QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Esce il nuovo libro di Pansa
e di h c a n o cr
Resistenza, il revisionismo diventa un romanzo
di Ferdinando Adornato
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LE MISURE PER LA SICUREZZA Agire in modo eclatante ma effimero oppure prendere provvedimenti efficaci e duraturi: il governo di fronte a un bivio decisivo per la sua credibilità
colloquio con Giampaolo Pansa di Pier Mario Fasanotti uando pubblicò Il sangue dei vinti e fu poi invitato per un dibattito in una libreria di Roma, Giampaolo Pansa si trovò di fronte una ragazza ben determinata. Che gli disse: «Lei deve scrivere il Via col vento della guerra civile italiana». Chiedo al giornalista-scrittore che da cinquant’anni si occupa della Resistenza (fin dalla sua tesi di laurea) come reagì all’invito-provocazione. E lui: «Lì per lì rimasi sorpreso, anche perché non avevo mai pensato a un progetto tanto ambizioso, anche se mi ero già azzardato a pubblicare qualche romanzo ambientato in quel tempo». Già, «quel tempo» è maledetto. È una bomba a orologeria che quando scoppia fa un fragore tremendo. E infatti il botto ci fu: le ottuse vestali della Resistenza come periodo felice, eroico e pacifico della storia patria gridarono al tradimento. E al revisionismo, parola ormai inflazionata che va di bocca in bocca (Giorgio Bocca compreso) e si mischia alla saliva del disgusto. L’Italia non sopporta più gli armadi chiusi, dentro i quali ci sono le prove documentarie di fatti scomodi, sanguinosi e vergognosi. Pansa ha aggiunto capitoli di verità alle vicende tribolate che vanno dal 1943 al 1946, incrinando quell’artificioso totem resistenziale tramandato da figli a padri e nipoti. Quel totem sul quale era scritta col fuoco una falsa verità: i partigiani erano tutti buoni, i fascisti erano tutti carnefici.
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Tolleranza zero. E intelligenza? alle pagine 2 e 3
se g ue a p ag i na 8
Tutto ruota intorno all’articolo 18
nell’inserto Carte
Alla vigilia del 34° anniversario
Parla l’ex ambasciatore israeliano
Le prove dell’esistenza di Dio
Strage di Brescia: Pino Rauti rinviato a giudizio
«Non aspetteremo altri sessant’anni per avere la pace»
di Giuliano Cazzola
di Lucio Colletti
di Nicola Procaccini
La questione dei licenziamento dei “fannulloni” è mal posta. In Italia non è impossibile licenziare soltanto i nullafacenti della pubblica amministrazione, ma i “fannulloni”tout court.
La civiltà occidentale nasce dall’incontro di due tradizioni: quella ellenica e quella giudaico-cristiana. E il problema dell’essere viene a coincidere con il problema dell’esistenza di Dio.
A meno di due settimane dal 34° anniversario della strage di Brescia, sei uomini sono stati rinviati a giudizio come responsabili dell’eccidio. Fra questi c’è Pino Rauti.
colloquio con Ehud Gol di Enrico Singer Ehud Gol è un uomo vigoroso e diretto, un diplomatico che ben conosce l’Italia avendo qui rappresentato il suo Paese dal 2001 al 2006.
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Licenziare i fannulloni? Yes we can
VENERDÌ 16
MAGGIO
Un inedito del filosofo scomparso
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
90 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 16 maggio 2008
tolleranza
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Il Papa chiede di non dimenticare l’accoglienza. Pisanu mette in guardia da reazioni solo emotive
Operazione sicurezza o caccia alle streghe? di Errico Novi
ROMA. Dopo una tornata elettorale stravinta grazie alla campagna sulla sicurezza è difficile resistere alla tentazione del colpo a effetto. In queste ore il governo e la maggioranza ondeggiano tra l’impulso della scudisciata risolutiva e la necessità di misure credibili. Le ipotesi sui respingimenti in acque extraterritoriali e sul reato di clandestinità devono fare i conti anche con un monito di Benedetto XVI, che interpella la coscienza cattolica del Pdl: «Nella mia recente visita negli Stati Uniti ho incoraggiato quel grande Paese a continuare nel suo impegno di accoglienza verso chi viene dai Paesi poveri, e ho segnalato il grave problema del ricongiungimento familiare». Il Papa ne ha parlato davanti al Pontificio consiglio per i migranti, ma le sue parole non sono sfuggite al governo. A suscitare scrupoli ha contribuito anche l’intervento nell’aula di Palazzo Madama dell’ex ministro dell’Interno Beppe Pisa-
stizia: «Quando il legislatore prende decisioni sollecitate da stati emozionali dell’opinione pubblica il rischio di non fare ragionamenti a lungo termine è sempre molto alto. I correttivi alla legge Gozzini servono, perché è vero che si tratta di norme che danno sostanza al principio della detenzione come forma di recupero, ma è anche vero che negli ultimi anni ce ne siamo serviti più che altro per alleggerire il peso nelle carceri». In ogni caso se ne dovrebbe discutere «a partire da un disegno di legge», sostiene Vitali, «proprio perché si tratta di garanzie costituzionali». C’è anche un modo per guardare avanti facendosi carico dell’ansia diffusa tra la gente, dice anche l’ex sottosegretario azzurro alla Giustizia: «Prevedere la costruzione di nuove carceri, perché già siamo tornati poco sotto la soglia dei 50mila detenuti: la gente può essere rassicurata solo se chi viene condannato a una pena anche breve la sconta sul serio, co-
scere ancora di più. In queste ore «Diminuiscono i tecnici del minii delitti stero della Giustima la percezione zia e del Viminale di insicurezza studiano le forcresce: mule migliori, anper placarla che per evitare non servono reprimende dalslogan come l’Unione euro’tolleranza zero’ pea. Resta como misure plicata la definioccasionali, ma una zione del reato di politica accorta» clandestinità. Ma c’è anche un altro nodo da scioglienu: «Non servono risposte re: distinguere tra le norme che emotive, misure occasionali o sarà possibile inserire slogan fortunati come ’tolleran- nel decreto e quelle da za zero’». Non più perplessità presentare con un disesolo accennate, ma obiezioni gno di legge e offrire esplicite. Il senatore del Pdl ha dunque a un dibattito più ricordato un’indagine conosci- ampio con l’opposizione. tiva della commissione Affari Si tratta di capire cos’è costituzionali della Camera se- davvero urgente: seconcondo cui «la gestione accorta do il ministro della Difedella politica per la sicurezza sa Ignazio La Russa può genera sicurezza». esserlo anche «una modifica della legge GozziDiscorso difficilmente conte- ni sugli sconti di pena, se stabile, che corrisponde a quel- vi è neccessità di rimuolo degli economisti sull’infla- vere l’allarme». È questo zione: parlarne troppo la fa cre- uno dei nodi: davvero bi-
PISANU:
Maroni annuncia supercommissari per l’emergenza rom a Roma, Milano e Napoli. Frattini: «Il reato di clandestinità non sarà nel decreto»
legislativi del Quirinale. E di fondo c’è da stabilire il confine tra il bisogno di rasserenare l’opinione pubblica e il desiderio del nuovo esecutivo di confermare gli impegni elettorasogna placare l’ansia di prote- li. Pisanu ricorda zione dei cittadini con misure alla sua maggioche riguardano le garanzie co- ranza che «in Itastituzionali? Per dare una ri- lia i delitti tendosposta sono in corso consulta- no a diminuire, zioni tra il governo e gli uffici eppure il senso di paura e insicurezza dei cittadini cresce in maniera preoccuLA RUSSA: pante». La tentazione di «Nel decreto consolidare il consenso che sarà varato andando incontro alla mercoledì paura è notevole. Ma è prossimo a Napoli alto anche il rischio impotremmo inserire plicitamente ricordato anche modifiche da Pisanu di amplificare alla legge Gozzini l’inquietudine con provsugli sconti vedimenti ad effetto. di pena, se può servire Argomenta il deputato a rimuovere pdl Luigi Vitali, indicato l’allarme» tra i possibili presidenti della commissione Giu-
VITALI: «Dobbiamo pensare a provvedimenti efficaci sul lungo termine, come la costruzione di nuove carceri: bisognerebbe farlo con una legge obiettivo che assegni la gestione anche ai privati»
me negli Stati Uniti. Siamo in Italia, il che vuol dire che dal giorno in cui il governo decide di intervenire sull’edilizia penitenziaria e quello in cui un nuovo carcere comincia a funzionare davvero passano almeno dodici anni. L’ho verificato chiaramente durante la mia esperienza di governo». Come se ne esce? Vitali rilancia un’idea circolata negli anni scorsi anche tra esponenti di An: «Affidare la realizzazione e la gestione degli istituti di pena ai privati, con una legge obiettivo analoga a quella per le grandi opere».
tolleranza
L’affollamento dei penitenziari si incrocia evidentemente con l’allarme per l’immigrazione fuori controllo, visto che il 40 per cento dei detenuti è composto da extracomunitari. Ma nelle ultime ore nell’esecutivo si è fatto strada un approccio cauto con la questione del reato di clandestinità: «Dubito che possa essere inserito nel decreto legge», dice il ministro degli Esteri Franco Frattini. Di una revisione del trattato di Schengen e di una banca delle impronte digitali «è l’Europa intera che sta discutendo», aggiunge. L’esecutivo prova anche a disinnescare le critiche che già montano dal fronte dell’opposizione: «II reato di immigrazione clandestina è una dichiarazione di fallimento delle espulsioni», avverte il ministro dell’Interno ombra Marco Minniti. E Vannino Chiti pone le sue condizioni perché il clima del dialogo possa durare: «È tutto più difficile se si fa ricorso al decreto legge. Ha ragione Pisanu: occorre serietà e competenza, non improvvisazione e propaganda». Non è che il clima da decisioni irrevocabili riguardi solo la maggioranza: anche gli amministratori di centrosinistra, a cominciare dal presidente dell’Anci, il fiorentino Leonardo Domenici, chiede al Capo del Viminale Roberto Maroni di «rafforzare il potere dei sindaci» e di «accrescere i compiti delle polizie municipali». Dal ministro dell’Interno arriva un annuncio nel tardo pomeriggio: «Ho chiesto al presidente del Consiglio di attribuire al prefetto di Milano poteri da commissario straordinario per i rom. Richieste analoghe sono arrivate dai comuni di Roma e Napoli, in ogni caso non ci sono problemi di copertura finanziaria». Gianni Alemanno è dunque accontentato almeno su una delle sue proposte. Si vedrà per le altre, che vanno da una maggiore rapidità delle procedure di espulsione all’innalzamento delle pene per lo sfruttamento dei minori e dei portatori d’handicap. Misure in buona parte elaborate dalle forze di polizia, dice il primo cittadino della Capitale. Finiranno tutte nel decreto che il governo varerà mercoledì a Napoli? Può darsi, ma c’è il rischio che il sovraffollamento normativo riduca il potere deterrente. È uno dei tanti nodi che si intrecciano con quello del sensazionalismo. Dopo pochi giorni di legislatura la maggioranza è già chiamata a misurare i propositi della campagna elettorale con le complicazioni della realtà.
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L’opinione pubblica oscilla tra una malintesa pietas e un razzismo strisciante
Il Paese degli eccessi di Riccardo Paradisi
ROMA. I rom fuggono con mezzi di fortuna dal campo di Ponticelli assaltato e incendiato martedì scorso da uomini e soprattutto donne armati di spranghe e bottiglie molotov. Fuggono scortati dalla polizia che tenta di proteggerli da chi vorrebbe colpire ancora, da chi li insulta, da chi non vede più delle persone – donne, uomini, bambini – ma solo una massa indistinta di rom, di zingari, un’ente collettivo rapitore di bambini. La portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati Laura Boldrini ha definito quello di Napoli uno «scenario balcanico»: «Immagini che richiamano la stigmatizzazione di un intero gruppo umano e sociale, a prescindere da responsabilità penali personali». Peccato che la dinamica del capro espiatorio, quella che ormai si è innescata a Napoli e che rischia di deflagrare in altre parti d’Italia, non preveda relazioni tra individui fondate sulla dignità umana e la civiltà di un diritto che fonda il suo agire sull’accertamento di precise responsabilità individuali. La dinamica del capro espiatorio – come ha descritto nei suoi studi sulla violenza Renè Girard – prevede l’individuazione di un nemico oggettivo, la sua disumanizzazione e infine lo scaricarsi su di esso di una tensione sociale che viene avvertita come insostenibile. Le immagini di giubilo delle donne e dei bambini di Ponticelli nel vedere i rom spaventati che cercano scampo in altre zone della città, la contestazione e i fischi indirizzati ai vigili del fuoco che tentano di spegnere i roghi che ostinatamente vengono continuamente riappiccati, sono elementi che dimostrano come gli assalti degli accampamenti di martedì e mercoledì scorso abbiano in effetti segnato il liberarsi di una violenza che covava da tempo. Violenza che la camorra si è semplicemente limitata a organizzare e utilizzare se è vero, come denuncia l’assessore alle risorse provinciali di Napoli, Guglielmo Allodi, che siamo di fronte a «un’evi-
dente intromissione di clan che da anni occupano con i loro traffici illegali una parte di quel territorio». Del resto i vuoti culturali e politici tendono a riempirsi. I primi li colmano l’istinto e il pregiudizio, i secondi la criminalità organizzata e il giustizialismo popolare. Umberto Bossi sintetizza brutalmente così: «La gente fa quello che non riesce a fare la classe dirigente». Più articolata e meno equivoca l’analisi del sindaco di Roma Gianni Alemanno: «Il modo migliore per scongiurare episodi come quelli di Napoli», ha detto a chi gli chiedeva se anche nella capitale si dovessero temere assalti ai campi nomadi vista la gravità di recenti fatti di cronaca che hanno avuto dei rom come
È la dinamica individuata da Renè Girard: si individua un nemico, lo si disumanizza e si scarica su di lui una tensione sociale avvertita come insostenibile protagonisti, «è dimostrare che le istituzioni si stanno muovendo, che non trascurano le emergenze». Prima che emergesse con forza questa diffusa e legittima ansia di sicurezza da parte dei cittadini italiani, accompagnata da una preoccupante diffidenza per ogni diverso percepito come potenziale criminale, ci sono stati anni in cui la vulgata politicall correct della sinistra ha angelizzato ogni devianza, salutato con ecumenico relativismo ogni flusso migratorio, pronta a rivolgere accuse di razzismo a chiunque parlasse della necessità di governare l’immigrazione. Non è un passo avanti però il fatto che il pregiudizio diffuso di sinistra sulle meraviglie del multiculturalismo, lasci oggi spazio pregiudizi di segno opposto.Va bene dunque la tolleranza zero verso l’immigrazione clande-
stina e verso i clandestini che delinquono; ma misure di emergenza richiedono un’intelligenza politica moltiplicata: non possono fondarsi sull’onda emotiva di fatti di cronaca nera peraltro sempre più frequenti e sempre più efferati. In questo senso la notizia diramata ieri dal Viminale che il ministro dell’Interno Roberto Maroni ha «seguito personalmente lo sviluppo dell’operazione contro l’immigrazione clandestina che ha portato all’arresto di oltre 400 persone lavorando in stretto contatto con il capo della Polizia» è magari utile a dare un segnale ai cittadini ma rischia nei toni usati dalla nota del Viminale di assomigliare troppo alle “brillanti operazioni di polizia” pubblicizzate dai telegiornali. Rischia in altri termini di dare l’impressione che i provvedimenti che in queste ore si dichiara di voler prendere siano più che il frutto di una riflessione politica e di una visione generale del problema il riflesso prolungato di una campagna elettorale giocata e vinta sulla sicurezza. Più strategica sembra l’idea dello stesso Maroni di prevedere nell’ambito del prossimo pacchetto sicurezza a un inasprimento delle pene per coloro che sfruttano gli immigrati, clandestini o non clandestini: un principio teso a riaffermare un criterio di legalità che non viene violato solo da chi è clandestino nel nostro Paese. L’impressione è comunque quella che un quadro d’assieme organico di provvedimento legislativi debba ancora comporsi su questo tema. Un invito a non dimenticare un pò di umanità nel governare l’emergenza viene infine dal Santo Padre. Benedetto XVI, ricevendo ieri mattina in udienza i partecipanti alla Pastorale per gli Itineranti ha ricordato che il ricongiungimento familiare dei migranti rimane un ’grave problema e che la famiglia, anche quella migrante e itinerante, costituisce la cellula originaria della società, da non distruggere, ma da difendere con coraggio e pazienza.
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polemiche
Si può fare non solo nel settore pubblico ma anche in quello privato: tutto ruota però intorno al famoso articolo 18...
Licenziare i fannulloni? Yes,we can.Ecco come di Giuliano Cazzola a questione dei licenziamento dei “fannulloni” è mal posta. In Italia non è impossibile licenziare soltanto i nullafacenti della pubblica amministrazione, ma i “fannulloni”tout court, anche se appartenenti al mondo del lavoro privato.
L
È sufficiente che il loro datore di lavoro occupi nella sua azienda un numero di dipendenti superiore alle 15 unità, e tanto basta per far scattare la tutela di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e che prevede la reintegra giudiziale nel posto di lavoro. Per avere una chiara percezione della realtà attuale è sufficiente compilare una rassegna
giurisprudenziale in materia e ci si accorgerà che i giudici sono di manica molto larga quando si tratta di sanzionare le mancanze del lavoratore dipendente. Certamente, nel pubblico impiego il livello di protezione è talmente raffinato e ampio da rasentare l’assoluta inamovibilità, anche nel caso di inadempienze gravissime. La differenze tra le due realtà cominciano dall’inizio. In un’azienda privata l’imprenditore ha un interesse diretto al buon andamento delle cose, che tuttavia si affievolisce man mano che le dimensioni dell’azienda diventano sempre più grandi. Mentre nella pubblica amministrazione i dirigenti, di fronte alle situazio-
ni più complesse da risolvere, si domandano spesso «a me chi lo fa fare?» e chiudono un occhio. Ma anche i più zelanti di loro sarebbero impotenti a operare in un contesto fatto di procedure, commissioni paritetiche di disciplina, burocrazie sindacali e quant’altro e che lega loro le mani. Diciamoci la verità: i dirigenti hanno in generale un potere nell’organizzazione degli uffici e nella gestione del personale che è solo teorico. La loro iniziativa prima o poi si imbatte in una rete di diritti che non possono essere messi assolutamente in discussione: c’è il dipendente che prende il permesso sindacale, la segre-
qualifica negative. Ecco un caso emblematico di come va il mondo. In un importantissimo ente previdenziale il capo del personale «spetta» da sempre a una delle tre sigle sindacali maggioritarie. Nell’agosto scorso in vista del pensionamento del titolare, è rientrato in servizio un dirigente che faceva parte della segreteria nazionale della funzione pubblica di quella confederazione. A settembre è stato nominato «vicario» del pensionando e adesso è pronto a prenderne il posto.
