QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Esce il quarto film della serie ambientato nella Guerra Fredda
e di h c a n o cr
Indiana Jones e il teschio del regime sovietico
di Ferdinando Adornato
9 771827 881004
80521
GLI SCONTRI IN SUDAFRICA Neri uccidono altri neri. Nel Paese di Mandela crolla tragicamente il mito che il colore del razzismo sia solo bianco
di Anselma Dell’Olio e si va a vedere con zero aspettative Indiana Jones e il Regno del Teschio di cristallo, ci si può divertire abbastanza da giustificare il prezzo del biglietto e le due ore di vita che non torneranno più. Il dilemma del critico è trovare il difficile equilibrio tra lodi che incoraggiano il pubblico a vedere un’opera, senza alzare troppo le attese e suscitarne la delusione. Questo rischio non si corre con il quarto Indiana Jones, degli ex enfants prodiges Steven Spielberg (regista) e George Lucas (produttore e ideatore). Oramai lo sanno pure i sassi che all’anteprima di Cannes il pubblico ha ululato di gioia più alle prime note della virile marcia trionfale di John Williams a inizio film che alla fine. È opinione diffusa tra chi lo ha già visto che è la più debole delle quattro puntate. Come si è detto, però, se si va con la semplice curiosità di vedere cos’hanno combinato questa volta l’incanutito Jones e compagni, ci sono parecchie cose godibili, soprattutto durante i primi quaranta minuti delle due ore complessive. Cominciamo con la trama, tanto spiritosa nell’impianto temporale e politico quanto macchinosa e soporifera nel busillis intorno ai reperti archeologici ultraterreni. Tutto ciò che riguarda il teschio di cristallo e i suoi segreti è sopportabile solo per gli effetti speciali, specie alla fine.
S
Il sogno bruciato
alle pagine 2 e 3
se gu e al le p ag in e 20 -2 1
Oggi il governo abolisce la tassa
Bullismo: parla Maria Rita Parsi
Più tonnellate verso il Nord Europa
Aspettando la presidenza Ue francese
Il taglio dell’Ici non basta a creare equità
I ragazzi di oggi muoiono di realtà virtuale
Rifiuti top secret: il piano di Berlusconi
Sarkozy apre il valzer europeo delle poltrone
di Gianfranco Polillo
di Nicola Procaccini
di Errico Novi
di Enrico Singer
Il programma elettorale del Pdl conteneva l’indicazione di abolire l’Ici sulla prima casa. Oggi il governo si appresta a mantenere la promessa. E lo fa con un occhio al programma dell’opposizione.
Il lato oscuro dei giovani. Per Maria Rita Parsi, psicologa di fama e scrittrice avvincente: «Sempre più ragazzi vivono all’interno di una realtà virtuale e le conseguenze, a volte, sono terribili».
La nuova strategia si basa sulla discrezione: le ecoballe da trasportare in Germania potrebbe aumentare a condizione che questo avvenga senza eccessiva pubblicità.
Il semestre di presidenza francese dell’Ue comincerà il primo luglio: mancano 40 giorni, ma Sarkozy ha già preparato la strategia per centrare i punti su cui giocare la sua prima partita internazionale.
pagina 4
pagina 9
pagina 7
pagina 10
MERCOLEDÌ 21
MAGGIO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
93 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 21 maggio 2008
il sogno
bruciato
Dopo l’illusione dell’integrazione, i neri del Sudafrica uccidono gli immigrati dello Zimbabwe, del Mozambico e del Chad
Crolla il sogno di Mandela di Justo Lacunza Balda a feroce violenza che ha sconvolto il Sudafrica negli ultimi giorni non ha provocato solo distruzione e morte: ha infranto l’immagine di un Paese dove la convivenza, l’accoglienza e il rispetto degli altri sembravano ormai acquisiti, scontati. Invece è crollato il mito del politically correct. Perché questa volta sono i neri sudafricani a cacciare via gli immigrati di altri Paesi del continente. E non con l’invito a tornarsene nella loro patria di origine, ma con una vera e propria esplosione di furore xenofobo contro lo straniero, anche se africano. I conflitti odierni del Sudafrica, dove si mescolano il tribalismo, la povertà e la cittadinanza, svelano che l’odio nei confronti dell’immigrato non è necessariamente una questione di colore, di bianchi e neri, come nel passato, ma un problema legato
L
Mentre aumenta il numero dei morti, un ministro ipotizza una regia dei disordini
A Pretoria spunta l’ombra del complotto Ventiquattro morti, fra i 300 e i 600 arresti, 13mila sfollati e una tensione crescente nel Gauteng, la più piccola e ricca delle provincia sudafricane (in sesotho Gauteng significa “luogo d’oro”) che comprende Johannesburg (Soweto compresa) e la capitale Pretoria, non hanno ancora messo d’accordo sindaci e politici sulla necessità di inviare l’esercito per arrestare l’ondata di violenza xenofoba che sta dilagando nel Paese. «Non è ancora il momento» dicono gli interessati, mentre è chiaro che la sola forza di polizia non è in grado di controllare la situazione. Il rimpatrio, intanto, nonostante l’appello alla tolleranza lanciato in extremis dal presidente Thabo Mbeki, è cominciato. E sono decine gli stranieri che da Jabulani (vicino Soweto) hanno chiesto alla polizia di essere scortati alla stazione di Johannesburg per poter prendere il treno e tornare a casa, in Mozambico o Zimbabwe. «Sono persone spaventate e che hanno già subito atti di vandalismo nelle loro case. Il loro timore è di essere ammazzati» dice il portavoce della Polizia Kay Makhubela. Ieri, intanto, le Commissioni sudafricane dei diritti umani, per le pari opportunità e per la sicurezza pubblica hanno lanciato un durissimo appello congiunto al Governo affinché dia ordine all’esercito di intervenire al più presto per scongiurare il peggio e fermare gli arresti e i rimpatri forzati. «Le nostre Forze ar-
all’appartenenza etnica, liguistica e tradizionale. Se è vero che oggi il continente africano è diviso in nazioni-indipendenti, è anche vero che
mate sono preparate alle operazioni di peacekeeping, avendo già operato in tal senso sia in Ruanda che in Burundi» dice Zonke Majodina, vicepresidente della Commissione per i diritti umani. Ma per il governo cedere sull’esercito significherebbe ammettere l’emergenza, «da dichiarare – ricorda il governatore del Gauteng, Mbhazima Shilowa – solo in caso di guerra, invasione o insurrezione civile». La situazione politica fortemente compromessa, si scalda ancor più, se possibile, dopo le dichiarazioni del ministro dello Sport, Barbara Creecy, circa la «concreta evidenza» di una presunta “terza forza” coinvolta negli attacchi xenofobi contro lavoratori africani immigrati dei giorni scorsi: «La polizia ha le prove di un complotto volto a esacerbare la crisi» ha denunciato il ministro, «e sta lavorando su questa pista». Ma al momento, su questo fronte, nessun comunicato ufficiale è ancora stato diramato. Anche se il sospetto è che siano coinvolte forze legate al regime di Mugabe, il presidente dello Zimbabwe, da sempre sostenuto da Mbeki. (L.A.)
il tam-tam dell’anima africana continua a percuotere il territorio, la tribu, le etnie e le lingue. Sono queste, infatti, le quattro linee di forza, le radici profonde delle società e dei popoli dell’Africa.
Ma sembra che a parlare in questo modo si guardi al passato e non al presente. Per molti può anche significare una mancanza di rispetto per l’Africa e una lettura sbagliata di situazioni politiche complesse. Tuttavia non si può comprendere la storia recente del Sudafrica, della Somalia, della Nigeria, del
Sudan, dell’Africa Centrale, del Chad, se non si ha il coraggio di analizzare fino i fondo i contesti attuali e i fatti storici dei nostri tempi con categorie di pensiero che aiutano a smontare le ideologie politiche. In questo senso l’ammirazione del presidente Mbeki per i gravi misfatti del presidente Mugabe nello Zimbabwe hanno direttamente influenzato l’impianto politico del leader sudafricano. Nato ed educato nel solco dell’apartheid, Mbeki ha sempre sostenuto Mugabe e difeso le sue strategie contro nemici e oppositori del regime. È manifesto agli occhi del mondo come Mugabe ha ridotto lo Zimbabwe. Fame, povertà e disperazione. Persecuzioni, tortu-
re e prigione. Vedendo tutto ciò Mbeki non ha mai condannato la sua politica e non ha mai difeso publicamente i cittadini dello Zimbabwe. Anche dopo le ultime elezioni presidenziali, segno evidente della volontà popolare.
La violenza esplosa in Sudafrica esplicita altri due aspetti che toccano l’Africa e l’Europa. Il primo è quello dell’immigrazione all’interno dei Paesi africani. Le guerre si moltiplicano nel continente: ma in questo campo bisogna dire che il capitalismo, l’economia e lo sfruttamento delle risorse non sono necessariamente le uniche cause delle guerre in corso. Ci sono anche ragioni di natura etnica, tribale e religiosa che incidono direttamente sulle relazioni fra gli stati. Il secondo aspetto è che queste violenze devono aprire gli occhi alle classi politiche europee. La xenofobia, il razzismo e l’odio non attengono solo al Vecchio continente. Questi sentimenti fomentati da motivi etnici o culturali possono nascere in qualsiasi parte del mondo. Solo la consapevolezza della grandezza e della debolezza dell’essere umano ci permetterà di interpretare con realismo gli eventi della storia moderna. In Africa, in Europa e in qualsiasi nazione del mondo. E solo così i leader politici impareranno a gestire i problemi e le emergenze sociali al netto di miti e ideologie. In Sudafrica si era sviluppato, dopo gli anni di terrore e oppressione sotto l’apartheid, il grande mito del “non razzismo”. Un mito che oggi crolla sotto il peso della rabbia, sotto la spinta della lotta, sotto il veleno dell’odio contro l’immigrato. Non più bianco e di estrazione europea, ma nero e di radici africane. Perché arriva sempre il giorno in cui le ideologie vengono spazzate via dalla pubblica piazza. Rettore del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamistica
il sogno
bruciato
21 maggio 2008 • pagina 3
Un grande giornalista africano denuncia le responsabilità di Mbeki
Tutte le colpe del presidente di Justice Malala
JOHANNESBURG. Il presidente Thabo Mbeki e il suo successore alla guida dell’Anc, Jacob Zuma, si rifugiarono a Londra, in Zambia, in Nigeria, in Svizzera, in Mozambico e in altri Paesi tra il 1962 e il 1990: lo ricordo sia ai miei connazionali che a coloro che hanno la memoria corta. Dovremmo vergognarci del fatto che siamo noi quelli che oggi stanno violentando, depredando e uccidendo gli stranieri perché apparentemente ci “rubano”le nostre case e le “nostre donne”. Cosa ha provocato le scene terribili che si vedono in questi giorni nel nostro Paese? Bambini picchiati e cacciati, donne violentate e uomini lasciati tumefatti, senza casa, affamati e disperati? Cosa ha portato ad una situazione in cui i giovani non si vergognano di dire davanti alle telecamere che uccideranno gli stranieri? Non dovremmo essere sorpresi. Per l’Anc, guidata
“
zione a questo punto; la sua mancanza di risolutezza è direttamente responsabile dell’esplosione xenofoba, e se a questo si aggiunge l’incompetenza della polizia sudafricana non c’è speranza che qualcuno degli autori delle atrocità dei giorni scorsi venga perseguito.
La gente comune aveva previsto che la rivolta si sarebbe allargata al cuore economico di Johannesburg, ma quando la violenza è esplosa in città, sabato notte, la polizia era impreparata e non avendo un centro di raccolta dati difficilmente potrà spiegare o piegarsi cosa sta succedendo, per non parlare di contenerlo. Questo fallimento è determinato dal fatto che molti poliziotti stanno prendendo mazzette dai profughi stranieri ansiosi di evitare di essere espulsi e la loro incompetenza è anche responsabile della cultura – attecchita durante il regime di Mbeki e Zuma – secondo cui il crimine non va punito. Dopotutto, queste orde di saccheggiatori sanno che Mbeki ha protetto il suo amico, Jackie Selebi (capo della polizia e dell’interpol, sospeso dal 12 gennaio scorso dai suoi incarichi con l’accusa di ver ricevuto 150mila euro di mazzette per cinque anni da Glen Agliotti, un uomo d’affarri condannato recentemente a 10 anni di prigione per traffico di droga, e di essere coinvolto nell’assassinio del magnate minerario Brett Keble, ndr), per anni, quindi non c’è rispetto per la legge e questa gente può stuprare e depredare senza timore di essere arrestata e tantomeno di correre il rischio di un’azione penale. Altro ingrediente del cocktail è la corruzione endemica dei funzionari di governo; c’è una tale concussione nella costruzione e assegnazione degli alloggi pubblici che il risentimento, fuori luogo o meno, è inevitabile. Non ci sono rimedi rapidi per questo caos. La rimozione di Mbeki, come suggerito da alcuni nei giorni scorsi, non è una soluzione. Il problema è il fallimento della politica dell’Anc, ma nel breve termine sarebbe quantomeno utile che l’incompetente ministro della sicurezza, Charles Ngakula, usasse il suo incarico per perseguire duramente i colpevoli, così come un coordinamento migliore degli strumenti di scurezza, inclusa la tempestiva identificazione dei potenziali agitatori, sarebbe d’aiuto. Capi di governo come Mbeki dovrebbero visitare le comunità afflitte da questa xenofobia, invece di emettere condanne dal Mozambico; nel lungo periodo, una mente lucida, efficiente ed eticamente responsabile, aiuterebbe molto, ma chiedere questo all’Anc di oggi è pretendere troppo, perché si tratta delle stesse persone che stanno disperdendo gli scorpioni (corpo scelto di 2mila uomini scelti fra polizia, guardia di finanza, forze intelligence che indagano contro la corruzione e il crimine organizzato, ndr). Chiedergli di agire nell’interesse del Paese, e non nel loro, è inutile.
Dovrebbe visitare le comunità afflitte da questa xenofobia invece di emettere condanne dal Mozambico. Ma chiedergli di agire nell’interesse del Paese, e non nel suo, è praticamente inutile
Razzismo bianco, razzismo nero quarant’anni di violenze 1966 Processo a Mandela. 1975 Con l’indipendenza di Angola e Mozambico, colonie portoghesi protettrici del Sudafrica, finisce il ruolo di bastione del “potere pallido” nel continente nero di Pretoria. 1976 Il massacro di scolari a Soweto, e l’assassinio di Steven Biko, leader del movimento Coscienza nera, sollevano ondate di proteste contro il regime dell’apartheid in tutto il mondo. 1989 Inizia il crollo del blocco sovietico. Il regime sudafricano perde ogni legittimazione politica. 1989 P.W. Botha lascia. Al suo posto subentra Frederik De Klerk. Il regime separatista inizia a sgretolarsi. 1990 Mandela rinuncia alla lotta armata in cambio dell’abolizione dell’apartheid ed esce di prigione. Cominciano le discordie tra l’Anc, partito multirazziale e il partito zulù, Inkhata Freedom Party. 1994 I bantoustan, stati neri “autonomi” dentro il Sudafrica, sono reintegrati nell’amministrazione di Pretoria. 1994, aprile. Prime elezioni multirazziali, «un uomo, un voto». Mandela capo dello Stato e De Klerk vice presidente. Nasce la Commissione verità e riconciliazione. 1999 Thabo Mbeki, delfino di Mandela e presidente dell’Anc, diventa capo dello Stato. 2004 Thabo Mbeki viene rieletto presidente. Aprile 2005 - marzo 2006 18mila morti causati da armi da fuoco. 55mila stupri. I media ritengono improbabile che il governo possa mettere un argine al dominio delle bande armate. 2007, febbraio. In un discorso alla nazione Thabo Mbeki, ammette che il Paese vive nella paura. 2008, aprile. Desmond Tutu e Nelson Mandela denunciano l’irresponsabilità di Thabo Mbeki nella gestione del Paese e la sua connivenza con Mugabe, presidente dello Zimbabwe 2008, maggio. Ad Alexandra, una periferia di Johannesburg, iniziano gli scontri etnici tra sudafricani e immigrati dei Paesi vicini. (F.C.)
da Zuma e Mbeki, i nodi stanno venendo al pettine. Un insieme di fattori, miscelati a dovere dal partito dell’African National Congress negli scorsi dieci anni, è responsabile della barbarie. Queste persone, infatti, si stanno comportando così perché l’Anc ha fallito, nonostante numerosi avvertimenti, nel risolvere problemi gravi che erano ben noti e che hanno provocato eruzioni simili in altre parti del mondo. Il cocktail è composto da un’ostinata negazione della crisi nello Zimbabwe, una crescente incompetenza e corruzione delle forze dell’ordine, scarsi servizi e degrado delle istituzioni.
La cultura del crimine che paga, avallata dall’Anc è un ingrediente centrale del cocktail, ma il grosso della miscela riguarda il fallimento dello Zimbabwe come Stato. L’economia del Paese è crollata, i suoi leader politici, i servizi di sicurezza e i funzionari stanno depredando le finanze pubbliche e gli abitanti stanno scappando. Quando uno Stato fallisce, il crimine dilaga. Corruzione e bustarelle ad ogni angolo diventano la norma, e inevitabilmente la criminalità viene esportata negli Stati vicini. Il rifiuto del governo Mbeki di prendere coscienza della crisi in Zimbabwe ha portato 3 milioni di abitanti di quel Paese a trasferirsi in Sud Africa. Se Mbeki e il suo presidente del Consiglio, Zuma, avessero agito con determinazione nove anni fa, quando i colleghi di altri Paesi, durante l’incontro di Durban dei capi di governo del Commonwealth, gli avevano ripetuto di farlo, quelle persone non si troverebbero qui oggi. La determinazione di Mbeki nel rifiutarsi di occuparsi della crisi in Zimbabwe e la sua amicizia con il presidente Robert Mugabe hanno portato la situa-
”
pagina 4 • 21 maggio 2008
politica
Oggi il governo abolisce definitivamente la tassa sulla prima abitazione
L’Ici della discordia Il taglio dell’imposta non risolve i problemi di equità del mercato della casa di Gianfranco Polillo sempre bene che gli impegni, specie se assunti in campagna elettorale, siano onorati. È una questione di buona fede e di rispetto delle regole istituzionali. Il programma del Popolo delle libertà conteneva la promessa di abolire l’Ici sulla prima casa. Oggi il governo si appresta a tradurre in pratica questa indicazione. Lo fa, tra l’altro, con un occhio anche al programma dell’opposizione. Non si dimentichi che l’esecutivo precedente, quello Prodi aveva già compiuto un passo in questa direzione. Con il nuovo intervento si conclude, pertanto, un ciclo che ha finito per assumere una caratteristica bipartisan.
