QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Un clamoroso caso di regressione civile
e di h c a n o cr
Parole dopo le pallottole: quante Br in libreria!
di Ferdinando Adornato
ASPETTANDO AHMADINE JAD A ROMA
di Riccardo Paradisi
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XXI secolo: la democrazia vincerà?
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Uno dei più famosi politologi del mondo, Robert Kagan, e uno dei più ascoltati strateghi della Ue, Robert Cooper, a confronto sul futuro del pianeta alle pagine 2, 3, 4 e 5
uando il presidente Giorgio Napolitano parla di regressione civile, come ha fatto in occasione della festa della Repubblica, si riferisce evidentemente alla lunga teoria di fatti che in questi ultimi mesi – dall’emergenza dei rifiuti a Napoli, alla violenza politica e civile diffusa – hanno segnato l’atmosfera di un Paese che malgrado una raggiunta stabilità politica appare socialmente sempre più diviso e depresso. Lontano da una coscienza di sè fondata sulla fiducia in quei valori condivisi che fanno tale una nazione. Del resto non è da oggi che il senso civico del Paese, la sua tenuta morale, si sarebbe detto una volta, ha cominciato a scemare. Basti pensare al fatto – enorme e senza pari in altri Paesi – che in Italia i protagonisti della stagione del terrorismo, di quelli cioè che volevano portare l’attacco al cuore dello Stato sono stati per anni vezzeggiati e coccolati dallo stesso sistema che volevano abbattere. Un caso di regressione civile paradigmatico che lo stesso presidente Napolitano ha stigmatizzato recentemente in occasione del giorno della memoria delle vittime del terrorismo. Lamentando che gli ex terroristi siano ospiti delle trasmissioni televisive ma anche testimoni degli anni di piombo, saggisti di importante case editrici. Personaggi che le mediatizzazione ha ingigantito e che invece sono come li definiva Giorgio Bocca: piccoli borghesi estetizzanti senza voglia di lavorare. se g u e a p ag i n a 2 0
Draghi: avvertimenti dietro l’ottimismo
Il tentativo di sfuggire all’irrilevanza
Una proposta per la scuola
Bossi prova ad evadere da Veltrusconi
Caro ministro, torniamo a settembre
di Giuseppe Baiocchi
di Giancristiano Desiderio
di Beniamino Quintieri
di Giancarlo Galli
L’antica capacità mediatica della Lega di dare “scandalo politico” si va perdendo nella responsabilità di governo. La necessità di“non deludere” pone il Carroccio davanti alla sfida di una difficile trasfoarmazione.
Un anno fa Fioroni realizzò che il sistema dei crediti e dei debiti fosse l’ennesima presa in giro: si rese conto che la “promozione con debito”era una cosa molto poco seria e allora capì che occorreva fare qualcosa.
Cresce l’interesse per le nostre aziende, mentre le imprese del Belpaese faticano a imporsi nello scacchiere del Sudest asiatico. Alla base dell’espansione una potenza di 1.500 miliardi di dollari.
Enorme l’attesa per la relazione del governatore Mario Draghi: la terza dopo l’addio di Fazio. Da via Nazionale erano filtrati annunci di colpi di frusta all’intero“sistema italiano”, alle prese con un difficile momento.
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MARTEDÌ 3
GIUGNO
In aumento gli investimenti da Pechino
Un’avanguardia cinese per il mercato italiano
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
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WWW.LIBERAL.IT
La linea di credito del Governatore all’Italia
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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xxi secolo
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Dialogo sul futuro delle relazioni internazionali tra due analisti d’eccezione
«Cina e Russia minacciano il mondo» «No, i veri rischi sono clima e nucleare» colloquio tra Robert Kagan e Robert Cooper aro Robert Cooper, l’amministrazione Bush volge al termine e il momento sembra adatto per qualche considerazione di politica internazionale. Ho l’impressione che il mondo sia tornato “normale”, nel senso che la competizione tra grandi potenze che ha condizionato la storia mondiale per secoli - e che sembrava scomparsa dopo il 1989 - è tornata, e lo stesso vale per il conflitto sui valori e i principi tra la democrazia liberale e l’autocrazia che ha influenzato il comportamento delle nazioni dai tempi dell’Illuminismo. Nei primi anni dopo la guerra fredda si diffuse la speranza di un nuovo modello di ordine internazionale, fondato sull’idea della crescita simultanea o della totale scomparsa degli Stati nazionali, del dissolvimento dei conflitti ideologici, dello scambio tra culture e della conseguente crescita del libero commercio e delle comunicazioni. La geopolitica usciva di scena ed entrava la geoeconomia; il potere basato sulla forza era superato, quello soft appropriato; il liberalismo democratico aveva vinto, le alternative - che fossero il comunismo, il fascismo o il semplice autoritarismo - sembravano condannate, e la Russia e la Cina si stavano trasformando in economie di mercato, il che doveva inevitabilmente produrre una rivoluzione politica in entrambi i Paesi. Il grande compito dell’era successiva alla guerra fredda, dunque, secondo l’opinione comune, era costruire un sempre più perfetto sistema giuridico ed istituzionale internazionale, ma non è andata così. Mentre l’Unione Europea rimane un brillante esempio di ordine postmoderno, il resto del mondo non ha seguito tale strada; in molte aree geografiche gli Stati nazione rimangono forti come prima, e lo stesso vale per le passioni nazionaliste e la contrapposizione tra Stati che ha determinato la storia dei popoli. Si è riacutizzata la rivalità tra grandi potenze, con la Russia, la Cina, l’Europa, il Giappone, l’India, l’Iran, gli Stati Uniti e gli altri che si contendono il predominio regionale, e i conflitti per l’onore, il prestigio e l’influenza caratterizzano di nuovo
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la scena internazionale, dimostrando che l’ottimismo successivo alla guerra fredda è stato un’aberrazione. È tornata la Storia, in senso ideologico. L’autocrazia si è dimostrata compatibile con il crescente benessere nazionale; i dittatori di Russia e Cina hanno capito come conciliare un’aperta attività economica con la soppressione del dissenso politico, assicurandosi che i nuovi ricchi non si impicciassero di questioni politiche, e il benessere ha reso più facile alle autocrazie - che spesso sono state assistite da società straniere in questo controllare l’informazione grazie al monopolio delle stazioni televisive e alla stretta sui traffici Internet. Sebbene ci sia una gran voglia da parte dell’Occidente liberale di credere diversamente, autocrazia e democrazia hanno inte-
vinta come inevitabile conseguenza della superiorità del liberalismo non ha saputo riconoscere la contingenza degli eventi: le battaglie vinte o perse, i movimenti sociali affermati o distrutti, le prassi economiche applicate o rifiutate. La diffusione della democrazia non ha rappresentato solamente l’espansione di processi ineluttabili di sviluppo economico e politico; lo spostamento globale verso la democrazia liberale ha coinciso con il cambio storico nella bilancia del potere a favore delle nazioni che la promossero, ma questo processo non era inevitabile, e non è necessariamente duraturo. Oggi, il riemergere delle grandi potenze autocratiche e le forze reazionarie del radicalismo islamico hanno indebolito tale ordine e minacciano di farlo ulteriormente negli anni
strada intelligente da seguire. È vero che la guerra fredda è finita con la vittoria della visione del mondo più giusta, ma è stata anche la vittoria della tecnologia più avanzata e della società che ha dimostrato più rispetto per la dignità dell’individuo. Una democrazia solida e l’economia di mercato saranno sempre più forti di uno Stato autoritario, per questo credo che la democrazia continuerà a prevalere; non inevitabilmente, non sempre rapidamente - dopotutto, la guerra fredda è durata 40 anni - ma alla fine andrà come tra il falco pescatore e il pesce: il secondo sarà catturato grazie alla supremazia della natura. L’euforia successiva alla guerra fredda fu davvero esagerata; la cultura dell’Europa centrale e la vicinanza dell’Unione Europea e della Nato hanno reso facile la
verso le istituzioni democratiche. Il mondo autoritario si è ridotto. È possibile che qualche grado di liberismo possa coesistere con l’autocrazia politica, ma abbiamo bisogno di più tempo per vedere se il fenomeno durerà. Il feudalesimo - la versione di maggior successo dell’autoritarismo - sopravvisse perché il mondo era statico e legittimato dalla religione, ma io non riscontro questo nelle moderne autocrazie. Il peggio dipende dalla forza, il meglio dalla capacità di creare una solida crescita economica, ed è più facile farlo nei primi stadi del processo di industrializzazione, ma - per essere efficace - il capitalismo maturo deve concedere a tutti un’opportunità, perché è difficile escludere questa parità economica dal contagio della politica, e le norme giuridi-
transizione alla democrazia, ma il ritmo più lento che il processo sta seguendo altrove non significa che la storia sia finita; la democrazia è l’ideologia dominante, tanto che anche i tiranni come Mugabe sentono la necessità di simulare le elezioni, e Paesi importanti come l’Indonesia e l’Ucraina hanno fatto passi decisivi
che - che sono il cuore dei sistemi di mercato - faticano a convivere con l’autocrazia. Un ordinamento giuridico di secondo livello produrrà una relativa economia con una legittimità ridotta, dunque la democrazia non è inevitabile, ma un’economia industriale di mercato è un ambiente favorevole per lei.
Kagan: «Forse un giorno ci sarà un’evoluzione dei regimi autocratici verso la nostra società, ma nel frattempo dobbiamo essere pronti ad affrontarli» ressi divergenti, e - nonostante le relazioni internazionali siano sempre condotte a differenti livelli (i grandi Paesi cooperano in determinate aree e si scontrano in altre) - gli interessi in contrapposizione e la visione del mondo delle democrazie e delle autocrazie incidono fortemente nei loro rapporti. Intanto, mentre le nazioni si stuzzicano a vicenda, un ancor più antico conflitto è scoppiato tra l’islamismo radicale e le moderne culture e istituzioni secolari che gli integralisti ritengono abbiano dominato, penetrato e inquinato il mondo islamico. Questi tre conflitti - la competizione tra grandi potenze, la divisione tra democrazie e autocrazie e il contrasto tra radicalismo islamico e modernità - hanno spezzato il sistema internazionale. La grande speranza che il mondo fosse entrato in un’era di convergenze si è rivelata sbagliata; siamo entrati in un’era di divergenze. L’assunto secondo il quale la guerra fredda è stata
e nei decenni a venire. Se teniamo alla democrazia e al liberalismo non possiamo solamente starcene seduti ed aspettare l’evolversi della storia; le democrazie hanno bisogno di lottare insieme e di collaborare per determinati scopi. Bob
Caro Bob Kagan, tu pensi che le cose siano tornate normali, io invece non lo credo. Sono d’accordo con te sul fatto che ci sia una costante: un conflitto tra popoli e Paesi per la supremazia e il prestigio, ma quello che cambia è il modo in cui la battaglia viene combattuta: con le regole o con la violenza? Al momento siamo in un limbo; nessuno vuole che scoppino conflitti tra potenze nucleari, ma non abbiamo ancora concordato le regole per evitarli. È questo il più perfetto ordine giuridico e istituzionale al quale fai riferimento, ma non è stato ancora costruito; tuttavia rimane l’unica
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Secondo Kagan, «Si è riacutizzata la rivalità tra grandi potenze, con la Russia, la Cina, l’Europa, il Giappone, l’India, l’Iran, gli Stati Uniti e gli altri che si contendono il predominio regionale, e i conflitti per l’influenza caratterizzano di nuovo la scena internazionale» cietà, ma nel frattempo dovremo affrontare le implicazioni della presenza tra noi di queste ricche autocrazie, ed è un problema che non ci aspettavamo si ripresentasse dopo la fine della guerra fredda. Io temo che ci saranno altre vie attraverso le quali il mondo tornerà nuovamente ad essere troppo normale. Bob
Caro Bob,
Una ragione per cui la democrazia non è inevitabile è che richiede un sistema più complesso di un’autocrazia, la quale, essendo più primitiva, esige solo un esercito fidato, mentre la democrazia ha bisogno di un accordo politico; questo implica compromessi e fiducia tra persone che probabilmente sono abituate a diffidare le une delle altre (come i diversi gruppi etnici, che talvolta trovano più facile accettare l’autorità di un terzo partito o di un dittatore che dialogare tra loro). Molte democrazie hanno raggiunto questi compromessi solo a seguito di guerre civili, e questo potrebbe provocare particolari problemi per Stati molto grandi come la Cina; nell’Europa illuminista, nessuno credeva che la democrazia fosse possibile in una realtà più grande di una città-Stato. Costruire una cultura politica a sostegno della democrazia è un investimento a lungo termine; per questo dovremmo simpatizzare con i popoli che stanno combattendo per raggiungere i compromessi necessari alle istituzioni democratiche, come gli ucraini, e dovremmo capire che un Paese con una storia turbolenta come la Cina sarà cauto nel correre certi rischi. La democrazia funziona meglio perché un governo responsabile risponde meglio alle esigenze delle persone e rispetta di più la loro dignità, ma mi guardo bene dal farne un “principio universale”. E’ contingente ad un particolare periodo e società, e potrebbe non essere il prodotto finale della storia. Questo mi rende esitante nel dividere il mondo in due classi: le democrazie da una parte e le autocrazie dall’altra; le prime assumono molte forme e lo stesso fanno le seconde, dall’autocrazia benevola di Dubai a quella terrificante in Birmania e Nord Corea, e dovremmo ricor-
dare che i nostri principi democratici sono piuttosto nuovi, in pratica se non in teoria: pensa alle donne, al colonialismo o al profondo sud, e non dimenticare che la Nato non è sempre stata alleata delle democrazie. Si è trattato per lungo tempo di un’al-
ammirabile, ma è anche la dimostrazione del fatto che siamo più tranquilli sul fronte della sicurezza e possiamo permetterci di essere esigenti. La realtà, al momento, è che non vediamo un’alleanza tra autocrazie come una vera minaccia; la Russia ha inde-
Cooper: «Una delle grandi sfide del secolo sarà creare norme per affrontare i cambiamenti climatici; perciò non dobbiamo dividere i Paesi in campi ostili» leanza antisovietica che si è avvalsa del contributo di tutti, democratici e non; allo stesso modo, durante la seconda guerra mondiale fummo fortunati ad avere Stalin come alleato, perché quando gli interessi sono davvero importanti prevalgono sui valori. Il fatto che adesso chiediamo ai nuovi membri della Nato di essere democratici è di per sé
bolito le sue forze armate ed è più interessata ad arricchirsi; la Cina sta vivendo una drammatica transizione che non sappiamo dove porterà, ma produrrà comunque un risultato lontano dal Paese chiuso e ostile degli anni Sessanta e Settanta, e nessuno sembra perseguire un’ideologia di dominio mondiale. Niente è perfetto e le cose vanno sempre
per il verso sbagliato, ma non dovremmo essere modestamente contenti dell’evoluzione politica degli ultimi 20 anni? Robert
Caro Robert, è il progresso quello cui abbiamo assistito negli scorsi 20 anni, o la vittoria delle idee e delle nazioni che hanno sostenuto quelle idee? Vorrei discutere del secondo aspetto. Il mondo degli scorsi due decenni ha favorito la democrazia e un certo insieme di regole perché le potenze mondiali più forti si rifacevano a quei principi ed hanno instaurato le direttive che avvantaggiano il loro stile di vita. Se ora stiamo per assistere all’ascesa di grandi potenze autoritarie, l’equilibrio si sposterà inevitabilmente in modo da favorire meno le democrazie e più le autocrazie e le loro norme, e sì, forse un giorno ci sarà un’evoluzione (o una rivoluzione) in Cina e in Russia verso il nostro tipo di governo e so-
io vedo le cose in questo modo: durante la guerra fredda le nazioni, guidate dagli Stati Uniti, hanno vinto la battaglia difensiva in Europa grazie alla Nato, e quella offensiva grazie alle idee. Il comunismo era un avversario più temibile delle autocrazie del ventunesimo secolo, perchè offriva una visione alternativa e aveva metà degli intellettuali occidentali dalla sua parte. Quello che mi preoccupa per questo secolo sono i sottoprodotti della società aperta: il terrorismo e l’indebolimento della fedeltà allo Stato di cui il radicalismo islamico è una manifestazione; dobbiamo difendere lo Stato liberale dalle minacce esterne ma anche da quelle interne, comprese le reazioni eccessive al terrore. Regole economiche comuni aiutano a produrre interessi comuni. L’Organizzazione Mondiale del Commercio rappresenta un successo per il liberalismo, e l’adesione della Cina è una scommessa per tutto il sistema: è molto meglio di come abbiamo gestito la crescita del Giappone. Una delle grandi sfide del secolo sarà creare norme generali per affrontare i cambiamenti climatici; questa è una delle ragioni per cui non mi piace dividere i Paesi in campi ostili, non ci aiuterà a risolvere problemi comuni come appunto i cambiamenti climatici o la proliferazione nucleare. Regole condivise sulla sicurezza sono più difficili perché riguardano da vicino la questione della sovranità, ma non saremo completamente sicuri finché non le avremo, ed è sconfortante vedere come i pochi trattati che esistono in merito vengano abbandonati; fino ad allora, sono d’accordo con te che dobbiamo essere pronti a difenderci con qualsiasi mezzo. Gli stolti che lasciarono cadere l’impero romano furono responsabili di un millennio di miseria. Robert
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Salta la visita al Papa e all’università: oggi anche una manifestazione davanti alla Fao
L’affaire Ahmadinejad di Aldo Forbice l “diavolo “ non entrerà in Vaticano. Infatti, la richiesta di Mahmoud Ahmadinejad di incontrare il Papa Benedetto XVI è stata diplomaticamente respinta. Per quel “no”deciso sono state sacrificate le richieste degli altri capi di Stato che volevano essere ricevuti dal Pontefice in occasione del vertice sull’alimentazione che si apre oggi alla Fao. E dire che l’ambasciata iraniana a Roma si era mobilitata con ogni mezzo perché il presidente della Repubblica islamica entrasse in Vaticano e all’università La Sapienza. Sì, il capo del regime iraniano aveva chiesto di poter parlare non solo alla Fao, ma anche all’università, così come era avvenuto quando, in occasione del suo intervento all’Onu, Ahmadinejad aveva, tra contestazioni fragorose, potuto parlare alla Columbia University di New York illustrando le linee guida della “rivoluzione islamica iraniana “ senza ignorare la questione rovente del nucleare.