A chi chiede spiegazioni, gli amministratori dell’ente previdenziale rispondono che c’è stata una richiesta in tal senso
Per cambiare le cose si deve intervenire dalle fondamenta: per esempio estendendo la cassa integrazione guadagni agli statali e sfoltendo i troppi permessi sindacali
sottoposto alla giurisdizione ordinaria. Ma tutto si è risolto nel riconoscere il meglio dei due regimi: l’inamovibilità e la stabilità del pubblico e la flessibilità retributiva del privato. E sono stati istituiti Servizi di controllo interno che sono sepolcri imbiancati per dirigenti prossimi al pensionamento. Per venire a capo di tale situazione occorrono innovazioni profonde (non bastano quelle suggerite da Pietro Ichino) riguardanti non soltanto il pubblico impiego, ma tutto il mondo del lavoro. Bisogna lavorare sulle fondamenta se si vuole mettere ordine nei piani alti. Con la revisione dell’articolo 18 dello Statuto, innanzitutto. Con l’e-
RENATO BRUNETTA
MAURIZIO SACCONI
GINO GIUGNI
Il nuovo ministro della Funzione pubblica ha lanciato una campagna contro gli statali “fannulloni”. E ha chiesto ai sindacati di collaborare per rendere il settore più produttivo
Il neoministro del Welfare da anni suggerisce di rendere meno stringenti le norme del diritto del lavoro anche nel privato per aumentare la flessibilità e il livello di produttività
L’estensore dello Statuto dei lavoratori del 1970. È nelle sue norme che albergano tutte le rigidità che tutelano i “fannulloni” e non consentono di valorizzare chi produce meglio e di più
taria che si avvale di un qualche congedo per motivi familiari, l’altra che esercita il diritto allo studio o che prende qualche giorno di ferie.
Quando poi sorgono problemi, a difesa del “fannullone” interviene sempre un certificato medico, più o meno compiacente, che chiude ogni discorso e ogni tentativo di sanzione va a farsi benedire. Di conseguenza, è pura retorica quella di attribuire ai dirigenti la responsabilità per le disfunzionalità degli uffici. Nella pubblica amministrazione, poi, i dirigenti fanno carriera se sono sostenuti dai sindacati. Altrimenti rischiano di passare tutta la vita a rimestare scartoffie con note di
proveniente direttamente dal leader di quel sindacato. Così Cgil, Cisl e Uil cogestiscono il potere amministrativo e si spartiscono le nomine anche delle figure apicali. Il sindacalismo radicale di base, dal canto suo, prospera nella difesa intransigente e a qualunque costo dell’intangibilità dei lavoratori. Può essere cambiata questa realtà? È quasi impossibile. Non si è mai riflettuto abbastanza su un dato di fatto. Nella pubblica amministrazione sono state fatte – per quanto riguarda lo statuto e la gestione del personale – riforme importantissime negli anni Novanta. Il rapporto di lavoro è stato non soltanto contrattualizzato, ma «privatizzato» e
Difficile accusare i dirigenti: non hanno strumenti per controllare o per infliggere sanzioni agli sfaticati. Avrebbero invece bisogno di un budget ad hoc per premiare i migliori
stensione della Cassa integrazione guadagni al pubblico su richiesta dei dirigenti e con lo sfoltimento del pacchetto dei diritti sindacali (ci sono più di tremila distaccati: sindacalisti a tempo pieno pagati dalle amministrazioni).
Infine, va previsto l’affidamento di un budget per aumenti di merito a discrezione dei capi degli uffici, il cui impiego sia verificabile in occasione del conseguimento dei risultati (con le relative ricadute sull’ammontare delle retribuzioni dei dirigenti stessi). Insomma si deve ricostruire un potere gerarchico affidabile ed efficiente. Ammesso che sia possibile. Del che dubitiamo.
politica
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Pax provvisoria nel Pd riunito a Roma. Marini propone di sospendere le ostilità per un paio d’anni
«Non ci scorniamo fra noi, per ora» d i a r i o
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Senato, fiducia al Governo Con 173 sì, 137 no, 9 assenti e 2 astenuti, il governo Berlusconi ha incassato la fiducia anche a Palazzo Madama. Tra i senatori a vita, sono assenti al voto Carlo Azeglio Ciampi, Rita Levi Montalcini, Oscar Luigi Scalfaro. Non c’è anche il senatore a vita Sergio Pininfarina che nella precedente legislatura non ha quasi mai partecipato alle votazioni. Emilio Colombo si è astenuto. Giulio Andreotti ha votato a favore, così anche Francesco Cossiga (che subito dopo ha attaccato Maroni).
Berlusconi, dialogo continuo con il Pd «C’è un clima nuovo di rispetto reciproco», ha detto Berlusconi parlando al Senato, «È stato un dibattito in cui tutti sono entrati nel merito e nessuno ha fatto attacchi personali. Mi ha fatto sentire che è possibile un sogno di una democrazia bipolare». Quanto all’opposizione, il premier ha auspicato «che il dialogo e il confronto possano continuare a svolgersi, alla luce del sole, senza sospetti e intrighi consociativi». Con Veltroni, ci saranno «incontri continui». Accolta infine la proposta avanzata dal senatore del Pd, Enrico Morando, di istituzionalizzare il ruolo dell’opposizione nel Regolamento del Senato.
Susanna Turco
ROMA.
Più che una analisi approfondita, nel suo intervento al coordinamento nazionale del Pd Walter Veltroni fa un ripasso del già noto. Aggiunge qualche precisazione, decisiva soprattutto sul fronte interno, per quel che riguarda alleanze e dialogo con la maggioranza, per il resto si dedica a un riassunto - non particolarmente autoindulgente ma decisamente non autoflagellante - di ciò che ha portato alla sconfitta elettorale e di quel che andrà fatto nel prossimo futuro. Manca, sottolinea Parisi, il «riconoscimento della gravità della sconfitta subita», ma i più cercano di non pensarci.
È infatti nel momento in cui Massimo D’Alema si ferma a parlare lungamente coi giornalisti, sulla terrazza assolata della sede della Margherita-Pd, che arriva la prova del nove già subodorata in questi giorni: la stabilizzazione è arrivata. Non definitiva, quanto lungimirante non si sa, ma c’è. La curva più difficile, soprattutto per la dirigenza veltroniana, sembra bene o male superata. Non che sia un punto alto della vita del partito, comunque è meglio di niente. Si pensa al domani. «Ho trovato convincente il discorso diVeltroni», dice infatti D’Alema, «anche su questioni come le alleanze e la vocazione maggioritaria, ha dato delle risposte equilibrate e convincenti». Bene «l’indicazione che lui ha dato sulla costruzione del partito, sul radicarlo nella società e condurre una opposizione chiara, ferma, civile». Bene anche il capitolo su Italianieuropei e affini: «L’ho apprezzato sul rapporto tra partito, fondazioni e associazioni
ha riconosciuto l’importanza e la necessità di queste iniziative che non possono essere considerate in alcun modo fatti di corrente o di gruppo». Insomma, conclude l’ex ministro degli Esteri, «ci sarà molto da lavorare» ma «questa è una buona partenza che può essere condivisa».
Superate le polemiche sulle correnti. Superate le divergenze su alleanze, autosufficienza e vocazione maggioritaria del Pd. Superati anche i bocconi amari e le perplessità relative al governo ombra.Tutto alle spalle, per ora. Mirabile la sintesi di Fran-
Al coordinamento nazionale, Veltroni benedice le fondazioni, D’Alema benedice il segretario. Parisi: «È mancato il riconoscimento della gravità della sconfitta» co Marini: «Ciò che si doveva fare è stato fatto. Ora, per un paio d’anni almeno, sospendiamo, chiudiamo le ostilità. Poi se vogliamo le riapriamo, ma ora sospendiamole. Diamo il segno che la sconfitta non ci ha sfibrato, che non ci scorniamo tra di noi».
Ecco, non ci scorniamo. In questa prospettiva, visto anche il sostegno esterno alla leadership veltroniana fornito dall’atteggiamento di Berlusconi, il segretario del Pd ha buon gioco nel comporre l’alternativa «fal-
Finocchiaro: «Bene, ma le differenze restano» sa» tra «l’astratta pretesa» di autosufficienza del Pd e avvio di una politica di alleanze («per la costruzione di convergenze politico-programmatiche») che guardi verso la sinistra, ma anche verso il centro secondo il modello del partito egemone che aggrega i partitini. A spiegare che certo, il Pd ha perso ma poteva andare molto peggio («abbiamo risalito la china rispetto al picco di un anno fa») e che comunque «guai a voltarsi indietro». A chiarire che «dialogo sì, consociativismo no», perché «noi siamo per il dialogo con la maggioranza sulle regole del gioco» ma sulle scelte programmatiche faremo «un’opposizione scomoda, competente e propositiva».A puntualizzare che nessuno ha mai aspirato a creare un partito liquido e che piuttosto si tratta di fare un «partito aperto» e «radicato» nel territorio. Ben disposto, comunque, verso tutti gli apporti che possano venire da istituzioni, fondazioni e quant’altro.
Ultima, ma non ultima, la ciliegina sulla torta del barocchismo organizzativo: il coordinamento ristretto, che dovrà coordinare l’attività del partito e quelle del governo ombra. Ne faranno parte tre ministri ombra (Fassino, Bersani, Letta) tre responsabili di area (Gentiloni, Fioroni, Tonini), il vicesegretario Franceschini, il coordinatore Bettini, i capigruppo Soro e Finocchiaro. Manca D’Alema. Manca Marini. E manca, come sottolineava Parisi, una riflessione vera sulla sconfitta. Ma oggi Veltroni vede Berlusconi a pranzo, e per il Pd che non si vuole scornare è un altro giorno.
Sì al confronto e al dialogo, ma tenendo ben presente le differenze e ricordando il comportamento poco dialogante tenuto da Berlusconi nel corso della campagna elettorale. Così nella sua dichiarazione di voto Anna Finocchiaro, presidente del gruppo Pd al Senato.Che alla fine ha promesso a Berlusconi «un’opposizione asciutta, senza svolazzi, ma pur sempre opposizione». «Brava», ha risposto Berlusconi.
Casini: «Per le Europee soglia al 3%» Per le prossime europee andrebbe bene uno sbarramento al 3%, afferma il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. «Se si mette uno sbarramento più alto per impedire l’accesso a Rifondazione o agli altri partiti della sinistra - afferma - non sarebbe un bello spettacolo». «Berlusconi e Veltroni sono passati dalla demonizzazione dell’avversario al bacio, forse si può trovare una via di mezzo. La normalità vuole che ci sia rispetto e distinzione di ruoli».
Procreazione, «Cambieremo le linee guida» «La volontà di questa maggioranza è di cambiare la circolare della Turco che in quanto circolare non può modificare una cosa che il Parlamento italiano ha approvato e un referendum popolare ha confermato». Lo ha annunciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Carlo Giovanardi, che ha la delega alla Famiglia. Per quanto riguarda l’uso di sostanze stupefacenti: «Drogarsi è illecito: come non è consentito inquinare l’ambiente, non si può consentire che la gente si inquini dentro», ha detto Giovanardi spiegando di essere favorevole a ripristinare il dipartimento «smantellato due anni fa».
Brunetta: «Via all’operazione trasparenza» «Nella prossima settimana sarà messo sul sito del ministero della funzione pubblica non solo la struttura ma anche anche i curriculum, le email e le funzioni dei dirigenti e dei funzionari. Con l’ok del Garante della privacy faremo un’operazione trasparenza», ha annunciato il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta.
pagina 6 • 16 maggio 2008
politica
A trentaquattro anni dall’attentato, dopo due processi finiti con assoluzioni, ora sotto accusa il suocero di Alemanno
Strage di Brescia, Rauti rinviato a giudizio di Nicola Procaccini l 28 maggio del 1974 a Brescia la primavera declinava imprevedibilmente in una giornata fredda e piovosa. In Piazza della Loggia diverse centinaia di persone partecipavano ad una manifestazione antifascista indetta dai sindacati locali. Quando scoppiò la bomba collocata nottetempo da mani ignote in un cestino dei rifiuti, tutti coloro che si trovano nelle immediate vicinanze non alcuno ebbero scampo. Otto persone furono dilaniate dall’esplosione, altre novantaquattro restarono ferite, molte di loro in maniera gravissima e permanente. Fu strage, una delle peggiori nella lunga notte della nostra Repubblica. Una strage impunita, come molte altre: da Piazza Fontana alla stazione di Bologna, al DC9 di Ustica. Tanti processi, molti imputati, migliaia di udienze, nessun colpevole. Eppure ieri, 15 maggio 2008, a meno di due settimane dal trentaquattresimo anniversario della carneficina di Piazza Della Loggia, sei uomini sono stati rinviati a giudizio come responsabili in maniera diretta o indiretta nel compimento dell’eccidio. Fra questi c’è Pino Rauti, il suocero di Gianni Alemanno, l’attuale sindaco della capitale d’Italia. Gli altri imputati sono Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Maurizio Tramonte, Giovanni Maifredi e l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino. La prima udienza del processo è stata fissata per il 25 novembre del 2008. La procura di Brescia ha dunque ottenuto il via libera al dibattimento, la tesi accusatoria attribuisce ad Ordine Nuovo, il movimento politico fondato da Pino Rauti nel 1956, la responsabilità della strage.
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brerà un processo destinato a suscitare inevitabili polemiche. Prima di raccontare il percorso giudiziario della vicenda da allora ad oggi, vale la pena ricordare che per il reato di strage non esiste prescrizione. I manuali di diritto penale spiegano che essa determina l’estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. Il motivo è chiaro ed inesorabile: quando passano troppi anni diventa impossibile, anzi pericoloso ricostruire gli avvenimenti accaduti, onde giudicare sui colpevoli di un reato. I testimoni dimenticano, a volte muoiono, il contesto si modifica in modo irreparabile e la ricostruzione puntuale della realtà diventa un’impresa. Ci si può soltanto affidare ai pentiti, ai loro ricordi, alle loro convenienze, ed è quello che hanno fatto i giudici di Brescia. Alla sbarra, insieme ad altri, finirà Pino Rauti, un noto protagonista della destra italiana, un intellettuale brillante, ma anche un personaggio controverso indagato in quasi tutte le stragi degli “anni di piombo”, e persino nel Golpe Borghese, eppure riconosciuto estraneo da ogni episodio contestatogli. Negli anni ’70 Rauti divenne
Una strage impunita, come molte altre. Tanti processi, molti imputati, migliaia di udienze, nessun colpevole
A 34 anni di distanza da quel giorno di sangue si cercherà di ricostruire la dinamica dei fatti, si interrogheranno dei testimoni, si cele-
Pino Rauti, 82 anni, giornalista e scrittore fu segretario nazionale del Movimento Sociale Italiano. Partecipò alla sua fondazione verso la fine del 1946. Nel 1954, dopo la vittoria dei cosiddetti ”fascisti in doppiopetto” e la nomina a segretario di Arturo Michelini, diede vita al centro studi Ordine Nuovo. Rientrato nel Msi con Giorgio Almirante, non aderì alla svolta di Fiuggi nel 1994 e fondò il Movimento Sociale Fiamma Tricolore. Sua figlia Isabella ha sposato Gianni Alemanno.
una sorta di reietto nazionale, veniva sistematicamente cacciato dagli alberghi e dagli autogrill di mezza Italia. Le due figlie Alessandra ed Isabella, futura moglie del sindaco di Roma, erano costrette ad usare il cognome della madre per iscriversi a scuola, ma ogni volta che venivano scoperte dovevano trasferirsi di nuovo. Accusato di essere il leader del terrorismo neofascista, Rauti divenne il bersaglio n°1 del terrorismo comunista. Nonostante tutto, uscì indenne da quegli anni. Nella strage di Brescia Rauti è stato coinvolto solo recentemente. Nell’immediatezza del fatto, le piste d’indagine furono due e nessuna portò a lui. La prima riguardava un gruppo di giovani della Brescia bene con spiccate simpatie neofasciste. Il processo a loro carico si aprì immediatamente, ma si concluse 13 anni dopo, nel settembre del 1987, con la Corte di Cassazione che confermò la sentenza di assoluzione in appello. In primo grado erano stati condannati all’ergastolo. La seconda pista venne aperta in seguito alle rivelazioni di alcuni pentiti e portò all’incriminazione di alcuni espo-
politica
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Il magistrato Lupacchini: «Da capire se sono state scandagliate tutte le piste»
«È ora di aprire gli archivi di Stato» colloquio con Otello Lupacchini di Irene Trentin
ROMA. Trentaquattro anni dopo la strage di Piazza della Loggia a Brescia è arrivata la notizia del rinvio a giudizio di sei imputati accusati dell’attentato.Tra questi anche Pino Rauti. Per il magistrato Otello Lupacchini, che ha seguito alcuni gravi fatti di cronaca come la strage di Bologna e la strage brigatista di via Prati di Papa, «è arrivato finalmente il momento di aprire gli archivi di Stato». Trentaquattro anni non sono tanti? Certo, ma non è mia intenzione entrare nel merito delle accuse, per rispetto ai protagonisti dell’instaurando processo. Mi limito a constatare gli esiti delle altre inchieste che si sono susseguite sulla strage del 28 maggio, tutte conclusesi con l’assoluzione degli imputati. È compito del processo, comunque, verificare se sono stati raccolti tutti e nel rispetto delle regole gli elementi per sostenere la fondatezza dell’impianto accusatorio. Non potrebbe esserci anche il rischio di strumentalizzazioni dato che Rauti è il suocero di Alemanno? Mi rifiuto di pensarlo: sarebbe la prova della catastrofica fine dello Stato di diritto. Mi auguro che le prove su cui si pretende di fondare l’accusa siano state raccolte da molto tempo, poiché, per la credibilità dell’ordinamento giuridico, sarebbe gravissimo il contrario. Secondo l’accusa, Rauti in quanto all’epoca fondatore di Ordine nuovo «non poteva non sapere»… Finora tutte le principali stragi avvenute fra la fine degli anni ’60 e i primi ’80 sono state interpretate come stragi di matrice fascista. Oltre alla strage dell’Italicus, la strage di Bologna è l’unica in cui si è pervenuti ad alcune condanne: si è affermata la penale responsabilità di Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, ma non ne è stato spiegato il movente e non ne sono mai stati individuati i mandanti. Quanto alla cosiddetta strage di Natale, si è visto com’è finita: subito qualificata fascista, alla fine è risultato essere stata commessa da Cosa Nostra, per accreditare un rigurgito terroristico e allontanare da sé l’attenzione giudiziariopoliziesca. C’è il rischio che logiche di contrapposizione influenzino il processo? Per i processi ci sono regole precise. L’istruttoria si pone come obiettivo la verità ricercata attraverso determinate regole per evitare giudizi parziali, perché influenzati da altri fattori. Non è detto, insomma, che chi viene condannato sia necessariamente colpevole o chi assolto per forza innocente. È lo scandalo del processo. Alcune stragi rimarranno impunite?
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Il compito di ricostruire la verità spetta alla storia: gli storici hanno maggiore libertà di acquisire e valutare tutti gli elementi. Per questo è importante arrivare a una storia condivisa, non come risultato, ma come metodo di ricerca non condizionato da pregiudiziali ideologiche. Per la strage di Bologna, ad esempio, si è subito affermata la matrice fascista e tutto il processo si è incaricato di dimostrare questa tesi, lasciando uno strascico intollerabile di dubbi e sospetti. Non è andata diversamente per la strage di Piazza Fontana. Difficile ristabilire la verità? Probabilmente occorre un tipo di approccio più razionale. Considerare che le stragi non sono stati eventi occasionali e scollegati tra di loro, ma il frutto di una strategia precisa che va ricostruita tenendo conto sia delle analogie sia delle specificità, per coglierne le motivazioni diverse, all’interno di una stagione di tensione e terrore, iniziata subito dopo la fine della guerra con l’eccidio di Portella della Ginestra fino alla strage di via dei Georgofili e quelle di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma del ’93, passando per le stragi di Capaci e di via d’Amelio. Crede che le ferite si rimarginino? Potrà rimarginare solo se cesseranno le strumentalizzazioni del dolore e del sangue versato. A quando una memoria condivisa? Soltanto quando si accetteranno le persone per quello che sono col loro bagaglio di formazione, il loro passato e il loro presente, senza lasciarsi sopraffare da logiche di contrapposizione. È la tolleranza, nel senso più nobile dell’espressione, il catalizzatore dell’armonia fra gli uomini e dell’abbandono della faziosità. La nuova legislatura sembra andare in questa direzione… Giudico positivo questo nuovo avvio di legislatura, mi è sembrato di cogliere un clima diverso. Occorre cercare di non farsi sfuggire l’occasione favorevole. Anche di lavorare insieme per ristabilire la verità? Lolta parte della verità del nostro Paese è nascosta dentro gli archivi di Stato. È arrivato il momento di trovare il coraggio di aprirli, facendo attenzione a esaminarne il contenuto perché non possiamo sapere se consentirà di stabilire la verità o fornire a sua volta una verità precostituita. Finora non sono stati aperti per non rischiare di minare le basi della democrazia... La democrazia ha sufficienti anticorpi per sopportare la conoscenza del passato. E, in ogni caso, chi cerca di sfuggire al passato non ha futuro davanti a sé.