È
Tutto bene, quindi? Fino a un certo punto. Ciò che non si comprende è il tono di alcune polemiche, da parte di esponenti dell’opposizione. È stato detto da più di un autorevole esponente di questa parte politica che il taglio dell’Ici depotenzia una leva fiscale importante per i Comuni. Sarà anche vero – anche se ne dubitiamo – ma allora perché si è sostenuto l’ex premier Romano Prodi, quando ha fatto altrettanto? Polemiche ingiustificate, quindi. Non soltanto nella scelta dei tempi, ma nel metodo. È infatti, evidente che questa misura debba essere coperta. Quindi quelle risorse che sono sottratte ai Comuni saranno restituite con una partita di giro. Aumenterà – è vero – la finanza derivata. Ma in attesa del federalismo fiscale quasi tutto è finanza derivata a carico del bilancio dello Stato. E non saranno certo i 2 miliardi di euro in più, quelli necessari per coprire il taglio dell’Ici sulla prima casa, a determinarne uno stravolgimento.
Scelta bipartisan, dicevamo all’inizio. Ma anche una scelta giusta? Qui i dubbi sono maggiori. Ogni riduzione del carico fiscale va, ovviamente, salutata con favore. Ma il problema è capire se sia sufficiente spremere meno i contribuenti o se la politica fiscale non debba servire a rimettere in moto circoli virtuosi di sviluppo.
Sotto questo profilo, la scelta che porta all’abolizione dell’Ici solleva più di un interrogativo. Partiamo, innanzitutto, dal gettito che questa imposta garantisce allo Stato. La cifra, prima delle modifiche introdotte con l’ultima Finanziaria dal governo Prodi, era di poco inferiore agli 11 miliardi di euro all’anno. E superava di un soffio il gettito dell’imposta complessiva sui tabacchi. In proporzione, se si tiene conto dei soggetti interessati, i fumatori pagano molto di più dei proprietari di casa, che rappresentano circa l’80 per cento della popolazione italiana. Scelta non criticabile da un punto di vista salutista, ma forse meno da quello economico, se si considera che la ricchezza
soddisfare la medesima esigenza. Logica vorrebbe che si provvedesse innanzitutto a favorire costoro, che non sono certo i primi nella ridistribuzione del reddito. Ma vi è un altro elemento da considerare. La casa è un centro di imputazione di costi sociali. Dalla manutenzione delle strade, alla congestione del traffico con i connessi fenomeni di inquinamento, ai problemi di sicurezza e così via. Esiste pertanto un problema, specie nelle grandi metropoli, che è la razionalizzazione dello spazio abitativo. Un problema annoso che dovrebbe spingerci a chiedere se possiamo con-
della sua ubicazione. Così, cacciata dalla porta, l’Ici rientra dalla finestra. O meglio vi dovrebbe rientrare, una volta sistemato il catasto urbano – operazione che si attende e si reclama da almeno vent’anni – in grado di aggiornare costantemente i relativi valori degli estimi. In verità, un’aliquota estremamente contenuta dovrebbe incentivare un uso razionale dello spazio abitativo, tenendo conto del fatto che quest’esigenza muta negli anni, con il ciclo vitale dell’individuo.
Gli spazi abitativi sono più contenuti all’inizio. Poi aumentano le disponibilità, nascono i figli e la casa deve ingrandirsi, per poi ridursi nuovamente quando gli stessi figli abbandonano la casa paterna. Come favorire questo continuo processo di adattamento? Eliminando ogni imposizione? E allora dov’è l’incentivo a cambiare abitazione? Di conseguenza la tendenza sarà opposta: si mantiene la casa di provenienza, anche se la sua dimensione è eccessiva. Tanto non costa (e forse non cambia) nulla.
Ingiustificate le polemiche dei Comuni per il mancato gettito, che sarà coperto in altro modo. Ma per una vera equità sarebbe meglio intervenire su imposte di registro e oneri notarili finanziaria del Paese – della quale il patrimonio edilizio rappresenta la maggior parte – è la più alta tra i Paesi occidentali. Comunque salvare la casa, che è un bene primario, resta un fatto di civiltà. Ferma restando la circostanza che un trattamento analogo non è riservato agli affittuari. Che non solo non hanno un patrimonio alle spalle, ma che sono costretti a cedere una parte cospicua del loro reddito per
tinuare a distruggere l’hinterland – come si fa oggi – invece di intervenire sul patrimonio edilizio già esistente?
Una politica attiva dello sviluppo urbano richiede che questo problema sia posto al centro di ogni riflessione. Se il possesso della casa implica un costo sociale, è giusto ch’esso sia in qualche modo ripartito tra i cittadini. Ma secondo quali parametri? Ovviamente si deve partire dal valore dell’immobile. È quindi necessaria un’imposta che sappia tenere conto sia della grandezza dell’alloggio sia
D i ve r s o d i s c o r so se si vorrebbe cambiare o si fosse costretti a farlo, perché i costi, che invece dovremmo affrontare, sarebbero di gran lunga
politica
21 maggio 2008 • pagina 5
Gli enti pronti a fare la loro parte nelle infrastrutture
Le Fondazioni fanno pace con Tremonti di Giuseppe Failla
MILANO. Meglio autostrade e binari che i dividendi delle banche. L’annuncio della messa in vendite del 3,5 per cento di IntesaSanpaolo da parte del Crédit Agricole ha lasciato sostanzialmente indifferenti le fondazioni azioniste della banca guidata da Giovanni Bazoli. Soltanto Enrico Salza, presidente del consiglio di gestione, ha auspicato un rafforzamento della Compagnia di Sanpaolo (oggi al 7,96 per cento del capitale), salvo fare parzialmente marcia indietro ieri. Ma la mossa di Salza va letta non come il desiderio che ciò accada, ma come la volontà di dare una scossa alla fondazione torinese accusata, nel capoluogo piemontese, di non avere fatto abbastanza per garantire l’anima torinese di IntesaSanpaolo.
superiori: a partire dall’imposta di registro, che si paga per ogni compravendita immobiliare, per non parlare degli oneri notarili, i compensi alle agenzie e l’eventuale tassazione delle plusvalenze. Risultato di tutto questo? Un mercato immobiliare che è una foresta pietrificata. Abbattiamo, quindi l’Ici, perché è stato un impegno elettorale. Ma il tema dello sviluppo è un’altra cosa.
Nella foto grande, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. In basso a sinistra l’ex presidente del Consiglio, Romano Prodi
Al di là dell’uscita di Salza, nessuna delle Fondazioni è sembrata granché interessata a mettersi in pista per l’acquisto del pacchetto azionario. Un atteggiamento che, fino a pochi mesi fa, sarebbe stato impensabile. Compagnia di Sanpaolo, fondazione Cariplo, fondazione Carisbo, fondazione Cariparo e fondazione Carifirenze non sono né stanche né deluse della loro permanenza in IntesaSanpaolo. La freddezza rispetto all’acquisto di parte della quota in mano francese va spiegato con logiche di mercato e di potere, con la volontà di entrare in nuovi business. Un incremento della partecipazione, in primo luogo, non porterebbe benefici in termini di controllo della società, che è una public company e quindi è scalabile. E lo rimarrebbe anche se le fondazioni assorbissero il pacchetto di azioni. E dal punto di vista politico, le fondazioni sembrano orientate a una diversificazione degli investimenti che, allo stesso tempo, aumenti gli incassi, e quindi i fondi potenzialmente disponibili per le opere di beneficenza, minimizzando i rischi. Sotto questo punto di vista gli enti sono il soggetto ideale da coinvolgere nel piano di rilancio infrastrutturale, che il governo vuole attuare nel nostro
Paese. Anche perché sono, gioco forza, azionisti di lungo termine. E cosa più essenziale sono incredibilmente liquidi. Perchè si possa realizzare l’asse fondazioniinfrastrutture è importante che i rapporti fra gli enti e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, siano orientati al massimo della cordialità. In passato certamente non è stato così, ma molti osservatori hanno notato negli ultimi mesi un inizio di distensione, che è comunque in attesa di un test probante. Non a caso il presidente dell’Acri (e di fondazione Cariplo) Giuseppe Guzzetti si è già detto pronto a intervenire in Alitalia, se prendesse forma la famosa cordata italiana tanto auspicata da Silvio Berlusconi. Proprio Guzzetti, e non da oggi, ha più volte chiarito su quali basi si può creare questo patto di mutuo soccorso: le fondazioni non vogliono contraccolpi (ma casomai ampliarlo) all’attuale e vantaggioso regime fiscale, anche per valorizzare il loro status di enti non profit. Tremonti ha sempre osteggiato la natura ibrida pubblico/privata riconosciuta a queste realtà dalla legge Amato e poi confermata dalla Corte costituzionale. Quindi è difficile da credere che, in linea di principio, possa concedere una tassazione di favore. Ma questo sacrificio, il governo appena insediato, potrebbe pure accettarlo di fronte al sostegno per gli investimenti infrastrutturali.
Il settore attende modifiche legislative per investire con meno vincoli il loro patrimonio senza toccare la fiscalità
Cosa, in verità, non facilmente percorribile, oggi. Da un punto di vista normativo, come spesso ricorda Guzzetti, bisogna fare i conti con due paletti: il primo è la percentuale di investimenti che le fondazioni possono effettuare in proporzione al patrimonio gestito; l’altro riguarda la percentuale massima di investimento in un singolo asset sempre in proporzione al patrimonio complessivo. Quindi servono cambiamenti normativi, che proprio i tecnici di via XX settembre devono individuare. È difficile che Giuseppe Guzzetti possa ottenere tutto ciò che chiede da un ministro certamente non fondazioni-oriented come Tremonti. Ma in ambienti vicini alla fondazione Cariplo fanno notare come i buoni rapporti fra Guzzetti e Bruno Ermolli hanno convinto Silvio Berlusconi a esercitare pressioni sul suo ministro dell’Economia per trovare una mediazione accettabile con gli enti. A partire dall’aumento dell’aliquota per gli istituti di credito che sono, finora, i principali asset delle fondazioni oltre che le loro maggiori fonti di reddito.
pagina 6 • 21 maggio 2008
politica
Appare e poi sparisce dal decreto sicurezza una norma che ha tutta l’aria di una legge ad personam
Il giallo del comma 2, punto 4 d i a r i o
d e l
g i o r n o
L’Europa richiama l’Italia sui rom La commissione europea «condanna vivamente qualsiasi tipo di violenza nei confronti dei rom» ha specificato il commissario Ue all’occupazione,Vladimir Spidla, durante il dibattito tenuto ieri al Parlamento di Strasburgo sullo stato dei nomadi in Italia e in Europa. Il commissario Ue ha chiarito che gli «Stati Ue devono garantire la sicurezza delle persone sul loro territorio», specificando che l’Europa «respinge ogni assimilazione dei rom ai criminali» e invitando gli Stati membri a mostrarsi «come esempio di lotta al razzismo e alla xenofobia punendo i responsabili degli attacchi a queste comunità».
Napolitano interviene sulla famiglia «Il Parlamento affronti i temi delle politiche della famiglia». Questo l’appello lanciato ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella lettera affidata al presidente della Camera Gianfranco Fini che ne ha dato comunicazione all’Assemblea, contenente una petizione sottoscritta da oltre un milione di cittadini, «volta a chiedere che vengano riconosciute alla famiglia agevolazioni, anche fiscali, al fine di facilitare il formarsi di nuovi nuclei familiari e l’adempimento dei relativi compiti».
di Susanna Turco
ROMA. Alle sei della sera, quando il punto 4 dell’articolo 2, comma 2, sparisce dalle bozze provvisorie del decreto legge sulla sicurezza, quello dell’introduzione del patteggiamento allargato, possibile nuovo capitolo delle leggi ad personam, diventa un giallo per davvero. Ma, per la verità, sin dall’inizio tutta la vicenda non brilla per linearità, per quanto riveli retropensieri e strategie tutt’altro che misteriosi. Ha degli echi diseguali, in ogni caso, la notizia (pubblicata ieri da alcuni quotidiani) che nel pacchetto sicurezza, tutto pensato per garantire i cittadini e contrastare l’immigrazione, c’è anche una norma potenzialmente in grado di sospendere il processo Mills in cui è imputato anche Silvio Berlusconi e la cui sentenza è ormai attesa prima dell’estate. Effetti dissimmetrici e distonici, per quel che riguarda l’immagine del premier, come pure nella reazione dei suoi avvocati e dell’opposizione. Ha davvero poco a che vedere con la maschera del Berlusconi aspirante al Quirinale mostrata in Parlamento, quel codicillo che voleva modificare il codice penale, consentendo l’accesso al patteggiamento anche per i processi in corso e, per di più, sospendendo il dibattimento per sessanta giorni «per valutare l’opportunità della richiesta» di patteggiare. Una norma che fa infuriare Di Pietro, il quale ci vede dietro una complessa architettura di «leggi-ponte» finalizzate a «bloccare i processi», ma soprattutto ricorda a chiunque un’era berlusconiana che si credeva ormai sepolta: quella appunto delle leggi ad personam, dei girotondi, degli avvocati, delle
udienze rinviate per indisponibilità istituzionale. «Roba vecchia, ormai Berlusconi ha risolto tutto, può dedicarsi a coltivare l’idea del Quirinale», era la vox populi all’indomani della vittoria elettorale.
E invece, un mese dopo, ecco rispuntare Nicolò Ghedini, deputato e avvocato di Berlusconi, di nuovo in prima fila: «Questa norma serve per far funzionare i processi, è nell’interesse di tutti. In ogni caso, non arriva da me ma dal ministero della Giustizia», precisa nel primo pomeriggio. Rivolgersi Angelino Alfano, insomma. Quanto all’opportunità di un patteggiamento, Ghedini è una roccia: «È una follia. Né io né il pre-
Antonio di Pietro strepita: «L’Idv si opporrà a ogni norma pro premier». Ma Ghedini: «Berlusconi non chiederebbe mai il patteggiamento nel processo Mills» sidente del Consiglio lo chiederemo mai: come potrebbe mai Berlusconi presentarsi a una compagine internazionale con la richiesta di 60 giorni di sospensione del processo per valutare il patteggiamento?». Già, come potrebbe? Ma allora, per dirla con la Finocchiaro, «non si comprende perché una norma di tale portata dovrebbe essere contenuta nel pacchetto sicurezza». Insomma: che ci sta a fare là in mezzo visto che, dice Di Pietro, «non c’entra nulla col resto»? Mistero. Giallo.
Strano anche il Pd. Pare proprio non aver voglia di tornare a fare girotondi. Verso ora di pranzo si pronuncia Lanfranco Tenaglia, ministro ombra della Giustizia: «Quella norma è sbagliata politicamente e tecnicamente», ma comunque «aspetto il testo ufficiale del pacchetto sicurezza per poter dare un giudizio compiuto, nella speranza che la maggioranza si chiarisca le idee». Duro ma ragionevole. Comunque è l’unico, insieme con Felice Casson. Soltanto contestualmente alla notizia della sparizione della norma dalla bozza del decreto legge, anche la capogruppo al Senato Anna Finocchiaro diffonde in una nota il suo pensiero: «Non conosciamo il testo del pacchetto sicurezza, ma credo che se davvero contenesse la norma sul patteggiamento ci troveremmo di fronte ad una misura sbagliata». Fino al tardo pomeriggio, comunque, a dar voce al dissenso ci sono Pino Sgobio del Pdci, Claudio Fava di Sinistra democratica e, su tutti, Antonio Di Pietro. Il quale prima si sgola e poi si attribuisce il merito della cancellazione della norma: «Noi dell’Italia dei valori abbiamo evitato un irreparabile e grave danno al paese», scandisce. Intanto, nei corridoi di Montecitorio più di uno spiega che il pacchetto sicurezza è formato da un decreto legge e tre decreti legislativi. Che la norma sul patteggiamento allargato è sparita dal primo, di immediata applicazione, ma non è escluso rientri dalla finestra, attraverso gli altri provvedimenti che, assicura Maroni, andranno in porto «entro luglio».
Di Pietro presenta il suo pacchetto sicurezza Un contropacchetto sicurezza in 7 punti targato Italia dei Valori che parte da un netto no all’introduzione del reato di immigrazione clandestina. Sì, invece, al Dna per identificare l’immigrato che non fornisce le sue generalità alle forze dell’ordine. Del resto, ha sottolineato Antonio Di Pietro «in Italia ogni cittadino italiano è punito penalmente se rifiuta di dare le sue generalità».
Tra Pd e Udc nasce tavolo su temi rilevanti Pd e Udc si confronteranno regolarmente sui temi dell’agenda politica. Il confronto, che si è svolto ieri presso il gruppo centrista alla Camera, ha visto protagonisti per il Pd il ministro ”ombra” dell’Economia Pieluigi Bersani e Stefano Fassina mentre per Udc-Rosa Bianca c’erano Pier Ferdinando Casini, Bruno Tabacci e Michele Vietti. «Credo - ha spiegato Bersani - che questo incontro sia stato molto utile, chiederò di averne anche con altre forze dell’opposizione a iniziare dall’Idv. Sui temi economici intendo avere rapporti anche con le forze che oggi sono fuori dal Parlamento».
L’Unità passa a Soru Il governatore della Sardegna e fondatore di Tiscali, Renato Soru, ha firmato il contratto per l’acquisizione dell’Unità. La firma dell’intesa è avvenuta ieri. L’annuncio è stato dato da Marialina Marcucci, presidente della Nie (Nuove iniziative editoriali), società attualmente editrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci. Il contratto sarà eseguito il 5 giugno e, spiega la Marcucci, sarà una fondazione promossa da Soru a rilevare la testata. L’Assemblea dei soci che avrebbe dovuto decidere la ricapitalizzazione, si svolgerà probabilmente il 6 giugno.