I
Per il rettore de La Sapienza, Renato Guarini, non è stato difficile motivare l’impossibilità di ospitare il discusso presidente iraniano per evidenti ragioni di ordine pubblico. Non sarebbe stato, infatti, opportuno ricevere il dittatore di Teheran a pochi giorni dagli scontri tra estremisti di destra e di sinistra, senza dimenticare la contesta-
zione di qualche mese fa di un gruppo di docenti (e di studenti) alla programmata visita del Papa che sarebbe dovuta avvenire proprio a La Sapienza: una visita che, come si ricorderà, fu stata annullata per volontà del Pontefice preoccupato di evitare incidenti .
prendere l’insistenza di Teheran, soprattutto se si tiene presente la campagna di repressione in corso del regime contro i cristiani convertiti. Una persecuzione, del resto, non nuova contro tutte le confessioni religiose diverse dall’Islam . Sin dal 1979, cioè all’epoca del-
la rivoluzione khomeinista, l’ayatollah Khomeini decise la chiusura delle scuole cattoliche stabilendo che, nell’arco di un mese, tutti i sacerdoti e le suore cattoliche dovevano abbandonare l’Iran. Ora il Parlamento iraniano dovrà decidere l’applicazione del-
Anche alla vigilia del suo arrivo a Roma, il presidente della Repubblica islamica di Teheran ha rilanciato le sue minacce contro Israele e, in patria, calpesta i diritti civili e religiosi con il pretesto della sicurezza nazionale Più difficile per la diplomazia vaticana è motivare il “no” alla richiesta iraniana. Innanzitutto i tempi stretti non potevano certo favorire la soluzione del problema. Era stata persino escogitata l’idea di organizzare un’udienza collettiva con 8 o10 capi di Stato presenti a Roma per la conferenza Fao propirio per stemperare gli effetti di un colloquio a due tra il Papa e il dittatore iraniano. Ma è stato proprio quest’ultimo a non gradire una soluzione di ripiego e allora Benedetto XVI ha fatto cadere la richiesta iraniana. Non può non sor-
la pena capitale per chi si converte ad altre religioni. Attualmente la pena di morte non è prevista, anche se le sentenze di morte vengono decise dai tribunali islamici mascherate da altri reati (il più frequente è quello di spionaggio a favore di Israele e/o degli Usa e di sovversione). Le ondate di arresti stanno col-
pendo pesantemente la comunità Bahai ‘i (i cui dirigenti vengono accusati di sovversione contro lo Stato) che rappresenta la più importante minoranza religiosa dell’Iran con oltre 300mila fedeli. Almeno 200 militanti Bahai ‘i sono stati impiccati, mentre diverse centinaia si trovano rinchiusi in carcere dove subiscono orribili torture per costringerli a riconvertirsi nella fede musulmana. Diverse migliaia di cittadini di questa confessione sono totalmente privi di ogni diritto civile. Gli studenti non possono iscriversi all’università se non si dichiarano “islamici”. Nel 1994 un dirigente di questo movimento religioso, Mehdi Dibaj, è stato assassinato dopo avere scontato una condanna di nove anni di carcere duro. La sua “colpa”? Si era rifiutato di riconvertirsi alla religione islamica. Molti anni di carcere sono stati comminati a fedeli Bahai’i solo perché insegnavano il catechismo ai loro figli. Dall’inizio di maggio la persecuzione si è estesa a tutti coloro che abbandonano l’Islam per il cristianesimo. Solo due settimane fa nel Sud dell’Iran due coppie sono state fermate dalla polizia religiosa islamica all’aeroporto di Shiraz . I quattro (Homayon Shokohie Gholamzadek e sua moglie Farina Nazemiyan Pur; Amir Hussein Bab Anari e sua moglie Fatemeh Shenasa) sono stati sottoposti a molte ore di interrogatorio sulla
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L’ultimo rapporto dell’agenzia atomica è un avvertimento per l’Europa
La bomba iraniana, una minaccia per tutti di Emanuele Ottolenghi
loro fede cristiana e gli uominisono stati rinchiusi in carcere. Arresti e perquisizioni sono avvenuti in diverse abitazioni, come quelle di Hamid Allaedin Hussein e dei suoi tre figli e quelle di Mahmoud Matin. La repressione cerca di frenare il fenomeno delle conversioni, frequente soprattutto tra i giovani . E comunque per combattere tutti quei gruppi religiosi derivati dall’islamismo sciita (come il culto Bahai’i che avrebbe, secondo il regime di Teheran, ”stretti collegamenti” con Israele e dei cristiani delle cosiddette “chiese domestiche”. Tutto questo mentre quel libertario di Mahmoud Ahmadinejad teorizza «l’estrema libertà dei culti religiosi» che esisterebbe in Iran.
rmai è ufficiale: l’Iran sta costruendo la bomba atomica, ma l’Europa per tutta risposta si sta preparando a offrire nuovi e più vantaggiosi incentivi a Teheran per riconsiderare i propri progetti nucleari. Visto quanto ha ottenuto finora senza cedere su nulla, sarebbe strano che Teheran accettasse ora le nostre offerte quando, una volta completato il suo progetto, potrà ottenere molto di più pagando molto di meno. Il dato di fatto che sembrava essere stato contraddetto dalla pubblicazione della valutazione dei servizi segreti americani dello scorso dicembre – la ormai famosa National Intelligence Estimate – è stato confermato dal recente rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) che è stato appena consegnato ai Paesi membri dell’organizzazione dal direttore generale, Mohammad el Baradei. Ora, va subito detto che el Baradei ha fatto di tutto nel corso dei cinque lunghi anni di trattative perchè l’Iran ne uscisse indenne. El Baradei si è finora barcamenato tra il suo dovere di operare secondo il mandato dell’Aiea – cioè evitare la proliferazione di armi nucleari – e il suo desiderio di impedire una nuova avventura militare in Medio Oriente. Per el Baradei l’imperativo diplomatico, politico e morale è stato di ottenere dagli iraniani chiarimenti sufficienti a permettergli di dichiarare che la natura del loro programma nucleare è pacifica. D’altro canto è sempre più difficile ignorare la natura del programma nucleare iraniano e quello che essa implica per il futuro assetto regionale.
Peccato che la realtà di quel Paese di antiche tradizioni culturali sia totalmente diversa da come viene descritta. Anche per queste ragioni e, più in generale,per il rispetto dei diritti umani in Iran (cento giovani si trovano in attesa dell’impiccagione per reati commessi quando erano minorenni), per la condanna della repressione degli omosessuali (quattromila giustiziati negli ultimi 30 anni), per protestare contro l’ostinata negazione della Shoa e il ripetuto invito a «cancellare lo Stato di Israele dalla carta geografica», ripetuto anche ieri, e per i rischi del programma nucleare che sta inseguendo il regime fondamentalista di Teheran, è necessario reagire con forza. Per questi motivi diverse forze politiche, la comunità ebraica, la resistenza iraniana e numerose organizzazioni sociali hanno promosso una manifestazione davanti alla sede della Fao. Crediamo che sia giusto sostenere tutte le iniziative che si propongono di lottare per la libertà e per la democrazia in Iran, sostenendo la resistenza iraniana .
Di fronte alle sempre più schiaccianti prove, anche il circospetto e scettico diplomatico egiziano si è visto costretto a scrivere un rapporto durissimo dal quale non traspare nulla di buono, anche dopo avere scontato tutto il lessico diplomatico del caso. L’Iran non solo sta continuando ad arricchire l’uranio ma ha accellerato i tempi d’istallazione di una nuova generazione di centrifughe rendendo più rapido e agevole, una volta superate le difficoltà tecniche, il processo di arricchimento del combustibile nucleare. Ma quello che più preoccupa nel rapporto di Mohammad el Baradei è l’aspetto militare del programma, che pure l’Iran continua a negare. El Baradei ha ricevuto dovizia di informazioni da Paesi membri dell’Aiea, compresi gli Stati Uniti. L’intelligence già appariva nel rapporto precedente, pubblicato a febbraio, ma nel recente documento ci sono riferimenti chiari e dettagliati che offrono un quadro ancora più preciso. Secondo il rapporto dell’Aiea l’Iran ha costruito un complesso sotterraneo per esperimenti di esplosivi; ha fatto esperimenti con detonatori multipli tipicamente utilizzati solo in armi nucleari; ha cercato di modificare missili ballistici a lunga gittata per accomodarvi una testata nucleare; ha fatto esperimenti sulle onde d’urto provocate da esplosioni nucleari; ha condotto studi su esplosivi in geometria emisferica – la tipica forma di una testata nucleare - e ha acquisito il progetto per una bomba nucleare di design cinese dallo scienziato pakistano, Abdul Qadeer Khan, il padre della bomba atomica del Pakistan nonché il fornitore di tecnologia nucleare militare alla Corea del Nord e alla Libia. E, come se non bastasse, tutti gli studi e le attività nucleari, compresa la produzione di centrifughe, sono legati tra loro e
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sono condotti da istituti e organizzazioni militari. Come si spiega tutto questo? Si spiega dando a tutti questi dettagli il nome che gli spetta e cioè dicendo chiaro e tondo che l’Iran sta cercando in tutti i modi di acquisire una bomba atomica. Molti politici in Italia hanno fortunatamente avuto il buonsenso di denunciare la venuta in Italia del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, per il suo persistente diniego della Shoa e per le sue ripetute minacce all’esistenza d’Israele: l’ultima ancora ieri. E naturalmente è facile immaginare che cosa potrebbe fare Ahmadinejad a Israele se domani avesse un arsenale atomico. Ma è importante che i nostri politici comprendano come un Iran nucleare rappresenta una minaccia prima di tutto per gli interessi italiani ed europei nella regione a prescindere dalle sue intenzioni nei confronti d’Israele. L’Iran potrebbe naturalmente acquisire un’arma nucleare e decidere di non usarla contro Israele, non nel senso di distruggere Israele insomma. Potremmo stare tranquilli? Ovvio che no.
