è quello che raggiunge la sua espressione più drammatica con la morte di uno degli amanti, come in Romeo e Giulietta, Anna Karenina ed anche Bonnie e Clyde. Solo nella morte, infatti, è possibile fuggire i limiti umani: questo è il motivo per cui l’eros ha così spesso un epilogo tragico. Per realizzarsi, d’altronde, l’amore deve diventare realistico, accettare i limiti e gli aspetti sgradevoli di una relazione, come la trascuratezza personale, il disordine e la sciatteria, ma in eros ci sono anche caratteristiche buone. È uno stimolo per superare se stessi, prevalere sugli ostacoli e raggiungere obiettivi difficili; il suo rifiuto di arrendersi è la sua gloria, la
duce ad individuare e selezionare una persona tra tutte con cui impegnarsi, sapendo ciò che fa e accettando l’accumulo di responsabilità. «Nel bene e nel male, in salute e in malattia» è la sua formula. La stessa dinamica è presente nell’amicizia, che richiede un lungo, paziente impegno nel corso degli anni, e il concetto di dono di sé è appropriato sia per i più grandi amori tra gli uomini che per l’impegno verso Dio. L’essenza dell’amore totale è il desiderio del bene dell’altro in quanto tale, non come proiezione di se stessi o per propria soddisfazione, Kid Ringo, cioè ma per dedizione alla saluJohn Wayne, integrità e diversità delte, è subito attratto da lei. Si trattiene l’altro. L’altro, d’altronde, è sempre un mistero – gli uoperò perché mini non capiscono bene la giudica male. le donne, e viceversa – perMa lei si ché ognuno di noi, in fontrasforma, do, è spesso un mistero ansacrificando che per se stesso. se stessa per
Dallas, la prostituta “Eros e Agape”
la Mallory, e lui le offre la sua vita sua ambiguità interiore il suo pericolo intrinseco.
Il dono totale di sé (dilectio), invece, non viene intaccato dai limiti umani, perché è paziente e realistico. La sua natura lo in-
Amicitia è l’esito felice di una scelta corrisposta. Se il dono di sé è amore incondizionato, l’amicizia è reciprocità. S. Tommaso d’Aquino ha scritto che il matrimonio è la più nobile tra tutte le amicizie in quanto produttivo e creativo, ma anche altri tipi di rapporti sono spesso intensi e duraturi; tra i tanti detti sull’a-
il caso
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A sinistra, la locandina dell’indimenticabile Ombre rosse (1939) e il protagonista della pellicola John Wayne. A destra, il regista John Ford; sotto una delle scene più famose del film
micizia, il più ricorrente nella Pennsylvania occidentale è quello secondo cui un amico è qualcuno di cui puoi fidarti ciecamente durante una rissa. Agape (l’amore spirituale), è il sacrificio di sé, al punto che volentieri si dona la propria vita per un amico, o comunque si sacrifica tempo, energie, pazienza e generosità a vantaggio dell’altro. Le grandi figure bibliche che rappresentano questo tipo di amore sono Abramo con il suo adorato figlio Isacco, e Gesù nel suo percorso verso la croce. È l’amore che va oltre e al di là del dovere; un amore spesso umile, che si fa silenziosamente ma felicemente carico della dipendenza di un altro.
Caritas è un tipo di amore diverso. È il fuoco che costituisce l’essenza divina, il cuore e la sostanza della mai raggiunta città di Dio nel suo viaggio attraverso la storia. Caritas è l’amore che Dio esercita in quanto Creatore di tutte le cose che nascono dal suo Logos, volontà e approvazione, processo che culmina con la creazione dell’uomo, Adamo, così come rappresentato nel soffitto della Cappella Sistina. Dio manifesta la caritas come offerta di amicizia agli uomini e alle donne libere, in un libero patto. Dio non era tenuto a crearci e ad amarci, la Caritas è liberamente donata e liberamente ricevu-
ta, ed anche se è un tipo di amore al di là dei limiti umani, Dio concede all’uomo la possibilità di condividerla. Caritas è un amore straordinario, candido, caldo, intenso, che unisce le anime in un livello superiore. Questo aspetto lo si riscontra anche nell’agape, quando ci si prende cura per lungo tempo di una persona indifesa, magari nonostante l’impazienza e l’ingratitudine dell’altro. In Ombre rosse, John Ford ha creato un’immagine a volte debole, a volte potente, di ognuno di questi amori. Kid Ringo (John Wayne), sente quasi immediatamente un’attrazione fisica verso la prostituta Dallas, cacciata dalla città, e poi, gradualmente, dopo averla vista trasformata dal sacrificio di sé quando si occupa della neomamma Lucy Mallory e di sua figlia, durante e dopo il trauma di una nascita difficile, decide di impegnare la sua vita con lei. Anche la neomamma, inizialmente arrogante, dopo aver constatato la sua capacità di prodigarsi per gli altri, guarda Dallas in un modo nuovo. Amor muove verso dilectio e amicitia. Il giocatore gentiluomo, Hatfield, prova certamente amor per la signora Mallory, in viaggio per trovare
il marito soldato, e la corteggia. Non si è sicuri che il suo amore sia capace di andare oltre questa generica attrazione, ma certamente lei suscita in Hatfield sentimenti di galanteria e onore, che sono l’ultima speranza per la sua redenzione.