Sgarbi propone un’alleanza con la Destra Una strana coppia. Vittorio Sgarbi, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, potrebbe correre insieme a Daniela Santanché alle elezioni provinciali. Ad annunciarlo è lo stesso Sgarbi nel corso di un’intervista ad un settimanale. «Con la Santanchè potremmo correre insieme per le provinciali». «Lei è una donna di ferro. Ma la sua proposta... non so. Io non sono di destra, non lo sono mai stato».
politica
21 maggio 2008 • pagina 7
In attesa di aprire le discariche, Berlusconi punta sullo smaltimento in Nord Europa ROMA. Bastano le parole di un sindaco campano qualsiasi, quello di Eboli, per capire quanto sia intricato il groviglio: «Contro il decreto che stabilisce la riapertura del sito di Coda di Volpe ci opporremo in tutte le sedi possibili». Parola di Martino Melchionda, primo cittadino agguerrito come molti suoi colleghi. Quel riferimento a ”tutte le sedi possibili” allude ai ricorsi alla magistratura, strumento con cui da otto anni viene di fatto impedita l’apertura del termovalorizzatore di Acerra. Il governo è consapevole del rischio: sbattere contro un muro fatto non solo di guerriglia urbana ma anche di carte bollate. È per questo che il solo spiraglio possibile per alleviare l’emergenza è nel trasporto oltreconfine dell’immondizia. Fonti del governo raccontano di un lavoro intenso soprattutto su questo fronte. La nuova strategia si basa sul principio della discrezione: il quantitativo di ecoballe da trasportare in Germania potrebbe aumentare a condizione che questo avvenga senza eccessiva pubblicità. Allo stato gli accordi prevedono di inviare sul rotaie tra le 700 e le 900 tonnellate al giorno di spazzatura (ieri è partito il primo convoglio). Potrebbero diventare 1200 o più se si riuscirà a non sollecitare troppo l’opinione pubblica tedesca. Si lavora anche con aziende svizzere che chiedono grosso modo lo stesso tipo di garanzie: non sbandierare in modo sguaiato i termini dell’accordo. Discorso analogo è in via di definizione anche con la Polonia, in grado a sua volta di acquistare qualche quota del sovraccarico campano. In questo modo il prezzo dello smaltimento potrebbe restare sotto controllo. E soprattutto si guadagnerà un’indispensabile margine di sopravvivenza di fronte all’opposizione delle popolazioni campane. Non a caso l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri convocato per le 11 di stamattina alla prefettura di Napoli non prevede formalmente la discussione sull’emergenza rifiuti. Nessun particolare clamore, nessun eccesso propa-
Rifiuti top secret: il governo li esporta ma senza dirlo di Errico Novi gandistico. Silvio Berlusconi terrà la conferenza stampa a Palazzo Reale nel pomeriggio, nella speranza che a quell’ora si sia già esaurita la furia dei centri sociali. Gli antagonisti si concentreranno dalle 9 di mattina: c’è il rischio di una replica in proporzioni ridotte del G8 di Genova. Il Viminale ha preferi-
saranno impermeabilizzati nel modo più accurato, spiegherà. Questo però richiederà tempo, in qualche caso almeno due mesi. Ed ecco perché i treni verso l’Europa settentrionale sono determinanti.
A Palazzo Chigi sanno bene che l’opposizione agli sversatoi
ore una sorta di campo minato. Sarà già difficile asfaltare il viottolo di campagna che conduce al sito. Ostacoli già messi ampiamente nel conto, dal nuovo governo, al quale non basta il sostegno assicurato ieri dal Pd sulle «scelte che si renderanno necessarie». È per questo che nei giorni scorsi è
Al Consiglio dei ministri di oggi si ribadirà l’appello ad altre regioni italiane: timide aperture da Formigoni e Moratti, la Lega fa barricate in Veneto. A Napoli guerriglia pronta per impedire l’apertura del sito nell’area nord to non circoscrivere piazza Plebiscito e dintorni in una zona rossa, sarebbe stato peggio. Il premier cercherà tutte le forme possibili per rassicurare i campani, e soprattutto gli abitanti della zona di Chiaiano, alla periferia nord del capoluogo. Gli invasi delle discariche
sarà comunque durissima. In particolare a Chiaiano, dove c’è la cava che dovrebbe accogliere i rifiuti di Napoli città. Squadre di giovani della zona stanno allestendo in queste
Nella prefettura di Napoli si terrà oggi la prima riunione del Consiglio dei ministri, che potrebbe indicare in Guido Bertolaso il successore di Gianni De Gennaro
stato chiesto alle regioni italiane che hanno impianti progrediti di smaltire parte dei rifiuti napoletani per i prossimi mesi. Dopo il no del governatore Galan la Lega ha chiuso il discorso: «Non siamo disposti a farci carico della vergogna delle immondizie napoletane», ha detto il consigliere regionale del Carroccio Mara Bizzotto. In Lombardia la situazione potrebbe essere diversa. Il sindaco di Milano Letizia Moratti ha confermato che la multiutility ”A2A”- nata dalla fusione tra le municipalizzate di Brescia e del capoluogo - «sta studiando la possibilità di gestire l’impianto di Acerra». E il governatore Roberto Formigoni spiega che «un gesto di solidarietà sarebbe giusto», ma avverte anche che devono essere garantite «tutte le condizioni possibili dal punto di vista igienico sanitario e ambientale: i nostri impianti smaltiscono rifiuti con il 45 per cento di raccolta differenziata».
Secondo i Verdi della Lombardia le cose potrebbero andare diversamente: «L’ipotesi della trattativa diretta con la A2A di Brescia per Acerra e per la realizzazione degli altri tre termovalorizzatori campani potrebbe addolcire persino la Lega», dice il capogruppo in Consiglio regionale Carlo Monguzzi, «d’altra parte l’inceneritore di Milano smaltisce anche rifiuti indifferenziati, dopo una sommaria divisione del secco dall’umido». Di certo i tentativi di Roma sono in corso da giorni. Ma non sarà facile superare il principio del federalismo dei rifiuti. Oggi il Consiglio dei ministri darà risposte certe sulla prevenzione sanitaria, come già annunciato dal sottosegretario Ferruccio Fazio e ribadito ieri da Maurizio Sacconi: 10 milioni di euro per 200 sentinelle mediche. È un modo per portare un minimo di sollievo psicologico. Sarà probabilmente nominato il sottosegretario sai rifiuti. Ruolo per il quale l’unico nome è quello di Guido Bertolaso. Di fatto sarà lui il successore di Gianni De Gennaro: potrebbe non esserci un nuovo commissario straordinario, nonostante le voci su una nomina di Barbara Contini abbiano continuato a rincorrersi anche ieri.
pagina 8 • 21 maggio 2008
pensieri
Lettera aperta alla Gelmini: il declino è iniziato negli Anni Settanta
Caro ministro, lei lo sa che la scuola è finita? di Giancristiano Desiderio
entile ministro della Pubblica Istruzione, Lei è alla guida della scuola italiana da pochi giorni e ha già ricevuto un bel numero di prediche utili e inutili, suggerimenti disinteressati e interessati, consigli giusti e sbagliati. Non voglio aggiungermi alla lista degli scocciatori e non voglio darle consigli: sono fedele a quanto dice mia nonna «non mi date consigli, so sbagliare da sola». Desidero solo dirle che, se ancora non se ne è resa conto per i pochi “giorni di scuola”che ha fatto finora, la scuola italiana è finita. Proprio così: finita. Quella che c’è oggi, infatti, è
G
un’altra cosa: è assistenza sociale (una cattiva assistenza sociale) sia per gli alunni sia per i professori, ma non è più ormai da molto tempo una scuola.
La scuola italiana è finita, anno più anno meno, intorno al 1970. La scuola che è venuta dopo e che continua tuttora è semplicemente la distruzione della scuola di ieri. Dopo il 1968 muore una scuola, ma non ne nasce un’altra. Non voglio fare una tirata che non finisce più sui valori e roba simile (che pure è roba seria) ma solo fare una constatazione: negli anni Settanta si decise di chiudere definitivamente con la scuola di Gentile, ma non si decise come fare una nuova scuola. Siamo ancora lì: il no-
stro problema è quello di quarant’anni fa. Per essere chiari: la scuola è selezione. La scuola di ieri faceva selezione in questo modo: chi si iscriveva al liceo poteva proseguire gli studi e accedere all’università, chi sceglieva una scuola professionale non poteva accedere all’accademia e lo attendeva, se andava bene, il lavoro. La selezione era fatta in ingresso: quando ci si iscriveva a scuola. Questo sistema è finito per sempre. La scuola di Gentile è finita perché la società di massa è un’altra cosa rispetto ai tempi in cui il filosofo dell’atto puro era alla Minerva. Niente di strano, dunque: ciò
condaria. Il punto centrale è: visto che la scuola è selezione e visto che il nostro sistema scolastico e universitario non fa più selezione, vogliamo ricominciare a fare selezione? Se si risponde sì, allora, si può proseguire. La domanda successiva è: dove si può collocare oggi la selezione?
All’estero il problema della selezione è stato risolto con alte scuole di formazione a conclusione del ciclo di studi scolastici e universitari. In Italia le scuole di alta formazione sono più uniche che rare. Questa sarebbe una strada da percorrere: la selezione all’uscita.
poter organizzare la didattica come meglio crede e deve poter intervenire nella vita di una classe facendo selezione durante l’anno. Ma questo si può fare solo se chi guida una scuola può valutare e scegliere i docenti e se i docenti sono liberi professionisti e non impiegati dello Stato. Questo è ciò che realmente conta: professori preparati e autorevoli, ben pagati, professionisti o anche artigiani della buona lezione e pronti a saper conquistare una cattedra e non un posto fisso.Via, dunque, le mille e una carta che non servono a nulla, via anche il dirigente scolastico come burocrate
specialista delle circolari: chi guida una scuola deve essere un educatore.
Lo so che si tratta di una rivoluzione, ma altra strada non c’è. Perché il compito che si ha davanti non è quello di fare una riforma scolastica, ma quello di creare un nuovo sistema scolastico. La domanda che dobbiamo porci è: a cosa serve la scuola? Se pensiamo che la scuola serva ai professori allora lasciamo tutto così com’è. Se pensiamo che la scuola sia un asilo per adolescenti allora lasciamo tutto così com’è. Se pensiamo che la scuola serva a sfornare diplo-
GIOVANNI GENTILE
SALVATORE VALITUTTI
MARIASTELLA GELMINI
Il suo modello di scuola è finito perché la società di massa è un’altra cosa rispetto ai tempi in cui il filosofo dell’atto puro era alla Minerva
Fu nominato ministro della Pubblica Istruzione nel I Governo Cossiga. Pur rimanendovi pochi mesi, riuscì a riordinare il sistema universitario
Eletta alla Camera nel 2006 e confermata nel 2008, è il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca scientifica, nel Governo Berlusconi IV
che è avvenuto in Italia è avvenuto nel mondo. Ma con una differenza: nel mondo hanno collocato la selezione in un altro punto del sistema dell’istruzione. Cosa che, invece, in Italia non è stato fatto e così da quarant’anni si gioca a fare le riforme scolastiche che - per capirci - sono come un motore che spinge spinge ma non fa muovere la macchina di un millimetro perché è messo a folle. L’unico ministro che conosceva bene il problema - ministro per pochissimo tempo fu Salvatore Valitutti, non a caso uomo di scuola: lei che è un suo successore, gentile ministro Gelmini, dovrebbe rileggere gli scritti di Valitutti sulla scuola e quanto diceva nel Parlamento italiano a proposito della riforma della scuola se-
Ma prima di giungere alla fine degli studi, la selezione si può fare anche all’interno della scuola. Come? Nel modo classico di sempre: mettendo mano agli esami. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole: la scuola da sempre si modifica in meglio o in peggio cambiando gli esami. Ma prima di giungere agli esami di Stato alla fine dei corsi, si può provare a fare selezione anche durante i corsi. I ragazzi hanno bisogno di aiuti, assistenza, incoraggiamenti, fiducia: tutte cose sacrosante. Ma i ragazzi che meritano e che potrebbero eccellere non meritano anche loro aiuto, assistenza, incoraggiamenti, fiducia? Se si crede nel merito si deve riconoscere alle scuole autonomia: non a parole, nei fatti. Una scuola deve
“
Dopo il ’68 si decise di chiudere con Giovanni Gentile, ma non di progettare un nuovo modello di istruzione. Dopo quarant’anni il problema è ancora quello
”
mati allora lasciamo tutto così com’è. Ma se pensiamo che la scuola abbia un ruolo decisivo nella formazione delle generazioni e nell’amministrazione delle istituzioni, allora, dobbiamo deciderci a creare un altro sistema scolastico che riprenda a fare selezione. La scuola di oggi che si ritiene democratica e egualitaria è antidemocratica e discriminante. Perché è una scuola che conosce la retorica della libertà ma rifiuta l’idea di educare alla libertà. Gentile ministro Gelmini, le ripeto, non prenda questa mia lettera come una predica o un consiglio. È solo una lettera per dirle che lei, purtroppo, è ministro di una scuola che è finita. Il problema è capire se si vuole ricominciare.
&
parole
21 maggio 2008 • pagina 9
La peggio gioventù. Viaggio nelle radici del bullismo/2 Maria Rita Parsi ROMA. La lista delle consulenze di Maria Rita Parsi è davvero lunga, lunghissima. Psicologa di fama internazionale e scrittrice avvincente, svolge da anni un’intensa attività didattica e di formazione presso università, istituti specializzati, associazioni private, e trasmissioni televisive. Cuore di mostro e Chat ti amo, sono solo alcuni dei libri scritti dalla Parsi che indagano in maniera penetrante e lucida il lato oscuro delle giovani generazioni. In questo viaggio di liberal alle origini della devianza minorile era inevitabile avvalersi anche del suo contributo. La prima domanda è scontata: esiste un’emergenza giovanile o si tratta di un’esagerazione dei mass media che a furia di raccontare una generazione violenta e priva di valori la rende reale nella consapevolezza di tutti? C’è una emergenza reale di disagio giovanile nel Paese. A mio modo di vedere dipende da una modificazione straordinaria della tecnologia. Oggi ci troviamo di fronte ad un passaggio epocale, ancora più grande rispetto a quello rappresentato dall’avvento della televisione nel secolo scorso. La cosiddetta “tecnologia della solitudine” ha fatto grandi passi in avanti negli ultimi anni e gli educatori non riescono a stare al passo dei tempi. I nuovi strumenti di comunicazione ed autoformazione non vengono adeguatamente padroneggiati da scuola e genitori, cosicché i minori sfuggono a qualunque controllo e all’educazione valoriale. A dir la verità, neanche i “vecchi” strumenti di comunicazione svolgono esattamente questo compito. Penso alla tv per esempio. Dobbiamo fare in modo che non sia la rete virtuale a catturare la realtà, ma che i nostri ragazzi, i nostri bambini e noi stessi, si possa utilizzare le nuove tecnologie, insieme con le vecchie, dominandole e governandole. L’uomo ha questo costume di essere sempre dominato da ciò che crea, invece di poter convivere ed utilizzare in senso positivo quello che ha saputo inventare. Mi può spiegare concretamente l’impatto delle nuove tecnologie sui minori? Accade che si verifica una scollatura tra realtà virtuale ed effettiva. Sempre più ragazzi vivono immersi nella prima. Basti pensare al fenomeno di Second life. La percezione di ciò che li circonda viene influenzata da una realtà parallela. Tutto questo comporta inevitabilmente l’astrazione dalle responsabilità e poco dopo determina conseguenze terribili ed inimmaginabili. Un esempio? «Ho ammazzato io Lorena, posso torna-
Si muore nel buco nero della realtà virtuale colloquio con Maria Rita Parsi di Nicola Procaccini
Maria Rita Parsi, scrittrice, psicologa e psicoterapeuta, nella foto piccola a sinistra. In basso, Lorena la ragazza di 14 anni uccisa da tre adolescenti re a casa?». Quella frase pronunciata da uno dei giovanissimi aguzzini della povera adolescente di Niscemi è emblematica poichè racconta meglio di qualunque saggio di psicologia della modificazione dei codici di lettura della realtà. D’altra parte questo è ciò che avviene nei videogiochi, in tv o su internet, si può uccidere senza rimor-
Ricordo un suo intervento a Porta a Porta nel quale citò il caso dei fratellini di Gravina per spiegare il rischio del “virtuale”. Si discuteva sul terribile rudere di Gravina, mai transennato, mai ricostruito, dove tre bambini sono caduti in un pozzo. Ho pensato che fosse una metafora triste, ma piut-
«Ho ammazzato io Lorena, posso tornare a casa?». Quella frase pronunciata da uno dei giovanissimi aguzzini della povera Lorena è emblematica poichè racconta una realtà giovanile deformata si né sanzioni, si può morire e resuscitare nel giro di pochi secondi. Nell’assenza colpevole di una controinformazione da parte di scuola e famiglia, i minori subiscono, nel momento più delicato della loro crescita, dei messaggi falsi e fuorvianti. Conseguentemente, viene a mancare l’elaborazione del lutto, della gioia, si perde persino la cognizione corretta del rapporto spazio-tempo. Le dirò di più: viene a cadere il nostro stimolo primario: l’angoscia della morte. Attenzione perché tutto facciamo per lei: rispettiamo la vita degli altri, lavoriamo, amiamo, mettiamo al mondo dei figli, etc…
tosto significativa: anche se il virtuale non è un rudere, “le cento stanze incustodite” internet ce l’ha, eccome! Dico cento, posso dire mille, per banalizzare, milioni di possibilità virtuali di cadere in un pozzo profondo! E chi le transenna? Chi le governa? Chi le controlla? Noi dobbiamo fare in modo che il virtuale sia “transennato”, perchè Ciccio e Tore, in questo momento emblemi di tutti i ragazzi, non debbano più cadere a causa della nostra disattenzione, della nostra inaffidabilità, a causa di un’autorità che non è più autorevole.
Quali consigli utili e pratici si possono dare alle famiglie? Servirebbe una scuola guida per genitori e minori. Mi spiego meglio: l’emergenza educativa è dovuta all’incapacità dei genitori di leggere la realtà di oggi. Per questo è necessaria la loro alfabetizzazione. I genitori devono sforzarsi di accedere al mondo dei figli. Dobbiamo entrare anche noi nell’era di internet, leggere i blog per ritrovare i nostri ragazzi. Questo ci costringe ad un passaggio obbligato senza il quale non possiamo realmente giungere a capire cosa essi sentono, cosa veramente vogliono. E cosa può fare invece la politica? Deve occuparsi di questa emergenza con strumenti a lei dedicati. Quella sull’infanzia e i minori non può essere una delega sperduta all’interno di un ministero pieno di cose diverse. Ribadisco la mia idea: serve un Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza capace di coordinare delle strutture periferiche su tutto il territorio italiano. Come avviene nel resto d’Europa. E’ l’unico modo per essere vicini e di aiuto alle nostre famiglie.
pagina 10 • 21 maggio 2008
mondo
Caduto Blair, per la presidenza delle Ue partita tra Juncker e Barroso
Sarkozy apre il valzer delle poltrone europee di Enrico Singer l semestre di presidenza francese dell’Unione europea comincerà il primo luglio: mancano ancora 40 giorni, ma Nicolas Sarkozy ha già preparato la strategia per centrare i tre punti-chiave sui quali si giocherà la sua prima, vera partita internazionale. A cominciare dal grande gioco dell’oca delle nomine dei nuovi vertici della Ue, fino al varo dell’Unione per il Mediterraneo passando per il rilancio della politica di difesa comune dell’Europa. Il primo capitolo deve essere chiuso in fretta perché la designazione del presidente stabile del Consgilio europeo e del responsabile della politica estera sarà formalizzata nel vertice che, in dicembre chiuderà la presidenza di turno francese e il momento delle scelte è ormai arrivato.