L’Iran aspira al nucleare per sostenere le sue ambizioni egemoniche nel Golfo Persico e in tutto il Medio Oriente. E quale stato rivoluzionario, le ambizioni egemoniche significano, in pratica, fomentare instabilità per cambiare faccia alla regione. Oggi l’Iran già sostiene Hezbollah in Libano, Hamas a Gaza, l’insurrezione sciita in Yemen e in Iraq e fornisce armi ai talebani in Afghanistan. Protetta dall’ombrello nucleare, Teheran potrebbe scatenare tutti questi attori contando sulla ritrosia dell’Occidente a entrare in rotta di collisione e rischiare una guerra nucleare per così poco. Se oggi, dunque, è difficile risolvere quelle crisi, domani sarà impossibile. Non solo, ma i Paesi della regione difficilmente se ne staranno con le mani in mano a subire la supremazia iraniana. Ci sono già forti segnali di vari Paesi mediorientali interessati a iniziare i loro programmi nucleari: Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Libia, Marocco, Tunisia e Turchia tra gli altri. Il programma nucleare iraniano, insomma, potrebbe scatenare una corsa al nucleare che trasformerebbe la già poco stabile regione in un immenso arsenale in perenne stato di confusione. Tale sviluppo minaccerebbe il nostro accesso a risorse energetiche preziose – il motore dell’economia globale e del nostro stile di vita – e ne aumenterebbe i prezzi in maniera straordinaria. Infine, la violazione da parte dell’Iran del trattato di non proliferazione ne decreterebbe la morte, mettendo a rischio l’intera architettura di diritto cui gli europei fanno riferimento come il pilastro del sistema internazionale che vogliamo conservare. Queste non sono che alcune conseguenze di un successo iraniano, senza nemmeno iniziare a pensare al peggio: cioè al tentativo iraniano di distruggere Israele direttamente o fornendo armi nucleari a dei gruppi terroristici come Hamas o Hezbollah. Il rapporto dell’Aiea deve essere il campanello d’allarme per l’Europa: non abbiamo tutto il tempo di questo mondo per fermare l’Iran e i suoi propositi sono chiari. Se l’Iran di Ahmadinejad riuscisse nei suoi intenti, l’Europa – e l’Italia che siede oggi nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu – non solo ne pagheranno gravi conseguenze, ma dovranno farsi anche carico di un grave fardello di responsabilità.
Teheran vuole il nucleare per sostenere la sua egemonia in Medio Oriente e, come ”Paese rivoluzionario”, il suo obiettivo è quello di creare instabilità
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pensieri & parole
Dal governo novità positive sull’immigrazione, ma non ha senso colpire penalmente i clandestini, come hanno ricordato ieri anche l’Onu e il Vaticano
È disumano trasformare la disperazione in reato di Alessandro Forlani
ROMA. Il nuovo governo ha esordito affrontando, tra l’altro, il fenomeno della clandestinità, ritenuto tra le principali concause del degrado della sicurezza. In virtù di tale orientamento la tutela dell’incolumità dei cittadini tende necessariamente a interagire con la legislazione che investe i flussi migratori. Le misure approvate o proposte dal governo si puntano sostanzialmente a disincentivare l’ingresso clandestino nel territorio nazionale e la violazione o l’elusione delle norme sull’immigrazione, attraverso sanzioni più severe e paletti più rigidi, ricorrendo tra l’altro alla previsione del reato di immigrazione clandestina. Ci troviamo di fronte a un pacchetto normativo che contiene
innovazioni necessarie ma anche aspetti discutibili, e comunque appare riduttivo rispetto al fenomeno nel suo complesso.
La clandestinità può certo incrementare la manovalanza delle attività criminose ma è anche collegata all’eccessiva rigidità della legislazione e deve dunque essere presa in considerazione non solo sotto il profilo sanzionatorio, ma anche nella prospettiva di rivedere la legge sull’immigrazione. Un flusso incontrollato o comunque regolato da norme insufficienti o disapplicate alimenta inevitabilmente le tensioni sociali e le aree di illegalità e di vera e propria criminalità. Chi è entrato da clandestino e tale poi è rimasto non può lavorare regolarmente e in condizioni di trasparenza: qualsiasi contatto con le forze dell’ordine, con la pubblica ammi-
nistrazione e con le strutture del welfare lo espone al rimpatrio, non ha praticamente diritti, può solo affidarsi, nel migliore dei casi, all’economia del sommerso e essere più facile preda delle proposte della malavita o comunque di tentazioni delittuose. La correlazione tra la precarietà della sicurezza nelle nostre città e una diffusa clandestinità appare dunque fondata e una parte dei provvedimenti adottati dal governo per disincentivare gli ingressi irregolari (come le sanzioni per i proprietari che affittino in nero ai clandestini e il prolungamento della sosta per l’identificazione nei Cpt), sotto questo profilo, può rivelare una sua ragion d’essere e una certa efficacia.
vrebbero essere arrestati a causa di un’infrazione amministrativa».
Se è vero che le misure in questione concorrerebbero a scoraggiare, entro certi limiti, la clandestinità e l’attività criminale svolta da coloro che si trovano in tale condizione, si ravviserebbero al tempo stesso aspetti discutibili sotto il profilo della giustizia e dei principi umanitari. Legittimo e degno di tutela appare l’interesse di uno Stato a respingere gli ingressi illegali per salvaguardare l’ordine pubblico e gli equilibri sociali, economici e demografici del proprio territorio e quindi la facoltà di avvalersi in questi casi del provvedimento amministrativo di espulsione. Altra que-
ri già gravati da una quantità di procedimenti superiore alle possibilità di lavoro degli organici, con tempi di definizione lenti e lunghissimi, appare realistica l’apertura di un fascicolo per ogni passeggero delle tante carrette del mare che approdano a Lampedusa o altrove per poi promuovere altrettanti processi e riempire ulteriormente carceri già sovraffollate? Molto più efficace appare il ricorso ad espulsioni rapide ed effettive e ancor più lo sviluppo e l’effettiva applicazione degli accordi bilaterali di cooperazione con i Paesi di partenza e di transito dei flussi migratori. Ritengo invece condivisibile l’abbassamento del tetto di pena - previsto dal decreto legge - oltre il quale
tive che rendono troppo complesso e oneroso il percorso di regolarizzazione. La legge Bossi-Fini del 2002 ha introdotto innovazioni apprezzabili, soprattutto in relazione allo strumento del permesso di lavoro-soggiorno che lega la facoltà di ingresso alla stipulazione di un contratto di lavoro, ma alla luce del tempo trascorso dalla sua approvazione e della verifica dei suoi effetti, richiede oggi alcuni aggiustamenti e l’introduzione di una maggiore flessibilità. Ciò si rivela necessario soprattutto a tutela di quegli irregolari già presenti sul territorio nazionale e disponibili a lavorare nella piena legalità, ma costretti al sommerso dalla condizione di clandestinità. Allo stesso mo-
ROBERTO MARONI
ANGELINO ALFANO
GIANFRANCO FINI
Il collegamento tra ingressi incontrollati e insicurezza esiste, come sostiene il ministro dell’Interno Maroni: ma ripugna l’idea di una colpevolizzazione penale di chi fugge da condizioni terribili
Il governo, e il ministro della Giustizia, deve porsi il problema dell’ingestibilità dei processi agli extracomunitari irregolari e del sovraffolamento delle carceri che le ultime norme produrrebbero
La legge Bossi-Fini richiede alcuni aggiustamenti: il sistema di previsione dei flussi annuali deve essere rivisto per favorire l’arrivo di stranieri capaci di inserirsi rapidamente nel mercato del lavoro
Più controverse sembrano le misure di carattere penale a carico del clandestino stesso, tanto riguardo alla previsione dell’aggravante per reati già previsti dal nostro ordinamento e commessi dall’immigrato irregolare, quanto rispetto all’introduzione del reato di immigrazione clandestina, contenuta in un disegno di legge che sarà esaminato dal Parlamento. Ieri è arrivata anche una pesante reprimenda dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Louise Arbour, secondo la quale «sono preoccupanti la recente decisione del governo di rendere reato l’immigrazione illegale e i recenti attacchi contro i campi rom a Napoli e Milano». Quasi contemporaneamente si è fatto sentire anche il Vaticano, attraverso il segretario del Pontificio consiglio per i migranti: «I cittadini di Paesi terzi non do-
stione è l’incriminazione, l’imputazione penale a carico del clandestino per il solo fatto di essere tale. L’ingresso irregolare deriva generalmente da una condizione di estrema povertà o dalla fuga da tragedie devastanti del nostro tempo, come le pandemie, i conflitti, la desertificazione. Ripugna ad una certa coscienza sociale l’idea di una colpevolizzazione di carattere penale di questa scelta spesso disperata e indotta dalla mera esigenza di sopravvivere.
È senz’altro fondato il diritto dello Stato a regolamentare gli ingressi per garantire un’ordinata integrazione, e ad allontanare chi non rispetti i criteri previsti, ma è inaccettabile la sanzione penale per chi sia fuggito dalla disperazione. Emergono inoltre ostacoli di carattere pratico. Con gli uffici giudizia-
possano essere espulsi gli immigrati irregolari che abbiano commesso un delitto.
Il tema della clandestinità e della sua potenziale influenza sulla sicurezza e sull’ordine pubblico deve essere affrontato come detto non soltanto in termini di inasprimenti sanzionatori ma anche di aggiornamento e miglioramento delle normative vigenti sull’immigrazione. Non c’è soltanto il clandestino venuto per delinquere che probabilmente rappresenta una piccola minoranza. Molti arrivano nel nostro territorio nell’intento di trovare un’occupazione legale e di integrarsi nella nostra società. È possibile poi che taluni, pur animati da questa legittima aspirazione, scivolino nell’illegalità, a causa della difficoltà di sopravvivere onestamente, legata alla rigidità delle norma-
do l’ingresso di lavoratori stranieri in grado di collocarsi rapidamente nel mercato di lavoro perché già individuati e richiesti dai datori di lavoro, in particolare per i settori più carenti di prestatori d’opera, deve essere favorito e accelerato, rivedendo il sistema di previsione dei flussi determinati annualmente.
Un altro istituto che fu a suo tempo cancellato e che forse, alla luce dell’esperienza, potrebbe essere ripristinato è quello dello sponsor. Una funzione che dovrebbe essere riconosciuta in virtù di un’accurata selezione tra soggetti che garantiscano, a tutti gli effetti, un’adeguata affidabilità. Credo che la sua reintroduzione favorirebbe quella maggiore flessibilità necessaria ad inserire chi aspiri sinceramente all’integrazione e a un lavoro regolare.
politica
3 giugno 2008 • pagina 7
Giocare di sponda con l’opposizione è l’unica strada che ha il Senatùr per sfuggire all’irrilevanza
Bossi prova a evadere da Veltrusconi d i a r i o
di Giuseppe Baiocchi
d e l
g i o r n o
ROMA. Che la Lega sia ormai la
2 giugno, una festa davvero nazionale
forza politica più “vecchia” del Parlamento italiano è una recente scoperta. Che la sua anima irriverente e sbarazzina appaia ormai un po’ datata è un’altra evidente novità. Come pure la straordinaria e antica capacità mediatica di dare “scandalo politico” si vada perdendo nella responsabilità di governo con la necessità di “non fallire” e di “non deludere” è elemento di sorda consapevolezza e pone il Carroccio davanti alla sfida di una difficile trasformazione.
Tutta Italia e non solo Roma, con la consueta sfilata delle forze armate in via dei Fori Imperiali, ha reso omaggio alle celebrazioni per il 62/mo anniversario della Repubblica. Manifestazioni si sono svolte infatti in ogni regione del Paese, spesso alla presenza di esponenti di governo, che hanno reso omaggio alle Forze armate insieme a generali, prefetti, sindaci e presidenti delle Regioni.
Lo si è colto anche domenica sul pratone di Pontida. Con una vasta presenza di popolo, in buona parte rinnovato. Con il peso organizzativo di associazioni collaterali e di cultura delle tradizioni e dei territori. Con una militanza stabile e assuefatta. Ma il copione del ventiquattresimo raduno in un lungo ventennio era desolatamente privo di quella “scossa elettrica” che aveva in passato contraddistinto l’occasione del ritrovo simbolico. Non erano infatti una novità né la sfilata dei ministri, né il giuramento dell’allargato plotone dei parlamentari, né tantomeno il folto battaglione dei sindaci acclamati per il loro impegno sulla sicurezza e il controllo dal basso dell’immigrazione. Semmai si nota anche nei resoconti della Padania e nelle trasmissioni della radio di partito l’incertezza di trovarsi di fatto a una svolta dai contorni incerti che riguarda la natura del movimento, le sue tappe future, il suo bisogno di “portare a casa” in tempi non procrastinabili il segnale concreto di cambiamento dello Stato che costituisce dall’origine la sua ragione sociale. Non sarà così semplice, se si considera che ancora ieri un autorevolissimo rappresentante della maggioranza come il presidente del Senato Renato Schifani ha tenuto a sottolineare che il federalismo fiscale deve essere «fiscale e solidale» e non può «lasciare indietro i più deboli». Non c’è dubbio che il Carroccio debba negoziare «ogni singola parola», come dice Bossi, con il Pd. Dovrà farlo però innanzitutto con la propria maggioranza.
Napolitano: «Ripudiare la guerra con i fatti» Nel messaggio inviato al ministro della Difesa, in occasione della celebrazione della festa della Repubblica, il capo dello Stato ha scritto: «Il messaggio che le nostre Forze armate hanno trasmesso al Paese è stato chiaro e forte: la loro missione primaria nel ventunesimo secolo è ripudiare la guerra con i fatti, lavorando concretamente per costruire la convivenza pacifica tra i popoli, attraverso la sicurezza, la certezza del diritto e un più equilibrato sviluppo mondiale».
La Russa: «Legame tra popolo ed esercito» «La magnifica prova fornita ha confermato in pieno i sentimenti genuini degli Italiani verso tutti gli uomini e le donne che hanno scelto di servire la Patria con passione e dedizione, offrendo il meglio di se stessi in tutte le circostanze nelle quali sono chiamati a operare», ha dichiarato ieri il ministro La Russa che poi ha aggiunto: «Dobbiamo essere fieri del legame saldo fra popolo e Forze Armate».
Parisi critica l’assenza leghista
il gioco, per evitare di finire nella prigione dorata di un’alleanza tanto solida da poter alla lunga prescindere dagli obiettivi della Lega. Non è da escludere nelle prossime settimane un’apertura verso l’Udc simile a quella rivoltga ai democratici, magari sui temi etici cari alla Chiesa. La verità è che il Carroccio - che ha preso i voti sui temi dell’ordine pubblico e del sostanziale protezionismo - una cosa sola non può permettere: che si cementi la corrispondenza d’amorosi sensi tra Berlusconi e Veltroni, una morsa in grado sì di marginalizzare le estreme, ma anche di schiacciare le forze intermedie, facendo evaporare in sostanza la condizione determinante dei padani nella geografia delle maggioranze parlamentari. L’incognita è rappresentata dalla natura stessa della Lega: finita da tempo la condizione di grazia dello “stato nascente”,
Al proprio interno la Lega è troppo poco democratica per sviluppare altre proposte strategiche. E sul federalismo arriva una frenata di Schifani
Come spesso è avvenuto in passato, Bossi è persuaso, dal proprio fiuto, dell’urgenza di “sparigliare”
superata la fase di compattezza “militare”, ritrovata una presenza diffusa nell’opinione pubblica (e non solo nelle sue roccheforti) appare comunque insufficiente la fiducia nella manovrabilità tattica e nel “movimentismo” tipico del suo leader incontrastato.
