2008_05_13

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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Il guru di Bush sulle elezioni Usa

e di h c a n o cr

La sfida finale? Sarà tra Obama e McCain. Ecco come andrà

di Ferdinando Adornato

di Karl Rove senatori Hillary Clinton e Barak Obama hanno conquistato uno Stato ciascuno martedì 6 maggio, ma il risultato si è rivelato una grave sconfitta per la donna che è stata a lungo la grande favorita per la nomination democratica. Il favorito adesso è Obama: ha strappato almeno 94 delegati alla Clinton, che ne ha conquistati 75, e - secondo la classifica dell’Associated Press - rispetto all’ex First Lady ha 176 delegati in più, arrivando così ad un totale di 1.840 delegati sui 2.025 che servono per vincere. Gliene mancano solo 185 (il 38 percento) dei 486 in sospeso (217 saranno eletti nelle sei rimanenti competizioni, e 269 superdelegati devono ancora decidere quale candidato appoggiare), mentre alla Clinton ne servirebbero 341 (il 70 percento) di quelli ancora da assegnare. Obama è cosciente di tutto questo. in Indiana e Nord Carolina ha fatto un grande passo avanti verso le elezioni generali, ed ha studiato una difesa preventiva contro gli attacchi che sta ricevendo a causa del suo accento linguistico. La Clinton potrebbe combattere fino a giugno e forse fino alla convention di agosto, non c’è nulla che Obama possa o debba fare a riguardo, se non evitare di offrire motivi di risentimento a chi sta perdendo e, dopo una lunga e acerrima battaglia, tende a sopravvalutare le ragioni per sentirsi ferita.

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L’USO POLITICO DELLA TV: BANCO DI PROVA PER IL PDL

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80513

Liberalizzerai?

Tremonti può, come al solito, cambiare padrone al cavallo di viale Mazzini. Oppure può finalmente liberarlo dai partiti…

alle pagine 2 e 3

c on t in ua a p a gi na 12

Israele starà a guardare?

Nominati 37 sottosegretari

Terremoto in Cina: migliaia di morti nel sudovest del Paese

Libano, la guerra sospesa

Viceministri, ancora fumata nera

Vincenzo Faccioli Pintozzi

di Mario Arpino e Carlo G. Cereti

di Antonella Giuli

Molte migliaia di morti: è questo il dato non ufficiale delle vittime del terremoto che ha colpito ieri la Cina sudoccidentale. Una scossa di magnitudo 7,8 gradi della scala Richter, che ha colpito in particolare la provincia del Sichuan.

Il sesto giorno di conflitto tra sciiti ed Hezbollah ha portato il numero delle vittime ad almeno 58 morti e 177 feriti. Ieri violenti combattimenti sono esplosi a Tripoli, la grande città del nord.

Alla fine non l’ha fatta. Dopo lunghe ore di attese, frenesie, incontri rimandati, dichiarazioni e smentite, Berlusconi ha riunito il Cdm, rinviando però la nomina dei viceministri.

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Wen Jiabao: «Disastro enorme»

pagina 11 MARTEDÌ 13 MAGGIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

87 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


rai

pagina 2 • 13 maggio 2008

Nessuno nel Pdl crede alla possibilità di superare il dominio dei partiti sulla tv pubblica: eppure è un punto decisivo per la modernizzazione del Paese

Liberalizzare? È un’utopia… di Errico Novi

ROMA. È l’ultimo tempio, quel-

mo neanche riassumere nella lo inviolabile. È l’acropoli dove parolina magica ”privatizzaziogli auspici sul dialogo, sulle ne”. È inutile affidarsi agli sloriforme condivise si fermano, gan. Parliamo di un servizio contemplano la sacralità dei pubblico, con problemi comluoghi e si ritirano in buon ordi- plessi, che non ha una storia da ne. Riformare la Rai e privatiz- azienda privata». Certo il minizarne almeno una parte non è stro si lascia andare a una conimpossibile ma è forse l’unico siderazione fatalista: «È chiaro tabù che nemmeno questa legi- che se la riforma della Rai non avverrà in questa legislatura dovremo rassegnarci ROTONDI all’idea che non ci «È la Rai il Palazzo romano sarà mai più». per eccellenza, più del governo e del Parlamento: inutile nascondersi che riformarla sarà impresa ardua, a maggior ragione se vogliamo farlo in modo bipartisan»

slatura riuscirà a infrangere. Lo si capisce dall’onestà delle parole di un ministro come Gianfranco Rotondi, tra i più chiari nel dire che la sortita di Marco Travaglio a “Che tempo che fa” «non sarà usata dal governo come pretesto per dare vita a un repulisti nel servizio pubblico», e che il giornalista invitato da Michele Santoro «risponderà personalmente e nelle sedi appropriate degli atti da lui compiuti». Tra maggioranza e opposizione il clima non può essere guastato da un episodio come quello di giovedì scorso, ma il titolare per l’Attuazione del programma è molto chiaro anche nel prevedere il futuro della tv di Stato: «La Rai è il vero Palazzo romano, è il Palazzo pasoliniano per eccellenza, più del governo e del Parlamento: ecco perché riformarlo è un’impresa titanica, e farlo d’intesa tra maggioranza e opposizione lo è ancora di più». Discorso sensato. La Rai non è un ministero, è un’azienda con una storia complicata, costruita su meccanismi delicatissimi. Così irriproducibili da essere stata uno dei pochi luoghi in cui la Prima Repubblica ha realizzato un vero equilibrio tra poteri. È forse per questo che nessuno ha voglia di smontare il giocattolo. Rotondi capisce perfettamente la dimensione del problema: «Penso che non sia giusto sottovalutare la difficoltà di una riforma che non potrem-

Se si considera

quanto sono robuste le fortificazioni, e quanto numerose le stanze del Palazzo, non si può far altro che dare ragione a Rotondi. Ma nella maggioranza c’è anche una vocazione a gettare il cuore oltre l’ostacolo, impersonata da Gianfranco Fini e Renato Schifani con i rispettivi discorsi di insediamento. I loro auspici sulla condivisione delle scelte più importanti riecheggiano nel possibilismo di un’altra figura di rilievo istituzionale, quella del neoeletto vicepresidente della Camera Maurizio Lupi: «C’è sicuramente un nuovo clima, che consente innanzitutto un reciproco riconoscimento finora difficile. Con simili presupposti si possono fare insieme scelte nell’interes-

se del Paese, senza temere di mettere a confronto sensibilità diverse: e il discorso vale per le riforme costituzionali, per la nuova legge elettorale e anche per il ridisegno di alcuni grandi soggetti la cui vita riguarda tutti, compresa la Rai». Riformare la tv di Stato come se fosse un bene comune, neutro: è esattamente la prospettiva che andrebbe assunta da maggioranza e opposizione, se non fosse che la politica incontra enormi difficoltà nel guardare al servizio pubblico in questo modo. È vero anche che il senso di responsabilità mostrato dal Pd dopo gli attacchi di Marco Travaglio al presidente del Senato mostrano come la battaglia mediatica possa combattersi con armi meno vigliacche che in passato: «A parte gli ultimi giapponesi per i quali la guerra non è mai finita, le reazioni sono state rassicuranti e chiari-

E Beppe Grillo corre in suo soccorso

Marco Travaglio sogna il martirio

scono che le voci isolate non possono scardinare il clima di legittimazione reciproca. Nel caso del sistema televisivo si può discutere se appunto si supera il vecchio riflesso condizionato, quello per cui ogni decisione in materia viene dalla bocciata parte avversa come favorevole alla Rai o a Mediaset. Parliamo invece di un settore strategico e dunque meritevole di uguale attenzione da parte di chiunque». Lupi è ottimista anche in base a un altro aspetto, che dovrebbe essere decisivo per tutti: «Nel 2008 il servizio pubblico non può essere considerato secondo gli stessi parametri del passato. Non c’è il fantasma del duopolio, le tv satellitari e le nuove tecnoLUPI logie stanno lì a «C’è un clima ricordarcelo. Suldiverso, possiamo la privatizzazione confrontarci: della Rai dunque la privatizzazione ci si può confronnon è un tabù, tare, non dobbiae non è possibile mo considerarla ragionare un tabù». sul servizio pubblico Resta il dubbio come se novità che il salto sia tecnologiche davvero troppo come il satellite spericolato. E a non esistessero» rafforzare questa impressione prov-

ROMA. Impazza la querelle sul caso Travaglio. Tutti lo attaccano, pochissimi lo difendono, ma il giornalista, che nel corso della trasmissione “Che tempo che fa”ha implicitamente accusato il presidente del senato Schifani di collusione con la mafia, si guarda bene dall’innestare la retromarcia. «Pentito io? Ma per piacere, non scherziamo. Figuriamoci se sono pentito per quello che ho detto. Anzi, sono stato anche troppo buono – ha rilanciato ieri Travaglio.Viceversa, Fabio Fazio si è scusato pubblicamente con Schifani dopo che già in diretta si era dissociato dalle parole del giornalista suo ospite in trasmissione. Mal gliene incolse. Beppe Grillo è andato violentemente al suo attacco. «Non ho commenti su quelle persone, non sono neanche giornalisti, sono impiegati»: è stata la risposta del comico genovese a chi gli chiedeva un commento sulle scuse fatte in tv dal conduttore di Che tempo che fa. «Io - ha aggiunto Grillo - a prescindere da qualsiasi cosa, sono con Travaglio». Il presidente del Senato Renato Schifani ha dato mandato ai suoi avvocati per agire giu-

BUTTI «C’è una strada maestra: partire dalla Gasparri per privatizzare parzialmente la tv di Stato. In alternativa sono già pronti i ddl per dare al Parlamento anche il diritto di revoca»

vede chi guarda alla questione con il disincanto dell’attore e neodeputato Luca Barbareschi: «Credo che la cosa migliore per il centrodestra sia gestire la riforma secondo la propria linea e vedere successivamente se gli altri vogliono condividerla». Barbareschi parla con il tono irruvidito di chi ha sperimentato direttamente la difficoltà di essere di destra e vivere nel mondo della comunicazione: «Ogni volta che la sinistra vince le elezioni occupano la Rai, quando viene il nostro turno ci dicono che non possiamo indicare persone perbene scelte autonomamente: credo proprio che la tv pubblica resterà giustamente così com’è, la cosiddetta condivisione finisce sempre per andare a scapito della destra. Meglio scelte autonome che il solito gattopardismo italiano con cui il nostro Paese è precipitato nella recessione». Meglio sarebbe in realtà «partire dalla Gasparri per arrivare

dizialmente nei confronti «delle affermazioni calunniose rese nei giorni scorsi nei riguardi della sua persona». È quanto afferma una nota dell’ufficio stampa del Senato. «Sarà quella la sede in cui, da una puntuale ricostruzione dei fatti, la magistratura potrà stabilire le responsabilità di coloro che hanno dato luogo ad un’azione altamente diffamatoria conclude la nota - nei riguardi del Presidente del Senato». Ma non basterà una querela a soddisfare il vittimismo di Marco Travaglio. Lui sogna il martirio: «La Rai mi denuncerà e così io non potrò più partecipare a Annozero. Mi manderanno via».


rai

13 maggio 2008 • pagina 3

Le riforme perennemente rinviate producono gravi danni

«Continuate pure così, finirà come Alitalia» colloquio con Franco Debenedetti di Nicola Procaccini

ROMA. Non di solo Travaglio vive il dibattito

Il governo assicura che la sortita di Marco Travaglio durante la puntata del programma di Fabio Fazio ”Che tempo che fa” non sarà il pretesto per un repulisti in Rai pronti adesso per essere presentati come disegni di «Ogni volta che vince, la sinistra legge». Una precauzione che la occupa tutto. Non vedo perché dice lunga suldi a noi a dovrebbe l’ottimismo Butti rispetto a essere vietato un intervento di indicare condiviso: «Nel persone perbene in piena testo che ho preautonomia. Credo parato è prevista la figura dell’amche resterà ministratore detutto com’è» legato, idea che nei mesi scorsi a una privatizzazione parziale Veltroni propagandava come della Rai», come dice il senato- una svolta necessaria e di cui re del Pdl Alessio Butti, «que- ha smesso di parlare. A Gentista è la via maestra per noi. Ma loni feci notare che il suo leac’è anche un’altra strada: la- der aveva una prospettiva più sciare lo status quo e interve- vicina alla nostra che a quella nire per evitare che si ripetano disegnata da lui». Il punto è vicende gravi come l’azione di che nella scorsa legislatura la Padoa-Schioppa contro il con- riforma della Rai è sembrata sigliere Angelo Maria Petroni, ridursi a diversivo per giocare e assegnare al Parlamento an- meglio con quella del sistema che il potere di revoca oltre a tv e con le minacce di ridimenquello di nomina. Durante il sionamento rivolte a Mediaset. dibattito sulla riforma propo- A questo punto riparlarne con sta da Gentiloni avevo prepa- toni diversi rischia di essere rato emendamenti che vanno più complicato che cambiare in questa direzione e che sono la Costituzione.

BARBARESCHI

intorno al ruolo della televisione pubblica nel nostro Paese. Ciclicamente, all’insediamento di ogni nuovo governo corrisponde la deflagrazione di una nuova guerra di poltrone in seno alla Rai. Inevitabile. O forse no, basterebbe che la Rai non fosse di proprietà dei partiti politici. Tra i sostenitori storici della privatizzazione dell’emittenza pubblica, c’è sicuramente Franco Debenedetti. Il neoeletto senatore del Partito Democratico, acceso sostenitore delle liberalizzazioni, è un uomo schietto e disincantato, al solo sentire l’accostamento delle due parole Rai e privatizzazione taglia corto e perentorio: «Fantascienza!». Ma come Senatore, ora che ne parlano in molti, Lei non ci crede più? Ma chi ne parla? Io sento parlare soltanto di cambiare i vertici Rai. Che mi sembra sia tutto il contrario del togliere le mani della politica. Le pare che si possa chiamare privatizzazione? Teme che possa sembrare il solito argomento di chi ha perso le elezioni? Non è questo il punto. Di cosa si parla in queste ore? Primo: cambiare i vertici. Secondo: i conti in rosso. Ma nessuno che risponda alla domanda base: che cosa si chiede al servizio pubblico? Mi permetto di farle un assist: non dovrebbe essere la mission di un governo che si definisce liberale e liberista? Appunto: si dice. Lasciamo perdere. Restiamo alla questione Rai. Non c’è alcuna possibilità che Berlusconi privatizzi la Rai. L’ultima volta che ha governato, con la legge Gasparri l’aveva previsto in linea teorica, ma rifiutandosi di mettere una data. La legislatura è finita senza che si facesse neppure l’accenno di un passo. Se ho ben capito, Lei ritiene che la privatizzazione prevista dalla legge Gasparri fosse solo un surrogato? Assolutamente no. Un surrogato sarebbe la saccarina invece dello ziucchero. Ma qui c’è solo il caffè amaro.. Come ritiene si sia mosso il governo Prodi in questo senso? Guardi, credo che la legge Gentiloni sia uno dei provvedimenti peggiori di un Governo a cui non sono mancate le critiche. Gli riconosco un merito però: per lo meno ha avuto il pudore di non chiamarla privatizzazione. Non l’ha nemmeno nominata. Ha parlato di una fondazione: una struttura non privatistica, ma fuori dalla gestione dei partiti. Ma siamo seri, le possibilità di privatizzare la RAI sono bassissi-

me per il centrosinistra, per il centro destra è quasi impossibile. Sono ovvie le criticità per Berlusconi: e perché dovrebbe andare a cercarsi una rogna di queste proporzioni? Pensi quante polemiche ci sarebbero, qualunque cosa faccia. Se la fa seriamente e non per finta. Possiamo a chiedere a Berlusconi tante cose, ma domandargli di privatizzare la Rai è tempo perso. Nessuna possibilità dunque? Ma scusi, se non ha privatizzato neppure l’Alitalia, che pure era facile. Lo stava facendo Prodi, era fallita, senza soldi, senza aerei, senza idee. Una volta pensavo che l’ultima speranza di privatizzazione della Rai stesse nel suo fallimento. Dopo la vicenda Alitalia, neppure più in questo. Il fallimento dell’impresa pubblica, dunque. Ha presente cosa vuole Tremonti per Alitalia? “una soluzione nazionale fondamentalmente privata”. Come dire: una donna di dubbie virtù, ma fondamentalmente vergine. Qual è l’utilità dell’emittente pubblica? Bella domanda, la Rai è un servizio pubblico ma nessuno ha mai definito cosa s’intenda per servizio pubblico. E’ una foglia di fico che serve a tenere la Rai di proprietà dei partiti. D’altra parte se venisse venduta agli italiani ci sarebbe il problema di chi partecipa alla cordata, se venisse venduta a qualche straniero... Figuriamoci! Siamo realisti, ci sono tanti problemi in Italia, che la Rai vivacchi in eterno e buonanotte. Una conclusione malinconica? Realistica. Prima di liberalizzare la Rai, con tutti i problemi connessi, occupiamoci di altre cose. C’è la privatizzazione delle poste. Qualche cosa delle ferrovie statali. Grazie a Dio la Rai sta messa meglio eppoi ci regala ogni tanto queste “travagliate”, così ci accorgiamo della sua esistenza. Vabbè, non volevo parlarne, ma già che ci siamo… Mah! Penso che non sia una cosa seria, dunque perché dobbiamo prenderla sul serio? Mettiamola così: c’è qualcuno a sinistra che gode a sentire le “travagliate”, io credo che Berlusconi dovrebbe solo augurarsi che continuino.


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libano

La battaglia di venerdì scorso non è che l’inizio: Hezbollah, sostenuto dall’Iran punta a rafforzarsi per controllare tutto il Paese

La guerra sospesa Fino a quando Israele starà a guardare? di Mario Arpino commenti di alcuni analisti sugli avvenimenti libanesi della settimana scorsa hanno messo in evidenza, nonostante sia naturale sperare il contrario, la probabilità che la crisi dentro cui è precipitato il Paese dei cedri, nei prossimi giorni si acuirà fino a passare alla fase di guerra aperta. Anche liberal, ha in parte condiviso queste analisi. Ovviamente nessuno auspica un nuovo sanguinoso conflitto per il Libano, ma è un dato di fatto che la situazione si stia progressivamente deteriorando. Ad onor del vero, quanto avvenuto nello scorso fine settimana sembrerebbe indicare una situazione meno tesa. Ma si tratta di una sensazione ingannevole e transitoria.

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sidente Michel Suleiman, su cui lui stesso sembrava non avere alcuna fiducia. Il giorno prima il leader della coalizione 14 marzo aveva accusato il generale di non aver eseguito le sue disposizioni riguardo l’aeroporto e la rete telefonica di Hezbollah. Quello stesso esercito che si è battuto valorosamente per cacciare gli odiati qaedisti, stranieri e jihadisti, dai campi profughi della città, non ha mosso un dito per disarmare gli sciiti filo iraniani – è la risoluzione 1701 dell’Onu che gli assegna questo compito – nè per impedire le infiltrazioni di armi alla frontiera con la Siria, altro compito affidato ai soldati regolari libanesi dal Consiglio di Sicurezza. Se ne deduce che il Li-

ropa che continua a traccheggiare rifugiandosi nel politically correct, una Russia che corteggia l’Iran o un grande alleato come gli Stati Uniti, che ogni quattro anni ne spende un paio in campagna elettorale e comincia a dover preoccuparsi, al proprio interno, delle avvisaglie di una possibile crisi socioculturale prima ancora che politica. Viste le cose con l’ottica di Israele, la speranza che “la crisi non diventi guerra” espressa da liberal appare purtroppo sempre più labile e rassicura assai poco, sopra tutto in una prospettiva di medio termine. Se il mondo non si muove, non prende qualche iniziativa per la sua tutela, Israele prima o poi reagirà in forma preventiva, secondo quella dottrina che spesso le ha alienato amicizie e simpatie, ma che sinora l’ha sempre salvata. Cerchiamo di ragionare mettendoci nei suoi panni. Panni difficili da indossare, lo ammetto, quando non si è spinti nell’angolo e non si è costretti a lottare per il diritto di esistere. Anche con la presenza delle truppe dell’Onu, lungo il confine gli avvenimenti libanesi non contribuiscono certo a rasserenare gli animi dei cittadini israeliani.

