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Oggi il supplemento

QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

MOBY DICK

Promemoria per Tremonti

SEDICI PAGINE i d DI ARTI onache r c E CULTURA

Sos economia: i dati del 2008 rendono la crisi ancora più grave

di Ferdinando Adornato

HEZBOLLAH TENTA IL GOLPE IL LIBANO SULL’ORLO DELLA GUERRA CIVILE

di Enrico Cisnetto rimo weekend da ministro per Giulio Tremonti. Ma, consiglio non richiesto, è bene che non si riposi troppo. In attesa che il Governo incassi la fiducia, approfitti, signor Ministro, di questa prima pausa per riflettere, perché la situazione della nostra economia è seria e – a differenza di quel che diceva Flaiano – anche grave. La settimana scorsa sono arrivati i dati sui consumi, o meglio sul crollo dei consumi, degli italiani. I dati di Confcommercio mostrano infatti quello che in molti temevano, e cioè che la frenata è arrivata. Redditi e stipendi insufficienti non sono più in grado di sostenere la domanda, e così nel mese di marzo si è registrata la più grave crisi dal 2005 ad oggi, con una contrazione anno su anno dell’1,7%, che colpisce particolarmente l’acquisto di beni (3,4%) e configura un vero trend di stagnazione. Un fulmine a ciel sereno? Neanche per sogno: stia a sentire cosa dicono gli altri indicatori: i dati sulle esportazioni dei primi due mesi del 2008 segnano una crescita verso i paesi Ue dimezzata rispetto allo scorso anno (6,7% contro il 15,3% dello stesso periodo 2007). A conferma di un trend poco confortante: la nostra quota parte mondiale è scesa dal 4,7% del 1996 al 3,4% del 2006, passando dal sesto all’ottavo posto nella graduatoria internazionale. E il recupero nel 2007 ci ha portato solo al 3,6%.

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Undici morti, la parte ovest della città occupata dagli estremisti che vogliono far fuori il governo. E ora si apre il problema del ruolo della missione Onu

La battaglia di Beirut nell’inserto Creato

ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 13 maggio

Serve una campagna come per l’aborto

Una moratoria per gli embrioni di Assuntina Morresi Dal Giappone arriva una scoperta che consente di far regredire le cellule staminali adulte sulle quali è possibile fare ricerca senza distruggere gli embrioni. ”Scienza e vita” chiede la moratoria contro la distruzione degli embrioni.

alle pagine 2 e 3 Giornata della memoria

Una mostra al Quirinale

Napolitano: «No agli ex terroristi in televisione»

Luigi Einaudi Un liberale Presidente

di Riccardo Paradisi

di Maurizio Stefanini

Giorgio Napolitano in occasione del ”Giorno del ricordo delle vittime del terrorismo e delle stragi”, ricordando Aldo Moro ha lanciato un monito durissimo: «Dare voce alle vittime, non agli assassini».

La mostra al Quirinale è dedicata a Einaudi Presidente della Repubblica, ma anche al grande economista liberale e al Governatore della Banca d’Italia, salvatore della Lira e iniziatore della Ricostruzione.

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da pagina 12 SABATO 10 MAGGIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

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WWW.LIBERAL.IT

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IN REDAZIONE ALLE ORE

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la battaglia di

beirut

Nasrallah controlla il lato ovest della capitale, il generale Michel Aoun dichiara: «È un giorno di vittoria per il Libano»

Hezbollah tenta il golpe di Luisa Arezzo a battaglia sembra essersi placata a Beirut, ma il fuoco non è certo spento. Tutt’altro. I miliziani di Hezbollah - armati ed inquadrati come un esercito - hanno guadagnato terreno davanti ai sostenitori sunniti della maggioranza parlamentare guidata da Saad Hariri: ormai controllano (ma di fatto controllavano anche prima dell’escalation) la gran parte di Beirut ovest e, con bombe e mitragilette, hanno bloccato radio, televisioni e giornali legati al figlio del premier ucciso. Al momento i morti sono 11 e numerosi i feriti.

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L’attacco contro Beirut ovest, zona a maggioranza sunnita, era cominciato mercoledì sera e ieri mattina la televisione di Hezbollah, Al-Manar già annunciava che «l’opposizione libanese ha purificato Beirut ovest dai collaborazionisti sionisti». Ieri mattina gli uomini di Hezbollah hanno attaccato ed incendiato le sedi dei partiti di governo ed anche quella di una emittente del movimento di Hariri, Ash Sharq radio. Verso le 11 l’esercito ha fatto allontanare dalla sua casa Walid Jumblatt, uno dei leader della maggioranza, definito da Nasrallah «il vero capo del governo». Un

razzo ha centrato il muro di cinta della casa di Hariri. Sempre l’esercito a fine mattinata ha riaperto la zona intorno al Phoenicia Hotel, che ospita numerosi deputati della maggioranza. A tarda mattinata, come confermato da AsiaNews, uomini armati del Partito socialista siriano sono stati visti prendere posizione. A Tiro uomini armati hanno attaccato la casa del muftì (sunnita) Jabal Amel Sayyed Ali al-Amin. L’ultimo bastione sunnita a cadere è sta-

Paese. Mentre la Farnesina conferma che è già approntato un piano per evacuare i nostri connazionali. Sul piano internazionale, il governo di Fouad Siniora ha ricevuto il sostegno del Consiglio di sicurezza dell’Onu, oltre che di Egitto, Arabia Saudita, Unione Europea e Stati Uniti. L’inviato dell’Onu, Terje Roed-Larsen, ha detto che Hezbollah ha «massicce strutture paramilitari a margine

L’attacco potrebbe essere propedeutico a far cadere il governo filo occidentale di Fuad Siniora e a far tramontare l’ipotesi di un incarico presidenziale a Michel Suleiman to Tarek al-Jadeedi. A quel punto, il leader cristiano maronita Michel Aoun, alleato di Hezbollah, ha potuto dichiarare: «Oggi è un giorno di vittoria per il Libano». Intanto il porto è stato chiuso e il Libano è adesso isolato dopo che l’aeroporto già era stato vietato a decolli e atterraggi. Centinaia di persone, fra cui numerosi stranieri, sono ammassate alla frontiera con la Siria per tentare di lasciare il

La Ue deve inserire Hezbollah nella lista dei terroristi

dello Stato». Intanto già domani si riuniranno al Cairo, in via straordinaria, i ministri degli esteri della Lega Araba, sollecitati dall’Arabia Saudita ed Egitto.

A far precipitare la situazione, mercoledì, era stato il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah che, in un messaggio televisivo aveva sostenuto che la

opo tre giorni di guerriglia urbana, gli uomini della milizia proiraniana di Hezbollah ieri controllavano la Beirut musulmana. Il casus belli è stato la decisione del governo libanese di smantellare un network di comunicazioni parallelo controllato da Hezbollah e creato con l’aiuto dell’Iran, che comprendeva una serie di telecamere posizionate lungo una delle piste d’atterraggio dell’aeroporto di Beirut. Tra le misure adottate dal governo, la rimozione del responsabile della sicurezza dell’aeroporto, vicino a Hezbollah. Naturalmente, la reazione violenta di Hezbollah non si è fatta attendere. Aeroporto sotto assedio, così come le residenze del primo ministro libanese, Fouad Seniora, del leader della maggioranza, Saad Hariri, la cui casa è stata colpita da un razzo, e del leader druso Walid Jumblatt. La sede della televisione di Hariri

Si può accettare D un partito dotato di armi ed esercito? di Emanuele Ottolenghi

rete telefonica del Partito - della quale il governo voleva lo smantellamento - è “un’arma” nella guerra contro Israele, invitando dunque a far ricorso alle armi per difenderla. Rigettando così la proposta di Hariri di porre le questioni dei telefoni e dell’aeroporto nelle mani del capo dell’esercito, Michel Suleiman, da tutti formalmente - designato futuro presidente della Repubblica, ma che da mesi non riesce ad essere eletto. Per Hariri il rifiuto di Nasrallah conferma la volontà di Hezbollah di prender il posto dello Stato. L’ipotesi del “golpe” politico è, al momento, la più verosimile. «Il vuoto di potere alla presidenza della Repubblica, che risale al novembre 2007, dopo la fine del mandato di Emilie Lahoud, non è un problema contingente - spiega Andrea Margelletti, presidente del Cesi - bensì l’ultimo sin-

è stata circondata e la televisione ha dovuto interrompere le trasmissioni, mentre il giornale filo governativo al-Mustaqbal ha chiuso i battenti dopo che la sede è stata data alle fiamme da Hezbollah.

L’Italia partecipa alla forza multinazionale Unifil, di cui ha il comando, nel Sud del Libano, dove da quasi due anni opera per attuare la risoluzione Onu 1701, che, riprendendo precedenti risoluzioni, richiede l’eventuale disarmo di Hezbollah. Naturalmente, la risoluzione ha privato i nostri soldati e le altre forze dell’Unifil del mandato e degli strumenti per raggiungere questo obbiettivo, salvo a trovarsi di fronte alla volontà di Hezbollah di deporre le armi. Questo non è accaduto - Hezbollah, anzi, grazie agli aiuti siriani e iraniani si sta rapidamente riarmando - ma la posizione occidentale riguardo a Hezbollah, almeno per quel che concerne

tomo di una debolezza strutturale politica, sociale e confessionale ben più grave. Il 14 febbraio 2005, giorno dell’uccisione dell’ex primo ministro, Rafiq Hariri, è anche la data di inizio di una lunga serie di attentati, 6 per la precisione, mirati nei confronti di importanti protagonisti della vita politica libanese. Contemporaneamente la frattura interna alla comunità cristiana maronita tra i sostenitori del “Fronte 14 marzo” e l’ex generale Michel Aoun vicino al fronte sciita di Hezbollah e Amal - non lascia intravedere alcuna possibilità di ricomposizione». Lo stallo, dunque, Hezbollah starebbe tentando di superarlo con un attacco militare propedeutico, probabilmente, a provocare la caduta del governo filo-occidentale di Fuad Siniora e a far tramontare definitivamente l’ipotesi di un incarico a Michel Suleiman e a sostituirlo - sempre probabilmente - con il generale maronita Michel Aoun, filo Hezbollah. Uno scenario che, per non degenerare in guerra civile, dovrebbe trovare il sostegno di un governo di unità nazionale. Certo è che quando si imbracciano le armi, il futuro è difficile da governare.

gli europei, è che non può essere considerata un’organizzazione terrorista, bensì un movimento politico, a causa dell’appoggio che gode tra la popolazione sciita, delle attività di sostegno economico e sociale che le sue organizzazioni assolvono, e della sua rappresentanza politica. Di fronte a tale curriculum di attività - che, non dimentichiamo, avvengono grazie a un continuo e sontuoso finanziamento iraniano e servono a conservare il potere militare di Hezbollah intatto - l’Europa non ha mai adottato una posizione ferma, postulando sempre in maniera un po’ pusillanime che l’inclusione di Hezbollah a pieno titolo nel gioco politico avrebbe moderato l’organizzazione, inducendola col tempo a integrarsi pienamente nel tessuto politico nazionale. In parole povere, gli estremisti sarebbero divenuti pragmatici e moderati di fronte alla prospettiva di poter


la battaglia di

beirut

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In caso di guerra ci vogliono truppe combattenti

Le regole di ingaggio? Cambiarle non serve di Stranamore gombriamo subito il campo da ogni dubbio: l’ultima cosa di cui c’è bisogno è che qualche buontempone, come l’inviato Onu in Libano, per non parlare del governo italiano, si mettano a parlare di cambiare le “regole di ingaggio”o peggio ancora di mutare il mandato dell’Unifil. Posto che la competenza è tutta Onu, non certo dei singoli governi dei Paesi partecipanti alla missione (che al massimo possono operare qualche aggiustamento, eliminare eventuali restrizioni o chiedere un atteggiamento più deciso, ma non possono mutare unilateralmente le proprie regole), ai fini commentatori che discettano di questi temi forse sfugge che per emettere una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza possono bastare poche ore, ma per cambiare pelle ad Unifil occorre tempo. Si deve passare da una forza da peacekeeping, che non è né robusta né abbastanza consistente, ad una forza combat con ben altra struttura e capacità di combattimento. Cerchiamo di non dimenticare che lezioni ha inflitto Hezbollah a Tsahal nel 2006 prima di aprire la bocca. Perché se si accetta il rischio di

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Beirut, poi con lo spiegamento del nostro contingente nel Libano Meridionale. Ma c’era una differenza: a Beirut non si combatteva strada per strada, mentre nel Libano meridionale Hezbollah si limitò a guardare quanto avveniva. Si parlò appunto di uno “sbarco quasi amministrativo”. Ora la realtà è molto più “calda”. Mentre un’evacuazione per via aerea potrebbe risultare pericolosa, considerando che l’aeroporto di Beirut può diventare un campo di battaglia. Quindi non si perda tempo nell’ordinare l’approntamento di uomini e mezzi.

L’Unifil ha una discreta capacità di autodifesa, anche se la disposizione dei reparti sul territorio e la composizione e capacità di combattimento dei contingenti è coerente con la situazione “pregressa” e con il mandato ricevuto dall’Onu. Sicuramente il Generale Graziano sta attuando le misure, già studiate, per migliorare la sicurezza dei suoi uomini, prima ancora di continuare a svolgere i compiti assegnati. Per fortuna la presenza di consistenti forze navali alleate a sorvegliare le coste libanesi, la disponibilità di unità della 6° Flotta Statunitense in Mediterraneo e i tempi ridotti di navigazione dalle basi navali di Taranto, Brindisi, Tolone, consentono una certa capacità di intervento immediato o almeno rapido. Quanto alle componenti aeree, si può pensare di utilizzare quella “portaerei naturale”che è Cipro. Una delle carenze più gravi dell’Unifil consiste proprio nella mancanza di una propria autonoma componente aerea, che sarebbe indispensabile sia per la sorveglianza, sia per il trasporto rapido, sia per l’eventuale supporto di fuoco. Gli elicotteri di cui dispone la Unifil sono insufficienti ed inadeguati. Ma lo schieramento di velivoli Unifil in Libano è stata preclusa dalla scarsa disponibilità dei Paesi partecipanti a metterli a disposizione, dall’opposizione Israeliana a vedere in Libano aerei e velivoli, specie se armati… che non siano i propri e dalla mancata richiesta da parte del governo libanese. Ed ora i nodi vengono al pettine. Per ora la situazione non è completamente degenerata. Gli scontri a Beirut sono intensi, ma neanche troppo. Certo il governo Siniora ha sopravvalutato la propria forza cercando di compiere un primo tentativo di spuntare gli artigli ad Hezbollah, imponendo lo smantellamento della rete di comunicazioni e comando e controllo militare clandestina di Hezbollah. Un po’come è accaduto ad Al Maliki quando ha gettato il suo inesperto esercito contro Moqtada Sadr, Siniora ha creduto troppo nelle capacità militari delle milizie sunnite costituite molto in fretta, ancorché addestrate da consiglieri in gamba, armate da Usa e monarchie sunnite del Golfo. L’Esercito Libanese, dal canto suo, è in gravi difficoltà, sia perché rischia di sfasciarsi, sia perché ha buona parte delle sue unità schierate in Libano meridionale e nella Bekaa: non ce la fa a “tenere”Beirut. Quindi conviene davvero sperare che la crisi non diventi guerra.

Se la situazione precipita bisogna evacuare sia i civili (e il piano c’è già) che l’Unifil. È necessario passare da una forza di peacekeeping a una combat

A fianco dall’alto: Saad Hariri, figlio dell’ex premier ucciso Rafiq; il leader druso Walid Jumblatt e Fuad Siniora

partecipare alla gestione del Paese. È un ragionamento curioso questo, che in Europa non faremmo mai nei confronti di partiti estremisti, visto che la nostra esperienza passata ci insegna che di solito succede il contrario. Quando gli estremisti entrano al governo, non diventano mammolette, ma sovvertono la democrazia. E mai tollereremmo quindi un partito, per quanto forte e popolare, che si crea una sua milizia autonoma, con armi più sofisticate dell’esercito nazionale, e con fini politici distinti da quelli dello Stato. Il nostro passato storico - l’esperienza nazifascista in particolare - ci mettono in guardia a non ripetere simili sciocchezze. Ma quel che non tolleriamo qui abbiamo voluto che i libanesi accettassero per non far correre rischi alle nostre truppe. E le conseguenze, annunciate sin dall’agosto 2006, sono naturalmente scaturite: di fronte ai tentativi di Hezbol-

lah di sovvertire lo Stato libanese e al rifiuto occidentale di costringere Hezbollah al disarmo nel rispetto della legalità internazionale, gli altri gruppi politici libanesi hanno cominciato a riarmarsi.

Dopo gli scontri di questa settimana il Libano è più che mai vicino alla guerra civile. Soltanto il disarmo di tutte le milizie e l’imposizione di un’unica autorità in grado di usare la forza - lo Stato cioè, attraverso la sua polizia e le sue forze armate - potrà scongiurare il peggio. Forse il mandato Unifil non potrà essere cambiato - e in quel caso l’Italia farebbe meglio a richiamare i suoi soldati piuttosto che lasciarli in Libano a guardare, impotenti e a rischio - ma ci sono comunque cose che l’Europa, di fronte a questa crisi, può fare: per esempio, mettere Hezbollah sulla lista delle organizzazioni terroriste dell’Unione Europea.

un mission creeping senza avere sul campo gli uomini e i mezzi adeguati, per quantità e qualità, poi va a finire come in Somalia. Ed ora parliamo di cose serie. Quando in qualche parte del globo scoppia una crisi, si suole dire che la prima richiesta del presidente degli Stati Uniti sia verificare dislocazione e disponibilità delle portaerei, lo strumento primario per proiettare rapidamente potenza militare, dove necessario. Ecco, in queste ore, all’indomani delle prime fasi del prevedibilissimo regolamento di conti tra le fazioni libanesi, è bene auspicare che nelle stanze dei bottoni del neo governo italiano e di quello francese ci si sia stia preparando a fronteggiare uno spettro di evenienze molto ampio, comprese quelle più pessimiste.

Per parlar chiaro: lo scoppio di una guerra civile in piena regola in Libano e l’eventualità di dover procedere non solo ad una operazione Neo (Non combatant evacuation operation) in favore dei civili occidentali in Libano (come nel 2006 durante la guerra tra Israeliani e Hezbollah), ma anche a una più delicata evacuazione della Unifil dal Libano meridionale. Naturalmente gli Stati Maggiori hanno preparato i relativi piani. Ma le forze e i mezzi necessari per eseguirli devono essere approntati e questo richiede tempo e uno sforzo immane, soprattutto quando le risorse sono già impegnate in missioni reali in ogni parte del globo. Nel 2006 la Marina Militare Italiana compì un miracolo di efficienza prima con l’evacuazione Neo da


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Promemoria per il ministro dell’Economia. La fase più dura della congiuntura è alle spalle. L’Italia invece peggiora

Sos economia I dati dei primi mesi del 2008 rendono la crisi ancora più grave di Enrico Cisnetto segue dalla prima Serve altro? C’è il dato sulla mortalità delle imprese, il peggiore dal 2000: nel terzo trimestre del 2007 ben l’1,12 per cento degli imprenditori italiani ha chiuso i battenti. Insomma, i famosi nodi stanno venendo al pettine , e proprio nel momento in cui la congiuntura internazionale sta volgendo al sereno – non lo dico solo io, lo dicono “nasi” più fini come quello di Warren Buffett, del premio nobel Gary Becker, del segretario del Tesoro statunitense Harry Paulson, secondo i quali la fase più purulenta della crisi dei subprime è ormai alle spalle – l’Italia ancora una volta fa da variabile indipendente.