D’altronde per un partito che fa della lotta al centralismo statalista il suo segno distintivo forse diventa una aperta contraddizione il feroce centralismo leninista che l’ha sinora tutelato dalle diaspore. Il tema della democrazia interna (sono sei anni che non si celebra un congresso) riemergerà più prima che poi: pesano inoltre la labilità dei legami con gli interessi aggregati anche nel logico bacino territoriale, l’inesistenza di un centro di elaborazione culturale e l’assenza di una moderna strategia per la comunicazione. E tutti questi fattori rendono meno agevole la possibilità di indirizzare un consenso per sua natura friabile, conquistato su temi di legge e ordine, verso l’ambiziosa sfida riformatrice sull’assetto dello Stato. In ogni caso, per chi segue la politica, certo la Lega non farà annoiare.
Artuto Parisi, ex ministro della difesa nel governo Prodi, è intervenuto ieri sull’assenza dei ministri della Lega Nord alle celebrazioni del 2 giugno: «Va bene non sopravvalutare la goliardia leghista; va bene non eccitare l’estremismo padano. Ma si può almeno esprimere il rammarico per l’assenza dei ministri della Lega alla festa della Repubblica?». Continua poi Parisi: «E’ solo grazie alla condivisione dei simboli e dei riti fondamentali della Patria comune che il dialogo auspicato da Bossi sulle riforme istituzionali può infatti svilupparsi. O per poterci confrontare dovremmo continuare a chiudere gli occhi per non vedere i giuramenti di fedeltà padana, e tapparci le orecchie per non sentire gli oltraggi al tricolore, i ”Padania is not Italy”, e i ”chi non salta italiano è”.
Cossiga: «Sfilino le guardie padane» I ministri della Lega assenti alla Parata? «Forse avrebbero voluto che tra i corpi civili e militari sfilassero anche le Guardie padane. Ma ci penserà il ministro Maroni che intende rendere le Guardie padane una polizia ausiliare per il Nord». Lo ha detto ieri il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga.
Calderoli difende la scelta della Lega «Alla parata del 2 giugno un nostro ambasciatore c’era e, quindi, sono pretestuose le polemiche sull’assenza della Lega Nord». Lo ha detto Roberto Calderoli, ministro leghista. Che poi ha affermato: «Detto questo aggiungo che, personalmente, ho grosse perplessità sulle innumerevoli e onerose manifestazioni di questo genere che si tengono in un paese in cui, come dice l’Istat, una famiglia su tre non riesce ad arrivare a fine mese. Se qualcuno ritiene di dover ricordare certi simboli del nostro passato lo può fare senza oneri a carico dello Stato - ha concluso Calderoli - destinando queste risorse alle famiglie nostrane che non arrivano a fine mese oppure aiutando a casa loro i bambini che muoiono di fame»
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scuola
Il nuovo ministro dell’Istruzione è atteso da una scelta difficile. Reintrodurre o no gli esami di riparazione? Ecco perchè dovrebbe farlo
Torniamo a settembre di Giancristiano Desiderio a circolare 92 pende sulla testa di alunni, professori, presidi (ma oggi si dice dirigente), famiglie che hanno la sorte e la necessità di avere a che fare con quel terno a lotto che è la scuola italiana. Che cos’è la circolare 92? Un anno fa, ad anno scolastico già iniziato da un pezzo, il ministro Fioroni realizzò che il sistema dei crediti e dei debiti fosse l’ennesima presa in giro della scuola: si rese conto che la “promozione con debito” era una cosa molto poco seria e allora capì che non si poteva continuare, occorreva fare qualcosa. Il buonsenso, che secondo Cartesio il buon Dio distribuisce agli esseri umani in parti uguali, avrebbe voluto il ripristino degli esami a settembre, che non hanno mai fatto male a nessuno e, semmai, hanno fatto solo bene a chi non ne voleva sapere di studiare. Invece, il ministro decise per la cosiddetta “sospensione del giudizio”: in pratica i professori sospendono il giudizio su quegli alunni “in debito” e lo pronunciano solo a settembre dopo che l’alunno avrà fatto un esame. Direte: «Ma è il vecchio esame di riparazione a settembre. Perché il ministro non lo ha chiamato così invece di parlare di sospensione del giudizio?» Perché non di vero e proprio esame si tratta.
L
La circolare 92 dice, infatti, che la scuola ha l’obbligo di organizzare i corsi di recupero - minimo 15 ore per ogni debito - gli alunni hanno l’obbligo di frequentarli e se le famiglie decidono diversamente, devono comunicarlo per iscritto alla scuola. Quando si devono fare questi corsi di recupero? In estate. Chi li deve fare? I professori i quali,
però, possono anche scegliere di non farli. In tal caso il preside (che poi è il dirigente scolastico) può attingere dalla liste dei docenti precari o a spasso, sempre che questi vogliano fare i corsi piuttosto che andare altrove, magari in spiaggia a leggere un buon libro. Insomma, mettetela come volete: la toppa è peggio del buco. Intanto è cambiato il ministro: Giuseppe Fioroni ha lasciato il posto a Mariastella Gelmini. La giovanissima ministra ha ereditato questa brutta gatta da pelare. Al momento anche lei sta praticando la “sospensione del giudizio”, quella che gli antichi scettici greci chiamavano ”epoché”. Ma tra qualche giorno dovrà sciogliere la riserva e decidere cosa fare.
E’ probabile che a viale Trastevere si attenda il pronunciamento del Consiglio di Stato che si deve esprimere (forse domani) proprio sulla ormai famigerata circolare 92, che non va giù soprattutto ai Cobas. Ma questo, per la verità, conta davvero poco. Ciò che conta è riportare un po’
non dopo: decidendo le regole del gioco prima che il gioco cominci nessuno le potrà dire di essere intervenuta in ritardo e comunque ad anno scolastico già iniziato. Questo, in sostanza, è stato l’errore di Fioroni (al di là del contenuto della sua circolare 92). Gli errori degli altri dovranno pur servire a qualcosa. Meglio, dunque, che la Gelmini faccia due mosse: via la circolare e ritorno degli esami a settembre, ma a partire dalla prossima stagione. Ogni altra ipotesi - quelle che stanno circolando da qualche giorno al ministero e dintorni - non servirebbe a fare chiarezza e, soprattutto, non darebbe alla scuola (e dunque agli alunni) alcun beneficio. Naturalmente, c’è chi si opporrebbe al ripristino degli esami a settembre. I Cobas, ad esempio. E l’oppositore farebbe ricorso a grandi principi e a una nobile pedagogia. Si direbbe che gli esami a settembre fanno parte di una scuola vecchia e avrebbero il torto di ripristinare il mercato nero delle lezioni private.
Argomenti deboli, debolissimi, al limite della malafede. Intanto, le lezioni private non sono mai scomparse e, anzi,
Gli errori degli altri dovranno pur servire a qualcosa. Meglio che la Gelmini faccia due mosse: via la circolare 92 e ritorno delle prove a settembre, ma a partire dalla prossima stagione di serietà nella scuola. Allora, su questo punto non c’è altro da fare: la Gelmini farebbe cosa gradita a tutti - ma proprio a tutti - se ritirasse la circolare 92 e lasciasse per quest’anno le cose come stanno, ossia promozione con debito. Ma - e qui è il punto - contemporaneamente dovrebbe annunciare che prima dell’inizio del prossimo anno scolastico ci sarà il ripristino degli esami a settembre. Prima dell’inizio e
vengono alimentate proprio dal sistema dei debiti: l’unica novità è che mentre prima era soprattutto l’estate a essere utilizzata per fare lezioni private, ora il sistema dei debiti ha spostato o allargato il tempo delle lezioni private alla primavera. Ma poi, chi lo ha detto che le lezioni private sono un male? Solo una scuola che è tutta strutturata dall’inizio alla fine - dall’asilo alla licenza dell’obbligo al diploma, all’università - sul ministero può generare questa idea ba-
lorda e ipocrita che le lezioni private siano un male. Ma si aggiunge: «Non si può tornare indietro, non si può tornare alla scuola di un tempo». Ma quando una cosa non funziona - e che il sistema dei crediti e dei debiti abbia dato la mazzata finale alla scuola lo sanno tutti - che cosa si fa? Si cambia e si riprendono le usanze che hanno dimostrato di essere utili. Gli esami a settembre hanno proprio questa caratteristica: sono utili. Sono utili a tutti: a
cominciare dagli alunni ai quali non si fa un piacere rendendo la scuola sempre e soltanto più facile. Il facilismo è una condanna per i giovani prima che per la scuola. Ma gli esami sono utili alla scuola che può contare su regole più chiare e tempi più certi. Sono utili alle famiglie che possono meglio organizzare le loro vite e, soprattutto, meglio controllare gli studi dei figli.
Se l’Italia non fosse il paese senza memoria che è, ci si potrebbe ricordare che molti anni fa, quando si iniziò a parlare per la prima volta dell’abolizione degli esami a settembre per sostituirli con i corsi estivi, ci fu chi disse: «Faccia-
scuola
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Uno sguardo senza sconti al sistema scolastico di oggi
La vera emergenza è l’educazione di Luisa Santolini iamo arrivati alla fine di un altro anno scolastico. Gli studenti si preparano alle vacanze, quelli più grandi si preparano alla maturità e molti - dai dati del Ministero più del 40% - devono fare i conti con i debiti formativi, mai saldati. Dalle cronache dei giornali e da quanto trapela dal Ministero pare che la confusione regni sovrana e che le sacrosante regole più rigide volute dal Ministro Fioroni saranno difficilmente rispettate, per questioni organizzative delle singole scuole, per la cronica mancanza di fondi, per mancanza di direttive del Ministro. Intanto il responsabile della Cgil per la scuola minaccia uno sciopero e le famiglie non sanno come dovranno organizzarsi per i prossimi mesi. Viene ventilata l’idea di ricorsi da parte degli studenti bocciati e la preoccupazione è di non compromettere l’inizio dell’anno scolastico che verrà. Sembra di assistere ad un film già visto con qualche variante; la trama è la stessa e intanto i nostri ragazzi come preparazione scivolano ogni anno sempre più in basso nelle classifiche dei Paesi Ocse. Il panorama non è dei migliori e quello che dovrebbe preoccupare di più passa in secondo piano, così ci si avvita sul funzionamento della scuola, certamente importante, ma non sugli esiti formativi che la suddetta scuola dovrebbe prefiggersi. Ci si occupa e preoccupa degli orari, dei tempi, delle graduatorie, degli stipendi degli insegnanti – certamente troppo bassi – della burocrazia, degli adempimenti formali, ma non ci si chiede come vanno i ragazzi e cosa li aspetta alla fine degli studi, se la parola studiare ha perso ogni significato e se la parola educare non abbia ancora cittadinanza nelle aule scolastiche.
S
mo attenzione, non è con il facilismo che si risolvono i problemi della scuola, anzi così si aggravano». Non voglio citare sempre Salvatore Valitutti, ma la sua opera culturale e morale - i libri, gli scritti, gli articoli, i discorsi - è una risorsa per tutti noi che ci sforziamo di fare il nostro lavoro e di migliorare la scuola per migliorare l’Italia. Per fare qualcosa di buono nella scuola si dovrebbe avere l’umiltà di conoscere il pensiero di chi ne sapeva molto più di noi e aveva previsto con largo anticipo che una scuola facilona, inconcludente e senza meriti sarebbe finita non solo nell’ignoranza, ma anche nella violenza.
La stagione estiva è alle porte e la scuola italiana sta per andare in vacanza. Ma per molti studenti è tempo d’esami. A destra, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Nell’altra pagina, Mariastella Gelmini, neo ministro dell’Istruzione
scuola italiana è caduta così in basso oppure vengono portati alla ribalta solo questi fatti negativi perché la normalità e la correttezza non fanno notizia? Io credo che sia vera l’una e l’altra cosa, e penso anche che di scuola non si parli abbastanza. Qualcuno ha fatto caso che durante la campagna elettorale è stato un argomento assolutamente ignorato da tutti, salvo qualche raro e fugace cenno? A mio modesto avviso, la scuola è diventata una emergenza troppo sottovalutata, sia dagli addetti ai lavori che dalla classe politica, e dall’opinione pubblica. Il Papa ha parlato di “emergenza educativa” ed anche il cardinale Bagnasco durante la prolusione al Consiglio permanente della Cei ha dedicato all’argomento una lunga riflessione, affermando, a ragione, che «una rinnovata opera educativa sarà tale se avrà il coraggio di non obliterare il costo degli ideali». Ed ha affermato: «Se educare non è mai stato facile, oggi lo è ancor meno perché non pochi educatori dubitano della possibilità stessa di educare e dunque rinunciano in partenza al proprio compito» Ecco, credo che il punto sia proprio qui.
Gli adulti hanno rinunciato ad educare e sono i maggiori responsabili di questa crisi dei giovani che si abbandonano alle “passioni tristi”. Sono convinta che i giovani siano molto migliori di come li si descriva, ma sono le prime vittime di un atteggiamento rinunciatario da parte delle famiglie e dei professori che non additano traguardi impegnativi e appassionanti con coerenza ed autorevolezza, ma permettono ai giovani di coltivare false illusioni, di vedere solo il tutto e subito, il qui ed ora. Niente li attrae e per niente “vale la pena”. In una società che certo non educa più, in un contesto segnato dal relativismo e dal materialismo, «il problema dei giovani sono gli adulti» afferma il cardinale Bagnasco. Parole gravi che dovrebbero far riflettere credenti e non credenti, genitori e insegnanti, politici e intellettuali, Ministri e semplici cittadini. L’eclisse dell’educativo è sotto i nostri occhi e ognuno deve fare la sua parte, senza scorciatoie e senza sconti. Invertire la rotta si può e si deve. Basta riscoprire il ruolo che ognuno deve svolgere nei confronti delle nuove generazioni e viverlo fino in fondo, sapendo che la posta in gioco è troppo alta e non ci permette di voltare la testa da un’altra parte. I giovani hanno assoluto bisogno di adulti coerenti, significativi, autorevoli, di autentici testimoni, che assumendosi il rischio educativo siano in grado di mettere nelle loro mani una bussola per orientarsi. I giovani non meritano di essere traditi, perché sono il nostro futuro e la nostra speranza. E’ davvero tempo di dare loro quello che si aspettano, perché è un loro bisogno e un loro diritto.