Gli sciiti hanno abbandonato Beirut ovest dopo essere usciti vincitori dallo scontro politico con l’esecutivo

Mentre, infatti, le parti in guerra per il momento si combattono più con annunci ad effetto che a colpi di kalashnikov – i quattro morti ed i dodici feriti di sabato pomeriggio, provocati dalla sparatoria al funerale di un cittadino sunnita, come pure gli scontri di Tiro, a Beirut non impressionano nessuno – Hezbollah ed il suo alleato Aoun reclamano la vittoria, mentre Fuad Siniora maschera un compromesso, che indebolisce vieppiù la sua traballante coalizione. In Tv ribadisce che «il paese non cadrà nelle mani dei golpisti», che il governo non accetterà che le milizie di Hezbollah continuino ad agire armate e indisturbate e che, in ogni caso, il movimento sciita non fa paura anche se dovesse innalzare la propria potenza di fuoco. In realtà il ritiro da Beirut Ovest dei guerriglieri sciiti è avvenuto solo cedendo a tutte le loro richieste (controllo dell’aeroporto, restituzione della rete “parallela” di comunicazioni, comando e controllo, ecc.). Chi controlla oggi il cuore della città? Ovviamente le forze armate libanesi, il primo ministro non aveva scelta. Quello stesso esercito, guidato dal candidato pre-

bano di Sinora non ha forze amate in possesso di capacità, motivazioni, volontà e tecnologia con cui contrastare le sofisticatissime attrezzature e la grande preparazione miliziani del movimento sciita, addestrati dai pasdaràn iraniani e riforniti di armi attraverso la Siria.

Nonostante il sessantesimo Tutto vero, si dirà, ma c’è pur sempre Unifil. In effetti c’è, ma è relegata nella sua fascia di controllo, utile per separare di qualche decina di chilometri Hezbollah e i suoi razzi dalle cittadine oltre confine, in una situazione che, al momento, fa probabilmente più comodo al movimento sciita che alle truppe con la stella di Davide. Ma possiamo essere certi che gli israeliani non staranno a guardare senza apprensione. Anzi, è probabile che si stiano già preparando al peggio, con uno Stato islamico “ombra” di fatto padrone del Libano, una mina islamica innescata a Gaza e nei territori, una Siria sempre più ambigua e un Iran clericale sempre più minaccioso e delirante. Né può consolarli un’Eu-

anniversario della fondazione dello Stato, unica democrazia occidentale nel cuore del medio-oriente. Anniversario che, l’anno scorso, trovava una popolazione già sconcertata per le anticipazioni del rapporto Winograd sulle cause del bicchiere mezzo vuoto rappresentato dai preoccupanti esiti della campagna di giugno – luglio 2006. E’ una popolazione che non vuole trovarsi mai più nelle medesime condizioni. Gli avvenimenti di Beirut oggi confermano, ma non ce ne era bisogno, che Hezbollah continua a rappresenta-

Nessuno sostiene Siniora ma tutti vogliono che resti

Un governo appeso a un filo non si piega alla prova di forza di Francesco Cannatà l sesto giorno di conflitto tra sciiti ed Hezbollah ha portato il numero delle vittime ad almeno 58 morti e 177 feriti. Ieri violenti combattimenti sono esplosi a Tripoli, la grande città del nord, ma gli osservatori seguono ora con attenzione i possibili sviluppi politici della crisi esplosa nel Paese dei cedri. Una riunione ha avuto luogo ieri sera al Serraglio, la sede del governo libanese. Fonti affidabili indicano che l’esecutivo ha in mente tre opzioni: l’allargamento del gabinetto attuale, le dimissioni del governo, compresi i ministri sciiti che nel novembre 2007 si sono ritirati, e disbrigo degli affari correnti, e infine le dimissioni vere e proprie di Siniora. Questo passo estremo servirebbe a mettere la comunità internazionale di fronte alle proprie responsabilità dimostrando che la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza è stata violata. Difficile però che si scelga questa opzione. Come ambienti ministeriali di Beirut fanno notare, «anche se la missione di questo governo era finita da tempo», quello che è avvenuto nei giorni scorsi è stato «un vero e proprio colpo di Stato». La caduta del governo significherebbe un salto nel buio e «lasciarebbe il Paese senza guida». Il premier ha smentito anche le voci circolate sabato e domenica, secondo cui Ryad gli avrebbe consigliato di lasciare. «È avvenuto esattamente il contrario» ha detto il capo del governo, «è la prova di forza che ha avuto il sostegno dei governi della regione». Dimissioni escluse almeno per le prossime 48 ore. I contatti tra i leader della coalizione governativa, il sunnita Saad Hariri e il maronita Samir Geagea, e con attori esterni al governo hanno però dato risultati ambigui. Nessuno sembra puntare sul governo in carica, ma tutti sono contro le dimissioni di Fuad Siniora.

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re per Israele una minaccia strategica su tre livelli: come attore indipendente, che in Libano ormai è in grado di condizionare un governo sostenuto dall’Occidente, la futura Presidenza e le forze armate; come braccio dell’esercito e dei servizi siriani e, non da ultimo, come

strumento politico-religioso del regime clericale iraniano. E’ una forza che sia all’interno del Libano che fuori, ha validi argomenti per dichiararsi vincitrice, avendo “persino”costretto Israele a ritirarsi per ben due volte dentro i propri confini, e, per giunta, senza ottenere contropartite. Ciò sta dando al movimento sciita credibilità presso tutti i nemici di Israele, e, per estensione impropria, dell’America e dell’intero Occidente.


libano

13 maggio 2008 • pagina 5

Occorre una concertazione internazionale

Come evitare la rivincita sciita di Carlo G. Cereti l Libano è di nuovo in fiamme. L’incendio divampa, si smorza, deflagra, forse si placa. Quante volte abbiamo dovuto scrivere le stesse parole, le stesse frasi, per descrivere quanto accade nella terra dei cedri, la più antica democrazia parlamentare del Medio Oriente? Mentre scrivo a Beirut non si spara, ma gli scontri continuano nel nord del paese e poco a sud della capitale, sulla montagna abitata dai Drusi di Jumblatt. Negli ultimi mesi, da quando è scaduto il mandato presidenziale del generale Émile Lahoud, si respira in Libano un’atmosfera irreale, quella di un Paese sospeso sull’orlo del baratro, ma che continua a vivere una vita - soi-disant – normale.

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Persino il mondo musulmano sunnita, i cui vertici sembrano volersi organizzare contro questa presa di coscienza interna al mondo sciita (vedi l’improvvisa conferenza a porte chiuse della Lega Araba), sicuramente ad altri livelli ammira chi sembra tenere in scacco sia Israele che l’America. Prova ne è che anche Hamas ne sta beneficiando a Gaza e nei Territori, mentre Israele viene additata come un nemico screditato, che, chissà, forse un giorno potrebbe anche essere sconfitto. Ormai il danno è fatto, perché Israele prima o poi vorrà o dovrà dimostrare il contrario.

Le circostanze, la collocazione geografica, i problemi etnici, i tassi di natalità, il tempo che scorre, fanno sì che tutto, dico tutto, spinga la politica e la strategia di Israele verso un esito obbligato, non eludibile. Senza una decisa azione del mondo, ovvero delle organizzazioni internazionali, Israele sarà ancora una volta condannata a prendere l’iniziativa e a vincere militarmente, visto che non sembra avere un supporto esterno sufficiente a far valere le proprie ragioni con le regole della diplomazia. Nessun altra forza armata al mondo ha, come quella israeliana, responsabilità così drammaticamente esistenziali. E’ evidente che è anche la nostra inazione che contribuisce a spingere Israele alla guerra, e non solo le minacce altrui. E a condannarla a vincere, perché non può permettersi di perdere. E per vincere, visto che si tratta di problema esistenziale, non baderà certo ai sofismi del politically correct, anche se la minaccia non sono più i grandi eserciti arabi del ’48, del ’67 o del ’73. Per questo, Israele ha sempre avuto le caratteristiche di uno Stato mobilitato, che deve ne-

cessariamente mantenere una forza di dissuasione che oggi, come nel caso di Hezbollah e di Hamas, potrebbe anche non funzionare. L’ultimo pensiero degli israeliani è rioccupare il Libano, o riprendersi Gaza e i Territori. Ma, se fossero costretti a farlo, probabilmente non avrebbero riguardo per nessuno, né la carta velina di Unifil, che dovrà rinchiudersi nelle sue ridotte o andarsene per non farsi coinvolgere o trasformarsi in ostaggio, potrà essere di ostacolo. Ecco perché quando si parla di Israele, caso unico al mondo, concetti o parole come diritto di autodifesa, reazione spropositata, attacco preventivo, occupazione di territorio, ed altri ancora, hanno, perché non possono non avere, un significato ed un sapore diverso dalla realtà delle logiche comuni.

Il tempo ha complicato le cose, lasciandosi alle spalle Road Map, alture del Golan, muri di divisione, primavere libanesi, ritiri siriani, risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, vertice di Annapolis, grande Medio Oriente ed altro ancora. Sono cose che, alla prova della realtà dei fatti, hanno ormai il sapore del luogo comune. Da quando alcuni vasi di Pandora sono stati scoperchiati, e ciò prima o poi sarebbe accaduto anche senza l’Irak, gli elementi della partita sono ormai tutti noti. In assenza una decisa e concorde azione delle organizzazioni internazionali, condivisa dai principali attori globali e tesa a ridurre alla ragione i più riottosi, Israele, se lasciata sola, sarà costretta prima o poi a prendere l’iniziativa. Questa volta, saranno guai per tutti, compresa quella parte di Occidente che sinora ha preferito starsene alla finestra, discettando di democrazia.

Maggioranza e opposizione si fronteggiavano in una silente prova di forza, interrotta dai sanguinosi attentati, che hanno colpito rappresentanti della maggioranza. Le tende degli Hezbollah segnavano il panorama della città, ma erano spesso vuote. La sera dello scorso 8 maggio la quiete ha lasciato spazio ad un primo soffio di tempesta. In risposta alla decisione del premier Siniora di chiudere la rete telefonica – in fibra ottica – del maggiore partito sciita, Hassan Nasrallah ha dato ordine di occupare parte di Beirut. Questa rete telefonica rappresenta il cuore del sistema d’informazione di Hezbollah, permettendo al gruppo scita di mantenere indisturbato il contatto tra le sue milizie e con gli alleati esterni. La temporanea conclusione di questo confronto vede emergere vincitori Amal ed Hezbollah, che, mantenendo, di fatto, il controllo del sistema di comunicazioni e confermando il comando di Wafiq Shoukair all’aereoporto di Beirut, ribadiscono il diritto ad una sorta di extraterritorialità, all’essere stato nello stato. Dopo essere uscite vittoriose dal confronto con Tsahal, il potente esercito israeliano, che ne ha fatto dei paladini dell’indipendenza del Libano e del mondo islamico, ancora una volta le milizie sciite dimostrano la loro superiorità militare. Forse uno degli obiettivi era il coinvolgimento dell’esercito negli scontri, che avrebbe indebolito le chances presidenziali del generale Michel Suleiman. Tuttavia il capo delle forze armate per ora è riuscito a mantenere l’esercito al di sopra delle parti, ribadendo così la sua neutralità. Nel fare così segue le orme di chi lo ha preceduto e, se riuscirà a mantenere la sua imparzialità, emergerà come il secondo vincitore della giornata.

dente delle diciotto precedenti convocazioni, tutte andate deserte, non autorizza a ben sperare. Gli sconfitti sono tutti dall’altra parte. La maggioranza parlamentare del “Fronte 14 marzo” ancora una volta ha dimostrato la sua debolezza militare, l’incapacità di governare efficacemente il Paese. In mancanza di un impegno preciso, di un sostegno strategico e militare le dichiarazioni di sostegno di George W. Bush e di Bernard Kouchner, le riunioni della Lega Araba richieste dai sauditi, lo sdegno internazionale sono di poco aiuto. Forse di più potrà fare la volontà dei libanesi stessi, che tutti indistintamente temono che il Paese possa ricadere in una guerra civile che tanto sangue ha già fatto versare. Alle spalle di tutto questo c’è ciò che il politologo Vali Nasr ha chiamato la“rivincita sciita”, il ritrovato attivismo di questa grande minoranza musulmana, tra il 10 ed il 15% dell’intera Umma islamica, che ha trovato un riferimento naturale nella Repubblica Islamica d’Iran e che oggi domina con la forza del numero la scena politica in Iraq. Quando si parla di politica internazionale l’eccessiva semplificazione non è mai consigliabile. Indubbiamente, gli sciiti sono ben lontani dal rappresentare uno schieramento compatto, né si deve immaginare una sorta di ”internazionale sciita”agli ordini di Teheran, ma la loro presenza diffusa, unita alla gerarchia maggiormente presente nel loro clero che in quello sunnita, ne fa un elemento di cui occorre sempre più tenere conto nella complessa scacchiera geopolitica del Medio Oriente. Anche in Libano gli Sciiti sono maggioranza relativa e la loro tradizionale povertà li ha resi più sensibili all’influenza di Hezbollah, che accompagna il proselitismo politico all’attività di sostegno sociale caratteristica della comunità musulmana. La personale onestà dei militanti, il loro stile di vita, la presenza continua nei quartieri e tra il popolo ne aumenta credibilità ed efficacia propagandista.

Oltre ad Hezbollah, anche il capo delle forze armate libanesi, Michel Suleiman, esce rafforzato dalla crisi e punta alla presidenza

Il ruolo di mediazione che si è ritagliato ne fa il più serio candidato alla presidenza, sempre che Hezbollah e Amal decidano di tornare al tavolo, e Nabih Berri di convocare il Parlamento. Il prece-

Ancora una volta la partita non si può risolvere se non portando al tavolo della trattativa tutti gli attori della scena internazionale. In questo quadro la prudenza del governo italiano, ed in particolare del ministro degli Esteri, Franco Frattini, e di quello della Difesa, Ignazio La Russa, rappresenta la via più giusta. Il contingente italiano in Libano – e più in generale la nostra diplomazia ha saputo parlare con tutti, conquistandosi un grande rispetto per l’efficacia e la correttezza con cui ha svolto il suo compito. Questo può consentire al nostro governo di parlare con autorevolezza, contribuendo così ad evitare che il Paese scivoli nel caos, una fine che nessuno in Libano vuole, tantomeno Hezbollah.


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politica

Il Cdm riunito nomina 37 sottosegretari. Ma prima il premier telefona a Veltroni per chiedergli un incontro

Viceministri, ancora fumata nera d i a r i o

di Antonella Giuli

ROMA. Alla fine non l’ha fatta.

An, La Russa). Atteggiamento, questo, tanto duro quanto irremovibile e che spariglia le carte annunciando l’assoluta novità di un Viminale senza “vice”.

Dopo lunghe ore di attese concitate, frenesie contenute, incontri rimandati, dichiarazioni e secche smentite, alle 19.20 si è sciolto il Cdm e il ministro per i Rapporti con il Parlamento ha confermato il rinvio a data da destinarsi della nomina dei viceministri. Quindi Berlusconi ha dato alla luce soltanto la lista dei trentasette sottosegretari del nuovo governo: «Intanto questi, i vice più in là».

Nessuna novità troppo eclatante rispetto ai rumors che si erano affannosamente rincorsi negli ultimi giorni: Michela Vittoria Brambilla è stata nominata sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al Turismo; Paolo Romani è sottosegretario allo Sviluppo economico; Paolo Bonaiuti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’Editoria; Alfredo Mantovano sottosegretario agli Interni; Pasquale Viespoli all’Welfare; Roberto Menia sottosegretario all’Ambiente; Alferdo Mantica agli Esteri; Gianfranco Miccichè è stato nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al Cipe e al Mezzogiorno; Alberto Giorgetti all’Economia; Ugo Martinat alle Attività produttive; Antonio Bonfiglio all’Agricoltura; Pippo Reina sottosegretario alle Infrastrutture; Adolfo Urso allo Sviluppo economico; Giuseppe Cossiga e Guido Crosetto alla Difesa; Carlo Giovanardi sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega al-

la Famiglia. Circa la fumata nera sulla nomina dei viceministri, sul Cav. parrebbero dunque aver avuto la meglio i tentennamenti, le tensioni interne, le gelosie, gli imbarazzi e i veti incrociati che hanno caratterizzato, già dalla nascita, la frettolosa formazione di questo Berlusconi quater. A prevalere, soprattutto, quei veleni contenuti a mezza bocca scaturiti dall’affaire Interni e dal suo ministro Roberto Maroni, a cui proprio non andava giù l’idea di vedersi arrivare in casa Alfredo Mantovano e accettare così di buon occhio un’ulteriore concentrazione di potere nelle mani di Alleanza nazionale (che ha già la Difesa con il neoministro e nuovo “reggente” di

E se da un lato Berlusconi fa il possibile per tenersi buoni i suoi, dall’altra pare già coccolarsi l’opposizione capitanata da Walter Veltroni, al quale il premier, alla vigilia della presentazione del governo in Parlamento per la fiducia e poco prima di riunire il Consiglio dei ministri, ha telefonato chiedendo un rendez-vous «per avviare un confronto continuativo tra maggioranza e opposizione». E c’è chi già sospetta l’inciucio. O meglio, lo scongiura gridando “all’armi”. Lo fa sul suo blog il membro del coordinamento nazionale del Pd Mario Adinolfi, che definisce l’incontro «assolutamente inopportuno» e che ricorda a Veltroni che adesso è il momento «di altre priorità come un programma di partito alternativo, non di un inciucio che nessuno, tanto meno il popolo del Partito democratico, vuole». Più esplicito ancora il leader di Italia dei valori Antonio Di Pietro, che ha ricordato a Veltroni: «L’esperienza e la storia passata nelle scorse legislature dovrebbero aver insegnato che quando Berlusconi promette o si impegna in qualche cosa, bisogna andarci con i piedi di piombo e verificare prima, ed esattamente, come stanno le cose per evitare fregature e ribaltamenti di carte all’ultimo minuto».

Tutti i sottosegretari del Governo Berlusconi Presidenza del Consiglio

Esteri

Giustizia

Gianni Letta Maurizio Balocchi

Stefania Craxi Alfredo Mantica Enzo Scotti

Maria Elisabetta Alberti Casellati Giacomo Caliendo

(delega alla Semplificazione normativa)

Paolo Bonaiuti (delega all’Editoria)

Economia

Michela Vittoria Brambilla

Luigi Casero Nicola Cosentino Alberto Giorgetti Daniele Molgora Giuseppe Vegas

(delega al Turismo)

Aldo Brancher (delega al Federalismo)

Rocco Crimi (delega allo Sport)

Sviluppo economico

Ugo Martinat Paolo Romani Adolfo Urso Istruzione

Pino Pizza Beni culturali

Francesco Giro

Carlo Giovanardi

Difesa

Politiche ambientali

(delega alla Famiglia)

Giuseppe Cossiga Guido Crosetto

Roberto Menia

Gianfranco Miccichè (delega al Cipe e al Mezzogiorno)

Politiche agricole

Antonio Bonfiglio Infrastrutture

Interno

Michelino D’Avico Alfredo Mantovano Francesco Nitto Palma

Roberto Castelli Bartolomeo Giachino Mario Mantovani Giuseppe Reina

Welfare

Ferruccio Fazio Francesca Martini Eugenia Roccella Pasquale Viespoli

d e l

g i o r n o

Csm: Gip Forleo allontanata da Milano Il Consiglio superiore della Magistratura ha stabilito ieri il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale del Gip di Milano Clementina Forleo. Secca e immediata sua la replica: «Sono stupita e mi auguro che il plenum riveda la decisione. Qualora dovesse essere confermata, continuerò a fare il mio lavoro in qualunque tribunale d’Italia con dignità e a testa alta». Il suo avvocato ha comunque parlato di «insussistenza di ragioni» sul trasferimento, che sarà discusso dal plenum del Csm tra una ventina di giorni.