I
Il valzer delle poltrone. L’ipotesi Tony Blair per la presidenza del Consiglio è definitivamente tramontata. L’ex premier laburista britannico era stato il primo candidato di Sarkozy, ma la netta opposizione di Angela Merkel, prima, e poi il disastro del Labour nelle elezioni amministrative del 2 e 3 maggio lo hanno tagliato fuori. A questo punto Nicolas Sarkozy appoggia la candidatura del primo ministro del Lussemburgo, Jean-Claude Juncker. Esponente storico del ppe, leader di uno dei sei Paesi fondatori della Ue (Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo), Juncker ha anche il sostegno degli altri ”piccoli” dell’Unione. Ma ha l’aperta ostilità della Gran Bretagna che lo considera troppo ”federalista” e che, scottata anche dalla vicenda Blair, minaccia di opporre il suo veto. In questa evenienza Sarkozy ha pronta la soluzione Barroso. Il portoghese Josè Manuel Barroso è l’attuale presidente della Commissione europea, braccio esecutivo della Ue. Anche lui è del ppe ed era premier a Lisbona quando il Portogallo ospitò il vertice tra Bush e Blair che preperò l’intervento militare in Iraq. A Barroso nemmeno Londra potrebbe opporsi. Ma in questo caso a Juncker andrebbe almeno la poltrona di presidente della Commissione che sarebbe lasciata libera dal portoghese.Tanto che tra Parigi e Bruxelles si parla di una specie di ”ticket”che assegna ai due leader popo-
lari comunque una presidenza. Qualcuno lancia il nome del primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen - anche lui del ppe - come possibile terzo incomodo. Ma è molto probabile che a Rasmussen toccherà un’altra casella importante in questo grande gioco dell’oca: la carica di nuovo segretario generale della Nato al posto dell’olandese Jaap de Hoop Scheffer. La poltrona di responsabile per la politica estera della Ue, inve-
capitolo sul delicato territorio dell’immigrazione che sta molto a cuore a Nicolas Sarkozy. L’immigrazione è uno dei punti che entrano di prepotenza nel progetto dell’Unione del Mediterraneo che l’Eliseo vuole realizzare durante il semestre di presidenza francese della Ue. Sarkozy ha già fissato una data: il 13 luglio - non a caso il giorno prima della festa nazionale - a Parigi si terrà un vertice dei Paesi mediterranei per stabilire i principi fondatori, nonché l’organizzazione, della Upm. Si sa già che per sottolineare la parità di diritti tra i partner saranno istituite due presidenze di questa Unione: una in un Paese della riva Sud del Mediterraneo e una in un Paese della riva Nord. E Sarkozy ha in mente di proporre Marsiglia dove, il 22 e il 23 giugno, si riunirà un Forum preparatorio.
Il terzo pilastro della strategia europea di Nicolas Sarkozy è quello più in bilico. Il più difficile da realizzare: il rilancio della politica di difesa comune della Ue. Quella che gli eurocrati chiamano Pesd (politica europea di sicurezza e difesa) è uno dei cavalli di battaglia della Francia sin da quando il generale Charles de Gaulle decise l’uscita della Francia dal sistema integrato militare della Nato pur rimanendo nel consiglio politico dell’Alleanza atlantica. Tutti i passi avanti che, a fasi alterne, ha fin qui compiuto la Pesd - a partire dalla prima brigata di pronto intervento franco-tedesca - sono stati avviati da Parigi. Per ragioni strategiche, certo, ma anche economiche dal momento che l’industria militare francese è la sviluppata in Europa. Nell’ultima versione del nuovo Trattato europeo varato nel vertice di Lisbona, il capitolo sulla difesa europea non è stato sottoscritto dalla Gran Bretagna che ha utilizzato la via dell’opting out: la possibilità di non partecipare a una delle poltiche comuni. Per questo Nicolas Sarkozy sa benissimo che su questo terreno è costretto a camminare sulle uova. Ma una speranza il presidente francese ce l’ha: ottenere almeno il sì britannico alla creazione di una forza aeronavale congiunta e al controllo coordinato dello spazio aereo europeo.
Dal primo luglio la Francia guiderà l’Unione con un piano in tre punti: le nomine, l’accordo con i Paesi del Mediterraneo e il rilancio della politica della difesa comune ce, dovrebbe rimanere al socialista spagnolo Javier Solana che, sia pure con poteri più limitati, la occupa dal 1999.
Per la Francia, ufficialmente, Sarkozy non rivendica nuove poltrone. È già soddisfatto dell’accordo con l’Italia sulla successione a Franco Frattini: se Roma è ben contenta che Antonio Tajani abbia ottenuto l’incarico di commissario ai Trasporti - che era del francese Jacques Barrot - perché si occuperà di temi sensibili come Alitalia e la Tav, Parigi è altrettanto soddisfatta del cambio perché, come commissario alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Barrot avrà voce in
Al centro Nicolas Sarkozy che, dal primo luglio, assumerà la presidenza di turno della Ue. E, dall’alto in basso, l’attuale presidente della Commissione, Manuel Barroso, e il premier del Lussemburgo Jean-Claude Juncker candidati alla presidenza del Consiglio, e il primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen che potrebbe andare alla Nato
mondo
21 maggio 2008 • pagina 11
I 2mila poliziotti che dovevano prendere il posto del personale Nato non sono mai arrivati a Pristina
l’Eu-Lex affonda in Kosovo d i a r i o
di Maria Maggiore
g i o r n o
Primarie Usa in Kentucky e Oregon
BRUXELLES. Per mesi è stato un segreto ben celato tra le stanze del potere di Bruxelles. Tutti sapevano nell’entourage dell’Alto rappresentante Javier Solana che la scadenza del 15 giugno per il dispiegamento completo della forza europea in Kosovo, era semplice utopia. Adesso il pantano di una missione annunciata con molta enfasi in dicembre, lanciata con altrettanta euforia in febbraio, si è rivelato con tutta la sua imbarazzante evidenza. I 2mila poliziotti e giudici europei che in quattro mesi – così era stato annunciato – dovevano trasferirsi in Kosovo per prendere gradualmente il posto del personale Onu che pian piano avrebbe lasciato il territorio, non sono mai arrivati a Pristina. Ce ne sono appena duecento. E gli altri non arriveranno fin quando non si troverà un accordo con le Nazioni Unite per il passaggio del testimone. Che rischia di non avvenire mai o comunque non nei prossimi mesi, vista l’ostinazione della Russia a continuare a bloccare qualunque negoziato in sede Onu, con la minaccia di porre un veto a una nuova risoluzione sul Kosovo. Quando il 4 febbraio scorso i 27 hanno dato via libera alla missione Eu-Lex (con astensione di Cipro e Malta) per offrire il loro sostegno alla dichiarazione d’indipendenza che di lì a poco i kosovari avrebbero proclamato, avevamo scritto che si trattava di un colpo di mano giuridicamente poco digeribile. Nella Risoluzione 1244 che gestisce dalla fine della guerra questo protettorato internazionale, non si fa infatti alcun cenno a un passaggio di consegne sotto il cappello Ue. Così, con mossa abile, gli europei si sono dati 120 giorni per un lento dispiegamento di quei poliziotti, doganieri e giudici, che dovrebbero assistere i kosovari nella creazione di un nuovo Stato. Facendo ammainare la bandiera a dodici stelle blu e gialle dell’Europa al posto di quella delle Nazioni Unite, che da nove anni sventola sul territorio kosovaro. La Nato, attraverso il suo braccio europeo, intanto continuerà a gestire le operazioni militari. Sarebbe bastato anche un invito solenne del segretario generale Ban Ki Moon agli europei, perchè la loro iniziativa acquistasse solennità e autorevolezza agli occhi della comunità internazionale. Invece, niente è successo. La Russia alleata della Serbia, ostinatamente contraria all’indipendenza del Kosovo, continua a bloccare il dossier in Consiglio di Sicurezza. Anche dopo le elezioni russe e il passaggio di consegne al nuovo
d e l
Ieri notte (ora italiana) si è votato per le primarie democratiche in Kentucky e Oregon, con Hillary Clinton nettamente favorita nel primo stato e Barack Obama nel secondo. La media degli ultimi sondaggi prima del voto vede l’ex First Lady in vantaggio di quasi 30 punti in Oregon e il senatore junior dell’Illinois davanti in Kentucky con un margine del 12 per cento (anche se nell’ultima rilevazione di Suffolk questo distacco si è ridotto a 4 punti).
Riarma la marina britannica La marina militare britannica si doterà delle più grandi portaerei della sua storia. Questa la decisione presa dal governo di Londra, che martedì ha annunciato la costruzione di due nuove navi da guerra. I cantieri che vedranno la nascita delle portaerei, daranno lavoro a 10mila persone, ha dichiarato il ministro per le strutture della difesa Ann Taylor. Le due navi, pesanti entrambe 65mila tonnellate, dovrebbero solcare i mari tra il 2014 e il 2016. Le portaerei si chiameranno Queen Elizabeth e Prince of Wales. Potranno trasportare 35 aerei da caccia F-35 della Lockheed Martin e altri quattro veicoli militari.
Prende forma l’Unione per il Mediterraneo
presidente Medvedev, niente si è mosso. Ancora oggi gli emissari di Onu, Ue e Nato s’incontreranno a Vienna per cercare di sbrogliare la matassa. «Ma non ci aspettiamo risultati», ha ammesso a denti stretti una fonte vicina a Solana. E il capo della missione Eu-Lex, il francese Yves de Kermabon ha dichiarato che il dispiegamento completo della missione sarà ri-
La missione doveva costare 205 milioni di euro e garantire, dopo l’indipendenza, l’incolumità nel Paese. Ma la Russia ha bloccato tutto tardato. La data simbolica non sarà più il 15 giugno, giorno dell’entrata in vigore della nuova Costituzione kosovara, ma «due, tre mesi più tardi», ha spiegato de Kermabon, che ancora non si è trasferito in pianta stabile a Pristina. «Parmangono proclemi tecnici e politici», ha ammesso il diplomatico europeo. L’Unione europea si ostina nel frattempo a ribadire
che il comando della missione EuLex sarà europeo e con sede a Bruxelles. Ma nei circoli diplomatici si fanno sempre più insistenti i dubbi su questa missione nata zoppa per l’ostilità della Russia e di alcuni Paesi europei.
A tutt’oggi solo 40 Paesi hanno riconosciuto il nuovo Stato del Kosovo, di cui 19 nell’Unione europea. Manca all’appello la Spagna, che per i problemi interni con i baschi non può prendere rischi e Cipro, divisa dal ’74 per l’occupazione turca. «Si andrà avanti con la 1244 – sussurrano a malincuore nell’ufficio di Solana – dobbiamo solo trovare un modus vivendi con le Nazioni Unite per non fare un doppio lavoro. Coordinandoci, se possibile anche con la Nato, che mantiene la responsabilità delle operazioni militari di controllo sul territorio». Ma l’imbarazzo è palpabile. La situazione rischia di eternizzarsi, come a Cipro con la sua linea verde occupata dai caschi blu da più di trent’anni. La missione Eu-Lex dovrebbe costare 205 milioni di euro. Già l’Europa ha versato due miliardi di euro al Kosovo: in proporzione alla popolazione, più di quanto dà all’Autorità Palestinese. E il pantano rischia di durare ancora per molto tempo.
Il progetto lanciato da Sarkozy a marzo si concretizza. I suoi contenuti sono stati presentati ieri alla Commissione Ue. «Questa iniziativa rappresenta una ridinamizzazione del processo multilaterale», ha dichiarato il Commissario per la politica estera dell’Unione Benita Ferrero-Waldner a Strasburgo. Per il Commissario i rapporti tra gli stati del Mediterraneo, dovrebbero diventare «più concreti e visibili», di quanto sia stato possibile fare con il processo di Barcellona. Autostrade in Nordafrica, mare più pulito, maggiori strutture per la protezione civile e aumento dell’energia solare al sud. Questi i progetti da realizzare senza ulteriori finanziamenti europei.
50 miliardi di euro l’anno per la Pac Il quaranta per cento di tutto il budget dell’Unione. Tanto costano ai cittadini europei i finanziamenti agricoli continentali. La parte del leone di queste spese la fanno i finanziamenti diretti, trenta milioni di euro, per sette milioni di aziende agricole europee. In precedenza questi contributi erano legati alla produzione. Con la riforma Ue del 2003, dipendono invece dalla superficie messa a coltura.
Tregua difficile tra Hamas e Israele Il governo israeliano ritiene poco probabile raggiungere una tregua con l’organizzazione che governa la striscia di Gaza. Secondo quanto riportano i media, Gerusalemme potrebbe prendere in considerazione la sospensione di sanzioni e operazioni militari, nel caso in cui la struttura islamista cessi il lancio di missili sui territori dello stato ebraico. Un cessate il fuoco ufficiale sarebbe però respinto. Lunedì in una intervista al quotidiano francese Le Figaro l’ex capo del contro spionaggio israeliano, Ephraïm Halévy, si era detto favorevole a un armistizio con Hamas.
Taiwan vuole riconciliarsi con Pechino Il nuovo presidente di Taiwan desidera fortemente il riavvicinamento alla Cina. Nel discorso di insediamento tenuto ieri a Taipei, Ma Ying-jeou ha detto che il suo scopo è «pace e stabilità» con la Cina continentale. Il leader del Koumintang ha preso il posto di Chen Shui-bian, del Partito del progresso. Dopo otto anni di tensione con Pechino, ora il nuovo presidente vorrebbe una maggiore integrazione economica con la “madre patria”. La dirigenza comunista vede con favore la politica del nuovo leader dell’isola.
pagina 12 • 21 maggio 2008
speciale esteri
Occidente
Nell’ultimo anno la Cina ha firmato accordi con dieci Paesi africani per due miliardi di dollari e prevede di investirne altri cento
LE COLONIE NERE DI PECHINO La Cina oggi è alle prese con due crisi molto gravi. La tragedia umana del terremoto e la tempesta politica che si è accesa sulle Olimpiadi per la repressione in Tibet. Ma il colosso asiatico è impegnato su molti fronti: quello che affronta ”Occidente” è la penetrazione in Africa a caccia di materie prime.
di Agustin Arteche Gorostegui a quando la Cina ha scoperto che si può essere un Paese comunista e capitalista allo stesso tempo, il popolo cinese si è lanciato freneticamente nella società dei consumi e la prima cosa di cui ha bisogno è il petrolio. E questa è stata la molla della sua corsa all’Africa. Le visite nel Continente nero si sono intensificate: basti pensare alla tournée del primo
D
bilaterali e gemellaggi, come la presidentessa della Liberia, che durante la visita a Shenzhen ha espresso al sindaco il desiderio di instituire un gemellaggio con la città cinese, famosa per la buona amministrazione. Proprio Ellen Johnson Syrleaf è stata incaricata di pronunciare il discorso di apertura al Forum e il premier angolano, Fernando dos Santos, da parte sua ha sottolineato l’importan-
Gli aiuti sono offerti senza pretese di buon governo, diritti umani e trasparenza ministro Wen Jiabao nel giugno del 2006 che ha girato otto Paesi, Egitto, Ghana, Repubblica democratica del Congo, Angola, Sudafrica,Tanzania e Uganda.
È durante questa visita che è nato il Forum Cina-Africa, svoltosi dal 3 al 5 novembre di quello stesso anno a Pechino con la partecipazione di 48 nazioni africane. Mancavano all’appello soltanto cinque Paesi che sono quelli più legati agli Stati Uniti in Africa: Gambia, Malawi, Burkina Faso, Swaziland e Sao Tomè e Principe. Diversi leader africani sono arrivati in Cina per stabilire relazioni
za della cooperazione cino-angolana nella fase di ricostruzione del suo Paese. A Shenzhen si trova anche la sede della compagnia Huawei Technologies, che rappresenta uno dei maggiori fornitori di materiale informatico a cui Fernando Dos Santos ha fatto visita. Come conclusione dell’incontro, si è stabilito che il Forum si terrà ogni tre anni. Il prossimo ci sarà nel 2009 al Cairo. Il governo cinese ha descritto il vertice come «il maggior evento internazionale della Cina dalla fondazione del regime comunista nel 1949». Ma qual è il segreto nella nuova penetrazione
cinese in Africa? Quello che più piace ad alcuni governanti africani è che la Cina fornisce la propria cooperazione senza nessuna condizione preventiva legata al buon governo, alla trasparenza amministrativa e, soprattutto, al rispetto dei diritti umani e politici come, invece, esige l’Unione europea. Su questo insistono in particolare il presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, e il governo islamico di del Sudan che alimenta il conflitto del Darfur.
I gruppi di difesa dei diritti umani denunciano da tempo che, oltre a promettere la riduzione del debito, borse di studio per i ragazzi africani e uno sforzo di ricostruzione delle infrastrutture del Continente, sotto il pretesto di non interferire nelle questioni interne di ogni Paese, la Cina chiude gli occhi di fronte agli abusi e alle ingiustizie commesse dai governi dello Zimbabwe, del Sudan e di altri regimi africani. E non è un caso che il presidente del Sudan, Omar Hasan al-Bashir, e quello dello Zimbabwe, Robert Mugabe, hanno partecipato attivamente al summit di Pechino. Nell’ultimo anno la Cina ha firmato accordi con dieci Paesi africani per 1,9 miliardi di dollari. In più ha promesso di raddoppiare i suoi aiuti al Continente e di distribuire 5 miliardi di dollari in prestiti in
In senso orario: Liu Guijin, responsabile Cinese per l’Africa in Sudan; Il Forum Cina-Africa tenutosi a Pechino; un tecnico cinese sovraintende dei lavori ad Addis Abeba (Etiopia); Zhou Xiaochauan, governatore della Banca Popolare Cinese assieme a Modibo Toure, segretario della Banca di Sviluppo Africana cambio della garanzia di approvvigionamento di materie prime: petrolio, legno e minerali. In Angola i cinesi si occupano di ricostruire i 1.300 chilometri della linea ferroviaria che unisce il porto di Benguela, nell’Oceano Atlantico, alla regione del Katanga (ricca di risorse minerarie) e curano la risistemazione delle autostrade e l’ammodernamento degli istituti di formazione professionale. La contropartita è il petrolio. Nel Nord del Ghana provvedono alla costruzione di una centrale idroelettrica con un potenziale di 400 megawatt per un costo di 600 milioni di dollari. La ricompensa sarà la fornitura di caffè, cacao, legno e oro. In Gabon lavorano alla realizzazione di ferrovie e della maggior parte delle installazioni portuali per 3 miliardi di dollari. In cambio il Gabon esporterà in Cina ferro e oro. Nello Zambia, stanno realizzando un altoforno per la fusione del rame il cui costo si aggira intorno ai 200 milioni di dollari. L’operazione
sarà ripagata con il rame fuso stesso. Il Benin è un grande produttore di cotone, anacardi, ananas e olio di palma. I progetti in atto con questo Paese mirano alla trasformazione dei prodotti naturali, ancora prima di essere esportati. La compagnia cinese Cnooc acquisterà in Nigeria il 45 per cento dei giacimenti di petrolio e gas naturale di Akpo per 2 miliardi di dollari. Sarà il più grande investimento realizzato da una società cinese all’estero.