In una società che non insegna più, «il problema dei giovani sono gli adulti» afferma il cardinale Bagnasco
Mi ha molto colpito la notizia sentita alla radio secondo la quale tre ragazzi su quattro tenteranno di copiare durante gli esami di maturità.Tutti si stanno attrezzando con svariate diavolerie tecnologiche nelle quali sono indubbiamente attrezzati. E così si arriva a laureati che non sanno scrivere perché infarciscono una qualunque relazione con errori di grammatica e di sintassi e sono sempre meno gli studenti che scelgono severe facoltà scientifiche all’Università, anche se sono quelle che potrebbero garantire un futuro più roseo. Ma il punto non è solo questo. C’è dell’altro. Sempre più spesso le cronache ci raccontano gravi episodi di bullismo, di violenze di gruppo nei confronti di compagni più deboli o più fragili, di atti vandalici fatti solo per scongiurare una interrogazione o semplicemente per il gusto della trasgressione, di comportamenti indecenti in classe a spese di professori inermi e rinunciatari, e tutto finisce su You Tube con una sorta di compiacenza per cui una volta su Internet tutti diventano eroi. Ma davvero la
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avorare alle istituzioni europee è un sogno che hanno in tanti, soprattutto i giovani. Bruxelles è la capitale, almeno amministrativa, d’Europa, dove vengono prese le decisioni che influiscono sull’economia, sui singoli cittadini e sulle politiche dei Paesi membri. È il luogo dove si traccia il futuro dell’Unione europea. Ma entrare nella stanza dei bottoni e trovare un’occupazione fissa – sia alla Commissione, al Parlamento o al Consiglio dell’Unione europea – non è facile. Lo sanno bene i ragazzi che ogni anno trascorrono alcuni mesi di tirocinio presso una delle istituzioni comunitarie, s’innamorano della vita da funzionario, capiscono che da grande vogliono fare lo stesso mestiere e poi si rendono conto che a Bruxelles c’è una trafila incredibile da sopportare e che anche qui vige la regola del precariato. Il concorso pubblico resta il metodo tradizionale d’ingresso, ma tutt’attorno c’è una galassia di contratti più o meno a termine che possono durare fino a sei anni e di stipendi. Questo precariato è sintomatico di come il sistema di reclutamento nelle istituzioni Ue sia entrato in crisi. I concorsi, per esempio, non sono sempre lo strumento migliore per selezionare i profili richiesti dalle varie direzioni generali.
mondo
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I cococo e i cocopro, i contratti di collaborazione coordinati o a progetto, esistono perfino a Bruxelles. Semplicemente, qui hanno un altro nome. Si va dallo stagista all’interinale, dall’agente temporaneo all’agente contrattuale fino al funzionario. Quando la Commissione deve riempire un buco (per esempio in caso di maternità o di sostituzione temporanea), gli uffici si rivolgono ad agenzie interinali che periodicamente inviano alle direzioni generali – ossia i vari ministeri della Commissione - un elenco di potenziali candidati. Ma andiamo con ordine. La gerarchia della flessibilità inizia dallo stagista. Esistono due tipologie di stagista: c’è quello atipico, di solito un ricercatore o uno studente che ha usufruito di una convenzione tra la Commissione e alcune università europee. I più rinomati sono gli allievi dell’Ena, la prestigiosa Scuola nazionale d’amministrazione francese da sempre fucina di primi ministri e presidenti della Repubblica. Poi c’è lo stagista del Blue Book (il libro blu che contiene il nome dei candidati), che ha superato una dura selezione. È stato scelto tra migliaia di ragazzi che ogni anno fanno domanda a Bruxelles dai quattro angoli dell’Unione per vin-
Stagisti, precari, quote: com’è difficile entrare a Bruxelles
I giovani prigionieri nel labirinto della Ue di Silvia Marchetti cere una borsa di studio semestrale. Nel 2007 sono stati scelti più di mille giovani. Una volta terminato lo stage, è vietato prolungarlo e al giovane può essere offerto un contratto a tempo solo a distanza di mesi dal periodo di tirocinio. Dopo lo stagista, nella scala gerarchica c’è il lavoratore interinale, che gode di un contratto di sei mesi rinnovabile fino a un massimo di sei anni. A seconda del grado (lavoro di segreteria o collaborazione in de-
tempo della durata massima di cinque anni. Lo stipendio anche qui dipende dalla funzione ma si avvicina a quello dell’interinale. L’unica differenza è che il contrattuale ha maggiori garanzie in quanto ha già superato un piccolo esame chiamato Cast 27 che ricalca il tipico concorso pubblico per i funzionari. Alcune direzioni generali sono obbligate a reclutare soltanto sulla base di queste liste. Dopo il lavoratore contrattuale si arriva all’agente temporaneo
e a quelli appena entrati nell’Unione europea. L’obiettivo è raggiungere un giusto equilibrio tra nuovi e vecchi Stati membri nel bacino del personale. Così, dal 2004, quando entrarono nel club europeo dieci muovi Paesi, il contratto da agente temporaneo è stato usato come corsia preferenziale per reclutare cechi, polacchi e ciprioti. Ma il ricorso alle quote riguarda anche i concorsi pubblici: la maggior parte di quelli in corso sono ristretti ai cittadi-
Da quando sono arrivati i nuovi Paesi, la maggior parte dei posti è stata riservata a loro per ”riequilibrare” il numero degli eurocrati a danno di italiani, francesi e inglesi. Sotto accusa anche il sistema dei concorsi terminati progetti), il lavoratore interinale prende dai 1500 ai 1700 euro netti al mese. Sono frequenti i casi in cui gli uffici stampa cercano collaboratori per organizzare un evento o un convegno. In questi casi, il contratto è in funzione dell’evento e può anche essere stipulato per meno di sei mesi. A trovare i possibili candidati ci pensano sempre le agenzie interinali. Al gradino successivo c’è l’agente contrattuale, con un contratto a
che, in termini di benefici e stipendio, si ritrova quasi allo stesso livello del funzionario ordinario. Si tratta di un contratto della durata massima di sei anni non rinnovabile. Non c’e’ nessun esame pubblico e la selezione avviene per titoli o per nazionalità. Alla Commissione, infatti, oggi vige un sistema di quote per Paese in base al quale si dà precedenza nell’assegnazione dei posti ai cittadini dell’Europa dell’Est
ni di nazionalità bulgara e rumena. Di conseguenza strade bloccate per francesi, italiani, inglesi e le per le altre nazionalità del vecchio blocco Ue-15. L’uso delle quote dovrebbe rallentare entro l’anno, quando la geografia dei posti di lavoro sarà alla pari tra vecchi e nuovi Paesi membri. Entrare nelle istituzioni comunitarie, insomma, non è più facile. Passare un esame è davvero un’impresa titanica: il numero dei candidati
è elevatissimo e i quiz logiconumerici rappresentano il vero banco di prova per superare la prima fase della prova scritta. La selezione è durissima ed è giusto che lo sia. Ma resta il fatto che spesso il sistema dei concorsi non aiuta a selezionare i profili richiesti. L’anno scorso è stato indetto un esame pubblico per reclutare nuovi addetti stampa, esperti nei media e assistenti dei portavoce. Ma The European Voice – il settimanale dell’Economist specializzato nei temi europei, ha criticato il metodo di selezione. Secondo il periodico l’esame logico-numerico non è lo strumento migliore per scegliere chi dovrà occuparsi di comunicazione e i tempi della prova sono troppo lunghi. Il processo di selezione non è ancora terminato e gli uffici della comunicazione oggi sono costretti a fare ricorso ai contratti a termine. L’altro aspetto negativo dei concorsi Ue è proprio la lunghezza del processo di reclutamento. Tra registrazione, prima prova e seconda prova in certi casi possono passare più di due anni. Sempre se il candidato è fortunato e riesce a trovare la posizione adatta al suo profilo. Non è sempre automatico, infatti, passare un concorso e iniziare subito a lavorare alla Commissione. Il vincitore del concorso pubblico deve svolgere un’operazione di autopromozione a 360 gradi, andando a parlare e cercando di convincere il capo unità anche se ha già passato il concorso comunitario. Insomma, il posto di lavoro se lo deve guadagnare. Ci sono lunghe liste di potenziali funzionari in attesa di essere chiamati. Ecco quindi che scatta lo strumento dei contratti a tempo.
Del problema sono coscienti gli stessi commissari e i direttori generali dei diversi ”ministeri” al punto che è stato lanciato un brainstorming interno per capire come migliorare le procedure di selezione. L’obiettivo nel medio periodo è reclutare dall’esterno esperti e professionisti nei vari campi: dall’economia alla comunicazione, dalla medicina all’energia, per costruire delle équipes di lavoro multidisciplinari cercando di abbandonare la logica burocratica. Prova di questo cambiamento è il comitato di saggi sponsorizzato dal presidente francese Nicolas Sarkozy per riflettere sulle questioni-chiave che riguardano il futuro dell’Unione europea. All’interno delle direzioni generali della Commissione gli esperti di strategia hanno già organizzato delle riunioni interne per individuare come migliorare il reclutamento di risorse umane “speciali”.
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3 giugno 2008 • pagina 11
La liberazione di una spia degli integralisti libanesi in cambio dei resti di militari uccisi scuote Israele
Da Hezbollah un altro colpo a Olmert d i a r i o
di Michael Sfaradi
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Pakistan, attacco all’ambasciata danese In un attacco suicida all’ambasciata danese a Islamabad, sono morte almeno otto persone e altre trenta sono rimaste ferite. Tra i morti ci sarebbero collaboratori locali dell’ambasciata e un poliziotto. Secondo quanto dichiarato dalle autorità pachistane, l’attentato, il terzo alla sede diplomatica danese, sarebbe stato compiuto da estremisti islamisti per vendicarsi delle ultime vignette su Maometto apparse nel febbraio di quest’anno su numerose pubblicazioni danesi. L’ambasciata non si trova nel quartiere diplomatico della città, ma in una zona benestante di Islamabad dove si trovano anche uffici dell’Onu. Dalla prima pubblicazione delle vignette sul profeta le misure di sicurezza attorno alla sede diplomatica di Copenaghen sono diventate più severe. Il fatto che l’attentatore sia riuscito ad avvicinarsi indisturbato, alla guida dell’autobomba, all’ambasciata, getta cattiva luce sui servizi pachistani.
Nepal ancora senza governo
Nassim Naasar (sopra), la spia di Hezbollah liberata e (a fianco) un’immagine dell’intervento militare israeliano in Libano nell’estate del 2006
GERUSALEMME. Lo scambio di prigionieri avvenuto domenica scorsa fra Israele ed Hezbollah ha rinnovato nella popolazione israeliana lo stato di choc e di collera che le dichiarazioni di Hassan Nasrallah avevano già acceso quando il capo del Partito di Dio libanese rivelò, durante uno dei suoi discorsi, che la milizia sciita aveva i corpi dilaniati di militari israeliani uccisi durante la guerra dell’agosto 2006. Quelle affermazioni provocarono sdegno nel mondo e innalzarono la tensione politica in Israele. Visto però che al grande capo in turbante dello sdegno mondiale non interessa molto e che l’innalzamento della tensione politica in Israele va sempre a suo vantaggio, Nasrallah ha dimostrato ancora una volta che, oltre ad essere un ottimo capo militare, è anche un abile stratega politico. Il governo Olmert e lo stato maggiore dell’esercito non riuscirono, allora, né a smentire né a confermare le parole dello sceicco che guida Hezbollah dimostrando di fronte all’opinione pubblica un pressapochismo che male è sopportato dalla mentalità israeliana. Adesso Nasrallah, sfruttando cinicamente il sentimento d’umanità che, al contrario, è forte tra la popolazione israeliana - ma che, ai suoi occhi, è soltanto una debolezza - si è fatto due conti e ha pensato che delle spoglie smembrate valgono una spia viva e così Israele ha rilasciato Nassim Naasar e, in cambio, ha ricevuto pezzi di suoi militari caduti durante la guerra
del luglio agosto 2006 in Libano. Sì, proprio così: i pezzi dei soldati di cui Nasrallah aveva parlato con tanta enfasi nel suo famoso comizio. Ora che il capo di Hezbollah ha fatto la consegna, dimostrando che lui non mente mai, un nuovo colpo è stato assestato alla credibilità del già traballante governo Olmert e sì è venuta a creare una situazione per cui, da una parte Israele, ha dovuto rimettere in circolazione un soggetto che meritava il carcere a vita, ma dall’altra, alcune famiglie hanno almeno ottenuto indietro i corpi dei loro cari.
Aumentano i timori per la sorte dei due soldati ancora in mano alla milizia del Partito di Dio: lo sceicco Nasrallah ha dimostrato di scambiare morti per vivi C’è la sensazione che lo scambio di domenica sia soltanto la prima tranche di un accordo più ampio, frutto di una trattativa fra le parti favorita dall’intermediazione tedesca, trattativa che potrebbe riguardare anche il destino di Ehud Goldwasser e di Eldad Regev, o dei loro cadaveri. Si tratta dei due soldati israeliani rapiti da Hezbollah nel luglio del 2006: proprio quel rapimento fu la causa che scatenò poi la guerra. Che i due siano ancora vivi è soltanto una speranza perché, a quasi due anni di distanza
dalla loro cattura - che avvenne in territorio israeliano è giusto ricordarlo - non c’è certezza sui loro destini. La possibilità che un militare israeliano fatto prigioniero vivo dai terroristi sciiti possa essere riconsegnato ancora in vita è vicinissima allo zero ed è per questo che troppo spesso gli scambi fatti con Hetzbollah, anche in passato, hanno riguardato il rilascio di persone vive da parte israeliana contro il recupero di salme o, come questa volta, di pezzi di salme.
Che cosa ne sia stato di Ehud Goldwasser e di Eldad Regev non è dato sapere perché l’organizzazione terroristica sciita libanese appoggiata dall’Iran, andando contro tutte le Convenzioni di Ginevra non ha mai permesso alla Croce Rossa Internazionale di visitare i due prigionieri, tantemeno di sottoporli a visite mediche e di fargli arrivare corrispondenza dalle loro famiglie, come prevedono appunto le Convenzioni di Ginevra. È lo stesso trattamento che i palestinesi di Hamas stanno riservando nei confronti di Gilad Shalit, un altro militare israeliano catturato il 26 giugno 2006. Per sapere se lo scambio di domenica è fine a se stesso dobbiamo solo aspettare i tempi e i modi che Teheran deciderà e che Nasrallah eseguirà: forse giorni, forse mesi, forse mai, come per l’indimenticato Ron Arad prigioniero dal 1986. Anche perché qualche cosa che possa bloccare lo scambio all’ultimo momento - basta un minimo pretesto, come la storia ha dimostrato - può sempre accadere.