Frattini: «Con Hamas non si tratta» «A differenza di D’Alema e di Prodi, resto contrario a trattare con Hamas». Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri Franco Frattini in un’intervista alla trasmissione “Controcorrente” di SkyTg24. Il governo Berlusconi, ha spiegato, dovrà «affermare in un modo molto più chiaro» rispetto a quello di centrosinistra che «il ruolo di Israele è un ruolo di diritto assoluto alla propria esistenza e sicurezza». Frattini accusa Hamas di attaccare «la polizia militare e civile palestinese». Il conflitto israelopalestinese è una «vicenda che va risolta nel confronto fra il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Abu Mazen», secondo Frattini, che definisce un «eccezionale lavoro» la mediazione condotta dall’Egitto.

Voto estero: indagato Di Girolamo Primi indagati a Roma nell’inchiesta sulle presunte anomalie legate al voto degli italiani all’estero: tra loro Nicola Paolo Di Girolamo. Le ipotesi di reato prese in esame nei confronti di Di Girolamo, che è stato eletto al Senato nelle file del Pdl per la circoscrizione Europa, sono quelle di falso in atto pubblico e violazione della legge elettorale. A Di Girolamo si contesta, stando alle prime indiscrezioni, di aver falsamente dichiarato di essere residente in Belgio.

Sicurezza, si parte dai patti territoriali «Penso che quella dei patti territoriali sia la strada giusta da seguire per fare fronte alla domanda di sicurezza che proviene dai cittadini». Lo ha detto il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, dopo l’incontro in Campidoglio con il sindaco di Roma Gianni Alemanno, a cui è seguita una conferenza stampa: «Ringrazio il sindaco di Roma - ha aggiunto - per me si tratta del primo incontro nella nuova veste di ministro dell’Interno.Abbiamo discusso dei temi della sicurezza, del mondo delle autonomie, dei comuni e dei sindaci che credo siano importanti per il contrasto dell’illegalita’ sul territorio».

Famiglia Cristiana contro governo ombra «Anche il Partito democratico, con il governo ombra, ha ignorato la famiglia». Lo sostiene il settimanale Famiglia Cristiana, che critica anche il Pdl di Berlusconi: «Se Veltroni ha risolto d’un colpo la sovrabbondanza dei partiti, Berlusconi con l’esclusione dell’Udc ha semplificato la storia di una Repubblica cresciuta nel segno della Dc». Ma anche al Pd giunge una dura critica: «Preferiscono trastullarsi con dualismi e correnti, nonostante il segnale netto e forte delle primarie».

Meloni: sarà reato l’immigrazione clandestina L’introduzione del reato di immigrazione clandestina «è una delle possibilità sul tavolo». Lo ha affermato ieri il neoministro per le Politiche giovanili, Giorgia Meloni, conversando con i giornalisti davanti a Palazzo Chigi. «Questa maggioranza - ha spiegato il ministro Meloni - vuole affrontare e dare risposte concrete agli italiani su un tema fondamentale come quello della sicurezza».


politica

13 maggio 2008 • pagina 7

La sfida di Carlo Casini: «Come il Papa vogliamo pari dignità anche per i bambini non nati» ROMA. «Un patto fondato sulla ragione prima che sulla fede che chiama in causa credenti e non credenti». Così Carlo Casini, presidente del “Movimento per la vita” ed europarlamentare, definisce a Liberal il comune impegno dei suoi volontari e della Santa Sede contro l’aborto. Ieri per il gruppo di Casini è stato un giorno di festa e grande soddisfazione. Il Papa, accogliendolo in Vaticano, ha rinnovato la stima per il suo lavoro, esortandolo a proseguire per questa strada. E non ha esitato a esprimere il suo giudizio sull’attuale legislazione sull’aborto che, per il Pontefice, «in trent’anni non solo non ha risolto i problemi che affliggono molte donne e non pochi nuclei familiari, ma ha aperto un’altra ferita nelle nostre società già provate da profonde sofferenze». Onorevole, come giudica l’incontro? Sicuramente siamo molto soddisfatti non soltanto perché il Santo Padre ci ha concesso immediatamente l’Udienza e ha espresso grande apprezzamento per il nostro lavoro, ma anche perché l’incontro cade in un momento importante. Il 22 maggio ricorre il trentesimo anniversario dalla promulgazione della legge sull’aborto. E non è certo un avvenimento da celebrare. Anzi, il contrario. Ciò che bisogna fare con forza è ricordare che il primo diritto da difendere è quello alla vita e non certo quello ad abortire. Inoltre questa è una circostanza molto significativa perché si verifica nell’anno in cui si celebra il sessantesimo anniversario dall’entrata i vigore della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite”. Ed è quindi necessario

«Un patto tra credenti e atei per difendere la vita» colloquio con Carlo Casini di Francesco Rositano

ogni essere umano e quindi anche dei bambini non ancora nati. Ecco perché il nostro primo impegno sarà quello di consegnare al governo in carica un piano per difendere il diritto alla vita sia a livello giuridico sia attraverso interventi sociali mirati. Inoltre presenteremo all’opinione pubblica i risultati del nostro lavoro. I dati sono consolanti: grazie ai nostri centri 100mila madri non hanno abortito. C’è inoltre in ballo una petizione europea per inserire nella Costituzione Ue il valore della vita dal concepimento e la famiglia fondata sul matrimonio come garanzia del futuro delle generazioni. Infine

ne dice? La 194 è una legge fondata sulla menzogna, su considerazioni non vere. È infatti falso che prima della sua entrata in vigore gli aborti avrebbero addirittura sfiorato i 3 milioni e mezzo. Da nostre verifiche essi non superavano i 100mila, cifra comunque non indifferente. Inoltre non si capisce l’accostamento che è stato fatto tra l’introduzione di una normativa sull’interruzione volontaria di gravidanza e un maggior uso dei contraccettivi. A rigor di logica, infatti, dovrebbe accadere il contrario: visto che non c’è “l’ultima spiaggia” dell’aborto si sta ancor più attenti prima

Il presidente del Movimento per la vita: «È falso dire che prima della 194 c’erano 3 milioni e mezzo di aborti. Chiediamo capacità giuridica per i concepiti, nuovi consultori e aiuti alle famiglie»

soffermarsi a riflettere realmente su cosa siano e quale sia il fondamento dei diritti umani. Cosa ne pensate? Pensiamo ciò che pensa il Papa. Sosteniamo cioè che il fondamento di ogni diritto sia nella libertà e nella pari dignità di

abbiamo pensato di istituire un “Premio europeo per la vita”, che abbiamo chiamato “Premio Madre Teresa”. Una donna che, per il suo lavoro a difesa dei più deboli e quindi anche dei bambini non ancora nati, è stata amata sia da credenti sia da non credenti. Il Papa ha parlato implicitamente della legge 194. Rappresentanti del Pd sostengono che essa ha diminuito gli aborti. Lei che

che si verifichi una gravidanza. C’è anche da fare un’analisi europea del fenomeno. È possibile dimostrare che in alcuni Paesi europei come la Francia, la Germania e l’Inghilterra, dove c’è una cultura della contraccezione molto più diffusa che in Italia, il numero degli aborti non è sceso ma salito. Quindi la diminuzione delle interruzioni volontarie di gravidanza, a mio avviso, non è tanto legata alla cultura della contraccezione

(tra l’altro la pillola del giorno dopo è abortiva checché se ne dica), quanto piuttosto all’educazione, a una sensibilizzazione, attraverso i media, le scuole e di centri specializzati, della cultura della vita. Mara Carfagna, ministro delle Pari Opportunità si è detta d’accordo con il discorso del Papa e ha annunciato la necessità di una normativa che incentivi le nascite e impedisca alle donne di abortire. Lei che ne pensa? Sono d’accordo con il ministro e propongo tre cose realizzabili che toccano di lato la 194. La prima è una modifica dell’articolo 1 del nostro codice civile, nel quale si deve inserire che la capacità giuridica non comincia dalla nascita, ma dal concepimento. Numero due: bisogna riformare i consultori familiari. Essi sono diventati semplici ambulatori medici e, nei peggiori dei casi, degli strumenti di incentivazione all’aborto. Mi piacerebbe che i consultori facessero lo stesso lavoro dei “Centri di aiuto alla vita”, che noi del Movimento abbiamo promosso. Al loro interno, infatti, non ci sono delle persone neutrali ma gente che è apertamente a favore della vita.Terzo: un intervento politico. Riforma del sistema fiscale, aiuto alle famiglie a trovare una casa attraverso un sistema di prestiti senza interessi; affitti regolari a

basso prezzo il cui proprietario usufruisca di detrazioni fiscali. E poi delle politiche del lavoro. È necessario che i tempi di lavoro siano adeguati ai ritmi di una famiglia, facendo in modo che le mamme ma anche i papà abbiano la possibilità di poter accudire il loro bambino appena nato, ma anche figli malati o con handicap. E per quanto riguarda il volontariato? Il volontariato è un aiuto preziosissimo alla vita. Dal ’98 a oggi attraverso un progetto ribattezzato “Gemma” abbiamo distribuito alle madri in difficoltà 3 milioni di euro. La modalità era semplice: 160 euro al mese per diciotto mesi. Una cifra piccola – una carezza economica, direi – che però ha aiutato molte donne a non sentirsi sole. Questo denaro era erogato dalle famiglie, da donne o parrocchie che si autotassavano per un nobile scopo. A mio avviso però anche il volontariato ha bisogno di essere riformato. Esso non dovrebbe più essere un aiuto burocratizzato, cioè a tutti senza guardare in faccia nessuno, ma misurato a seconda le specifiche necessità. Anche qui dovrebbe essere dato più autonomia ai volontari che a seconda delle necessità – per esempio un affitto urgente da pagare per cui si rischia lo sfratto – eroghino una cifra più alta o più bassa. Certo a queste misure deve unirsi una maggiore sensibilizzazione dei media a queste tematiche, in maniera da attivare un circolo virtuoso. L’impegno a difesa della vita può essere un terreno di collaborazione tra laici e cattolici? Certamente lo è. Non è un caso che anche persone non credenti come Norberto Bobbio, Oriana Fallaci, Giuliano Amato e Giuliano Ferrara si siano schierate contro l’aborto. Questo vuol dire che non è la follia di un gruppo di integralisti cristiani. Anche se è chiara l’ispirazione cattolica del nostro Movimento: altrimenti non avremmo chiesto l’udienza al Papa. La battaglia per la vita è trasversale alla fede d’appartenenza: infatti hanno aderito al nostro Movimento.


pagina 8 • 13 maggio 2008

pensieri

La scelta del Pd per i gruppi parlamentari conferma una paralisi politica

L’impotenza della nomenklatura di Arturo Gismondi er il primo voto di fiducia sul governo Berlusconi, alla Camera come al Senato, i due gruppi parlamentari del Pd si ripresentano con i rispettivi leader della passata legislatura, Anna Finocchiaro e Antonello Soro. Un segnale di immobilismo singolare per un partito che si appresta a passare dalla più strenua difesa del passato governo a una opposizione che non può non essere, e che viene presentata come diversa. Faceva una certa impressione, sera fa a “Porta a Porta” vedere la coppia Finocchiaro-Soro contrapposta alla coppia, tutta nuova, Cicchitto-Gasparri. E insieme gareggiare nel promettere buoni propositi, intese sulle riforme e, più in generale,buona disposizione a operare in vista del bene del Paese.

P

Una condizione tutto considerato paradossale che ha

nascosto, e continua a nascondere, il rischio di una crisi, quale sarebbe stata la elezione di due capigruppo ambedue ds nei due rami del Parlamento. Meno di altri, alla fine, si è sentito di correrla il rischio l’ex ministro Pier Luigi Bersani, il più autorevole esponente del vecchio Ds emiliano, scongiurato una prima volta nell’autunno scorso dal presentarsi alle “primarie” in concorrenza con Veltroni, ma anche

con la Bindi e Letta, scongiurato questa volta dalla tentazione di farsi eleggere a presidente del gruppo parlamentare Pd alla Camera al posto di Soro...

La conclusione è stata che il Pd, Veltroni e non solo, hanno dovuto ripresentarsi all’inizio della nuova legislatura , e dopo il tanto che si è detto dentro e fuori sulla necessità di tenere conto di una sconfitta superiore alle aspettative , sotto il segno dell’immobilismo per quel che riguarda la rappresentanza parlamentare delle due Camere. È questo uno dei risultati, prolungatosi fin dopo le elezioni, della unificazione artificiosa delle due componenti, gli ex Dc e la ex-Margherita, riuniti nei pochi mesi di vita trascorsi dalle “primarie “ di Veltroni dello scorso autunno alla sistemazione del vertice, con la segreteria di Veltroni e la

dirottamento nell’avventura del Campidoglio di Francesco Rutelli, vicepresidente del Consiglio a rappresentare nel governo la componente della Margherita, e in certo senso leader dell’area cattolica del partito. Un personaggio di primo piano fin lì, e in tutto il processo di unificazione del Pd, come è stato Rutelli, è stato precipitato in quello che viene considerata la trappola del granitico sistema di potere romano, e del suo mago Bettini, per vedersi costretto, dopo la sconfitta, a tornare al partito dovendosi reinventare, o dovendovi provvedere da parte di altri, un ruolo al momento inesistente. E tutto in un momento caotico quanto alla struttura del partito, in assenza di uno statuto vero e proprio, e in vista di un congresso che non tutti vogliono, o al quale i più si affidano con sentimenti e speranze diverse.

Si conferma la dualità del partito con i rancori prodiani che vengono alla luce e le tentazioni dalemiane di una politica delle alleanze

ANNA FINOCCHIARO

PIER LUIGI BERSANI

La sua riconferma al vertice del Pd a Palazzo Madama, e quella di Antonello Soro al gruppo di Montecitorio confermano la situazione di immobilismo del centrosinistra

Dopo dopo aver rinunciato alla candidatura per le primarie in concorrenza con Veltroni, anche questa volta ha fatto un passo indietro dando il via libera a Soro

finzione di un “numero due” che non è vice, né altro, di Franceschini. E con un comitato elettorale che ha potuto solo mettere in piedi quel che forniva la riunificazione meccanica, a freddo, dei vertici della vecchia classe dirigente dei partiti messi insieme alla meglio in vista della prova elettorale.

L’imbarazzo , e un po’ l’allarme, è stato accresciuto negli ultimi tempi dall’ infelice

N o n s a r à f a c i l e uscire fuor del buio alla luce. È avvenuto un fatto del tutto macroscopico. Il Pd è emerso dalle elezioni assai diverso dalle speranze che ne hanno nutrito l’avvio. Il risultato ha confermato, sia pure con qualche irruzione leghista, che la vecchia componente Pci- Pds. Ds ha riportato a casa tutti i suoi voti nelle regioni “rosse” confermandosi così come l’antico retroterra post-

L’aver tenuto nelle regioni ”rosse” non basta di fronte all’insuccesso nel Nord, dove Veltroni ha focalizzato tutta la sua campagna elettorale

comunista. Ma c’è stato, dall’altra parte, l’insuccesso totale della predicazione veltroniana nel nord e nel vecchio “arco alpino”, riserva “bianca “ della Prima Repubblica democristiana, passata di peso e in massa al partito di Berlusconi e alla Lega di Bossi. E c’è stata la cattiva tenuta del Mezzogiorno, pessima nella Sicilia della rediviva Finocchiaro.

FRANCESCO RUTELLI È uno dei leader dell’area cattolica del Pd, ma dopo la sconfitta di Roma è stato costretto a tornare al partito dovendosi reinventare un ruolo al momento inesistente

In più, si è avvertito l’assorbimento nel Pd di tanta parte della vecchia ridotta massimalista della quale Veltroni aveva inteso liberarsi. Con tutti i rancori prodiani che vengono alla luce in ogni occasione, e le vecchie tentazioni dalemiane di una politica delle alleanze peraltro difficili da resuscitare. In queste condizioni, la dualità del partito, è una finzione sempre più difficile da conservare.


&

parole

ROMA. «Il Gianni Letta del centrosinistra», l’ha definito Walter Veltroni durante la sacra presentazione - il giuramento, verrebbe da dire - dei 21 componenti del governo ombra varato dal Pd. Fresco di nomina, Enrico Morando dimostra di essersi calato pienamente nella parte. Felpato, misurato, ma soprattutto pienamente in accordo con la linea del gran capo. Tanto che, quando gli si chiede un’opinione sul congelamento dei capigruppo di Camera e Senato, lui che all’epoca era stato addirittura indicato tra i possibili candidati alternativi, trattiene il respiro e spiega: «Ho preso atto dei risultati della consultazione di Veltroni, fosse dipeso da me non avrei fatto questa scelta». Più di così, non si può. Allora, Morando, si è calato per benino nel ruolo del Letta del Pd? Sono cose diverse, per mia fortuna. Il ruolo di sottosegretario alla Presidenza comporta una enorme mole di competenze, il mio è un compito soprattutto politico. Governo ombra e coordinamento del Pd (una sorta di segreteria allargata) ha fatto storcere molti nasi. D’Alema si è detto sconcertato, Parisi ha criticato la scelta «monocolore». Separerei il governo ombra dalla questione dell’organizzazione del partito: di quest’ultima parleremo giovedì nella direzione, non voglio anticipare commenti. In entrambi i casi, sono state avanzate obiezioni sia di merito che di metodo. Il come e il chi. Penso che la scelta del governo ombra sia del tutto coerente con l’assetto che ha preso il nostro Parlamento dopo le elezioni e con il carattere monopartito che ha l’opposizione. Chi ha avanzato critiche alla luce dell’esperienza dello shadow cabinet varato ai tempi del Pci-Pds ha comparato due situazioni diverse: quello era un partito nel quale la scelta del governo-ombra era parte di un disegno di legittimazione di se stessi come forza di governo, problema che oggi non esiste; allora c’erano più partiti all’opposizione, non uno, e altrettanto valeva per l’esecutivo. Adesso invece siamo più vicini alla situazione inglese. E dunque viva il governo ombra, chi l’ha deciso e chi ne fa parte? Per quel che riguarda il metodo della scelta, a comporre il governo ombra è il suo premier e su quel fronte non vedo nessuna violazione, né obiezioni che mi appaiano fondate. Peraltro, non mi pare che siano stati premiati atteggiamenti correntizi a scapito della competenza. Ecco, appunto, le correnti. Si obietta che tenendo fuori i “pesi da novanta”, da Marini a D’Alema, da Rutelli a Parisi, il Pd finirà per veder duplicate le sue voci autorevoli. A tutto danno dell’autorevolezza del partito nel suo complesso. Non credo che il governo ombra sarà indebolito dal fatto che i pesi da novanta ne restano fuori. Per le politiche settoriali, quella sarà la sede di definizione, il centro di iniziativa politico-parlamentare. E del coordinamento che mi dice? Discuteremo. Ma lì il discorso è diverso, perché gli organismi vanno composti sulla base di quel che deve fare oggi il partito per strutturarsi. Le proposte fatte da Veltroni potranno essere riprese, valutate: non credo che nasceranno soverchi problemi.

13 maggio 2008 • pagina 9

Il futuro del Pd. Viaggio dopo la sconfitta /6 Enrico Morando

Alleanze obbligatorie, ma Veltroni non si tocca colloquio con Enrico Morando di Susanna Turco

Nel confronto con le formazioni minori, dovremo essere noi - il soggetto egemone - a dettare il programma e il leader. Cambiare il segretario? Nemmeno fra tre anni Stefano Rodotà dice che il Pd dovrà preoccuparsi di avere un’agenda di temi concreti. Sono d’accordo. E il governo ombra servirà anche a questo: cercherà di fare il controcanto al governo, ma dovrebbe anche definire una agenda sua, un diverso quadro di priorità che nasce dal rapporto con il Paese. Facendo leva sul leggendario «radicamento» nella società? Sinora quell’elemento è mancato al Pd, non c’è dubbio. Del resto partiamo da due formazioni, Ds e Margherita, che avevano esaurito la loro spinta propulsiva, erano arrivati al capolinea: il partito democratico è stato costruito anche per questo. Sinora abbiamo corso: 33 per cento è un risultato da non disprezzare però è anche il segno di una gravissima difficoltà di rapporto col Paese. «Pensavamo di essere il tutto, abbiamo scoperto di essere una parte, piccola», ha detto Follini. Il Pd aveva due obiettivi: cambiare la politica italiana con un grande partito a vocazione maggioritaria nel centrosinistra; vincere contro Berlusconi. Il secondo l’abbiamo mancato: nel futuro dobbiamo affrontare i problemi che hanno

causato la sconfitta senza mettere in discussione il nostro successo. E qui arriva la questione delle alleanze. Lei sostiene, come D’Alema, che il Pd debba guardare oltre i propri confini, oppure pensa che il suo futuro è nell’autosufficienza? Non c’è dubbio che, se vuole vincere, a un certo punto il Pd deve avere capacita di allearsi con i soggetti minori. Ma l’alleanza deve essere organizzata intorno al partito egemone: modello del tutto diverso da quello dell’Unione. Un partito a vocazione maggioritaria è quello che detta l’agenda, esprime il leader e non fa una roba di 282 pagine per creare un accordo che in realtà non c’è: se non riesce a ottenere alleanze sul suo programma, deve essere così radicato da potersi candidare credibilmente anche da solo. La questione delle alleanze si pone quindi più in là, oggi il problema è consolidare sul versante dell’assetto politico-istituzionale il risultato raggiunto. Arrivare a un partito che tiene conto delle domande degli elettori di sinistra che stavolta hanno scelto noi, ricordarsi che c’è nel Pd un orientamento laico e socialista e decidere come organizzare questa presenza.