Non voglio credere che questa decisione sia legata all’elezione del sindaco a Roma. Sarebbe la fine dello Stato di diritto
nenti della destra milanese. I nuovi imputati della strage vennero assolti nel novembre del 1989.
L’inchiesta che coinvolge Pino Rauti ed altri, tra cui Delfo Zorzi, cittadino giapponese da molti anni, parte dalle rivelazioni del pentito Martino Siciliano rientrato in Italia nel 2003, dopo essersi dato alla latitanza trent’anni prima. Siciliano è un personaggio complesso ed un testimone chiave della strage di Piazza Fontana, ma il giorno fissato per la sua testimonianza scappò via, lasciando una lettera al suo legale per spiegare che il suo era un atto di protesta contro lo Stato che per la sua collaborazione gli dava ’’una miseria’’. Nel giugno del 2003 Siciliano viene arrestato a Milano e dichiara agli inquirenti che la strage di Brescia è cosa di Ordine Nuovo, quindi anche di Rauti. ON nacque in seguito alle fratture createsi in seno al congresso di Viareggio
del Movimento Sociale Italiano. Pino Rauti, deluso dalla vittoria di Michelini ed amareggiato dalla deriva centrista del partito, decise di allontanarsi dalle scene politiche effettive, creando in seno al movimento il Centro Studi Ordine Nuovo, apparato “evoliano”di analisi e di approfondimento. Quando Giorgio Almirante vinse il congresso nel 1969, Rauti insieme a Giulio Maceratini ed altri rientrò nel partito, ma questa scelta provocò una lacerazione in ON. Alcuni ordinovisti si rifiutarono di aderire e nacque così il Movimento Politico Ordine Nuovo. Quindi Rauti era già fuori dal movimento 5 anni prima della strage di Brescia. Ciononostante, i giudici di Brescia lo ritengono il mandante ideologico del massacro del 1974. Non sarà facile per i giudici ricostruire i fatti di allora e trovare conferme alle rivelazioni dei pentiti, ma nel frattempo si potrà comunque vedere alla sbarra il suocero del sindaco di Roma. Una manna per molti: l’uomo nero degli anni ’70 è tornato.
Negli anni ’70 Rauti divenne una sorta di reietto nazionale, veniva sistematicamente cacciato dagli alberghi e dagli autogrill di mezza Italia
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il caso
Pansa racconta il suo ultimo libro: stavolta ha scelto lo stile narrativo
«Resistenza, ecco il romanzo delle bugie» colloquio con Giampaolo Pansa di Pier Mario Fasanotti segue dalla prima A poco a poco, tra mille diffidenze, scoprimmo che migliaia di feroci esecuzioni, anche a guerra conclusa, erano da attribuire agli squadroni della morte dei rossi, con la vendetta nel sangue. Scoprimmo le beghe, spesso miserevoli, all’interno del grande apparato della Resistenza. Scoprimmo che quelli col fazzoletto rosso a volte si odiavano e si ammazzavano tra di loro. L’affresco storico di Pansa supera gli ipocriti steccati di una certa storiografia, descrive, come lui stesso ci dice, «la popolazione civile, la gente che non si era schierata con nessuno dei due fronti in lotta, quella che De Felice aveva chiamato “la grande zona grigia” della guerra civile italiana. Grigia perché diversa dal nero e dal rosso, i colori di chi si era scannato per venti lunghi mesi». Oggi quel dolore, quello spaesamento, quelle anime turbate e minacciate negli affetti familiari emerge sotto forma di romanzo. Anzi, di romanzo storico visto che accanto a una trama inventata si muovono personaggi veri. La prova narrativa di Pansa, I tre inverni della paura (Rizzoli, 567 pagine, 21,50 euro, in libreria dal 20 di questo mese) è appassionante, ben costruita e coniuga con maestria i moti del cuore con i dati storici. Si svolge nel cuore del “triangolo della morte”, ossia nell’Emilia agraria, povera e istintivamente feroce dietro una bonomia di facciata. All’autore, che oggi vive e lavora tra il Senese e Roma, abbiamo rivolto alcune domande. Pansa, lei ha a disposizione una documentazione sterminata. Lei ha anche parlato con testimoni e sopravissuti. Ma credo, visto che è nato nel 1935, che alle sue spalle ci sia un archivio, per così dire, del cuore… Certo. La mia famiglia viveva nel centro di una piccola città piemontese, Casale Monferrato. Senza essere esposti ai rischi di chi abitava in campagna o in montagna. Ma pure
noi, di notte, sentivamo sparare di continuo attorno alla Casa del Fascio. La nostra strada aveva visto sfilare i partigiani destinati alla fucilazione e, insieme, i funerali dei fascisti caduti negli agguati della guerriglia. La paura dunque ha bussato anche alla nostra porta. Ricordo i momenti in cui io e mia sorella eravamo al balcone. Ho ancora nelle orecchie quei boati spaventosi. I nostri occhi si volgevano spesso al cielo in attesa dell’aereo che tutti chiamavano Pippo, quello
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guerra. Su quel periodo e su quella zona dell’Italia centrale che conosco molto bene ho scritto tanti libri. Ma non eri mai riuscito a rendere quell’atmosfera di paura. Questo romanzo raggruma quel doloroso disorientamento, quella continua minaccia. Era guerra vera anche per coloro che, per età o perché donne, non indossavano una divisa. Io ricordo che noi bambini eravamo in qualche modo protetti dai bombardamenti. Ma mentre giocavo con mia sorella, vede-
Il mattatoio c’è stato in tutte le regioni italiane. In particolare in Emilia le formazioni partigiane garibaldine erano dominanti. Erano numerosi i militanti del Pci clandestino degli alleati anglo-americani. Volava solitario e sganciava bombe. Il suo romanzo s’incentra, io direi finalmente, sulle vicende di chi non andò al fronte o nella boscaglia per sparare ai nemici. Un’epopea dei vinti senza divisa… La storia di Nora, che si ispira a un fatto storico ben preciso, riassume tutto lo smarrimento delle donne che vedevano entrare in casa la
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vo i ponti di Casale crollare sotto le bombe, avvertivo il terrore pazzo di chi ci stava attorno. Eravamo sfollati a otto chilometri da casa, in una vecchia cascina. Ho bene impresso nella memoria il panico di una mia zia che pensò di morire quando fu fermata in due posti di blocco, uno dei fascisti e uno dei comunisti. Attorno a noi c’era un mattatoio. Pare che l’odore del sangue sia stato più acre in Emilia-Romagna… Il mattatoio c’è stato in tutte le regioni italiane. Nel centronord, in particolare in Emilia, le formazioni partigiane garibaldine erano dominanti. Erano numerosi i militanti del Pci clandestino. Per anni e anni Reggio Emilia è stata la roccaforte del Pci e la zona più rossa d’Italia. Quella è terra delle leghe
dei contadini prima dell’avvento di Mussolini. Il granaio socialista era gonfio. Il Reggiano era molto povero, paragonabile al Polesine. Nello stesso tempo c’era il capitalismo agrario. Nel romanzo questo emerge bene, quando a casa Iotti, uno dei protagonisti, si riuniscono i possidenti per discutere i patti da siglare con i contadini e i mezzadri. Attorno c’era un cordone umano minaccioso. Nel suo libro si accenna ai sospetti attorno alla fine dei fratelli Cervi. Fucilati dai fascisti, questo è appurato. Ma lei ha raccolto delle
il caso voci che non fanno proprio piacere alla versione ufficiale… A Reggio si è sempre mormorato su questo fatto. I Cervi erano stati i primi a formare una banda partigiana. All’apparato militare del Pci questo dava un po’fastidio perché ne minava la supremazia. Ai sette fratelli venne dato l’ordine di abbandonare l’Appennino e di agire in pianura. E loro risposero no. Aggiungendo, secondo alcune voci: siamo noi i veri partigiani, noi rimaniamo qui e non vi riconosciamo come capi. C’è il sospetto che la loro morte facesse comodo a qualcuno di importante? C’è, eccome. È comunque un fatto che un ufficiale della milizia fascista diventò partigiano ultrarosso. I Cervi non furono gli unici. Lei, e non solo nel romanzo, fa cenno ai fratelli Govoni. Una storia terribile e poco conosciuta.
sta disse: sfogatevi, ma dopo il ’48 non voglio più vedere morti per strada. E De Gasperi, che aveva formato un governo con Togliatti dal 10 dicembre 1945 al primo luglio ’46? Nel romanzo cito una sua frase, che davvero lui pronunciò dinanzi a un alto prelato: “Oggi con i comunisti, domani senza di loro, dopodomani contro di loro”. Molta gente pare ancora ignorare le scomodissime verità che lei ha descritto. Mi riferisco a certi politici e storici che non prendono atto della complessità della nostra guerra civile. Come mai? No, non “molta gente”, come dice lei. C’è comunque un accanimento quasi assurdo di alcuni accademici, ma la loro cecità culturale io la considero minoritaria nell’opinione pubblica e anche nelle scelte
I FRATELLI CERVI Erano stati i primi a formare una banda partigiana. C’è il sospetto che la loro morte facesse comodo a qualcuno di importante? C’è, eccome.
Erano sette giovani uomini e una ragazza incinta. Furono bastonati, massacrati. Opera di sadici, nel quadro della spaventosa resa dei conti del dopoguerra. Il conflitto mondiale s’era ufficialmente concluso, ma pareva che certe storie da noi non dovessero finire mai. Si ammazzava anche nel 1946, si continuava a vivere tra le fiamme di una lotta interna. Contadini, artigiani, professionisti, donne, preti, persone in odore di vaghe simpatie fasciste. Siamo sicuri di conoscere tutte le vittime della vendetta rossa? Assolutamente no. Molte famiglie non sanno dove pregare i loro cari. Dispersi, introvabili. Furono scoperte fosse comuni. Ma non tutte. Non mi meraviglierei che numerosi morti siano sotto i condomini edificati dopo. La domanda più ovvia: perché? C’era un’omertà diffusa. Gli ordini del partito comunista andavano nella direzione del silenzio. Noi giornalisti sappiamo bene che la prima vittima della guerra è la Come verità. scrisse Franco Antonicelli,l’apparato comuni-
elettorali. In ogni caso non capisco perché si continui a sostenere che sono stati i partigiani da soli a liberare l’Italia occupata dai nazisti affiancati dai fascisti. Non è così. Il nostro Paese ha riconquistato la libertà e la democrazia soprattutto grazie ai sacrifici degli americani e degli inglesi che, nella lunga campagna d’Italia, hanno visto morire in battaglia decine di migliaia di loro giovani. Insieme a soldati francesi, canadesi, sudafricani, indiani, nepalesi, angerini, marocchini, senegalesi e volontari della Brigata Ebraica. Sono molte le cose che la indignano, vero? Sì. Non capisco perché si continui a sostenere che la guerra civile è stato un confronto tra angeli (i partigiani) e i diavoli (i fascisti della Repubblica Sociale Italiana). Le guerre sono sempre sporche. Quelle civili lo sono ancora di più. La mia patria morale è da sempre la Resistenza. Ma non accetto la retorica falsa per cui da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. La sinistra che afferma ancora questa grande bugia reca solo danno a se stessa. E andrà incontro a nuove sconfitte, perché un’opinione pubblica sempre più larga rifiuta questa lettura della guerra civile.
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”I tre inverni della paura” inaugura un nuovo genere
Il revisionismo letterario di Angelo Crespi ncuriosisce la scelta di Giampaolo Pansa di scrivere un romanzo dedicato alla guerra civile che ha sconvolto l’Italia tra il 1943 e il 1948. Non fosse altro che anche i suoi precedenti,“scandalosi”saggi storici sul tema, per esempio Il sangue dei vinti (2003), erano stati criticati perché, seppur densi di ricerche, avevano pur sempre una cornice fiction, essendo strutturati in forma di dialogo tra l’autore e una sorta di doppio espresso nella figura di una giovane bibliotecaria. In quest’ultimo, I tre inverni della paura (in uscita per Rizzoli editore), Pansa opta definitivamente per la narrazione, riutilizzando in maniera diversa e più accattivante l’immensa documentazione acquisita negli anni di studio. La questione non è secondaria: l’opera di revisionismo sulla Resistenza, intendendo il termine“revisionismo”nella più nobile accezione, è stata portata a termine con successo. Ne è prova, non solo le centinaia di migliaia di copie vendute da Pansa, ma anche il dibattito scaturito, le polemiche furibonde con le quali la sinistra postcomunista ha cercato di screditare l’autore e minimizzare le tesi esposte che andavano a colpire il cuore dell’antifascismo militante.
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Determinante non è stata la novità dell’approccio storiografico, né qualche sensazionale scoperta, bensì – è bene ricordarlo – l’autorevolezza di cui gode Pansa nel mondo dell’intellighenzia di sinistra. Per la prima volta dopo sessantanni dalla fine della Guerra mondiale, un intellettuale non di destra, con una raffinata opera di divulgazione, smontava pezzo dopo pezzo la vulgata resistenziale su cui si è incardinata la Prima Repubblica e su cui poggiava la pretesa superiorità morale del comunismo nei confronti delle altre ideologie nefaste del Novecento. Se l’opera di revisionismo nel mondo degli studiosi e del pubblico più attento è dunque completa, manca un tassello fondamentale per poter ricostruire una memoria condivisa: cioè smontare il sentimento collettivo su cui poggia la liturgia della Resistenza, codificata da storici ideologizzati, ma fortificata attraverso generi narrativi più consoni alla mitografia, quali il romanzo, il cinema, il teatro, la musica e da ultimo la fiction. Appare dunque sensato lo slittamento di Pansa dalla storia raccontata al romanzo tout court; in questo caso l’autore ha la possibilità di incidere nei livelli profondi della psiche collettiva, proponendo ad un pubblico più vasto, (potenzialmente l’intera collettività se per caso ne verrà tratto uno sceneggiato televisivo) un’adesione sentimentale alle vicende esposte, e dunque un’edesione meno razionale, però definitiva poiché generata attraverso la compassione che suscitano i personaggi. Così facendo, Pansa raggiunge un altro obbiettivo: che è quello di raccontare la cosiddetta“zona
grigia”degli italiani indecisi, e anche all’interno delle ideologie sul campo (fascismo, comunismo, nazismo) capire le scelte dei singoli, perfino giustificare gli sbagli, cioè in definintiva spiegare come la Storia con la“S”maiuscola si intersca con la storia personale di ogni singolo uomo messo davanti alla scelta tra bene e male.
La trama è presto detta: sullo sfondo delle colline emiliane, Pansa ricostruisce una sorta di saga familiare borghese che sconfina a tratti nell’epica, intesa come genere capace di illuminare i movimenti collettivi di un popolo. Al centro della vicenda una giovane donna, Nora Conforti, figlia di possidenti terrieri, è il fulcro attorno al quale si dipanda il filo della guerra civile, coi suoi odi, i rancori, le vendette. Nora Conforti, attraverso la famiglia, gli amici, i giovanili amori, e poi la relazione coi mezzadri e i fattori, è l’emblema di come fu dilaniata in quel periodo di assurda mattanza l’Italia, di come la guerra divise i fratelli, le famiglie, i paesi, in un modo così straziante che ancora oggi si fatica a trovare un senso. E qui sta la felice intuizione di Pansa: proprio perché il romanzo permette di chiaroscurare le vicende, di comprendere meglio le colpe e i colpevoli, di realizzare come il male e il bene fossero ugualmente distribuiti nelle fazioni in lotta. L’uccisione per vendetta a guerra finita di Nora, ventiquattrenne madre di due figli, resta il punto più drammatico e insensato. Come inutile e insensata, appare la vendetta che colpisce l’omicida a sua volta barbaramente freddato per futili motivi da un ex compagno partigiano, scena con la quale cala il sipario. Non sarà certo questo l’ultimo capitolo di un controverso dibattito storiografico che persiste da decenni. Ciò nonostante, dobbiamo ringraziare Pansa per aver contribuito a depotenziare molti luoghi comuni sedimentati nella storia patria. Oggi è chiaro che la Resistenza fu altro da quello che ci hanno raccontato: innanzitutto la Resistenza comunista è solo una sineddoche falsante di un più ampio movimento di liberazione che comprese cattolici, liberali socialisti e militari fedeli alla monarchia. Secondo che i comunisti avevano fini altri (la rivoluzione del proletariato) rispetto a quelli tramandati dagli agiografi (libertà, unità, responsbilità).Terzo che, specialmente, i partigiani comunisti si macchiarono a guerra conclusa di colpe orribili, paragonabili a quelle dei fascisti, uccidendo per vendetta migliaia di uomini, spesso innocenti. Quarto che su una errata percezione della Resistenza e dei valori dell’antifascismo si è fondata la Prima Repubblica italiana, con tutti i limiti di rappresentanza culturale e politica che ancora oggi impediscono una definitiva ricomposizione in chiave patriottica della nostra recente storia.
Pansa è riuscito a smontare la vulgata resistenziale su cui era incardinata la Prima Repubblica
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mondo
nalisti e osservatori di tutto il mondo hanno continuato nell’ultimo periodo a interrogarsi e a dilettarsi in esercizi di cremlinologia sull’inedita configurazione che ha assunto il vertice del potere in Russia. L’incertezza delle analisi occidentali è stata ben riassunta dalla dichiarazione di un diplomatico: «In caso di una crisi grave e improvvisa, a chi dovremo telefonare? Al presidente o al primo ministro?». A sua volta, prima del 7 maggio, confessava la sua impotenza la nota analista Liliya Shevtsova: «Non siamo in grado di dare una risposta alla nostra domanda favorita: “chi comanda?”. Semplicemente, non lo sappiamo». La transizione dei poteri presidenziali da Vladimir Putin a Dmitrii Medvedev ha infatti aperto degli scenari inediti per il Paese slavo e ortodosso. Nella storia russa la diarchia al vertice del potere è un fenomeno raro. Vedomosti ha sottolineato che un rapporto paritario fra i due è semplicemente fuori questione. In termini costituzionali, Putin è subordinato al presidente federale. Di fronte alla popolazione, Medvedev non ha il prestigio di Putin.