La società proprietaria è la sconosciuta compagnia nigeriana South Atlantic Petroleum, controllata dal ministro della Difesa nigeriano, Teophilus Danyuna. In seguito a tale accordo, la Cina comprerà alcuni diritti di esplorazione e sfruttamento. Con il Camerun invece, la Cina ha concluso ben 20 accordi nell’arco
21 maggio 2008 • pagina 13
di 35 anni di cooperazione. È il primo socio commerciale del Camerun in Asia. Questo Paese del golfo di Guinea importa dalla Cina veicoli militari, trattori, tabacco, macchinari pesanti, tessili e abbigliamento, scarpe, materiali da officina, mentre esporta legno non lavorato, caucciù grezzo, petrolio, cotone, caffè e cacao. La Cina inoltre finanzia una diga e una centrale idroelettrica a Lagos oltre a vari complessi sanitari.
Tuttavia, il Paese numero uno nei rapporti col colosso asiatico è la Mauritania, che ha stabilito relazioni diplomatiche con la Cina da più di 40 anni e che sta beneficiando dell’ aiuto cinese in quasi tutti i settori della sua economia. Attualmente, i cinesi stanno costruendo l’aeroporto internaziona-
La penetrazione cinese comincia nel 1956
La lunga marcia partì dall’Egitto di Saturnino Fraile a Cina comunista di Mao Tse tung guardava il continente africano da lontano e con le mani legate perché le potenze occidentali tenevano ancora sotto controllo le proprie colonie. Ma ecco che nel 1956 si verifica in Egitto un evento eccezionale: il Paese recupera il controllo del canale di Suez e la Cina non perde l’occasione per mettersi subito al fianco di Nasser contro Francia e Inghilterra. Il Cairo è così la prima sede di un’ambasciata cinese in Africa. Da allora, seguendo di pari passo il ritmo delle decolonizzazioni, la Cina si avvicina al Continente ne-
L
ria molto più antica. Secondo le fonti classiche l’arrivo dei primi cinesi in Egitto è del X secolo avanti Cristo. Erano commercianti giunti via terra con le loro carovane seguendo la rotta della seta. In quindici secoli (dal II a.C. al XIII d.C.) i cinesi hanno percorso tutto il Nord del continente che si affaccia sul Mediterraneo per commerciare seta e spezie. Sotto la dinastia mongola degli Yuan (1276-1368) i navigatori cinesi giunti dall’Oceano Indiano, attraversando il Golfo Persico, si stabilirono anche nella costa orientale dell’Africa, a Mogadiscio. In epoca più recente, dopo l’abolizione della schiavitù nel XIX secolo, gli inglesi e i francesi reclutavano lavoratori cinesi per le piantagioni di canna da zucchero e per costruire le prime linee ferroviarie.Tra i cittadini illustri del Gabon figura il ministro degli Affari Esteri, Jean Ping, il cui padre era cinese e la madre del Gabon. Imparò il mandarino ed era tenuto in grande considerazione nell’ambiente diplomatico di Pechino, ottenendo i primi contratti cinesi per il suo Paese.
Dalla crisi del Canale al ritiro dei russi: già realizzati 720 progetti
le di Nouakchott, per 170 miliardi di dollari; anche il settore della pesca è dominato dai cinesi che possiedono una flotta di 100 barche, oltre a 1000 uomini, tra marinai e pescatori che provvedono al rifornimento di quattro stabilimenti per il trattamento del pesce: congelamento, salatura e conservazione. I cinesi sono inoltre molto presenti nel settore alberghiero e in quello della costruzione. L’Africa in questo momento è come una giovane donna che ha due pretendenti. Da un lato la Cina, un gigante che la impressiona per il suo veloce sviluppo e che è passato dalla povertà comunista a una prosperità che, per altro, non è ancora generalizzata viste le enormi differenze tra gli abitanti delle città e i contadini. L’altro pretendente è l’Occidente: gli Stati Uniti e l’Europa, certo più ricchi, ma anche più esigenti sul piano del rispetto dei diritti umani. E la partita è aperta. Direttore della rivista “Africana”
ro. Le sue ambasciate cominciano a stabilirsi ovunque e arrivano i primi progetti: ospedali, ma anche stadi e sedi per i palazzi dei nuovi governi indipendenti. Dopo la caduta del muro di Berlino e la disgregazione dell’impero sovietico, i russi sono scomparsi dallo scenario africano dove, peraltro, non si erano mai fatti amare. La gente li considerava peggio dei colonizzatori. Così i cinesi hanno aumentato la loro penetrazione occupando gli spazi lasciati vuoti da Mosca. Oggi Pechino ha 48 ambasciate operative in Africa e la collaborazione CinaAfrica ha portato alla realizzazione di 720 progetti che comprendono importanti infrastrutture, come la realizzazione della linea ferroviaria Tazara (Tanzania Zambia Railway), la costruzione di grandi reti di strade, lo sfruttamento minerario, l’estrazione di petrolio in Angola e in Nigeria, centrali elettriche e l’insediamento di 800 fabbriche cinesi. Non solo. A livello individuale in Africa si sono trasferiti ben 15.000 cinesi che operano nel campo della salute (medici, infermieri, ostetriche, agopuntori) e la Cina ha anche creato 18mila borse di studio per studenti africani.
Il volume del commercio è passato dai 4 miliardi di dollari nel 1995 ai 40 miliardi nel 2005 e continua a crescere regolarmente. Gli accordi firmati durante il vertice cino-africano del novembre 2006 prevedono un investimento di altri 100 miliardi di dollari entro il 2100. Ma la presenza cinese in Africa ha una sto-
Ma quanti sono i cinesi che vivono stabilmente in Africa? Si parla di circa mezzo milione, contando anche i nati nei diversi Paesi africani. Di questi, 150mila possiedono il passaporto cinese. I cinesi “classificano”i compatrioti che emigrano nel continente africano con diversi nomi. Già a partire da questa ripartizione si possono capire le differenze tra i vari tipi di immigrati. Gli “Huagongs”sono contadini senza terra o cittadini disoccupati che si sono trasferiti in Africa durante l’era coloniale lavorando come garzoni nelle fattorie o come manovali per le grandi opere coloniali. Coloro che sono giunti all’inizio del XX secolo sono tornati quasi tutti alla madre patria. Così, per esempio, hanno fatto i minatori che lavoravano nell’estrazione dell’oro nel Transvaal, in Sudafrica. Gli “Huachiaos” sono quegli emigranti arrivati in Africa per interessi personali e familiari. Pechino li considera una parte intangibile della nazione cinese e loro contraccambiano la protezione cinese fuori dalle frontiere con una profonda lealtà verso Pechino. Gli “Huayis”, infine, sono discendenti dei cinesi che però hanno optato per la nazionalità del Paese ospitante, che siano nati in Cina o meno. Questi non potranno essere mai considerati Huachiaos, ovvero dei cittadini cinesi residenti all’estero.
pagina 14 • 21 maggio 2008
speciale esteri
Occidente La grande diga di Merowe in costruzione sul Nilo in territorio sudanese. Sono tecnici e operai cinesi a realizzarla. In cambio Pechino otterrà forniture di greggio e altre materie prime secondo una formula sperimentata in tutta l’Africa
A Merowe un esempio emblematico del modello di cooperazione “alla cinese”
Anche i forzati costruiscono la diga di Antonio Molina a Cina vuole realizzare grandi infrastrutture per aumentare la sua penetrazione in Africa. Un caso emblematico è la diga che sta costruendo a 350 chilometri a Nord di Khartoum, la capitale del Sudan, vicino alla città di Merowe . Qui Pechino ha usato tutte le sue energie materiali e umane come se si trattasse di costruire un’opera all’interno del suo territorio. Migliaia di operai vivono da più di cinque anni negli accampamenti nati nella zona della diga e non hanno mai messo piede nelle strade di questa piccola città
L
prio laboratorio del modus operandi del colosso asiatico nel Continente. Sono più di 750.000 gli operai cinesi sbarcati in Africa. Giungono con voli charter di compagnie cinesi, vivono rinchiusi nei campi di lavoro delle varie opere e restano separati dagli abitanti della regione, circondati da cordoni di polizia armata del Paese ospitante che reprime severamente qualsiasi tipo di contatto tra le due culture. A Merowe, in lontananza, dato che non è permesso avvicinarsi, si possono scorgere i muri della diga e le saracinesche che
Un giorno nel cantiere vale tre giorni di carcere in patria. Vietati i contatti con la gente sulla costa del Nilo. Anche perché, secondo le voci che circolano con insistenza, gran parte degli operai cinesi sono, in realtà, prigionieri politici e delinquenti comuni che scontano le loro pene con i lavori forzati. E, a quanto si dice, un giorno trascorso lavorando a Merowe conta come tre giorni di carcere in Cina. La diga di Merowe è, comunque, una delle opere più importanti che la Cina sta realizzando in Africa. È un vero e pro-
sbarreranno le acque del Nilo, dove sorgerà la centrale idroelettrica. Questa diga rappresenta per il Sudan quello che la diga di Assuan ha rappresentato per l’Egitto: da un lato l’energia idroelettrica è economica e rinnovabile, non inquinante; dall’altro la possibilità di esportare il petrolio recentemente scoperto che non servirà più per alimentare le attuali centrali termoelettriche. Proprio il petrolio è la moneta offerta in cambio dal Sudan alla Cina che
ha un assoluto bisogno di idrocarburi per il suo sviluppo. Se è vero che non si tratta solamente di un’opera faraonica di grande prestigio, ma anche di un intervento molto utile per il Paese, la parte peggiore è il costo umano pagato. Fino a questo momento sono stati costretti al trasloco più di 60.000 contadini della regione e si calcola che una volta che le acque inizieranno a salire per riempire il lago, almeno altri 3000 saranno sgomberati. Tale spostamento avviene manu militari e con il pagamento di ridicoli indennizzi. Nel 2006 la popolazione ha osato organizzare una marcia di protesta, ma la polizia ha risposto sparando contro i manifestanti e tre persone sono state uccise, mentre molte altre sono state incarcerate. Inoltre, dato che la zona è protetta e i giornalisti non vi hanno accesso, non è facile informare su ciò che succede. Raramente filtrano notizie confuse attraverso le persone che escono dalla regione e che raggiungono la capitale per motivi di salute o familiari, tuttavia la libera circolazione delle persone è molto limitata e i mezzi di comunicazione sono quasi inesistenti. L’Onu ha denunciato severamente le violazioni dei diritti umani delle comunità rurali che sono espulse dalla propria terra in forma violenta e senza un giusto indennizzo e ha persino richiesto che i lavori venissero sospesi. Ma gli operai ci-
nesi continuano l’opera. Ed è verosimile che i responsabili del progetto lasciano volontariamente nell’ignoranza dei fatti i lavoratori, i quali desiderano soltanto scontare la propria pena senza complicazioni. Ora è giunta la notizia che la società francese Alstom, la tedesca Lahmeyer International e la svizzera Abb fabbricheranno e installeranno le turbine per la produzione dell’energia, così come realizzeranno le linee di trasporto dell’elettricità prodotta. Però la mancanza di trasparenza di tali contratti e il fatto che sia la Cina a subappaltarli, fa sì che l’ombrello cinese della segretezza tenga tutto avvolto in una fitta nebbia. Certamente le compagnie europee dovranno venire a patti coi cinesi in Africa, per poter introdurre i propri prodotti anche nel territorio cinese dove molte imprese occidentali sognano di poter entrare. L’opposizione sudanese ha iniziato a mandare segnali d’allarme al governo sulla futura dipendenza dalla Cina. Cionondimeno il regime difende il proprio operato nella regione, considerando che in pochi anni l’Africa farà un grande salto in avanti nelle infrastrutture che le faciliterà la possibilità di uscire dal circolo vizioso della povertà. E trova anche strane alleanze. Yassir Arman, vicesegretario del Movimento popolare di liberazione del Sudan (Splm), molto critico con il governo
centrale islamico di Khartoum, è stato drastico: «Il bilancio è molto positivo. I cinesi realizzano quello di cui abbiamo bisogno e a prezzi modici. Il loro ruolo è molto più importante di quello degli occidentali». Confesso che non voglio essere né un veggente, né un profeta. Non sappiamo dove ci porterà la globalizzazione. Quali classi sociali partorirà. Qualcuno prevede che tra pochi anni potrebbe scatenare un cataclisma mondiale che eliminerà tre quarti degli esseri umani nel mondo. I leader mondiali dei Paesi più inquinanti prenderanno sul serio le conseguenze delle modifiche che stanno imprimendo alla natura? Si smetterà di investire cifre astronomiche in armamenti e si utilizzerà il denaro per consentire alle popolazioni più disagiate di avere una vita sociale degna degli esseri umani? ICredo sinceramente che per il trionfo di questa sfida non bastino i cinesi e i loro metodi a dir poco spregiudicati di operare, ma servano tutti gli uomini e le donne dotati di buona volontà. Soltanto a questo prezzo potremo vivere in pace e preservare questo mondo che Dio ci ha affidato per rispettarlo e renderlo più bello e non per distruggerlo a causa dell’egoismo di pochi e dell’incoscienza di molti. Che non si senta più l’eco di quella frase orribile del re Luigi XIV di Francia: Après moi, le déluge! Dopo di me, il diluvio.
21 maggio 2008 • pagina 15
Come ad Assuan negli anni Sessanta, in Sudan si annuncia un disastro per 500 siti archeologici
I Faraoni neri sepolti dall’acqua di Rossella Fabiani el Sudan del Nord, verso la quarta cataratta del Nilo, il villaggio di Hamdab è invaso dai Caterpillar. I vecchi nubiani vestiti di bianco quasi non ci credono. Ma non possono che osservare sulla porta di casa il disastro annunciato: in mezzo alle case di mattoni crudi, migliaia di operai stanno per completare la grande diga. Se ne parlava da tempo e ora, grazie anche ai fondi arabi e della Malaysia, l’immenso cantiere è vicino alla meta: la diga di Merowe sarà un mostro di cemento che, da solo, fornirà 1.250 dei tremila megawatt di energia elettrica necessaria al Paese. Fine dei black-out, ma anche fine delle missioni archeologiche che da cinquant’anni si succedono a Nord di Khartoum. E come è già successo in Egitto con la diga di Assuan negli anni Sessanta, quella di Merowe minaccia di sommergere reperti millenari appena sottratti all’oblio della sabbia. Sono 500 i siti a rischio. Perché questo non è soltanto il Paese della guerra intestina ventennale; del genocidio dei Nuba; dei terroristi islamici che vengono qui a nascondersi; dell’oleodotto che sfrutterà il più grande giacimento di petrolio ancora intatto del pianeta.
N
Il Nord del Sudan è ricco di storia antica, quella di una civiltà colta e guerriera che prosperò dal neolitico fino al 300 dopo Cristo. Un popolo ridotto in schiavitù dagli Egizi, avidi d’oro e avorio, ma che – prima dell’invasione degli Assiri, dei Persiani, di Alessandro Magno e di Roma – si prese la sua rivincita soggiogando a sua volta l’Egitto e imponendogli la dinastia dei “Faraoni neri”. Fuori da questo deserto dal clima impietoso, poco o nulla si sa di Kerma, Meroe, Soleb, Gebel Barkal e del loro patrimonio archeologico. Un te-
soro emerso grazie alla tenacia di alcuni studiosi che non si sono mai arresi a credere che la Nubia fosse soltanto un’arida via commerciale. Tra questi, Michela Schiff Giorgini, Jean Leclant, Catherine Berger el-Nagar, Friedrich Hinkel, Charles Bonnet, Stephan Jakobielski e, tra gli italiani, Luisa Bongrani, Alessandro Roccati, Irene Liverani e Donatella Usai. Risale al 2003 l’ultimo ritrovamento a Kerma: cinque statue di faraoni neri, alcune con la testa e i piedi tagliati come in un macabro rito magico. La scoperta si deve al Bonnet, nella sua indagine sull’oscuro regno di Kush, la prima formazione politica dell’Africa nel 3000 avanti Cristo, di
libri e riviste
l sistema finanziario mondiale sarebbe sotto attacco. Perdite e svalutazioni degli assetti finanziari avrebbero raggiunto la ragguardevole cifra di 355 miliardi di dollari, al momento. Dopo le gelate dell’agosto 2007 a seguito delle prime crisi legate a subprime e prodotti derivati, starebbe arrivando al pettine un secondo decisivo nodo. Il danno maggiore non verrebbe dalla scarsa capacità di produrre guadagni, ma dalla perdita di fiducia nei meccanismi dell’intera struttura finanziaria. Non solo, anche il discredito morale prodotto da certe pratiche poco trasparenti che, sempre più spesso, hanno portato il sistema a scaricare sulle tasche dei contribuenti gestioni allegre ed errori madornali. Se in Germania si attribuisce ai banchieri la colpa per un massive
I
destruction of assets, in Francia l’accusa verte sulla scarsa trasparenza dei bilancia reali e lo spregiudicato utilizzo delle voci fuori bilancio. L’accusa più grave, secondo l’articolo, sarebbe però che i banchieri avrebbero fallito nell’esercizio del compito loro assegnato per tradizione: il calcolo del fattore rischio. Un capo d’imputazione che li assolverebbe da peccati moralmente più “disdicevoli”. I casi Northern Rock e Bear Stearn sarebbero dunque i bubboni di una malattia legata all’eccessiva crescita degli ultimi vent’anni di un sistema che incomincia reagire. Barbarians at the vault The Economist – May 15, 2008
cui Kerma era capitale. All’altezza della quarta cataratta del Nilo, l’archeologo svizzero, ha impiegato quarant’anni per fare affiorare le fortificazioni, i palazzi, le botteghe e il quartiere religioso della città di Kerma. Ma è a pochi chilometri da Kerma che Bonnet sta mettendo a segno una scoperta unica: un tempio dell’egizio Akhenaton, marito di Nefertiti, il faraone “eretico”che intorno al 1350 avanti Cristo ripudiò il politeismo per un dio unico.