Del resto era già successo nel post 11 settembre: dal 2001 al 2005 gli Usa non erano entrati in recessione, anzi la locomotiva americana aveva continuato a correre, incurante dei profeti

Scontiamo ritardi pluridecennali mentre gli Usa sono già fuori dalla recessione. Servono scelte impopolari, non alibi come il fantasma cinese di sventura. Anche in quegli anni c’era un governo Berlusconi e Lei, signor Ministro, si trovava nella postazione di comando di via XX Settembre. Allora si utilizzò la crisi innescata dall’attacco alle Torri gemelle per giustificare l’andamento stagnante della nostra economia. Senza accorgersi appunto che di recessione negli Stati Uniti non vi era traccia (l’unico rallentamento semmai vi fu prima dell’11 settembre, non dopo).

Adesso che la “nuttata” dei subprime sembra passata, e che la crisi finanziaria non si è trasmessa all’economia reale, come da me detto più volte, come la mettiamo? Perché lo specifico italiano – Lei lo sa, e mi dicono che ne faccia cenno anche in privato – si chiama declino. Cioè il risultato di decenni di non-decisioni che hanno portato ad un accumulo di ritardi terrificanti. Non

ci sono solo i cumuli di immondizia napoletana, ci sono anche questi cumuli di nodi accatastati che sono ancora più difficili da sciogliere. Il nostro podotto interno lordo da dieci anni cresce un terzo di meno di quello di Eurolandia (mediamente tra il 1997 e il 2006 abbiamo fatto segnare un +1,4 per cento all’anno, contro il 2,2 per cento dell’area euro). Nel decennio, il differenziale accumulato rispetto agli altri Paesi della moneta unica nella creazione di ricchezza è stato di 8 punti, che diventano addirittura 18 rispetto agli Stati Uniti, visto che nel medesimo periodo l’economia americana è cresciuta ad un ritmo del 3,2 per cento all’anno, ben 2,3 volte superiore a quello italiano. Insomma, siamo di fronte a un trend di lungo periodo, a una crisi che viene da lontano: poca crescita, bassa produttività, salari in coda a tutte le classifiche e assolutamernte incapaci di reggere alla prova del potere d’acquisto.

Tutte deficienze che vanno sanate con le operazioni coraggiose – e dunque impopolari, tipo una drastica riduzione della spesa pubblica – che la situazione richiede. Nel frattempo non ci sono più foglie di fico: non siamo a un nuovo 1929, il terrorismo ha abbassato la testa (non diciamolo troppo forte, per scaramanzia); la Sua maggioranza è la più solida del dopoguerra. Non ci sarà nemmeno un’estate calda sindacale: la scelta di Cgil-Cisl-Uil di presentarsi ai suoi nuovi interlocutori, la Confindustria di Marcegaglia e il Berlusconi IV, con una proposta di cambiamento del modello contrattuale, e la

In 10 anni abbiamo accumulato un distacco di 8 punti rispetto alla crescita di Eurolandia e abbiamo il peggior dato dal 2000 sulla mortalità delle imprese stessa uscita di scena soft del “nemico” Luca di Montezemolo, futuro super-ambasciatore del Made in Italy, inaspettati aprono spazi di concertazione e spazzano via l’idea dello scontro sociale. Dunque, signor Ministro, questa volta non si vede veramente con chi ce la si possa prendere. Forse con gli sceicchi, visto che il petrolio a 125 dollari al barile pesa su di noi più che su gli altri Paesi soprattutto a livello di inflazione, anche se la gran parte delle colpe di essere lo Stato europeo più dipendente dall’estero (90 per cento di energia importata) riguardano tutta la clas-


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Tremonti, Brunetta e Sacconi: i ministri migliori di fronte alla sfida più difficile

Tre cose da fare nei primi cento giorni di Giuliano Cazzola i possono avere differenti opinioni sul IV Governo Berlusconi e le personalità che lo compongono (salvo ovviamente chiedersi perché mai gli esponenti del centro destra siano sempre tenuti a fornire dei curricula qualificati solitamente mai richiesti a quelli del centro sinistra, i quali sono sempre ritenuti onesti, seri e competenti per definizione). Sembra di poter affermare, però, che su alcuni ministri del comparto economico e sociale (Franco Debenedetti ha parlato di nomi eccellenti) il giudizio positivo sia abbastanza condiviso. Cominciamo da due new entry particolarmente significative in settori strategici come il lavoro, il welfare e la salute, da un lato, l’innovazione e la funzione pubblica, dall’altro. Il titolare del primo dicastero è Maurizio Sacconi, uomo politico di lungo corso, già sottosegretario nel precedente governo Berlusconi; del secondo è Renato Brunetta, brillante economista, già parlamentare europeo. Ambedue ex socialisti, di tempra e cultura riformista, competenti nelle materie loro affidate, in grado di intessere rapidamente le relazioni indispensabili per affrontare e governare le situazioni cruciali connesse al loro mandato. Alte ed importanti sono le sfide dell’innovazione che Brunetta e Sacconi dovranno gestire. Il primo è chiamato a sciogliere i nodi di un’amministrazione inefficiente, debole con i forti e forte con i deboli, palla al piede dell’azienda Italia nel faticoso procedere verso una maggiore capacità competitiva. Il secondo deve misurarsi al più presto con le parti sociali nel tentativo di stabilire rapporti corretti tanto con il mondo dell’impresa quanto con quello sindacale. Brunetta e Sacconi erano amici di Marco Biagi; del professore bolognese avevano apprezzato lo stile e le intuizioni in tante occasioni di impegno solidale e comune. L’insegnamento del professore bolognese sarà il viatico della loro azione di governo.

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se dirigente nazionale e cominciano vent’anni fa, col famigerato referendum sul nucleare.

Non ce la possiamo prendere proprio con nessuno, insomma. Rimangono forse solo i cinesi. Ma direi che è meglio lasciar perdere. Sarebbe tempo sprecato, anche perché Pechino, mentre noi straparliamo di fiaccola olimpica e di rispetto dei diritti umani in Tibet, ha bellamente abbandonato il suo ruolo di “Paese emergente” per darsi a produzioni ad alto contenuto di conoscenza. Se sono i produttori di t-shirt a basso costo che ci fanno tanta paura, allora possiamo stare tranquilli, dato che ormai la Cina ci ha battuto anche come percentuale di Pil destinata a ricerca e sviluppo. Questa volta non ci sono nemici e non ci sono scuse. Meglio rimboccarsi le maniche e iniziare a lavorare, perché sul Suo operato e su quello del Governo non farà sconti nessuno. Buon lavoro, caro Ministro. (www.enricocisnetto.it)

Ci sono poi degli obiettivi di più lunga scadenza che potrebbero chiamare in causa taluni interventi strutturali sulle pensioni. Ma per il momento Sacconi non ha intenzione di rimettere in discussione i punti del protocollo relativi alle soluzioni trovate (scalini+quote) per l’età pensionabile di anzianità. Brunetta ha un compito arduo. In primo luogo dovrà invertire la tendenza, invalsa negli ultimi anni, a premiare i dipendenti pubblici sul piano retributivo senza pretendere nulla in cambio sul terreno dell’efficienza e della produttività.

Messe a posto le cose, dovrà accompagnare sul versante dell’amministrazione e della gestione del personale le eventuali riforme della politica. Basti pensare alle conseguenze di accentuati processi federalistici sugli organici delle amministrazioni pubbliche, evitando la solita prassi di decentrare funzioni lasciando pressoché inalterate le strutture e gli organici centrali. Per rimanere, poi, sul terreno importante e delicato delle politiche economiche e finanziarie, il rientro di Giulio Tremonti all’Economia è una garanzia di buon governo. Come Brunetta e Sacconi, Tremonti è un politico dotato di notevoli competenze tecniche. La sua gestione dell’Economia nel corso della XIV Legislatura (salvo per la breve e sciagurata parentesi di Domenico Siniscalco: gravissimo errore di Berlusconi) è stata ampiamente rivalutata (dopo le cattive performance di un tecnico puro come Tommaso Padoa Schioppa) negli ultimi anni. A Tremonti viene riconosciuto di aver saputo a gestire - anche attraverso la c.d. finanza creativa - anni molto difficili caratterizzati da un periodo di stagnazione economica tra i più duraturi del dopoguerra. Dopo l’uscita del suo saggio «La paura e la speranza», su Tremonti sono piovute moltissime critiche e l’accusa di «protezionismo». Basterebbe leggere con attenzione il suo libro per scoprire che Tremonti si limita a proporre una libera riflessione sui problemi reali della globalizzazione che non possono essere elusi con delle petizioni di principio.Tanto più che il ministro sa benissimo che gli Stati della Ue sono impotenti come dei poveri gattini ciechi, al di fuori di un contesto comunitario. Giulio Tremonti, infatti, ha sempre coltivato dei rapporti ottimi con i circoli di Bruxelles e della finanza internazionale, ogni volta che il ministro si è trovato nella necessità di varare un progetto di legge finanziaria e di adottare misure di revisione del sistema previdenziale e di riforma del mercato del lavoro. Anche questa volta il ministro dovrà affrontare una situazione difficile. Tutti gli osservatori concordano nel riconoscere al Belpaese, nel 2008, un incremento del Pil pari a qualche decimale di punto (0,3-0,4% se non addirittura meno). Il deficit dell’anno in corso salirà – bene che vada – al 2,6%, aprendo dei seri problemi nel percorso verso il pareggio di bilancio nel 2011 definito da Tommaso Padoa Schioppa «obiettivo non negoziabile con la Ue». Tanto che, secondo lo stesso ministro dell’Economia, saranno necessari interventi per 30 miliardi di euro nel prossimo triennio per mantenere gli impegni assunti con Bruxelles. Infine, è ripartita l’inflazione (già oltre il 3%), spinta da fattori strutturali come il costo della bolletta petrolifera e dei generi alimentari. Da subito Tremonti dovrà trovare le risorse per l’abolizione completa dell’Ici e per dare copertura ai provvedimenti di Sacconi. Il fatto è che il «tesoretto» non esiste più.

Per il ministro del Welfare e quello dell’Innovazione, l’insegnamento di Marco Biagi sarà un buon viatico per la loro azione di governo

Per il ministro di welfare e salute l’agenda è scritta da tempo, fin dalla campagna elettorale. Si tratta di portare a compimento le priorità della detassazione del lavoro straordinario e delle voci della retribuzione legate alla produttività e di favorire una riforma degli assetti contrattuali all’altezza delle nuove esigenze della produzione e del lavoro, anche sulla base della recente intesa intervenuta tra Cgil, Cisl e Uil. Gli scogli di questa operazione sono sostanzialmente due: a) per quanto riguarda il lavoro straordinario si dovrà tener conto della preoccupazione dei sindacati garantendo loro che le nuove misure non stravolgeranno le disposizioni (e i limiti) che le leggi e i contratti prevedono né altereranno i contenuti degli accordi aziendali sull’organizzazione dell’orario di lavoro; b) relativamente ai premi aziendali e alle altre voci retributive che usufruiranno delle agevolazioni, è molto difficile trovare una soluzione che accontenti i sindacati, i quali rivendicano che i benefici vadano solamente alle somme contrattate e non anche alle erogazioni unilaterali dei datori. Il che significherebbe riconoscere ai sindacati una rendita di posizione, in quanto le imprese sarebbero costrette a negoziare con loro allo scopo di ottenere (e di far ottenere ai propri dipendenti) gli sconti fiscali.


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politica

L’indignazione di Napolitano nel giorno della memoria per le vittime degli anni di piombo

«Sono ex terroristi non star televisive» d i a r i o

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La partita dei viceministri Si sta definendo il puzzle dei viceministri. Le ultime indiscrezioni parlano di novità in arrivo per il caso Brambilla. Il presidente dei Circoli della libertà potrebbe avere la delega al Turismo (che riguarda il ministero dello Sviluppo economico), ma non ci sono conferme a riguardo. Ieri mattina Michela Brambilla è stata ricevuta dal Cavaliere ma non si è sbilanciata sul suo futuro. In pole position per la delega alla Salute sarebbe tornato Ferruccio Fazio. Restano salde le quotazioni di Roberto Castelli della Lega alle Infrastrutture con delega al Nord.Adolfo Urso di An è sempre tra i più accreditati per andare Commercio con l’Estero, mentre le Comunicazioni spetterebbero a Paolo Romani di Forza Italia. Ancora non è stato deciso il numero dei vice: allo stato, il presidente del Consiglio sarebbe orientato a tenere basso (a quota cinque) rispetto ai nove di cui si parlava precedentemente.Ancora aperta la partita dei sottosegretari: la nomina è confermata per lunedì.

Sgarbi: «Avviso di sfratto alla Moratti»

di Riccardo Paradisi

ROMA. Cominciò Sergio Zavoli con La notte della Repubblica alla fine degli anni Ottanta a mettere gli ex terroristi delle Brigate rosse davanti alle telecamere. Ma le luci – soffuse verso lo scuro – il tono seminquisitoriale del conduttore e una scenografia espiativa conferivano all’evento qualcosa di grave. I ruoli erano ben definiti insomma, la memoria di quanto avevano fatto quelle persone ancora fresca e comunque rinnovata da uno Zavoli che incalzava con domande del tipo: «Che cosa si prova ad essere un assassino». Oppure: «Si è mai posto il problema del giudizio di Dio?». Gli ex terroristi – alcuni pentiti, altri solo dissociati – non avevano pose saccenti, apparivano aureolati di grigio, come contriti, schiacciati dal peso di quello che avevano fatto. Poi, e in fretta, le cose sono cominciate a cambiare: già all’inizio degli anni Novanta e per tutto il decennio fino ad anni recenti non c’era trasmissione o servizio giornalistico sugli anni di piombo che non ospitasse un ex terrorista – gettonatissimi quelli delle Br, ma anche Prima Linea o Nar tiravano molto.

Si è così passati dalla contrizione a una rinnovata e malcelata aggressività polemica transitando per la stazione intermedia del narcisismo dei redenti. E basta leggere alcune prove d’autore degli ex Br, tutte pubblicate da ottimi editori, per capire come non si fosse mai sopita in questi soggetti l’ambizione del protagonismo pubblico. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha còlto l’occa-

sione del giorno della memoria per le vittime del terrorismo per dire che la misura è colma. Che è giunto il momento di dire basta alle tribune concesse da stampa e televisione ad ex terroristi. «Lo Stato democratico, il suo sistema penale e penitenziario - ha dichiarato il presidente della Repubblica – si è mostrato in tutti i casi generoso. Ma dei benefici ottenuti gli ex terroristi non avrebbero dovuto avvalersi per cercare tribune da cui esibirsi, dare le loro versioni dei fatti, tentare ancora subdole giustificazioni». A far scattere l’indignazione di Napolitano, come ha spiegato lui stes-

«Non dimentichino le loro responsabilità quanti abbiano contribuito a campagne di odio da cui sono scaturite le azioni terroristiche» so, è il fatto di avere letto alcuni giorni fa l’intervista di un ex brigatista, «lo stesso che un anno fa ha raccontato con agghiacciante freddezza come aveva ammazzato il vicedirettore della Stampa Carlo Casalegno e che ora ha detto di provare rammarico per i familiari delle vittime delle Br, ma aggiungendo di aver dato per scontato che, quando si fanno azioni di un certo tipo, accade di dare dei dispiaceri ad altri. No, non dovrebbero avere tribune per simili figuri». Sono parole che le famiglie delle

vittime – che in questi trent’anni non hanno avuto voce né microfoni perchè il loro dolore non faceva notizia quanto la ferocia dei carnefici – attendevano di ascoltare da decenni. Sono arrivate dal Quirinale nel giorno della memoria e nella ricorrenza dell’omicidio di Aldo Moro. «Vorrei sentiste questa iniziativa», ha detto Napolitano rivolgendosi ai famigliari delle vittime presenti alla cerimonia, «come un gesto di riparazione per il senso di solitudine che vi ha fatto temere di essere dimenticati».

Un impegno che il presidente della repubblica si è assunto in nome delle Istituzioni, precisando che l’Italia doveva da tempo questo omaggio ai colpiti dal piombo terrorista. Parole dure insomma quelle di Napolitano anche se non c’è nessuna inappellabilità nelle sue parole: «Chi ha commesso dei delitti ha il diritto di reinserirsi nella società, ma con discrezione e misura e mai dimenticando le sue responsabilità morali anche se non più penali. Così come non dovrebbero dimenticare le loro responsabilità morali tutti quanti abbiano contribuito a teorizzazioni aberranti e a campagne di odio da cui sono scaturite le azioni terroristiche, o abbiano offerto al terrorismo motivazioni, coperture e indulgenze fatali». Un passaggio questo sui cattivi maestri denso di riferimenti taciti a personaggi e ambienti precisi. Che ancora oggi mal sopportano di essere individuati come anch’essi responsabili di quanto è avvenuto in Italia negli anni di piombo.

»Ritornerò a Milano per le prossime elezioni a sindaco, visto che considero il ritiro delle mie deleghe uno scippo dei miei voti. Confido quindi che la Moratti non farà il sindaco per il secondo mandato: il mio è un avviso di sfratto». A meno di 24 ore dal suo licenziamento da assessore alla Cultura, Vittorio Sgarbi lancia la sfida contro il suo ormai ex sindaco e promette che, anche se Roma rimane la sua residenza d’elezione, il capoluogo lombardo resterà uno dei campi privilegiati della sua azione politica. «A breve - ha affermato Sgarbi - tornerò a fare politica a Milano e presenterò una mia lista per le prossime elezioni provinciali in una logica di alleanza che chiede però quel rispetto».

Veltroni presenta il “governo ombra” Il leader del Pd, Walter Veltroni, ha presentato la composizione del “governo ombra” messo a punto per rispondere al neo governo Berlusconi. Tra i nomi elencati dal leader dei democratici che guiderà l’esecutivo, c’è anche quello del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, al “dicastero” delle riforme per il federalismo. Fanno parte del governo ombra anche, tra gli altri, Piero Fassino, Pierluigi Bersani, Marco Minniti, Linda Lanzillotta, Ermete Realacci, Giovanna Melandri e Vincenzo Cerami. L’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Ricardo Franco Levi, sarà il portavoce del governo ombra. Il coordinatore dell’esecutivo sarà invece Enrico Morando. Il Pd si dota anche di un coordinamento che sostituirà il “caminetto” per affiancare Veltroni nella guida del partito. Del coordinamento faranno parte 9 dirigenti: Piero Fassino, Pierluigi Bersani, Enrico Letta, Dario Franceschini, Goffredo Bettini, i due capigruppo Antonello Soro e Anna Finocchiaro, nonché Giuseppe Fioroni e Paolo Gentiloni.