A pochi giorni dalla proclamazione della repubblica, le trattative per la formazione del governo sono fallite. I partiti di Katmandu non sono riusciti a trovare l’accordo per le cariche di capo del governo e presidente. I posti sono reclamati dai maoisti, ma il Partito nepalese del congresso e i comunisti ne pretendono uno. Il partito di Prachanda non avendo raggiunto la maggioranza assoluta ha bisogno del sostegno di almeno uno dei partner di coalizione. Se il parlamento non realizzerà le loro ambizioni i maoisti intendono mobilitare le piazze.
Sudafrica, nascono i primi campi profughi Duemila vittime delle violenze sudafricane sono state trasferite in campi profughi. Con il sostegno dell’Onu, Pretoria intende trasferire in accampamenti vicini alla capitale 19mila immigrati finora raccolti, sotto la protezione della polizia, in chiese o municipi. Sabato scorso l’azione era fallita a causa della paura degli immigrati. Le organizzazioni umanitarie hanno pubblicato criticato il piano. Secondo dati delle forze dell’ordine, dall’inizio delle violenze, in Sudafrica vi sono stati 62 morti e 670 feriti.
Russia, ambiguità su Khodorkhovski In una dichiarazione anodina al quotidiano Le Monde, Vladimir Putin ha affermato che la sorte dell’ex capo della Yukos dipende dal presidente russo. Nel caso in cui il capo dello Stato intendesse ridurre o migliorare la pena di Khodorkhovski, e questo avvenisse dentro la legalità del Paese, il primo ministro non avrebbe nulla da dire. Prima delle elezioni Putin aveva dichiarato che in futuro lui non si sarebbe occupato più dell’ex miliardario in prigione.
Ulster, il dottor no getta la spugna A 82 anni la figura simbolo dell’ala dura degli unionisti irlandesi fa un passo indietro. Jan Pasley passa il testimone a Peter Robinson più moderato e pragmatico. Il cambio della guardia è stato annunciato da un discorso-testamento nel quale il fondamentalista battista, ha detto che «chi è morto non lo ha fatto invano. Il futuro porterà pace e libertà».
La scommessa irachena di Kouchner Il ministro degli affari Esteri di Parigi ritiene sia venuto il momento che le imprese francesi tornino in Iraq. Ricevuto, insieme alla sua delegazione, dal vice presidente della repubblica irachena, Adel AbdelMedhi, Kouchner ha dichiarato che «dopo svizzeri, tedeschi e cinesi è il tempo dei francesi»
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speciale
economia
NordSud
Cresce l’interesse per le nostre aziende. E se gli investimenti di Pechino aumentano anno dopo anno, le imprese del Belpaese faticano a imporsi nello scacchiere del Sudest asiatico
UN’AVANGUARDIA CINESE NEL MERCATO ITALIANO di Beniamino Quintieri ltre che per gli impressionanti tassi di crescita del Pil e delle esportazioni la Cina si sta imponendo come uno dei maggiori protagonisti nei flussi di Investimenti Diretti Esteri (IDE) sia in entrata sia in uscita. Di fatto con l’avvio dell’ “Open door policy”, formalmente annunciata nel 2001, la strategia di internazionalizzazione messa a punto dal governo Cinese ha puntato in maniera decisa sulla crescita degli IDE in entrata e su quelli in uscita. Il sentiero di sviluppo seguito dai due tipi di flussi ha visto un andamento piuttosto diverso. Se da un lato, infatti, l’andamento graduale delle riforme ha consentito sin da subito l’accesso di capitali esteri prevalentemente tramite IDE in entrata (cosa che ha portato la Cina a divenire in pochi anni il maggior Paese recipiente tra quelli in via di sviluppo e uno dei maggiori a livello mondiale), dall’altro, sebbene incoraggiati, gli IDE in uscita sono stati assoggettati a una regolamentazione più restrittiva che solamente negli ultimi anni ha registrato una maggiore liberalizzazione.
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Fonti cinesi hanno calcolato che alla fine del 2006 erano presenti nel Paese 590mila imprese straniere il cui contributo alle esportazioni cinesi che sfiorava il 60 per cento del totale. In termini di flussi nelle ultime tre decadi la Cina ha visto affluire circa 800 miliardi di dollari. Nel solo 2007 gli IDE in entrata sono stati pari a 83 miliardi di dollari, in aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. Mentre il massiccio afflusso di IDE in Cina viene ormai considerato un fenomeno consolidato, è la rapida crescita degli investimenti in uscita a costituire un elemento di novità nel processo di integrazione economi-
grazie all’ingresso nel Wto del 2004, alla spinta della strategia annunciata del “Going out” e alla nascita del fondo sovrano China Investment Corporation, forte di una dote di 200 miliardi di dollari, che si è osservato il forte balzo in avanti della presenza di investitori stranieri sui mercati esteri. La politica del “Going out” ha determinato un mutamento a livello burocratico diretto verso un rilassamento delle procedure di approvazione degli IDE in uscita, che ne ha favorito una maggiore diffusione tra le imprese private.
Si è anche registrato un mutamento nell’obiettivo strategico: dalla prevalenza di motivazioni politiche, si è passati a motivazioni più puramente commerciali con una maggiore attenzione rivolta anche alla promozione di cosiddetti “campioni nazionali”, ovvero di imprese multinazionali capaci di competere a livello globale nei settori in cui operano. Uno dei maggiori obiettivi pubblicizzati di recente dal governo è, infatti, quello di posizionare almeno 50 imprese nella lista Fortune 500 entro il 2010. Le motivazioni degli IDE cinesi sono varie: vanno dalla necessità di stabili forniture di risorse naturali e materie prime all’acquisizione di grandi marchi conosciuti a livello globale e di tecnologie avanzate per migliorare tecniche produttive e qualità dei prodotti, fino alla ricerca di reti distributive per rafforzare il posizionamento dei propri prodotti all’estero. Obiettivo, questo, che si sta perseguendo anche attraverso l’acquisto di fabbriche in declino, utili per far da trampolino sui mercati del Vecchio continente. Un aspetto recente degli IDE cinesi all’estero che presumibilmente acquisirà sempre maggiore rilevanza in futuro riguarda il settore finanziario. Nel 2006, senza troppo clamore, i flussi di IDE delle società finanziarie cinesi hanno raggiunto dimensioni significative (3,5 miliardi di dollari, dei quali 2,5 per il solo settore bancario) mentre gli stock investiti all’estero dalle banche cinesi erano pari a 12,3 miliardi di dollari. Nel 2007, poi, si è assistito a una vera e propria esplosione della presenza di banche cinesi all’estero e i dati, ancora provvisori, indicano un flusso di IDE che dovrebbe superare i 10 miliardi di dollari. L’Italia pur essendo uno dei principali Paesi industrializzati e pur detenendo quote di mercato importanti nel commercio internazionale, per diverse e ben note ragioni non riesce a giocare un ruolo importante negli IDE mondiali sia quanto a presenza di imprese multinazionali sia come attrattore di investimenti dall’estero. In questo contesto ancora più sottodimensionati appaiono i flussi di IDE con la Cina. Anche se è lecito prevedere una forte espansione in futuro, sono solo poche decine le imprese cinesi presen-
Alla base dell’espansione una potenza di fuoco da 1.500 miliardi di dollari ca cinese. Anche se in termini quantitativi il fenomeno è ancora relativamente contenuto, almeno in rapporto al Pil cinese, è la velocità con la quale esso si sta manifestando ad attirare l’attenzione e a far pensare che in un breve lasso di tempo la Cina diventerà uno dei maggiori investitori sui mercati esteri. Questo tipo di evoluzione può essere considerata naturale in un Paese che cresce tanto rapidamente, che ha accumulato un impressionante surplus commerciale con l’estero, che registra tassi di risparmio enormi (oltre il 40 per cento del Pil) e una disponibilità di riserve ufficiali vicina ai 1500 miliardi di dollari. Ma è
ti oggi in Italia, un numero notevolmente inferiore a quello osservato negli altri tre principali paesi europei. Per quanto riguarda gli IDE italiani in Cina secondo i dati dell’Unctad il nostro Paese si colloca al diciassettesimo posto, ben dietro in termini di valori dei flussi a Germania, Francia e Regno Unito. In passato, infatti, le nostre piccole e medie imprese hanno preferito, anche grazie alla maggiore vicinanza geografica, i Paesi dell’Est Europa e soltanto negli ultimi tempi si manifestano più incoraggianti segnali di una maggiore volontà di cogliere le opportunità offerte dal mercato cinese. Nel complesso sono circa 1500 le aziende italiane operanti in Cina (Hong Kong esclusa) con una presenza diretta. Questa può assumere diverse forme quali ufficio di rappresentanza, ufficio acquisti, show room, ufficio vendite, centro servizi con partner locale, Wfoe, produzione in loco, ect. La maggior parte delle imprese italiane ha scelto la formula dell’Ufficio di rappresentanza per presidiare il mercato cinese. Peculiare, per quanto riguarda invece le operazioni italiane con unità produttive, risulta essere la tipologia di investimento adottata se comparata con le percentuali degli altri paesi. Se infatti, in media gli investimenti esteri in Cina risultano essere equamente suddivisi tra joint ventures e progetti a totale partecipazione straniera, le iniziative italiane registrano una prevalenza della prima categoria. All’interno della quale risultano wpreponderanti i progetti a maggioranza di capitale cinese (54 per cento), seguiti da quelli nei quali la quota di controllo è italiana (27) e da quelli paritetici (il restante 19).
Il 75 per cento degli investimenti italiani è effettuato da aziende medio-grandi, mentre soltanto il 15 è ascrivibile alle Pmi. Dal punto di vista settoriale, gli investimenti italiani sono abbastanza diversificati, con quote comunque significative per i settori dell’automotive, della meccanica, della chimica e del tessile. In netto sviluppo la presenza di banche, società di spedizione, studi legali e di consulenza. Un importante dato risulta poi essere la concentrazione geografica delle iniziative italiane all’interno del territorio cinese: oltre il 75 per cento degli investimenti sino a ora effettuati riguardano solo 5 su un totale di 31 Province nel Paese. Tutte situate nella fascia costiera e precisamente Shanghai, Jiangsu, Shandong, Hebei e Tianjin. Nel complesso, tuttavia, le attività italiane hanno una presenza in 25 Province. Commissario generale per l’Expo 2105 e professore ordinario di Economia politica dell’università di Roma Tor Vergata
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balizzazione. L’Hisense è leader degli schermi al plasma per televisori, è la prima ad aver lanciato un nuovo display per cellulari a basso consumo energetico con tecnologia Qualcomm. In teoria sarebbe una concorrente di Haier negli elettrodomestici, ma dopo l’accordo con l’americana Whirpool si è concentrata sul mercato interno cinese. Produce ogni anno 11 milioni di televisori, 8 milioni di climatizzatori d’aria, 4,7 milioni di telefoni cellulari, 1,8 milioni di frigoriferi e congelatori, un milione di computer e apparecchi digitali ed è presente in oltre 90 Paesi. In Italia c’è da quattro anni e vende climatizzatori, televisori lcd e frigoriferi.
i chiamano Huawei, Haier, Temax, Minmetals, Hisense e Cosco. Sono solo alcuni nomi delle decine di aziende cinesi che hanno investito nello Stivale. Esattamente sono 77 le imprese dell’Impero di Mezzo, come riporta il Sole 24Ore, che hanno deciso di scommettere sul mercato italiano. E non investono soltanto per conquistare spazi di mercato o per “parcheggiare” la tanta liquidità accumulata in questi anni. Ancora più strategico è “assorbire” tecnologia da sviluppare a casa propria. A volte migliorandola. O copiandola, come malignano le imprese sorprese dall’aggressiva concorrenza del Sudest asiatico. Illustra bene il quadro Pietro Modiano, direttore generale di IntesaSanpaolo, che un anno e mezzo fa ha lanciato il fondo Mandarin per facilitare gli scambi tra i due Paesi: «C’è molto interesse da parte
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Cosco, Huawei e l’attivismo dei colossi che non badano a spese
La banda dei 77 a caccia di affari di Pierre Chiartano concorrenza, le grandi commesse sono decise a livello governativo». E in Italia, a livello governativo, nessuno ha storto mai il naso di fronte alla Cosco, forse la più conosciuta tra le aziende presenti da noi. Le merci le prende, non per copiarle ma per trasportarle da un punto all’altro del globo: un nome molto frequente sui container a bordo dei cargo, sui tir lungo le au-
Si “comprano” nuovi spazi di distribuzione e tecnologia da sviluppare poi in patria della Cina verso l’Italia, ma non c’è la fila delle imprese italiane per andare in Cina». Spiega la sproporzione Stefano Manzocchi, ordinario di Economia internazionale della Luiss: «Forse perché il mercato cinese è più difficile del nostro: c’è un concetto diverso di
tostrade e sui treni merci. Ma Cosco non è l’unica e neanche la prima ad aver messo radici da noi. La Temax è un’azienda a capitale statale cinese costituita a Milano nel 1991. È il braccio italiano della China general technology holding, il canale attraverso
cui Pechino importa tecnologia impiantistica e meccanica. Dal 2001 fa parte di Genertec un gigante dell’import/export che sviluppa circa 7 miliardi di dollari di fatturato. Una grande spugna che si impregna di know how in mezzo mondo, per poi strizzarlo in patria e riesportare i prodotti di questa trasfusione col marchio China export.