Del nuovo culto, questa è l’unica testimonianza sopravvissuta. Fra i templi egizi in Sudan, il meglio conservato è quello di Soleb eretto da Amenofi III, 500 chilo-
attuale corsa alle presidenziali americane, sarà sicuramente una delle più importanti della storia. Fondamentale per scegliere il protagonista che dalla Casa Bianca possa ricostruire prestigio e fiducia verso un Paese che è sempre stato un faro per le democrazie di mezzo mondo. La Albright, segretario di Stato dal 1997 al 2001, non poteva dunque restare alla finestra. Ha scritto qualcosa di più di un semplice manuale, con suggerimenti e prescrizioni per il nuovo inquilino della Stanza Ovale. Un distillato d’esperienze, in politica estera, nell’apparato del National security council e nei numerosi incarichi ricoperti nei palazzi di Washington e come ambasciatrice all’Onu. Madeleine Albright Memo to the president elect HarperCollins – 328 pagine – 26,95 $
L’
metri a sud di Assuan. Soleb è legato al nome dell’archeologa-mecenate Michela Schiff Giorgini che nel ’57 intraprese la scoperta e il restauro del tempio insieme a Jean Leclant. Alla base delle colonne, alcuni “scudi” contengono i nomi dei popoli soggiogati, sotto busti con braccia incatenate e volti africani. Una specie di inventario magico. Catherine Berger el-Nagar, responsabile della missione di Sedeinga, quindici chilometri a Sud di Soleb, ha riportato alla luce un’immensa necropoli datata fra il IV secolo avanti Cristo e il III della nostra era: almeno 600, in mattoni, dipinte di rosso e sormontate da una sfera ornata da pennacchi. Non si sa perché gli Egizi, intorno al 1070 avanti Cristo, si ritirano dalla Nubia. Né come il re nubiano Piye riuscì, 300 anni dopo, a conquistarli, diventando il primo faraone nero. Un dominio che durò meno di un secolo, e durante il quale sorse un maestoso complesso di piramidi a El-Kurru e Nuri, non lontano da Gebel Barkal. Oggi questi monumenti sono seriamente minacciati da una strada in costruzione verso la diga. Sul suo sito di Sanam, non lontana dalla moderna cittadina di Merowe, l’italiana Irene Liverani si lamenta del passaggio incessante dei mezzi pesanti a ridosso delle colonne all’entrata del palazzo che lei da sette anni tenta di portare alla luce. Proprio accanto alla quarta cataratta ci sono i resti dell’antica Meroe, la città dove i nubiani trasferirono la loro capitale intorno al 591 avanti Cristo, lasciandoci una necropoli con oltre quaranta piramidi di re e principi. Qui per anni ha lavorato lo Hinkel, riportando risultati straordinari. Ma ancora oggi, della civiltà meroitica, né lui né altri hanno sciolto due misteri: la fine del regno e la scrittura meroitica.
a storia della Cia nella versione più aggiornata, scritta da un ex insider e vincitore di numerosi premi e riconoscimenti editoriali, tra cui il Pulitzer. L’eredità di cenere è la definizione data dal presidente Eisenhower circa i fallimenti dell’Agenzia. Una struttura nata per conoscere il mondo che, non riuscendo nel suo compito principale, ha spesso tentato di cambiarlo. Fiaschi e umiliazioni in gran numero che spiegano come sia girato, già da tempo, il vento a sfavore di Langley. Un cahier de doleance sul gigante dell’intelligence, da anni in secca nei bassi fondali di Washington. Tim Weiner Legacy of ashes Dobleday Publishing 448 pagine – 27,95 $
L
a cura di Pierre Chiartano
pagina 16 • 21 maggio 2008
economia L’amministratore delegato di Gaz de France, Jean-François Cirelli. Non è ancora conclusa la fusione con l’altro colosso dell’energia, Suez
aramente i matrimoni combinati funzionano. Non stupisce, quindi, che la fusione tra il monopolista francese del gas Gaz de France e la compagnia privata Suez stia scricchiolando prima ancora di essere definita negli ultimi dettagli. Un rapporto interno al colosso pubblico d’Oltralpe – e anticipato da Le Parisienne, in pratica dice che il merger non porterà a creazione di valore. Suez porta in dote i suoi asset nel campo elettrico e in quello dei rifiuti e delle acque. Per lo studio Secafi Alpha, autore dell’indagine, il costo medio di produzione di un megawattora elettrico per l’azienda è tra i 50 e i 65 euro, contro i 35 del principale concorrente, Electricité de France, anch’esso controllato dallo Stato. EdF ha un duplice vantaggio: dispone di una vasta base di impianti nucleari, che sono competitivi soprattutto nei periodi di alto prezzo del petrolio, e alcuni segmenti di costo (in particolare quelli relativi alla chiusura del ciclo combustibile) sono di responsabilità governativa, ossia vengono finanziati dalla fiscalità generale e non dalla bolletta.
R
E per quanto l’integrazione con GdF possa far scendere il costo del gas (combustibile utilizzato nelle centrali francesi di Suez), non v’è modo alle attuali condizioni di mercato di fare reale concorrenza a EdF, se non nelle ore di punta che già sono presidiate da Suez. È vero che il gruppo possiede centrali nucleari in Belgio (tramite la controllata Electrabel), ma esse sono destinate a coprire soprattutto il mercato domestico, quindi non sarebbero in grado di cambiare le carte in tavola. A questo si aggiunge che il management di entrambe le società ha vissuto con sofferenza le pressioni per il merger, e pure i soci (di Suez) hanno scalpitato, ritenendo penalizzanti le condizioni che venivano via via proposte.Tant’è che il tiramolla va avanti ormai da due anni, senza che se ne sia ancora venuti a capo, sebbene il via libera sia atteso per l’estate (va detto che lo era anche per l’estate scorsa). A completare lo scenario si aggiungono due fattori: l’ostilità dei sindacati di GdF (che temono, con la fusione, la perdita per i lavoratori di tutele speciali e che li equipara, di fatto, ai dipendenti pubblici) e lo scetticismo del presidente francese Nicolas Sarkozy. Il quale inizialmente era contrario all’operazione, anche se ha sempre fatto buon viso a cattivo gioco. Questa assenza di partecipa-
Non creerà valore la fusione tra i colossi energetici voluta da Chirac
GdF-Suez, uno sterile matrimonio combinato di Carlo Stagnaro zione reale al merger non può essere compresa senza ricordare, brevemente, come nacque e fu orchestrata l’operazione. All’inizio del 2006 l’Enel si trovava con una grande liquidità nei
guardava la utility belga Electrabel, che per le sue caratteristiche avrebbe potuto coniugarsi bene col gruppo di Viale Regina Margherita e, soprattutto, avrebbe rafforzato la com-
con i francesi di Veolia) di attaccare il pesce grosso, cioè Suez stessa, per poi trattenerne gli asset nel campo di elettricità e cedere al partner quelli in campo idrico e ambientale.
Secondo un rapporto interno le due aziende, non potendo contare su un’ampia produzione nucleare, non riusciranno a ridurre i costi di gestione e ad affrontare la concorrenza di EdF. Tornano a protestare sindacati e socialisti suoi forzieri e, contemporaneamente, l’esigenza di crescere secondo una linea esterna, poiché i tetti antitrust imponevano all’ex azienda di Stato un ridimensionamento in patria. Tra i vari dossier esaminati, uno ri-
ponente atomica nel suo mix di generazione europeo. Electrabel era in pancia a Suez, che non era disposta a venderla. L’amministratore delegato della compagnia italiana, Fulvio Conti, ipotizzò (assieme
Man mano che i rumor di borsa puntavano in questa direzione, il governo francese preparava la contromossa. Fu così che, con l’assenso dell’ex presidente Jacques Chirac, l’allora premier Dominique
De Villepin e il ministro dell’Economia Thierry Breton annunciarono in diretta tv, sabato 25 febbraio 2006, la fusione di Suez e GdF alla presenza dei rispettivi capi azienda. L’Enel avviò una lunga, logorante e infine perdente battaglia, prima di chiudere la pratica e volgere lo sguardo altrove: fu così che maturò l’interesse per la spagnola Endesa, che gli italiani conquisteranno in cordata coi costruttori di Acciona nell’aprile 2007.
De Villepin, Breton e l’intero mondo politico francese (con poche eccezioni, tra cui quelle vistose di Sarkozy e dei socialisti, schierati coi sindacati soltanto dopo aver raggiunto la certezza che gli italiani non sarebbero tornata alla carica) hanno sempre sostenuto che la decisione di procedere alla fusione fosse maturata indipendentemente dalle aspirazioni dell’Enel, ma nessuno vi crede. La stessa Ue accese i riflettori su Parigi, in quel periodo, senza però trovare un cavillo per costringere il governo francese a più miti consigli. La notizia sull’inutilità della fusione è una specie di rivincita postuma per Conti, che aveva creduto nell’operazione con Electrabel, ed eventualmente con Suez, pur senza mai dichiarare formalmente l’Opa. A questo punto, venuta meno la minaccia esterna, non è detto che il merger non possa saltare. Vorrà dire che i mercati hanno certificato a loro modo il fallimento del patriottismo economico francese.
economia
21 maggio 2008 • pagina 17
Finita l’era degli scontri con Prodi, i Benetton sono fiduciosi in un accordo con il governo su tariffe e lavori
Autostrade,primi passi sulla convenzione Gilberto Benetton, presidente di Edizione Holding, la finanziaria della famiglia di Ponzano Veneto. Il mancato accordo con il governo sulla convenzione limita l’espansione estera
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Tremonti: «Rispetteremo gli impegni» Giulio Tremonti conferma gli impegni del governo. I primi interventi che saranno approvati dal Consiglio dei ministri di oggi riguarderanno l’«abolizione dell’Ici sulla prima casa e la detassazione sperimentale degli straordinari». Il ministro dell’Economia, aprendo l’incontro con le parti sociali, assicura che la copertura di bilancio per questi due interventi «sarà operata con la riduzione della spesa pubblica». Parlando della situazione generale, Tremonti non nasconde le difficoltà: «Ci troviamo a crescita zero» e a questo si accompagna il cronico problema dei conti pubblici. A tale proposito, il responsabile dell’Economia annuncia «un piano triennale di stabilizzazione». «Non ci sarà un aumento della pressione fiscale ma più contrasto all’evasione, puntando soprattutto al federalismo». L’obiettivo è il pareggio di bilancio nel 2011. «Servono però tra i 20 e i 30 miliardi di euro nel trienno 2009-2011».
La detassazione dei salari secondo Sacconi
di Giuseppe Latour
ROMA. È ancora presto per festeggiare, ma la famiglia Benetton spera di guadagnare qualcosa con il cambio a Palazzo Chigi. Se l’esecutivo Prodi le aveva messo i bastoni tra le ruote nella fusione con Abertis e nella lunga guerra della convenzione unica, a Ponzano Veneto c’è la sensazione che Silvio Berlusconi e Altero Matteoli non faranno lo stesso. Anzi, cercheranno di dare una svolta ai rapporti con Atlantia su due fronti: la convenzione e le infrastrutture, riportando dopo lungo tempo Sintonia a investire in Italia. Il primo capitolo sarà la convenzione con Anas. E la diplomazia ha già avviato il suo lavoro. «I termini del problema sono ormai stranoti a tutte le parti, Commissione europea, governo italiano e noi». Per Giovanni Castellucci, amministratore delegato di Atlantia, il tempo delle parole è dunque finito. Lo stallo attuale dura da ormai due anni. Da quando l’ex ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, avviò una contestata riforma del settore, congelando la convenzione di Autostrade per l’Italia. Da allora si è creata allora una situazione di «mancanza di regole», più volte sottolineata dai vertici della società nel corso dell’assemblea degli azionisti. La partita è decisiva per il futuro di Atlantia in Italia, visto che la definizione della questione vale circa 18 miliardi di euro da qui fino al 2018. I segnali in arrivo dalla nuova squadra di Altero Matteoli, che ufficialmente ha preso tempo per valutare il da farsi, sembrano anda-
re nella direzione di una chiarificazione del quadro normativo e della controversia. Anche perché il pericolo di possibili risarcimenti, momentaneamente sospesi, pesa come un macigno.
Le alternative sul piatto, comunque, sono due. Da un lato, il ritorno alla vecchia convenzione, con l’azzeramento della riforma varata dal precedente esecutivo. Dall’altro, molto più probabile, lo sblocco della tanto discussa convenzione unica. Negli ambienti di Autostrade sarebbe, infatti, questa la soluzione
Matteoli studia una nuova concessione per sbloccare l’impasse. La questione per Ponzano Veneto vale circa 18 miliardi di euro in ricavi fino al 2018 preferita, perché consente «maggiore certezza», elemento privilegiato da investitori e finanziatori. Ed è proprio per tranquillizzare i grandi investitori internazionali con i quali sta lavorando Atlantia che dalle parti di Ponzano Veneto ci si augura che la soluzione arrivi il più presto possibile. Racconta Giovanni Castellucci: «Sono due anni che siamo costretti a stare alla finestra, vincolati alla gestione di ordinaria amministrazione, per la mancanza di certezze derivanti dal contratto».
E le conseguenze di mercato sono facilmente immaginabili. Per esempio, secondo l’Ad, nella vicenda di Pennsylvania Turnpike, autostrada la cui concessione per i prossimi 75 anni è stata comprata da Abertis e da Citigroup con un’offerta cash da 12,8 miliardi. «Lunedì», dice, «è stata completata la più grande privatizzazione degli Stati Uniti e non abbiamo potuto partecipare alla gara perché non abbiamo un contratto valido». La contropartita per la chiusura della vicenda della convenzione potrebbe essere un nuovo interessamento di Sintonia per le infrastrutture italiane. La cassaforte dei Benetton (una potenza di fuoco, leva finanziaria compresa, stimata in circa 10 miliardi di euro) guarda più volentieri all’estero che in Italia. Come dimostrano l’ingresso di soci pesanti come Goldman Sachs e il Fondo sovrano di Singapore nella società. Passi sui quali la politica del leader dell’Italia dei valori, Antonio di Pietro nei confronti dell’operazione Abertis ha avuto una grossa influenza.
Così, con il deficit infrastrutturale che blocca l’Italia, l’idea del nuovo governo è che non ci si può permettere di perdere un player dell’importanza di Sintonia sul fronte interno. Anche se i segnali in arrivo a oggi parlano di un interessamento per il Medioriente, con il possibile ingresso di un partner della finanza islamica, più che di un ritorno di fiamma per l’Italia. Ma il futuro, e la soluzione della partita della convenzione, potrebbero portare sorprese inaspettate.
All’incontro tra governo e parti sociali si è parlato anche di detassazione degli straordinari. E a proposito degli sgravi, è stato il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, a delineare la linea del governo: il meccanismo della detassazione degli straordinari, incentivi e premi aziendali prevede un tetto di 35 mila euro di reddito, una cedolare secca del 10% e un limite di tremila euro per le somme ammissibili al beneficio. La misura sarà introdotta in via sperimentale per sei mesi e non riguarderà gli statali.
Il petrolio continua la sua corsa A New York, il prezzo del greggio è arrivato ad un nuovo record storico volando a 129,60 dollari al barile. In aumento di 2,54 dollari. Secondo il leggendario magnate dell’energia americano, Boone Pickens, «i prezzi dell’oro nero continueranno a salire e quest’anno raggiungeranno i 150 dollari al barile». Per Pickens, il presidente Bush ha sprecato il proprio tempo in Arabia Saudita, dove ha chiesto un aumento della produzione. In un’intervista, il magnate ha osservato come la speculazione non ha niente a che vedere con la corsa dei prezzi. «Il problema è che il mondo può produrre 85 milioni di barili al giorno e la domanda è di 87 milioni».
Scaroni su Distrigaz Nell’offerta di Eni per Distrigaz c’è anche la rete di distribuzione di Italgas di Roma. È stata la precisazione dell’ad di Eni, Paolo Scaroni, a margine della premiazione di Eni award 2008. L’amministratore delegato di Eni ha anche precisato che in termini di valore la rete di distribuzione di Italgas di Roma vale «circa un miliardo».
Alitalia, via libera al decreto Via libera unanime e senza modifiche al dl sul prestito ponte ad Alitalia da parte della commissione speciale del Senato per i decreti da convertire in legge. Il provvedimento, che prevede il prestito da 300 milioni alla compagnia aerea, approda così nell’aula di palazzo Madama, dove l’esame inizierà oggi. Il testo del decreto supera così il primo passaggio senza subire modifiche e si avvia verso una rapida approvazione, visto che in Aula - come in commissione - non sono stati presentati emendamenti.
Unicredit lancia bond da 2 miliardi Il gruppo bancario Unicredit ha lanciato una obbligazione a due anni dell’importo di due miliardi di euro e con un differenziale di 55 punti base sopra il tasso euribor trimestrale. L’ammontare finale degli ordini è risultato superiore a 4 miliardi di Euro. Il bond quoterà sulla Piazza lussemburghese.
pagina 18 • 21 maggio 2008
ndici secoli di storia, cent’anni più del Sacro Romano Impero, e con un’influenza di gran lunga maggiore. L’Impero Bizantino è un capitolo (un lunghissimo capitolo) della storia universale che non ha avuto certamente l’attenzione che meritava. Ne sappiamo poco, e quel poco è parzialmente offuscato da un pregiudizio: l’uso – in senso dispregiativo – del termine “bizantino”, che è divenuto sinonimo di contorto, complicato, cavilloso e pedante. «Bisanzio evoca un’immagine di opaca duplicità: da una parte congiure, assassini e mutilazioni fisiche, dall’altra opulenza, lo splendore dell’oro, i gioielli… Nel corso del Medioevo, tuttavia, i bizantini non conobbero solo intrighi, tradimenti, ipocrisia, ombre o ricchezze, ma anche un gran numero di capi intelligenti, brillanti generali e teologi innovativi, che spesso vengono denigrati ed etichettati con lo stereotipo ‘bizantino’. Non svilupparono mai qualcosa di paragonabile alla Santa Inquisizione, e in linea di massima evitarono di bruciare le persone sul rogo. Ma resta sempre un’ombra di mistero difficile da dissipare associata a questo mondo ‘perduto’, in parte perché esso non possiede un erede moderno e rimane nascosto dietro lo splendore della sua arte medievale: l’oro, i mosaici, le sete e i palazzi imperiali».
cultura del mondo classico senza l’apporto degli studiosi bizantini. Confrontato con l’ultimo saggio di grande respiro pubblicato in Italia sullo stesso argomento (La civiltà bizantina di Cyril Mango, Laterza 1991), il libro di Judith Herrin può persino essere definito apologetico. L’autrice non ha dubbi sul fatto che l’Impero d’Oriente abbia, in qualche modo, supplito alla crisi medievale che afflisse tutta la civiltà occidentale.