Amato: «Troppa detenzione preventiva» «In Italia c’è troppa detenzione preventiva e poca certezza della pena». A sostenerlo è l’ex ministro dell’Interno, Giuliano Amato, durante il suo intervento in occasione della celebrazione della Giornata per l’Europa al Quirinale. Rispondendo alle domande di alcuni studenti intervenuti alla cerimonia, Amato ha puntato il dito sulle carceri italiane che spesso ospitano piu’ detenuti di quelli che consentirebbe una convivenza civile all’interno degli istituti detentivi. «In Italia sottolinea il ministro uscente - riusciamo ad avere un numero di detenuti superiore ai posti previsti nelle carceri. Molti dei quali devono avere ancora un processo. Poi, quando glielo fanno questo processo, spesso escono». «C’è più certezza della detenzione preventiva - sottolinea - che della pena e ciò accentua la debolezza del nostro sistema carcerario».


polemiche

10 maggio 2008 • pagina 7

Abolito il ministero, non emergono per ora significativi interventi

Il governo non tiene famiglia di Luisa Santolini l governo Berlusconi è ai blocchi di partenza. Ha giurato nelle mani del presidente della Repubblica, durante i primi giorni della prossima settimana otterrà la fiducia dai due rami del Parlamento, dopodiché siamo tutti in attesa di vedere quali saranno le scelte alle quali il governo metterà mano, anche se le cronache e le stesse dichiarazioni dei neo ministri hanno già largamente anticipato quali saranno le priorità dei primi cento giorni. Ed è proprio da queste anticipazioni che vale la pena fare qualche riflessione, tenendo presente che il discorso che il presidente Berlusconi farà in Parlamento sarà il vero banco di prova su cui maggioranza e opposizione si misureranno. Si parla di sicurezza, di federalismo fiscale, della abolizione dell’Ici sulla prima casa, di problemi ambientali, di detassazione degli straordinari, di immigrazione, di rilancio della economia, di riforme elettorali, di riforma delle Istituzioni, di infrastrutture. Tante proposte in vasti campi della vita del Paese, proposte giuste e condivisibili, certamente urgenti, ma non si può non notare che mancano in tutti questi progetti alcune “voci” che a mio avviso sono altrettanto urgenti e che non possono essere accantonate pena una pesante ipoteca sulle teste dei nostri figli. Parlo dei temi cari alla stragrande maggioranza del popolo italiano e che sembrano non entrare nella agenda della attuale maggioranza: la bioetica, la iniquità fiscale nei confronti della famiglia, l’educazione e la formazione, un sistema di welfare che si dimostri family friendly, riconoscendo il valore della famiglia come ammortizzatore sociale e come insostituibile sistema di welfare. Non sono temi secondari e avrebbero diritto di cittadinanza e pari dignità rispetto ai temi elencati poc’anzi.

I

Una prima osservazione riguarda la mancata istituzione di un dicastero dedicato alla famiglia. Si dice che il ministro delle Pari Opportunità avrà la delega per queste politiche, ma ciò dimostra la poca sensibilità dell’esecutivo in questa materia, se pensa che le politiche per la famiglia non meritino una attenzione specifica, non confusa con i problemi delle pari opportunità che sono tutta un’altra cosa. Si può obiettare che anche la Sanità, il Lavoro e il Welfare sono accorpati e fanno capo ad un unico ministro, ma si può rispondere che un errore non può giustificarne un altro analogo e poi che il presidente

ogni tipo e non per i meriti conquistati con rigore e disciplina, che vede docenti demotivati e mal pagati, che si arrovella su formule burocratiche e su graduatorie, su meccanismi di funzionamento e sugli orari, ma non sulle uniche cose che una scuola deve fare: la formazione e l’educazione.

È chiaro che le tre “I” annunciate – Informatica Inglese Impresa - sono ben poca cosa e non possono tranquillizzare le famiglie che dalla scuola si aspettano doverosamente molto di più. È lecito chiedere cosa farà il nuovo governo? Per quanta riguarda l’equità fiscale per le famiglie è noto che le famiglia è il fanalino di coda in Europa e non solo. Da calcoli fatti risulta che una famiglia monoreddito con due figli che abbia un reddito di 25.000 Euro in Italia paga 1.750 Euro di tasse, in Germana 730 Euro, in Francia 50 Euro. Una ingiustizia palese che certo non si risolve con l’annunciato bonus bebè di 1.000 euro, magari con un tetto di reddito medio-basso. Dell’annunciato quoziente familiare non si parla, almeno come provvedimento urgente da varare con la prossima Finanziaria. C’è da augurarsi che il governo non pensi di risolvere il tema del fisco familiare con il sostegno dei salari o con l’abolizione del’Ici, essendo queste misure giuste ma non “a misura di famiglia” perché non fanno alcuna differenza tra che ha figli e chi non ne ha. Quali risposte sono previste per le legittime richieste delle famiglie? Infine un breve cenno ai problemi del nascere e del morire. Il Ministro Turco con un atto del tutto arbitrario e privo di ogni correttezza istituzionale ha emanato, poche ore prima di passare la mano al Ministro del nuovo Governo, le nuove linee guida della Legge 40, allargandone a dismisura le maglie e tradendone lo spirito e la lettera. Il nuovo capo del dicastero della Sanità abrogherà queste linee guida o no? In generale il governo appoggerà o no tutte quelle leggi sulle coppie di fatto, sul testamento biologico o sulle differenze di genere che il Partito Democratico ha annunciato di voler ripresentare? Credo seriamente che non succederà, ma sarebbe bene che il Presidente Berlusconi spendesse una parola in proposito e tranquillizzasse quel popolo del“family day” che è ancora in attesa di risposte serie e di proposte credibili.

Il presidente Berlusconi dovrebbe cercare di tranquillizzare quel popolo del “family day” che ancora attende risposte serie e proposte credibili

Viene in mente la affermazione del premier Berlusconi in campagna elettorale secondo la quale in tema di valori la attuale maggioranza è “anarchica”, ma mi sembra riduttivo liquidare la questione per una battuta che poi molti autorevoli esponenti del centro destra hanno smentito. Qui non si tratta di discutere su generici e aleatori valori, ma di porre sul tappeto questioni cruciali che attengono al futuro di questo Paese.

Berlusconi ha già dichiarato che tra pochi mesi procederà ad uno “spacchettamento”di questo dicastero. Mentre non mi pare che sia in programma uno spacchettamento per il Ministero della Famiglia. È lecito chiedere perché? Le politiche per la famiglia e con la famiglia non sono solo le politiche del welfare, anche se ne rappresentano una grande parte, ma sono le politiche fiscali, sono le politiche della scuola, sono le politiche della natalità, sono le politiche del lavoro, sono le politiche locali, che, tutte, devono rispondere al principio di sussidiarietà e a criteri di equità e di giustizia. Che intenzione ha il nuovo governo a proposito della scuola? Sono ormai troppi gli anni che hanno visto la scuola sballottata tra una riforma e l’altra, una scuola che sta scivolando negli ultimi posti delle classifiche Ocse, che vede gli studenti balzare nelle prime pagine dei giornali per atti di violenza di


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pensieri

Il “caso Brescia” metafora dello spaesamento delle élite industriali e bancarie ex prodiane dopo la vittoria di Berlusconi

Povero establishment, ora cambierà casacca? di Giancarlo Galli

er tentare di capire quel che va ribollendo nel gran palude dell’establishment del Nord, fra l’Alta finanza ed il top dell’imprenditorialità, bisogna rifarsi alla notte fra il 14 ed il 15 aprile. Se l’attenzione generale è concentrata sul trionfo del centrodestra berlusconiano, nei ristretti circoli di “coloro che contano”, manovrando la spada del potere dalla parte dell’elsa, le valutazioni sono ben più articolate. Caricate di interrogativi sull’accadrà domani. O meglio: nel prossimo quinquennio. Che il Cavaliere uscisse vincitore era scontato, giacchéqua-

P

si nessuno concedeva credito alle rodomontate del giovane (ma non troppo) Walter annuncianti una rimonta al fotofinish. Tuttavia, nessuno, proprio nessuno, s’aspettava i tre milioni e rotti di voti a vantaggio del Pdl e la scomparsa dal Parlamento della Sinistra arcobaleno. S’era scommesso su un verdetto di “quasi pareggio”, a propiziare governi fragili, in cui avrebbe avuto un ruolo importante, oltre a forze intermedie, la “brigata dei tecnici”, con capofila il professore bocconiano Mario Monti (tanto caro al Corriere della Sera), spalleggiato da Luca Cordero di Montezemolo, in libera uscita dopo il passaggio di Confindustria alla mantovana Emma Marcegaglia. Le cifre hanno dissipato l’illu-

sione, poiché tale era. Giustificabile solo col fatto che l’establishment e gli intellettuali sono da sempre estranei alle sensibilità popolari. Sin dall’alba di martedì 15, mentre i giornali si dilungano in bizantine analisi col senno di poi, l’establishment ha preso coscienza del dato di fondo: le elezioni dell’aprile 2008 dovevano essere storicamente valutate, collegandole a quelle di sessant’anni prima: il 18 aprile 1948 che segnò attraverso il successo della Dc degasperiana e la bruciante sconfitta del Fronte popolare di Palmiro Togliatti e Pietro Nenni, l’inizio dell’Era democristiana. Segui-

ficiato di aiuti pubblici? Però un Cavaliere sfrontatamente solitario, stravincente alla faccia di legioni di critici e denigratori, necessitava di contrappesi. Forse per questo, all’antivigilia delle elezioni, il fior fiore dei “potenti” aveva manifestato simpatie per il Partito democratico. Da Profumo di Unicredit a Bazoli di Intesa-Sanpaolo. Con Roberto Colaninno che spedisce in trincea il figlio Matteo, ad esempio. Senonché a un establishnment in fibrillazione, giunge la ferale notizia. In quel di Brescia il centrodestra ha sfondato.

Nessuno si aspettava una così plateale bocciatura nel luogo simbolo dei cattolici democratici, dove ha prevalso la capacità di mediazione dei formigoniani

cendo passare in secondo piano l’immigrazione incontrollata, il deficit delle opere pubbliche. Inoltre non ci si accorge che nel mondo cattolico, cresciuto nel ricordo del conterraneo Giovan Battista Montini, straordinario Pontefice, è maturata una spinta al rinnovamento interpretata da un battagliero esponente di Comunione e liberazione che a Martinazzoli-Bazoli preferisce il governatore lombardo Roberto Formigoni: un Adriano Paroli, capace di amalgamare le anime berlusconiane, leghiste, dell’Udc, ottenendo sin dal primo turno il 51 per cento. Quello di Brescia non è

Bazoli

Paroli

Martinazzoli

è stato per anni il perno di un fronte prodiano che aveva nella città lombarda la sua roccaforte. Con il presidente di Banca Intesa si era consolidato un asse sostenuto dalle fondazioni di Guazzetti e dal finanziere Zaleski

ha battuto Delbono, candidato del Pd designato dalla confraternita cattoulivista alla successione di Corsini, grazie alla capacità di amalgamare Cl con le anime berlusconiane, quelle leghiste e l’Udc

è stato sindaco con un’alleanza formata da cattolici progressisti e post comunisti: dopo aver retto per 14 anni quel modello è stato spazzato via in modo impietoso e imprevedibile

rono (sia detto a beneficio di chi non c’era o ha perso la memoria), il miracolo economico, il risanamento delle finanze pubbliche, la pax sociale con la socialcomunista Cgil ridimensionata dalle nascenti Cisl e Uil. L’Italia divenne paese industriale, moderno, agganciato all’Europa, in un processo di sviluppo che proseguì anche dopo la scomparsa di De Gasperi.

Sebbene guardato con sospetto, mai metabolizzato, Berlusconi è comunque riconosciuto “vero imprenditore”. Almeno da una buona fetta della Confraternita del big-business, che sulla faccenda del conflitto di interesse ha sempre fatto spallucce: quale grande Industria non ha bene-

Brescia, nel panorama politico nazionale (al pari di Bologna per le sinistre), è la città-simbolo del “cattolicesimo democratico”. Incarnato da Mino Martinazzoli, ultimo segretario del Partito popolare, pluriministro sin dagli anni Ottanta, e “padre politico” di quel movimento che ha espresso Nino Andreatta e poi Romano Prodi. Disegno nobile, di alto profilo, stimato dal cardinal Carlo Maria Martini, gesuita rigoroso. Sino alla confluenza nell’Ulivo, nel Pd. Ma Brescia è innanzitutto la capitale dei prodiani con alle spalle l’esplicito sostegno di quel gran banchiere che è Giovanni Bazoli, anche forte del sodalizio con le fondazioni bancarie guidate da Giuseppe Guazzetti (ex notabile dc cre-

sciuto nella corrente di base di De Mita e Marcora); del finanziere internazionale Romain Zaleski.

Di questo schieramento Brescia era la roccaforte. Da lustri, ed inespugnabile. Dapprima con Martinazzoli sindaco, eletto nel 1994 da una coalizione fra cattolici progressisti e post comunisti; poi con il diessino Paolo Corsini. Si eviti tuttavia di etichettare cattocomunista il modello bresciano: chi ci prova incorre in fulmini e anatemi. Idem per chi denuncia l’autoreferenzialità, come è avvenuto con la designazione del successore di Corsini: il cattoulivista Emilio Delbono. Brescia viene dipinta come la città della Lombardia meglio amministrata, fa-

un semplice ricambio amministrativo: piuttosto, come nella Bologna 1999 con la vittoria di Giorgio Guazzaloca, l’eclisse di un modello, di un modo di concepire la politica. La caduta andrà assumendo le caratteristiche della valanga. Quel complesso di alleanze che s’erano andate cementando e che garantì le personalità di Bazoli e Martinazzoli, prende a sfrangiarsi. «Prodi è morto e Bazoli non gode più di buona salute. Cinque anni sono lunghi e dobbiamo adeguarci», sospira con cinismo un banchiere di prima grandezza e antico pelo. «Visto come Montezemolo è stato lesto a cambiare casata? Andrà per il mondo con la feluca dell’ambasciatore berlusconiano. E presto, vedrai…».


&

parole

ROMA. Nel futuro, D’Alema lo vedrebbe bene chiuso in una stanza e intento, insieme agli altri “grandi vecchi”, a dare consigli a un gruppo dirigente «molto rinnovato». Nel presente, consiglierebbe a Veltroni di diventare un leader meno solitario, perché «sarebbe assurdo che la strategia di rinascita fosse definita da una persona sola»: «Andrebbe bene se ci fosse un Moro in circolazione, ma non c’è». Insomma, per quanto si sforzi di tirare fuori dalle macerie post-sconfitta un ragionevole ottimismo, il piddino-popolare Pierluigi Castagnetti, in giro in auto per l’Italia a commemorare l’anniversario del ritrovamento di Moro, alla fine non si risparmia qualche calcetto tirato democristianamente qua e là: tra il sì al governo ombra, il no alle correnti balcanizzate, le critiche alla Margherita che fu, una possibile alleanza con l’Udc e le tensioni di un partito che, nonostante tutto, vede ora e sempre guidato dal Piccolo Principe. Massimo Franco parla di un Pd sbandato, senza centro e un po’ caricaturale. Lei quale aggettivo userebbe? È un partito molto provato da un risultato inatteso e alla ricerca ancora di capire cosa è successo e perché. Quindi abbastanza stordito direi, sia al centro che in periferia. Ma penso che la misura del risultato abbia sorpreso anche i vincitori: un consenso superiore alle loro aspettative, che mi ha ricordato la Dc. Non perché questa destra le somigli affatto, intendiamoci. Però c’è una vicinanza nel tipo di rapporto coi cittadini, c’è una identificazione tra il sentimento del Paese e la sua modalità di pensare la politica. Il Pdl come la Dc? Bisognerà non dirlo a Follini, che aveva sognato quel paragone proprio per il Pd. In effetti noi avevamo l’ambizione di essere il country party e non ci siamo riusciti. Anzi di più: abbiamo scoperto che lo erano i nostri avversari. E così siete passati dal country party allo shadow cabinet all’italiana. Visco dice che la trovata è interessante, ma non andrà da nessuna parte. Non sono d’accordo: il governo ombra. è una modalita moderna di fare opposizione. Anche io, quando ero capogruppo, avevo in animo di organizzarlo. Mi sono dovuto fermare di fronte ad alcune difficoltà tecniche e alle resistenze da parte diessina. Ma non c’è dubbio che sia efficace. Le piace anche tutto questo risorgere di correnti l’un contro l’altra armata? Piace molto ai media amplificare, dipingere i convegni come luoghi di congiura. In realtà la gravità della situazione è presente a tutti: nessuno ha intenzione di giocare. Tra dalemiani, rutelliani, popolari, veltroniani non mi pare ci sia qualcuno che gioca. Non escludo che si creino luoghi di discussione ed elaborazione: che proliferino pure, è un bene. Ma le correnti no, non stanno rinascendo. Ne ho esperienza, perché vengo dalla Dc, e so che c’è bisogno di un progetto, di una idea che le connoti. E se invece si trattasse soltanto di scontri di potere? Polito su questo giornale ha parlato di «balcanizzazione del Pd». Se diventasse uno scontro di potere, sarebbe un rischio mortale per il Pd. È dannosa la nascita di correnti prima di aver

10 maggio 2008 • pagina 9

Il futuro del Pd. Viaggio dopo la sconfitta /5 Pierluigi Castagnetti

«L’unica prospettiva è un’alleanza con l’Udc» colloquio con Pierluigi Castagnetti di Susanna Turco

Abbiamo solo un altro interlocutore parlamentare all’opposizione, non ci sono margini ulteriori: dobbiamo partire da una coabitazione virtuosa e costruire in prospettiva capito dove fare andare la barca: poi, fra un anno, potranno essere anche molto hard, ma adesso bisogna riflettere. Siamo ancora in una fase di grande ricerca, dobbiamo rimettere in discussione le scelte fatte. Non voglio dire che Veltroni abbia sbagliato, ha avuto meriti straordinari. Però c’è un problema grosso: l’obiettivo di fondo non è stato centrato, dobbiamo chiederci perché. C’è chi dice che è fallito anche il progetto di fusione di Ds e Margherita e che oggi il Pd è solo una Quercia allargata. No, la verità è che la stessa Margherita non era riuscita a darsi una identità propria, ed era prevedibile che nell’incontro coi Ds sarebbero riemerse le sue diverse componenti. Un altro fronte che si è aperto nel dopo-sconfitta è quello delle alleanze. C’è chi guarda alla sinistra, chi al centro. E tutto questo si intreccia con le oggettive difficoltà con l’Italia dei Valori. Lei che ne pensa? Una delle difficolta post elettorali è che il 33 per cento è anche un buon risultato, ma abbiamo il deserto intorno. Quindi anche questo tema, in fondo, ha spazi molto ridotti: c’è solo un altro interlocutore parlamentare, che è l’Udc. L’unica possibilità,

quindi, è quella di coltivare una coabitazione virtuosa all’opposizione con i centristi, nella prospettiva di costruire eventualmente una alleanza politica, strategica. Per il momento l’Udc è molto prudente e non meno smarrita del Pd, ma non è che abbiamo altri margini: le alleanze si fanno con quelli che ci sono. Follini andrebbe oltre: fuori Di Pietro, dentro l’Udc. Pensare di fare fuori l’Italia dei valori è assurdo. Abbiamo fatto un accordo, è passato appena un mese dalle elezioni: sappiamo che il rapporto sarà sempre dialettico e faticoso, ma la politica è anche questo. D’Alema ha rimarcato più volte la necessità di ricordarsi della sinistra. La scelta di andare da soli non può essere messa in discussione, ma questo non vuol dire che una volta consolidata l’autonomia del Pd non si possano fare alleanze anche con formazioni politiche con le quali già amministriamo regioni e città. Dopodiché bisognerà vedere se in futuro a sinistra ci sarà la stessa toponomastica di ieri, ho qualche dubbio. Da più parti si è rimproverato a Veltroni aver messo in piedi una leadership troppo solitaria. La critica è fondata. la campagna elettorale è stata così per scelta sua, del resto

aveva l’esigenza di marcare la differenza. Ma in qualche momento c’è stata una solitudine eccessiva, senza che se ne sia reso conto. Veltroni inconsapevole? Non è questione polemiche sui caminetti, ma più le scelte sono difficili, più il coinvolgimento di chi rappresenta qualcuno e qualcosa è necessario. Sarebbe assurdo che la strategia di rinascita fosse definita dal leader soltanto. Un mandato del genere - visto che è il 9 maggio - lo darei se ci fosse un Moro in circolazione, ma non c’è. E sento la mancanza della sua silenziosa ma operosa lungimiranza. Ma a parte questo, circondarsi di altri conviene a tutti: in politica la solitudine non può essere una scelta. Uno sforzo di fantasia: come vede il Pd fra tre anni? Ci sarà ancora? Sì, ci sarà, e il segretari sarà ancoraVeltroni. Il gruppo dirigente probabilmente sarà molto rinnovato. E probabilmente ci sarà una stanza in cui ci sarà spazio per chi ha più esperienza e vuol metterla a disposizione degli altri. Chi ci sarà in questa stanza? Beh, io stesso aspirerei a stare in un posto con la sola possibilità di dare qualche suggerimento, a maggior ragione dovrebbe starci uno come D’Alema. Entriamo nell’ordine di idee che chi ha gestito questi quindici anni non possa gestire i prossimi quindici. Ma, non avendo commesso nessun reato, abbia comunque la possibilità di mettere a disposizione la propria esperienza.


pagina 10 • 10 maggio 2008

memorie

Anniversari. Dal 13 maggio al Quirinale una mostra a sessant’anni dall’elezione di Luigi Einaudi

Un liberale Presidente Il Capo dello Stato che salvò la Lira e iniziò la Ricostruzione di Maurizio Stefanini onarchico, governò da re. E fu il migliore dei Presidenti della Repubblica Italiana». È passato più tempo da quando nel 1975 Giovanni Mosca mise questa epigrafe a un busto di Luigi Einaudi nella sua Storia d’Italia in 200 vignette, di quanto non ne fosse passato allora dal settennio dello stesso Einaudi. Al Quirinale era allora Giovanni Leone: nella stessa pubblicazione definito «Il marito della Regina Vittoria», per la forte immagine della moglie. Gli sarebbero seguiti altri Presidenti dalla personalità spiccata: il populista e popolarissimo Sandro Pertini; il picconatore Francesco Cossiga; quello che «non ci stava» Oscar Luigi Scalfaro; il restauratore di inni, tricolori e sfilate del 2 giugno Carlo Azeglio Ciampi; il post-comunista Giorgio Napolitano. Eppure, nel sentire collettivo resta sempre Einaudi il migliore. Sì: al Pertini partigiano dedicarono un fumetto Andrea Pazienza e una canzone Toto Cutugno. Sì: Cossiga con un piccone in mano divenne cartone animato nel video di un brano da discoteca costruito attorno alle sue esternazioni. Ma solo di Einaudi, tra tutti i presidenti italiani, capita di vedere i suoi famosi aforismi su quadretti appesi nei locali di elettrauto o nelle botteghe di barbiere, malgrado la sua autoironica convinzione di saper fare solo «prediche inutili». A partire da quello famoso della dedica che fece all’impresa dei Fratelli Guerrino il Dogliani, il 15 settembre 1960, vero inno della piccola impresa: «migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria

«M

azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie ed investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con altri impieghi».