ley Wilcox), parte dal sospetto e dall’ostilità verso il suo prigioniero, Kid Ringo, e gradualmente matura una sorpresa ammirazione e fiducia, che sfocia infine in un patto d’amicizia.
Quasi tutti nella carrozza provano una sorta di ironico diNegli anni successivi alla sprezzo per il dr. Boone e la sua guerra di Secessione, egli è di- debolezza nei confronti dell’alventato un giocatore d’azzardo, col. Tuttavia, quando il dottore ma la signora Mallory riporta la ritorna in sé grazie ad un enorsua mente ai tempi migliori, più me consumo di caffè, e si comonorevoli, quando prestava ser- porta in modo ammirevole duvizio nel reggimento del suoce- rante il parto della signora Malro in Virginia. Quando gli Apa- lory, molti cominciano ad apches si avvicinano, lui decide di prezzarlo e a volergli bene. Il timido, poco eloquente, ed apparentemente incapace rappresentante di liquori ed ex predicatore Samuel Peacock, Il giocatore è il primo nella diligenza gentiluomo a percepire la crescente si innamora forza dell’amore che si di Lucy sviluppa tra i viaggiatori. ma nessuno Sembra in qualche modo si fida di una necessario che, durante sua possibile l’attacco degli Apaches, redenzione. una freccia attraversi il Alla fine nel loro finestrino e lo colpisca al rapporto petto affinché egli torni a trionferà desiderare di vivere. “il dono Persino il freddo, ostile, totale di se” disonesto banchiere, con la sua cartella nera piena spararle piuttosto che lasciarla di soldi rubati, manifesta il dea un destino peggiore, la schia- siderio di uscire dal suo isolavitù, quando viene colpito a mento per unirsi alla crescente morte attraverso il finestrino armonia che si è creata all’indella carrozza. Lo sceriffo (Cur- terno della diligenza.
Hatfield e Lucy Mallory “Amor e Dilectio”
In questo fragile e ristretto spazio, dunque, otto creature piene di limiti, imperfezioni e difetti imparano, in qualche modo, ad amarsi. Ombre rosse diventa una modesta metafora di ciò che S. Agostino chiamava la Città di Dio (la città della caritas e dell’amore divino), grazie alla rappresentazione di questo oscillante, incerto viaggio attraverso la turbolenta storia della città degli uomini. Il film è una potente incursione nelle profonde acque che agitano la civiltà occidentale; il messaggio arriva in modo semplice, modesto, laico, attraverso pochi, espliciti punti rivelatori. In qualche modo lo spettatore avverte che qualcosa di superbo, diverso e di alto contenuto si nasconde nella ruvida esperienza che racconta; non si tratta di comune intrattenimento, di un western qualsiasi, ma di una riflessione sulla nostra civiltà, di un capolavoro prodotto con capacità di discernimento e competenza cinematografica. Non si dovrebbe, certamente, rendere troppo complessa l’analisi di questo film, perché poche cose feriscono un’esperienza poetica più che un eccesso in questo senso. Il film è un successo soprattutto perché mostra, senza essere pretenzioso, lo snodarsi di un buon filo narrativo che accompagna gli spettatori in un magnifico, soleggiato, pericoloso deserto.