E per quel che riguarda il centro? Là il Pd non ha toccato palla. Il problema è che noi, con alcune proposte programmatiche, abbiamo creato le premesse per un rapporto nuovo con l’elettorato moderato: tuttavia la nostra credibilità non è stata sufficiente perché venivamo da due anni di governo in cui avevamo fatto il contrario. E per quel che riguarda il centro politico-parlamentare? Lei parla di «opposizione monopartito», ma dimentica che c’è l’Udc. Anche l’Udc ha fatto una scelta coraggiosa, e quindi c’è bisogno di una interlocuzione costante, nel tentativo costruire un rapporto positivo anche in vista delle prossime scadenze, amministrative, politiche e così via. È chiaro che questo rapporto positivo dovrà seguire la logica di cui parlavo prima, con il Pd nel ruolo di partito egemone, che genera programma e leadership. Vuol dire anche che tra tre anni sarà sempre Veltroni alla guida? Certo, la sua leadership è stata un fattore di successo. A Crozza Italia Prodi ha detto che chi perde deve ritirarsi dalla scena: non parlava anche del segretario? Ritengo che qualsiasi iniziativa che metta in discussione il Pd per come si è strutturato sin qui per me è masochista. Dopodiché: di scelte masochiste ne abbiamo fatte tante, può darsi faremo anche questa.


pagina 10 • 13 maggio 2008

mondo La giunta militare accusa il suo ex alleato di essere l’ideologo dei ribelli

iferimento ideologico e spirituale della giunta militare che ha preso il potere in Sudan nel 1989, presidente del Parlamento e del Congresso nazionale, fondatore del Fronte nazionale islamico, poi caduto in disgrazia e considerato un nemico dal regime, arrestato una prima volta nel 2001, liberato nel 2003, arrestato per qualche mese di nuovo nel 2005 e adesso per la terza volta in prigione. La storia politica di Hasan al Tourabi s’intreccia a filo doppio con quella, altrettanto complessa e contraddittoria, del suo Paese: il Sudan. La ”terra dei neri”, bilad al sudan, come i conquistatori arabi chiamarono questo sterminato territorio (quasi dieci volte l’Italia) al Sud dell’Egitto: dall’antica Nubia giù fino alla regione subsahariana dell’Africa tra il Mar Rosso, il Kenya, l’Uganda e il Ciad. Una storia che viene da lontano e che è la migliore chiave per comprendere i tumulti del presente. Compiuti gli studi di giurisprudenza in Francia (il Sudan allora era protettorato britannico e studiare a Parigi era già un primo segno di rivolta), Hasan al Tourabi nel 1954, a 23 anni, fonda la sezione sudanese del movimento egiziano dei Fratelli musulmani con l’obiettivo di creare uno Stato islamico nel suo Paese che, il primo gennaio del 1956, ottiene l’indipendenza. Ma il primo problema che si presenta al neonato Sudan post-coloniale - e che ancora oggi non è risolto - è il conflitto tra il Nord, dove il radicamento dell’Islam è praticamete totale, e il Sud dove ci sono forti minoranze animiste e cristiane. Un conflitto che al Tourabi sfrutta sin dall’inizio con una strategia di alleanze che non disdegna nemmeno intese con il regime dittatoriale del presidente Gafaar Nimeiri che ha guidato il Sudan dal 1969 fino al 1985. Ma è alla caduta di Nimeiri che la stella di Hasan al Tourabi comincia a splendere di luce propria. Nelle elezioni del 1986 il Fronte nazionale islamico di Hasan al Tourabi ottiene una significativa affermazione e quando, nel 1989, il debole governo del presidente Sadiq al Mahdi viene rovesciato dal colpo di Stato dei militari guidati dall’attuale presidente - il generale Omar Hasan Ahmad al Bashir - il Fronte nazionale islamico rimane l’unico partito non messo al bando nel Paese. E Hasan al Tourabi diviene la guida spirituale della giunta al potere. Nel 1996 il leader islamista è eletto prima presidente del Parlamento e poi del Congresso nazionale: un potente organismo

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In Sudan islamisti alla resa dei conti Arrestato al Tourabi di Enrico Singer

L’esercito cerca casa per casa i superstiti dell’attacco alla capitale

A Khartoum è caccia all’uomo Arresto del leader islamico Hasan al Tourabi, rastrellamenti casa per casa nella città di Omdurman a caccia dei ribelli che hanno attaccato la capitale, rottura delle relazioni con il Ciad accusato di avere sostenuto gli insorti e favorito l’assalto a Khartoum. A 48 ore dalla clamorosa azione del commando delle milizie del Jem (Movimento per la giustizia e l’uguaglianza) il regime militare sudanese cerca di ristabilire l’ordine con il pugno di ferro. Ma la situazione rimane estremamente tesa anche se il coprifuoco è stato parzialmente revocato almeno nella capitale. Le forze fedeli al presidente Omar Hasan Ahmad al Bashir sono convinte che alcune centinaia di ribelli del Jem sono ancora nella regione di Khartoum e vogliono stanarli prima che riescano a riparare nel Darfour percorrendo a ritroso i mille

composto dai maggiori gruppi di vertice sudanesi e controllato dal Fronte islamico. È il momento di massima influenza di quest’uomo che, dalla teoria della creazione di uno Stato islamico, passa alla pratica della sua realizzazione. Sul modello dell’Iran khomeinista, ma con la sostanziale differenza

chilometri di deserto che avevano attraversato per compiere l’attacco tra sabato e domenica. Ma, al di là delle operazioni militari, lo sviluppo più importante - e più carico di significati politici - è l’arresto di Hasan al Tourabi. È stato suo figlio, Siddig Tourabi, ad annunciare che gli agenti dei servizi di sicurezza hanno portato via il leader dell’opposizione islamica e altri quattro dirigenti del Partito popolare del Congresso di cui è fondatore e presidente. Hasan al Tourabi ieri era appena ritornato da una riunione del partito nel vicino Stato orientale sudanese del Sennar e, secondo suo figlio Siddig, non ha nulla a che vedere con l’assalto alla capitale. Ma il regime militare del presidente Hasan al Bashir sostiene che i ribelli del Jem s’ispirano proprio alla dottrina islamista di al Tourabi.

Guida spirituale del colpo di Stato del 1989 e fondatore del Fronte nazionale islamico, oggi è il nemico numero uno del presidente al Bashir

che Hasan al Tourabi è sunnita e non sciita come l’ayatollah di Teheran. Gli Stati Uniti lo considerano uno dei principali registi del terrorismo internazionale. A Khartoum aveva trovato rifugio anche Ilich Ramirez Sanchez, ”Carlos”, la primula rossa del terrismo marxista converti-

to all’Islam, che fu poi catturato con un blitz della polizia francese concordato con il presidente Hasan al Bashir in cambio della mediazione di Parigi nella decennale guerra civile tra Nord e Sud. È di quegli anni anche la crisi interna al Fronte nazionale islamico con la lotta tra Hasan al Tourabi e il suo vice, Ali Osman Mohammed Taha. Entrambi condividono il disegno di espansione del radicalismo islamico: sulle alleanze e sulle tecniche della jihad, però, sono in disaccordo. Dopo il fallimento del ”socialismo arabo” (lo stesso Gaafar Nimeiri si definiva a suo modo marxista) e dei movimenti nazionalisti, Hasan al Tourabi afferma che «l’unico nazionalismo possibile oggi, se vogliamo affermare i nostri valori, la nostra originalità e la nostra indipendenza dall’Occidente, è l’Islam». E questo ”nazionalismo islamico” deve essere prima di tutto costruito nel proprio Paese: il Sudan Per il regime militare del generale Hasan al Bashir, in fondo, anche questa è una minaccia ed ecco che l’alleanza s’incrina. La crisi tra i due Hasan è della fine degli Anni Novanta. Nel febbraio del 2001 Hasan al Tourabi è accusato di incitamento al colpo di Stato e messo agli arresti domiciliari, Nell’ottobre del 2003 viene liberato assieme a tutti i prigionieri politici in un’amnistia che doveva ripulire il volto del regime di fronte al mondo. Il suo movimento che, intanto, ha cambiato nome Partito popolare del Congresso - è riammesso a partecipare alla vita politica. I rapporti tra Hasan al Tourabi e Hasan al Bashir, però, rimangono tesi e nel marzo del 2005 arriva il secondo arresto con l’accusa di complotto contro lo Stato e di sostegno alla guerriglia nel Darfur. In carcere al Tourabi rimane pochi mesi: è liberato nel luglio del 2005. Ma da questo momento è considerato a tutti gli effetti l’oppositore numero uno del regime. Ecco perché il suo arresto di ieri non sorprende. Per la giunta militare di Khartoum i ribelli del Jem (Justice and equality movement) seguono l’ideologia di Hasan al Tourabi. Anzi, lo stresso Jem sarebbe stato fondato da emissari di al Tourabi e il suo attuale leader, l’avvocato Khalil Muhammad, sarebbe un suo discepolo. Nelle sue opere - in particolare nel libro del 1993 Islam, democracy, the State and the West - Hasan al Tourabi riconosce i diritti delle minoranze che vivono in Sudan. Ma nei fatti le vittime della lotta intestina tra islamisti sono proprio loro: i due milioni di morti e i quattro milioni di rifugiati del Darfur.


mondo

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Una scossa di 7,8 gradi della scala Richter ha colpito la zona sudoccidentale del Paese. Almeno 10mila i feriti

Terremoto in Cina: migliaia di morti d i a r i o

di Vincenzo Faccioli Pintozzi olte migliaia di morti: è questo il dato non ufficiale delle vittime del terremoto che ha colpito ieri la Cina sudoccidentale. Una scossa di magnitudo 7,8 gradi della scala Richter, che in particolare nella provincia del Sichuan ha provocato il crollo di edifici e lo smottamento di diverse arterie del traffico locale. Secondo il ministero per gli Affari civili i feriti sarebbero almeno diecimila, sparsi per le province del Sichuan, Gansu, Yunnan e nella municipalità autonoma di Chongqing. Qui sarebbero morti diversi bambini, forse nel crollo di una scuola elementare. La Xinhua - agenzia di stampa governativa parla inoltre di 900 studenti intrappolati sotto le macerie in un liceo a Juyuan (centro della provincia di Sichuan). A Dujiangyan risultano abbattuti «interi isolati», e le linee telefoniche sono interrotte. La forte scossa si è verificata alle 14.28 (ora locale) ed è stata avvertita a Pechino, Shanghai, Taipei e persino Bangkok. L’epicentro del sisma è stato localizzato 92 chilometri a nord-ovest di Chengdu, capoluogo della provincia di Sichuan, a una profondità di 29 chilometri nella crosta terrestre. L’area più colpita dalla scossa si trova sull’estremità orientale del Tibet, densa di rilievi montuosi e scarsamente abitata. Nel tardo pomeriggio, il Centro sismologico nazionale ha rilanciato l’allarme sisma: una nuova scossa, d’intensità compresa tra i 2 e i 6 gradi sulla scala Richter, potrebbe colpire la stessa Pechino.

no: subito dopo il sisma, infatti, il premier Wen Jiabao ha lanciato un appello alla calma ed è partito da Pechino per effettuare di persona una serie di sopralluoghi sulle zone colpite. Parlando ai giornalisti, ha definito il terremoto «un enorme disastro». Il presidente Hu Jintao ha rassicurato la popolazione nel corso di un intervento alla televisione nazionale, ed ha affermato che verranno impegnate tutte le forze a disposizione per soccorrere le popolazioni colpite. Questa reazione, che cozza con gli atteggiamenti solitamente tendenti al ribasso di Pechino, si spiega con il timore che prova il governo rispetto ai disastri naturali, uno dei fattori di insurrezione popolare più frequente nella storia cinese. Per combatterli, il regime ha adottato

g i o r n o

In Serbia si tratta

M

Inusuale la reazione del gover-

d e l

Le forze filo europee del presidente Tadic hanno certamente vinto le elezioni serbe, ma le urne non hanno dato una chiara maggioranza di governo. Per tale ragione a Belgrado, le trattative per il nuovo esecutivo sono iniziate subito dopo il voto. Ieri i partiti dell’attuale coalizione governativa guidata da Vojislav Kostunica, Dss, e le forze ultranazionaliste, Srs, hanno iniziato il dialogo. Alle trattative hanno preso parte anche il partito Sps di Milosevic e un partito regionale bosniaco. Nel nuovo parlamento l’alleanza dispone di 129 seggi su 250. Per l’Osce il corretto svolgimento dello scrutinio dimostra che la Serbia è una «democrazia completa».

Coalizione finita in Pakistan

Le rovine di una scuola crollata a Duijangyan. A sinistra, il premier Wen Jiabao nel corso degli anni gli atteggiamenti più disparati. Si passa infatti dall’omertà che ha circondato le grandi alluvioni dei primi anni Settanta, quando nel Paese «stavano tutti bene», all’iperattivismo delle campagne anti-inquinamento lanciate alla fine degli anni Novanta nelle campagne del Paese. D’altra parte, lo stesso governo riconosce nei disastri naturali una delle cause di povertà più frequenti nel territorio nazionale. Secondo i dati presentati dal Ministero degli affari civili nel corso dell’ultima pianificazione sociale -

Pechino lancia un appello alla calma. Wen Jiabao parte per le zone più colpite dal sisma e ammette: «È un enorme disastro» avvenuta nel 2006 - circa 300 milioni di persone sono colpiti ogni anno «in modo profondo» dai disastri naturali (terremoti, siccità, alluvioni, frane). A causa di questi, almeno dieci milioni di contadini all’anno sprofondano sotto la soglia della povertà. La reazione di ieri ha un’eco nel disastroso terremoto che ha colpito nel 1976 Tangshan: una scossa pari a 7,8 gradi della scala Richter, che nel giro di pochi giorni aveva mietuto più di 240mila vittime nel completo silenzio del governo. Con in

mente la loro proverbiale superstizione, molti cinesi attribuiscono la morte di Mao - avvenuta qualche mese dopo - alla “maledizione”del terremoto, la cui notizia era stata nascosta dal governo fino alla scomparsa del Grande Timoniere. Wang Guoliang, vicedirettore dell’Ufficio per la lotta alla povertà e lo sviluppo presso il Consiglio di Stato, ha sottolineato che una pronta risposta dei governi ai disastri naturali gioca un ruolo importante nella sopravvivenza dei governi: «Nella storia - ha spiegato vi sono stati molti incidenti che hanno causato la fine di una dinastia. Per questo la risposta alle emergenze è legata in modo stretto ai governi ed è l’estrema frontiera della sicurezza di un governo e della società».

Wang ha anche spiegato il meccanismo con cui in Cina si dovrebbero affrontare le emergenze: i governi locali dovrebbero avvertire il governo centrale entro due ore dal disastro; un gruppo di lavoro dovrebbe giungere sul luogo entro 24 ore; nello stesso tempo dovrebbero giungere i primi aiuti di emergenza alle vittime; i fondi di aiuto d’emergenza dovrebbero essere distribuiti alle vittime entro 72 ore dal disastro. He Daofeng, vice-presidente della Fondazione cinese contro la povertà, ha fatto però notare che il sistema di protezione civile in Cina è bloccato dalla burocrazia e dalla poca attenzione alle vittime dei disastri.

Sette settimane sono bastate per porre termine al governo di coalizione in Pakistan. Il motivo della frattura tra i partiti che sostengono l’esecutivo di Islamabad, il Ppp del marito della Bhutto, Ali Zardari, e la Lega musulmana del Pakistan, Pml-N, sta nelle modalità con le quale doveva avvenire il reintegro del giudice licenziato da Musharraf lo scorso novembre. La Lega musulmana annunciando per oggi l’uscita dei suoi ministri dal governo, ha ribadito che non ha però intenzione di far cadere il governo. Il nuovo esecutivo di minoranza, formato dal solo Ppp, potra continuare a godere del sostegno della Lega, ha dichiarato il leader del Pml-N, Nawaz Sharif. La lega voleva il reintegro del giudice entro 60 giorni mentre il Ppp, che su questa questione cerca un compromesso con le forze armate, si è mostrato meno frettoloso.

Il Cairo tra Hamas e Israele Ieri è arrivato a Gerusalemme il capo dei servizi segreti egiziani. Omar Suleiman ha incontrato il primo ministro israeliano Olmert e diversi politici di spicco dello stato ebraico per sottoporre l’offerta di cessate il fuoco da parte di Hamas. Domenica il vice ministro della difesa di Gerusalemme, Matan Wilnai, aveva dato prova di flessibilità. Secondo Wilnai, non vi è nessuna possibilità di trattare direttamente con Hamas, ma il suo governo ascolterà Suleiman e, «deciderà sulla base delle proposte», ha dichiarato il ministro a Radio Israel. Gli Usa spingono affinché Gerusalemme accetti le offerte dell’organizzazione islamista sunnita.

Nuovo esecutivo in Russia Putin ha presentato il nuovo governo. Nei posti chiave non ci sono novità. Agli Esteri è alla Difesa sono rimasti Lavrov e Serdjukov. New entry invece alla giustizia con Alex Konovalov, un giurista che, come Putin e Medvedev, ha studiato a Pietroburgo.Altro peso massimo del nuovo gabinetto, Igor Setschin vice capo del governo con delega alla politica industriale. Gli interni e l’economia restano a Nurgalijev e a Elvira Nabiullina. Subito dopo il cambio, a Mosca è arrivato il ministro degli esteri tedesco Steinmeier.

Gordon Brown riceverà il Dalai Lama A differenza di quanto sta avvenendo in Germania, dove presidente della repubblica e ministro degli esteri non hanno intenzione di ricevere il Dalai Lama, Londra sembra intenzionata a farlo. Il 23 maggio il premier inglese Gordon Brown, incontrerà il leader spirituale dei tibetani nella residenza del capo della chiesa anglicana, per commemorare le vittime delle recenti violenze in Tibet. Il luogo scelto vuole minimizzare la portata politica dell’incontro. Il leader buddista da parte sua ha dichiarato in una intervista al più importante settimanale tedesco, fatta prima della tragedia del terremoto in Cina, di «stare pregando per i dirigenti di Pechino».


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Usa 2008

Il guru di Bush anticipa i contenuti dello scontro finale per la Casa Bianca

Una poltrona per due Oggi primarie in West Virginia ma la sfida è McCain-Obama di Karl Rove segue dalla prima essuna pressione da parte di Obama o del presidente del partito Howard Dean, d’altronde, sarà più efficace che spingerla fuori della gara, e i problemi dei democratici sono altri, come il rifiuto di far partecipare le delegazioni della Florida e del Michigan alle loro convention. Si tratta di un problema irrisolto, ma se insistono in questo atteggiamento rischiano di alienarsi gli elettori in Stati con 44 dei 270 delegati necessari per arrivare alla Casa Bianca, e Obama in particolare rischia più della Clinton, soprattutto in Florida, perché nei recenti sondaggi effettuati in questo Stato è maggiormente distaccato da McCain rispetto alla sua rivale. La durata della contesa democratica, invece, ha portato, in qualche caso, un vantaggio al partito. L’Associated Press ha stimato che più di 3.5 milioni di nuovi elettori si sono registrati durante la stagione competitiva delle primarie, e le centinaia di milioni di dollari spesi per stimolare l’affluenza democratica alle urne torneranno utili a novembre; Obama è un candidato migliore perché è stato messo duramente alla prova, e McCain dovrà stare attento. Già il candidato repubblicano è stato menzionato poco nelle cronache degli ultimi mesi (meno del 20 per cento di presenza contro il 60-70 di Obama e della Clinton), ma il protrarsi delle primarie democratiche ha comportato anche qualche svantaggio, perché ha messo in luce le debolezze dei candidati.