È anche a questo Einaudi popolare, quello che come diceva Montanelli «conosceva a memoria le cifre dell’economia italiana, come i re che lo precedettero conoscevano a memoria i nomi e i motti dei reggimenti», che è dedicata la mostra in corso al Quirinale dal 13 maggio al 6 luglio, nel sessantesimo anniversario della sua elezione. Ma anche al grande economista liberale, docente alla Bocconi e a Torino e direttore di riviste scientifiche come Riforma Sociale o Rivista di Storia Economica. E al Governatore della Banca d’Italia tra 1945 e 1948, salvatore della Lira e iniziatore della Ricostruzione. E al padre costituente, fautore pionieristico dell’anti-trust e campione del pareggio di bilancio in epoche di keynesianesimo forsennato. E all’appassionato viticultore, che quando ricevette il padre dei sette fratelli Cervi uccisi dai fascisti si mise a parlare con lui di tecniche di legatura e potatura. E al raffinato collezionista di libri rari, che al centro della biblioteca della casa di San Giacomo aveva fatto costruire uno speciale studioscala, apposta per poter rag-

Al centro, Luigi Einaudi mentre scende la scale del Quirinale; sotto, insieme a Gianni Agnelli. A destra: una caricatura di Einaudi disegnata da Amintore Fanfani nel ’’48; il governatore al tavolo di lavoro nello studio della Banca d’Italia; Luigi e la moglie Ida Einaudi in casa durante l’esilio in Svizzera; Ernesto Rossi, Altiero Spinelli e Luigi Einaudi all’osteria del Matematico a Velletri; infine il governatore insieme con la famiglia nel cortile di San Giacomo

giungere più facilmente tutti e quattro i livelli dove erano conservati i 50.000 libri e 20.000 riviste. E all’antifascista, che votò al Senato contro le leggi razziali e dopo il 25 luglio iniziò un articolo con un famoso “heri dicebamus” che metteva tutto il ventennio tra parentesi. E al pensatore federalista, che già a 23 anni scriveva di Stati Uniti d’Europa. E al giornalista di Stampa, Corriere della Sera e Economist: costretto a sigliare i suoi pezzi contro voglia, nella convinzione che «il grande giornalismo è tutto anonimo, veda il Times, veda i grandi giornali svizzeri e tedeschi».

Non a caso, non una ma ben tre fondazioni a suo nome sono state necessarie per gestire il suo sterminato lascito intellettuale: la Fondazione Luigi Einaudi di Torino, attorno alla grande biblioteca e alla sua cattedra universitaria, per gli studi storici, economici e istituzionali; la Fondazione Luigi Einaudi per gli studi di politica ed economia di Roma, nata dall’allora Pli e volta allo sviluppo della cultura liberale; l’Ente per gli studi monetari, bancari e finanziari Luigi Einaudi pure di Roma, promosso dalla Banca d’Italia e rivolto più specificamente alla formazione degli economisti.

Ma c’è pure il Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi” di Torino, «libera associazione di imprenditori e intellettuali» e promotore fra l’altro della famosa “Biblioteca della Libertà”. E tutte queste istituzioni hanno organizzato

la mostra, assieme a Presidenza della Repubblica, Banca d’Italia, Senato, Camera e Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Naturalmente, la “merce” più presente sono i libri. Ma ci sono anche opere d’arte, a partire dai busti di Adam Smith e di Benedetto Croce che teneva in biblioteca: pur trovandosi in effetti a metà strada tra il laissez faire del primo e l’idea di un possibile liberalismo non liberista del secondo, con la sua teoria di uno Stato interventista per ripristinare i principi della concorrenza. Che è poi il principio che oggi va per la maggiore. E ci sono fotografie, testimonianze inedite, oggetti quotidiani, le bottiglie della sua cantina. Tutti e tre i suoi studi sono ricostruiti con precisione corredati di tutti i documenti, oggetti, arredi, dipinti e sculture originali: lo studio alla Banca d’Italia dove progettò la stabilizzazione della lira; lo studio al Quirinale, da dove garantì la ripresa della vita democratica dell’Italia repubblicana, e acui intitolò la


memorie

sua famosa raccolta di “lezioni sul buon governo” Lo scrittoio del Presidente; il già citato studio-scala di San Giacomo, prediletto luogo di appartata riflessione. Otto le sezioni della mostra. La prima, sugli anni formativi e la prima maturità, tra 1874 e 1914. La seconda, sul periodo dalla Grande Guerra al fascismo regime tra 1914 e 1926: quando per aver firmato il Manifesto degli Intellettuali Antifascisti di Benedetto Croce venne estromesso dalle cattedre alla Bocconi e al Politecnico di Torino, anche se potè conservare quella all’Università di Torino, oltre al seggio di senatore, a quel tempo di nomina regia e a vita.

La terza, sugli anni del raccoglimento durante il regime, che diede problemi a tutti e tre i suoi figli: fino a quando nel 1943 non sarà costretto a sua volta alla fuga attraverso le Alpi per arrivare in Svizzera, dove vivrà in esilio per circa un anno. La quarta sezione è poi su Luigi Einaudi e l’Europa, pensata in profondità attraverso pagi-

ne fondamentali su temi quali la distinzione tra federazione e confederazione, la crisi dello Stato sovrano, l’origine della guerra, l’organizzazione dello Stato federale, la necessità della Federazione europea. La quinta sezione considera l’attività di Luigi Einaudi alla Con-

Il ricordo di Montanelli: «Conosceva a memoria le cifre dell’economia italiana, come i re che lo precedettero ricordavano nomi e motti dei reggimenti» sulta e alla Costituente tra 1945 e 1948. La sesta il suo operato di Governatore della Banca d’Italia e Ministro del Bilancio, pure tra 1945 e 1948. La settima sezione è finalmente sul Presidente della Repubblica, tra 1948 e 1955. E l’otta-

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va è, infine, sulle sue radici: il podere di San Giacomo a Dogliani. Una cappella sconsacrata, un nobile fabbricato settecentesco in rovina e 15 ettari di vigne di Dolcetto in cui nel 1897 il ventitreenne Luigi Einaudi investì il compenso del suo primo scritto, contraendo per di più un debito in apparenza sorprendente, per un così noto fautore dei pareggi di bilancio. Fu quello il luogo dove sarebbe tornato sempre, per curare i suoi vigneti e la sua grande biblioteca. Tuttora gestiti dalla nipote Paola Einaudi, che vive nella stessa casa, i Poderi Luigi Einaudi sono ricordati come “l’azienda agricola più antica del Doglianese” nelle guide gastronomiche, che consigliano il Dolcetto di Dogliano Doc Vigna Tecc per “antipasti, primi piatti, carni rosse in arrosto, brasate e stracotte, pesce azzurro arrosto o in umido, formaggi”. Infine, accompagna la mostra un documentario di Luca Einaudi e Nicoletta Leggeri sulla sua vita, in collaborazione con l’Istituto Luce.


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speciale bioetica

Creato

Come per l’aborto, serve una grande campagna per orientare la ricerca sulle cellule adulte

UNA MORATORIA PER GLI EMBRIONI di Assuntina Morresi a Camera, premesso che: Ian Wilmut, lo scienziato scozzese padre della pecora « Dolly » ha deciso di abbandonare le sue ricerche sulla clonazione e la sperimentazione sugli embrioni umani […] impegna il Governo a promuovere presso le sedi europee una moratoria che consenta di sospendere per un congruo periodo di anni la distruzione di embrioni umani a fini di ricerca, consentendo nel frattempo ai laboratori e agli scienziati del settore di poter usare le linee cellulari staminali embrionali già esistenti senza dover interrompere gli studi già avanzati».

«L

Il 5 dicembre 2007 l’on. Luca Volontè è stato il primo a sottoscrivere una mozione - presentata alla Camera dei Deputati che chiedeva la sospensione della distruzione di embrioni umani per la ricerca. La proposta, lanciata il 21 novembre scorso con un editoriale sul quotidiano Avvenire firmato da Eugenia Roccella, è stata raccolta nei mesi

VicePresidente del Parlamento Europeo Mario Mauro, insieme alla parlamentare tedesca dei Verdi Hiltrud Breyer, ha promosso l’iniziativa riuscendo a coinvolgere deputati di schieramenti differenti: Vittorio Prodi e Patrizia Toia, fra gli italiani, e poi il verde tedesco Peter Liese, l’irlandese Kathy Sinnott, e molti altri dell’Intergruppo della Bioetica. La questione in gioco è quella della ricerca sulle cellule staminali embrionali. Nel 1997 con la nascita della pecora Dolly la clonazione di organismi complessi sembrava essere una tecnica oramai utilizzabile, anche se da migliorare per efficienza. L’anno successivo, poi, lo scienziato americano James Thompson per primo riuscì a ricavare una linea cellulare di staminali embrionali umane. Questi due eventi sembrarono aprire definitivamente la strada alla medicina rigenerativa, cioè a quella branca della medicina che si propone di ricostruire organi o tessuti danneggiati, trapiantando nuove cellule che vanno a sostituire quelle alterate o distrutte da malattie. Si

L’obiettivo è quello di poter arrivare a fare ricerca solo con le staminali etiche successivi da numerosi politici italiani e da ben ventiseimila persone che hanno comunicato la propria adesione all’Associazione Scienza &Vita, oltre che allo stesso Avvenire. Un successo inaspettato, considerato che si tratta di argomenti complessi e che ad eccezione del medesimo quotidiano, non c’è stata pubblicità nei media. La proposta di moratoria è poi sbarcata in Europa, con un’interpellanza scritta seguita da un dibattito nella sede istituzionale: il

tratta della stessa strategia seguita con il trapianto di organi, il quale però ha due grandi problemi: la scarsità degli organi disponibili, che sono sempre inferiori alle richieste, e quello della loro compatibilità con chi li riceve, i quali devono continuamente sottoporsi a terapie immunosoppressive per evitare il rigetto. Il problema è allora quello di riuscire a generare tutti i tipi di cellule e tessuti – cardiaco, muscolare, neuronale, etc. – a seconda delle necessità, e con lo stesso

Dna del malato, per superare problemi di compatibilità. Le cellule staminali embrionali sono totipotenti, cioè riescono a sviluppare ogni tipo di tessuto presente nel nostro corpo, e quindi rispondono allo scopo, almeno in teoria: se si riuscisse a guidarne la differenziazione, da una linea di staminali embrionali si potrebbero ricavare tutti i diversi tipi di cellule di cui è costituito il nostro organismo. Queste cellule si ottengono distruggendo embrioni allo stadio di blastocisti, cioè ai primi giorni di sviluppo. Creando in laboratorio embrioni con lo stesso Dna del malato – cioè clonando - se ne potrebbero ricavare cellule staminali con lo stesso patrimonio genetico della persona di cui si devono ricostruire i tessuti danneggiati, superando i problemi di rigetto. Clonare, quindi, non per far nascere bambini copie di altri esseri umani – clonazione riproduttiva – ma per creare embrioni da distruggere e ricavarne cellule staminali con il Dna voluto – clonazione terapeutica. La tecnica è quella utilizzata per la pecora Dolly – trasferimento nucleare - , ed è la stessa sia per la clonazione riproduttiva che per quella terapeutica; la differenza è che nella seconda l’embrione viene distrutto per ricavarne le staminali, mentre per la prima il suo sviluppo continua con l’impianto in utero. Dalla nascita di Dolly ad oggi l’efficacia della clonazione mediante trasferimento nucleare è stata sempre bassissima per gli animali; negli esseri umani, poi, la tecnica non ha mai funzionato, e non esiste al mondo una sola cellula staminale embrionale umana ricavata da embrioni clonati. Una procedura fallimentare che però crea molti problemi etici: innanzitutto si cerca di creare embrioni che sicuramente andranno distrutti; secondariamente, si apre la ricerca sulla clonazione umana; infine, si avalla sempre più l’idea che un embrione umano possa

essere utilizzato come strumento per la ricerca. Inoltre tutte le ricerche di base vengono effettuate, nel frattempo, su cellule staminali ottenute comunque da embrioni distrutti, solitamente considerati “in sovrannumero” e messi a disposizione dalle cliniche in cui si effettuano fecondazioni in vitro. C’è anche da aggiungere che in questi anni non è stata sviluppata nessuna terapia, neppure un protocollo clinico sperimentale, con le cellule staminali embrionali, delle quali non si riesce ancora a governare lo sviluppo e la differenziazione in tutti i vari tipi di tessuti; con le cellule staminali adulte, invece, esistono terapie già consolidate, oltre che a numerosi protocolli sperimentali. La scoperta dello scienziato giapponese Shinya Yamanaka ha rivoluzionato tutto questo scenario:Yamanaka è riuscito ad ottenere cellule staminali con proprietà molto simili a quelle embrionali a partire da cellule della pelle, modificate con una manipolazione genetica che per-

mette loro di “ringiovanire” fino ad uno stadio prossimo a quello embrionale. Si indicano con la sigla iPS, che sta per “staminali pluripotenti indotte”, prontamente ribattezzate dai media “staminali etiche”, proprio perché per ottenerle non c’è bisogno di creare per poi distruggere embrioni umani.

Le nuove cellule staminali avrebbero poi lo stesso Dna della persona che ha messo a disposizione le cellule della pelle: in questo modo non c’è più bisogno di seguire la strada – infruttuosa – della clonazione. La nuova strategia di ricerca è così promettente che Ian Wilmut, il “padre”della pecora Dolly, una settimana prima che i risultati di Yamanaka fossero pubblici, ha annunciato a tutto il mondo di abbandonare la ricerca sulla clonazione per seguire la strada tracciata dal giapponese. Insieme al lavoro di Yamanaka sono stati pubblicati risultati del tutto analoghi ottenuti dall’equipe di James Thompson, lo stesso scien-


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Un’utopia che muove interessi economici colossali

Il mito del potere di creare l’uomo di Ernesto Capocci embrerà strano, ma se si parla di ricerca sulle cellule staminali embrionali, non si può non parlare di soldi. Di una montagna di soldi, che costituisce la chiave di lettura per spiegare quel che sta succedendo nel mondo dopo la scoperta fatta nel novembre 2007 da due equipes che, lavorando in maniera indipendente, una americana e una giapponese, sono riuscite a “ringiovanire”cellule umane adulte. Quando il presidente degli Stati Uniti, George Bush, nel 2001, bloccò i finanziamenti federali ai progetti di ricerca che prevedevano la distruzione di embrioni umani, la California - che ospita 2.600 aziende biomedicali e 87 università e istituti di ricerca privati per un totale di 32,3 miliardi di dollari di entrate e 15,5 miliardi di dollari in spese annuali per la ricerca - s’impegnò, attraverso un referendum, a investire tre miliardi di dollari in dieci anni. Oggi, lo Stato americano – leader bio-medicale nel mondo - elargisce ogni anno 14 miliardi di dollari in stipendi e i 230.000 lavoratori impiegati nel settore guadagnano circa il 60% in più rispetto allo stipendio medio di altri settori. Nel 2003, per dare un’idea, il valore delle esportazioni bio-medicali dalla sola California raggiunse i 7,1 miliardi di dollari.

S

ziato che dieci anni fa era riuscito a produrre la linea cellulare staminale embrionale. Ma era stato Yamanaka, nel 2006, a presentare per primo i risultati della sua tecnica di “ringiovanimento” ottenuti da esperimenti sui topi: in altre parole, il principio su cui si basa la tecnica per ottenere le Ips è stato scoperto e messo a punto lavorando esclusivamente sui topi, dimostrando che tutta la controversa sperimentazione sugli embrioni umani si poteva evitare. Ecco quindi l’idea della moratoria: sospendere la distruzione di embrioni umani per produrre linee cellulari staminali, e concentrare tutti gli sforzi della comunità scientifica nel mettere a punto la tecnica individuata da Yamanaka. Nel frattempo chi ha ricerche in corso che utilizzano le staminali embrionali potrebbe continuare il proprio lavoro utilizzando le linee cellulari già esistenti. Fra qualche anno si fa il punto della situazione per verificare la possibilità di utilizzare definitivamente solamente le staminali etiche. Perché no?

Il concorrente più agguerrito degli Stati Uniti in questa forsennata corsa economica è l’Asia. Di tre miliardi di dollari è stato il budget complessivo di Biopolis, la città delle scienze biomediche inaugurata a Singapore nel novembre 2001: circa 200’000 m2 di palazzi, laboratori e strutture attrezzate, più 20’000 m2 di uffici e 15’000 m2 tra utilities e zone commerciali. «I comportamenti dei ricercatori, la mancanza di sistemi di verifica e l’eccessiva competizione, hanno causato studi falsificati», ha denunciato il Ministero della Scienza, che si riferiva alle ricerche dello scienziato Hwang Woo-Suk (che ora sembra abbia ripreso le sue attività in Thailandia), che due anni fa annunciò di essere riuscito nell’esperimento più controverso e più ambito: la clonazione di un embrione umano. Era un falso clamoroso. L’Europa, che aveva necessità di tenere il passo del mercato della ricerca nel mondo, approva, nel 2006, il Programma quadro di ricerca per il periodo 2007-2013: circa 51 miliardi di euro. Con l’ambiguità che è propria di molte sue decisioni, pur escludendo di finanziare attività di ricerca che direttamente implichino la distruzione di embrioni, «non impedisce alla Comunità di finanziare stadi successivi che coinvolgano cellule staminali embrionali umane». Quindi, finanziamenti comunitari possono essere dirottati per quei laboratori che, acquistate altrove, linee di staminali embrionali già prodotte, sviluppino su queste la loro attività, senza fare alcun cenno – ed è questo il punto più imbarazzante di quel programma-quadro - ad una data di produzione delle linee di staminali utilizzabili, aprendo alla possibilità che le linee in questione non provengano da embrioni crioconservati da anni, ma invece da quelli prodotti oggi, o anche domani, se non addirittura appositamente ”ordinati”, senza considerare che i risultati migliori - dicono le statistiche - si ottengono da embrioni di recente ”produzione”. Che cosa ha prodotto tutto questo danaro? Nulla. Non esiste alcun luogo del mondo dove sia stata prodotta una sola cellula staminale attraverso la clonazione terapeutica. Anche sugli animali l’efficacia della clonazione è bassissima, inferiore al 2%.