U
La citazione è tratta da un ponderoso volume, intitolato Bisanzio, Storia straordinaria di un impero millenario (Corbaccio editore, 470 pagine, 22,60 euro) scritto da una donna, Judith Herrin, professore di Storia bizantina al King’s College di Londra. Un’autorità assoluta in materia. La Herrin si è posta un obiettivo particolarmente ambizioso: rivolgersi anche ai profani, a chi a fatica sa che Bisanzio è l’attuale Istanbul, in Turchia, la porta che collega l’Occidente con l’Oriente, la città fondata dall’imperatore Costantino, nell’anno 330, che intendeva farne la capitale del suo impero, e che divenne poi la capitale dell’Impero Romano d’Oriente. E si è posta un secondo obiettivo altrettanto ambizioso: di non infarcire il suo racconto di
Nel saggio di Judith Herrin la riscoperta di una civiltà
L’Europa cristiana nasce a Bisanzio di Massimo Tosti
Lo Stato bizantino ereditò l’autorità dell’Impero romano e fu per molti secoli, insieme alla Cina del Celeste impero, la maggiore potenza mondiale di quel periodo
nomi, luoghi e date, pur badando a inserire di tanto in tanto qualche aneddoto destinato a ravvivare la curiosità. È riuscita nell’impresa, soprattutto perché ha ridato dignità ad una civiltà che si è rivelata fondamentale per mantenere un filo di collegamento con l’antichità classica e con quella cristiana. Qualche anno fa, i saggi chiamati a redigere la cosiddetta Costituzione europea hanno discusso a lungo riguardo all’opportunità di ricordare – nel preambolo del documento – le radici greche, romane o giudaico-cristiane del continente. Poi non se ne fece nulla, ma il dibattito finì per allargarsi ben oltre i confini canonici delle aule di Bruxelles. La Herrin sottolinea come sia esistito per molti secoli un luogo (Bisanzio, appunto) nel quale cristianesimo, romanità ed ellenismo abbiano
È stato il luogo nel quale cristianesimo, romanità ed ellenismo hanno trovato una sintesi politica e culturale formato uno straordinario impasto politico e culturale. Lo Stato bizantino ereditò l’autorità dell’Impero romano e fu per molti secoli, insieme alla Cina, la maggiore potenza mondiale. Molto di ciò che noi siamo e abbiamo, proviene da questo nostro antenato. Bisanzio ci ha trasmesso il culto della grande letteratura greca, ha rielaborato e codificato il diritto romano, ha fermato l’invasione araba nell’anno 678, ha convertito gli slavi della penisola balcanica e i russi di Kiev, ha creato le istituzioni politiche e amministrative di quello che poteva considerarsi, nel momento del suo maggiore fulgore, lo Stato moderno. Ha creato ed esportato in Occidente i canoni dell’arte post-romana. Non vi sarebbero stati l’Umanesimo e la riscoperta
La capitale (Costantinopoli o Bisanzio, a seconda dei nomi che assunse nei diversi periodi storici) resistette a lunghi assedi subiti sia dagli eserciti cristiani che da quelli musulmani. E quando si arrese, mantenne la propria identità originale, senza cedere alle influenze esterne. Riuscì, piuttosto, a insegnare qualcosa agli invasori. La pittura italiana del Basso Medioevo imparò la “maniera greca” dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei crociati guidati dal doge di Venezia, Enrico Dandolo, nel 1204. E all’esplosione del Rinascimento contribuirono i profughi di Bisanzio riparati in Italia a metà del XV secolo. Per non parlare del periodo più celebrato: il VI secolo di Giustiniano, che seppe adeguare ai tempi il Diritto Romano con un Codice che rimane ancora oggi uno straordinario modello giuridico, e che nobilitò Ravenna con gli splendidi mosaici di San Vitale e Sant’Apollinare. Un periodo che fu raccontato (con una doppiezza che potrebbe essere definita bizantina, secondo il significato odierno del termine) da Procopio di Cesarea, aedo ufficiale di Corte con la Storia delle guerre di Giustiniano (in otto volumi) e il saggio “degli edifici”, ma ne raccontò anche i le passioni, gli intrighi, il malcostume e le debolezze nella Storia segreta che affidò alla memoria (e ai pettegolezzi dei contemporanei) come testo anonimo. Forse – a rifletterci – fu proprio Procopio a creare il pregiudizio di cui Bisanzio ha sofferto fino ad oggi. E che la Herrin si è preoccupata di smontare, sottolineando anche il debito che tutti noi abbiamo nei confronti di quella civiltà. «In questo libro», spiega l’autrice, «ho voluto esporre alcune caratteristiche della civiltà bizantina e ho cercato al tempo stesso di mettere in rilievo come la popolazione di una società cosmopolita e urbana, consapevole del proprio ruolo nella storia e dotata di fervida fede nell’aldilà, sia così diversa da noi eppure a noi così simile».
musica
21 maggio 2008 • pagina 19
A 67 anni il cantante torna in vetta alle classifiche di vendita con “Home Before Dark”
La seconda vita di Neil Diamond di Alfredo Marziano l disco più venduto della settimana scorsa, negli Stati Uniti, è opera di un resuscitato: Neil Diamond, newyorkese sessantasettenne che fa il cantante da quando di anni ne aveva 19, e che prima d’ora al numero uno non c’era mai arrivato. Neppure quando, nel 1973, aveva sfiorato la vetta con la colonna sonora del Gabbiano Jonathan, discussa trasposizione cinematografica del romanzo best seller di Richard Bach. Con il nuovo album Home Before Dark sta vivendo una tardiva e forse inattesa vampata di gloria: è stato in tv a promuoverlo ad American Idol (l’equivalente statunitense di X Factor) e grazie anche a quella apparizione in prime time ha superato le 146 mila copie vendute in una settimana, meglio di Madonna. Niente male davvero, per uno che è in giro da prima dei Beatles e dei Rolling Stones, che s’è fatto conoscere grazie ai Monkees (I’m A Believer, tradotta in Sono bugiarda per Caterina Caselli, porta la sua firma) e che molti identificano ancora con il pop zuccheroso ed enfatico alla September Morn. Un miracolo? Una vincita fortunosa alla roulette? Uno scherzo del destino? Mica tanto: alla base del suo clamoroso ritorno in classifica c’è un progetto, un piano architettato dalla mente lucida e un po’ folle di Rick Rubin, produttore discografico con la lunga barba da santone indiano e un’aura magica da guru del music business.
I
misurato possibile. ll giochetto stava già per riuscire tre anni fa con 12 Songs, un’opera ancora più rigorosa e spartana di questa: non ci avesse messo di mezzo uno zampino maldestro proprio la Sony, che in quel cd e in altri distribuiti nello stesso periodo nascose un software anticopia che rendeva vulnerabili a virus e spyware i computer degli ignari acquirenti. Investita da una
sta replicando con Diamond quel che gli riuscì magnificamente con Johnny Cash a cavallo tra il 1994 e il 2002, poco prima della morte del Man in black. Con un poker di album straordinari (più un album e un cofanetto postumo) fotografò il vecchio eroe della American Music al crepuscolo della sua esistenza: voce chitarra e niente altro, una musica in drammatico bianco e nero che metteva il
stica che dopo quarant’anni si chiude all’apice dell’espressività. Diamond non è un personaggio titanico e romanzesco come Cash, è vero. Però ha la stoffa del cantautore doc forgiato tra le mura del Brill Building, la hit factory newyorkese per cui lavorarono anche Burt Bacharach, Neil Sedaka e Carole King. Ha voce, canzoni, personalità: basta e avanza, secondo la ricetta Rubin che non prevede l’aggiunta di artifizi, spezie e dolcificanti.
Sulle scene da quando aveva 19 anni, deve il suo restyling al produttore discografico Rick Rubin che ha carta bianca per l’etichetta Columbia. Il risultato sono canzoni sobrie e misurate con una voce ancora inconfondibile mareggiata di proteste e da azioni legali orchestrate dalle associazioni dei consumatori, la major americana fu costretta a ritirare frettolosamente dai negozi i dischi incriminati e a stamparne di nuovi, perdendo definitivamente l’attimo fuggente raccontano, (Diamond, non la prese bene). Dj con i rapper bianchi Beastie Boys, inventore della fusione tra hip hop e heavy metal (con Walk This Way, incrocio magico tra Run-DMC e Aerosmith), produttore di quel Blood Sugar Sex Magik che lanciò in orbita i Red Hot Chili Peppers, Rubin
La Sony gli ha dato carta bianca affidandogli la presidenza dell’etichetta Columbia, e anche se lui in ufficio non si fa vedere quasi mai i risultati non tardano ad arrivare. Con il vecchio Neil ha lavorato alla sua maniera preferita, operando di sottrazione.Via gli archi ridondanti, i lustrini da intrattenitore di lusso e il sentimentalismo appiccicoso, tutta l’attenzione si sposta sulla sua voce profonda e stagionata, sulle canzoni vestite nel modo più sobrio e
Neil Diamond oggi e nel 1973, al tempo del suo successo con la colonna sonora del “Gabbiano Jonathan”, trasposizione cinematografica del romanzo di Richard Bach
grande interprete, quasi allo stremo delle forze, faccia a faccia con canzoni firmate da Leonard Cohen e Tom Waits, U2 e Depeche Mode, Lennon-McCartney e lo stesso Neil Diamond (Solitary Man, un successo in Italia per Gianni Moranti col titolo di Se perdo anche te, diede il titolo al terzo volume della tetralogia).
Un trionfo artistico, più volte premiato ai Grammy, e uno struggente ritratto di un uomo impegnato in un lungo e sofferto cammino di redenzione: caso più unico che raro di una parabola arti-
Il suo exploit di ritorno fa venire in mente quello, assai diverso nei contenuti, di Tom Jones: nel 1999, a 59 anni suonati, il macho gallese sbancò a sorpresa le classifiche con Sex Bomb, irresistibile ruffianata confezionatagli su misura dal dj e produttore tedesco Mousse T, allora nome emergente della musica «giovane»: e se oggi Diamond duetta con Natalie Maines delle Dixie Chicks, allora l’ex minatore di It’s Not Unusual e What’s New, Pussycat nascondeva rughe e pancetta duettando con Robbie Williams e Van Morrison, Natalie Imbruglia e Portishead, Simply Red e Zucchero. Reload (oltre 4 milioni di copie nel mondo) divenne inopinatamente l’album più venduto della sua carriera. La domanda, allora, sorge spontanea? Il geronto-pop è un affare? Sembrerebbe di sì, se è vero che prima della morte sopraggiunta nel febbraio scorso Henri Salvador (classe 1917) s’era guadagnato una seconda vita artistica in Francia, dove ogni tanto si riaffacciano sulla scena il ciuffo ribelle e il giubbotto di pelle dell’immarcescibile Johnny Hallyday, 65 anni a giugno. Tutti ricordano gli arzilli ottuagenari del Buena Vista Social Club, che un disco prodotto da Ry Cooder e un film diretto da Wim Wenders trasformarono per una breve ma intensa stagione in star internazionali. E non mancano esempi minori neppure in Italia, dove qualche discografico accorto s’è ricordato di recente dei vecchi crooner messi ingiustamente in soffitta: dopo aver sfornato un delizioso album dal vivo, Go Man!, inciso col fior fiore dei jazzisti italiani, Nicola Arigliano vinse il Premio della critica al Festival di Sanremo 2005 all’età di 82 anni; mentre quattro anni fa un altro giovanotto del ’37, Johnny Dorelli, ha venduto più di 100 mila dischi rivisitando con classe intatta il repertorio swing della sua giovinezza. E pensare che c’è ancora chi il pop lo considera una musica per teen ager.
pagina 20 • 21 maggio 2008
cinema
Esce venerdì il quarto film della serie: ora il nostro eroe sfida il potere sovietico
Debole,ma sempre Indy di Anselma Dell’Olio segue dalla prima empli antichi, indigeni cattivi, sotterranei peruviani, extraterrestri, città d’oro e quarte dimensioni si possono tranquillamente guardare senza sforzarsi di seguirne le complicate e noiose spieghe. L’avvio è un’altra storia, germogliato nella fantasia di un adolescente la cui formazione è avvenuta nell’Ovest degli Stati Uniti negli anni Cinquanta (George Lucas, cresciuto a Modesto, California, dove ha ambientato American Graffiti). Il film è ambientato, infatti, nel 1957, all’apice della Guerra Fredda, con il corredo di paranoie speculari tra Occidente e Oriente, i due blocchi divisi dalla cortina di ferro. Inizia con un convoglio militare che procede nel deserto del Nevada, in testa una jeep con a bordo un generale e altri ufficiali. Si ferma a un posto di blocco all’entrata di una base dell’esercito americano, con cartelli che vietano l’ingresso a chi è senza permesso ufficiale. Il soldato di guardia si scusa col generale, perché persino a un alto grado come lui è necessario chiedere i documenti che autorizzano la sua visita. A 10-15 minuti dall’inizio arriva il primo colpo di scena. Il «generale» e i suoi uomini tirano fuori le armi e gridano ordini in russo mentre trucidano i soldati di come guardia, hanno ucciso gli ufficiali le cui divise indossano. Scopriamo che Indiana è loro ostaggio insieme con un collega, Mac McHale, sotto l’imperio della temibile Irina Spalko (Cate Blanchett) in fulgido eloquio
T
russeggiante (stile «Cuoca Cuola») emula della cattivissima spia sovietica di Lotte Lenya nel primo James Bond, 007 dalla Russia con amore. Segue il primo dei molti rumorosi tour de force d’azione furiosa tra l’archeologo-professore Indy, McHale e i «compagni» rossi.
Il film è ambientato nel 1957, all’apice della Guerra Fredda, con il corredo di paranoie speculari tra Occidente e Oriente
Botte da orbi e rovesci dei rapporti di forza delle due parti si susseguono a ritmo serrato tra mummie, materiale nucleare e a fine sequenza, l’esplosione programmata (a insaputa del solitamente ben informato protagonista) di una bomba atomica che incenerisce interi quartieri costruiti ad hoc e abitati da manichini che rappresentano la tipica famiglia americana felice. Per chi è maturato nel clima di quegli anni, questa parte del film è una ricca rimpatriata con immagini, parole d’ordine e paure dell’infanzia. Rivisitate oggi, in un’epoca più confusa nell’individuare avversari e nemici, sono cose che fanno tenerezza. E così sono inquadrate le forze in campo: i capitalisti del Mondo Libero da una parte e le spie della Dittatura del Proletariato dall’altra. Gli autori sono stati furbissimi nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte, politicamente. Quando l’Fbi scopre che il collega Mac McHale (Ray Winstone, sprecato) era una spia sovietica, Jones deve prendersi un sabbatico forzato dall’insegnamento, su consiglio del rettore, Charles Stanforth (Jim Broadbent, sotto utilizzato). «Con questo maccartismo rampante - sospira il rettore ormai vedono spie russe sotto ogni letto». È un contentino per le Susan Sarandon del mondo, perché la vera anima del film si trova negli striscioni di una manifestazione nel campus universitario. C’è scritto a lettere cubitali rosse: Better Dead than Red, e non il contrario, Better Red than Dead,
LA SCHEDA DEL FILM Titolo Indiana Jones e il Regno del Teschio di cristallo slogan pacifista della sinistra inglese dell’epoca. A parte questo, si può ingannare il tempo cogliendo le citazioni di film e personaggi classici, per esempio dai giubbotto, berretto e moto di Shia LeBoeuf alla sua prima apparizione, presi di peso da Marlon Brando del Selvaggio, alla di lui pettinatura (sarebbe meglio dire acconciatura) a «culo d’anatra», copiata dal James Dean di Gioventù bruciata, fino al modo in cui Harrison Ford, verso la fine, sposta indietro il famoso cappello, proprio come Clark Gable in Accadde una notte. Il resto è un popcorn movie in cui il popcorn è meglio del movie.
Regia Steven Spielberg Interpreti Harrison Ford, Karen Allen, Cate Blanchett, Shia LaBeouf, John Hurt, Ray Winstone Durata 125 minuti Produzione Usa 2008 Distribuzione Universal Pictures
cinema
21 maggio 2008 • pagina 21
Hollywood vince sempre quando mette in scena la lotta tra Bene e Male
Ma è meglio Harrison o James Bond? di Roberto Genovesi iamo in una comunità globale in cui il relativismo etico ha bruciato gli ideali, ha trasformato i valori in vestigia del passato e ha condotto l’eterno scontro tra bene e male sul piano del compromesso. Buoni e cattivi non esistono più perché tutti hanno una ragione d’essere, un motivo per fare scelte perfino contrapposte alle quali viene trovata una giustificazione nella corsa dello stato secolare che lotta duramente e spietatamente per la supremazia materiale. In questo scenario non è più permesso esprimere giudizi netti, fare scelte impopolari, dire che esistono cose giuste e cose sbagliate. In questa cornice in cui, come diceva Joseph Campbell, «non si sa verso cosa ci si muove e non si sa da cosa si è messi in moto», l’ultima speranza è riposta in una frusta e in un cappello di cuoio a falda larga. Avrà pure sessant’anni, sarà appesantito più del dovuto e i suoi riflessi non più come quelli di una volta, ma quando c’è bisogno di fare un ripassino alle regole del gioco, Indiana Jones, risponde sempre all’appello. E così, anche nel quarto episodio delle sue avventure, che arriverà nelle sale cinematografiche nei prossimi giorni con il titolo Il regno del teschio di cristallo, il professore archeologo lancia un nuovo messaggio tranquillizzante per i suoi fan: il bene ha connotati precisi e i suoi valori non sono negoziabili.
S
residuali del pensiero anticonformista sono così emarginate da potersi permettere di impedire al Papa di parlare all’università o di fare la voce grossa con un ministro della Repubblica che vuole negare il patrocinio ad una manifestazione che non sente in sintonia con il suo mandato, la gente preferisce rifugiarsi dietro l’ombra di un agente segreto che ama le Aston Martin e le belle donne e di un archeologo che scopre tesori senza mai rubarli. Nei film di Indiana Jones come in quelli di 007 gli spettatori si ritrovano in un territorio franco in cui le regole che determinano da quale parte stia la ragione a da quale il torto sono come le regole della matematica: inconfutabili. Entrambi vestono il costume di un supereroe, una maschera grazie alla quale è permesso abbandonare il lessico del ”pacatamente” e del ”ma anche” per abbracciare finalmente quello dei valori immanenti. Sono favole per adulti le loro, magari a tratti anche un po’ violente, ma in cui sopravvivono in tutta la loro purezza le coordinate dei mondi dell’infanzia dove il lupo è cattivo, il principe è azzurro e la mela è sempre avvelenata.