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Se teniamo presente il dato storico e culturale, non dovrebbe importare quanto eventualmente debole possa essere chi siede al Cremlino: la tradizione del potere lo fa essere l’uomo più forte. Sarà così anche questa volta? Diversi segnali suggeriscono una risposta diversa. Nel periodo immediatamente precedente il passaggio dei poteri sono stati attuati una serie di cambiamenti che testimoniano di una redistribuzione dolce, di uno slittamento del luogo chiave del potere. Ad esempio, il 28 aprile Putin, ancora presidente, ha promulgato un decreto che trasferisce il controllo sui governatori al primo ministro. Il Centro russo sulle politiche attuali ha subito osservato: «Per la prima volta nella storia della Russia post-sovietica il lavoro del primo ministro viene trasformato da compito tecnico a vero centro decisionale». La cerimonia di presentazione del governo è stato un evento molto coreografico, con Medvedev che approvava la lista presentatagli e faceva sapere che Putin vi aveva lavorato per due mesi. Alla riunione del governo, il nuovo primo ministro ha sostenuto di avere agito con l’intento di rafforzare efficacia ed efficienza del governo, effettuando anche dei cambiamenti nelle strutture esecutive del potere. Fra le novità di maggiore interesse va indicata la nomina di Igor Shuvalov a primo vice ministro (nella gerarchia, allo stesso livello si trova solo Vik-
In Russia la diarchia del potere è solo formale
Un consiglio dei ministri molto “presidenziale” di Fernando Orlandi In alto: il primo ministro Putin parla alla Duma; in basso, sinistra: Igor Shuvalov e a destra Igor Sechin, i viceministri appena nominati
tor Zubkov, primo ministro fino a qualche giorno prima). Shuvalov è nato il 4 gennaio 1967 a Bilibino, nell’okrug della Chukotka. Bilibino è una piccola cittadina (qualche anno fa aveva circa 6mila abitanti) nel bacino della Kolyma, nell’estremo oriente della Russia, a 7mila chilomentri da Mosca. Una terra desolata. Bilibino, costruita nel 1955 dal regime sovietico, è nota perché ospita la centrale nucleare più a nord del mondo e per i problemi ambientali. Shuvalov, laureato in legge all’università Lomonosov nel 1993, in precedenza aveva aveva lavorato all’Ekos, un istituto di ri-
Un “trapianto di organi del potere”, così il quotidiano di Mosca Kommersant ha definito il nuovo esecutivo del Cremlino cerca legato ai militari. Subito dopo la laurea ha ottenuto un incarico al ministero degli Esteri, dedicandosi contemporaneamente anche ad attività private. Nel 1997 inizia la sua brillante carriera nello stato. L’anno successivo ricopre l’incarico di vice ministro della proprietà statale. Nel 2000 la
svolta: il 18 maggio è nominato alla testa dell’apparato governativo. Poi vice capo dell’amministrazione presidenziale e assistente del presidente per le questioni economiche.
Dal 2005 si occupa anche del G8: è lo “sherpa” russo. Nel suo nuovo incarico si occuperà di
molte faccende economiche (tra cui l’accesso all’Organizzazione mondiale del commercio). In qualche modo destinato a controbilanciarlo, sostengono alcuni osservatori, è Igor Sechin, nuovo arrivato al governo nella posizione di vice primo ministro, con competenze per la politica industriale e quella energetica. Sechin è un sodale di Putin fin dall’epoca di Leningrado (fu anche anche capo dello staff del futuro presidente all’inizio
degli anni Novanta), e la sua carriera è stata strettamente legata a quella del suo capo. Dal gennaio 2000 ha ricoperto l’incarico di vice capo dell’Amministrazione presidenziale. Una carriera che in qualche modo si è intrecciata a quella di Shuvalov, sebbene Sechin sia noto per le posizioni maggiormente oltranziste. Questi, infatti, al rispetto della Costituzione avrebbe preferito una terza ricandidatura di Putin e si sarebbe opposto alla scelta di Medvedev. In aggiunta a Sechin sono stati nominati altri quattro vice primo ministro: Sergei Sobyanin, già alla testa dell’Amministrazione presidenziale, è il nuovo capo dello staff; mentre Aleksandr Zhukov e Aleksei Kudrin sono stati riconfermati (quest’ultimo ha anche l’incarico di Ministro delle finanze). Sergei Ivanov, è stato in qualche modo retrocesso, forse proprio per le sue ambizioni. È interessante rilevare la costituzione di un nuovo e autonomo Ministero dell’energia (a dirigerlo è Viktor Shmatko), a testimonianza della crescente importanza delle questioni energetiche nella politica della Russia. I ministri degli Esteri (Sergei Lavrov), Interni (Rashid Nurgaliev), Difesa (Anatolii Serdyukov) e Emergenze (Sergei Shoigu), sono stati riconfermati. In linea generale si può osservare come il nuovo governo sia stato nominato seguendo una prassi oramai consolidata con Putin. Bilanciare con cura le nomine, facendo molta attenzione ai contrappesi. Resta aperta la questione cruciale: funzionerà nel tempo una Russia bicefala? In ogni caso, nel breve periodo non bisogna aspettarsi mutamenti di indirizzo politico.
mondo
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La questione dell’appartenenza religiosa del senatore dell’Illinois sempre più spesso sotto i riflettori dei media
Quando il Dio di Obama era Allah d i a r i o
di Daniel Pipes al momento che la candidatura di Barack Obama è oggetto di un esame sempre più minuzioso, merita una certa attenzione quanto lui ha dichiarato rispetto alla sua educazione religiosa per ciò che essa ci rivela sulla sua probità di candidato. A dicembre il senatore ha asserito: «sono sempre stato un cristiano» e ha negato in modo perentorio di essere mai stato un musulmano. «L’unico legame che abbia mai avuto con l’Islam è la provenienza keniota di mio nonno paterno. Ma io non ho mai professato l’Islam». A febbraio ha invece detto: «Non sono mai stato un musulmano (…) ho pochissimi legami con la religione islamica a parte il mio nome e il fatto che da bambino ho vissuto per 4 anni in un popoloso paese musulmano (in Indonesia dal 1967 al 1971)».
g i o r n o
Lo Zimbabwe scivola verso la guerra
D
«Sempre» e «mai» lasciano poco spazio agli equivoci. Ma molti dati biografici, selezionati perlopiù dalla stampa americana, denotano che il candidato democratico alle presidenziali, una volta adulto, si ritenesse musulmano e fosse anche visto come tale. Le origini keniote del padre di Obama. Nell’Islam, la religione si trasmette di padre in figlio. Barack Hussein Obama senior (1936-1982) era un musulmano che chiamò suo figlio Barack Hussein Obama junior. Solo ai bambini musulmani viene dato il nome “Hussein”. La famiglia indonesiana di Obama. Il suo patrigno, Lolo Soetoro, era altresì un musulmano. In effetti, come ha spiegato Maya SoetoroNg, la sorellastra di Obama, a Jodi Kantor del New York Times: «Tutta la mia famiglia era musulmana, e la maggior parte dei miei conoscenti erano musulmani». Un quotidiano indonesiano, il Banjarmasin Post, riporta quanto asserito da Rony Amir, un ex compagno di classe di Obama: «Tutti i parenti del padre di Barry erano dei musulmani molto devoti». La scuola cattolica. Nedra Pickler, dell’Associated Press, riporta che«la documentazione comprova che egli fu iscritto come musulmano» alla scuola cattolica dove frequentò dalla prima alla terza classe elementare. Kim Barker del Chicago Tribune conferma che Obama fu «registrato come musulmano nel modulo di iscrizione alla scuola cattolica». Un blogger, An American Expat in Southeast Asia, ha rilevato che «Barack Hussein Obama venne iscritto con il nome di ‘Barry Soetoro’, numero di matri-
d e l
Nulla di nuovo sul fronte dello Zimbabwe. Un mese fa Harare andava al voto e da allora nel Paese dominano caos e violenza. Ora il presidente in carica Mugabe ha iniziato una campagna all’insegna di «tu per chi hai votato?» che non promette nulla di buono. Il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai ha parlato di una vera e propria guerra. «Lo Zimbabwe brucia» ha detto Tsvangirai parlando di fronte ai giornalisti. L’opposizione afferma che tutte le strutture del potere presidenziale perseguitano chi, votando in “maniera sbagliata”, ha permesso il cambiamento. Le vittime delle ultime ondate di violenza si aggirerebbero tra le 15 e le 30 persone.
Sono cinquantamila i morti in Cina
cola 203, e iniziò a frequentare la scuola elementare San Francesco di Assisi il 1° gennaio 1968, nella classe 1a B (…) La religione di Barry fu registrata come Islam». La scuola pubblica. Paul Watson del Los Angeles Time ha appreso dagli indonesiani che hanno conosciuto Obama ai tempi del suo soggiorno a Giacarta che egli «fu iscritto dai suoi familiari come musulmano in entrambe le scuole da lui frequentate». Haroon Siddiqui del Toronto Star si è recato nella scuola pubblica frequentata da Obama a Giacarta e ha scoperto che «tre dei suoi insegnanti hanno detto che egli fu iscritto come musulmano». Benché Siddiqui ammonisca che «essendo la documentazione scolastica sparita, mangiata dagli insetti, bisogna fare affida-
«Il fatto che sia nato musulmano e che abbia abiurato non lo rende più o meno qualificato alla presidenza. L’importante è che non abbia mentito» mento sui labili ricordi della gente», egli si limita a citare una delle insegnanti in pensione, Tine Hahiyari, che ha ritrattato la sua precedente certezza in merito al fatto che Obama fu iscritto come musulmano. Studi coranici. Nella sua autobiografia, Dreams of My Father, Obama racconta come si mise nei guai perché faceva le boccacce durante le ore dedicate agli insegnamenti coranici, rivelando in tal modo di essere un musulmano, poiché gli studenti indonesiani frequentavano le classi religiose a seconda
della fede professata. In effetti, Obama serba ancora ricordi di quella classe. Nicholas D. Kristof del New York Times riporta che Obama «si ricordava le frasi iniziali della chiamata in arabo alla preghiera, recitandole [a Kristof] con un eccellente accento». Frequentazione della moschea. La sorellastra di Obama ha affermato che la famiglia frequentava la moschea «per i grandi eventi comunitari». Watson ha saputo dagli amici di infanzia che «talvolta Obama si recava a recitare le preghiere del venerdì nella locale moschea». Barker ha scoperto che «Obama accompagnava occasionalmente il patrigno in moschea per le preghiere del venerdì». Zulfin Adi, un amico indonesiano, asserisce che Obama «era musulmano. Egli si recava in moschea. Ricordo che indossava un sarong» (un indumento portato dai musulmani).
Devozione. Lo stesso Obama dice che mentre viveva in Indonesia, un paese musulmano, egli «non praticava [l’Islam]», ammettendo implicitamente un’identità musulmana. Gli indonesiani serbano un differente ricordo. Uno di loro, Rony Amir, descrive Obama come qualcuno che «prima [della conversione] era abbastanza devoto all’Islam». Il fatto che Obama sia nato musulmano e cresciuto come tale e che abbia abiurato la fede per diventare cristiano non lo rende più o meno qualificato a diventare presidente degli Stati Uniti. Ma se egli fosse nato e cresciuto come musulmano e adesso negasse il fatto, ciò denoterebbe grave disonestà e una mistificazione basilare di se stesso che avrebbe delle profonde implicazioni sulla sua reputazione e sulla idoneità ad essere presidente.
In Cina i soccorsi lottano contro il tempo, tre giorni dopo il devastante terremoto le speranze di trovare altre persone in vita sono molto basse. Secondo le valutazioni delle autorità, sotto le rovine delle case crollate si troverebbero ancora migliaia di persone. Il numero finale delle vittime dovrebbe aggirarsi attorno alle 50mila persone. Ufficialmente giovedì si contavano 20mila morti e 65mila feriti, mentre sono 120mila i militari addetti ai soccorsi. Le autorità cinesi mettono ora in guardia da tragedie legate alle inondazioni. I detriti ostacolano il regolare deflusso del fiume Jianjiang e sopra la città di Beichuan si sta formando un lago che potrebbe straripare. Anche le 380 dighe presenti nella regione di Sichuan sono a rischio di crollo.
Autonomia reale per il Tibet Iniziando la sua seconda visita in poche settimane in Germania, il Dalai Lama ha chiesto «vera autonomia» per il Tibet. Il leader religioso del Tetto del mondo, ha ribadito ieri a Francoforte che il suo Paese non vuole la separazione da Pechino. Nelle trattative con i leader cinesi si tratta innanzitutto di ristabilire la «fiducia» che permette la soluzione, ha detto Sua Santità visibilmente colpito dalla tragedia del terremoto. Dopo il suo arrivo il Dalai Lama si è intrattenuto a colazione col primo ministro dell’Assia, Roland Koch.
Beirut verso la pacificazione In Libano è stato trovato un accordo per porre fine alla crisi che ha innescato violenze e scontri in tutto il Paese tra la maggioranza antisiriana libanese e l’opposizione guidata dal movimento sciita Hezbollah. Lo ha annunciato il premier del Qatar Hamad bin Jasem al Thani che guida la delegazione della Lega Araba giunta ieri a Beirut. L’accordo raggiunto, ha precisato al Thani nel corso di una conferenza stampa, prevede sei punti, tra cui l’avvio già da domani a Doha, in Qatar, di un «dialogo nazionale» per concordare la formazione di un governo di unità nazionale, una nuova legge elettorale. Il dialogo continuerà poi dopo l’elezione del nuovo presidente della repubblica, carica vacante dal novembre scorso.
I palestinesi e la Nakba I palestinesi della striscia di Gaza e della Cisgiordania, ricordano a modo loro i sessanta anni della fondazione di Israele e il “trasferimento”, conseguenza della vittoria definitiva del progetto sionista di Ben Gurion e del “rifiuto” arabo. Un’intransigenza pagata cara soprattutto dalle popolazioni arabe che si trovavano sui territori destinati, secondo il piano Onu del 1947, alla nascita di due stati, arabo e ebraico. Ieri in segno di lutto le strade delle entità palestinesi hanno commemorato l’esodo di 700mila palestinesi. Per commemorare la Nakba, catastrofe, le sirene dei territori hanno suonato per due minuti.
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israele 60
Ehud Gol ha la stessa età dello Stato ebraico e ne traccia un bilancio ragionato
Non serve un altro secolo per la pace colloquio con Ehud Gol di Enrico Singer
hud Gol è un uomo vigoroso e diretto, un diplomatico che ben conosce l’Italia avendo qui rappresentato il suo Paese dal 2001 al 2006. Le sue analisi acute e il suo spirito battagliero lo hanno portato sempre in prima linea, anche sulla stampa. In cinque anni ha scritto quasi cento articoli adesso tutti raccolti in un volume, Da Gerusalemme a Roma, da poco in libreria edito da Mondadori con una prefazione scritta da Silvio Berlusconi. Sessant’anni. Nella vita di un uomo, normalmente, rappresentano l’età del bilancio. Possiamo usare questo “compleanno” per farne uno di Israele? Il sogno evocato al momento della sua costituzione, le aspettative e le speranze secondo lei si sono realizzate o che cosa, ancora, resta da fare? La nascita dello Stato d’Israele è senza dubbio un miracolo, come tutto quello che abbiamo realizzato. Io sono nato due anni prima, quando la popolazione di questo Paese era soltanto di 600mila persone. Dal Quarantotto, con gli immigrati arrivati dopo l’olocausto, siamo saliti a 800mila. Oggi siamo 7 milioni, e di questi 5 e mezzo sono ebrei. Mai, nella storia del nostro popolo, sono vissuti tanti ebrei a Tel Aviv. E trovo che il risultato più importante di questi sessant’anni sia proprio l’adozione di immigrati da oltre cento Paesi del mondo. Eppure uno scrittore e attento osservatore delle vicende del suo Paese, come Abraham Yehoshua, ha detto che il pessimismo, oggi, in Israele, è più forte di dieci anni fa. Condivide questa impressione? No, anzi: credo che nonostante tutti i problemi che abbiamo conserviamo una nostra normale peculiarità. Certo, il mondo oggi è totalmente diverso da sessanta o quarant’anni fa. L’idealismo originario, quello che evocava il grande mito dei kibbutz, non c’è più. La visione modernista ci ha cambiati, ma ancora Israele è la casa di tutti gli ebrei e
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ancora continua a incarnare la possibilità di combattere contro ogni avversità e vincere. Secondo lei è ancora valida l’idea originaria di uno Stato degli ebrei? Assolutamente. In Israele ci sono cinque milioni e mezzo di ebrei, ovvero il cinquanta percento della popolazione ebrea. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il nostro popolo era di diciotto milioni, dopo la guerra ne erano rimasti circa dodici, oggi siamo circa tredici milioni. E la metà, o quasi, sta in Israele. Questo significa che siamo un popolo fortemente legato alla nostra terra. Non biosgna dimenticare che la maggioranza di coloro che sono arrivati in Israele provenivano da Paesi in cui il totalitarismo li aveva perseguitati, non godevano di libertà. Spero che anche altri, ancora oggi, vorranno seguirli, ma è pur vero che godiamo di un vantaggio: anche chi ha scelto di risiedere in altri Paesi, come l’Italia, gli Usa, la Gran Bretagna e la Francia, non solo è libero di farlo ma può anche essere al contempo un cittadino italiano, francese, inglese o americano senza dover rinunciare al grande legame con la sua terra e il suo popolo. Quali personaggi della storia di Israele hanno contribuito di più allo sviluppo del Paese? Il primo posto spetta senza dubbio a Ben Gurion, il padre della nazione, che
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Il mondo oggi è totalmente cambiato. L’idealismo originario, quello che evocava il grande mito dei kibbutz, non c’è più. Ma ancora siamo la casa di tutti gli ebrei e incarniamo la possibilità di combattere le avversità e vincerle
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con la sua dedizione, il suo coraggio, la sua capacità di affrontare i problemi - il disastro dell’olocausto innazitutto - ha permesso la nascita di Israele. Ho sempre detto che il nostro Stato è nato non grazie alla shoah, ma nonostante la shoah. E solo un personaggio come Ben Gurion poteva realizzare per noi questo sogno. Ci sono poi altri nomi da fare: Yitzhak Rabin e Shimon Peres, il nostro presidente. Ma forse è più giusto dire
che tutti gli israeliani hanno contribuito. Soprattutto i ventiduemila che sono morti per difenderci, per assicurare l’indipendenza e la sopravvivenza di Israele. Soldati che, per questo sogno, hanno pagato il prezzo più alto. Quali sono, secondo lei, i valori di Ben Gurion che ancora rimangono
nella società israeliana? Il grande amore per la nostra terra e il nostro popolo. Due valori senza i quali non si è né ebrei né israeliani. Con Gerusalemme al centro del nostro sogno. Per gli occidentali, per chi non vive in Israele, una democrazia che cammina di pari passo con la guer-
israele 60 ra è un’idea difficile da comprendere. Un europeo tende a coniugare la democrazia con la pace. Quanto pesa questa differenza sulla vostra cultura? Israele è una democrazia totale e questo è un altro miracolo. Non dimentichiamo che nel nostro Paese il venticinque percento della popolazione è araba, musulmana o cristiana. E che ognuno è libero di dire quello che pensa e di criticare. Possibilità vietate in altri Paesi arabi, ma a volte non consentite neanche dalle vostre democrazie. Lei ha due anni in più di Israele. La sua memoria storica è dunque “completa”. Quanto sono cambiati i giovani israeliani di oggi? I nostri giovani hanno lo stesso spirito di quelli del Quarantotto o della generazione del Sessantasette. Certo, ascoltano musica occidentale, seguono la moda e tutto il resto, ma la maggioranza di loro sceglie di fare il servizio militare, comprende che il Paese ha bisogno di loro, capisce che la nostra situazione non è paragonabile a quella di altri Stati occidentali. La scelta autonoma di arruolarsi per tre anni, di continuare a restare una “riserva” mentre si proseguono gli studi e si lavora, è dettata dall’entusiasmo per Israele. Ecco perché non c’è differenza con i giovani che li hanno preceduti. Per arrivare alla pace, ad un accordo, ad una normalizzazione dei rapporti con i palestinesi bisognerà aspettare altri sessant’anni? Lei cosa prevede? È ottimista oppure no? Una previsione difficile. Ma partiamo dagli aspetti positivi: sessant’anni fa l’intero mondo arabo era contro di noi, ma adesso abbiamo un accordo di pace sancito nel Sessantanove con la Giordania e relazioni con altri Paesi arabi. Fino al 1993 era impossibile da immaginare e invece eccoci qua. Questo significa che dobbiamo fare il massimo sforzo per cercare di risolvere i problemi con Hamas ed Hezbollah e dialogare con il mondo arabo moderato o relativamente moderato per sconfiggere il radicalismo. Un estremismo pericoloso non solo per noi, ma per l’intero mondo occidentale. Di più: Hamas è una minaccia anche in Egitto, in Giordania, in Libano, come si è visto in questi giorni. Dunque la via da seguire è quella dell’ottimismo. Detto questo non credo che sarà necessario attendere altri sessant’anni per arrivare a un processo di pace. Ci vorrà del tempo, ma non così tanto.