Tanto denaro e zero risultati. Le nuove scoperte delle equipes giapponese e americana sono rivoluzionarie per l’intera ricerca scientifica del pianeta, perché, se si possono riprogrammare cellule adulte, non occorre creare embrioni“ad hoc”o utilizzare quelli in sovrannumero come fonte di preziose cellule pluripotenti, capaci di trasformarsi nei 220 tipi cellulari che compongono il corpo umano. La rivista “Cell”ha ospitato il resoconto del team giapponese guidato da ShinyaYamanaka.“Science”ha pubblicato il lavoro dei ricercatori statunitensi coordinati da Junying Yu e James Thomson (lo scienziato che per primo nel 1998 scoprì che dall’embrione umano si potevano ricavare cellule staminali). Il“NewYork Times” ha parlato di “lavoro che potrebbe rimodellare tutta la ricerca”, il “Chicago Tribune”di “progresso semplicemente spettacolare”. Le cellule staminali“adulte”sono quelle cellule, ancora indifferenziate o rese indifferenziate, che si trovano nell’organismo già formato, possono essere prelevate senza rischi per il soggetto donatore, e sono potenzialmente in grado di trasformarsi in qualunque cellula specializzata, così da riparare i tessuti e gli organi eventualmente danneggiati. La loro plasticità le rende adatte a molteplici sperimentazioni cliniche, che si svolgono già sull’uomo in quanto gli studi effettuati precedentemente sull’animale hanno dato risultati positivi e incoraggianti. Al contrario di quanto avviene con le cellule staminali di derivazione embrionale, si tratta di una ricerca che non viola alcun principio etico fondamentale. La ricerca con le cellule staminali tratte dall’embrione precoce, oltre a non avere prodotto finora risultati terapeutici apprezzabili nemmeno sul modello animale, causa sistematicamente la morte degli embrioni coinvolti. Al contrario le staminali “adulte”– comprese quelle derivate da tessuti fetali e da sangue del cordone ombelicale – consentono di rispettare fino in fondo il diritto alla vita e all’integrità fisica del donatore.

La ragione vorrebbe che le nuove scoperte, impongano la riconversione immediata della ricerca sulle cellule staminali embrionali. I laboratori si dovrebbero riorganizzare, come ad esempio, si sta verificando in Giappone, dove, dopo sole due settimane dalla pubblicazione delle nuove scoperte, sono stati finanziati in maniera cospicua gli studi sulla riprogrammazione delle cellule adulte. In realtà, le nuove scoperte costituiscono un vero e proprio pericolo per coloro che hanno perseguito la strada della clonazione, riproduttiva o terapeutica poco importa (sono la stessa cosa finchè non si produce l’embrione). L’eugenetica moderna ha perseguito in questi anni – e persegue ancora – consapevolmente o inconsapevolmente, il mito di fare l’uomo, attraverso la clonazione. Un obiettivo non solo nefasto, ma antiscientifico. I risultati nulli e i progressi di quella parte della scienza che vuole perseguire strade che non minacciano la vita e possono costituire un progresso serio per l’intera umanità, fanno sì che nei laboratori scientifici ci si “dimeni”per accelerare ricerche che finora sono stati fallimentari. Istituzioni e Governi sembrano non assecondare un processo che, grazie alle nuove scoperte, potrebbe mettere oggettivamente in crisi equilibri ed interessi consolidati e posizioni ideologiche precostituite, che condizionano l’approccio critico alla conoscenza.


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speciale bioetica

Creato

Sono tante le firme raccolte da “Scienza e Vita” per la moratoria

Ventiseimila volte no alla distruzione della vita di Massimo Delle Foglie entiseimilaventisei firme raccolte in tutta fretta per sostenere una giusta causa. 26026: un bel numero palindromo (di quelli, cioè, che sono perfettamente speculari se letti da sinistra o da destra rispetto alla cifra centrale). E c’è stato, naturalmente, chi ha voluto leggervi un segnale positivo sul destino della mobilitazione. Ma è stata una gran fatica, frutto di un pressante lavoro faccia a faccia. Perché raccogliere anche una sola firma su un tema così complicato come la richiesta di moratoria europea sull’utilizzo delle cellule staminali embrionali per la ricerca, è stata una piccola grande impresa. In principio c’era stato un editoriale di Eugenia Roccella, pubblicato il 21 novembre del 2007 dal quotidiano “Avvenire”. Scriveva l’editorialista: “Facciamo una proposta: una moratoria europea, che permetta di sospendere per 5 anni la distruzione di embrioni umani. Nel frattempo i laboratori possono usare le linee cellulari esistenti, senza dover interrompere gli studi già intrapresi e finanziati dal programma quadro. Ma basta con la catena di smontaggio degli embrioni, con la creazione di esseri umani destinati ad essere vivisezionati entro il quattordicesimo giorno”.

V

Su questa proposta Scienza & Vita ha scommesso, ha raccolto le firme in tutta Italia e le ha consegnate ad “Avvenire”. Con la consapevolezza di aver fatto tutto ciò che era possibile. Insomma, con la coscienza a posto. Sì che per le novanta associazioni locali quella delle firme era come una chiamata all’azione, quasi tre anni dopo il referendum sulla Legge 40. Anzi, per molti è stata l’occasione per rievocare lo spirito di quei giorni, in cui non si smetteva per un attimo di telefonare, incontrare, spiegare e rispiegare, analizzare e suggerire. Con un solo, unico intento: difendere il più piccolo fra noi, l’embrione. Anche in questo senso c’è una perfetta continuità fra la batta-

Si è mobilitato lo stesso popolo della vita che ha sconfitto il referendum sulla legge 40 glia ideale del referendum e la raccolta di firme per la moratoria che ne costituisce il prolungamento naturale. Basti pensare che se c’è un motivo per il quale la Legge 40 è stata difesa, pur avendo

dei limiti vistosi ed essendo comunque non praticabile da parte dei cattolici, è perché contiene nell’articolo 1 un concetto per certi versi “rivoluzionario” rispetto al clima culturale del Paese. Recita infatti, l’articolo 1 della Legge 40: “Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dal-

la infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità prevista dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Ecco il principio “rivoluzionario” sancito dalla legge: i diritti del concepito.

Per la stessa stringente logica non si può accettare che l’embrione (il concepito) venga sacrificato in un laboratorio europeo per ricavarne cellule staminali embrionali da utilizzare nella

ricerca. Dinanzi all’evidenza di questa realtà vitale, non poteva non esserci un’immediata adesione alla richiesta di moratoria europea da parte di quello stesso popolo della vita che aveva contribuito al fallimento del referendum parzialmente abrogativo della Legge 40 attraverso lo strumento democratico dell’astensione motivata che, cumulata a quella fisiologica, ha fatto mancare il quorum. Dunque le associazioni locali hanno avviato il loro lavoro porta a porta in ogni angolo d’Italia, andando a scovare vecchi e nuovi amici. Tutto, naturalmente, su base volontaria. Va ricordato, infatti, che Scienza & Vita è un’associazione di persone e, in quanto tale, ha un radicamento territoriale estremamente variabile, così come è particolarmente eterogenea la sua composizione sociale. Di sicuro, però, possiamo dire che ne fanno parte un numero considerevole di operatori della sanità a tutti i livelli, così come non mancano docenti di tutti i gradi di istruzione, professionisti, lavoratori, casalinghe e tantissimi giovani. Per molti soci c’è spesso la doppia o tripla militanza, ma questo non fa velo all’identificazione dei meriti di questa iniziativa. La riuscita della raccolta delle firme, infatti, è giustamente intestata a Scienza & Vita, ma è tutto il popolo della vita che non ha fatto mancare il suo sostegno.

In realtà l’obiettivo principale della mobilitazione - che ci sembra sia stato raggiunto - era quello di battere un colpo verso l’Europa e di segnalare la presenza in Italia di un’opinione pubblica avvertita sui temi della vita. Insomma, un segnale forte proveniente da una porzione non irrilevante della nostra società civile. Che non ha digerito, ad esempio, la scelta del governo Prodi, attraverso il ministro Fabio Mussi, di ritirare l’Italia da quella “minoranza di blocco”che impediva il via libera alla ricerca sugli embrioni. Un gesto solo apparentemente progressista, in virtù di un impegno assunto pubblicamente dal premier dell’epoca (“mai più l’Italia parteciperà a minoranze di blocco”) che potrà in qualunque momento essere contraddetto, magari per questioni molto meno valoriali e più legate alle logiche degli interessi. Ma è da tempo che l’Italia fa una sorta di “selezione naturale” delle battaglie, tutte rigorosamente al traino del Partito radicale. Basti pensare a quella (giustissima) contro la pena di morte e per una moratoria universale. Ma se la vita la si prende dall’altro capo (il concepimento e l’embrione) ecco sparire tutti i diritti e affermarsi la dittatura dei desideri, di cui i radicali sono campioni. Ecco perché è quanto mai significativo che una porzione di società civile si sia mobilitata. E’ la stessa che si è manifestata nel referendum sulla Legge 40 e che persegue ostinatamente la sua linea di difesa della vita, dal suo nascere e sino al tramonto naturale. Una linea di sviluppo dell’umano che troverà progressivamente sempre più alleati, perché non può continuare all’infinito l’inganno di chi non riesce a chiamare le cose con il proprio nome e ad amare il futuro racchiuso in quel “grumo di cellule” che noi preferiamo chiamare uomo.


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La scoperta di uno scienzato giapponese mette fine alla polemica sull’utilizzo degli embrioni nella ricerca

Meglio Yamanaka che Pannella colloquio con Carlo Casini di Alfonso Piscitelli

ROMA. Una grande rivoluzione scientifica è avvenuta ultimamente in Giappone ad opera di uno scienziato, Shinya Yamanaka, che ha compiuto qualcosa di straordinario, inducendo nelle cellule staminali adulte un processo di regressione che le porta quasi al livello di potenzialità embrionale. Ma il nome di Yamanaka non dovrebbe essere più conosciuto? Lo chiediamo a Carlo Casini, leader storico del movimento per la vita, europarlamentare dell’Udc. Ma non è possibile un po’ di “par condicio” tra i sermoni di Pannella e le scoperte scientifiche di Yamanaka? Quella di Yamanaka è una scoperta particolarmente significativa e segna la fine delle polemiche dettate dalla presunta necessità di utilizzare le cellule staminali estratte dagli embrioni. Ora alle cellule staminali adulte può essere restituita una “giovinezza” assai prossima a quella dell’embrione. Dunque si può evitare di distruggere embrioni per fare ricerca. Lei ha ragione è una scoperta che dovrebbe essere valorizzata molto di più. Il movimento per la vita si sta impegnando nella diffusione di questa acquisizione scientifica che cambia davvero le carte in tavola nel dibattito. Mi sento personalmente impegnato in questa battaglia anche come parlamentare europeo. Ricordiamo che l’Italia fino al 2006 faceva parte (insieme alla Germania, all’Irlanda, alla Polonia) di un cospicuo blocco di nazioni che si opponeva alla distruzione di embrioni umani per la ricerca. Poi all’arrivo di Prodi, l’Italia ha cambiato schie-

gono alla trasformazione dell’embrione in cavia non conservatori isolati e marginali… Sempre Yamanaka ha affermato: “tra un embrione e mia figlia non vedo molta differenza”. E proprio alla luce della scoperta diYamanaka, una eurodeputata tedesca, la verde Hiltrud Bryer, ha rivolto una interrogazione per chiedere di sospendere i fondi alle aziende europee che distruggono embrioni. Ma l’Europarlmento per ora non cambia posizione. È comunque significativo che la proposta sia partita da una deputata di sinistra. Esatto. I nostri verdi sono sostanzialmente rossi, ciò non avviene in altre parti d’Europa dove gli ambientalisti si sono posti problemi profondi relativi

Ora è possibile far regredire le staminali adulte a livello di potenzialità embrionale ramento determinando così lo scivolamento dell’Europarlamento su posizioni di assoluto permissivismo. Ma guardi, nonostante il riposizionamento di Prodi e Mussi l’europarlamento è tuttora diviso a metà sulla questione. Coloro che si oppon-

alla difesa anche della vita umana. Ad ogni modo stiamo cercando di riaprire il dibattito in aula e di sollecitare un voto anche a rischio di un’altra battuta d’arresto. Personalmente vorrei arrivare all’approvazione di una dichiarazione, che sa-

rebbe un fatto politico importantissimo. Quale la formulazione di questa dichiarazione? Gliela anticipo volentieri: tenuto conto delle recenti, documentate scoperte avvenute in Giappone e negli Stati Uniti circa la utilizzabilità di cellule staminali estratte da tessuti adulti dell’uomo, che possono essere ringiovanite fino ad avere tutte le qualità delle cellule staminali estratte dall’embrione; tenuto conto che l’embrione deve essere qualificato come persona umana… tenuto conto che l’Europa comunitaria deve fare costante riferimento ai diritti dell’uomo… e tenuto conto che il diritto alla vita è il primo e fondamentale diritto, i parlamentari chiedono che siano sospesi finanziamenti relativi alla estrazione di cellule staminali dagli embrioni umani. E che tali finanziamenti siano rivolti a sostenere le ricerche nel campo delle cellule staminali adulte. Al tempo dei referendum fu fatto un certo terrorismo psicologico: si disse che esisteva in Italia un fronte oscuro che impediva la ricerca, che impediva ai malati gravi di curarsi…Forse negli ultimi anni c’è stata una ossessiva concentrazione sulla necessità di utilizzare gli embrioni nella ricerca. Ma per un fatto ideologico! E

poi oltre alla posizione ideologica – che tende a ridurre l’embrione a “cosa”, a tessuto biologico trattabile – c’è di sicuro una questione economica. La ricerca è partita appunto dagli embrioni, ma non ha prodotto ancora nessun risultato. Le grandi imprese europee finanziatrici non vogliono più spendere soldi, ma non vogliono neppure buttar via gli investimenti già stanziati anche se ormai è chiaro che è più facile ottenere risultati sulle cellule staminali adulte che non su quelle embrionali. Cioè non si vuol buttare a mare un investimento avviato, per quanto fallimentare. È questo il punto. Poi c’è l’aspetto ideologico: dire che l’embrione deve essere rispettato si tira dietro conseguenza pesanti anche sul modo di considerare l’aborto… Siamo arrivati al nodo: l’accanimento nell’utilizzo degli embrioni per la scienza nasconde un retropensiero: in certi ambienti sembra quasi che sia doveroso cancellare ogni “sospetto” di umanità e di individualità riguardo all’embrione stesso. Così le tematiche dell’aborto e della sperimentazione sugli embrioni si saldano in un’unica concezione della vita. È esattamente così! Obiezione ricorrente: i ge-

melli prima del quattordicesimo giorno sono un unico embrione, come si può ritrovare allora in questo ultimo già all’origine l’impronta di una individualità? La cosa è più complessa, per altri aspetti quella data retrocede al sesto giorno e comunque già prima si possono individuare le predisposizioni alla scissione gemellare. Le cose non sono così scontate come ci vengono presentate… C’è una superficialità che spinge spesso a credere a ciò in cui si vuole credere. Ma Giuliano Ferrara ha fatto più bene o più male alla causa? Ha fatto bene, io gli avevo sconsigliato con forza la presentazione di una lista, ma devo riconoscergli il grande lavoro compiuto nel sollevare la questione della vita. Dall’attuale parlamento e dall’attuale governo che cosa si attende invece? Mi attendo quello che è stato promesso. Berlusconi ha scritto a me una lettera che abbiamo pubblicato sull’ Avvenire, nella quale dichiarava di opporsi a qualsiasi modifica della legge 40. Spero che il nuovo ministro della sanità sia una figura autorevole che sappia correggere la rotta rispetto ai colpi di mano della Turco negli ultimi giorni di governo.


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mondo

Mentre il mondo si interroga sulla necessità di boicottare i Giochi di Pechino, il Cio prova a ribaltare le accuse

Il Comitato Olimpico della vergogna di Aldo Forbice l presidente del Comitato olimpico internazionale, Rogge, in una intervista ha cercato di difendersi dalle accuse dei tibetani e di tutti coloro che solidarizzano con la causa del Tibet, con argomenti molto discutibili. Ad esempio, ha detto: «Se fossi salito sulle barricate come uno scalmanato sarei stato l’eroe dell’Occidente, ma i giochi sarebbero stati un fallimento. Noi ci siamo mostrati fermi per quanto riguarda le nostre richieste alla Cina. Sfortunatamente, il pensiero unico esige che se non si grida contro il regime si diventa uno zerbino del regime». Ma questo alto dirigente sportivo non ha precisato che cosa veramente il Cio ha ottenuto da Pechino, non ha detto nulla sugli impegni disattesi dal governo cinese nel 2005 in materia di diritti umani. Pechino, com’è noto, ha apportato solo qualche ritocco alla legislazione (le sentenze di morte decise dai tribunali devono passare al vaglio della Corte suprema). Per il resto tutto è rimasto come prima: solo qualche promessa in più. La conferma di questo rigido atteggiamento si è avuta nella stessa “strategia” seguita dal regime per proteggere la fiaccola nel lungo viaggio in Europa, in America, in Asia e ora nello stesso territorio cinese. Penso alle staffette superprotette da poliziotti in tuta e file di soldati lungo il percorso per picchiare e arrestare i possibili “disturbatori”. Pechino si è dato molto da fare per ottenere complicità e

I

aiuti da parte dei governi “amici” e delle comunità cinesi all’estero. L’immagine che è andata accreditandosi è stata quella poliziesca, di militarizzazione di una corsa delle ”staffette della pace e della solidarietà”. per non parlare di quella fiaccola che, dopo inenarrabili fatiche e gravissimi rischi per gli atleti (vista la persistente inclemenza del tempo) si è voluta portare in cima all’Everest.

Un grande spettacolo mediatico che doveva servire ad attenuare l’immagine della “fiaccola della vergogna”, così come è stata vissuta nelle scorse settimane dall’opinione pubblica internazionale che rimane divisa tra la voglia di boicottare per protesta le Olimpiadi di Pechino e quella di abbandonarle nel disinteresse più assoluto. Eppure sappiamo, purtroppo, che non avverrà né una cosa, né l’altra. Com’è noto, nessun capo di Stato ha chiesto il boicottaggio dei Giochi olimpici, neppure il Dalai Lama. A questo proposito il primo ministro del governo del Tibet in esilio, il monaco Samdhong Rimpoche, ha ribadito nei giorni scorsi: «Noi ci auguriamo che i Giochi olimpici abbiano il massimo successo. Al contempo ci auguriamo che un gran numero di paesi liberi partecipi alle Olimpiadi e che questo abbia un impatto positivo sul governo cinese, avviandolo sul cammino della trasparenza e di maggiori libertà individuali». In altre parole il movimento di resistenza tibe-

tana (almeno la grande maggioranza che si riconosce nella guida spirituale del Dalai Lama) chiede l’autonomia reale della regione (autonomia, non indipendenza, come veniva rivendicata in passato), l’avvio di un processo democratico, la tutela della cultura e della religione tibetana. Nei negoziati in corso si cercherà di ottenere, infatti, impegni concreti in questa direzione. I tibetani cercano di coinvolgere le Nazioni Unite come possibili “garanti”di eventuali accordi, ma le autorità cinesi non ne vogliono sapere perché continuano ostinatamente a definire il Tibet «un problema interno della nazione cinese». Nel frattempo, la resistenza non violenta dei tibetani ha fatto conoscere i primi dati sulla repressione attuata dalla polizia e

I tibetani cercano di coinvolgere l’Onu come “garante” di eventuali accordi, ma le autorità cinesi non ne vogliono sapere dall’esercito cinesi: dal 9 marzo al 4 maggio sono stati arrestati 4652 religiosi e 2680 cittadini. Dei 7332 arresti oltre 1151 sono stati effettuati solo nella capitale Lhasa. In questa città vengono ancora ricercati 72 cittadini accusati di aver commesso reati collegati alle manifestazione.