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Sicurezza: paura reale o solamente percepita? LA PAURA PERCEPITA È REALE PERCHÉ REALE È LA CRIMINALITÀ NELLE CITTÀ
È LA DIFFUSA INSICUREZZA CITTADINA A SENSIBILIZZARE LA POLITICA, NON IL CONTRARIO
Da quando i meteorologi hanno coniato l’espressione «temperatura percepita» è venuta un po’ la mania di distinguere la realtà reale con la realtà percepita. Signor direttore, l’insicurezza che i cittadini delle grandi città, ma ormai non solo, percepiscono è quella che nasce dalla realtà, cioè dalla reale delinquenza, dalla reale incapacità o dalla reale impossibilità delle nostre forze dell’ordine di fronteggiare la reale criminalità dilagante e sempre più agguerrita. Non è un caso che il problema sicurezza è stato quello che ha dominato i contenuti di tutta la campagna elettorale ed è stato determinante al fine di consegnare la vittoria alla coalizione che maggiormente si è impegnata a contrastare la malavita. Se si tratta di insicurezza percepita e non reale, rivolgersi al marito della signora Reggiani, rivolgersi alle migliaia di persone borseggiate dai rom, rivolgersi alle centinaia di ragazze stuprate dai nostri bulli e dalle migliaia di immagrati clandestini. Signor direttore, l’insicurezza percepita è quella reale, perché reale è la criminalità nelle nostre città.
Un giornale americano ha affermato che Roma non è stata mai tanto sicura come in questi ultimi anni. Poiché Milano, Torino, Genova, e le altre città sono certamente paragonabili a Roma, quanto a criminalità e quindi a insicurezza dei cittadini, il giornale americano ha attribuito la patente di Paese sicuro all’intera Italia. Follia. Dalle Alpi alla Sicilia l’Italia è scossa e violentata continuamente da una criminalità quanto mai efficiente. E non è stata la propaganda della destra a far ”percepire” l’insicurezza all’intero popolo italiano. E’avvenuto esattamente il contrario, è stata la diffusa insicurezza a sensibilizzare la politica e a premiare quei partiti che sono stati in grado di percepire davvero lo stato d’animo dei cittadini. Strettamente legato al problema della sicurezza è quello dell’immigrazione clandestina, mal regolata e mai contrastata efficacemente. Sembra un discorso diverso da quello che liberal ha indicato. Ma non è proprio così. Anche qui si tratta di percezione che fa pari con la realtà.
Fabio Lorenzetti - Asti
LA DOMANDA DI DOMANI
Come giudicate la nuova squadra di governo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Mauro De Santis - Nuoro
BASTEREBBE GUARDARE UN QUALSIASI TG PER CAPIRE LA GRAVITÀ (VERA) DEL PROBLEMA Non credo che la paura che si avverte in Italia circa l’emergenza sicurezza sia solamente percepita. Anzi, credo fortemente il contrario. E’ reale eccome. Proprio come reali sono i reati commessi, per lo più da extracomunitari senza pietà e dai bulli adolescenti che hanno preso a compiere atrocità inimmaginabili. Non riesco a capire come si possa mettere in dubbio un problema gravissimo come quello della sicurezza. Non riesco a comprendere come si possa definire l’Italia «un Paese sicuro» dopo tutti i crimini commessi negli utlimi anni. Basterebbe aprire un quotidiano qualsiasi ogni giorno o accendere la tivù nell’orario di trasmissione dei telegiornali. Non ci possono essere strumentalizzazioni o interpretazioni di destra e sinistra sui fatti di cronaca nera. Dunque non andrebbero fatte neanche domande di questo tipo. Cordialmente.