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Manifestare contro la nostra presenza alla Fiera del libro non è servito
«Gli italiani sono con noi» di Michael Sfaradi n questi giorni si è parlato molto, con vasta eco e spesso a sproposito, della presenza d’Israele come ospite d’onore della fiera del libro a Torino. Contestatori e boicottatori hanno avuto il massimo della visibilità sui giornali e nei molti programmi televisivi che hanno seguito sia la kermesse torinese sia la festa d’indipendenza dello Stato d’Israele, e questo grazie ad una certa informazione che ha fatto di tutto per mettere in luce la contestazione e lasciare in ombra gli altri aspetti che hanno caratterizzato l’evento. Chi è stato alla fiera ha sicuramente notato l’alta affluenza di pubblico, formato da persone che per i più svariati motivi cercavano un approccio di prima mano con tutto quello che lo stato d’Israele sa offrire. La meravigliosa sorpresa per gli organizzatori dello stand dove Israele è stata splendidamente rappresentata, è venuta dalla partecipazione attenta, anche e soprattutto, alle tematiche ed alle ragioni di Israele. Sono stati tanti i gesti di affetto e le parole di solidarietà da parte della stragrande maggioranza dei visitatori arrivati a Torino da ogni angolo d’Italia con la sana curiosità di chi vuol vedere, scoprire e conoscere. Persone che nella visita degli spazi fieristici hanno scoperto quante siano le cose che Italia ed Israele hanno in comune.
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abbiamo anche avuto la prova, e ne siamo felici, che il martellamento mediatico che dipinge Israele come il fulcro dei mali del mondo, fa oggi meno breccia che in passato nella mente della gente.
Abbiamo scoperto che esiste in Italia una larga parte di pubblico che non si accontenta più delle notizie sparate in “prima pagina” o nelle aperture dei telegiornali, ma che va a cercare quando ne ha la possibilità, e da questo punto di vista la fiera del libro è stata importantissima, ogni genere d’informazione: dall’attualità alla storia, passata e recente, ed anche dei punti di vista, costantemente ignorati dai mezzi d’informazione ufficiali, sia di Israele sia del suo popolo. Religione, politica, filosofia, storia e tanti altri aspetti del vivere israeliano, sono stati temi su cui si è molto parlato e ci si è confrontati in un dialogo fra persone che, pur provenendo da culture diverse, si sono incontrate con la mente aperta e che hanno scoperto i tanti valori e punti in comune che ci sono fra i popoli. Guardando alla fine della fiera con un po’ di ottimismo possiamo senz’altro affermare che il momento che Torino ci ha regalato è stato di grande qualità, ed anche se la fiera sta in queste ore chiudendo rimane in noi la sensazione che l’edizione del 2008 rimarrà negli annali come una delle più importanti, dove la voglia di capirsi e stare insieme è andata oltre i pregiudizi e distorsioni di chi ha remato contro e in alcuni casi gettato benzina sul fuoco. Rimane il rimpianto del mancato confronto con la controparte palestinese, ma questo è dipeso dall’immaturità di chi è solo capace a perdere le buone occasioni che il destino serve sul piatto d’argento. C’è però da rallegrarsi per com’è andato il resto delle cose; perché non ha vinto solo la cultura e il buon senso, ma l’intelligenza della gente comune che si è dimostrata matura ed attenta oltre ogni più rosea previsione. Grazie Torino, continua a stupirci.
Abbiamo avuto la prova che il pressing mediatico che ci dipinge come il fulcro dei mali del pianeta fa meno breccia di una volta
Questo ha fatto vivere, a chi era presente, momenti che hanno dato la misura di quanti sono, e sono tanti, quelli che vedono l’unica democrazia mediorientale come modello da seguire per lo sviluppo della civiltà in tutta la regione. Ciò che di buono questa fiera ci lascia in eredità si nota nel numeri dei visitatori che si sono registrati all’interno dello spazio espositivo israeliano. Fin dalle prime ore, comunque, era netta l’impressione che i lettori, veri consumatori di cultura, aspettassero con impazienza quest’appuntamento con Israele, con il suo patrimonio di conoscenze e con tutto quello che gira a livello storico, religioso e filosofico, intorno al popolo ebraico ed alla sua storia. Inutile dire che siamo stati piacevolmente sorpresi nello scoprire quante persone non si lasciano più influenzare da una certa informazione, selettiva e di parte, ed
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speciale approfondimenti
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Inediti/ I testi delle lezioni sulla filosofia tedesca tenute da Lucio Colletti nel suo ultimo anno d’insegnamento
LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO di Lucio Colletti a civiltà occidentale nasce dall’incontro di due tradizioni: quella ellenica e quella giudaico-cristiana. In conseguenza di ciò il problema dell’essere, fondamentale nella filosofia greca, viene a coincidere con il problema dell’esistenza di Dio. Già nella filosofia greca, in Platone e Aristotele in particolare, il concetto di essere tendeva a confondersi tutto o in parte con il concetto di Dio, e la tradizione giudaico-cristiana riprende questo tema. La tradizione platonica e neoplatonica (Plotino e Proclo sono autori fondamentali, ad esempio, nella genesi e nello sviluppo del pensiero di Hegel) costituiscono i nove decimi della filosofia occidentale, al punto che si può dire senza esagerare che la filosofia occidentale è una serie di glosse a Platone, ricevuto soprattutto attraverso la mediazione del neoplatonismo. Anima, mondo e Dio erano gli argomenti capitali della metafisica classica. Dopo Dio, l’Anima è il secondo tema capitale della tradizione platonica. Nel Fedone incontriamo già l’argomento che sarà fatto proprio dal cristianesimo: l’anima è una sostanza immateriale, eterna e incorruttibile. L’Anima diventa così il secondo tema centrale della psicologia razionale. La Cosmologia, o considerazione del mondo o cosmo come un tutto (come se un tutto si lasciasse abbracciare dal pensiero), è il terzo argomento capitale. Ora, per quanto riguarda il primo punto, è noto che per Kant non si dà conoscenza di Dio. Nella Dialettica trascendentale troviamo una critica rigorosa delle tre prove tradizionali dell’esistenza di Dio: 1) quella fisico-teologica; 2)
L
Essere ateo vuol dire invece sposare una tesi dogmatica, cioè affermare con certezza qualcosa che esorbita dalle nostre possibilità di indagine e di controllo. Hegel si oppone frontalmente alla critica di Kant. Sarebbe anzi interessante ricostruire la filosofia di Hegel attraverso due linee direttrici: a) la critica perentoria che Hegel esercita nei confronti di Kant; b) il recupero da parte di Hegel della metafisica prekantiana, vale a dire la grande metafisica che precede cronologicamente Kant, cioè la filosofia di Cartesio, Spinoza e Leibniz.
Non è esagerato dire che la filosofia di Hegel si sviluppa come critica della filosofia di Kant e come recupero della metafisica classica che Kant aveva demolito. Occorre precisare, tuttavia, che Hegel recupera la metafisica classica mostrando che il metodo seguito da quest’ultima, imperniato sul principio di identità, era un metodo inadeguato al contenuto tematico di questa stessa metafisica. Quel metodo si imperniava infatti sul principio di identità e contraddizione, e quindi a una logica di tipo intellettualistico o del pensiero finito, quel pensiero che si muove presupponendo la distinzione di pensiero ed essere, soggetto e oggetto. In questa ottica il pensiero appare solo come «uno dei due», avente l’altro, cioè l’essere, fuori di sé. L’adozione di questo metodo fa sì che la metafisica classica, sebbene sia assolutamente valida rispetto ai suoi contenuti, cioè Dio e l’Assoluto, non riesce, proprio a causa del metodo che adopera, a dare a quei contenuti un’espressione adeguata. È evidente, allora, che quando Hegel segnala i limiti della logica dell’identità e non contraddizione presuppone una logica nuova che è la Logica della contraddizione dialettica. Ma è opportuno lasciar parlare direttamente Hegel, che nella Prefazione al I Libro della Scienza della logica scrive: «La completa trasformazione che da circa venticinque anni è presso di noi avvenuta nel pensiero filosofico […] non ha avuto finora che uno scarso influsso sulla forma della logica». La completa trasformazione, eviden-
La civiltà occidentale come incontro tra tradizione greca e radici giudaico-cristiane quella cosmologica; 3) quella ontologica che risale ad Anselmo d’Aosta, che tuttavia Kant chiama prova cartesiana (prova che Kant stesso demolisce e che Hegel restaura). Con la demolizione delle prove dell’esistenza di Dio, Kant compie uno degli atti più eversivi nella storia del pensiero.Tuttavia questo in Kant non produce una professione di ateismo, perché egli intende dimostrare soltanto che l’esistenza della divinità non è dimostrabile. Ma così come non è dimostrabile l’esistenza, non è neppure dimostrabile la non esistenza.
temente, è quella prodotta da Kant, e Hegel la considera rovinosa. Hegel continua: «Quello che prima si chiamava metafisica è stato, per così dire, estirpato fin dalla radice, ed è scomparso fra le scienze. Dove si ascoltano più, o dove si possono più ascoltare, le voci dell’antica ontologia, della psicologia razionale, della cosmologia o anche della stessa teologia naturale? […] Anche delle antiche prove dell’esistenza di Dio non si parla più che o semplicemente per la storia, oppure in un intento di edificazione e di elevazione spirituale. È un fatto che l’interesse, sia per il contenuto, sia per la forma, sia infine per il contenuto e la forma insieme dell’antica metafisica, è andato perduto. La tesi di Hegel, come si vede, è che dopo Kant non c’è più stata metafisica. Il panorama filosofico presenta, oltre che la scomparsa della metafisica, anche la scomparsa di quelli che erano gli argomenti e i temi della metafisica classica: la psicologia razionale, cioè la riflessione sulla immaterialità e immortalità dell’anima, la cosmologia razionale e la teologia. Cos’è la metafisica per Hegel? La metafisica è quella filosofia che ritiene che la realtà vera o essenziale non sia costituita, come dice Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia, dalla tabacchiera o dal portacenere, bensì da ciò che è al di là del sensibile, dal sovrasensibile. Dunque il metafisico si muove secondo il tracciato classico della filosofia platonica che afferma che l’ente sensibile è non essere, perché il vero essere è l’idea, l’archetipo, che non è nel mondo sensibile, bensì nel mondo ultraterreno. Allora il mondo sensibile è solo una copia o un riflesso di un mondo ulteriore che costituisce la vera realtà. Solo partecipando alla vera realtà il mondo sensibile acquista una qualche verità. Passiamo ora all’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche. Nei primi ottanta paragrafi Hegel ricostruisce le tre posizioni fondamentali del pensiero rispetto all’oggettività. 1) La posizione della metafisica classica, con i limiti dei suoi difetti di metodo.
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2) La critica scettica di Hume e Kant. Kant è considerato da Hegel scettico tanto quanto Hume, perché per Kant dire filosofia speculativa e dire costruzione di castelli in aria è la stessa cosa. Per Kant infatti l’unico oggetto conoscibile è l’oggetto d’esperienza. La filosofia speculativa è precisamente quella filosofia il cui oggetto si trova al di là dell’esperienza sensibile. Nell’ottica kantiana sovrasensibile non è riferito a oggetti non ancora esplorati, non ancora caduti nel campo della nostra esperienza possibile, perché quest’ultima è un campo non esperito di fatto, ma esperibile in via di principio. Il sovrasensibile è ciò che invece in via di principio non può essere esperito, proprio perché collocato in una zona supposta oltre l’esperienza sensibile. La filosofia speculativa è dunque quella che si sceglie un oggetto intorno al quale può dire quello che vuole senza pena di essere mai smentita, ma proprio perché non si lascia smentire quella filosofia è una costruzione di castelli in aria (Popper direbbe che è una costruzione metafisica perché non è falsificabile). Costruirsi un sistema a prova di bomba non è un merito, ma è proprio ciò da cui dovrebbe guardarsi ogni pensatore sensato che, al contrario, dovrebbe ricercare e sollecitare continuamente la conferma o la smentita delle sue ipotesi e delle sue teorie. 3) La terza posizione del pensiero rispetto all’oggettività è il sapere immediato o fede di Jacobi. Hegel critica Jacobi perché se da un lato è certamente vero che la filosofia è teologia, perché (vedi Enciclopedia § 1) ha in comune con questa l’oggetto da indagare, dall’altro la filosofia è religione non più svolta nelle forme fantastiche o del mito, ma libera da queste forme e tradotta in veste razionale. Qui occorre fare una precisazione. La razionalità in senso forte, in Hegel, non è opera dell’Intelletto ma della Ragione. Sia in Kant che in Hegel Intelletto e Ragione sono due concetti non sovrapponibili. In Kant se io intendo il pensiero come l’attività che presuppone un oggetto reale fuori di sé e diverso da sé, allora il pensiero si chiama Intelletto e ha fuori di sé gli oggetti empirico-materiali. In questo caso l’intelletto è l’unica modalità attraverso cui è possibile attingere un’esperienza effettiva, perché è quel pensiero le cui affermazioni possono essere dimostrate o confutate dal suo oggetto rispettivo, l’esperienza sensibile. La Ragione è invece per Kant il pensiero che avendo per oggetto un’entità sovrasensibile pretende di conoscere un’essenza ideale. Il pensiero come ragione è per Kant destinato a produrre conoscenze fittizie. Esso si esercita particolarmente sulla natura di Dio e dell’anima, ed è precisamente l’oggetto di quella Dialettica trascendentale che esamina criticamente la pretesa della ragione di valicare i limiti dell’esperienza sensibile.
Per Hegel le cose sono esattamente rovesciate: l’Intelletto è l’ordinario intelletto umano, cioè quell’intelletto che è pensiero preso in un’accezione antifilosofica. La Ragione invece rovescia il mondo del senso comune e attinge il sovrasensibile. Conseguentemente la Critica della ragion pura si presenta come la dottrina degli elementi della conoscenza. Questo significa che la conoscenza nasce dall’incontro di due elementi diversi: la sensibilità (dottrina della sensibilità) e l’intelletto (logica, dottrina del pensiero). A sua volta la Logica si divide in due parti: 1) Analitica. Riguarda l’uso del pensiero in quanto intelletto, quindi pensiero che si riferisce a un contenuto empirico sensibile diverso dal pensiero stesso; 2) Dialettica o Logica dell’illusione. I due elementi, sensibilità e intelletto, esercitano funzioni diverse. La sensibilità è la facoltà grazie alla quale qualcosa viene a esistere per noi, il pensiero è la facoltà che permette di pensarla. Da questo deriva la distinzione di causa essendi e causa cognoscendi. Questa distinzione rinvia a un’altra distinzione fondamentale in Kant e cioè quella tra possibilità logica e possibilità reale. La possibilità logica ci dice che è logicamente possibile tutto ciò che non è contraddittorio. Ma è una possibilità che non va confusa con la realtà, perché una cosa può essere logicamente possibile, ma ciò non basta affinché questa cosa risulti anche reale. Sarà proprio in base alla differenza tra possibilità logica e possibilità reale che si svilupperà la critica di Kant alla prova ontologica.
Un eretico malvisto dai dirigenti comunisti che preferiva Kant a Engels
Lucio e il suo marxismo controcorrente di Giuseppe Bedeschi o ascoltato per la prima volta Colletti quasi cinquant’anni fa, nel 1959, durante il mio primo anno di Università. Egli teneva allora un corso all’Istituto Gramsci su «Il marxismo e Hegel». Ricordo che ne fui enormemente colpito: non solo per la profondità e l’eleganza del suo eloquio, per la sua capacità di spiegare con estrema chiarezza testi difficili e ispidi (di Kant, di Hegel), che fino ad allora mi erano apparsi oscuri e incomprensibili; ma anche, e soprattutto, per la nuova concezione del marxismo che egli esponeva, la quale metteva radicalmente in crisi il marxismo gramsciano (e quindi hegelo-crociano) di cui mi ero nutrito fino a quel momento. Non era affatto vero che la filosofia di Hegel costituisse la prosecuzione e per così dire l’inveramento della filosofia di Kant (come Croce e Gentile ci avevano insegnato); fra Kant e Hegel c’era un abisso, perché per il primo non c’era conoscenza senza sensibilità, e il processo conoscitivo risultava dalla unificazione che le funzioni dell’intelletto (i concetti o categorie) operano sul molteplice sensibile (il quale è dunque un fattore indispensabile); Hegel, invece, liquidava il molteplice sensibile, in quanto per lui il finito era negativo o dialettico, era, platonicamente, un non-ente. Così come non era affatto vero che tra Hegel e Marx ci fosse continuità, nel senso che il secondo aveva fatto propria la dialettica del primo, poiché la dialettica hegeliana era aprioristica e dogmatica, e presupponeva, appunto, quella concezione negativa o platonica del finito, che il materialista Marx non poteva in nessun modo accettare. E non solo: seguendo Della Volpe, Colletti sosteneva che il metodo di Marx era fondamentalmente un metodo «dialettico-materialistico» o «dialettico-sperimentale», cioè un metodo la cui struttura logica non differiva da quella del metodo delle scienze empiriche: di quelle scienze naturali contro le quali Hegel aveva sempre polemizzato, perché fondate sul finito e quindi assolutamente incapaci di aprirsi all’infinito, all’assoluto.
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Questa apertura alla scienza, questa rivendicazione del marxismo come conoscenza della società e della storia raggiunta con gli stessi metodi delle scienze naturali, mi colpì molto, e colpì molti giovani della mia generazione, influenzati dal marxismo e al tempo stesso affascinati dagli sviluppi della scienza moderna, e dalle corrente filosofiche che alla scienza moderna si richiamavano (il neopositivismo, il pragmatismo, ecc.). Così, io e parecchi amici fummo molto colpiti dalla liquidazione che Colletti faceva della «dialettica della natura» di Engels (che costituiva magna pars del marxismo ufficiale, professato dai partiti comunisti). Egli mostrava come tale «dialettica della natura» fosse stata ripresa di peso dall’opera di Hegel, e come essa resuscitasse la ingloriosa e repugnante «filosofia della natura»: una cosa, dunque, che nulla aveva a che fare con la scienza, e che infatti serviva, nei paesi comunisti, a scomunicare gli indirizzi scientifici non graditi al potere. Quello di Colletti era quindi un marxismo controcorrente, un marxismo eretico, non a caso assai malvisto dai dirigenti comunisti. E anche questo ci affascinava nel marxismo di Colletti e Della Volpe: il suo procedere senza riguardi per nessuno, il suo essere libero da qualunque ipoteca, il suo non rendere conto a nessuna autorità. Fu questa assoluta li-
bertà intellettuale che spinse Colletti, premuto dalle «dure repliche» della storia (la crisi sempre più grave del mondo comunista, il suo immobilismo all’interno di una gabbia d’acciaio totalitaria) a mettere in discussione i fondamenti del marxismo. [...]