N

La Clinton si è guadagnata la fama di donna calcolatrice, pianificatrice, rigida ed egoista, mentre Obama è visto sempre più come un tipico politico di sinistra di Chicago con modesti primati, poca esperienza, una schiera di amicizie inquietanti e, per finire, un atteggiamento elitario. Candidarlo alla presidenza metterà alla prova la tesi

secondo cui solo un democratico moderato può vincere la Casa Bianca, e le primarie, peraltro, hanno creato una spaccatura profonda tra i sostenitori democratici: colletti blu, elettori meno abbienti e meno colti contro una folla di accademici e sofisticati professionisti (insieme ai neri e ai giovani). C’è anche il problema del ticket Obama-Clinton. Il senatore dell’Illinois deve rincorrere i consensi della Clinton quando si presentano uniti contro McCain negli Stati industriali chiave, perché meno della metà dei sostenitori della Clinton in Indiana e North Carolina si dice disposto a sostenere Obama se fosse candidato alla presidenza, e secondo dei recenti sondaggi di Fox News, il numero di democratici disposto a votare per Mc Cain sarebbe due volte e mezzo (15 per cento) il numero di repubblicani pronti a fare altrettanto per la Clinton (6 per cento), mentre il numero dei democratici che supporterebbe Mc Cain (22 per cento) è quasi doppio rispetto a quello dei repub-

negato che Obama abbia appoggiato la sua campagna. Non è precisamente una prova d’unità, e non è l’unico problema di Obama.

Per quanto i suoi sostenitori, su tutti gli organi d’informazione, sostengano di detestarlo, il Reverendo Jeremiah Wright rimane una grande sfida per il senatore, il quale ha ammesso condividendo così l’opinione

oggi di tre mesi fa, ma i democratici hanno un vantaggio in vista delle elezioni di novembre. Sono battibili, ma sarebbe comunque un errore pensare che quest’anno si potrà replicare quanto accaduto nella battaglia di Gorge H.W. Bush contro Michael Dukakis o di Richard Nixon contro George McGovern. McCain è molto competitivo ed è il miglior can-

Il campo di battaglia sarà la zona industriale dalla Pennsylvania al Wisconsin, il lato occidentale del Midwest dal Minnesota al Missouri, il Colorado, il New Mexico e il Nevada, la Florida e il New Hampshire blicani che sosterrebbe Obama (13 percento). Questi “McCainocrat”, come è stato definito, potrebbero incidere molto. I democratici stanno dunque realizzando la problematicità del loro probabile ticket nazionale. I candidati che hanno recentemente corso in particolari distretti elettorali in Louisiana e Mississippi si sono proclamati a favore della vita e dell’utilità sociale delle armi di difesa, sconfessando Obama. L’esponente democratico della Louisiana ha vinto la sua competizione e ha dichiarato di «non aver sostenuto nessun politico nazionale», mentre l’esponente democratico del Mississippi dovrà affrontare un’elezione decisiva il 13 maggio ed ha specificamente

dei suoi elettori - che il problema Wright effettivamente sussiste, tanto è vero che il gradimento nei confronti di Obama è calato da quando questo reverendo è venuto fuori. Come se non bastasse, più della metà dei sostenitori della Clinton ha dichiarato che questa storia esemplifica significativamente il carattere e la capacità di giudizio di Obama. Tuttavia questo sarà un anno molto difficile anche per i repubblicani. La fragilità dell’economia nazionale, una guerra impopolare e il naturale desiderio di un ricambio dopo otto anni di governo dello stesso partito hanno portato la bilancia a pendere per i democratici. Obama è decisamente più debole

didato repubblicano possibile. Con i consensi al partito in ribasso, la sua attrattiva verso i moderati e gli indipendenti diventa sempre più determinante; secondo la mia personale analisi di recenti sondaggi, oggi come oggi McCain vincerebbe 241 collegi elettorali sui 217 di Obama, mentre 80 rimarrebbero incerti in Stati dove nessun candidato ha un vantaggio superiore al 3 percento. Ironia della sorte vuole che Hillary Clinton ne vincerebbe 251 sui 203 di McCain e 84 incerti, ed è la prima volta che la senatrice è in vantaggio da quando ho cominciato a raccogliere i dati, Stato per Stato, all’inizio di marzo. McCain è abbastanza realista da sapere che il gradimento nei

suoi confronti calerà rispetto ad Obama una volta che quest’ultimo sarà candidato alla presidenza, e sta preparando se stesso e la sua squadra per quel momento, ma è confortato dall’idea che ci sarà abbastanza tempo per rifarsi; ha visto Gerald Ford recuperare 30 punti di svantaggio per perdere poi di poco con Carter nel 1976, e ha visto George H.W. Bush recuperare un deficit di 17 punti nell’arco di una estate per poi sconfiggere Michael Dukakis nell’autunno del 1988. Il campo di battaglia delle prossime presidenziali è noto: sarà tutta la zona industriale dalla Pennsylvania al Wisconsin (meno l’Indiana, repubblicana, e l’Illinois, democratico); il lato occidentale del Midwest dal Minnesota del Sud fino al Missouri, il Colorado, il New Mexico e il Ne-


Usa 2008

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Un sogno che non avrei mai voluto fare: ecco come governerà

Ho visto Barack presidente di Michael Novak ualche giorno fa, uno dei più saggi ex uomini politici che conosco mi ha chiesto in che condizioni verserebbero gli Stati Uniti tra quattro anni se Barack Obama diventerà presidente. Avevo tentato di evitare di pormi questa domanda, cercando di ricordare a me stesso un vecchio proverbio, insegnatomi da mio padre, secondo il quale «Dio si prende cura dei bambini, degli ubriachi e degli Stati Uniti d’America». Ho cercato di immaginare che Obama non sarà presidente, ma dovevo dare una risposta e ho fatto l’unica cosa possibile: calcolare i probabili effetti dei principi e delle politiche annunciate dal candidato democratico, basandomi su una visione realistica del mondo. La questione numero uno, la più importante, riguarda ciò che accadrà in Iran, Arabia Saudita e negli altri Paesi che alimentano il terrorismo mondiale con gli attacchi suicidi, l’odio per Israele e gli aspiranti distruttori degli Stati Uniti e dei loro alleati. Cosa succederà dunque in Iraq, in Iran e in Pakistan?

prevedevano la sconfitta consoliderà notevolmente il loro atteggiamento per la prossima battaglia; inoltre, senza una strategia offensiva in Iraq, chiusi in un atteggiamento esclusivamente difensivo, ogni campo d’aviazione o forte militare annuncerebbe a coloro che ci odiano che possono continuare ad uccidere due o più americani al giorno, perpetrando uno stillicidio fino a quando la popolazione non sarà più in grado di resistere. Una volta mostrata, la debolezza invita ad aggressioni più feroci, e così l’Iran produrrà la sua bomba atomica entro il 2012, certa che gli americani non avranno il coraggio di combattere per prevenire una simile eventualità. In Pakistan, le forze economiche e politiche progressiste sapranno che non possono più contare, come ultima speranza, sugli americani, e cominceranno, per salvare le loro famiglie, a cedere sempre maggiore spazio ai jihadisti, ai terroristi e ai promotori della Sharia. Le nazioni libere, entro il 2016, saranno molto più deboli di oggi e disporranno di

Sin dalla candidatura di George McGovern, nel 1972, il Partito Democratico ha creduto ostinatamente, come un bambino incosciente, in un mondo benevolo e pacifico, in cui fosse possibile dialogare e ragionare con quei leader di cui le precedenti amministrazioni avevano imparato che non ci si poteva né fidare, né trattare in modo razionale. Anche i governi precedenti avevano sperato che i capi delle altre nazioni rispettassero e capissero gli Stati Uniti, ma eventi come le bombe al World Trade Center, l’attacco alla portaerei “Cole”e l’11 settembre, più la successiva furia e crudeltà irrazionale dei jihadisti in tutto il mondo, li hanno disillusi. Non così Obama, apparentemente, e tutta l’ala sinistra della generazione che rappresenta. I sostenitori dello Stato assistenziale esigono la pace al fine di appagare il loro insaziabile desiderio di ottenere sempre maggiori benefici; questa è la ragione per cui gli statalisti di sinistra considerano la pace la loro naturale eredità. Non intendono pagare nessun prezzo per lei, ma non esistono fondi residui per questo. Considerata la storia degli ultimi due secoli (ed anche oltre) che cosa ci aspettiamo da questa fantasia infantile? Un’atipica, mai realizzatasi era di pace? Oppure, al contrario, la ferrea determinazione dei nemici di proclamare la nostra visibile debolezza morale e di ucciderci mentre chiniamo il capo, deboli e terrorizzati, supplicando pietà? Quando una testa si abbassa, loro la colpiscono. Nella mia esperienza, la riluttanza a combattere, col tempo, produce disprezzo, terrore e una guerra veramente tragica. Ma, forse, gli altri osservatori hanno più fiducia di me nella natura umana. Se gli Stati Uniti mostreranno debolezza, arrendevolezza e si ritireranno unilateralmente dall’Iraq, la gioia di coloro che

È un prigioniero della sinistra americana, che non ha imparato nulla dal fallimento del socialismo e dello statalismo

Q

vada nelle Montagne Rocciose; la Florida e il New Hampshire. Obama sosterrà di poter mettere in gioco la Virginia e il Nord Carolina (ma c’è da dubitarne), e tenterà di vincere uno o due elettori del Nebraska (che vengono assegnati dai collegi elettorali), e McCain dirà che può fare altrettanto con il New Jersey, il Delaware e parte del Maine (che esprime i suoi voti come il Nebraska), ma è difficile che vincerà in Oregon o Washington, anche se pensa di poterlo fare.

Quel che è certo, è che quasi tutto quello che pensiamo di sapere sarà riveduto e probabilmente corretto nell’arco dei prossimi sei mesi. Finora è stata una gara in cui le armi convenzionali si sono dimostrate spesso inefficaci; l’improbabile o ciò che si credeva impossibile è accaduto con regolarità, e questo ha prodotto un’esplosione di commenti ed opinioni, oltre che offrire uno dei più grandi spettacoli di “politica drogata”che si sia mai visto da decenni. Bisogna tenersi stretto il cappello; sarà una corsa infernale fino al 4 novembre.

margini molto minori per combattere il terrorismo. Per quel che riguarda la politica interna, se Obama manterrà la sua promessa di aumentare notevolmente le tasse a chi guadagna di più, offrirà un’ottima scusa a questi contribuenti per cambiare atteggiamento e dichiarare un reddito inferiore. Da quando questa piccola percentuale di cittadini paga qualcosa come il 25 percento di tutte le tasse versate dagli americani, qualsiasi diminuzione dei loro guadagni comporta un’enorme perdita per l’erario. Obama sembra non capire che l’aumento delle imposte riduce drammaticamente le entrate, ma lo imparerà con una dura lezione. La sua politica di assistenza semi-universale cambierà in peggio il nostro attuale sistema sanitario.Vari studi dimostrano che un’alta percentuale di richieste di prestazioni mediche sono il risultato di abitudini scorrette come mangiare e bere troppo, mancanza di attività fisica e condotte dissolute, e tutto questo non avvantaggia la prevenzione ma lo spreco di denaro e l’irresponsabilità, perché a pagare è lo Stato e non la persona. Molti tra i medici più anziani abbandoneranno l’attività una volta divenuti impiegati dello Stato, costantemente controllati, annoiati e sminuiti; la visione della medicina come professione orgogliosa, indipendente e originale verrà profondamente ridimensionata; il pagamento delle prestazioni ai pazienti, anche quando si comportano in modo irrespon-

sabile, richiederà sempre più denaro che dovrà necessariamente essere tolto alla ricerca e all’innovazione, e la burocrazia delle lunghe liste d’attesa di chi dovrà sottoporsi a interventi specifici imporrà sempre ai pazienti più bisognosi di aspettare molti mesi prima di essere curati.

Né Obama né il suo partito sembrano rendersi conto di quanto gli incentivi stimolino il comportamento umano; senza forza, coercizione, dileggio o imposizioni infantili, ma grazie alla semplice possibilità di godere dei frutti delle proprie libere e responsabili azioni. Non capiscono le origini di una società virtuosa, libera e prospera, sono ancora imbrigliati nelle fantasie della sinistra europea di un secolo e mezzo fa. Per questa ragione, Obama è il prodotto e il prigioniero della sinistra americana, che non ha imparato nulla dal fallimento del socialismo, dello statalismo e delle idee anticapitaliste nell’arco degli ultimi cento anni; molte di queste persone non imparano, non capiscono e si muovono non con saggezza e senso pratico, ma con arroganza e il desiderio di punire chi non la pensa allo stesso modo. Secondo un mio amico, che ha finalmente svelato il suo pensiero, l’Occidente è arrivato ad un momento epocale della sua storia. Da adesso in poi il progresso economico e politico crescerà molto meno velocemente che mai prima d’ora, e sta per cominciare una lunga fase di declino, all’estero come a casa nostra. Sotto il profilo della moralità, la virtù, il carattere e la responsabilità in quanto tali sarebbero scherniti e scoraggiati, e lo Stato invaderebbe sempre di più le vite dei cittadini. Sebbene la dissolutezza sarebbe celebrata sia sul grande che sul piccolo schermo (i democratici esaltano la visione hollywoodiana del mondo, e viceversa), né l’autocontrollo della libertà, né la consapevolezza e l’assunzione di responsabilità per le conseguenze del proprio comportamento sarebbero incoraggiate, perché considerate idee retrograde. Tutta la virtù sarebbe attribuita allo Stato materno e ai suoi esponenti politici. Che tristezza per i dissidenti conservatori! Forse sbaglio, ma è così che vedo le cose, in verità attraverso una lente appannata. Le mie uniche due certezze sono: 1) Obama farà esattamente ciò che oggi dice che farà; 2) dovremmo tentare, modestamente, di valutare le conseguenze probabili delle sue parole e azioni, sulla base di quanto abbiamo visto accadere negli scorsi decenni alle precedenti generazioni. La mia speranza più grande è che Obama, in qualità di presidente, sarà dissuaso dall’agire come ora sostiene di voler fare; in questo caso, vorrà dire che Dio si sarà ancora una volta preso cura degli ebbri delle illusioni stataliste, e - di nuovo - degli stati Uniti, nonostante gli stessi americani. E’ quando prendo Obama in parola che vengo sopraffatto dal pessimismo.


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speciale

economia

NordSud

Il 2008 sarà un anno nero per il settore: le immatricolazioni sono calate dell’8,3 nel primo trimestre. E tra prezzo record della benzina, crisi economica e incentivi falliti, la situazione può soltanto peggiorare

MERCATO DELL’AUTO IN RETROMARCIA di Gian Primo Quagliano cavallo tra il 2007 e il 2008 la tendenza del mercato automobilistico italiano si è invertita. Dopo il record di immatricolazioni del 2007 sin dall’inizio di gennaio di quest’anno si è manifestato un forte indebolimento della domanda. Il 2007 si era chiuso con previsioni che erano state formulate sul presupposto, non solo che gli incentivi alla rottamazione sarebbero stati rinnovati, ma anche che la formula adottata nel 2007 sarebbe stata migliorata allargando all’intero parco circolante Euro 2 la possibilità di rottamazione con incentivo e incrementando anche l’entità del bonus. Le cose non sono andate così. Gli incentivi sono stati rinnovati, ma il parco Euro 2 è stato coinvolto in maniera molto limitata e per giunta i bonus sono stati ridotti. Si è determinata all’inizio dell’anno una situazione di forte delusione per gli incentivi che ha finito per contagiare tutta

A

dell’estate 2007, è stata sempre più percepita come un fattore dirompente e in grado di incidere pesantemente anche e soprattutto sulle abitudini di consumo. A partire dagli anni Novanta, in Italia e all’estero, la crescita della domanda di beni di consumo durevole è stata sostenuta non tanto dall’incremento delle risorse a disposizione delle famiglie quanto da un forte ricorso al credito che ha portato un numero crescente di persone, negli Stati Uniti soprattutto, ma anche in Europa e Italia, a indebitarsi in misura crescente.

Il meccanismo non poteva durare all’infinito e infatti si è inceppato con la crisi dei subprime. L’impatto negativo si è trasmesso anche all’automobile. La propensione all’acquisto di beni durevoli è stata poi penalizzata da una forte crisi della fiducia delle imprese e dei consumatori. D’altra parte non si poteva pensare che uno

Unici comparti in attivo l’usato e le vetture aziendali. Ma la ripresa è lontana la domanda, dato che molti elementi negativi per la propensione del pubblico ad acquistare beni di consumo durevoli si erano già manifestati nel 2007. E a inizio 2008, lungi dal dissolversi, si sono aggravati. E ci riferiamo in primo luogo all’andamento congiunturale internazionale e italiano. La crisi dei mutui subprime, esplosa nel cuore

stillicidio di notizie negative susseguitesi per mesi non avesse ripercussioni sul morale dei consumatori. Tra queste notizie una menzione particolare meritano naturalmente quelle relative al prezzo del greggio la cui crescita, quantomeno in Italia, si è ripercossa in maniera amplificata sul prezzo dei carburanti anche perché alla tassa dello

sceicco si è aggiunta la soprattassa del petroliere, come dimostrano i bilanci del settore, tutti con utili in forte crescita. I maggiori costi per l’acquisto del greggio sono stati ampiamente coperti da aumenti dei proventi derivanti non dalla crescita delle quantità vendute (che sono in calo), ma dalla forte crescita dei prezzi. Premesse queste considerazioni si può dire che va tutto male per il mercato dell’automobile? Secondo noi no. Vi sono almeno due aspetti positivi. Il primo riguarda il mercato delle auto aziendali e il secondo quello dell’usato. Le auto acquistate da imprese e società rappresentano in Italia più di un quarto del mercato totale per numero e una quota decisamente superiore in valore. Nel 2007 il comparto delle aziendali è stato fortemente penalizzato da una forte stretta fiscale, che è stata però allentata notevolmente

con una apposita legge (3 agosto 2007) e con la Finanziaria per il 2008 che ha molto ampliato la possibilità di detrazione integrale dell’Iva.

Il risultato è che il mercato dell’auto aziendale è in ripresa. Mentre le immatricolazioni totali perdono l’8,3 per cento (e anche per questo la produzione è calata nel primo trimestre del 15,1) quelle relative ad auto acquistate da imprese e società sono in crescita dell’8,6. Il secondo aspetto positivo riguarda, come si diceva, il mercato dell’usato. Sempre nel primo quadrimestre, mentre le immatricolazioni di auto nuove hanno subito il calo di cui si è detto (8,3 per cento), le vendite di auto usate sono cresciute del 6,6. Da cosa nascono i diversi andamenti tra nuovo e usato? La spiegazione sta nelle difficoltà dell’economia che – nel segmento di automobilisti che al

momento dell’acquisto prendono in considerazione sia il nuovo sia l’usato – spingono un numero crescente di acquirenti a optare per l’usato. Proprio su questo aspetto del mercato dell’auto si terrà il 15 maggio prossimo a Bologna un convegno promosso dal Centro Studi Promotor e dall’università di Bologna. L’obiettivo è anche quello di verificare se la regola che vede l’usato in crescita nei momenti di congiuntura negativa vale anche quando le difficoltà dell’economia si fanno veramente dure, come potrebbe succedere. Detto anche degli aspetti positivi del quadro attuale, restano da dire due cose. La prima è che gli aspetti positivi non compensano certamente quelli negativi, la seconda è che, a nostro sommesso avviso, la ripresa non è dietro l’angolo. Direttore del Centro Studi Promotor


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Per Giuseppe Berta il futuro è «personalizzare l’offerta giocando sul design e sulle mode»

«Modello 500 per ripartire» «Q colloquio con Giuseppe Berta di Alessandro D’Amato

uello dell’auto in Europa è un mercato “di sostituzione”, dove si compra in massima parte per cambiare la propria vettura: è fisiologico che in momenti di generale flessione dell’economia ci sia un calo». Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente all’università Bocconi, non sembra preoccupato per i risultati negativi del mercato dell’auto nel 2008. Anno nel quale, dopo gli scivoloni di gennaio, febbraio e marzo (rispettivamente in flessione del 3,91, del 7,26 e del 18,76 per cento), aprile registra un ulteriore crollo del 2,86 per cento con le sue 201mila vetture immatricolate. «In più», aggiunge, «mettiamoci l’aumento del prezzo della benzina, la saturazione del traffico nelle città, tutti i problemi connessi nelle aree metropolitane: è un combinato disposto di fattori che non possono non influenzare pesantemente i consumatori e i loro comportamenti concreti». Non influisce anche il cambio di mentalità degli italiani riguardo l’oggetto-auto? Certamente, adesso la vettura non è più, come negli anni Settanta, uno status symbol. O meglio, è stata sopravanzata in questo ruolo da altri “oggetti del desiderio”, per i quali il consumatore è disposto a spendere.