MINESTRA RISCALDATA. Per Sergio Romano la mancanza di corrispondenza tra i partiti italiani e quelli europei deriva da tangentopoli, perché distrusse i partiti vincitori della guerra fredda e fece sopravvivere la continuità storico politica delle ideologie sconfitte, quella fascista e quella comunista. Possiamo considerare il Pdl e la Lega Nord la continuità storico politica del fascismo? Per continuità storica del fascismo, ritengo si debba intendere la continuità storica nell’area di centro destra della difficoltà nel produrre un partito liberalconservatore semplicemente sul modello degli altri paesi europei. La Lega Nord ha modificato radicalmente la sua struttura politica in questi anni. Dal separatismo, la mitologia padana è ora asservita al federalismo prima di tutto fiscale. Inoltre è riuscita ad essere miglior interprete di An del tema della sicurezza. L’ostilità espressa in passato attraverso il voto alla Lega verso i meridionali, ora è verso l’immigrazione, al punto che molti elettori di origine meridionale hanno votato Lega Nord. Mitologia, autarchia, razza sono tipici valori e strumenti di consenso della destra non li-
MOSTRO MARINO
A San Juan, Porto Rico, prime prove tecniche per la Earthrace, particolarissima nave a combustibile biodiesel. L’obiettivo del team, fare il giro del mondo e stabilire un nuovo record di velocità
L’EURO HA BUTTATO L’ITALIA IN UN BARATRO L’Unità riporta il pensiero di Prodi: «Senza euro saremmo un Paese dall’inflazione galoppante, isolato e veramente alla deriva. L’euro per noi è stato il rilancio a un’economia sana» Non mi chieda perché la mattiil sito online na apro dell’Unità, mi mette di buon umore, è gratis e mi faccio tante risate! Detto questo, penso alla povera Inghilterra, ha conservato la sterlina e guardi com’è ridotta! E noi avevamo un Primo Ministro così edotto dei fatti e dell’economia internazionale, da dare dei pezzenti agli Inglesi e da pensare di essere per l’Europa l’esempio di un’economia sana? Meno male che venti mesi hanno fatto chiarezza! Grazie Mastella,
dai circoli liberal Greta Gatti - Milano
beralconservatrice. Non è una sorpresa quindi se nei flussi elettorali molti voti non proprio per Berlusconi di ex elettori di An sono finiti alla lega Nord. Berlusconi ha voluto conservare un partito bonapartista e certamente, ora con l’innesto della struttura di An nel Pdl, rinvigorirà il consenso all’interno della classe dirigente di un modo di pensare per cui la democrazia interna di un partito è inutile e quello che conta è la fede verso il capo. Insomma l’alleanza elettorale Pdl-Lega sembra effettivamente nella continuità storica una minestra riscaldata che non ha il sapore rassicurante di nessun governo moderato degli altri paesi europei. Per questo la tesi di Romano è interessante a meno che nel prossimo futuro l’anima all’interno del Pdl cristiano-liberale e democratica riesca a trovare uno spazio egemone o in alternativa si organizzi assecondando gli interessi personali in favore di un’evoluzione democratica europea e moderna. Ma questo produrrebbe tremendi terremoti alla pur solida coalizione governativa e Berlusconi si guarderà dal subirle passivamente o favorirle. I primi effetti già si sono visti sull’esclusione dal Governo di persone forte-
merito anche tuo se hai contribuito, non sarai mai dimenticato! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)
CARUSO E CASARINI IN CERCA DI LAVORO Con le elezioni sono caduti molti miti e icone di più di una generazione. Alcuni andranno in pensione, altri dovranno trovare un’altra occupazione. Siamo fiduciosi che, quello di una nuova occupazione, sarà il destino dei capetti no global, Caruso e Casarini. Dite la verità, è vero che vi piacerebbe proprio un’altra soluzione? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
mente rappresentative dell’area cristiano liberale (Formigoni) o liberal-emoticon (Brambilla) ed il loro accantonamento a ruoli di scarsa prospettiva politica nazionale. In questi giorni qualcuno ha anche dichiarato che se tale sarà l’evoluzione della Pdl, le elezioni sono state un imbroglio. Speriamo che l’insuccesso in termini di presenza nel governo, risvegli sentimenti di coraggio politico e di intrapresa di iniziative anche dirompenti ma innovative e risolutive per la formazione di un partito moderato moderno e democratico. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog GIANNI ALEMANNO E LE PROMESSE DA MANTENERE