La conclusione alla quale Colletti giungeva, in modo autonomo e originale, e come punto di approdo di una lunga e complessa ricerca, era la stessa indicata tanti anni prima da Kelsen: e cioè che, condizionato dalle premesse logico-filosofiche di Hegel, Marx aveva assunto come momento centrale della propria indagine sul capitalismo il concetto «assurdo di una realtà autocontraddittoria». «Sotto la guida della logica dialettica di Hegel - aveva detto Kelsen - Marx trasferisce le contraddizioni logiche dal pensare all’essere», sicché «forze opposte nella natura o nella società vengono interpretate (anche da Marx) come contraddizioni logiche». Senonché, se ciò poteva avere un senso nella filosofia idealistica di Hegel, dove pensiero ed essere sono identificati, non poteva avere alcun senso nella concezione materialistica di Marx. Come a Kelsen, anche a Colletti il marxismo appariva dunque ormai come un «tragico sincretismo metodologico», come una commistione di materialismo e di dialettica hegeliana, di causalità empirico-materiale e di finalismo dialettico-razionale, di sociologia e di filosofia della storia. Nella sua ricerca aveva sempre avuto una importanza fondamentale la filosofia di Kant, la quale gli aveva permesso di mettere a fuoco la fondamentale differenza fra «opposizione reale» e «opposizione per contraddizione». [...] L’analisi di Kant aveva permesso a Colletti di mettere a fuoco la commistione che Marx aveva operato (sulla scia di Hegel) di opposizione reale e opposizione dialettica. L’opera del pensatore di Koenigsberg era stata dunque fondamentale per Colletti. E continuerà a esserlo, come queste magnifiche Lezioni, tenute agli studenti dell’Università di Roma, dimostrano.
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speciale approfondimenti
Carte
Il tentativo di restaurazione del filosofo tedesco che “inventò” la dialettica
Hegel e la metafisica prekantiana di Lucio Colletti ei Preliminari alla Enciclopedia delle scienze filosofiche Hegel analizza le tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività. La prima è quella di Cartesio, Spinoza, Leibniz, ossia la metafisica classica prekantiana. La seconda è quella di David Hume e di Kant. Parlando di Hume, Hegel sviluppa importanti considerazioni sullo scetticismo antico o pirronismo, e sullo scetticismo moderno. Hegel considera lo scetticismo antico come una introduzione alla vera filosofia o idealismo, mentre considera lo scetticismo moderno, quindi Hume ma anche Kant (che viene accostato a Hume in quanto la Critica della ragion pura per Hegel contiene una parte scettica che è la Dialettica trascendentale) un’arma contro la filosofia degna di tale nome. La Ragione hegeliana pretende di avere quale suo oggetto il sovrasensibile, ma Kant nega
N
luce del significato del senso comune, cioè esistono gli oggetti che sono nello spazio e nel tempo e come tali, prima o poi, possono cadere nel raggio della nostra esperienza sensibile. Attribuire il concetto di esistenza a una entità fuori dello spazio e del tempo è un monstrum concettuale: Kant nega alla ragione tale portata conoscitiva, e questo spiega perché Hegel attribuisse a Kant una posizione scettica.
Si tratta di capire, invece, perché secondo Hegel lo scetticismo antico fosse apprezzabile e introducesse alla filosofia. È apprezzabile perché mette in questione la certezza sensibile e spazza via il campo dalle credenze materialistiche del senso comune, secondo il quale esistono oggetti indipendenti dal pensiero. E come spazza via tale certezza? Spazza via questa certezza attraverso i tropi o argomenti dello scetticismo anti-
Le critiche allo scetticismo “moderno” e la riscoperta di quello “antico” qualsiasi portata conoscitiva alla ragione nei riguardi del problema dell’Anima, del Mondo e di Dio. Un pensiero che non abbia, quale suo contenuto corrispettivo, un materiale fornito dall’esperienza sensibile è per Kant un non pensiero (vedi in proposito i Sogni di un visionario chiariti coi sogni della Metafisica).
Travalicando i limiti dell’esperienza sensibile, la ragione pretende di conoscere «presunti» enti soprasensibili: presunti in quanto se sono sovrasensibili non possono essere enti perché per esser tali dovrebbero essere collocati nello spazio e nel tempo. Ma se sono sovrasensibili, in quanto non sono nello spazio e nel tempo, che tipo di enti sono? Noi adoperiamo il concetto di esistenza alla
co, coi quali viene mostrata la contraddittorietà della certezza sensibile. La contraddittorietà di questa conoscenza è sviluppata da Hegel anche nel primo capitolo della Fenomenologia. Facciamo un esempio: ora sono le quattro e tre quarti, ma tra un’ora saranno le cinque e tre quarti. Così quello che rimane è solo l’avverbio temporale ora che, in quanto tale, indica un universale, mentre il contenuto empirico a cui di volta in volta si riferisce l’universale ora compare e scompare continuamente. Questo prova, per Hegel, che la certezza sensibile indica il contrario di ciò che afferma. Nella certezza sensibile «sembra» determinante l’oggetto, il contenuto, ma poi, via via che si svolge l’esperienza, il contenuto scompare e rimane solo l’u-
niversale, come l’ora, che si può applicare indifferentemente a una miriade di particolari, mentre ciascuno dei particolari determinati svanisce. Gli argomenti di cui Hegel si avvale per distruggere la certezza sensibile, sono gli stessi contenuti nei tropi dello scetticismo: per esempio, il miele viene considerato da una persona dolce e da un’altra amaro. Allora il miele sarà tanto dolce quanto amaro. La certezza sensibile, che dovrebbe essere univoca e determinata, diventando un tanto/quanto, diventa contraddittoria e quindi destinata a svanire. La terza posizione riguarda il cosiddetto sapere immediato o fede. Che differenza c’è tra sapere immediato e sapere mediato? L’immediato, o fede, è il sapere che afferma il valore dell’intuizione, vale a dire che io so qualcosa non per via di ragionamento, ma per fede, perché intuisco che sia così. Non possiedo gli argomenti con cui posso persuadere gli altri, però per intuizione immediata so che la cosa sta così e non altrimenti. Quindi è un sapere fideistico. Il sapere mediato, invece, è il sapere discorsivo, quel sapere a cui si giunge argomentando, prendendo le mosse da un primo argomento, che chiamiamo immediato, per poi derivare da ciò una conseguenza. Si procede così da un punto di partenza per arrivare a uno di arrivo diverso dalla partenza. È quindi un sapere che procede per argomentazione intellettiva. Questa terza posizione riguarda essenzialmente Jacobi, che sviluppò una critica della ragione argomentativa. Questa posizione del sapere immediato è importante in Hegel in quanto viene ricollegata a Cartesio, padre del pensiero moderno. L’elemento che permette a Hegel di accostare un pensatore della fede, come Jacobi, a Cartesio, risiede nel fatto che al cuore della posizione di Cartesio c’è l’identità di pensiero ed essere, cogito ergo sum, per cui dal cogito passo immediatamente al sum. Hegel contesta a Cartesio che non basta un ergo per far un sillogi-
smo: con cogito ergo sum, invece, Cartesio assume l’identità immediata di pensiero ed essere, e quindi anche il suo è un sapere immediato. Tornando alla contraddittorietà della certezza sensibile, questa si mostra, oltre che contraddittoria, anche come una unità di essere e non essere: il miele è dolce e non è dolce, quindi la certezza sensibile si rivela intimamente dialettica. Il miele è A e non A, e perciò questa dialettica corrode l’univocità della certezza sensibile e rimuove quello che secondo Hegel è un impedimento all’accesso alla vera filosofia, vale a dire la credenza del senso comune nell’esistenza degli oggetti esterni. Spazzando via questo realismo ingenuo, tale critica apre la strada alla vera filosofia, cioè all’idealismo, che alla sua volta consiste proprio nell’affermazione dell’identità di pensiero ed essere. Nella Prefazione alla Scienza della logica Hegel lamenta che per effetto della Critica della ragion pura è accaduto che la metafisica è stata abbandonata.
Nessuno si occupa più di psicologia razionale, cioè della teoria dell’anima intesa come immortale e incorporea, e nessuno si occupa più delle prove dell’esistenza di Dio. Hegel denuncia questo stato di abbandono come determinato dalla Critica della ragion pura, che nella Dialettica trascendentale demolisce la psicologia razionale, mostrandone i paralogismi, cioè i sillogismi viziosi; la cosmologia razionale, mostrando le Antinomie in cui essa si avvolge; e la teologia razionale, mostrando l’infondatezza delle prove dell’esistenza di Dio. Tutto ciò porta Kant a concludere non già che Dio sia inconoscibile per i limiti delle nostre capacità mentali: egli dice invece che quella pretesa conoscenza, rivendicata dalla teologia speculativa, fallisce perché dal punto di vista della conoscenza umana l’oggetto di cui essa si occupa è una costruzione fantastica. Questo significa che Dio non è un oggetto, quin-
Karl Marx
di non è qualcosa che cade nel campo di una conoscenza fondata sull’esperienza. E se noi non arriviamo a conoscerlo, non dobbiamo concludere circa la debolezza delle nostre facoltà mentali, ma dobbiamo dire che quella costruzione di Dio come oggetto è una operazione della fantasia, frutto di una ipostatizzazione. ,
Andiamo ora all’Enciclopedia, § 1. Hegel dice che l’oggetto della filosofia è uno solo, Dio. Questo oggetto è in comune con la religione, e la sola differenza è che mentre questa parla di Dio nelle forme miticofantastiche, la filosofia parla di Dio nella forma più adeguata, cioè nella forma dei concetti razionali, che però in Hegel non sono i concetti dell’intelletto. Infatti Kant e Hegel hanno in comune la distinzione fra intelletto e ragione, ma poi si diversificano per il fatto che Hegel nega portata conoscitiva all’intelletto e accredita la conoscenza vera solo alla ragione, che scarta gli oggetti empirici per volgersi all’Assoluto. Per Kant invece è vero tutto il contrario. Dall’Introduzione alla Scienza della logica emerge il fatto che il centro di riferimento critico della filosofia di Hegel è l’opera di Kant. Il concetto della logica che si è avuto finora, dice Hegel, poggia sulla separazione supposta una volta per tutte, di verità e certezza, forma e contenuto, come se il soggetto mettesse solo la forma, mentre il contenuto viene da un’altra fonte. Ma in tal modo, dice Hegel, la vecchia logica poggia sul presupposto della differenza di
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Georg Wilhelm Friedrich Hegel
pensiero ed essere. Si presuppone che la materia del conoscere sussista già in sé e per sé, onde per cui il pensiero di per sé vuoto si accosterebbe a un contenuto preesistente, si riempirebbe di esso. Questa idea della divisione di soggetto e oggetto è riferita da Hegel alla Critica della ragion pura, che distingue la Dottrina degli elementi in Estetica e Logica. Kant muove dal presupposto fondamentale che gli elementi della conoscenza siano due: il contenuto è fornito dalla sensibilità, mentre i concetti che organizzano quei contenuti sono forniti dall’intelletto. Questi due elementi devono essere, per Kant, in un rapporto di reciproca utilità affinché si possa avere conoscenza. Tuttavia, sebbene siano equivalenti, restano due fonti radicalmente diverse, in quanto la sensibilità è ciò che fa esistere qualcosa, mentre il pensiero è ciò che permette di pensare quella cosa. Così la sensibilità è causa essendi di qualcosa e l’intelletto ne è causa cognoscendi. Nella differenza tra causa essendi e causa cognoscendi consiste la differenza tra possibilità logica e possibilità reale. Però non è detto che tutto ciò che è pensabile sia anche reale. Abolita invece la differenza tra pensiero ed essere, la possibilità logica diventa possibilità reale, cioè basta che una cosa sia pensabile perché essa esista. Hegel quindi rifiuta la concezione della logica come incontro dei due elementi, vale a dire rifiuta innanzitutto la logica trascendentale di Kant e la filosofia critica.
Immanuel Kant
Kant, il dogmatismo e i princìpi della logica aristotelica
Identità e non-contraddizione opportuno dire qualche parola sulla differenza tra principio di identità e principio di non contraddizione in senso aristotelico. Il principio di non contraddizione è un principio dove la univocità del pensiero si determina in funzione della univocità dell’oggetto pensato, quindi il principio di non contraddizione è un principio logico e ontologico insieme. Il principio di identità invece è un principio confinato all’interno della mente, e riguarda la coerenza del pensiero con sé, del concetto con sé, dove il concetto è con-
È
Kant non può essere il mezzo per avere conoscenze oggettive: questo scambio per cui la logica, scienza della pura coerenza del pensiero con sé, viene ritenuta capace di produrre conoscenze oggettive, nasce dal presupposto che la realtà sia ideale nella sua essenza, per cui la coerenza logica può garantire da sola la corrispondenza del pensiero con la realtà. Ma in tal modo si carica di una portata ontologica quella logica formale o generale che in realtà prescinde dalla realtà empirica e guarda soltanto alla coerenza del pensiero con sé. Dogmatismo per Kant è assumere l’identità di pensiero ed essere, per cui tutto ciò che vale per il pensiero vale automaticamente anche per la realtà. Esattamente questo scambio sta dietro l’argomento ontologico. Si è creduto di spiegare questo concetto - dice Kant - con un gran numero di esempi, cosicché ogni ulteriore indagine sulla sua comprensibilità è sembrata perfettamente inutile. Ogni proposizione della geometria - per esempio che il triangolo abbia tre angoli - è assolutamente necessaria.Kant argomenta che ogni definizione della geometria è assolutamente necessaria: se partiamo dal concetto di triangolo, è assolutamente necessario affermare che deve avere tre angoli. Sarebbe una contraddizione affermare il triangolo e negare che possiede i tre angoli. Rispetto alle definizioni geometriche l’argomento ontologico fa un passo in più, cioè tenta di derivare l’esistenza di ciò che è affermato nel concetto sulla base della non contraddittorietà
La coerenza formale non è condizione sufficiente per la verità siderato come una entità mentale, e ci si preoccupa soprattutto che questa entità mentale venga trattata coerentemente in base al principio di identità: se A è A, A non può essere anche non A. Ora, secondo Kant, è segno di dogmatismo usare la logica formale, o generale, per produrre conoscenze aventi valore oggettivo. Se la logica formale è ristretta alla coerenza del pensiero con sé, a prescindere dai contenuti del pensiero, è evidente che il rispetto della logica formale sarà condizione necessaria ma non sufficiente della verità. Per avere la verità, oltre alla coerenza formale, occorre anche il riferimento del pensiero all’oggetto. La logica formale per
del concetto. Dalla semplice definizione verbale di ente assolutamente necessario deduce che sarebbe contraddittorio negarne l’esistenza, così come se parliamo del triangolo non possiamo negare che abbia tre angoli. Così come sarebbe contraddittorio negare che un triangolo abbia tre angoli, analogamente sarebbe contraddittorio negare che l’ente incondizionatamente necessario esista. Ora, tutta la critica di Kant verte sullo scambio tra possibilità logica e possibilità reale. Kant dice: «Se in un giudizio identico io nego il predicato e mantengo il soggetto, allora sorge una contraddizione». Non posso dire, ad esempio, questo è un tavolo e non è un tavolo. «Ma – continua Kant – se io nego il soggetto assieme al predicato, non sorge allora nessuna contraddizione». Se io nego il triangolo e poi nego anche che il triangolo abbia tre angoli, se nego tutti e due, non c’è contraddizione. Allo stesso modo, «porre un triangolo e tuttavia negare i suoi tre angoli è contraddittorio, ma negare il triangolo insieme ai suoi tre angoli, non costituisce nessuna contraddizione».Tenete presente che il giudizio identico è il giudizio analitico. Se nego soggetto e predicato, non incorro in nessuna contraddizione. Il ragionamento fatto sul triangolo Kant lo fa su Dio. Dio è onnipotente. Se io penso un ente supremo, lo devo pensare come onnipotente, così come se penso a una entità onnipotente, la devo pensare come entità suprema. Onnipotente significa non già capace di tutto, significa che può tutto. «Dio è onnipotente. Ecco un giudizio necessario». È necessario perché non è possibile affermarne il non essere.
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economia
Il presidente dell’Opec e ministro del Petrolio algerino, Chakib Kheli. I Paesi produttori si dicono pronti ad aumentare la produzione di petrolio
I Paesi dell’Opec stanno studiando soluzioni per non entrare in crisi quando calerà il consumo di petrolio
Gli sceicchi si riconvertono alle rinnovabili di Maurizio Stefanini
ROMA. Appena un paio di settimane fa il ministro dell’Energia e Miniere algerino, Chakib Khelil, avvertiva nella sua veste di presidente dell’Opec: «Il prezzo del petrolio può arrivare fino ai 200 dollari al barile». Adesso frena: entro 5 anni il greggio inizierà a calare vistosamente, per effetto dei nuovi investimenti che i Paesi dell’Opec starebbero già facendo: sia con la scoperta di nuovi giacimenti sia addirittura con lo sviluppo di energie alternative. E comunque, in futuro, il consumo di petrolio sarà minore.
centi e sfumature. Anche a El Moudjahid Khelil aveva in effetti spiegato come di petrolio ce ne sia a sufficienza, e di come il problema dei prezzi del greggio sia soprattutto legato alla debolezza del dollaro. «Ogni volta che il dollaro perde l’1 per cento, il prezzo del petrolio aumenta di 4 dollari e viceversa», aveva detto. All’Oxford Business Group, invece, ha indicato che ricerche e investimenti dovrebbero permettere entro il 2012 all’Opec di produrre ogni giorno i 5 milioni di barili di greggio in più,
Schizofrenia? In effetti bisogna pure ricordare che la “profezia” sui 200 dollari Khelil l’aveva fatta in un’intervista a El Moudjahid, quotidiano del suo Paese: parlava al cittadino e elettore algerino, prospettandogli una cuccagna suscettibile di ulteriori aumenti. L’annuncio della inevitabile fuoriuscita dal petrolio, poi ripresa dall’agenzia algerina Aps e anche dalla nuova rivista dell’Eni Oil, era invece in origine per l’inglese Oxford Business Group. Dunque, un’entità da rassicurare, perché è appunto dal livello di allarme dell’Occidente che dipende la velocità con cui si passerà all’economia post-petrolifera. Più che di doppia verità è in fondo questione di tempi, ac-
L’Algeria ha lanciato un piano per costruire impianti per il solare nel deserto. Iran, Venezuela e Brasile credono nel nucleare. La Russia fa da capofila del fronte che investe le royalties nella finanza internazionale sufficienti a coprire il boom di domanda cinese e indiana. La notizia, piuttosto, è nell’interesse esplicito dell’Opec per le tecnologie alternative, anche se un po’ciò già lo si sapeva. È sotto agli occhi di tutti il programma nucleare di Teheran: foriero sì di gravi preoccupazioni, ma giustificabile non soltanto con la pur dichiarata volontà di «distruggere Israele», bensì anche con la storica carenza iraniana in capacità di raffinazione. Anche il Venezuela di Chávez è un Paese che sta spingendo per lo sviluppo del nucleare: per
ambizione militare, ma anche per la preoccupazione perfettamente compresibile di sfruttare le immense riserve di uranio dell’Amazzonia. Quanto al Brasile, è un Paese che grazie alle ultime enormi scoperte di giacimenti off-side nell’Atlantico sarà presto in grado di affrancarsi dalla sua storica debolezza energetica, e sta già pensando di chiedere a sua volta l’ammissione all’Opec. Ma malgrado la bonanza petrolifera Lula continua nell’asse con Bush per la promozione del bioetanolo e ha appe-
na annunciato un ambizioso programma nucleare. L’Algeria di Khelil non si sta invece muovendo né sul fronte del nucleare né sui biocarburanti. Ma in compenso sta realizzando una gran quantità di impianti per la produzione di energia solare nel deserto del Sahara, dove evidentemente questa peculiare materia prima è sovrabbondante. L’intenzione è far sì che quando petrolio e gas saranno finiti, l’Europa continuerà a dipendere dagli approvigionamenti energetici algerini per
un altro percorso. E anche Marocco e Libia si stanno muovendo nella stessa direzione. D’altra parte, il collasso dell’export petrolifero è sempre dietro l’angolo, come dimostra la recente crisi dell’Indonesia: calata dal milione e mezzo di barili al giorno che produceva a metà degli anni Novanta al milione scarso di oggi.Trasformatosi dunque da Paese esportatore a Paese importatore e oramai sul punto di uscire dall’Opec, i cui interessi non condivide più. Sostituire a petrolio e gas fon-
ti alternative è una strada obbligata per affrontare le incognite del futuro. Ma un’altra soluzione può essere quella di usare gli ingenti utili delle royalties per fare incetta di asset in Occidente a colpi di fondi sovrani: come in effetti sta facendo la Russia di Putin e come fecero pure le monarchie petrolifere del Golfo dopo lo shock petrolifero del 1973. Rispetto a oggi, allora si usavano ancora poco i fondi sovrani, sebbene l’esempio più antico sia stato inventato proprio in uno sceiccato petrolifero: la
Kuwait Investment Authority, nata nel 1953. Più spesso entravano in campo le finanze personali dei sovrani, che in regimi assolutistici e feudali si confondevano tranquillamente con le casse pubbliche, secondo l’antico modello dello Stato patrimoniale.