Nemmeno il fascino dei bolidi o delle ammiraglie, delle “fasce alte” di mercato, colpisce più? No, questo tipo di polarizzazione non affascina più di tanto, ormai. Sono vecchie distinzioni che non rilevano più di tanto. Oggi si tende a mescolarsi: siamo attenti ad altri elementi nella scelta di un oggetto come la proprio automobile. E allora che cosa devono fare allora le case costruttrici per invertire il trend? Puntare sull’auto “personalizzata”. Penso al successo, superiore a ogni aspettativa, della nuova 500: un risultato dipeso dallo stile ammiccante e dall’immagine molto trendy e made in Italy, oltre che al design che rivisita la storia del modello con un occhio ironico e disincantato. È stato un boom. Perché? Perché nell’automobile cerchiamo degli elementi di forte individualizzazione: più i modelli ce ne forniscono, più sarà possibile che riscuotano successo tra gli acquirenti. L’obiettivo più prossimo dei grandi produttori è fornire prodotti nei quali il consumatore può identificarsi. E le auto ibride? Possono sfondare o sono destinate a rimanere a lungo un prodotto di nicchia? Dipende dalle condizioni di partenza. Si pensi al mercato americano, e a co-

sa ha significato per un Paese abituato a spendere poco o nulla per la benzina il rialzo del prezzo del petrolio. In questo scenario è facile comprendere perché automobili come la Toyota Prius abbiano avuto un balzo delle vendite: proprio a causa dell’innovazione del doppio sistema di alimentazione, a benzina o elettrico. Vetture simili non sono alla portata di tutte le tasche. Il costo è elevato, ma con il tempo si può riuscire ad ammortizzarlo. In più, c’è il vantaggio che stiamo parlando di un’automobile sia da città sia da viaggio. Anche questo conta.

Unire il grande design di livello internazionale con la tecnologia ibrida: una sintesi affascinante. Professore, nel medio e lungo periodo come vede il trend del mercato delle auto? Il dilemma sta tutto nell’incrociare felicemente prodotti e mercati. Quello dell’automobile è un mercato mondiale, ma che richiede allo stesso tempo grande attenzione alle esigenze “regionali”. Alla capacità di riuscire a declinare questo modello è legata la loro sopravvivenza. E la Fiat, in questa corsa, come sta andando? Direi bene. Per esempio, nel mercato brasiliano – che sta vivendo un boom impressionante e ad aprile ha superato il record di vetture vendute – nel primo trimestre la casa italiana portato la propria quota di mercato al 25,5 per cento. Nel frattempo, sta puntando sta puntando sull’alleanza con Tata per penetrare in un grande Paese come l’India. Finalmente il Lingotto guarda all’estero con continuità? La logica è costituire alleanze strategiche allo scopo di calibrare prodotti adatti su diversi mercati. Senza dubbio, è proprio questa la strada giusta.

Lo storico: «Gli oggetti del desiderio sono altri, non più i bolidi» Per questo tipo di modelli ci sarà fortuna anche in Italia? È difficile: c’è Pininfarina che con Bollorè sta sviluppando una serie di progetti originali e innovativi, e secondo me è questa la strada giusta.


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speciale

economia

NordSud i convegni MILANO Martedì 13 maggio 2008 Università Bocconi Secondo giornata del Forum internazionale organizzato da Bocconi e Corriere della Sera sul tema “Globalizzazione addio?”. Intervengono, tra gli altri, Innocenzo Cipolletta, presidente di Ferrovie dello Stato, e Marco Tronchetti Provera, presidente della Pirelli.

Il fallimento degli ultimi incentivi spinge il nuovo governo a ricalibrare l’intervento

Più rottamazioni per tutti (i modelli) di Marco Palombi alari, infrastrutture, casa, riforme istituzionali, sicurezza, sistema radio-tv e chi più ne ha più ne metta. Il titolo è certo meno appariscente dei precedenti, ma tra i dossier che il quarto governo Berlusconi si ritrova sul tavolo c’è pure quello della crisi del settore auto. Roba seria, il traino principale della negletta industria pesante italiana, eppure nel centrodestra non sembra regnare concordia sul tema, che passa per un tema delicato come gli incentivi alle rottamazioni. Perché non mancano pressioni per andare avanti su questa strada. Intanto la situazione: la Fiat, almeno per il momento, tiene; anzi ad aprile ha aumentato la quota di mercato interno al 33,56 per cento. Ma il settore, nel suo complesso, è però in grande sofferenza e le previsioni non sono buone. I primi quattro mesi dell’anno, tanto per fare un esempio, hanno registrato un calo delle immatricolazioni di 80mila unità rispetto al 2007.Tanti soldi in meno non soltanto per chi costruisce e vende, ma anche per le casse dello Stato: in termini di gettito Iva significa un minore incasso di 250 milioni di euro che diventeranno 700 milioni

S

due in più.Trend costante quindi e nel quale le due cause principali, aggravarsi della situazione economica e il fallimento degli incentivi varati per il 2008 col Milleproroghe, finiscono per intrecciarsi. Nella prima fattispecie c’è tutto. La crisi economica complessiva, il diminuito potere d’acquisto di rilevanti fasce di popolazione, l’aumento del costo del denaro che complica la richiesta di prestiti e il rally infinito del prezzo della benzina. A questo proposito il neoministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, pare non avere nessuna intenzione di prorogare la sterilizzazione di parte delle accise sui carburanti decisa dal suo predecessore Bersani. «È costata molto e ha inciso poco», ha sostenuto, meglio fare «la lotto al caro-prezzi intervenendo nei vari passaggi» della filiera e attraverso le“vere”liberalizzazioni (a distinguerle da quelle false, sempre a firma Bersani).

Insomma, in attesa del miglioramento dell’economia, alla lobby dei costruttori non resta che puntare sul rafforzamento degli incentivi alla rottamazione. La proposta su cui si stanno muovendo le case è molto semplice: gli aiuti per il 2008 ammontano a 700 euro (cento in meno di quelli 2007) e all’esenzione dal pagamento della tassa di proprietà per un anno (invece dei precedenti tre) per chi rottama auto Euro 0, Euro 1 o Euro 2 immatricolate prima del 1 gennaio 1997. In sostanza lo stesso parco auto già arato dagli incentivi precedenti e oramai ridotto all’osso. Per avere un qualche impatto i benefici, dicono i costruttori, devono essere estesi alle Euro 2 prodotte nel 1997 e 1998 e qui sì che ci sarebbe da vendere: si parla infatti di quattro

L’obiettivo è estendere i bonus anche alle Euro 2. Contraria la Lega Nord alla fine dell’anno se le cose continueranno così. Gli analisti non sono ottimisti e vedono in atto una tendenza abbastanza stabile: il calo di aprile, per esempio, è stato più contenuto rispetto a marzo, ma solo per il fatto che, rispetto agli stessi mesi del 2007, marzo aveva due giorni lavorativi in meno e aprile

milioni di veicoli. Come detto la diplomazia automobilistica è all’opera. A tutti i livelli. Non è un caso, dicono in ambienti di maggioranza, che Luca Cordero di Montezemolo, dopo anni di vivaci polemiche contro Berlusconi e tentazioni di discesa in campo in veste di campione centrista, «ora sia arrivato in soccorso del vincitore» nell’indefinito ruolo di Mister made in Italy.

Negli incontri di palazzo Grazioli, sostengono le stesse fonti, si sarebbe parlato anche del settore auto e delle prospettive future della Fiat: niente richieste esplicite per carità, tra signori non si usa, ma l’argomento è sul tavolo. Non a caso, già a fine aprile, il senatore leghista Massimo Garavaglia ha esplicitato lo stop padano sulla questione: «Altri soldi per le rottamazioni? Ha molto più bisogno di aiuto e sostegno la piccola e media impresa». Per l’esponente leghista, visto che la cura Marchionne per la Fiat aveva già funzionato, «Prodi ha solo buttato via i soldi». E questo senza contare che i torinesi «hanno buona parte della produzione all’estero». Un niet bello netto, eppure nel Pdl la questione incentivi non è affatto passata di moda. Nessuno si espone direttamente, specialmente in giorni in cui si stanno ancora definendo le caselle di sottosegretari e viceministri, ma è certo che il grido d’allarme del settore è stato raccolto e arriverà sul tavolo dei ministri competenti. «Quella dell’auto è un pezzo importante e storico dell’industria italiana e va quindi preservata», spiega un deputato settentrionale del Pdl, «L’idea di estendere gli incentivi anche alle Euro 2 del ’97 e del ’98 non soltanto è un volano per evitare la crisi del settore, ma è utile anche a togliere dalla strada auto inquinanti e a portare qualche soldo di Iva nelle casse statali. Bisogna vedere quanto costa: i 52 milioni stanziati per ‘aiutare’ l’acquisto di auto a metano stanno già quasi per finire…».

MILANO Martedì 13 maggio 2008 Hotel Four Seasons Mergermarket fa il punto sullo stato di salute della finanza privata nel convegno “Italian M&A Private Equity Forum”. Sono attesi, Giuliano Zuccoli, Ad di A2A; Maurizio Dallocchio, ordinario della Bocconi, Luca Majocchi, Ad di Seat, e l’avvocato Sergio Erede. ROMA Mercoledì 14 maggio 2008 Nuova Fiera di Roma In agenda alla giornata odierna de Forum Pa 2008 un incontro organizzato da Sogei, sul “sistema informativo a supporto del federalismo”, con l’Ad della società Valerio Zappalà, Fabrizio Carotti, direttore del Dipartimento delle Finanze, e Fabio Pistella, presidente del Cnipa. Si fa il punto sulle opere pubbliche in “Investimenti in Infrastrutture. Dal Dire al Fare”, con Giorgio De Rita, Ad di Nomisma, Giovanni Castellucci, Ad di Autostrade, e Mauro Moretti, Ad di Ferrovie. Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, interverrà su “La concorrenza. Una cultura per il mercato e le Istituzioni”. MILANO Giovedì 15 maggio 2008 Palazzo Turati È in corso la diciassettesima edizione dell’Ups Europe Business Monitor sul tema“Reagire al rallentamento dell’economia globale: economisti e aziende a confronto”. Partecipa, tra gli altri, Umberto Paolucci, presidente di AmCham Italy. BOLOGNA Giovedì 15 maggio 2008 Aula Magna dell’Università di Bologna Nell’anno del rallentamento delle immatricolazioni, l’università di Bologna e il Centro studi Promotor organizzano un workshop su “Auto usata e congiuntura economica. Come reagirà l’auto usata alle attuali difficoltà dell’economia?”. Apre i lavori Gian Primo Quagliano, direttore del Centro studi Promotor ed esperto del settore.


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Dopo gli ottimi risultati in Italia Marchionne deve risolvere il gap dell’export

Fiat, un grande successo che non supera i confini di Vincenzo Bacarani

MERCATO GLOBALE

Espandersi su quattro ruote di Gianfranco Polillo

l «miracolo di Torino», come lo ha battezzato l’Economist, è stato celebrato recentemente con i risultati Fiat del primo trimestre del 2008. E i dati sono eccezionali: 15 miliardi di euro di ricavi netti (1,5 miliardi in più rispetto al 2007), un utile netto di 427 milioni (+376 milioni), il titolo in Borsa che è cresciuto del 3,17 per cento. Ma il futuro cosa riserverà? Queste cifre sono importanti, addirittura strepitose. E la parola miracolo non può considerarsi una semplice iperbole, se persino i sindacati affermano che l’amministratore delegato Sergio Marchionne «ha resuscitato un morto». Cioè ha preso un’azienda sull’orlo del baratro e l’ha portata a livelli di crescita e di competitività eccezionali tanto da confermato l’obiettivo di 2.400.000 consegne per l’anno in corso (circa 200mila in più rispetto al 2007).

I

le Case New Holland). La Fiat guarderebbe con interesse anche al Messico, dove un impianto produttivo permetterebbe di rifornire sia il Nord sia il Sud America. Riferendosi a questo mercato, Marchionne aveva parlato della necessità di una capacità addizionale. «Da dove arriverà», aveva precisato, «non è deciso. Penso che potrebbe essere parte di una soluzione Nord America, specialmente in termini di introduzione del brand Alfa». Dunque l’obiettivo per il 2009 è quello di catturare spazi in aree più accessibili come Nord e Sud America, dove la domanda sta crescendo molto più velocemente dell’offerta. Anche perché questa diventa la soluzione più abbordabile per superare quella scarsa penetrazione in mercati stranieri interessanti, che, seppur cresciuta negli ultimi tempi, appare troppo insufficiente. Una necessità che diventa nel medio periodo obbligo, soprattutto se confrontata con un mercato interno ormai vicino alla saturazione. Su questo fronte la casa torinese può infatti ritenersi soddisfatta dei risultati raggiun-

L’andamento della maggiore industria italiana appare brioso. Eppure Marchionne sa perfettamente che ci sono incognite sul futuro del gruppo e non può cullarsi sugli allori. Negli ultimi sei anni il Lingotto ha presentato sei nuovi modelli Fiat, sei Alfa Romeo (l’ultimo la MiTo) e uno solo Lancia (la nuova Delta che verrà presentata a giugno). E la programmazione per i prossimi anni non si è ancora sviluppata in maniera certa. E alla lunga potrebbe pesare in un mercato sempre più aggressivo. Anche perché oltreconfine l’appeal del marchio registra un certo interesse soltanto in determinati Paesi, seppure emergenti, come Brasile, Turchia o Argentina. In Europa, e nonostante la crisi di concorrenti come Volkswagen L’Alfa Romeo MiTo o Ford, la quota di mercato di Torino è ancora all’8,9 per cento. Questi numeri spiegano l’attivismo del Lin- ti: il 33,6 per cento di quota di mercato in Itagotto sullo scenario internazionale. Il recento lia (rispetto al 32,1 dell’aprile 2007) è un livelacquisto del 70 per cento della serba Zavasta lo certamente lusinghiero. Punto, Panda e 500 per circa 700 milioni di euro segue accordi e (quest’ultima sta raggiungendo la soglia dei trattative in India e in Cina. E ora la casa sta 200 milaordini) rimangono le più amate, senportando avanti una sfida non meno ambizio- za contare le ottime performance fatte segnasa: conquistare il mercato nordamericano.L’i- lare da Bravo, Doblò e Sedici. dea è di lanciare in Stati Uniti e Canada i modelli Alfa già dal 2009. Un tentativo non anda- Debole invece l’export. Al Lingotto, dunque, to a buon fine oltre 20 anni fa, ma che ora po- stanno studiando la situazione e, certamente, trebbe partire su basi più solide. «Si tratta», sono imminenti annunci su accordi sul fronte aveva detto Marchionne, «di produrre proprie americano. Anche perché il mercato internazionale non aspetta. Così i manager dei Toriautomobili in Usa e non di esportare». Quello che i più scettici definiscono «sogno no non sarebbero soddisfatti dei passi in americano» potrebbe trasformarsi presto in avanti che pure si sono registrati. In Francia realtà. Verso fine mese l’azienda del Lingotto la quota mercato di Fiat è del 4,4 per cento potrebbe decidere di aprire uno stabilimento (1,1 per cento in più rispetto ad aprile 2007), in Canada, nella zona dell’Ontario (fra Toron- in Spagna del 3,5. Presenze dignitose, non to e Windsor, lungo l’autostrada 401). Lo stes- certo di più. Migliori, invece, gli spazi di merso premier dell’Ontario, Dalton McGuinty, cato conquistati in Polonia (9 per cento), in sarà a Torino il 21 maggio per parlare della Turchia (11,6 per cento con un aumento del questione. Produrre in Canada significa mi- 3,5 per cento) e, soprattutto, in Brasile (26,6 nori costi e tempi più brevi rispetto all’ipotesi per cento con trend in costante aumento). Ma statunitense (in questo caso rilevare uno sta- la realizzazione del “sogno americano” pobilimento chiuso di Chrysler o GM o la ricon- trebbe far da traino a tutto il mercato internaversione di un impianto per macchine agrico- zionale Fiat.

i grandi costruttori di automobili americani, l’Economist dà un consiglio: seguite l’esempio Fiat. Chiamati in causa sono i giganti di Detroit: General Motors, Ford e Chrysler da tempo in una crisi che ricorda l’epoca antecedente all’arrivo di Marchionne a Torino. Quando la stessa Fiat era prigioniera di General Motors, a un passo dall’essere assorbita dal principale produttore di automobile del mondo. Poi gli Agnelli scoprirono questo manager e la notte si illuminò. Nato in Italia, ma educato in Canada, proveniente dalla finanza, ha saputo combinare due elementi ch’era difficile tenere insieme: come deve operare operare un’azienda in un mondo globalizzato; una visione a tutta campo della necessità del cambiamento. E in meno di quattro anni la sua azione è divenuta leggenda. Oggi il modello Fiat è paragonato alla Nokia, capace di cambiare rapidamente il suo tipo di produzione: dalle scarpe di gomma e i fazzoletti di carta ai cellulari. O alla Apple: spiazzata dalla concorrenza nella produzione dei computer, l’asso nella manica è divenuto l’iPod, gadget che ossessiona le nuove generazioni. Per Fiat è stato invece diverso. Il suo core business è rimasto la produzione di auto. Comparto talmente maturo da sembrare obsoleto. Ma che Marchionne ha saputo rivoluzionare nei modelli quanto nel modo di gestire la vecchia fabbrica fordista. Ecco allora che questa vicenda è divenuta un caso di studio. Se l’esperimento è riuscito in Italia, con tutte le sue rigidità sociali e un modo di fare impresa non certo all’avanguardia, perché non dovrebbe riuscire altrove? Vale quindi la pena soffermarsi su alcuni aspetti di questa rivoluzione. E in particolare su un dato: Fiat è la

A

dimostrazione delle opportunità che può offrire la globalizzazione. Sempre che si sappiano cogliere. Il confronto internazionale ne evidenzia il relativo successo. Negli ultimi tre anni, salvo la caduta di questi ultimi mesi, il corso delle sue azioni è cresciuto tre volte tanto rispetto a Renault e al gruppo Peugeot-Citroen. Le perdite accumulate negli anni precedenti non solo sono state assorbite, ma gli utili realizzati nel 2006 sono stati pari a 3,2 milioni di euro: il 66 per cento in più rispetto all’anno precedente. E hanno tirato tutte le marche che compongono il gruppo: Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Ferrari e Maserati. E lo stesso può dirsi per l’Iveco (camion) e Cnh (macchine agricole e strumentali). Se le cose andranno come devono andare, i profitti saliranno dai 766 milioni di euro, conseguiti nei primi 4 mesi dell’anno, ai 3,4-3,6 miliardi di fine esercizio. Quali le ragioni del successo? Innanzitutto nei modelli. Dalla vecchia Panda alla Punto, quindi all’avventura della nuova 500 – l’auto che Gianni Agnelli non capiva perché fosse stata eliminata dalle linee di produzione – e in prospettiva il nuovo spider di Alfa Romeo che l’Economist considera «la più bella vettura in circolazione, oggi, nel mondo». Ma questi sono solo i dati esteriori. Non si sarebbe arrivato a tanto se la vecchia struttura burocratica e gerontocratica non fosse stata rivoluzionata. Via i vecchi dirigenti abituati al tram tram della crisi. Largo a nuovi manager motivati dalla dimensione della sfida. Ed i risultati si sono subito visti: soprattutto in termini di innovazione e di ricerca. Una storia a lieto fine? È presto per dirlo. Ma quel piccolo miracolo, che finora si è prodotto, è la dimostrazione che ce la possiamo fare.