Sai capire ciò che è veramente distinto? Caro Theo, se di qualcosa devo pentirmi, è del periodo durante il quale nozioni mistiche e teologiche mi indussero a condurre una vita troppo appartata. Poco per volta, ho compreso il mio errore. Quando ti svegli al mattino e non ti trovi solo, quando nella prima luce dell’alba vedi una creatura accanto a te, il mondo ti appare più buono. Lei abitava in una stanzetta semplice e modesta; la tappezzeria in tinta unita le dava un tono grigio e tranquillo, ma caldo, come un quadro di Chardin. Un pavimento di legno con una stuoia e un pezzo di vecchio tappeto rosso, una normale stufa da cucina, un cassettone e un grande letto semplice. Né più né meno la casa di una donna che lavora veramente. Oh, era forte e sana, e tuttavia per nulla volgare. Quelli che badano tanto alla distinzione, sono sempre in grado di capire ciò che è veramente distinto? Si va a cercarla sulle nuvole o sotto terra quando, a volte, è a portata di mano. Adueu Theo, scrivimi presto. Tuo affezionato. Vincent Van Gogh a suo fratello Theo
BUONA LA SQUADRA DEL NUOVO GOVERNO Devo fare i miei complimenti a Berlusconi per aver formato una squadra di governo che ha avuto il plauso di tutti: dal Presidente della Repubblica, all’opposizione per finire alla maggioranza. Infatti l’opposizione fa rilevare che il Governo è ”del Presidente”, espressione dei partiti, con personalità solo politiche e legate da un forte rapporto di dipendenza con Berlusconi. Bravo Presidente, era quello che noi, tuoi elettori, avremmo voluto e tu hai fatto. Rapidità nelle scelte, coesione tra i ministri, solo politici tra i componenti: mancano gli amanti della discontinuità, i cultori del bla bla, i soloni della cultura e gli ambiziosi per definizione. E’ giusto così, non è un Governo di sinistra. Manca anche qualche nome atteso, ma sono sicuro verrà fuori in seguito e completerà l’ottimo gruppo. Se il mio Abruzzo non ha presenze.. pazienza, forse mancavano nomi di spicco da scegliere, sarà per la prossima. Buon lavoro ed auguri. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Paolino Di Licheppo Teramo
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
9 maggio 1502 Cristoforo Colombo lascia la Spagna per il suo quarto e ultimo viaggio nel Nuovo Mondo 1921 A Roma viene rappresentato per la prima volta il dramma Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello 1936 L’Italia si annette formalmente l’Etiopia dopo averne presa la capitale il 5 maggio 1946 Re Vittorio Emanuele III di Savoia abdica in favore di Umberto II 1949 Ranieri III di Monaco Diventa principe di Monaco 1950 Robert Schuman presenta la Dichiarazione Schuman che porterà al Trattato Ceca. Questa dichiarazione viene considerata essere l’inizio della creazione di quella che oggi è l’Unione Europea 1955 La Germania Ovest entra nella Nato 1978 Italia - Viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro 1997 Un proiettile colpisce una studentessa, Marta Russo, all’interno dell’Università La Sapienza
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
Ho letto su qualche giornale che il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha già iniziato a provvedere alla sicurezza della città. Stupisce dunque positivamente sapere che l’operatività e la tempestività del sindaco Alemanno rispetto agli impegni presi sulla sicurezza lo hanno portato a contattare il Comitato provinciale, a pianificare interventi mirati sui mali principali che creano degrado ambientale e insicurezza a Roma. Tra questi, merita una segnalazione l’azione annunciata contro la contraffazione le cui centrali, riconosciute ma mai smantellate nonostante il lavoro dei vigili urbani, sono l’Esquilino, il Casilino e Prenestino. È dai capannoni di queste aree che partono, infatti, le merci che poi vengono vendute e smistate nei diversi quartieri di Roma. Sono sicuro che, una volta insediato consiglio comunale e giunta, verrà attuato per intero il Patto sottoscritto da Alemanno a favore della sicurezza e della riqualificazione del rione Esquilino.
Silvia Romiti - Roma
PUNTURE Fu Luigi Einaudi a dire, a fascismo finito, heri dicebamus, e Berlusconi presentando il suo nuovo governo ha detto: “Riprendiamo il lavoro dopo due anni di interruzione”. Delle trasmissioni.
Giancristiano Desiderio
“
Esercitare liberamente il proprio ingegno, ecco la vera felicità ARISTOTELE
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di GLI URAGANI D’ORIENTE E DI OCCIDENTE Il terribile uragano che ha colpito la Birmania ha fatto un numero altissimo di morti, non mi metterò a fare pronostici sui numeri finali, che già ci pensano i lanci di agenzia. Però una cosa è già evidente: tutti ne parlano, tutti i tg riportano che la giunta militare (a cui manca sempre il doveroso aggettivo comunista) non ha nè avvisato la popolazione e ostacolato gli aiuti invece di agevolarli (è più forte di loro, sono fatti così da sempre). Eppure la bordata di accuse sulle quali si sono sbizzarriti quasi tutti i media del mondo, per addossare a Bush i disastri dell’uragano Katrina quando colpì gli Usa, sono nulla al confronto delle timide note di incapacità, riservate al regime comunista di Rangoon. E pensare che Fassino è rappresentante dell’Ue per la Birmania in tema di Politica estera e Sicurezza Comune. L’avete sentito dire o fare qualcosa? Dove sono i ”savonarola” dell’informazione italiana? Quelli che ”la libera informazione” è solo quella che esce dalle loro labbra?