A queste cifre si devono aggiungere quelle relative a 7000 monaci, di fatto agli arresti domiciliari. I religiosi si trovano infatti assediati nei loro monasteri e non possono uscire per nessun motivo,neppure per procurarsi acqua e alimenti di cui sono sprovvisti. Per quanto riguardo le uccisioni durante e dopo le rivolte di marzo le cifre sono state aggiornate: ora sono documentati ben 275 morti (di cui 150 nella sola Lhasa,12 per le torture e maltrattamenti subiti, 5 sospetti suicidi) e 1300 feriti (alcuni versano ancora in gravi condizioni e vengono privati di adeguate cure). Risultano poi dispersi 1290 monaci e 820 cittadini. Quanti di questi tibetani troveremo col tempo sepolti in anonime fosse comuni? In queste cifre, ad esempio, non sono state inserite 83 vittime che i militari cinesi hanno fatto bruciare di nascosto nel crematoio elettrico della città di Dhongkar Yabdha, nel distretto di Toelung Dechen (Lhasa) per cancellare le prove sugli eccidi delle scorse settimane.

Con molta tempestività - e proprio mentre sono in corso i negoziati per il Tibet - sono cominciati i processi contro i manifestanti del marzo scorso: 32 sentenze, con pene durissime, che variano da 15 anni all’ergastolo (5). Non si conoscono i dettagli su questi processi, anche perché celebrati senza avvocati della difesa. Si ha notizia solo sulla sorte di due uomini,

condannati al carcere a vita (l’autista Sonam Novbu e il monaco Passang), accusati di aver guidato gruppi di manifestanti che avrebbero dato alle fiamme dei negozi. Ricordiamo a questo proposito che molti poliziotti cinesi sono stati sorpresi con tuniche arancioni in mano, pronti per un travestimento per provocare incidenti. Tutto è stato documentato da foto pubblicate anche sui giornali e inseriti nella rete. Le Olimpiadi dunque non saranno boicottate perché nessun capo di Stato lo ha chiesto.Tutt’al più qualcuno,come è stato già ventilato, diserterà la cerimonia di apertura dell’8 agosto. Gli interessi economici sono troppo forti. Questo ormai è risaputo,ma forse pochi sanno che gli sponsor occidentali (con in testa la Coca cola che ha versato 120 milioni di dollari) finanzia il grande apparato sportivomediatico con un miliardo e 300 milioni di dollari. Pensate che una macchina di queste dimensioni, con i grandi interessi per il mercato cinese, possa mai essere fermata? Questo però non significa che la lotta per i diritti umani nel Tibet e in tutta la Cina si debba fermare. Anzi. Non siamo soddisfatti, ad esempio, delle imbarazzate difese del grande capo del Cio, Rogge, che ci auguriamo compia il passo dignitoso delle dimissioni (possibilmente prima dell’8 agosto) per il suo complice silenzio che sa proprio di “zerbino” nei confronti del regime comunista di Pechino.


mondo

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La politica a sfondo etnico del presidente Morales inciampa su referendum e proteste sociali

Nubi sulla “primavera” indios d i a r i o

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Si ferma il dialogo su Cipro «Non possiamo permetterci un altro fallimento», queste le parole pronunciate venerdì alla radio dal portavoce del governo di Cipro, Stefanos Stefanou. Le trattative per mettere termine alla divisione dell’isola, iniziata dopo la guerra del 1974, sono invece in un vicolo cieco. Per superare l’impasse i leader delle parti greco e turca si vedranno il 23 maggio. A marzo Dimitris Christofias (nella foto) e Mehmet Ali Talat, avevano deciso di accelerare il ritmo delle trattative. Finora gruppi di lavoro si erano incontrati regolarmente per discutere di temi come giustizia, sicurezza, economia e cultura, ma anche il futuro sistema di governo comune di Cipro e l’adeguamento ai parametri europei dell’isola unificata.

La Germania ripensa la Raf Sarà il libro più intelligente scritto sulla Rote Armee Fraktion, il gruppo terroristico di estrema sinistra che ha insanguinato le città tedesche negli anni ’70, ma come tutte le cose intelligenti sarà anche il più insopportabile. “Muta violenza”, il lavoro di Carolin Emcke, parente di una delle vittime della Raf, abbandona le fortezze protettrici di banalità e luoghi comuni per cercare di capire. Perché, si chiede l’autrice, tutti i dibattiti e le ricerche storiche danno sempre lo stesso quadro e si fermano allo stesso giudizio, invece di tentare di portare alla luce la parte sconosciuta, tra cui la collaborazione con i servizi della Ddr, della storia della Raf?

di Benedetta Buttiglione Salazar n tutti i Paesi i ricchi non vogliono mantenere i poveri. Il problema è ben conosciuto in Europa, ma non è appannaggio esclusivo del vecchio continente. Anche in America Latina, anche nei suoi paesi più poveri, anche in Bolivia, chi se la passa meglio vuole essere lasciato in pace. Domenica scorsa la florida provincia di Santa Cruz, nella Bolivia orientale è andata alle urne per decidere la propria autonomia. Il successo del referendum è stato altissimo: ha votato sì più dell’82% della popolazione. E come previsto il governo di Evo Morales lo ha dichiarato incostituzionale. E per la verità il referendum è davvero incostituzionale. Il Tribunale elettorale lo aveva rinviato a data da destinarsi, ma, come dice il governatore di Santa Cruz, Ruben Costa,“non esiste voto illegale, quando vota il popolo e lo fa esprimendosi per l’autonomia contro le dittature. Parlare di dittatura è un po’ esagerato, quel che è certo però è che le insane politiche del presidente Morales stanno portando il paese allo sfascio economico, politico e territoriale.

I

Eletto il 18 dicembre 2005, Morales ha da subito portato avanti con ammirevole fermezza il programma di nazionalizzazioni promesso in campagna elettorale. Idrocarburi ed gas naturale hanno avuto la precedenza, seguiti a ruota dalle risorse idriche, e questo proprio non è andato giù agli abitanti del dipartimento di Santa Cruz, regione dove si concentrano le riserve di gas naturale e gli appezzamenti più fertili della Bolivia. Dopo è toccato all’impresa telefonica Entel (controllata dalla Telecom) poi è giunto il turno della lega-

lizzazione delle piantagioni e dell’esportazione della coca. Queste operazioni hanno avuto un costo non indifferente per lo stato boliviano e non sono riuscite a migliorare la situazione del Paese, come aveva invece promesso il presidente. Le tariffe energetiche non sono diminuite, le riforme sanitaria e scolastica non si sono viste e, nonostante l’esproprio delle terre ai latifondisti, non c’è stata la ridistribuzione che si aspettavano i piccoli contadini e gli indios. Due anni di “socialismo del XXI secolo” e la nuova costituzione approvata lo scorso 9 dicembre soltanto dal partito del presidente Movimento al Socialismo sono state

Dopo Santa Cruz ci saranno consultazioni popolari a Beni, Panda e Tarija. E giovedì il Senato ha chiesto l’impeachment per il Capo dello Stato sufficienti. Le province dotate di maggiori risorse economiche hanno detto basta. Al referendum del 4 maggio a Santa Cruz, seguirà quello del 1 giugno nelle regioni vicine di Beni e Pando, mentre il 22 giugno toccherà a quella di Tarija.Tutte e tre chiedono autonomia nella gestione dello sfruttamento degli idrocarburi, del gas naturale e delle risorse idriche, libertà contrattuale con le imprese private, mantenimento dello status quo prevalentemente latifondista del territorio e la costituzione di una propria polizia regionale. Fondamentalmente vogliono tratte-

nere per sé le rendite fiscali destinate allo stato. La situazione nel paese è tesa. L’Organizzazione degli stati americani e la Chiesa cattolica stanno svolgendo un lavoro di mediazione per evitare che il conflitto si radicalizzi ancora di più, degenerando in uno scontro diretto.

I termini della questione non sono solo quelli della autonomia regionale, ma piuttosto quelli di una profonda divisione del tessuto etnico e culturale della Bolivia. Come in quasi tutti i paesi latinoamericani la popolazione è divisa in due parti non eguali tra loro: accanto ad una maggioranza di indios originari delle antiche tribù pre-colombiane esiste una minoranza bianca discendente dai conquistadores. Ovviamente i più abbienti sono i bianchi che, in Bolivia, sono concentrati soprattutto nelle regioni che oggi chiedono l’autonomia non riconoscendosi più nel governo socialista di Morales. L’elezione del primo presidente indio nella storia boliviana è stata senz’altro un momento molto importante per tutta l’America Latina. Purtroppo è presto apparso evidente che, invece di facilitare il dialogo e l’integrazione delle due componenti etniche e sociali del suo popolo, Morales ha contribuito ad inasprire le divisioni ed i dissensi già presenti nel paese. Non si può però negare che il capo dello stato non si sia sforzato in maniera lodevole di smussare le disuguaglianze sociali, anche se a modo suo: non è riuscito ad aiutare i più poveri a diventare più ricchi, ma almeno ce l’ha fatta ad impoverire i più abbienti. In fondo, la storia ci insegna, il socialismo è anche questo.

Nucleare, la Corea del Nord svela i piani Secondo il ministero degli Esteri Usa, Pyongyang ha trasmesso una grande quantità di dati riguardanti il programma nazionale di produzione di plutonio. Il portavoce del dipartimento di stato, Sean McCormack (nella foto), ha dichiarato che i documenti dovranno essere innanzitutto controllati e valutati, solo in un secondo momento si potrà capire se esiste una relazione tra questi dati e il contestato programma atomico nord coreano.

Nuovo atto della crisi belga Il primo ministro belga, Yves Leterme, ha invitato i parlamentari del Paese a ritardare l’approvazione di un progetto di legge che mira a dividere l’unica circoscrizione elettorale belga ancora bilingue. Si tratta di Bruxelles, città a maggioranza francofona e di 35 comuni delle Fiandre attorno alle città di Hal e Vilvorde, dove vivono altri 120mila francofoni. La legge, che ridurrebbe i diritti di questi francofoni residenti in territori fiamminghi, potrebbe segnare la fine della colazione governativa che il conservatore fiammingo Leterme aveva impiegato nove mesi a mettere in piedi.

Birmania, la Merkel contro la Cina Il cancelliere tedesco ritiene «irresponsabile» il blocco del consiglio di sicurezza dell’Onu, dove diversi paesi guidati da Pechino si rifiutano di discutere l’aiuto umanitario alla Birmania. «Sostengo espressamente l’iniziativa francese di coinvolgere l’Onu nella crisi», ha detto Angela Merkel. Il cancelliere ha fatto appello anche ai vicini della Birmania e ai Paesi membri dell’Asean affinché esercitino «la loro influenza» su Rangoon.

Missili e carri armati sulla Piazza Rossa Per la prima volta dalla fine dell’Urss, alla parata per la vittoria sulla Germania nazista a Mosca sono sfilate armi pesanti. La dimostrazione di forza del 9 maggio, è stato l’ultimo atto normativo dell’ex presidente russo. Durante il mandato di Putin la Russia ha quadruplicato il livello delle sue spese militari. Ieri il suo successore Dimitrij Medvedev, ha dichiarato che «il riarmo russo serve per un’affidabile difesa della patria». La presenza di oltre 100 carri armati, unità missilistiche mobili e altre armi pesanti, mette in evidenza la rinascita militare del Cremlino, ma solleva anche preoccupazioni per l’ aggressività di Mosca.


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economia Toccherà al nuovo ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, trovare un punto di equilibrio tra la piattaforma unitaria dei sindacati e le aspettative di Confindustria sulla riforma della contrattazione nazionale

i sono voluti quattro anni affinché il movimento sindacale aprisse gli occhi sul mondo e vederne i cambiamenti. «Meglio tardi che mai», ha detto Luca Cordero di Montezemolo, commentando la piattaforma approvata da Cgil, Cisl e Uil per la riforma della struttura della contrattazione.

C

Difficile dargli torto. Quattro anni fa il “fenomeno Cina” era ancora sconosciuto. L’Occidente si considerava il depositario esclusivo dei destini del pianeta. Il processo di globalizzazione finanziaria sembrava garantire la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Poi la fine di queste grandi illusioni. La risposta sindacale, seppure in modo non lineare, riflette questo disincanto. Anche se non tutti – quei 25 voti contrari di sinistra Cgil e Fiom – sono disposti a misurarsi con i nuovi paradigmi della realtà economica interna e internazionale. Comunque una vittoria politica della maggioranza del mondo del lavoro, che ha isolato l’ostinazione novecentesca delle frange più estreme. Lo si coglie, innanzitutto, nel linguaggio del documento, più vicino alla sociologia industriale che non ai vecchi stilemi della retorica di classe. Anche se non tutto è così trasparente. Questo significa che un residuo del passato è rimasto. Lo testimonia il preambolo dove il riferimento alla «competitività e produttività delle imprese» viene all’ultimo posto. Dopo aver spezzato una lancia a favore

Le controindicazioni nella piattaforma lanciata da Cgil, Cisl e Uil

Contratti, incognita inflazione nella riforma di Gianfranco Polillo della «crescita» delle «reti materiali ed immateriali» del Paese. Formula che andrà decrittata per renderla comprensibile ai non alieni. Giudizio positivo, quindi? Certamente da un punto di vista generale. Sul merito, invece, non tutto è così chiaro. Ci vorrà tempo per valutare l’effettiva portata di certe affermazioni. Alcune lasciano trasparire, fin da ora, perplessità e dubbi. Nel documento si parla di «infla-

divenire, pertanto, essa stessa un fattore di spinta al rialzo dei prezzi. Meglio mantenere basse le previsioni iniziali e semmai consentirne il recupero in un periodo successivo.

Oggi si vorrebbe cambiare al punto da prevedere un riferimento più pesante. Nel documento si parla di «deflatore dei consumi interno o di indice armonizzato corretto per il peso dei mutui». Nel primo caso si

tanto producendo di più. In questo modo potremmo scambiare una maggiore quantità di prodotti con l’accresciuta crescita dei volumi di importazione. Se, invece, ci limitiamo ad aumentare i salari, il risultato sarà l’ulteriore spinta inflazionistica, come è avvenuto anni Settanta. Stesso ragionamento per il secondo indice. Con l’aggravante di inserirvi anche il “peso dei mutui”. È la socializzazione di una componente di carattere fi-

I sindacati vogliono congelare i prezzi introducendo un sistema di rilevazione alternativo al paniere Istat. Ma così non si affronta il nodo principale, la produttività, e si rende più oneroso il peso del costo del lavoro zione realisticamente prevedibile».Vecchia polemica che dura fin dal 1993. Gli accordi di allora facevano riferimento all’inflazione programmata. L’obiettivo era quello indicato a suo tempo dal compianto Tarantelli. La crescita dei prezzi si nutre di aspettative. Un’inflazione prevista più alta rischia di autoavverarsi e

reintroduce, come parametro di riferimento, anche l’inflazione importata: quella, per intenderci, che deriva dall’aumento del prezzo del petrolio o delle materie prime. Richiesta comprensibile, dal punto di vista del singolo lavoratore. Meno in un ottica di sistema. Se i prezzi di quei prodotti aumentano, al fenomeno si può far fronte sol-

nanziario? Una spinta a indebitarsi? La riscoperta tardiva dei presunti vantaggi di un’economia trainata dal debito? Gli Usa, la cui forza economica non è certo paragonabile a quella italiana, hanno percorso questa via. Abbiamo visto come sta finendo. Attenzione alle proposte estemporanee. Questi piccoli corollari rischia-

no di rendere retorici i riferimenti alla “competitività e produttività” che deve essere a tutto tondo. Valere cioè non solo per le imprese, ma per la stessa azienda Italia. Di tutto ciò si potrà discutere quando si aprirà la trattativa. Nel frattempo godiamoci la festa. Comprese le aperture. Se si deve valorizzare il «potere d’acquisto» in «ogni parte del Paese», allora non si può prescindere dal fatto che il costo della vita varia da zona a zona. E che queste differenze dovranno pesare sui meccanismi di indicizzazione. Che poi i relativi meccanismi dovranno far parte del contratto nazionale o di quello di secondo livello è solo una questione tecnica. Che, infatti, andrà risolta all’interno di un quadro di coerenze.

Questa – la coerenza sistemica – sarà la vera cartina al tornasole. I riformisti hanno vinto la prima battaglia. Ma da qui a non perdere la guerra ce ne corre ancora. Strano destino il loro. Hanno avuto il coraggio di una rottura, approdando nel campo di Agramente.Tagliando radici ideologiche, isterilite dal tempo, hanno accettato di navigare in mare aperto. Ma le acque sono insidiose. Richiedono lungimiranza e determinazione. Specie quando si tratterà di tradurre nel concreto gli indirizzi generali. Se avranno questa forza, nascerà una nuova stagione nelle relazioni industriali. Altrimenti sarà l’ennesima dimostrazione di impotenza,“quel vorrei, ma non posso”a cui siamo abituati da tempo.


economia

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Anche nel 2008 Piazza Affari stacca cedole d’oro agli investitori. Ma potrebbe essere l’ultimo anno

Borsa, tesoro da 33 miliardi in dividendi d i a r i o

di Alessandro D’Amato

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ROMA Un bottino da quasi 33 mi-

Bankitalia: rallentano mutui e prestiti

liardi di euro, perché come ogni anno anche nel 2008 Piazza Affari si conferma tra i listini come la regina dei dividenti per le società quotate. E come ogni anno il mercato paventa una stretta sui dividendi. Se nello scorso biennio Vincenzo Visco voleva alzare l’aliquota sulle rendite – armonizzandola al 20 per cento – stando a quanto si sussurra dalle parti della maggioranza, anche la nuova stagione del centrodestra potrebbe portare qualche modifica nella tassazione. Ma il risultato, questa volta, potrebbe essere quello di deprimere qualche bilancio “troppo”ricco – soprattutto per quanto riguarda gli istituti di credito e le società finanziarie – e favorire invece le attività produttive, finora penalizzate dalla tassazione, anche per incentivare sbarchi futuri a Piazza Affari. Le società quotate alla Borsa di Milano, tra maggio e giugno, sono pronte a staccare le cedole. Per le prime 23 la data è il 19, e in media non è andata affatto male, visto che si parla di un 4,44 per cento in più, con punte record fino al 20, rispetto allo scorso scorso.

Primi, lievi, effetti di credit crounch in Italia. Bankitalia, nel suo rapporto sul credito, ha segnalato che anche nel secondo trimestre dell’anno si registrerà un rallentamento nell’erogazione dei mutui e dei prestiti. «Dopo quasi un biennio di allentamento, emerge per la prima volta un irrigidimento delle politiche di offerta da parte delle banche per l’erogazione dei prestiti alle famiglie per l’acquisto di abitazioni». Maggiormente colpite le imprese rispetto alle famiglie. Secondo gli istituti di credito interpellati, si risente ancora della stretta di liquidità, innescata dalla crisi dei subprime.