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cultura

La centralità dell’essere umano e l’importanza del sapere nel pensiero del grande umanista fiorentino

L’uomo, secondo Leon Battista Alberti di Maurizio Schoepflin tatuì Iddio negli animi umani uno fermo vincolo a contenere la umana compagnia, giustizia, equità, liberalità, e amore, colle quali l’uomo potesse appresso li altri mortali meritare grazia e lode, e appresso el procreatore suo pietà e clemenzia. Fermavi ancora Iddio né pecti virili a sostenere ogni fatica, ogni avversità, ogni impeto della fortuna, a conseguire cose difficilissime, a vincere il dolore, a non temere la morte, fermezza, stabilità, con stanzia e forza, e spregio delle cose caduche, colle quali tucte virtù noi possiamo quanto dobbiamo onorare e servire a Dio con giustizia, pietà, moderanzia, e con ogni altra perfecta e lodatissima operazione. Sia adunque persuaso che l’uomo nacque non per atristirsi in ozio, ma per adoperarsi in cose magnifiche et ample, colle quali è possa piacere e onorare Iddio in prima, e poi avere in se stesso come uso di prefecta virtù, così frutto di felicità».

«S

bienti ecclesiastici (nel 1434 lo troviamo a Firenze al seguito della corte del Pontefice Eugenio IV; successivamente lavorerà per conto di Niccolò V e Pio II) e fu in contatto con alcuni grandi intellettuali del suo tempo, da Leonardo Bruni a Poggio Bracciolini, da Brunelleschi a Donatello, manifestò un ingegno particolarmente versatile e si occupò di questioni e argomenti assai diversi, palesando una straordinaria vastità di interessi e un’eccezionale sete di conoscenza. A questo proposito, si legge nel De iciarchia, una delle sue opere più celebri, dedicata al gover-

Pubblicati gli Atti del grande convegno internazionale che si è svolto a Firenze

no della casa: «L’animo nostro si pasce della investigatione ed apprensione delle cose degne … Non si può né descrivere né stimare il piacere qual segue a chi cerca presso a’ dotti le ragioni e cagioni delle cose, e vedersi per quest’opera fare da ogni parte più esculto. Non è dubbio: supera tutte le altre felicità qual possa l’uomo avere in vita».

Dunque, nell’Alberti troviamo ben sintetizzati due motivi caratteristici della grande tradizione dell’umanesimo italiano del XV secolo: quello della centralità e dell’elevatezza dell’essere umano e quello dell’insostituibile valore del sapere. Tuttavia, all’Alberti non mancò neppure la consapevolezza, anche questa assai diffusa nella cultura del suo tempo e che, qualche decennio più tardi, troverà in Niccolò Machiavelli l’interprete più acuto, dell’aspra difficoltà del vivere, che può indurre allo sconforto. Dinanzi a questa coscienza della fatica dell’esistenza, l’umanista fiorentino (Alberti era nato a Genova, ma la sua famiglia aveva le sue radici nella città toscana) non vuole che l’uomo ceda e si accasci e indica nella virtus l’antidoto ai mali di cui la vita è piena:

A scrivere questo vero e proprio inno alla dignità dell’uomo fu uno dei nostri maggiori umanisti, Leon Battista Alberti, vissuto fra il 1404 e il 1472, sulla figura e l’opera del quale si è tenuto ad Arezzo, nel giugno del 2004, un grande convegno internazionale, di cui sono stati di recente pubblicati gli Atti a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi, sotto il titolo Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Filologia, esegesi, tradizione (Edizioni Polistampa, due tomi per complessive 990 pagine, euro 65). Alberti, che si legò ad am-

Con le idee donna Prassede si regola come dicono che si deve far con gli amici: n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata

Alessandro Manzoni

La multiforme attività di Leon Battista Alberti emerge con chiarezza dai numerosi contributi contenuti negli Atti a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi

«Mi accorsi – egli scrive (la traduzione dal latino è del Garin, il massimo conoscitore contemporaneo dell’Alberti) che la sorte è dura per noi che ci siamo tuffati nel fiume perché dobbiamo superare le onde nuotando, impegnati in uno sforzo senza fine; non ci sfuggirà tuttavia che nelle cose umane valgono moltissimo la saggezza e la solerzia». Queste caratteristiche della personalità e del pensiero di Leon Battista Alberti emergono con chiarezza dai numerosi contributi presenti nei due densissimi tomi degli Atti, i quali, come si evince bene dal titolo e dal sottotitolo, privilegiano la dimensione letteraria della multiforme attività albertiana.

L’Alberti fu teorico dell’arte e dell’architettura, letterato e moralista: gli studiosi convenuti ad Arezzo, come ricorda Roberto Cardini nella Premessa, si soffermarono a esaminare il suo impegno di uomo di lettere e mirarono quindi all’«accertamento della parola scritta dell’Alberti», all’«interpretazione formale, strutturale, linguistica di tutte le sue opere attraverso la dinamica dei rapporti intertestuali con gli auctores», all’«inquadramento dell’umanista nella cultura del suo tempo, in un dialogo tra i suoi testi e quelli degli autori contemporanei». L’attenzione per la dimensione letteraria non precluse comunque ai convegnisti la possibilità di cogliere la figura dell’ Alberti nella sua interezza, che la curatrice Mariangela Regoliosi, sulla scorta dell’intervento di Roberto Cardini, eloquentemente tratteggia nei termini seguenti: «E così possono coesistere in un animus complesso come quello dell’Alberti posizioni non appagate, risanate, concluse, semplicemente perché non concluso è l’uomo, essere limitato ma aspirante all’assoluto, che ha quindi in sé un insanabile contrasto».

LA FORZA

DELLE IDEE

C A M P A G N A

❏ semestrale

A B B O N A M E N T I

❏ annuale

2 0 0 8

❏ annuale sostenitore

65,00 euro

130,00 euro

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invece di 127,00 euro

invece di 254,00 euro

invece di 254,00 euro

Modalità di sottoscrizione dell’abbonamento - CONTO CORRENTE POSTALE: occorre versare l’importo sul c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl”. - BONIFICO BANCARIO: è necessario versare la somma al seguente riferimento bancario: “Banca Carim - Filiale di Roma - Via Po n.160 - c/c n° 7473344, intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” IBAN: IT 31 I 06285 03200 009007473344

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cultura

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passato un anno esatto dal “Family Day” di Roma e poco meno di sei mesi dall’analogo raduno tenutosi a Madrid nel giorno della festa della Sacra Famiglia (30 dicembre). Eppure sul significato e sulle attese suscitate dalla presenza di milioni di persone in piazza sembra calato un assordante silenzio, certamente nel sistema mediatico, forse anche nel mondo politico e culturale. Come se la festosa e pacifica mobilitazione avesse dato risposta agli interrogativi inquietanti aperti dal reiterato attacco alla famiglia naturale, aggredita sul terreno culturale, sul piano giuridico, nella pedagogia collettiva della comunicazione e perfino con la subdola tirannia del linguaggio.

È

E allora diventa utilissimo Family Day. Roma-Madrid. E dopo? (Fede e cultura), l’agile e asciutto “memento” con il quale la storica Angela Pellicciari ripercorre quelle esperienze. Colte al di fuori dell’istantaneità della cronaca, sono messe in relazione a rapide pennellate, con scenari passati carichi di perverse anticipazioni, e dipanando lo svolgimento implacabile di un processo ideologico, che alla fine, per legittima reazione, ha trascinato fuori dalle case e dalla quotidianità migliaia di nuclei familiari decisi a far valere il peso eterno e umanissimo della condizione coniugale e della trasmissione della vita secondo natura. Certo, c’erano anche le occasioni contingenti: in Spagna il sistematico procedere dell’ideologia numerica zapateriana («In democrazia la verità è quella di chi ha un voto in più») e la costruzione coerente a colpi legislativi del primato dell’individuo e dei suoi desideri, sganciato da ogni segno di relazione umana e comunitaria. In Italia il pasticcio Pacs-Dico servito dalle ineffabili ministre Rosy Bindi-Pollastrini, teso a fare del riconoscimento delle convivenze extramatrimoniali il grimaldello per i diritti di coppie dello stesso sesso, comprese le adozioni, e di conseguenza, passo dopo passo, la via spalancata verso una società senza doveri, soprattutto verso i bambini, e senza responsabilità. Ma l’analisi dell’autrice mette a fuoco non tanto il male civile, quanto il conflitto dichiarato e combattuto con tutti i mezzi e in tutte le forme alla civiltà cristiana. Guerra antica e ricorrente, che in epoca contemporanea prende a bersaglio quasi esclusivamente la famiglia come il bastione culturale, forse l’unico che ha resistito in passato alle tante tra-

A sinistra, la folla di un milione di persone che, il 12 maggio del 2007, gremì piazza San Giovanni in Laterano a Roma per il Family Day. Da allora ha preso forma un movimento, che, senza dover chiudersi in partiti o associazioni, ha influenzato il dibattito sulla famiglia e sulle politiche in campo bioetico. In alto a destra, l’omologa manifestazione tenutasi a Madrid, il 30 dicembre 2007 contro le misure prese dal governo Zapatero

A un anno di distanza, il bilancio della Pellicciari tra attese suscitate e risposte mancate

Family Day, argine alla guerra contro la vita di Giuseppe Baiocchi gedie della storia, non ultimi i totalitarismi del secolo breve. Che il disprezzo verso la famiglia venisse da lontano lo spiega il riferimento alla duecentesca eresia “catara”, quando nella Provenza medievale si impose questa dottrina dei “puri” (è la traduzione del termine “cataro”) che considera-

In Occidente tutte le armate sembrano schierarsi con il chiaro obiettivo di distruggere la natura umana scardinando la famiglia

vano la vita, la sua generazione e il matrimonio il male assoluto da combattere in tutti i modi, giustificando così la spinta al potere e all’esclusivo monopolio delle ricchezze terrene di nobili e mercanti. Una simile visione del mondo, con mezzi e strumenti di persuasione ben più efficaci, sem-

bra riemergere quando, in nome della “purezza”di nobilissimi principi di libertà, di diritti umani e di rifiuto della discriminazione, si vanno introducendo nella legislazione e nella vita sociale una serie pesantissima di divieti e di sanzioni. È davvero impressionante la sequenza che porta alla proibizione dei termini “padre” e “madre”fino alla introduzione dell’”identità di genere”e addirittura alla previsione di tre anni di carcere per chi si permette di non essere d’accordo con la regolarizzazione delle coppie e delle adozioni omosessuali. Come si è tentato di fare anche in Italia nei decreti che dovevano contrastare la delinquenza provocata dall’immigrazione sregolata e clandestina.

In Occidente tutte le armate sono schierate in campo con l’obiettivo di violentare per sempre la natura umana, scardinando la famiglia: la sfida, in difesa non tanto della tradizione quanto della realtà perenne della condizione della creatura umana, è raccolta quasi esclusivamente dalla Chiesa cattolica e dal magistero del Papa, determinati a battersi fino in fondo contro la «cultura di morte» (come l’ha definita Papa Wojtyla). Il popolo cristiano, chiamato a raccolta prima a Roma e poi a Madrid, non è tornato a quanto sembra nelle catacombe. Eppure, come conclude la Pellicciari, in un conflitto culturale sempre più aspro, la vicenda del “Family Day” sollecita nuove puntate. Tra le testimonianze sulle manifestazioni (Comunità di Sant’Egidio con Andrea Riccardi, Comunione e Liberazione con Julian Carron, Rinnovamento nello Spirito con Manuel Carrazedo) spicca quella del leader del Cammino Neocatecumenale, Kiko Arguello. Che già da allora sollecitava una replica del “Family Day” a Berlino, Vienna, Parigi… perché «dalla famiglia cristiana dipende il futuro dell’Europa…».


pagina 20 • 13 maggio 2008

memorie

Anniversari. Vent’anni fa moriva Frank Sinatra ma in Italia nessuno lo celebra

Il Mozart dello swing di Adriano Mazzoletti che uomo d’affari dunque. I suoi interessi nei night, negli hotel e nelle sale da gioco di Las Vegas erano ben noti.

ent’anni fa morivano a distanza di cinque giorni Chet Baker e Frank Sinatra. Chet il 13 maggio, the Voice il 18. Il primo aveva 58 anni, il secondo 73. Vite straordinariamente intense, ma assolutamente diverse. Di Chet Baker si è già detto in relazione a un libro e un cofanetto con la sua opera omnia realizzata in Francia, ma anche per tutte le iniziative che il mondo del jazz ha voluto dedicargli. L’ultima pochi giorni fa a Teramo, in Abruzzo, dove Nicola Stilo, uno dei compagni più fedeli degli ultimi anni, ha radunato musicisti italiani e francesi, critici e storici per dedicare a Chet Baker una intera giornata di studi e un concerto alla memoria nel corso di un Chet Baker’s Day.

V

Invece, né la Casa del Jazz, né il Parco della Musica di Roma, e sembra neppure altre istituzioni italiane, si sono ricordati di un uno dei più grandi cantanti del ‘900. Celebre la frase che Bing Crosby pronunciò a proposito del suo più giovane collega. «Voci come quella di Sinatra, ne nasce una ogni secolo. Ma proprio nel mio doveva nascere?!». Infatti come Bing Crosby a suo tempo detronizzò il suo rivale Rudy Vallee, il celebre vagabond lover’s idolo degli anni Venti, il giovane cantante italoamericano di Hoboken surclassò il più grande cantante degli anni Trenta, iniziando nel 1939 una carriera che terminò solo poco tempo prima della sua scomparsa a Los Angeles. Italiano della seconda generazione, suo padre era di Lercara Friddi, in provincia di Palermo, anche se Frank nel 1986 durante il concerto al Palatrussardi di Milano disse che era di Catania. La madre Natalina

Le innumerevoli biografie

Garaventa detta Dolly di Rossi di Lumarzo, paesino della riviera ligure di levante. Sinatra proprio per queste sue origini si sentiva assolutamente italiano, forse più genovese che siciliano. E la sua genovesità esplose letteralmente quando Zeffirino Belloni e suo figlio, nel loro ristorante di Genova, gli fecero assaggiare un piatto di trenette al pesto. Zeffirino e

Tanti eventi per celebrare Chet Baker CHET BAKER moriva vent’anni fa, cinque giorni prima della scomparsa di Frank Sinatra. Mentre a lui sono stati dedicati eventi jazz commemorativi, a Sinatra sembra non aver pensato nessuna istituzione

Frank decisero di importare il pesto negli Stati Uniti e quella iniziativa continuò per molti anni. Cantante, attore, ma an-

raccontano anche che fosse legato alla mafia italoamericana. Sam Giancana, capo della famiglia di Chicago e Carlo Gambino di quella di New York, si diceva fossero suoi amici.Vero o falso non si sa. La mafia da sempre si interessava al mondo dello spettacolo. I gangsters fin dagli anni del proibizionismo avevano forti interessi nei locali notturni, dove si vendeva alcool di contrabbando e dove si esibivano orchestre e cantanti, molti dei quali avrebbero raggiunto il successo proprio con l’aiuto di quelle persone dall’assai dubbia reputazione. Di certo si sa che quando Tommy Dorsey, il più celebre direttore d’orchestra americano degli anni Quaranta, volle ingaggiare il giovane Sinatra che era sotto contratto con un’altra orchestra, quella diretta da Harry James, che non voleva saperne di perdere quel cantante che aveva tanto successo, venne affrontato da un tale che puntandogli una pistola lo costrinse a strappare il contratto. Forse meno reale la storia della testa mozzata del cavallo fatta ritrovare dal mafioso Johnny Rosselli nel letto del produttore del film Da qui all’eternità, che non voleva affidare a Sinatra la parte del soldato Angelo Maggio. Certo quel produttore non ebbe a pentirsene, quando Sinatra per quella sua straordinaria interpretazione, si aggiudicò nel 1954 l’Oscar quale miglior attore non protagonista. Quel successo cinematografico gli fece ottenere un nuovo contratto con l’agenzia William Morris, e rilanciò definitivamente la sua carriera di cantante. Perché il successo iniziato nel 1935 nella sua città natale quando con tre amici aveva formato gli Hoboken Four a imitazione dei Mills Brothers, dopo quindici anni, a causa anche di una burrascosa relazione con Ava

Gardner, era praticamente terminato. Se le cronache, i biografi, gli specialisti del gossip si sono interessati da sempre a Frank Sinatra mettendolo spesso in difficoltà, è la sua statura di cantante che non è stata mai posta in discussione. Neppure durante la sfortunata tournée italiana del 1953, che lo vide in netto calo rispetto al periodo precedente. Pochi sanno che quella era la seconda volta che si esibiva in Italia. Nella notte fra il 6 e 7 giugno 1945 era giunto all’aereporto di Pisa con un volo militare dagli Stati Uniti. In Italia era ancora sconosciuto se non per i V disc che aveva inciso durante la guerra, ma in America era già una vedette incontrastata. Giunto a Pisa, si trasferì a Livorno dove allo stadio Armando Picchi diede un concerto per i militari americani. Si trasferì successivamente a Foggia, per un altro

concerto, questa volta in un hangar dell’aereporto e successivamente al Petruzzelli di Bari. Passò poi una settimana di vacanza a Capri e il 20 giugno a Roma cantò al rest camp alleato che si trovava nella zona del Foro Italico. Fu anche ricevuto in udienza da Papa Pio XII° e il 9 luglio si trasferì a Londra.

Quella di Sinatra era una delle tante esibizioni organizzate dall’Uso (United States Organizations), che ingaggiava musicisti americani per le truppe alleate di stanza a Palermo, Bari, Napoli e Roma. Già all’epoca il suo carattere non era certo facile. Al suo ritorno si mise a sparlare degli spettacoli Uso per la qualità scadente dei complessi mandati all’estero, per il modo arrogante di trattare gli artisti durante il giro e la mancanza


memorie

13 maggio 2008 • pagina 21

A sinistra e al centro, uno scatto degli ultimi anni di Frank Sinatra e una foto dell’artista quando era giovane; sopra, insieme con gli amici Sammy Davis Jr. e Gene Kelly; accanto, un’istantanea di quando era ancora un bambino; sotto, Sinatra sorridente durante uno dei molti concerti della sua brillante carriera; a destra, assieme a Gene Kelly nel film Due marinai e una ragazza, girato nel 1945 di esperienza professionale nel campo dello spettacolo, fra gli uomini dei Servizi Speciali che lo organizzavano. «Ciabattini in uniforme», fu una delle espressioni che gli furono attribuite e che ebbero grande diffusione. Tre anni prima aveva lasciato Tommy Dorsey con il quale aveva inciso più di ottanta titoli in poco tempo, dal 1° febbraio 1940 al 2 luglio 1942. Ascoltando quelle prime incisioni, quasi tutte canzoni sentimentali che riusciva a interpretare con swing, Sinatra da quel momento, può essere considerato il primo cantante moderno. Dotato di grande personalità, di una voce splendida, era il suo modo di cantare che affascinava e che colpiva gli ascoltatori. Disse che era stato il modo con cui Tommy Dorsey suonava il suo strumento, il trombone, ad averlo influen-

zato. «Guardandolo attentamente come prendeva il fiato per suonare le sue linee melodiche» disse un giorno, «mi adeguai anch’io e da quel momento il mio stile cambiò completamente». Lasciato Dorsey, siglò un contratto con Columbia e fra il 1943 e il 1944 entrò ben 23 volte nella top ten delle classifiche americane.