A dirla tutta il regime di dipendenza dei fondi sovrani russi dal governo piuttosto che dalla Duma non è troppo diverso, al di là del rispetto di certe forme. Da qui gli allarmi ricorrenti, come quelli espressi dal cancelliere Angela Merkel. In effetti, ben 12 dei primi 20 fondi sovrani oggi esistenti sono di origine petrolifera, a partire dall’Adia di Abu Dhabi, con 875 miliardi di dollari di capitale, che lo scorso novembre ha investito in Citigroup, la più grande banca Usa. In questa lista si registrano il Gpf norvegese, con 350 miliardi di capitali; la già citata Kia kuwaitiana, con 250; la Qia del Qatar, con 50; l’Apfc dell’Alaska, con 40,1; la Lia libica, con 40; l’Rnwf russo, con 32,7; il Bia del Brunei, con 30; il Knf del Kazakistan, con 23; l’Osf iraniano, con 12,9; l’Istithmar di Dubai e il Saswf saudita, con 5 miliardi. Ben 10 corrispondono a governi o non democratici o con livelli di democrazia piuttosto approssimativi.
economia
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I soci Benetton e Gavio, a differenza di Ligresti, sono pronti a uscire se non ci sarà una valorizzazione della società
Impregilo si dà un anno per risorgere d i a r i o
d e l
g i o r n o
Bce: allarme inflazione. Pil in crescita L’inflazione in salita preoccupa la Banca centrale europea. Nel suo bollettino di maggio, l’istituto di Francoforte evidenzia come l’indice dei prezzi al consumo, nonostante gli sforzi dei vari Paesi, continui a viaggiare ben al di sopra della soglia del 2%. La Bce sottolinea «la possibilità che l’inflazione resti su livelli notevolmente superiori al 2 per cento nei prossimi mesi, per poi registrare soltanto una graduale moderazione nel corso del 2008». Secondo il documento della Banca centrale il picco del carovita è stato a marzo, quando si è attestato al 3,6 per cento «ma non per questo si può abbassare la guardia». Mentre il Pil, anche se in misura limitata, è cresciuto. Nel primo trimestre il Prodotto interno lordo nell’Ue a 15 ha registrato una crescita dello 0,7 per cento contro lo 0,5 per cento del quarto trimestre 2007. Su base annua il prodotto interno lordo dovrebbe salire del 2,2% come il trimestre precedente.
Mutui, cala la domanda
di Giuseppe Failla
MILANO. Le sorti di Impregilo, almeno per la conferma degli attuali assetti oltre la data di scadenza del patto di sindacato di Igli, si chiariranno nei prossimi 12 mesi. Il rinnovo del patto della holding che annovera fra i suoi soci i Benetton, Ligresti e Gavio – spiegano fonti vicine al dossier – è stato annuale per dare alla proprietà una scadenza per valorizzare la società. Una stasi che si legge anche nei dati del primo trimestre 2008, con ricavi (581,5 milioni di euro) in linea con l’esercizio precedente (615,6 milioni). «Impregilo», si fa notare, «è una società che ha una reputazione internazionale che non trova un adeguato riscontro nella capitalizzazione di Borsa». Non si tratta soltanto di valori di carico dei titoli. L’intento dei tre azionisti è far venir fuori tutto il valore inespresso partendo dall’enorme know how che la società di Sesto San Giovanni ha e che potrebbe far fruttare in gare molto importanti in giro per il mondo, senza dovere necessariamente impegnare ingenti capitali. Il contratto di equity swap a un anno firmato recentemente con Abn Amro ha il fine, tra l’altro, di consentire ai soci di Igli, o anche solo a parte di loro, di lanciare un’Opa obbligatoria alla scadenza, aumentando la presa sulla società. Lo swap prevede che alla scadenza Igli, oggi a poco più del 29 per cento di Impregilo, possa acquistare un ulteriore 3 superando la soglia sopra la quale è obbligatoria l’Opa. La sensazione è che, se le aspettati-
ve di ripresa e di un convincente rilancio della società dovessero essere frustrate, Benetton e Gavio sarebbero pronti a fare un passo indietro. Mentre Ligresti, il cui ingresso ha causato l’uscita dei Rocca di Tenaris, potrebbe essere interessato a rimanere. Al di là del Ponte sullo Stretto, che per il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi dovrebbe vedere la luce a breve, si punta a aumentare sensibilmente il portafoglio partecipazioni in Italia e all’estero. La lunga diatriba sul contratto del Ponte con i rappresentanti del Go-
In attesa del Ponte il colosso italiano vuole sfruttare il suo know how per commesse all’estero e spera nelle grandi opere del governo Berlusconi verno Prodi e, soprattutto, la vicenda legata alla multa in Campania per la vicenda rifiuti hanno appannato non poco l’immagine della società. E in qualche modo Impregilo rappresenta il paradosso italiano nel campo delle infrastrutture. L’aspetto più paradossale è legato proprio alla mancata costruzione del termovalorizzatore in Campania. In pochi sanno infatti che gli impianti tedeschi dove viene smaltita l’immondizia che arriva da Napoli sono stati costruiti proprio da Impregilo.
Il destino incompiuto di Impregilo inoltre è stato fino a poco tempo fa legato a quello di una famiglia, i Romiti, che hanno cercato di farsi dinastia senza riuscirci. La società, nata dalla fusione post Tangentopoli di tre realtà (Cogefar Impresit, Girola e Lodigiani) condivide molti degli stereotipi legati all’Italia, dove il genio non sempre coincide con il primato. I tre attuali proprietari hanno una visione meno romantica della società. Per tutti e tre avere una sponda nel settore delle costruzioni è molto importante. I due azionisti autostradali, Gavio e Benetton, sono per natura interessati a chiunque, per mestiere, costruisca infrastrutture. Per Ligresti, e lo dimostra la recente offerta sulla controllata Immobiliare lombarda, il mattone è un vecchio amore sin dai tempi della Grassetto.
Per nessuno di loro le costruzioni rientrano nel core business. Quindi i prossimi dodici mesi saranno essenziali. Nel giugno del 2009, quando scadrà il patto di sindacato di Igli, si tireranno le somme. Se la pianta avrà dato frutti nuovi, bene. Altrimenti per i soci della holding, o perlomeno per alcuni di loro, scatterà il rompete le righe. Una prospettiva, quella del disimpegno degli attuali azionisti, che non sarebbe gradita al nuovo governo che ambisce, nel suo programma di rilancio delle infrastrutture nazionali, ad avere fra i suoi interlocutori un campione nazionale del calibro di Impregilo con una proprietà italiana.
Continuano a volare i tassi interbancari. L’Euribor con scadenza a tre mesi (indice di quasi tutti i contratti dei mutui variabili) è salito al nuovo massimo da quasi 5 mesi al 4,860 per cento dal 4,859 per cento di mercoledì. Nel primo trimestre del 2008, secondo il bollettino della Bce, la domanda netta di mutui per l’acquisto di case da parte delle famiglie dell’Eurozona è scesa del 57 per cento dopo il calo del 36 per cento registrato nel trimestre precedente. La diminuzione, spiega la Bce, va ricondotto principalmente «al peggioramento del clima di fiducia dei consumatori e delle prospettive dei mercati degli immobili»
Sacconi, presto la detassazione dei salari «Il provvedimento che il governo sta mettendo a punto sulla detassazione delle parti variabili del salario prevede una cedolare secca del 10 per cento in via sperimentale». È l’annuncio del ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, che ha spiegato che la sperimentazione durerà 6 mesi da giugno a dicembre 2008, mentre la platea dei beneficiari sarà composta da operai e impiegati. Sacconi non ha specificato se gli statali rientreranno in questa norma, né ha parlato di tetti o fasce di reddito a cui applicare il taglio delle tasse. Su questo il ministro ha dichiarato che il governo «sta lavorando».
Garrone, via al rigassificatore di Priolo È arrivato il via libera della Commissione del ministero dell’Ambiente per il terminale di rigassificazione di Priolo (provincia di Siracusa) di Erg e Shell. Il parere positivo della Commissione è stato annunciato da Alessandro Garrone, numero uno del gruppo Erg, nel corso dell’incontro con gli analisti finanziari. Il terminale siciliano ha una capacità di 8-12 miliardi di metri cubi all’anno. Durante l’incontro sono stati diffusi i dati del primo trimestre del gruppo che evidenziano un utile netto in aumento dell’85 per cento.
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società
La presidente della Fafce a Roma per la XV Giornata internazionale istituita dall’Onu
Vi racconto la famiglia del XXI secolo colloquio con Elisabeth Bussmann di Antonella Giuli
ROMA. «La famiglia è il capitale sociale più importante di ogni comunità e bisogna lavorare duro per riaffermare questo principio». Le idee le ha decisamente chiare Elisabeth Bussmann, presidente della Federazione delle associazioni cattoliche d’Europa (Fafce) e promotrice, assieme con il Forum delle delle famiglie, della XV Giornata internazionale che si è svolto ieri a Roma e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Barbara Fiala (segretario generale Face), Mario Mauro (vicepresidente dell’Europarlamento), Antoine Renard (presidente francese dell’Afc), Giovanni Giacobbe (presidente Forum famiglie) e del deputato dell’Udc Luisa Santolini, che ha chiuso i lavori. Elisabeth Bussmann ha le idee chiare e le spiega con quell’accento, il tedesco, il suo, che dà un tono ancora più serio a un argomento già tanto delicato. Presidente, qual è il ruolo sociale ed economico della famiglia del XXI secolo? Lo stesso di sempre: oggi come ieri la famiglia continua a svolgere compiti e funzioni insostituibili per il futuro di ogni società e di ogni comunità. Continua a contribuire all’impianto solido e forte delle nuove generazioni assicurando il futuro e la stabilità economica e sociale. Sì ma il «ruolo saldo» della famiglia è in crisi e si fanno sempre meno figli. Vero. Ma questo avviene soprattutto perché la funzione, la cifra interna della famiglia, nel tempo ha perso a poco a poco valore. Fino a essere addirittura messa in discussione prima, e conseguentemente in crisi poi. La colpa? Per lo più delle istituzioni, ree di essersi distratte troppo dal fondamento-famiglia, che oggi non gode più dell’attenzione della politica. Soprattutto quella economica. Le istituzioni europee però sembrano attentissime al problema... Ma in Europa serve comunque un cambiamento serio e radicale. Le politiche familiari ad esempio non possono più far finta che la piaga comunitaria della denatalità non esista. Per poter far fronte ai problemi e quanto meno tentare di affrontarli seriamente, occorre che tutti gli Stati membri dell’Unione pensino e adottino delle misure, dei provvedimenti economici e sociali per consentire alla famiglia di oggi di crescere e affermarsi come unico fondamento del futuro.
Più tempo, più soldi, più infrastrutture, più famiglie? Precisamente. Diciamo proprio: più tempo, più soldi, più infrastrutture uguale a più aiuti alle famiglie. E quindi: più famiglie. Servono urgentemente delle ”infrastrutture amiche”. Che siano cioè a completa disposizione e vadano incontro a tutte le esigenze dei nuclei familiari. Che li aiutino nella crescita dei figli. E questo sarebbe possibile solo con un preciso e mirato intervento politico basato su sostanziosi finanziamenti alle strutture predisposte. Dare vita a una famiglia, perché di questo si tratta, dare vita, è una scelta che scaturisce da una decisione presa liberamente. È vero. Ma questo non può essere slegato dal fatto che ogni Stato, ogni Paese, ogni Nazione nasce, cresce ed esiste proprio grazie al ”sistema-famiglia”. Si poggia insomma su quelle che sono le vere e proprie fondamenta di qualsiasi civiltà. Lo scorso anno, durante il semestre di presidenza tedesca dell’Ue, il cancelliere Angela Merkel lanciò la proposta, subito ac-
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singoli Paesi. Va da sé che a quel punto ogni sforzo andrebbe automaticamente, direi quasi naturalmente, a sostegno della Alleanza europea. Il progetto c’è. Ma servono i fatti, non le parole. La Giornata internazionale della famiglia quest’anno ha come tema centrale l’associazionismo, inteso come elemen-
Il cammino è lungo. Ma precisi interventi combinati di associazioni e istituzioni aiuteranno a ribadire e riaffermare quei sani principi sociali cattolici, vere e proprie fondamenta di tutte le comunità, necessari alla realizzazione di una politica familiare di successo
colta, di un’Alleanza europea per le famiglie. A che punto sono i lavori? L’Alleanza europea per le famiglie è una proposta seria e che ho sempre appoggiato. Credo sia un progetto attuabile e stiamo lavorando alla sua costruzione con grande impegno e slancio, ma come ho spiegato prima, sarebbe davvero fattibile e avrebbe quindi successo se, e solo se, tutti gli Stati membri dell’Unione europea mettessero a punto delle politiche familiari efficaci prima di tutto nei
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to essenziale alla realizzazione dell’Alleanza europea. Come si inserisce la Fafce? Con i fatti e non con le parole. Appunto. Ci sono diverse organizzazioni e associazioni non governative che danno il loro prezioso contributo in Europa e che sostengono le famiglie grazie anche all’aiuto della politica. La Fafce è presente in ben quattordici Stati membri dell’Unione, e lì opera in modo attivo dedicandosi esclusivamente alle politiche per la
Sopra Las Meninas (1656) di Diego Velazquez, chiamato in origine Quadro di famiglia proprio perché ritrae un’immagine di vita di corte della famiglia reale. A sinistra Elisabeth Bussmann, presidente della Federazione delle associazioni cattoliche d’Europa (Fafce) famiglia. Questo è quello che ci vuole: associazionismo e politica insieme per la costruzione dell’Alleanza. Verso quale futuro sta andando la famiglia cattolica? Purtroppo verso l’incertezza e la precarietà. La contingenza soprattutto devia e distrae da quelle che sono le vere linee guida che dovrebbero condurre i nuclei familiari verso un futuro più certo. I ritmi, le frenesie, soprattutto quelle legate ai cambiamenti del mondo del lavoro, rendono più fragili le giovani generazioni e le allontanano dai veri valori e principi fondanti. Ecco perché è urgente un serio impegno della politica nella società. Il suggerimento è quello di una riforma del sistema fiscale attraverso quello delle deduzioni... Sarebbe un grande passo in avanti. Bisogna togliere alle famiglie quella precarietà economica che le sta schiacciando soprattutto attraverso finanziamenti diretti messi a punto dalla politica. Il cammino è lungo, ma interventi combinati di associazioni e istituzioni aiuteranno a ribadire e riaffermare quei principi sociali cattolici necessari alla realizzazione di una politica familiare di successo.
musica
16 maggio 2008 • pagina 21
Clive Davis, grande talent scout, mandato forzatamente in pensione dalla Sony Bmg
Licenziato l’ultimo music man di Alfredo Marziano ful Dead, e del capolavoro strategico messo a punto per il grande ritorno di un Carlos Santana finito nel dimenticatoio: guarnito di ospiti di gran nome e à la page, il suo Supernatural divenne un hit da oltre 15 milioni di copie nei soli Stati Uniti. Fatto fuori dalla Bmg, con il corollario di vivaci proteste e minacce di sciopero da parte di artisti e dipendenti, Davis replicò alla solita maniera: ricominciando tutto da capo con una nuova etichetta, J Records (dove J sta per Jay, il suo secondo nome) e scoprendo l’ennesimo giovane talento, la cantautrice e pianista afroamericana Alicia Keys. Tanto che la major teutonica dovette prendere nota e fare clamorosamente marcia indietro.
ultimo dei music men, stirpe ormai estinta di discografici geniali e capricciosi come pop star, lascia la stanza dei bottoni: è di questi giorni la notizia che Sony BMG, multinazionale del disco per metà tedesca e metà americana, ha deciso di esautorare il suo ufficiale più decorato, il leggendario Clive Davis, riservandogli un ruolo di rappresentanza («principale responsabile creativo» vuol dire tutto e niente) che poco si confà alla sua verve e alla sua voglia di stare al fronte. Troppo vecchio, Davis, che ha ormai settantasei anni suonati. Troppo costoso (pare che il suo stipendio si aggirasse intorno ai 10 milioni di dollari all’anno). Troppo eccentrico, anche, per una corporation che oggi ha bisogno soprattutto di far quadrare i conti, e che per questo ha deciso di affidarsi al più pragmatico Barry Weiss.