Gabbiano urlante gabbianourlante.splinder.com
5 RAGIONI PER FESTEGGIARE I SESSANT’ANNI DI ISRAELE In Israele è dominante una filosofia fondata sulla vita e sulla ricerca della felicità qui in terra. Non è per caso che Israele sia all’avanguardia in tutti i settori della scienza, che abbia il più alto tasso di premi Nobel in rapporto alla sua piccola popolazione (appena 7 milioni di abitanti), che gli israeliani siano riusciti persino a far fiorire il deserto e costruire città dal nulla. Israele è uno Stato nato su base volontaria. I cittadini israeliani hanno
tutto il diritto di possedere quella terra tra il Giordano e il Mediterraneo: l’hanno regolarmente acquistata, pacificamente, a caro prezzo. L’hanno lavorata e messa a frutto con il sudore della loro fronte, correndo rischi enormi, sin dal 1880. Pretendere di sloggiarli da quella terra è mera e brutale aggressione, anche se (dichiaratamente o no) tutti gli Stati confinanti vorrebbero la scomparsa di Israele dalle carte geografiche. Israele è uno Stato libero ed è minacciato da dittature. In Israele sono garantiti tutti i diritti individuali fondamentali e anche le minoranze etniche (arabi, drusi, beduini, circassi) sono rispettate. In nessuno dei paesi mediorientali i diritti individuali sono protetti. Israele si può ben definire come l’unico paese libero di tutta la regione. E per 60 anni ha continuato ad essere libero nonostante sia completamente circondato da regimi totalitari e autoritari: un motivo sufficiente per gridare al miracolo. Israele è in guerra da 60 anni, con poche pause di pace instabile. Ma storicamente è sempre vittima di aggressioni, mai aggressore. L’esercito israeliano non ha mai attaccato per primo, se non per prevenire aggressioni imminenti da parte di Stati nemici, come nel caso della Guerra dei Sei Giorni del 1967. Israele combatte contro gli stessi nemici che stanno minacciando l’Occidente e in questo costituisce la nostra avanguardia nel Medio Oriente. Sia la teocrazia iraniana, sia i terroristi islamici di Hamas e della Jihad, sia le dittature arabiste, sono nemici dichiarati delle democrazie occidentali e dei loro valori di secolarismo e libertà. Israele lotta anche per noi.
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PAGINAVENTIQUATTRO destra o la sinistra. Questi fenomeni nazifascisti non sono lontanamente paragonabili a quelli degli anni Settanta…questi ragazzi non sono il prodotto di ideologie o idee, giuste o sbagliate che siano. Al contrario rappresentano il prodotto della crisi di ogni idea». I violenti non hanno sogni di palingenesi sociale. L’ignoranza politica è completa, mostruosa. Suggestioni che non vanno oltre le bandiere o i simboli. Spesso ci sono i naziskin perché sono naziskin i quarantenni che dicono al figlio calciatore “gambizzalo, uccidilo”. Il vuoto culturale e sentimentale dei tinelli della piccola borghesia si riversa poi sugli stadi.