La Huawei technologies, invece, produce dispositivi per telecomunicazione e soluzioni di rete a basso costo.Tra i suoi clienti spiccano Telecom Italia, H3g-3 Italia, China telecom, China mobile, Telemar Brasile, Rostelecom Russia, tanto per citarne alcuni. È stata fondata da un ufficiale dell’Esercito popolare cinese nel 1988 a Shenzen. Lo scorso inverno ha perfezionato con Telecom un accordo per sviluppare tecnologie sui cellulari a banda larga, ma potrebbe avere un ruolo nella costruzione della Ngn che manca in Italia. Torino sarà per l’azienda sede di un centro per l’innovazio-
ne tecnologica, il Mobile innovation center. La Haier, altro colosso industriale, realizza elettrodomestici e ha appena finito di fare shopping dalle parti di Pordenone. Sta per lanciando una nuova linea di prodotti in Europa, sfidando marchi leader del mercato come Bosch e Candy. Il fatturato? Solo 27 miliardi di dollari. La Quinjiang motor ha invece comprato, un paio d’anni fa, dalla famiglia Merloni la Benelli, noto marchio di ciclomotori in via di liquidazione. Operazione da 6 milioni di euro più il completo trasferimento del debito, circa 50 milioni di euro, in mani cinesi. La Quinjiang ha 12mila dipendenti e una capacità produttiva annua di 1.200.000 motocicli. L’elenco degli“invasori”con gli occhi a mandorla, armati di valigetta ventiquattrore e chiave inglese, è ancora lungo e le fabbriche italiane ora gestite dai cinesi spesso hanno manovalanza straniera: rumeni, ucraini e africani intenti a costruire, in Italia, gli strumenti del benessere delle famiglie europee. Un vero paradigma della glo-
Spesso le operazioni d’acquisizione nel Belpaese sono in perdita, proprio perché servono a conquistare marchi e posizioni sui mercati. La grande liquidità finanziaria fa il resto. La storia della China ocean shipping company è forse la più nota. Aveva investito sul porto di Gioia Tauro pronta a rivaleggiare con la storica concorrente, la taiwanese Evergreen. La classifica di Fortune 500 la vede al terzo posto alla voce shipping, dopo Møller-Mærsk group e Nippon Yusen. Un fatturato di poco superiore ai 15 miliardi di dollari. L’interesse della Cosco per un porto nel Mediterraneo è facilmente intuibile. Con il traffico marittimo in crescita esponenziale – dal 2004 al 2015 dovrebbe aumentare di circa il 90 per cento – e il traffico per la costa orientale degli Usa che intasa il canale di Panama, Suez sembra essere tornato in auge come alternativa nonostante l’allungamento di percorso. Infatti per Gioia Tauro, che è una delle sponde europee di Suez, il 2007 è stato l’anno della riconquista della leadership mediterranea del traffico merci, con 3,5 milioni di Teu (l’unità di misura container, ndr). Ai cinesi servono sempre più navi per inviare i propri prodotti sulla costa atlantica americana, oltre che per il trasporto di gas e idrocarburi. Ma anche l’Europa è entrata nel mirino asiatico. È dallo scorso anno che molti altri porti italiani hanno acceso l’interesse delle società cinesi. La Cosco sta investendo nel porto di Napoli tramite la Conateco, controllata con l’armatore italo-svizzero Gianluigi Aponte (Msc). È interessata anche a GenovaVoltri, Salerno e Ancona. Insieme con Hutchison Wampoa del tycoon di Honk Kong amico di Pechino, Li Ka Shing (tra l’altro proprietario della 3) avrebbe allo studio altri obiettivi, tra i quali il Pireo, Salonicco e Macao. L’Italia potrebbe essere giusto il tassello mancante nel network cinese dei trasporti, della penetrazione del mercato europeo e dell’acquisizione del knowhow strategico. Dove altrove sono state alzate barriere e difese strategiche all’invasione cinese.
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Adolfo Guzzini racconta la scommessa del suo gruppo e le difficoltà del Belpaese in Far east
«Impariamo dalla Merkel» colloquio con Adolfo Guzzini di Francesco Pacifico e gli imprenditori italiani si mostrano sempre più restii a investire in Cina, Adolfo Guzzini e la sua famiglia guardano con decisione all’est del mondo. La iGuzzini – 227 milioni di fatturato, di cui il 71 per cento dall’export, e tra i leader mondiale nel campo dell’illuminazione architetturale – ha aperto uffici commerciali a Pechino, Hong Kong e Shangai, e, soprattutto, un impianto produttivo a 35 chilometri da Shangai di 10mila metri quadri, che dà lavoro a 130 tecnici locali. A guidarlo è Massimiliano Guzzini. «È lì da due anni e mezzo. Siccome l’investimento non serve soltanto per recuperare mercato, ma anche per portare know how, la nostra famiglia ha voluto che fosse uno di noi a impegnarsi in questa avventura». Presidente Guzzini, al 2007 le iniziative imprenditoriali italiane in Cina erano 348, pari a 347 milioni di dollari. Un po’ poco. Certo, non sono molte. E non tutte riguardano investimenti importanti. Ma una grossa spinta è stata data dalle missioni all’estero di Confindustria organizzate con il governo: molte aziende scelgono la Cina come piattaforma di localizzazione per i mercati del Far east, che nonostante tutto continuano a segnare una crescita estremamente elevata del Pil. Quanto avete investito? In tutto sei milioni di euro. Le attività commerciali sono in funzione da due anni, lo stabilimento produttivo dal primo maggio dell’anno scorso. Queste strutture sono controllate al cento per
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Molti suoi colleghi lamentano vere e proprie truffe dopo aver stretto joint venture con partner locali. Certo, per alcuni ci sono state difficoltà. Noi invece abbiamo preferito affrontare la start up da soli, per essere liberi di muoverci con il nostro know how. Si è dimostrato poi utile farsi accompagnare dalla Simest, la società del ministero dello Sviluppo per gli investimenti extra Ue, in modo da avere nel capitale una presenza istituzionale nella fase di relazioni bilaterali. Perché l’investimento è stato importante sul versante del know how? In Cina gli standard qualitativi devono essere gli stessi che segue la iGuzzini in Italia. Ma realizziamo prodotti ad hoc per i nuovi mercati del sudest asiatico, con prestazioni diverse dalle nostre, perché c’è una differente cultura della luce. Bilancio? A oggi è stata un’esperienza molto positiva in termini di commercializzazione e produzione. L’obiettivo per il 2007, un fatturato di 5 milioni di euro, è stato raggiunto.
Adolfo Guzzini
Deve muoversi il sistema Paese, governo e grandi imprese, per aiutare i piccoli cento da noi e guidate da nostri manager, che risiedono sul posto. Difficile dialogare con la burocrazia? Agli stranieri si richiedono standard sempre più elevati, più restrittivi di quelli italiani, mentre per le imprese locali è consentita una maggiore elasticità. Noi non abbiamo avuto alcun problema di sorta: in 14 mesi siamo partiti con il sito produttivo. In Italia ci vuole il doppio del tempo. Appunto, li conosciamo i tempi della nostra burocrazia. Per raddoppiare la nostra logistica – ed è già stato individuato il sito – stiamo aspettando tra una cosa e l’altra l’autorizzazione da cinque mesi.
Un’esperienza totalmente positiva? I problemi non mancano. Partendo dalla lingua. Ma chi va in cerca di mercati, deve affidarsi a preparate società di consulenza. E ce ne sono di italiane e internazionali che conoscono le leggi, le criticità e gli stili di vita cinesi. È un mercato da 80 milioni di ricchi. Chiariamoci: un vero mercato interno, in questo Paese, si sta creando soltanto ora. Distributori efficienti ce ne sono pochi – noi, i nostri commerciali, li formiamo direttamente –, i grandi centri commerciali o i department store si stanno sviluppando con molta professionalità. Ed è un mercato esigente: non si vendono soltanto prodotti, ma anche servizi. Servizi? Noi lavoriamo su un segmento di mercato alto, per esempio per le opere fatte dai
maggiori architetti del mondo, proponendo soluzioni di illuminotecnica che tengano conto dell’efficienza e del risparmio energetico. Prima di riuscire a vendere i prodotti, c’è tutto questo lavoro. E non è detto che basti. Avete subito contraffazioni? Sì, ma ricordiamoci che anche l’Italia è tra i maggiori produttori di falsi. La Cina si sta sensibilizzando sul problema. E cause come quella vinta dalla Ferrero sono segnali estremamente importanti. Perché l’Italia investe in Cina meno di un terzo della Germania? Manca il sistema Paese. La prima volta siamo andati lì accompagnati dal presidente della Repubblica. Eppure sarebbe necessario che queste missioni venissero preparate direttamente da Palazzo Chigi. Consigli? Sono felicissimo che il premier abbia delegato Luca Cordero di Montezemolo per la diffusione del made in Italy, ma per creare una reale capacità contrattuale, è necessario che sia lui a guidare le delegazioni e a firmare le intese sugli investimenti e gli scambi, come hanno fatto la Merkel, Chirac o Bush. Molti criticano l’azione di ambasciate, Ice e banche. L’ambasciatore a Pechino, Riccardo Sessa, sta facendo benissimo, è molto vicino ai problemi dell’economia. L’Abi ci aiuta, anche se le banche italiane non sono ancora presenti in Cina in maniera massiccia. La stessa Ice sta facendo la sua parte, ma la farebbe con più risorse se, al posto degli uffici nelle province italiane, aprisse satelliti nelle città, anche minori, di Paesi emergenti. Però… Però? Sono importanti soprattutto le missioni all’estero, nelle quali si muove in maniera sinergica tutto il Sistema Paese per aprire nuovi spazi ad ambiti all’avanguardia come il design, la moda, la tecnologia e l’architettura. Che da sola porta con sé 50 o 60 settori del made in Italy. Tornare alla filiera? Appunto. Grazie a Dio, abbiamo ancora aziende di grandissima importanza come la Fiat, l’Eni, l’Enel o Finmeccanica. E il know how di esperienza di realtà vitali e di notevoli dimensioni, come la Piaggio, le Ferrovie, i gruppi dell’edilizia e della progettazione impiantistica e tecnologica come la Maire Tecnimont o l’interporto di Nola di Gianni Punzo per la logistica. L’importante è mettere dietro a questi grandi nomi i filoni del made in Italy, far sì che non si muovono slegati dal resto del Paese. In definitiva, perché investire in Cina? Hanno una grande voglia di crescere. Il motto voluto dal governo è «Dovete lavorare per arrichirvi». È gente con un sangue più fluido del nostro.
i convegni ROMA martedì 3 giugno 2008 Palazzo della Fao Al via i lavori della ”Conferenza ad alto livello sulla sicurezza alimentare: le sfide del cambiamento climatico e della bioenergia”, promossa dalla Fao. Interverranno Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica italiana; Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite; Nicolas Sarkozy, presidente francese; Luiz Inacio Lula da Silva, presidente del Brasile; José Luis Rodriguez Zapatero, primo ministro spagnolo. ROMA mercoledì 4 giugno 2008 Parco dei Principi Si tiente il VII Forum sulle telecomunicazioni. Sono attesi, tra gli altri, Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; Paolo Romani, sottosegretario allo Sviluppo Economico; Franco Bernabè, amministratore delegato di Telecom Italia; Paolo Bertoluzzo, Ad di Vodafone Italia; Luigi Gubitosi, Ad di Wind-Infostrada; Vincenzo Novari, Ad di 3 Italia; Stefano Parisi, Ad di Fastweb; Mario Rosso, Ad di Tiscali. MILANO giovedì 5 giugno 2008 Palazzo della Triennale Si fa il punto su uno dei settori più dinamici del Made in Italy all’assemblea generale dello Smi Sistema Moda Italia. Apre i lavori Paolo Zegna, imprenditore del settore e vice presidente per l’internazionalizzazione di Confindustria. Tra gli altri, interverrà Giuseppe Morandini, presidente della Piccola e media industria di Confindustria. S. MARGHERITA LIGURE venerdì 6 giugno 2008 Grand Hotel Miramare I Giovani imprenditori di Confindustria dedicano il loro convegno annuale al tentativo di riformare i contratti. Con il presidente Federica Guidi, tra gli altri, discutono Mario Moretti Polegato, Alessandro Profumo, Renata Polverini, il ministro Renato Brunetta e Alberto Quadrio Curzio.
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Mosse e ambizioni di Chen Yuan, numero uno di China development bank
Il grande timoniere della svolta finanziaria di Pierre Chiartano
MERCATO GLOBALE
Alla periferia della Germania di Gianfranco Polillo
atterrato nella City, l’inverno scorso, entrando dalla porta principale della Barclays, per aiutarli nello shopping su Abn Amro. Operazione che fatto uscire dalle tasche cinesi circa 2,2 miliardi di euro. Un bel cambiamento dopo il controverso progetto delle dighe sullo Yangtse, che avevano scatenato gli ambientalisti di ogni specie. Chen Yuan è il governatore della China development bank (Cdb), ne sentiremo sempre più spesso parlare. Azienda di Stato che si vorrebbe trasformare in merchant bank, più prosaicamente è una banca di sviluppo finanziata da un fondo sovrano, il China investment corporation, sempre a caccia di buoni affari. L’ultima iniezione di liquidità risale al dicembre 2007, con un obolo di circa 20 miliardi di euro.
È
Chen, una carriera tutta all’interno del Partito comunista cinese, è figlio di un gerarca del Pcc – oppure «eroe della rivoluzione maoista» – Chen Yun, conservatore e nemico delle riforme. Ora, dal ponte di comando della Cdb, si è rifatto una verginità “liberoscambista”, a favore della globalizzazione e di alcuni cambiamenti nelle regole del Wto. Sarebbe interessante sapere quali. Qualche giorno fa – ospite dell’Aspen institute e interlocutore di Giulio Tremonti – è sbarcato in Italia per annusare l’aria, tastare il terreno per nuove opportunità finanziarie e vedere se la parola «fondo sovrano» incute ancora timori. In realtà in Italia la Cdb aveva già chiuso un accordo con Imi-San Paolo nel 2006. Riguardava il
fondo di private equity, Mandarin, per aiutare le piccole e medie imprese ad avere un accesso al credito a tassi convenienti anche in Cina. E con un’ambizione in più. Convincere gli imprenditori cinesi a investire in Italia. Durante la presentazione a Firenze, lo scorso del 21 maggio scorso, del fondo agli investitori toscani – alla presenza di Cesare Romiti come presidente della fondazione Italia-Cina – Lorenzo Stanca, managing partner di Mandarin, ha spiegato perché l’Italia è strategica per Pechino: «Soltanto l’acquisizione di marchi e di competenze in materia di sviluppo e marketing dei prodotti può consentire alle aziende cinesi di venire fuori dalla trappola del terzismo». Ma rispetto agli standard di una banca di sviluppo, le opera-
zioni estere sembrano finalizzate ad acquisizioni prestigiose per fare entrare la Cina nei salotti buoni della finanza. Importante al riguardo la recente l’alleanza con l’inglese Anglo American, specializzata nel settore minerario che possiede la De Beers, leader globale nel mercato dei diamanti. In cantiere, inoltre, c’è l’acquisizione di quote della nigeriana United bank for Africa, una delle più grandi dell’Africa occidentale.Tanto per restare nel cortile dei Paesi produttori di petrolio. In Europa Chen è venuto anche per proseguire gli abboccamenti con il gigante mondiale del credito Citigroup. Sempre a caccia di denaro fresco per lenire le ferite delle perdite causate dalla crisi dei subprime. Dopo aver aperto ai fondi sovrani di Kuwait e Singapore Citi sta trattando anche con Cdb. «Sarà un accordo industriale per entrare nel mercato cinese», ha precisato il nuovo amministratore Vikram Pandit.Tanto per tranquillizzare i politici di Washington dopo lo strepitus, emerso in campagna elettorale, sul rischio che un asset strategico finisse in mani straniere, soggette a un controllo “politico”.