L’
È il de profundis di un certo modo, romantico e avventuroso, spregiudicato ma anche un po’ artigianale, di concepire il music business. Morto Ahmet Ertegun della Atlantic, per onorare il quale i Led Zeppelin si sono riuniti una tantum alla O2 Arena di Londra lo scorso dicembre, con Davis scompare definitivamente la figura del discografico vecchio stampo: sempre pronto a far notte e baldoria con gli artisti (leggendari i party da lui organizzati in occasione dei Grammy Awards, una tradizione che resiste senza interruzioni dal 1976), bon vivant e amante del lusso, furbo e smaliziato quando si tratta di firmare i contratti - Davis iniziò la carriera negli anni Sessanta come avvocato, passando poi all’ufficio legale della Columbia - ma anche capace di emozionarsi come un bambino di fronte a una bella canzone e di essere paterno, a volte affettuoso a volte severo, con i suoi pupilli. C’è lo zampino dell’ineffabile Clive dietro il recente exploit mondiale di Leona Lewis, la giovane sensazione pop britannica lanciata dall’X Factor di quell’altro volpone di Simon Cowell a cui lui, col suo fiuto per gli affari da ebreo newyorkese, si è subito proposto come partner discografico intuendo le potenzialità del nuovo format musical-televisivo (nel suo giardino c’erano già
Sopra, Clive Davis con una delle sue “scoperte”: Whitney Houston. In basso, da sinistra: Carlos Santana, Bruce Springsteen, Janis Joplin e Billy Joel che grazie a Davis approdarono alla Columbia. L’etichetta americana non esitò tuttavia nel ’72 a destituirlo
Dai Pink Floyd a Bruce Springsteen, da Whitney Houston a Leona Lewis. Il geniale discografico che vanta al suo attivo il successo di tante rockstar è passato di moda. Ora a comandare sono i “contaspiccioli” tutti i nuovi virgulti di American Idol). Non è bastato neanche quello a evitargli il prepensionamento, servitogli da un amministratore delegato che, sommo sgarbo, ha anche licenziato in tronco il suo vice Charles Goldstuck: ironia della sorte, trattasi proprio di quel Rolf Schmidt-Holtz che nel 2000 si cosparse il capo di cenere reintegrandolo, con tutti gli onori e oneri del caso, da un improvvido esonero deciso dal prece-
dente management della società. Era già capitato nel lontano ’72, a Davis, di essere destituito senza tanti complimenti dei suoi poteri: allora si trattò della Columbia, l’etichetta a cui aveva portato in dote i Pink Floyd (solo per il mercato americano), Janis Joplin e Santana, Bruce Springsteen e Billy Joel.
Motivo? La distrazione di fondi societari a uso personale, un vizietto - pare - duro a morire.
L’orgoglioso Clive reagì fondando un suo marchio, Arista Records, poi assorbito dalla major Bmg, e facendo della sconosciuta Whitney Houston una superstar, convincendola a recitare il ruolo da coprotagonista nel film Guardia del corpo e a gorgheggiare I Will Always Love You a tu per tu con Kevin Costner. Un botto, un successone, per non parlare dei dischi pubblicati per Lou Reed e Patti Smith, Annie Lennox e i Grate-
Per curiosa e probabilmente non casuale coincidenza di eventi, in contemporanea alla sua messa in disparte un altro discografico dall’orecchio fino, il Roger Ames che era stato presidente di PolyGram e Warner, è venuto a scoprire che in Emi non c’è più posto per lui. Sulla poltrona presidenziale della società inglese, dopo il «re dei biscotti» Eric Nicoli, siede ora il quarantanovenne finanziere d’assalto Guy Hands, uno che di musica per sua stessa ammissione sa poco o niente e che i soldi li ha fatti con gli investimenti immobiliari, i pub e le sale cinematografiche. Ai posti di comando delle case discografiche stanno ormai quelli che gli inglesi chiamano bean counters, i contaspiccioli, gli uomini in giacca e cravatta troppo concentrati sui listini di Borsa e i report trimestrali, il taglio dei costi e gli indici di redditività per prestare attenzione alla musica che gli gira intorno. Oggi che nelle major musicali la figura del direttore artistico è virtualmente scomparsa, i talent scout - i pochi rimasti in giro - stanno fuori, ai margini del circuito (l’ultimo music man italiano che si ricordi in discografia, Stefano Senardi, ha dovuto dire addio alle multinazionali a fine anni Novanta e riciclarsi come indipendente: ultimamente a fianco del produttore cinematografico della Fandango, Domenico Procacci). Se anche arrivassero i nuovi Beatles a bussare alla porta di una casa discografica, domani, forse non se ne accorgerebbe nessuno.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Campionato,pugno duro contro i tifosi in trasferta? LA POLITICA E LA FILOSOFIA DEI ”NO” NON POSSONO RAPPRESENTARE UNA SOLUZIONE
L’OSSERVATORIO SULLE MANIFESTAZIONI SPORTIVE È FAZIOSO MA SOPRATTUTTO PLENIPOTENZIARIO
L’Italia è veramente un paese strano. Possiamo ospitare capi di stato internazionali bloccando città intere con le truppe speciali. Possiamo schierare centinaia di celerini per organizzare G8. E una partita di calcio? No quella no, troppo pericolosa. Far vedere la partita ai romanisti a Catania? Impossibile. E’ semplicemente vergognoso. Ancor più ridicolo era l’ipotesi di permettere ai tifosi dell’Inter di andare in trasferta a Parma. Per la prima volta mi sono trovato addirittura d’accordo con il ”caro”Matarrese: non è possibile fare favoritismi e usare due pesi e due misure. Roma e Inter si giocano la vittoria del campionato, entrambe fuori casa. E allora, o tutte e due possono avere il sostegno della propria tifoseria, oppure è un’ingiustizia. Quanto ci voleva ad organizzare un treno speciale per Catania e a scortare i tifosi della Curva Sud giallorosa dentro allo stadio etneo? Molto poco. Evidentemente è mancata la volontà. Per l’ennesima volta ha perso lo Stato e hanno vinto i facinorosi. Ah, dimenticavo. Ha vinto anche l’Inter. Solo la partita dei favoritismi. Quella in campo è tutta un’altra storia.
Nella nostra Nazione esiste un organismo un po’ particolare, ma plenipotenziario. Si chiama ”Osservatorio sulle manifestazioni sportive”, è diretta da un tal Ferlizzi e si permette di decidere quali siano i buoni e quali i cattivi tra i tifosi italiani. Ovviamente anche con una buona retribuzione. Eppure questi signori non conoscono neanche i nomi dei gruppi ultras che popolano le curve. Inventano pericoli ”rossi” o ”neri” secondo il periodo politico che vive l’Italia. Soprattutto vietano a questo o quello di andare in trasferta a seguire la propria squadra. Da quest’anno poi è diventato ”di moda” chiudere i settori ospiti. La pazzia è proprio questa. Anche un bambino di tre anni capirebbe che è molto più semplice tenere a bada un gruppo di 2000 persone in un settore particolare, piuttosto che chiuderlo e quindi aprire la porta alla possibilità che le stesse persone si comprino su internet biglietti di altri settori andandosi a mischiare con le altre tifoserie e creando, questa volta per davvero, disordini e incidenti. La tifoseria napoletana su questo ha fatto scuola. Allora perchè vietare Catania? Per fare un favore all’Inter e per evitare un po’ di lavoro ai signori in divisa. Lo stato è debole, si faccia qualcosa, subito. A presto.
Augusto Curino - Roma
Vittorio Romano - Milano
LA DOMANDA DI DOMANI
È GIUSTO NON PERMETTERE LE TRASFERTE SE QUESTO PUÒ IMPEDIRE SCONTRI E DISORDINI
Calcio: chi merita di più lo scudetto, la Roma o l’Inter? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Credo che la decisione di non far andare a Parma gli interisti e di vietare Catania ai romanisti sia sacrosanta. Il motivo? Semplice. Si rintraccia nella pericolosità delle tifoserie. Sembra che proprio non riescano a stare alla larga da incidenti e disordini, che siano con altri tifosi o con le forze dell’ordine non fa differenza, soprattutto per la curva Sud. Fosse per me, non farei andare andare in trasferta più nessuno. Poco importa se questo vuol dire impedirle anche se la propria squadra si gioca lo scudetto nell’ultima giornata di campionato. Grazie e distinti saluti.
CANTO DE PUEBLOS ANDINOS Accade sempre più di frequente che uomini politici di rilievo della destra nei loro interventi, chiudano il cerchio del ragionamento con l’espressione sprezzante: “E’ un modo di pensare relativista”. Per tutti, le efficaci e recenti espressioni di Calderoni contro il vescovo di Verona sulla questione della moschea, insinuando un contrasto tra il vescovo, favorevole, e la posizione del Papa. Potrebbe sembrare una vittoria del Papa, visto che quotidianamente insiste sul problema del relativismo. Ma il termine va interpretato con un significato interno alla Chiesa e uno fuori dalla Chiesa. All’interno ha lo scopo di ricondurre la teologia, che tendeva alla “relativizzazione”e umanizzazione della figura di Gesù, alla sua reidentificazione con Dio, allo scopo di riaffermare la necessità di una solida visione del mondo non mutevole con i valori permanenti della morale naturale. Il motivo: contrastare la deriva interna della Chiesa verso un indebolimento della volontà di conversione universale, delle religioni nell’ecumenismo e nel dialogo tra le diverse fedi.
OCCHIO ALL’OCCHIO
A Tokyo, la singolare iniziativa del gruppo “Medaman-Medaman”, che si esibisce nelle strade più affollate della metropoli per sorprendere i passanti e «distrarli per un attimo dalla routine quotidiana». Risultato: molti i bambini scoppiati in lacrime
I ”SINISTRI” SENZA WI-FI
IL FANTASMA DI STALIN UNGERÀ LE TESTE DEGLI ATEI
Non chiamateli comunisti e cattocomunisti. Per una volta, siate moderni. Sono i nostri sinistri in marcia forzata sulla strada della creatività: sono i creative player tuttofare che, oltre alla gestione del potere, vogliono regalarci emozioni. Se si vogliono evitare le solite etichette, la scelta è ampia. Non fateli arrabbiare, non vedete la novità? Sono sempre loro, la stirpe è la medesima, ma tra svelamenti e velamenti sono diversi per stile, foggia e interfaccia. Più semplici, più sbarazzini, senza fili popolari. Più sconnessi di loro non c’è nessuno. Sono in bilico tra la memoria e la rimozione della realtà. Provate a chiamarli sinistri con connettività senza fili wi-fi.
Il centrodestra ha ancora molto da imparare dall’opposizione raccolta intorno a Veltroni: quando Berlusconi riunisce intorno a sé il governo, questo viene chiamato «governo del Presidente»; quando alla Camera il Presidente presenta il discorso per la fiducia, viene scritto «quale sia il Berlusconi autentico nutriamo qualche sospetto, che tuttavia accantoneremo in attesa di vedere come si darà seguito a tanti lodevoli propositi». Mai una volta che stiano zitti: hanno perso, si sono spaccati, si sono scannati tra loro e hanno sempre da sentirsi unti. Stavo per dire dal Signore, ma sono atei! Chi li ungerà mai... forse il fantasma di Stalin.
dai circoli liberal Lisanna Forte - Napoli
Fuori invece, il termine “relativismo”, credo, è usato contro un metodo di ricerca, rigenerato dalla caduta del muro di Berlino e dall’eredità nelle menti dell’utopia sociale comunista ateista, che arriva invece a essere “fine ultimo”. Si sta sottovalutando però l’uso strumentale del termine “relativismo” nella dialettica politica, come modo di evitare di dare una motivazione ragionevole alle cose che sono solo della ragione e non della fede. Oggi il senso comune imputa solo alla Chiesa le vicende dell’Inquisizione. Eppure all’epoca alcuni Stati europei non l’hanno vissuta. L’inquisizione ha avuto connivenza e strumentalizzazione dei regnanti, che vedevano così rafforzare il loro assolutismo con lo spegnimento di qualsiasi forma di dissenso e diversità culturale. Sull’altro versante politico, come reazione, la difesa del relativismo potrebbe favorire un altrimenti ingiustificabile consenso, nel segno improprio della “libertà di pensiero”, in favore di chi alimenta la cultura contro il sacro. Come nel dopoguerra quando era egemone una cultura non equidistante verso le varie forme di dittatura: le democra-
Pierpaolo Vezzani
L. C. Guerrieri - Teramo
zie europee, intimorite dal consenso culturale marxista, reagivano in modo diverso tra un colpo di stato di destra o di sinistra. Ricordate Allende in Cile? quanti cinquantenni sono a conoscenza del fatto che Alllende, prima del colpo di stato di destra, distrusse in tutta coscienza il sistema partitico parlamentare liberaldemocratico con forzate modifiche costituzionali, pur impegnandosi per iscritto verso il Parlamento che mai lo avrebbe fatto? Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Se tu sapessi che febbre ho nel cuore Mia adorata amica. Non chiedo che tu mi risponda; non ti chiedo se non che tu abbia la pazienza di leggere le espressioni dei miei sentimenti per te. Ho bisogno di dirti ch’io t’amo, di ridirtelo, di giurartelo; e in quelle ore ch’io passo in casa tua, non mi è mai dato di star libero e solo con te un istante. Sì, io t’amo! Se tu sapessi la febbre che ho nel cuore, se tu sapessi come la tua immagine, i tuoi sorrisi, i tuoi detti, sempre scolpiti nella mia mente, mi fanno continuamente palpitare; se tu sapessi come i miei sonni sono turbati e brevi da che ho non so se debbo dire la fortuna o la sciagura di conoscerti, tu mi compiangeresti, o Gegia! Io sono in uno stato di pena inesprimibile.Vorrei offrirti in me l’uomo, il più degno d’una angelica creatura qual tu sei... ma ciò che ho di te degno non è altro che un’anima immensamente capace d’amore. Silvio Pellico a Teresa Bartolozzi
SICUREZZA: AVANTI, MA SEMPRE CON JUDICIO La nuova politica del governo Berlusconi sull’immigrazione clandestina, stando a quanto anticipato dai giornali, mi pare grosso modo apprezzabile: introduzione del reato di immigrazione clandestina, rafforzamento dei pattugliamenti marittimi, permanenza nei Centri di permanenza temporanea fino a 18 mesi. I clandestini alimentano realtà criminali importanti, che l’opinione pubblica chiede giustamente di contrastare con efficacia, innanzitutto rendendo effettiva la disciplina in materia di espulsioni che - come finora disattesa dal precedente governo ha posto in dubbio l’idoneità delle istituzioni a tutelare la serenità e l’incolumità dei cittadini, indebolendo la credibilità dello Stato. Per quanto riguarda i rom, occorre invece (come ha dichiarato il ministro degli Esteri Frattini) evitare che ci siano espulsioni di massa dall’Italia: «I romeni onesti saranno accolti nelle nostre case e nelle nostre aziende; quelli disonesti dobbiamo prenderli e restituirli al Paese di provenienza». Con ciò, approvando la ferma reazione e
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
16 maggio 1770 Maria Antonietta, 14 anni, sposa il futuro re di Francia, Luigi XVI, 15 anni 1911 In Inghilterra vengono ritrovati resti dell’uomo di Neanderthal 1929 Prima edizione degli Academy Awards per il cinema 1960 Uno studio americano rivela che gli spot pubblicitari a colori sono tre volte più efficaci di quelli in bianco e nero 1973 Governo in pericolo per il codice postale che mette fuorilegge le tv via cavo. La Malfa insiste sulla richiesta di dimissioni da parte del ministro delle Poste Gioia. Le tv si battono contro il monopolio dell’informazione 1975 E’ giapponese la prima donna sulla vetta del monte Everest e si chiama Junko Tabei 1975 Mario Sinopoli viene nominato Procuratore generale della Corte dei Conti 1990 Scompare 64enne lo showman Sammy Davis Jr. Era affetto di cancro alla gola
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
protesta del governo romeno; come ha sottolineato il nostro ministro degli Esteri. Quindi, sta bene approvare il ”pacchetto sicurezza”, ma con molta attenzione e avvedutezza. Procedere in avanti, ma con judicio.
il meglio di
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
SAREBBE INDIMENTICABILE UNA CENA CON MARIA NOVELLA OPPO Su l’Unità, la rubrica a firma Maria Novella Oppo è davvero sorprendente: tratta il sacro ed il profano, passa dal serio al faceto, dall’ironico al serioso con una disinvoltura, una scioltezza, una sicurezza nelle affermazioni che verrebbe la voglia di scriverLe per offrirle una cena! Non c’è dubbio, sarebbe una serata indimenticabile: se un buontempone volesse ricorrere all’uso della querela per diffamazione, in Tribunale si riempirebbero faldoni su faldoni. Certo che è un bel divertirsi a leggere l’Unità: ma c’è qualcuno che firma articoli credibili, quando la credibilità è un dovere, per lo meno, odontologico? Buon lavoro.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
PUNTURE Berlusconi e Veltroni sono talmente buoni che per avere un cattivo bisogna andare a vedere il film di Sorrentino su Andreotti.
Giancristiano Desiderio
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Bisogna fare cose folli, ma farle con il massimo di prudenza HENRY MILLON DE MONTHERLANT
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
BIRMANIA: I SOMMERSI E I BRACCATI Se le parole salvassero vite l’ultima tragedia birmana sarebbe già acqua passata (appunto). Negli ultimi giorni ha guadagnato terreno il dibattito sulla fattibilità di un’invasione umanitaria volta a superare le barriere erette dalle giunta militare. Oggi si è scomodato perfino Robert Kaplan sul Nytper soppesare pro e contro di un possibile intervento: approfittando degli effettivi americani attualmente impegnati in un’esercitazione militare in Thailandia, una gran quantità di aiuti potrebbe essere trasferita alla popolazione via mare senza la necessità di penetrare in profondità in territorio birmano. Ma si tratta al momento di una discussione meramente accademica, con scarse probabilità di applicazioni concrete: anche volendo escludere l’ipotesi di un conflitto armato, è certo che una soluzione di forza provocherebbe un’alterazione degli equilibri (se così vogliamo chiamarli) politici interni tale da richiedere un prolungato impegno delle nazioni coinvolte nella fase del post-intervento. Insomma, un prezzo troppo alto per riscattare qualche milione di birmani. Intanto il governo sigilla il delta dell’Irrawaddy, zona off-limits per stranieri e media. Ma anche i locali sono costretti a posti di blocco e perquisizioni continue mentre il materiale da loro donato è generalmente confiscato dalle autorità. (...) Si dice che la prima vittima della guerra sia la verità. La Birmania colpita dal Nargis è di fatto una zona di guerra ed il controllo dell’informazione è la priorità dei padroni del pensiero che la tengono in ostaggio. Si è aperta quindi una vera e propria caccia al giornalista o al semplice testimone. (...) Informare è un’attività clandestina ed ogni volto straniero è sospetto. Gli inviati in incognito so-
no sorvegliati, ascoltati, pedinati, fermati, espulsi. (...) Rimane solo un manipolo di giornalisti birmani, spesso corrispondenti improvvisati, a sfidare la censura: I sommersi e i braccati.
1972 1972.splinder.com
AUGURI ISRAELE Sessant’anni fa, Ben Gurion dichiarava ufficialmente la nascita dello Stato di Israele. In tutti questi anni ha dovuto combattere più volte per difendersi dalle aggressioni militari dei Paesi confinanti, intenzionati a distruggere il piccolo Stato. (...) Sì, la sua esistenza è un miracolo che continua. (...) Un miracolo che, però, è frutto della enorme carica ideale che ha consentito a quel popolo di tornare nella terra dei Padri e, dal nulla e dal deserto, a costo di enormi sacrifici, fatica, sudore e sangue, ricostruire una nuova patria per tutti gli ebrei del mondo. Un popolo che, tuttavia, non può concedersi un attimo di tregua, di pace, e che, invece, deve continuamente difendere quella patria dai continui attacchi e minacce, rivendicando ogni giorno il proprio diritto all’esistenza. Il tutto mentre le potenze occidentali fanno come le stelle: stanno a guardare. Anzi, fanno di più e di peggio, sostengono e finanziano, col pretesto degli aiuti umanitari, quelle organizzazioni terroristiche che usano i finanziamenti per accrescere il patrimonio personale dei capi (vedi Arafat), per propagandare e diffondere l’odio o per acquistare armi sempre più sofisticate e potenti, in attesa del prossimo attacco, sostenuti, finanziati, organizzati ed addestrati da Iran e Siria. In questa giornata auguro che questo miracolo continui ancora per secoli e millenni. Auguri Israele.
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