Un confronto con le altre Borse rivela che, ad esempio, in Italia gli investitori sono più avvantaggiato della City londinese. Dove, secondo i dati Bloomberg, si vanta un rendimento attorno 4,14 per cento. E a Milano si sta molto meglio del Cac40 parigino, che, dal canto suo, si ferma al 3,44 per cento, mentre Francoforte si accontenta di poco meno del 3. A quanto pare, la regina della nuova stagione dei dividendi a Piazza Affari è Unipol: il gruppo assicurativo ha annunciato una cedola di 0,416 euro che corrisponde, alla quotazione odierna di 2,14 euro, a un rendimento del 19,4 per cento. Si tratta di un bonus straordinario dovuto in parte alla restituzione del capitale raccolto ai tempi della scalata alla Bnl, poi fallita. Così come tutti i tentativi ulteriori di aggregazioni con altre realtà bancassicurative. Cedole ricche anche per Banca Mps (9,4 per cento), IntesaSanpaolo (7,83), Mediaset (7,23), Mondadori (6,11), Alleanza (5,91), Ubi banca (5,47), UniCredit (5,17) e Popolare di Milano (5,03). Percentuali più basse (tra il 2 e il 3 per cento), invece, per tre società ad alta remunerazione come Eni,

Scajola: accelerare ritorno al nucleare Il neo ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, ha le idee chiare per risolvere il deficit energetico: il ritorno al nucleare. «Se in breve tempo», spiega, «non facciamo un piano energetico funzionale, fra vent’anni si spegne la luce. Bisogna ritornare nel nucleare a tappe accelerate». A stretto giro il suo predecessore, Pier Luigi Bersani, gli ha chiesto di «ripristinare il congelamento alle accise della benzina», mentre Legambiente ha definito il ritorno al nucleare «obsoleto e antieconomico».

Petrolio sfonda quota 126 dollari La corsa del petrolio non sembra avere sosta. Ieri a New York il Wti ha superato quota 126 dollari, continuando poi a oscillare intorno a questa cifra per tutta la giornata. In sole 24 ore il balzo è stato di 2,51 dollari rispetto all’ultima rilevazione di giovedì. Intanto, da una rilevazione della società di consulenza Kpmg sui manager dei maggiori colossi petroliferi, si scopre che gli interessati sono certi di un calo del prezzo del barile sotto i cento dollari entro il 2008.

Telecom: conti in linea con gli obiettivi

Snam e Atlantia: ma il dato non deve confondere perché per queste aziende la prossima tappa rappresenta un saldo del dividendo, dopo l’acconto distribuito lo scorso autunno. E sul quale il governo ha costituito parte dell’attivo di bilancio. Tra i big non figurano Fiat e Telecom, che però hanno rimborsato agli azionisti una quota degli utili del 2007 il 21 aprile scorso. Una manna dal cielo che, tra l’altro, è contraria all’andamento a Piazza Affari: le società che quest’anno staccano le cedole più alte figurano tra quelle che hanno accumulato in Borsa le perdite più alte. Nell’ultimo anno, infatti, Mps ha bruciato il 55 per cento della capitalizzazione, Unipol un quarto, Mediaset il 28 e IntesaSanpaolo il 21. Ma la pacchia

Il centrodestra potrebbe ritoccare la tassazione sulle rendite, penalizzando i maxiutili delle banche. Sconti alle piccole e medie imprese

potrebbe essere finita. Secondo alcuni rappresentanti della maggioranza il governo potrebbe intervenire nella legislazione fiscale. Non certo per i comparti produttivi «legati ai maggiori profitti in relazione alla crescita interessante avuta negli anni passati», anche perché la situazione macro è destinata a cambiare abbastanza velocemente visto che si prevede una crescita più che dimezzata quest’anno. L’obiettivo è invece il comparto bancario, che durante il governo Prodi «ha goduto di benefici fiscali non indifferenzi: l’ultima Finanziaria ha abbattuto l’Ires dal 33 al 27 per cento, ma se per l’industria il taglio è stato compensato dall’indeducibilità degli interessi passivi, per le banche i cinque punti di cuneo sono valsi tutti». Per questo, nel Pdl, c’è chi pensa di intervenire, anche per ristabilire un equilibrio nel sistema. Anche se c’è da fare i conti con le Fondazioni, che non vogliono rinunciare alle loro rendite e che il centrodestra considera un alleato naturale.

Conti senza scossoni per Telecom Italia. Il gruppo ha annunciato nel primo trimestre ricavi pari a 7.298 milioni, in flessione del 2,4 per cento e su cui hanno pesato discontinuità regolatorie per complessivi 260 milioni. L’utile netto è stato pari a 501 milioni (-35,4), l’Ebitda a 2.966 milioni (-6,7). L’indebitamento finanziario netto a fine marzo si attesta a 35,436 miliardi. «Sono fiducioso sul fatto che riusciremo a raggiungere gli obiettivi che ci siamo fissati per il 2008», ha assicurato l’Ad Franco Bernabè, che si è detto soddisfatto del rapporto con Telefonica e ha smentito offerte per Tiscali.

Atlantia: utile in crescita del 22 per cento Utili in crescita, nel primo trimestre 2008, per Atlantia. L’azienda ha chiuso il periodo a 164,2 milioni di euro, in aumento del 22 per cento rispetto al primo trimestre dell’anno scorso. In aumento anche i ricavi consolidati che sono stati pari a 793,6 milioni di euro (+10,2 per cento) su base tendenziale e il margine operativo lordo pari a 493,2 milioni di euro (+11,2). Per il resto dell’anno si prevedono, anche in relazione alla congiuntura, risultati più contenuti. Il gruppo ha anche varato un nuovo assetto per Autostrade per l’Italia (Aspi) in modo da semplificare la struttura operativa.

Fiera di Bologna, Montezemolo resta? Pressing su Luca Cordero di Montezemolo perché mantenga la presidenza della Fiera di Bologna. Spingono per quest’ipotesi i soci privati, mentre attendono di chiarire alcuni nodi (come l’integrazione con la Fiera di Rimini) prima di dare il loro via libera. L’interessato, che non direbbe di no di fronte a una richiesta unanime, intanto fa sapere: «Scado con l’assemblea di giugno scado ed è una decisione degli Statuti: sono molto contento di lasciare una fiera più forte».


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cultura

A Roma la decima edizione del Congresso dell’Archeologia del ”Near East”

L’Oriente non è mai stato così vicino di Rossella Fabiani è anche una cultura che unisce. Se a Torino, il Salone del libro dedicato a Israele ha provocato un terremoto, a Roma all’Università La Sapienza, da due giorni e ancora fino a sabato, 600 studiosi di archeologia del Vicino oriente stanno lavorando insieme.Tra loro palestinesi, iraniani, iracheni, siriani, giordani libanesi e, quest’anno per la prima volta, anche turchi, nonostante la Turchia abbia un suo congresso che si tiene ad Ankara. Tante le donne e proprio loro sono quelle che più facilmente stanno superando le diffidenze. Il rappresentante del direttore generale delle Antichità di Siria è una donna. Era già venuta, in Italia, da sola, a conseguire un dottorato con Paolo Matthiae. Sono arrivati anche russi e georgiani. Oltre agli studiosi, molti Direttori generali delle antichità, in qualche caso i loro delegati, hanno chiesto di potersi iscrivere al 6 International Congress on the Archaeology of the Ancient Near East . Tutto è stato organizzato dal lavoro paziente e costante del professor Paolo Matthiae, aiutato dai suoi più stretti collaboratori, i professori Frances Pinnock, Nicolò Marchetti e Lorenzo Nigro.

C’

Quella condotta da Matthiae, che gode di grande fiducia nell’ambiente accademico e istituzionale del Vicino oriente, è stata un’operazione diplomatica, oltre che culturale, un po’ come avveniva nell’800 con i consoli stranieri in Sira, in Iran, in Egitto. Come l’ambasciatore Drovetti nella terra del Nilo, o gli egittologi Rosellini e Masperò. Un congresso con un doppio valore: politico, dove la

cultura può e deve essere strumento di dialogo, occasione per riscoprire radici comuni, e scientifico, anche questo di grande rilievo.

L’archeologia nasce intorno alla metà dell’800. E ancora fino al 1998 non esisteva un congresso di archeologia orientale, come invece c’era per archeologia classica. Lavorare nel Vicino oriente significa lavorare in una terra complicata. Ma il professor Matthiae, riuscendo ad abbattere diffidenze e paure, ha voluto creare questo incontro interna-

li tra di loro. Da allora sono passati dieci anni. E per il decennale gli studiosi hanno chiesto che venisse fatto a Roma. Così, il congresso, che si tiene ogni due anni, è giunto alla sua sesta edizione e questo è il vero prodigio - in un tempo brevissimo è riuscito a mettere insieme oltre 600 studiosi. Il primo incontro si è tenuto a Copenaghen, sono seguite Parigi, Berlino, Madrid. Seguiranno Londra nel 2010, Leida nel 2012. «Il primo anno, nel 1998, a Copenaghen ci aspettavamo almeno 50 studiosi – racconta la professoressa Francesca Pinnock – ne sono arrivati più di 200. Si sta pensando anche a sedi nuove, per esempio in Polonia.Tutte sedi europee. Perché nel Vicino oriente non si può fare. Non esiste un corridoio umanitario per accademici, studiosi e ricercatori». Ma le cose lentamente stanno cambiando. Subito dopo la rivoluzione khomeinista, le attività archeologiche si erano quasi bloccate, sono gli stessi iraniani ora a occuparsi di periodi pre-classici.

Organizzato dal professor Paolo Matthiae, l’incontro riunisce 600 studiosi tra palestinesi, iraniani, iracheni, siriani, e per la prima volta anche turchi zionale per rimediare a una mancanza e, anche, per mettere insieme iraniani e iracheni, israeliani e palestinesi, superando i problemi politici. Gli archeologi del Vicino oriente si sono fidati di lui, hanno capito che lo studioso non mirava a un riconoscimento personale, ma che era realmente interessato al futuro del passato orientale. Un modo concreto di pensare al futuro era quello di creare una comunità di studiosi che mettesse insieme, facendoli incontrare e quindi dialogare, occidentali e orientali, ma soprattutto i colleghi vicino orienta-

«Una richiesta è gradualmente emersa in questi anni – dice la Pinnock – già fin da Copenaghen, forte a Madrid, fortissima a Roma: quella di aprire una sessione islamica. I nostri studi in effetti andavano dal 3500 avanti Cristo fino al 323 avanti Cristo, in pratica arrivavamo ad Alessandro Magno. Ci siamo accorti che l’archeologia islamica non

aveva spazi. Questo congresso dunque ha fornito un luogo neutro dove incontrarsi e ha aperto un forum anche per la discussione islamica». Ma sono presenti anche altri elementi.

L’Icaane ha pure il compito di occuparsi di restauro, di conservazione e di uno sviluppo sostenibile. «Sappiamo – aggiunge la professoressa – che i depositi del British Museum di Londra sono pieni di materiali provenienti da scavi clandestini in Iraq. Se qualcuno pubblicasse un solo pezzo si andrebbe contro le Convezioni Unesco. Tutto il consesso degli studiosi internazionali si oppone fermamente al commercio clandestino di questi paesi tormentati dove molte forte è il traffico delle antichità». Anche i governi cominciano ad essere molto attenti a queste questioni e si battono contro il traffico clandestino e i restauri incompetenti. Il fattore turismo conta molto nell’economia di quei Paesi e si vuole evitare che si ripeta il destino di Babilonia, che non può essere inserita nel patrimonio mondiale dell’umanità dell’Unesco perché devastata dai restauri fatti eseguire sotto Saddam Hussein. Ora Matthiae vorrebbe trasformare l’Icaane in una istituzione sovranazionale. Forse la Comunità europea potrebbe realizzare il progetto partecipando ai finanziamenti, rendendo così possibile la partecipazione anche di giovani studiosi che ancora non hanno uno scavo o un incarico ufficiale. La situazione nel Vicino oriente è variegata e complessa. Lo scrittore israeliano Amas Oz dice: «Non dovete essere pro-palestinesi o pro-israeliani, dovete essere per la pace». Per l’uomo.


ricordo

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A sei mesi dalla morte di Gabriele Sandri, il fratello Cristiano torna a invocare tutta la «verità sull’omicidio»

«Un figlio di Roma chiede giustizia» di Antonella Giuli

ROMA. Sono passati sei mesi e ancora tutto è da capire. Altri quattro e forse qualcosa si chiarirà. Senz’altro l’udienza preliminare fissata per il prossimo 25 settembre presso il Tribunale di Arezzo potrebbe già iniziare a sfibrare parte della fitta nebbia che contiene la verità sull’omicidio di Gabriele Sandri, il ventiseienne dj romano morto ammazzato nel sedile posteriore di una Mégan Scénic con un proiettile conficcato alla base del collo, sparato lo scorso 11 novembre dall’agente della Polstrada Luigi Spaccarotella nell’autogrill di Badia al Pino (Arezzo). Sulla testa del poliziotto, trentaduenne varesotto con origini cosentine, pende l’accusa di omicidio volontario, imputazione frutto di alcune testimonianze oculari e dei diversi esami balistici effettuati sul posto, che sembrerebbero confermare l’orizzontalità della traiettoria del proiettile e confutato così la tesi della deviazione della pallottola sparata in aria, avanzata dalla difesa. Ma è notizia di qualche giorno

terzi, l’occasione di scusarsi e mostrare anche solo uno straccio di pentimento». Magari anche perché ancora oggi non ha un volto. «E i tratti somatici forse non li conosceremo mai».

Sì perché Spaccarotella, è prevedibile pensarlo, potrebbe decidere di non presentarsi mai alle udienze lasciarsi giudicare in contumacia. Chissà, forse chiedendo subito il rito abbreviato. «Come che sia, trovo assurdo che a chi si è comportato come uno sceriffo nel far west, distruggendo un’intera famiglia, sia permesso continuare a lavorare, portando addosso un’arma e la possibilità di fare ancora del male». Cristiano si domanda molte altre cose. Come ad esempio, dice, la questione della presunta deviazione del pallottola: «I risultati della consulenza chimica sul proiettile hanno indicato l’assenza di qualunque materiale potesse confermare il contatto con la rete metallica cui fa riferimento la difesa. Ma dopo due mesi, quando le stesse analisi sono

Accanto, il murales che gli amici di Gabriele hanno disegnato a piazza Vescovio il giorno dopo la sua morte. In basso, il deejay romano in una foto della passata estate. Per ricordarlo, oggi alle ore 16, a Porto Rotondo, in Sardegna, si terrà l’inaugurazione di Piazzale Gabriele Sandri, davanti allo SkyClub, la discoteca dove Gabriele lavorava nei mesi estivi (ex Black Sun). Domani, alle ore 16 nel cimitero romano di Prima Porta, nel piazzale di via dei Cipressi, verrà celebrata una messa in sua memoria

Il prossimo 25 settembre l’udienza preliminare presso il Tribunale di Arezzo, ma l’agente Luigi Spaccarotella «probabilmente deciderà di non presentarsi, chiedere il rito abbreviato e si lascerà giudicare in contumacia» fa il reintegro al lavoro dell’agente nella Polizia ferroviaria fiorentina. Un provvedimento che la famiglia Sandri ha appreso dai giornali e che alla famiglia Sandri proprio non è andato giù. «Si è peccato di insensibilità nei nostri confronti» ci dice Cristiano, trantaquattrenne penalista fratello di Gabriele. «Non solo è gli è stata garantita la libertà, ma è tornato a lavorare come se nulla fosse. Come se non avesse ucciso a sangue freddo prendendo la mira».

Cristiano Sandri è uno che spiazza. Uno che guarda sempre dritto negli occhi e non perde mai la lucidità. Uno che ti dà del “tu” ma sembra darti del “lei”, con la voce sommessa ma dal tono fermo, ogni tanto interrotta da qualche breve silenzio. Cristiano Sandri, poi, è uno che Spaccarotella proprio non lo perdona. Perché gli ha ucciso il fratello, perché glielo ha ammazzato in quel modo, e perché da quando lo ha fatto «non ha mai cercato, neanche tramite

state effettuate sul pezzo di rete sequestrato dagli inquirenti, i risultati avrebbero invece indicato tracce di materiale compatibile con quello del proiettile. Perfino il Pm che ha assegnato la consulenza, come me, si chiede sconcertato come sia possibile». Se lo chiedono perché è legittimo pensare pure che le tracce di piombo rilevate sul frammento della rete possano derivare dallo scarico delle macchine in corsa lungo l’A1, una delle autostrade più trafficate in Italia. E questo è possibile anche quando quel frammento si decide di sequestrarlo solo dopo 60 giorni dall’omicidio, avendolo lasciato alle intemperie dei mesi invernali di dicembre e gen-

naio. «Sono troppe le cose che non quadrano. Mi domando poi se Spaccarotella risultasse davvero idoneo a fare l’agente al momento del concorso e dei test psico-attitudinali». Già, i test. C’è chi dice che quelli che ti sottopongono se vuoi entrare in polizia non siano troppo distanti da quelli a cui risponderesti se volessi entrare in un Ente pubblico statale.

E Cristiano chiede invece maggiore serietà, maggiori controlli. Perché «va bene destinare più risorse per la sicurezza e vedere più poliziotti in giro, ma ancora prima occorre destinare risorse per la formazione di chi una pistola dovrebbe usarla solo se necessario e solo per difendere. Non certo per uccidere a bruciapelo ragazzi inermi e innocenti. Troppo spesso apriamo i giornali e leggiamo di poliziotti coinvolti in strane sparatorie, che premono il grilletto contro i propri figli o contro se stessi.“Crollo psicologico, principio di depressione”, ci spiegano poi. L’equazione “più pistole uguale più sicurezza”è sbagliata, se non addirittura pericolosa». La famiglia Sandri ad ogni modo ha fiducia nella magistratura e dialoga con le istituzioni. Che siano governate dalla destra, dal centro o dalla sinistra poco importa. Quanto ti ammazzano qualcuno in quel

modo, il colore politico non c’entra nulla.

Ed è assieme al Comune di Roma della “reggenza-Veltroni” che Cristiano ha dato vita alla Fondazione Gabriele Sandri, un Ente ancora tutto da mettere in piedi ma che già promette di farsi sentire. E parecchio. «L’uccisione di mio fratello, di un figlio di Roma, ha scosso l’opinione pubblica, e sono moltissime le testimonianze di solidarietà che ci arrivano da tutta Italia. Le nostre energie vengono alimentate da tutta quella gente che non si fa condizionare dalle notizie strumentali a distorcere la realtà». Ce l’hanno con i media, nella migliore delle ipotesi soliti «insabbiare la verità sull’omicidio», nella peggiore, «infangare la memoria di Gabbo». Non ne possono più, invocano di continuo giustizia ma sempre con dignità. E, assicurano, faranno «di tutto per avere quella che Gabriele merita. Poi, basta. Sappiamo che nessuno ce lo ridarà indietro».


opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO

LA DOMANDA DEL GIORNO

Come giudicate il nuovo governo? MANCANO ALCUNI NOMI DI PESO COME FORMIGONI, CASTELLI E POLI BORTONE

LA SQUADRA MI SEMBRA EQUILIBRATA E SULLA CARTA POTENZIALMENTE EFFICIENTE

Così e così. Secondo me mancano alcuni nomi di peso che per esperienza e particolari capacità avrebbero dato una consistenza maggiore a questo governo, come ad esempio i Pisanu, i Formigoni, i Castelli e Poli Bortone in particolare. Certo, ora a sanare le situazioni dolorose, così come le ha definite Berlusconi, ci saranno le nomine dei viceministri e dei sottosegretari, e molti musi lunghi torneranno a sorridere. Tuttavia per quanto il Cav abbia resistito alle insistenti richieste delle anime della coalizione, alla fine anche questo nuovo governo non è riuscito a sfuggire del tutto alla logica degli equilibri tra partiti. Detto questo però, bisogna ammettere che la squadra sembra sufficientemente coesa e quindi non dovrebbe dividersi quando arriveranno i momenti delle decisioni difficili. Lo scandaloso comportamento del precedente esecutivo non dovrebbe dunque replicarsi. E già questo non è poco. In definitiva, un primo giudizio si potrà dare dopo i primi 100 giorni, in cui probabilmente saranno già stati affrontati i temi più difficili ed emesse le misure più impopolari.