Prima di lui nessun cantante era mai riuscito a collezionare un tal numero di successi. Se nelle incisioni con Dorsey era il leader a ritagliarsi le parti non cantate e a Sinatra erano riservati solo il ritornello e a volte le strofe delle canzoni - d’altronde era quello il ruolo del crooner - nei dischi Columbia, realizzati con la direzione di Axel Stordahl e con gli arrangiamenti di Alec Wilder, genio misconosciuto ormai completa-

mente dimenticato, la funzione di Sinatra iniziò a cambiare perché era mutato il suo ruolo. Non più il cantante all’interno dell’orchestra bensì di fronte all’orchestra. E’ lui da quel momento lo “strumento” principale. Non più il trombone di Tommy Dorsey, ma la voce inconfondibile di colui che inizia ad essere chiamato The Voice (la voce). L’orchestra di Stordhal ricca di intere sezioni con violini, viole e violoncelli, creava un magnifico tappeto musicale per mettere in risalto la sua inconfondibile voce. Le molte centinaia di incisioni realizzate nel corso dei dieci anni, tanto durò il contratto con Columbia, crearono in tutto il mondo il mito Sinatra. Un mito che iniziò ad appannarsi proprio alla scadenza del contratto, nel 1953. Molti si chiesero se Columbia preferì non rinnovare il contratto visto che la voce

Alle canzoni melodiche e sentimentali aggiunse incisioni imbevute di atmosfere jazzistiche. Il nuovo direttore dell’orchestra che era stato scelto per accompagnarlo, Nelson Riddle, inserì nelle file dell’orchestra musicisti ben conosciuti nel mondo del jazz, la tromba Harry Edison, il sassofonista Eddie Miller, il chitarrista Allan Reuss, il contrabbassista Joe Comfort e soprattutto il batterista Alvin Stoller. Gli arrangiamenti di Riddle avevano swing, le sezioni degli archi erano state allontanate e Sinatra iniziò a essere considerato non più un crooner o un cantante sentimentale, ma un cantante di jazz. I referenda fra i critici delle maggiori riviste di jazz lo videro al vertice come miglior male singer e le incisioni Capitol sono indubbiamente le più riuscite della sua intera carriera.Venti long-playing per un totale di oltre duecentoquaranta brani: A Swingin’Affair, Close to You, This is Sinatra, Song for Young Lovers, Wee Small Hours, Only the Lonely, oppure lo splendido Swingin’ Session; e quando l’orchestra in seguito passò sotto la direzione di Billy May, la parte jazzistica in Come Fly with Me o Come Dance with Me, venne vieppiù accentuata.

In quegli anni sfiorò il secondo Oscar grazie alla nomination per l’intensa interpretazione di un batterista drogato nel film di Otto Preminger, L’uomo dal braccio d’oro e due anni dopo un altro grande successo con Pal Joey, dove recitava a fianco di Rita Hayworth e Kim Novak. Scaduto il contratto con Capitol, decise di fondare una sua casa discografica, la Reprise, per cui incise il disco forse più popolare: My Way. Dagli anni Settanta si trovò spesso a cantare con orchestre e musicidi Sinatra sembrava non fosse sti di jazz, Duke Ellington, più quella di una volta o se lo Count Basie, Ella Fitzgerald, stesso cantante preferì accetta- Louis Armstrong. Alla sua re l’offerta di un’altra casa di- morte, vent’anni fa, old blue eyes, come veniva chiamato per gli occhi azzurri che hanno fatto innamorare miFRANK SINATRA lioni di donne, laIl ricordo di The voice nelle parole di sciava un vuoto che nessuno fiCrosby: «Voci come la sua, ne nasce una nora è riuscito a colmare. Ci hanogni secolo. Ma no provato invaproprio nel mio no Tony Bennett, doveva nascere?»; Michael Boublet e in quelle di e Peter Cincotti. Pavarotti: «Eri suo dal primo momento Alla sua scomparsa Luciano in cui apriva bocca. Pavarotti diSembrava un chiarò: «Sinatra Mozart cantante» ti coinvolgeva, scografica, la Capitol, con cui eri suo dal primo momento in rimase fino al 6 marzo 1962. In cui apriva bocca. Questa sua quei nove anni, Sinatra modi- immediatezza mi faceva pensaficò in parte stile e repertorio. re a un Mozart cantante».

Crosby: «Voci come la sua, ne nasce una ogni secolo»


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Giusto vietare le tribune tivù agli ex terroristi? HA RAGIONE IL PRESIDENTE NAPOLITANO: DIAMO VOCE AI FAMILIARI DELLE VITTIME

NON OSCURIAMO DEL TUTTO GLI EX TERRORISTI, MA PER LO MENO NON TRASFORMIAMOLE IN DIVI

Non c’è dubbio: secondo me ha ragione Napolitano. Hanno ucciso, non si sono pentiti se non per convenienza, hanno teorizzato campagne di odio, terrorismo e morte. E ora? Ora salgono in cattedra di prestigiose università, vetrine eccellenti e soldi in quantità. I nostri soldi, perché le tribune tivù loro offerte sono pagate con i soldi del canone da noi versato alla tivù di Stato. Ma peggio ancora alcuni di loro sono stati deputati del Parlamento Italiano, vedi Sergio D’Elia. Renato Curcio è una star della tivù. Non c’è documentario riguardante il triste periodo del terrorismo targato Br che non contenga le sue esternazioni, le sue verità. Renato Vallanzasca si è sposato. Articoli e interviste in prima pagina di quasi tutti i quotidiani. Ma finalmente un Capo dello Stato rivolge la sua attenzione ai familiari delle vittime, «tutti quelli che hanno subito la violenza». Sono loro quelli «a cui bisogna dare voce e rispetto». Parole sacrosante, soprattutto perché a profferirle è un ex comunista, un alto esponente di quel Pci che all’epoca, almeno all’inizio, aveva protetto e coccolato gli assassini.

Non si può dire che il Capo dello Stato non abbia ragione. Giornali e tivù - di Stato e non - trattano gli ex terroristi come star holliwoodiane. Addirittura alcuni dei più feroci li abbiamo visti salire in cattedre universitarie. A insegnare cosa? Adriano Sofri - condannato in via definitiva per l’omicidio Calabresi - scrive articoli da opinionista che finiscono nelle prime pagine di quotidiani. Renato Vallanzasca si sposa: foto in prima pagina del «bel René», interviste alla sposa, servizi in tivù: roba da far diventare simpatici autori di stragi terribili. E i familiari delle vittime? Per loro niente vetrine tivù, solo brevi dichiarazioni di alcuni di loro, su giornali meno insensibili, per stigmatizzare le passerelle concesse agli assassini e commossi ricordi dei propri cari caduti per aver contrastato vaneggianti disegni rivoluzionari.Tutto ciò detto, sono del parere che i Curcio, i Vallanzasca, i Fioravanti e compagnia, non vadano completamente oscurati, cancellati dalla nostra memoria. Fanno sempre e sicuramente parte della storia, per infausta che sia, del nostro Paese. Ma le loro ”esperienze” vanno utilizzate per condannare senza riserve,non per farne dei divi.

Andrea Sallusti - Milano

LA DOMANDA DI DOMANI

Ma ci sono i fannulloni nella Pubblica amministrazione? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Alessandro Forte - Roma

CENSURARLI È SENZ’ALTRO SBAGLIATO, POSSONO AIUTARCI A CAPIRE MEGLIO LA STORIA Esistono due paesi civili in Europa: la Spagna e l’Irlanda. Entrambe le nazioni in questione hanno vissuto, come noi, guerre civili che hanno spaccato in due il proprio popolo. Madrid e Dublino però, alla fine dei combattimenti, hanno amnistiato i reati dei combattenti e, addirittura, hanno costruito alcuni posti dove poter onorare tutti i caduti. L’Italia ha vissuto la guerra civile dal ’43 al ’45 che poi si è protratta negli anni ’60 e ’70. Perché mai i ”terroristi”italiani non dovrebbero poter parlare in tivù? Sarebbe ben più intelligente farla finita con quegli anni chiedendo la verità ai protagonisti in cambio della libertà. Questo sarebbe un discorso serio. Ce ne sono tanti che possono raccontarci storie e fare ragionamenti molto più alti di quelli di tanti che stanno normalmente in tivù.

SOGNANDO MINGHETTI È opinione comune che il problema fondamentale dell’Italia sia l’impossibilità di riuscire a legiferare e a decidere velocemente a causa dei troppi partiti. Le ultime elezioni hanno risolto questo problema alla radice. Ma l’annullamento dei partiti non risolve il vero problema: la moltiplicazione dei centri decisionali fuori dal governo e dal Parlamento. Per quanto possa essere spedita la decisione governativa o l’approvazione di una legge, poi inizia un difficile negoziato. Nella nostra società si sono moltiplicati i centri di potere per cui anche un semplice provvedimento deve superare altri ostacoli. Il più delle volte il provvedimento è stravolto, corrotto o applicato in modo diverso. E’ come se il Parlamento e il governo non rappresentassero gli interessi generali, e quindi devono negoziare in modo estenuante con enti che di fatto arrivano a essere antagonisti dentro e fuori lo Stato. Sorge naturale nella società cosi incapace di andare avanti la necessità di riconcentrare i poteri, e nei sistemi ancora deboli avviene con un aumento della personalizzazione della politica e un esa-

A TUTTA SABBIA

In Colorado gli sport invernali non passano mai. Se siete amanti di snowboard, il Parco Nazionale delle Grandi Dune di Sabbia vi offre divertenti gare di ”sandboard” su dune che sfiorano i 230 metri d’altezza, le più alte del Nord America

LA POLITICA È CAMBIATA, CAMBIAMO ANCHE IL SINDACATO La politica è cambiata. Se i ceti medi si sono rivolti a Berlusconi, classe operaia e proletariato in genere hanno preferito Lega e An. Con il Pd sono rimasti i ricchi, gli arricchiti dalla politica e i conservatori. Se la politica è cambiata, oggi deve mutare anche il sindacato. Che i metalmeccanici torinesi abbiano sostenuto la Lega, non meraviglia, anzi va incontro a quanto ho sopra sostenuto. Cambia la politica, cambia anche il sindacato, i cui mutamenti, non sono un fatto nuovo, ma vengono da lontano. Se andiamo ai primi del ‘900 troviamo Filippo Corridoni nell’Usi: con lui il sindacato rivoluzionario diviene nazionale e interventista. Nel ’70 a Reggio Calabria, Ciccio Franco della Cisnal recepirà le istanze sociali legate al territorio. «Boia chi molla!» sarà la sua parola d’ordine, ben conosciuta

dai circoli liberal Valeria Lo Giudice - Palermo

sperante “divismo”. Questa potrebbe essere la ragione per cui in questo momento il piano inclinato della politica è simil-gollista in termini di mortificazione parlamentare. De Gaulle e la fine della IV Repubblica furono conseguenza dell’incapacità dei governi di coalizione di affrontare i cambiamenti postcoloniali. Con De Gaulle la nuova Costituzione volle contrastare la ”dittatura parlamentare” dove il potere di veto delle minoranze parlamentari finisce per paralizzare l’azione del governo, favorendo instabilità e inconcludenza. La crisi Algerina era il problema che il Parlamento francese non riusciva a risolvere: non come in Italia, che è invece la debolezza verso gli enti antagonisti collusi a sprechi, cattiva gestione, privilegi, favoritismi e saccheggi dello Stato. La partitocrazia della tradizione liberaldemocratica, socialista e cattolica, aveva già perso la Battaglia di Algeri nel 1994. Inorridiamo alla parola “partitocrazia”, ma non ci si avvede del fatto che già appunto dal 1994 di fatto i partiti tradizionali non ci sono più. Al loro posto, delle elite dove la distinzione tra leaderismo, interesse generale, politico, economico, mediati-

anche adesso. Sempre nel filone dell’innovazione sindacale giungiamo a Giorgio Benvenuto dell’Uil negli anni ’80; con lui la modernizzazione e la laicità della società italiana in evoluzione entrano nelle istanze della politica sindacale. Eredi di tutto questo, oggi troviamo l’Ugl di Renata Polverini che aggancia le dinamiche del mondo del lavoro e le immagini dei media alle rivendicazioni sindacali, e la Rosy Mauro del Sindacato Padano che fonde le aspettative locali della Padania alle esigenze del mondo del lavoro. Concludendo, le liberalizzazioni in atto nel mondo del lavoro e le istanze territoriali dovranno oggi esser mediate con le posizioni della destra sociale. Da questa mediazione potrà scaturire la carta vincente per una vera mutazione sia del sindacato che delle politiche del mondo del lavoro.

Vittorio Baccelli - Lucca

co è inesistente nel comune intreccio e posizionamento nei gangli dello Stato. Più che novelli De Gaulle, servirebbe un nuovo Minghetti che oltre a portare il bilancio dello Stato in pareggio, non scrisse canzoni, ma “I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione”e “Della economia pubblica: e delle sue attinenze colla morale e col diritto“. Rispettivamente nel 1881 e nel 1859. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Donna, la vostra tenerezza mi rende divino Vi siete dunque resa conto, donna cara, fino a che punto la mia felicità dipenda da voi? Avete finalmente compreso quali catene mi uniscono a voi? Potete forse ancora dubitare che i miei sentimenti durino quanto la mia stessa vita? Quando giunsi al cospetto dei nostri convitati, ancora ero ricolmo della tenerezza che voi mi avevate ispirato. Essa splendeva nel mio sguardo, riscaldava le mie parole, guidava i miei movimenti: era evidente in ogni cosa. Ai loro occhi, non potei che apparire straordinario, ispirato, divino. Era come un fuoco che mi ardeva in fondo all’anima, un fuoco che mi accendeva il petto, che si spandeva fino a loro e li infiammava a loro volta. Addio, mia Sophie, addio donna amata! Ardo dal desiderio di rivedervi, anche si vi ho appena lasciata. Ah, se solo potessi essere lì accanto a voi, come vi amerei ancora! Mi struggo di passione e desiderio. Addio, addio. Denis Diderot a Sophie Volland

IL NUOVO GOVERNO NON ISPIRA FIDUCIA Giudico la nuova squadra di governo - Berlusconi quater - una compagine che, tranne alcuni ministri come Tremonti e Frattini, non mi ispira che pochissima fiducia. Sono uomini e donne (o veline) che opereranno sotto lo stretto comando e sovrintendenza del loro Le roi, Silvio Berlusconi. E’ una squadra, come si diceva un tempo, di prestanomi, nani e ballerine. I problemi dell’Italia sono ben più ampi e diversi da quelli che Berlusconi si immagina di dover risolvere: la disoccupazione, il lavoro precario e la famiglia, alla quale non è stato dedicato, a differenza del governo Prodi, nessun ministero specifico. Non voglio essere pessimista né tanto meno fungere da Cassandra: ma questo governo, come ha già scritto su liberal Enrico Cisnetto, durerà poco, forse un anno o due, e poi finirà sotto l’incudine delle sue tante interne contraddizioni, rappresentate soprattutto dalla Lega nord di Umberto Bossi, il quale con il suo federalismo senza se e senza ma - finirà per tendere a Berlusconi un altro bel ribaltone, con tutto quello che ne con-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

13 maggio 1767 A Salisburgo va in scena la prima di ”Apollo e Giacinto” di Mozart 1830 Viene fondata la Repubblica dell’Ecuador; il presidente è Juan Josè Flores 1940 Il primo ministro inglese Winston Churchill tiene il suo primo discorso alla Camera dei Comuni: «Non ho altro da offrire che sangue, duro lavoro, lacrime e sudore» 1965 I Rolling Stones incidono ”I can’t geto no, Satisfaction” 1974 Contro ogni previsione, i voti a favore del divorzio, nel referendum di ieri, raggiungono il 59,1% 1981 Papa Giovanni Paolo II subisce un attentato in piazza San Pietro. Fermato l’attentatore: il turco Alì Agca 1989 A Pechino iniziano le manifestazioni di piazza Tienanmen 1999 Carlo Azeglio Ciampi viene eletto presidente della Repubblica italiana

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

seguirà. Spero di sbagliarmi, per il bene della Patria e del Paese, anche se, ripeto, una squadra di governo di serie C, Berlusconi (che è presidente del Milan), non doveva proprio farla. Grazie per la pubblicazione e cordiali saluti.

Angelo Simonazzi Poviglio (Re)

LIVIA TURCO E IL ROSSO MAL CELATO Dall’ex ministro della Salute, la compagna Livia Turco, è arrivato il via libera alla diagnosi preimpianto. Questo è un esempio perfetto di quello che intendono i signori e le signore del governo Prodi e del PD quando ci raccontano che le istituzioni non hanno colore, quando ci parlano di correttezza, di responsabilità, di tutela dei deboli, di attenzione agli ultimi e di rispetto di ogni forma di vita. In verità, non ci stupisce più di tanto. Avevamo sempre pensato che l’artista del trucco e il visagista del PD avessero sbagliato il fondotinta e che, prima o poi, sarebbe riemerso il rosso malcelato. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

Pierpaolo Vezzani

PUNTURE La Michela Brambilla, in omaggio alla mitica famiglia Brambilla, avrebbe voluto un posto al ministero della Famiglia, ma il ministero non c’è più e la Brambilla nessuno se la piglia.

Giancristiano Desiderio

Non correre troppo dietro alla fortuna: tutti cercano quella che si trova alle spalle di chi corre BERTOLT BRECHT

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di COSÌ BRUNETTA ABBATTE UN TABÙ TUTTO ITALIANO Renato Brunetta, neo ministro per la Funzione Pubblica, liberalsocialista di vecchia data, è un uomo coraggioso. Solo così si può interpretare il suo intervento durante il Forum sulla Pubblica Amministrazione, durante il quale il professor Brunetta è andato contro uno dei tabu statalisti e sinistri più longevi e dannosi. Cosa ha detto Renato Brunetta? Rispondendo a una domanda su come risolvere il problema dei fannulloni all’interno della pubblica amministrazione, ha dichiarato: ”Semplicemente licenziandoli”. Dovevamo aspettare il 2008 e ritrovare un liberale al governo affinché questa semplice, bella parola venisse pronunciata: ”Licenziare”! Licenziare i dipendenti inutili, le sanguisughe fannullone, gli immeritevoli che da decenni hanno infestato la Pubblica amministrazione. Un’ovvietà talmente ovvia che nessuno ne ha mai parlato. Sindacati, governi cattocomunisti, giornali... tutti a enfatizzare l’importanza del posto fisso, dello status quo, sorvolando bellamente sulla meritocrazia e sulla funzionalità dei funzionari. Oggi le cose stanno per cambiare. Oggi, finalmente, un Ministro della Repubblica ha avuto il coraggio di dire ciò che tutti i cittadini e tutti i liberali già sapevano. Per far funzionare l’Azienda Stato serve meritocrazia e snellimento del carrozzone. Come farlo? Semplice, mandare a casa chi occupa posti di lavoro per favori politici, chi scalda una sedia senza lavorare, chi tim-

bra i cartellini e poi va a Ostia ad abbronzarsi, chi avanza in carriera per anzianità e non per merito. Solo così si può avviare una rivoluzione liberale. Senza paura di pronunciare la parola tabu della sinistra italiana. Licenziare! Licenziare! Licenziare!

Rinascita Liberale rinascitaliberale.splinder.com

IL MULTILATERALISMO CONSEGNA IL LIBANO ALL’IRAN Che dietro Hezbollah ci sia Teheran è cosa nota. Ora resta da chiedersi chi ci sia dietro l’Onu e la Nato o, se vogliamo, generalizzando, dietro il multilateralismo. Ovunque sia stato applicato i risultati sono stati l’esatto ribaltamento delle cose in cui si poteva sperare. Basti guardare le situazioni in Darfur e, appunto, in Libano. Allora, se multilateralismo significa semplicemente stare a guardare (e in alcuni casi peggiorare le cose) perchè non si riesce a mettersi d’accordo da che parte stare… beh… tanto vale affidarsi a chi le idee chiare le ha già, anche se magari le afferma in maniera unilaterale. Ma vorrei anche vedere… Un motivo in più per accelerare la più radicale delle riforme di queste organizzazioni internazionali, che più che risolvere i conflitti non fanno altro che acuirli a causa della loro insita incapacità decisionale. Ormai è chiaro che ciò che conta veramente in questi consessi è l’equilibrio politico tra le grandi potenze e non invece il bene dei piccoli popoli seviziati dalle più tragiche ingiustizie!

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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