Dietro la violenza giovanile c’è un vuoto culturale e sentimentale
E se fosserro i genitori a far nascere i robot
Se certi intellettuali alla moda rinunciassero a quella sorta di cambio automatico mentale per cui si deve vedere nel saluto romano il ritorno alla violenza e alla mentalità degli anni Settanta-a volte nostalgicamente ricordata come stagione di “vere passioni”-anche l’opinione pubblica sarebbe meno intossicata dai titoli-slogan sotto forma di elaborazioni pseudo-concettuali. Converrebbe conoscere quel che gli studiosi hanno analizzato, prima di scrivere corsivi sociologici. Come? Leggere, per esempio, l’ultimo libro di Umberto Galimberti (L’ospite inquietante, Feltrinelli). A proposito del sangue e delle grida allo stadio, Galimberti insiste sul nichilismo (il credere in nulla) dei giovani. Scrive: «La loro violenza è nichilista perché è assurda, e assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. È puro scatenamento della forza che non si sa come impiegare e dove convogliare, perciò si sfoga nell’anonimato di massa». Gli antiquati schemini politici vedono solo il nero e il bianco. Non contemplano quel letame sociale che è figlio di nessun apparato. Galimberti parla di “generazione x”. Quella degli indifferenti, coloro che non hanno nulla da dire. E anche di “generazione Q”, formata da “incapaci nello stabilire relazioni”. A far paura sono pure gli “squatter” che innalzano il pugno chiuso in un contesto in cui si è collassata la comunicazione. Come i fascistelli pariolini o sanbabilini? No. Scrive Galimberti: «Non assomigliano nemmeno ai loro predessori perché costoro volevamo cambiare il mondo e lo urlavano a quanti lo volevano tener fermo nella roccaforte dei loro salificati interessi, mentre gli squatter a questo cambiamento del mondo non ci credono più». Non è la ribellione o la rivoluzione che invocano. Urlano solo una disperazione. La depressione culturale si fa gesto, mai pensiero. Quel che fa paura è che alcuni genitori stiano covando i robot del nichilismo. Il terreno è fertile. Un esempio: sta per uscire un nuovo Manga (fumetto giapponese) che contiene un gioco macabro: vince chi sopravvive, ossia chi elimina più persone. Poi c’è la televisione con i cartoon giapponesi: emblemi dell’aggressività come unica forma di comunicazione, inni deliranti a una mistica del dolore, su di sé e sugli altri.Tutto carburante mentale ed emozionale per rafforzare la generazione che soffre della mancanza di futuro, che esalta l’attimo fuggente avendo la cupa sensazione che il domani sia senza sbocchi. L’adolescente di oggi può essere una bomba sociale a orologeria.
NICHILISTI di Pier Mario Fasanotti io figlio Pietro ha nove anni e gioca a calcio in una squadra provinciale. Ieri l’ho accompagnato a una partita (faticato pareggio). Ancora una volta ho avuto modo di osservare una parte dei genitori-tifosissimi che incitano i loro campioni con frasi tali che verrebbe voglia di chiamare la Digos. Con esattezza cronistica, riporto alcune frasi. Una signora quarantenne: “Dai, gambizzalo”. Un iroso padre al figlio: “Non capisci un cazzo, dovevi andargli addosso, farlo cadere”. Una madre:”Colpisci duro, ammazzalo”. No, non è fantasia. È realtà. Quei figli ovviamente crescono. Andranno allo stadio. Si comporteranno come quelli di Verona che hanno massacrato il giovane Nicola? Naziskin, si è letto. Giovani con la svastica, il saluto romano, i tatuaggi in stile runico. Quindi, si è sempre letto su alcuni giornali, sono figli della cultura della destra estrema.
M
Scatta il solito automatismo nei commentatori, per cui va quasi a finire che gli ultimi avvenimenti sono da attribuire a dieci idioti inneggianti col braccio teso in occasione della vittoria del sindaco di Roma, Gianni Alemanno. E poi è di moda prendersela con il sindaco leghista di Verona,Tosi. Michele Serra, nella sua rubrica su Repubblica, ci informa, mali-
gnamente, che Tosi «gode dell’assistenza di collaboratori che conoscono il fenomeno naziskin, diciamo dall’interno». E spiega che il capogruppo in Comune è Andrea Miglioranzi, «ex leader degli skinheads veneti e già in carcere per istigazione all’odio razziale». E si tace sempre su ex brigatisti coccolati da certi politici o addirittura eletti consiglieri, su Renato Curcio che presenta e firma libri. C’è un cervello meno frettoloso nel fare colle-
Per Umberto Galimberti questi atteggiamenti sono puro scatenamento della forza che non si sa come impiegare e dove convogliare, perciò si sfoga nell’anonimato di massa gamenti tipici del conformismo dell’intellighenzia col fazzoletto rosso. È Massimo Cacciari, docente di filosofia e sindaco di Venezia (per il Pd), che loda sia pure con qualche prudenza il suo omologo veronese perché ha visto «segnali in controtendenza…sia da Tosi che dall’interno del centro-destra che, ad esempio, ha rifiutato l’alleanza con la Destra di Storace». Cacciari va nel profondo del problema affermando: «Non è un discorso che riguarda la