«Nei film di Indiana Jones come in quelli di 007 gli spettatori si ritrovano in un territorio franco in cui buoni e cattivi, come nelle fiabe, sono nettamente divisi»
Harrison Ford (a sinistra) nei panni di Indiana Jones. Nella foto in alto, l’attore insieme a Shia LaBeouf. Qui sopra, con Karen Allen. A destra, il James Bond di Sean Connery
È un mondo davvero strano il nostro. Un mondo in cui, per poter riaffermare e difendere valori universali come la vita, la famiglia, l’onestà degli affetti, occorre vestire i panni del supereroe. Che siano le sembianze di un pipistrello, lo smoking di un agente segreto o gli abiti infangati di un cacciatore di tombe non importa. Quel che conta è che tutto quanto accada in una dimensione altra rispetto a quella reale perché il fantastico, tutto sommato, come dicevano i funzionari del partito comunista sovietico mentre lasciavano il campo libero agli scrittori di fantascienza e rinchiudevano i dissidenti politici nei gulag, non può nuocere più di tanto. E allora, in un contesto in cui certe frange
È per questo che lo spettatore non se la sente più di uscire dal cinema dopo i titoli di coda. Perché sa che fuori dalla sala troverà sempre qualcuno disposto a fargli credere che i lupi cattivi tutto sommato hanno fame, che i principi vestono anche di rosso e che il veleno di una mela ha un effetto molto rilassante sul sistema nervoso soprattutto se aspirato a pieni polmoni. Per fortuna per essere supereroi, non è necessario sempre avere una frusta, guidare una Aston Martin o nascondersi dietro una maschera. C’è qualcuno che riesce ad esserlo indossando una semplice tonaca bianca. È comprensibile che i suoi consigli, con quel lieve accento tedesco nella voce, possano dare fastidio a qualche lupo e a più di una strega cattiva. Ma quel che fa più rabbia a questi signori è che per ascoltarli non occorre nemmeno andare al cinema.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Giusto negare il patrocinio del ministero al gay pride? HA FATTO BENE IL MINISTRO CARFAGNA, QUALUNQUE PATROCINIO SAREBBE INOPPORTUNO Certo che è giusto. E perché mai dovrebbe essere altrimenti? Trovo che la spiegazione data dal ministro per le Pari opportunità, la pidiellina Mara Carfagna, sia esaustiva e convincente. Infatti, se un omosessuale dovesse essere discriminato sul lavoro, ad esempio con un secco rifiuto per un impiego, allora sarebbe certamente giusto intervenire. Se fosse picchiato da un gruppo di omofobi, anche lì sarebbe giusto intervenire. Ma sappiamo bene che il gay pride è solo uno dei tanti modi che i gay hanno per ribadire il loro diritto a sposarsi e adottar figli. Francamente, qualunque tipo di patrocinio sarebbe inopportuno.
Carla Biancini - Viterbo
I MINISTERI SENZA PORTAFOGLIO RISPARMINO PROPRIO SU SIMILI EVENTI «La Carfagna ha una politica miope e ingannevole», sottolinea Barbara Pollastrini, che occupava lo stesso ministero nel vecchio governo e sfilò tra carri e musiche. Si è visto dove ha portato l’atteggiamento della Pollastrini: un altro tassello per contribuire alla sconfitta elettorale. La maggioranza degli
LA DOMANDA DI DOMANI
Vi piacciono i cambiamenti dei palinsesti messi a punto per la nuova stagione Rai? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
italiani, direi la quasi totalità, non mette in discussione il riconoscimento dei diritti civili delle coppie di fatto, siano esse etero o omosessuali. La maggioranza però, anche se non la totalità, non accetta invece esibizioni fastidiose e lascive in piazza, pagate con denaro pubblico, punto e basta! Questo vuol dire niente patrocinio del ministero, e bene fa Mara Carfagna, in casi come questo e simili a questo, almeno a risparmiare: in fondo è un’istituzione, la sua, senza portafoglio.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
E SE IN QUESTO MODO INVECE SI MOLTIPLICASSERO ALTRI GAY PRIDE? Sinceramente non so se il ministro Carfagna abbia fatto bene o meno a negare con tanta nettezza il patrocinio al gay pride. Certo, se lo avesse accordato, per gli accaniti omosessuali di tutt’Italia sarebbe stata una vittoria da sbandierare ai quattro venti: «Anche il centrodestra è con noi». E invece no, la Carfagna rifiuta ogni possibilità di apertura istituzionale. Ma siamo davvero sicuri che negare un patrocinio ministeriale possa scoraggiare i gay e farli desistere dall’avanzare il diritto a sposarsi o, peggio ancora, ad adottare figli? Non sarà invece che si ”incattiviranno” ancora di più e, alla faccia dei placet governativi, continueranno più di prima a promuovere sfilate di carri e simili pagliacciate?
Greta Gatti - Milano
MA LE BATTAGLIE SUI DIRITTI OMOSESSUALI NON SI COMBATTONO CON ”BOA ROSA PIUMATI” Ho diversi amici omosessuali e devo dire che perfino loro sostengono la decisione del ministero delle Pari opportunità di negare al gay pride il patrocinio del dicastero. Perché? Semplice, dicono: «Approvare istituzionalmente un carnevale pacchiano e il più delle volte offensivo, equivarrebbe a calpestare la dignità degli stessi omosessuali». Già, perché le battaglie, forse, si combattono diversamente. Certo non a colpi di ”boa rosa piumati” à la Renato Zero anni Ottanta.
L’ULTIMO MIGLIO DELLA LEGA Il voto alla Lega è stato un atto di sfiducia a Berlusconi all’interno della logica della storiella del voto utile. Per depotenziare questo significato, Berlusconi ha guidato il voto in fuga nei limiti regionalistici. Parimenti sarebbe stato negativo per la sua leadership la presenza nella coalizione del simbolo dell’Udc: avrebbe avuto un risultato elettorale importante. La Lega sarebbe stata depotenziata, ma con essa anche FI ed il suo leader indebolito. Questa volta la sinistra sembra meno ostile ad una riforma federalista, che ora appare l’unica soluzione per razionalizzare la spesa e stabilizzare maggiori entrate senza il rischio di una rivolta popolare. L’irresponsabilità di entità di fatto quasi antagoniste allo Stato, che hanno trasformato la difesa di legittimi interessi in devastanti e distruttivi egoismi, ha aggravato la situazione. La sovranità dello Stato verrà quindi limitata territorialmente per incapacità di governo e per necessità di bilancio: è a mio avviso un’illusione per il Nord che il Federalismo significherà un calo delle tasse effettive e non di sola facciata e di questa fregatu-
LA FABBRICA DI STELLE A 9000 anni luce dalla Terra se ne sta una fabbrica di stelle in piena attività, si chiama nebulosa ”NGC 3576” ed è stata immortalata in questa foto dal telescopio spaziale Chandra. Secondo gli astronomi questa regione sarebbe «una vera e propria fucina di giovani astri»
L’UNITÀ FAREBBE BENE A RIMANERE IN SILENZIO
IL PD AVREBBE DOVUTO ALLONTANARE LA IERVOLINO
Antonio Padellaro su l’Unità scrive: «Ogni giorno che passa colpisce il contrasto tra i festosi proclami elettorali della destra e la dura realtà dei problemi, che purtroppo non si governano a colpi di spot». Ogni giorno che passa mi convinco sempre più che per far tacere la malafede ci vorrebbe il pugno duro! Bisognerebbe avvisare Padellaro che il Pdl ha vinto le elezioni, che in fisica ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, a volte anche in durata temporale: due anni di spot dell’Unità al precedente governo si sono visti, si potrebbe avere un decoroso periodo di silenzio, da quelle parti, per almeno un anno? Grazie per l’attenzione.
In un’intervista al Corriere della Sera la Iervolino ha fatto dell’ironia sul progetto di porre il segreto di Stato sulla localizzazione delle discariche a Napoli, al fine di non aizzare le popolazioni locali. Stupisce amaramente il fatto che il sindaco di Napoli trovi la voglia di fare dell’ironia su un ipotetico piano delll’attuale governo volto a rimediare alla situazione di Napoli, situazione causata e nutrita dall’incapacità degli amministratoti locali, tra i quali di certo si può annoverare la Iervolino stessa. Il Pd avrebbe guadagnato parecchio in credibilità allontanando amministratori di tal fatta. Questi invece stanno ancora al loro posto e ridono pure.
dai circoli liberal Gaia Miani - Roma
L. C. Guerrieri - Teramo
ra “federale” pian piano si prenderà coscienza. Riuscirà la Lega a conservare poi la forza elettorale? Fa bene Bossi a non opporsi alle Europee al sbarramento al 5%? Bossi conta sull’occupazione di posti come paracadute per contenere il calo dei voti successivo alla raccolta di quello di protesta. Prova ne sia il blocco a Formigoni e Galan e cioè l’assetto dei poteri in Lombardia e Veneto, nonché il tentativo di ridimensionare con il ministro Zaia la tradizionale influenza di An nel settore agricolo al Nord. Nel lontano 1994 Miglio sulla Lega prevedeva tre ipotesi: la prima ipotesi: un partito locale di bravi amministratori, che ha picchi di successo elettorale ad intermittenza, in intervalli di “spirito leghista”. La seconda: una Lega “guardiana di una accezione puritana nella gestione della cosa pubblica”. Il problema di questa ipotesi è la necessaria fermezza sulla difesa federale e l’esistenza di un nucleo “di persone abbastanza colte e dotate di uno spirito quasi calvinista”. Ma Miglio riteneva che queste due condizioni non sussistono. La terza una Lega nocciolo duro dentro Forza Italia con i leghisti garanti verso i cittadini, del cambiamen-
Massimo Bassetti
to nel modo di amministrare e governare: nella sostanza dei risultati è ciò che è avvenuto ed è anche la prova che il successo leghista significa che molti elettori non si fidavano più di Berlusconi. Ma sarà poi il destino anche nella forma, nel bipartitismo, della Lega se il livello di sbarramento alle Europee non sarà inferiore al 5% soprattutto se Berlusconi avrà successi di Governo. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Domani, stessa ora, apparirai alla finestra? Mio piccolo Bebè bello, non puoi immaginare come ti ho trovata divertente oggi affacciata alla finestra di casa di tua sorella! Meno male che eri allegra e hai dimostrato piacere a vedermi. Ho passato un periodo di grande tristezza. Non solo per non poterti vedere, ma anche per le complicazioni che altre persone hanno interposto sulla nostra strada. Arrivo a pensare che l’influenza costante, insistente, abile di codeste persone, senza osteggiarti né ostacolarti in modo palese, ma lavorando lentamente sul tuo spirito, riuscirà a far sì che tu cessi di amarmi. Senti, piccolina: non vedo il futuro molto chiaro. Voglio dire: non so come andrà a finire, cosa ne sarà di noi, vista la tua indole incline a cedere a tutte le influenze della tua famiglia e ad essere sempre di opinione contraria alla mia. Domani, alla stessa ora, passo da Largo Camoes. Apparirai alla finestra? Sempre tuo. Fernando Pessoa a Ophélia Queiroz
TOH, A CANNES MORETTI CHE FA IL COMUNISTA Non vedete, non sentite? Le donne corrono precipitandosi lungo la Croisette e i bambini gridano sulle soglie di casa. Che novità. Nanni Moretti, attore e regista, è tornato a Cannes per dire male del governo di Silvio Berlusconi e a fare il comunista. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani
SINCERI AUGURI A TED KENNEDY Ho appreso con sgomento e dolore del duplice ictus che ha colpito il senatore Ted Kennedy. Auspico, da cristiano cattolico, che gli accertamenti sanitari ospedalieri possano rilevare che il senatore sia stato colpito dall’evento in modo non grave o comunque reparabile, e che possa al più presto ritornare completamente e perfettamente guarito alla sua famiglia e alla vita politica nel senato degli Usa, dove ha rappresentato lo stato del Massachussetts per ben quarantasei anni, eletto nel lontano 1962, quando il fratello, senatore John F. Kennedy stava per completare gli ultimi due anni di
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
21 maggio 1840 La Nuova Zelanda viene dichiarata colonia britannica 1927 Dopo 33 ore e mezzo di volo in solitaria sull’oceano Atlantico, Charles Lindbergh, partito ieri da New York, arriva a Parigi. L’impresa, senza precedenti, viene riportata dai giornali di tutto il mondo 1945 Si celebra il matrimonio tra gli attori Humphrey Bogart e Lauren Bacall 1956 Gli Stati Uniti fanno esplodere la prima bomba all’idrogeno sull’atollo nel Pacifico 1976 A Oslo si chiude la quattro giorni del Consiglio Atlantico. Temi del vertice: la guerra del merluzzo tra Islanda e Gran Bretagna, la questione greco-turca e i rapporti EstOvest 1989 Viene aperta la frontiera tra le due Germanie 1991 Una bomba esplode tra le mani dell’ex primo ministro indiano Rajiv Gandhi, durante un giro della campagna elettorale. L’ordigno era stato nascosto in un mazzo di fiori poco prima da un attentatore suicida
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
mandato, quando, poi, il 22 novembre del ’63 venne drammaticamente assassinato a Dallas. Nel ricordo indimenticabile dei Kennedy, democratici, cattolici e difensori dei diritti civili della popolazione di colore, della democrazia e della libertà, mi auguro vivamente e prego Iddio che protegga e assista benevolmente la vita e la salute del più giovane della famiglia (alla quale era molto affezionato il mio caro e compianto amico avvocato Piero Fornaciari). Mi auguro che possa continuare ad appoggiare politicamente nella corsa alle Presidenziali americane il nero Barack Obama, il primo, forse, come anch’io desidero, uomo di colore che molto probabilmente siederà alla Casa bianca. Molti sinceri auguri, caro senatore democratico Ted Kennedy, che già è passato indenne attraverso una vita fatta di tragedie e anche di sconfitte. E’ questo, purtroppo, il destino umano della famiglia Kennedy. Grazie per l’ospitalità e cordiali saluti.
Angelo Simonazzi Poviglio - (Re)
PUNTURE A Napoli arriva il governo e ci sono ben nove cortei ad accoglierlo. Potrebbero dare una mano a raccogliere la spazzatura.
Giancristiano Desiderio
“
A pensarci, diventar vecchi non è poi tanto male se si considera l’alternativa MAURICE CHEVALIER
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LO ZAPA-TORO FURIOSO Nell’Europa che conta è rimasto il solo premier di sinistra che rappresenta le lobbies cultural-finanziarie del vecchio continente. Un’ondata di consenso opposto potrebbe travolgere anche la Spagna. (...) Esiste una questione xenofoba in Italia. Per affermare in sede internazionale questo falso ideologico si serve delle ”quotine rosa” a cui ha affidato ministeri solo con la voce. ZapaToro ha tuttavia un problema: deve necessariamente evitare che si accendino i riflettori sulle sue politiche verso l’immigrazione clandestina e si getti luce nuova, finalmente, sugli avvenimenti violenti e brutali che tali strategie spagnole hanno generato. ZapaToro non vuole che un modello diverso dal suo, atto a disciplinare un fenomeno, tragicamente, europeo e mediterraneo in particolare,v enga portato all’attenzione dei suoi connazionali. (...) Questa iniziativa zapatoresca oltre che inaccettabile ingerenza verso le istituzioni scelte come rappresentanza da un Popolo straniero sovrano,risulta del tutto grottesca ed insensata poiché solo una comunanza di strategie tra Italia e Spagna può portare ad un serio controllo dei flussi immigratori che investono rispettivamente i nostri 2 Paesi. E’ primario interesse di Madrid che l’Italia non venga isolata nelle sue scelte contro la clandestinità poiché un irrigidimento del governo italiano potrebbe portare ad uno spostamento unico dei flussi da Lampedusa alle Canarie e da queste isole direttamente su suolo iberico. Per ZapaToro è giunto il momento dell’anello al naso...
Pratico pratico.splinder.com
IN GERMANIA È TEMPO DI PATERNALISMO Che lo statalismo sia socialmente alienante è ormai sotto gli occhi di molti. Eppure questo è tanto più vero quando i governi decidono di adottare ridicole misure di stampo paternalistico quali quelle che si vanno approntando in Germania. Nel Land Renania-Palatinato, ad esempio, il governo locale ha disposto che su tutto il territorio della regione sia da oggi in poi vietato indire tornei di poker. Motivo? Preservare la fragile salute mentale dei fanciulli, che di questo gioco potrebbero pericolosamente divenire dipendenti. Caso affine quello della chirurgia estetica applicata ai minorenni. Di fronte ad un numero sempre più alto di minori che chiedono come regalo di compleanno il rifacimento del seno o del naso, politici locali e federali stanno preparando un disegno di legge che impedisca tout court tali operazioni prima dei 18 anni. Non basterà più insomma il benestare dei genitori, ma ci vorrà anche quello dello Stato. D’altronde va sempre meno di moda l’idea che tocchi alla famiglia farsi carico dell’educazione e dei problemi dei figli, mentre è sempre più in voga il ragionamento secondo il quale, se la famiglia non impartisce “un’adeguata formazione” (e chi lo stabilisce?), toccherà ai pubblici fustigatori di costumi, attraverso uno strumento taumaturgico chiamato “legge” raddrizzare quanto andato storto. Ancora una volta ciò che abbiamo davanti non è altro che la presunzione di uno Stato onnisciente, in grado di stabilire quali siano i vizi e quali le virtù. Auguri ai tedeschi.
Germanynews Germanynews.ilcannocchiale.it
Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma
Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via Vitorchiano, 81 00188 Roma -Tel. 06.334551
Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Diffusione e abbonamenti Ufficio centrale: Luigi Dulizia (responsabile) Massimo Doccioli, Alberto Caciolo 06.69920542 • fax 06.69922118
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Lagrotta Amministratore delegato: Gennaro Moccia Consiglio di aministrazione: Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Angelo Maria Sanza
Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro
Abbonamenti
Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: Gaia Marcorelli Tipografia: edizioni teletrasmesse Editrice Telestampa Sud s.r.l. Vitulano (Benevento) Editorial s.r.l. Medicina (Bologna) E.TI.S. 2000 VIII strada Zona industriale • Catania
e di cronach
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 92 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it
Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30