Sicuramente lo giudico in modo positivo. Mi sembre che il cavaliere sia riuscito a formare una squadra equilibrata e dunque sulla carta potenzialmente efficiente. Molti osservatori dicono che questo governo nasce a misura di Berlusconi. Bene. In tal modo potranno essere evitate frizioni che certamente non gioverebbero a nessuno. Né ritengo sia negativo - come hanno affermato alcuni politici del Partito democratico - il fatto che non ci siano tecnici esterni. Al contrario, sono del parere che sia giunto il momento che la politica riaffermi il suo primato. Del resto, a parte pochi episodi, i tecnici non hanno dato risultati esaltanti (vedi Tommaso Paoda-Schioppa) e quindi affifdiamoci alla professionalità dei nostri politici. E’ un fatto positivo anche la partecipazione alla squadra dei ministri giovani (parecchi sono al di sotto dei quarant’anni), una cosa auspicata da quasi tutti gli organi di stampa. L’augurio è che questo governo sappia restare unito anche nei momenti dei provvedimenti impopolari ed è auspicabile che in tali occasioni maggioranza e opposizione (l’Udc di Casini lo ha promesso) possano raggiungere convergenze per il Paese del bene.

Luigi Salviati - Vercelli

Enrico Presutti - L’Aquila

LA DOMANDA DI DOMANI

Ha ragione Napolitano a voler impedire le tribune tv per gli ex terroristi? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

CI VOLEVANO DONNE COME GIORGIA MELONI, ADESSO FACCIAMOLA LAVORARE PER I GIOVANI Decisamente sì, questo nuovo governo mi piace. E’ coeso, equilibrato e fedele al premier Berlusconi. Ma non solo, è anche abbastanza ”in rosa”. E non mi riferisco alla quantità di donne coinvolte, ma soprattutto alla qualità di quelle scelte. Certo, dispiace che una donna eccezionalmente brava e intelligente come Adriana Poli Bortone non ne faccia parte (vorrà dire che la ritroveremo presto alla guida della sua amata Puglia), ma vedere la trentuenne Giorgia Meloni a capo del ministero dei giovani, ecco, per me che ho la stessa età, è una garanzia di serietà e una certezza che le cose verranno fatte per davvero. Cordialmente ringrazio.

A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA Il giorno dopo l’insediamneto del IV governo Belrusconi l’Italia scopre un uomo solo al comando. Silvio Berlusconi premier e ministro ad Interim di tutti i dicasteri, con la parentesi dei ministeri leghisti. Questa sembra la prima istantanea e immediata considerazione che gli addetti ai lavori e il Paese ”reale” devono constatare all’indomani dell’insediamento. Questo di per sé ha i suoi pochi lati positivi e molti negativi. Cerco di spiegare brevemente il perché, naturalmente senza la presunzione né di aver ragione né di essere all’altezza del compito. Uno degli aspetti positivi è che Berlusconi può serenamente decidere e attuare ciò che ha deciso senza scaricare la colpa su di altri né tanto meno perdere tempo per le consultazioni di rito. Un altro potrebbe essere che i ”Berluscones boys” vivono il ruolo a loro assegnato in modo sereno e spensierato visto che ”il capo pensa a tutto”. Ancora, volendone cercare un altro (della serie ”tra le positività”) i parlamentari si stanno più attrezzando per risolvere il problema di chi voterà per loro, anche perché la pre-

ESORCISMO TIBETANO

Abiti variopinti, scarpe di feltro e un grande cappello nero: sono gli ingredienti necessari per lo Sha-na Cham, tra le più famose danze sacre tibetane. Un vero e proprio esorcismo praticato dai capi spirituali nei luoghi dove verrà eretto un nuovo tempio

LE FAZIOSE ANALISI DEI MEDIA DI SINISTRA La solita informazione non credibile della sinistra. L’Unità di Padellaro titola: «Governo, poche donne, troppe poltrone». Ecco, ti pareva, ha detto mia moglie appena ha letto la pagina in internet! Ha ragione, come sia possibile disinformare il lettore su fatti che sono sotto gli occhi di tutti è un’arte che si conosce solo da quelle parti. La composizione di governo più rapida della Repubblica, il numero più esiguo di ministri, la presenza di donne come nel governo Prodi, il plauso di Napolitano e cosa t’inventa l’Unità? Mi chiedo come si possa fare una seria opposizione se la guida informativa di essa è in malafede! C’è poi da dire che Ritanna Armeni (Liberazione) a Porta a Porta ha detto che man-

dai circoli liberal Gaia Miani - Roma

senza in aula questa volta sembra davvero poco richiesta, in quanto la parola d’ordine di questa legislatura più che essere costituente è: non disturbare il manovratore. Tra le note dolenti della negatività vorrei in questa fase sottolineare esclusivalente la favola raccontata da San Babila a oggi agli italiani del Partito della Libertà come modello liberale, democratico e partecipativo. La contraddizione è evidente e nei termini, considerato che il primo atto di Berlusconi è stato quello di scegliere tra gli uomini utili e intelligenti, e utili e ubbidienti, questi ultimi per lo più cresciuti alla corte berlusconiana. Questo significa palesemente che la partecipazione e il richiamo tanto evocato attraverso i gazebo e le varie manifestazioni a sostegno del costituendo Pdl, è nei fatti una sceneggiata per formare un partito leaderistico, nel quale non è richiesto nessun contributo e non è possibile nessuna discussione e partecipazione, sia democratica che di eventuali (lì dove ve ne fossero) opposizioni o dissenzi interni. La cooptazione e successiva dissoluzione di An in questo nuovo soggetto politico e partitico, sia per la

ca la componente cattolica: o ci voleva Ruini o per lei, Rotondi, è trasparente! Fra cinque anni va tenuta presente.

L. C. Guerrieri Roseto degli Abruzzi (Te)

VELTRONI E RUTELLI HANNO SCARSA MEMORIA Per Veltroni e Rutelli le istituzioni non hanno colore. Forse i Nostri hanno ingurgitato il farmaco che agisce sui ricordi, hanno preso la pillola per dimenticare o si sono bevuti il detersivo per cancellare ciò che non sarebbe dovuto accadere. Per loro sfortuna, molti di noi continuano a ricordare i fatti dovuti alla sinistra al potere. Di più, tanti continuano anche a rimembrare come si sono sentiti all’epoca di tali fatti.

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

forma che per i contenuti, è non solo la prova, ma bensì il prezzo riuchiesto al propiro ex leader Gianfranco Fini e ai suoi dirigenti in cambio di una sola e unica promessa: l’eredità elettorale che Berlusconi vorrà gentilmente lasciare a chi ”soppravviverà” dopo di lui. Meditate gente. Meditate. Vincenzo Inverso

SEGRETARIO ORGANIZZATIVO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog IL PARTITO SOCIALISTA HA PAGATO SCELTE SBAGLIATE

No, non siamo «spajati» di strada Lenor, dammi una parola buona, una parola nostra. Non ho più pace. L’ho letta e riletta. E’ mostruosa. Mai m’avevi parlato così. E’ un colpo di follia cattiva. Ne ho ancora il sangue sconvolto. Ed è il primo dolore non buono che mi viene da te. Siamo «spajati» di strada tu dici. Ma i due destini nemici non hanno impedito che le due creature s’unissero in un grande amore, in un grande e lungo amore che riempiva ogni distanza, ogni silenzio, che schiacciava ogni dubbio. I destini erano vinti. Chi pensava più ai destini nemici, alle vite disparate e lontane? Oggi mi dici che non hai né la gaiezza, né la forza necessaria per rivedermi. Non ti ho mai chiesto gaiezza. Sempre sei stata nel dolore e t’ho cercata sempre e t’ho seguita sempre e i sentieri d’Italia lo sanno e ti cerco e ti chiamo e voglio ancora seguirti oggi e sempre. Rimani dove sei, chiamami per nome. Verrò io. Ma dimmi una parola nostra, dimmene una. Arrigo Boito a Eleonora Duse

FINALMENTE UN HOBBIT RAGGIUNGE PALAZZO CHIGI Prima la vittoria nazionale del centrodestra, poi la storica conquista di Roma con Alemanno sindaco, e ora un altro segnale che fa sperare nel cambiamento reale della politica italiana: la nomina a ministro per le Politiche giovanili di Giorgia Meloni, la più giovane della storia repubblicana. Con lei, con cui moltissimi giovani militanti sono cresciuti, entrerà nelle stanze di Palazzo Chigi una generazione di ragazzi che è vissuta nel mito di Borsellino, che ha percorso migliaia di chilometri in cortei, fatto centinaia di manifestazioni per rivendicare il diritto al futuro e quello allo studio, con la rabbia e l’amore di chi crede alla politica disinteressata. Per usare una metafora che per Giorgia e per tanti altri è molto di più di una storia fantasy: un Hobbit finalmente ha raggiunto Palazzo Chigi e da lì proseguirà nella difficile avventura di rappresentare le istanze di tutti i giovani, al di là delle appartenenze e senza cedere a compromessi. Grazie per l’ospitalità. Distinti saluti.

Alessandra Guerrera Napoli

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

10 maggio 1497 Amerigo Vespucci lascia Cadice per il suo primo viaggio nel Nuovo Mondo 1503 Cristoforo Colombo scopre le Isole Cayman e le battezza Las Tortugas a causa delle numerose tartarughe marine che vi sono presenti 1774 Luigi XVI diventa re di Francia 1940 Winston Churchill viene nominato Primo Ministro del Regno Unito 1954 Bill Haley and the Comets pubblicano ”Rock Around the Clock”, il primo disco di rock and roll a raggiungere la vetta delle classifiche 1960 Il sottomarino nucleare USS Nautilus completa la prima circumnavigazione subacquea della Terra 1980 Inizia in Giappone la commercializzazione del fortunatissimo videogioco Pac-Man 1981 François Mitterrand è eletto presidente della Repubblica Francese 1987 Il Napoli conquista matematicamente il suo primo scudetto

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

Anche se devo ritenere che il Partito socialista sia del tutto sparito nel panorama politico italiano, io, da ex socialista craxiano, non posso permettermi di non piangere quando sfiorisce un garofano. Dopo 116 anni di storia, invece, sparisce dalle scene italiane il Partito socialista: una lenta agonia, la sua, iniziata con Tangentopoli, che ne ha travolto la dirigenza, facendone il capro espiatorio di un intero sistema. Anche il Ps, come la sinistra radicale, ha pagato a caro prezzo una serie di scelte sbagliate e l’impossibilità o la non volontà di fermarsi a riflettere, in modo seriamente politico e non per scelte di potere e di poltrone. Per ripensarsi e ricostruirsi, accettando la sfida della modernità e smettendo panni ormai consunti, per indossarne di nuovi: quelli del riformismo socialdemocratico craxiano, ad esempio, che ne avrebbero forse fatto quella forza progressista e realmente innovatrice di cui ancora non v’è traccia né a sinistra né tanto meno a destra. Ma tant’è.

Angelo Simonazzi Poviglio (Re)

PUNTURE Antonio Tajani nominato commissario europeo. Sembra che subito dopo la notizia, come Armstrong arrivato sulla luna, abbia esclamato: «è un piccolo passo per un uomo ma un balzo per l’umanità»

Giancristiano Desiderio

L’educazione consiste nel darci delle idee, la buona educazione nel metterle in proporzione CHARLES DE MONTESQUIEU

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di LIBANO NEL CAOS, A RISCHIO ANCHE ISRAELE L’incubo sta diventando realtà: l’organizzazione terroristica Hezbollah, dopo un periodo di relativa calma per consentire un completo riarmo senza troppi disturbi, va all’attacco e minaccia il colpo di stato per prendere il potere assoluto nel martoriato Libano. Di fronte alla decisione del legittimo Governo Siniora, sostenuto da una maggioranza anti-siriana, di dichiarare illegali le reti di informazione e comunicazione di Hezbollah, sono scoppiate numerose rivolte in tutto il paese, fomentate dalla chiamata alle armi del leader sciita Nasrallah. In queste ore la capitale Beirut è circondata dai mezzi militari dei terroristi, e vari quartieri sono già stati occupati. Prova ne è l’ocuramento della rete televisiva filo-governativa di proprietà di Hariri, esponente di spicco antisiriano. Se davvero Hezbollah riuscirà a rovesciare Siniora, e destabilizzare le già caotiche istituzioni libanesi, non in grado di eleggere un nuovo Presidente da mesi, in pericolo sarà l’intero e delicato sistema di equilibrio Medio Orientale, messo a dura prova anche dalle continue dichiarazioni iraniane sulla volontà di cancellare dalle cartine geografiche lo Stato ebraico. Del resto, è facile vedere la longa manus dell’Iran in quello che sta accadendo in questi momenti: una vittoria di Hezbollah sarebbe del tutto equivalente ad una presenza avanzata irania-

na, addirittura ai confini di Israele. E questo non potrà mai essere accettato da Olmert e dall’esercito israeliano. Si intravede quindi la possibilità di un conflitto generalizzato, se non si riuscità a stroncare sul nascere i piani dei terroristi sciiti.

Il Falco falcodestro.altervista.org

INSICUREZZA PERCEPITA La criminalità, misurata dal tasso di omicidi, in Italia è al di sotto della media europea ed è in calo. Nel 2005 10.3 omicidi per ogni milione di abitanti (13.1 nel 2000) rispetto alla media europea che è pari a 14. Meno che in Francia Regno Unito Danimarca Olanda e Spagna (dei grandi paesi solo la Germania ha un tasso inferiore). L’unico tipo di omicidio che è aumentato rispetto al 2000 è quello che appartiene alla categoria dei delitti commessi in famiglia. La domanda è come mai per il 58.7% degli italiani, secondo il campioned Istat, la criminalità rappresenta la preoccupazione più grande (ma per il 70% il timore maggiore è la disoccupazione). Insomma, come per l’inflazione, i dati dicono una cosa le percezioni un’altra. Non è una cosa di cui meravigliarsi. La discrepanza tra le sensazioni e la realtà è una vecchia storia. La diffusione e il miglioramento dell’informazione dovrebbero ridurla. La bassa crescita, che stimola il pessimismo, probabilmente l’acuisce.

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PAGINAVENTIQUATTRO Michele Placido: «La Festa del Cinema deve cambiare, Squitieri farebbe bene a starne fuori»

Meno passerelle per vip colloquio con Michele Placido di Cristiano Bucchi on capisco il dibattito che si è scatenato attorno al Festival del Cinema di Roma. L’ho sempre considerato un appuntamento come tanti altri». Michele Placido, 62 anni, è sicuramente tra gli interpreti più carismatici del cinema italiano. Raggiungo il protagonista della fiction “Aldo Moro, il presidente”, firmata dal regista Gianluca Maria Tavarelli (in onda stasera e domani su Canale 5), sul set del suo nuovo film “Il grande sogno”, un lavoro in parte autobiografico dedicato all’esperienza del ’68. Sui giornali impazza ancora la polemica sulla kermesse romana.Tra i tanti interventi che in questi giorni hanno animato il dibattito, registriamo anche quelli di Sandra Milo e di Enrico Vanzina che apprezzano il fatto che Alemanno intenda fare dell’appuntamento di Roma uno strumento di sostegno del cinema italiano. Le interessa il dibattito attorno alla Festa del Cinema? Non particolarmente. Ho sempre preferito parlare di cinema. In questo caso mi sembra ci sia di mezzo troppa politica. Le piace il modo in cui Veltroni ha pensato la manifestazione? Sono passati solo due anni, per dare un giudizio mi sembra un po’presto. Per un Festival serve più tempo; la manifestazione si deve formare, capire qual è l’obiettivo. E’ questo il senso di un festival ed è questo che succede negli altri paesi. Come vedrebbe Pasquale Squitieri a capo della Festa di Roma? Conosco Pasquale da tanti anni e ho molta stima di lui. Non credo però che sia la persona giusta per quel ruolo. Qui a Roma serve più un politico che non un regista. Farebbe bene a tenersi fuori da questa partita. Che Festival le piacerebbe vedere? Sicuramente una manifestazione che dia spazio ai giovani e su questo mi sembra che Roma abbia fatto molto poco. O gli organizzatori si pongono questo obiettivo che è poi l’obiettivo di tutte le rassegne cinematografiche, oppure è chiaro che diventa soltanto un passerella per vip. Secondo il sindaco Alemanno il cinema di Hollywood rappresenta un problema per i film italiani. E’ d’accordo? Questo è un problema di mercato che riguarda più in generale il cinema europeo. Da sempre il cinema americano lascia pochi spazi per il suo potenziale commerciale e tecnologico. L’unica risposta è dare più soldi a chi fa questo lavoro, anche perchè da noi fortunatamente le idee e i talenti non mancano. Vuol dire che il cinema ha bisogno di politi-

«N

PIÙ GIOVANI ca e di leggi più chiare? Il nuovo governo si deve porre esattamente questo obiettivo. Servono più fondi per i giovani affinchè si riesca a tirar fuori un nuovo cinema italiano. Il problema è proprio questo: nei festival come Venezia e Roma mancano i nostri film. Nella passata stagione però i film italiani sono stati quelli che hanno incassato di più. E’ sufficiente per dire che il nostro cinema non è in crisi? Assolutamente no. Questa è la dimostrazione che il cinema italiano è vitale attraverso i suoi operatori, voglio dire che abbiamo attori che or-

mai gareggiano con i divi americani. In questi anni ho potuto constatare che il pubblico vuole anche storie italiane interpretate dai nostri attori. Lo scorso anno abbiamo raggiunto dei buoni risultati grazie al lavoro fatto negli anni precedenti. Lo ripeto: mancano gli investimenti. Senza i soldi non si va da nessuna parte. Mi sembra di capire che oltre ai soldi c’è anche un problema legato ai giovani. Nessuno è pronto a scommettere sui volti nuovi. Il punto è proprio questo. Le faccio un esempio: se dovessi andare come produttore con un giovane talento registico e giovani attori capaci ma sconosciuti a chiedere finanziamenti, nessuno mi ascolterebbe. Il vuoto è soprattutto fra i giovani, non si fa nulla per loro. Vuol dire che la Festa del cinema di Roma ha perso un occasione? Non c’è dubbio. Pensi che durante una delle prime riunioni chiesero anche un mio parere. Gli proposi di inventare uno spazio per permettere ai ragazzi di portare video, corti e proposte. Cosa le risposero? L’idea piacque molto, peccato che alla fine non se n’è fatto nulla. Roma aveva l’opportunità di essere veramente un festival diverso. E’ stata persa una grande occasione. Guardando al futuro, cosa ci può anticipare rispetto al suo prossimo film “Il grande sogno”? E’ un film sul ’68 e sull’Italia di quegli anni. Non si tratta però di un film politico ma di una commedia. Ci sono soprattutto storie di sentimenti e di persone. Aveva nostalgia del ’68? Direi di no. E’più semplicemente il tentativo di far vedere ai ragazzi di oggi chi erano i loro padri.

Il protagonista della fiction dedicata ad Aldo Moro, in onda oggi, invita i responsabili della kermesse romana dare più spazio ai nuovi autori «L’avevo già proposto durante una delle prime riunioni, ma alla fine non se n’è fatto nulla»


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