Il governatore della Cdb è convinto che il dollaro debole e l’eccesso di circolante negli Usa sia la causa dell’inflazione mondiale. Sul decollo dei prezzi nel settore alimentare, per lui, la Cina non avrebbe colpa. «Siamo autosufficienti nell’agroalimentare», ha affermato in una recente dichiarazione. Tanto per capire di chi stiamo parlando, occorre ricordare che la banca è nata per finanziare progetti di grandi infrastrutture in Cina. «Per supportare il processo d’urbanizzazione e modernizzazione del Paese» per accelerare la transizione di Chung Quo (Impero di mezzo) da società rurale al paradigma urbano, che in Occidente tanto spaventa e comincia a essere riconsiderato. E sono in ritardo, secondo la visione del “grande timoniere” dello sviluppo: soltanto il 40 per cento della popolazione è urbanizzata (dati 2003) contro il 70 per cento dei Paesi sviluppati. La crescita dell’industrializzazione ha superato quella dell’urbanizzazione e questa asimmetria potrebbe causare qualche problema, come la mancanza di manodopera qualificata e una flessione della domanda interna. I consumi crescono in città, non nelle campagne. Ragion per cui lo strabismo della Cdb potrebbe essere funzionale a una ricerca fuori dai confini nazionale di quegli elementi per riequilibrare lo sviluppo interno. Ma creare 16 milioni di posti lavoro all’anno, per mantenere la pace sociale non è un compito semplicissimo. L’Europa potrebbe quindi diventare un elemento funzionale a questi meccanismi, naturalmente cedendo parte della propria indipendenza economica.
un’Italia divisa, o meglio ferita, quella che fotografa il Rapporto Istat. E lo confermano i dati più generali dell’evoluzione europea. Nel primo trimestre 2008 il Pil italiano, in termini tendenziali, è cresciuto solo dello 0,2 per cento contro il 2,6 tedesco e il 2,2 francese. Il divario, storico, con il resto dell’Europa è quindi ulteriormente aumentato, determinando una divaricazione territoriale impressionante.
È
Quel poco di sviluppo che c’è stato, si concentra nel Nordest e lambisce appena l’Italia centrale. Un numero limitato di imprese – circa il 25 per cento del totale – che esporta beni e prodotti, sulla spinta di una domanda estera che, seppure meno intensa rispetto al 2006, è in grado di garantire un equilibrio con i conti esteri. Il merito è soprattutto della Germania, rispetto alla quale l’economia del Triveneto è sempre più complementare. Al punto che non è azzardato parlare ormai di una macroregione, almeno dal punto di vista produttivo, che si proietta a cavallo delle due nazioni. Grazie a questo magnete, l’economia italiana riesce a far fronte, dal punto di vista macroeconomico, alla pressione derivante dalle maggiori importazioni di petrolio, materie prime e prodotti alimentari. I cui prezzi, in continua crescita, alimentano un’inflazione perniciosa che colpisce soprattutto la povera gente. Nei primi tre mesi del 2008, le esportazioni nette di beni e prodotti industriali sono aumentate di circa 4 miliardi, compensando, in tal modo, l’analogo aumento intervenuto in bolletta petrolifera. Ma alla lunga lo squilibrio tra un Nord che si sviluppa, seppure a un ritmo inferiore al passato, e il resto del Paese, che non riesce a stare al passo, non può dura-
re. Nasce da questa contraddizione l’esigenza di ricostruire una politica nazionale che guardi alle aree rimaste indietro per reinserirle nel circuito dello sviluppo, irrobustendone lo spessore. Problema economico. Ma soprattutto politico. Non si dimentichi che il Mezzogiorno ha dato un contributo determinante alla vittoria di Silvio Berlusconi, che in questa parte del Paese ha conquistato quasi il 50 per cento dei suffragi. Se fallirà il progetto di unificazione, vi saranno inevitabili contraccolpi politici sullo stesso governo. Specie quando si tratterà di discutere del federalismo fiscale e di come riorganizzare le basi dello Stato centrale. Se la discussione avverrà in un contesto di ripresa generale, le soluzioni si mostreranno più semplice. Ma se il dualismo dovesse approfondirsi, allora, ogni possibile mediazione diverrà più difficile e faticosa.
Che fare, quindi, per scongiurare un simile pericolo? Occorrerà porre grande attenzione ai tempi di discussione e sincronizzarli con il tema della ripartizione delle risorse del nuovo quadro comunitario. Grazie all’Europa saranno presto disponibili oltre 120 miliardi per gli investimenti. Che non dovranno essere sprecati, come fin’ora è avvenuto, in una politica delle mance. Ma dovranno essere impegnati in pochi progetti, in grado di diventare volano per l’intera economia nazionale. Non è una missione impossibile, ma bisogna cominciare a pensarci fin da ora. Guardando oltre il canale di Suez. Si vedrà allora che la Cina ha un interesse oggettivo a fare dell’Italia la base logistica per il commercio tra Nord e Sud del mondo. Come si evince dai copiosi flussi di investimenti che dalla Tigre asiatica si riversano, fin da ora, in Italia.
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economia
I tanti avvertimenti dietro l’ottimismo del Governatore anto tuonò che piovve! Enorme, sabato 31 maggio, l’attesa per l’annuale orazione del governatore Mario Draghi: la terza dopo l’addio (con strascichi giudiziari) di Antonio Fazio. Dalle boiseries di via Nazionale erano filtrati ai giornali annunci di colpi di frusta all’intero “sistema italiano”, alle prese con un difficile momento: stagnazione produttiva e dei consumi aggravata da tensioni inflazionistiche, spesa pubblica allergica a ogni contenimento che genera una pressione fiscale su famliglie e aziende al top europeo. Record per nulla glorioso.
T
Invece, al termine del discorso, il dominus della Banca d’Italia è stato sommerso dagli applausi. Tutto consenziente, l’establishment. Sorridente financo Corrado Faissola, presidente dell’Abi, nonostante il richiamo alla categoria: «più trasparenza e correttezza!». Entusiasti il premier Berlusconi (in ossequio alla tradizione non presente in aula), e i leader confindustriali da Emma Marcegaglia a Luca Cordero di Montezemolo; mentre gli esponenti del veltroniano governo ombra di Cisl e Uil, sia pure pacatamente, condividono le analisi. A bocce ferme, è doverosa una riflessione su come il Governatore sia riuscito a compiere questo capolavoro in cui la concordia (almeno apparente) fa premio sulle divisioni, gli
politico s’è ingegnato a dilapidare. Che esista qualcuno titolato a scagliare la prima pietra contro lo Stato-sprecone (Regioni e Comuni inclusi), è peraltro dubbio. Industriali e banchieri invocano contenimento fiscale, produttività, rigore salariale e pensionistico.Vogliamo considerare il trattamento milionario che si autoriservano persino quando le loro aziende, private o pubbliche, viaggiano in deficit? Quanto alla meritocrazia vi è di che durre; riscoprire le vie virtuose dubitare, sfogliando l’album della produttività e della meri- delle Dinastie familiari, partititocrazia; scuola e ricerca da che, accademiche; riflettendo riformare e potenziare pen- sullo strapotere del sindacato. sando alle giovani generazio- Il consenso raccolto da Draghi, va dunque immediatamente deni. Chi potrebbe obiettare? clinato nel fare, affinché non fiTuttavia, dal dire al fare… nisca sul pavé delle buone inEsempio d’attualità, il caro pe- tenzioni di cui è lastricata la trolio. Tutti sappiamo che l’1,5 strada che porta all’Inferno del euro pagato per il litro di ben- declino. Il tracimare degli apzina va per il 70 per cento allo plausi genere perplessità in asStato e il resto ai petrolieri. Ov- senza di autocritica da parte di vero 1,05 all’erario e 45 cente- un establishment che qualche simi a produttori, raffinatori, responsabilità pregressa ha pudistributori. Chi è più esoso? re da averla. Una volta o l’altra si dovrà ri- Inoltre, non è stato precisato da conoscere che in questi anni quale parte si comincia con le l’inflazione ha ingrassato prin- riforme. Graduali finché si vuole cipalmente il fisco, creando ma non a babbo morto; e aggrequei tesoretti che il generone dendo la spesa pubblica. Senonché nelle stesse ore il GoverCORRADO no stanziava 300 FAISSOLA milioni per l’enneAnche il leader simo salvataggio dell’Abi del carrozzone plaude alle Alitalia, a spese Considerazioni del contribuente e del Governatore infischiandosi delnonostante le perplessità delle critiche l’Unione europea. di Bankitalia Qualcuno, a Palazal mondo zo Chigi & dintordel credito ni, potrebbe avere per la scarsa già spedito in softrasparenza fitta la lectio magistralis!
La linea di credito di Draghi all’Italia di Giancarlo Galli
MARIO DRAGHI Il Governatore guarda con favore all’attuale livello di stabilità politica. Ma governo e sindacati, dopo il prestito ponte per Alitalia, saranno in grado di rispondere ai suoi inviti?
spesso divaricanti interessi. Il primo pilastro è da individuare nella «stabilità politica su cui costruire una ripresa duratura, attraverso un impegno comune». Senza giri di parole: la Banca d’Italia è convinta che l’attuale maggioranza di governo sia solida e destinata a durare. Assoluta novità nel panorama politico da troppe legislature caratterizzata da governi appesi a un filo sempre sul punto di spezzarsi. Tale convincimento ha indotto il Governatore a privilegiare la bacchetta del buon maestro al bastone, un morbido frustino allo scudiscio. Anteponendo l’ottimismo della volontà al pessimismo della realtà. Seb-
bene l’Italia sia divenuta il fanalino di coda dell’Eurozona, ha sostenuto che abbiamo le potenzialità per riprenderci. Risollevando la schiena, gettati dallo zaino tanti pesi inutili per recuperare le posizioni perdute sulla scena internazionale. In linguaggio bancario, e Draghi è un Banchiere con la maiuscola, ne discende che col
Per Bankitalia il Paese può risalire la china soltanto a patto di tagliare la spesa, aumentare la produttività e riformare la scuola suo discorso – apprezzato, per quel che è dato sapere, anche al Quirinale e in Vaticano – ha aperto una “linea di credito”all’intera classe dirigente ponendo però condizioni ed esigenti garanzie affinché questo credito venga onorato e non disatteso o peggio. Ed eccoci al secondo pilastro del Draghi-pensiero. Al medico che diagnostica, impietoso, spesa pubblica e tasse da ri-
economia
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Il settore lamenta forti perdite per il caro petrolio e chiede ingenti aiuti di Stato sul modello francese
Pesca, nuovo fronte tra Zaia e la Ue d i a r i o
di Giuseppe Latour
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ROMA. Il caropetrolio miete in Eu-
Eurogruppo: ok alle misure di Tremonti
ropa un’altra vittima: la pesca.Tanto che si diffuso a macchia d’olio quello sciopero generale partito nei giorni scorsi dai porti spagnoli di Barcellona e nell’area di Cadice e che venerdì scorso è iniziato anche in Italia. Agitazione che, dicono le sigle coinvolte, «almeno fino a quando non incontreremo il ministro Zaia». Fino a quando anche l’Italia non metterà in campo aiuti di Stato, circa 300 milioni, come quelli francesi. Il responsabile delle Politiche agricole ha annunciato che «sta per essere definito un pacchetto di misure a sostegno dei pescatori. Le misure saranno presentate nel corso di una riunione che si terrà nei prossimi giorni». Dopo le quote latte, un altro dossier non meno impegnativo per Zaia. Perché oltre al problema congiunturale del costo del gasolio, e ai paletti della Ue sugli aiuti di Stato, a minare il giro d’affari dei pescherecci c’è una crisi strutturale. Per questo, il piano d’azione da mettere a punto non può che essere di lungo periodo.
Via libera dall’Eurogruppo al piano di politica economica – manovra da 10 miliardi per il 2009 con taglia spese anticipato a luglio e detassazione degli straordinari – presentato da Giulio Tremonti. Il quale ha promesso di raggiungere l’azzeramento del deficit entro il 2011. I ministri economici Ue hanno consigliato all’Italia un taglio annuo della spesa dello 0,5 per cento. Tremonti ha anche rivelato che l’accordo sui mutui raggiunto in Italia con l’Abi sui mutui «ha suscitato l’interesse» di alcuni suoi colleghi.
Le sigle al centro della trattativa – Federcoopesca-Confcooperative, Agci Agrital, Lega Pesca e Unci Pesca – hanno richiesto tre blocchi di interventi: soluzioni tampone per arginare l’emergenza, nel breve periodo, fondi aggiuntivi dall’Ue per contenere la crisi, nel medio, e, per il lungo periodo, interventi strutturali per rilanciare la filiera ittica. È questa l’unica formula per venire a capo di una «situazione insostenibile, non solo per gli operatori italiani, causata dal caro gasolio». Aggiungono infatti i presidenti delle associazioni di settore: «È una strada che richiede un impegno comune della Ue e dei Paesi membri e che anche il ministro, Luca Zaia, sembra intenzionato a seguire, avendo annunciato un’iniziativa comune italo-francese per ottenere risorse aggiuntive». Su questo fronte, il primo obiettivo è portare soldi al comparto, sul modello della Francia, dove sono piovuti sui porti circa 300 milioni di euro senza che la Ue minacciasse sfraceli. Il secondo obiettivo è raddoppiare la soglia degli aiuti de minimis autorizzati per ciascuno Stato. Per l’Italia si tratterebbe di duplicare i circa 100 milioni di euro di aiuti complessivi autorizzati per il settore: la metà dovrebbe essere pagata dallo Stato membro, l’altra metà dall’Europa. L’attuale normativa europea prevede la concessione, a ogni azienda,
Sacconi: alta la spesa previdenziale Sul ritornare allo Scalone Maroni Maurizio Sacconi ha ancora tanti dubbi. Ma il ministro del Lavoro è convinto che, di fronte alle pensioni che assorbono «il 60 per cento della spesa sociale, questa percentuale vada riequilibrata a favore di educazione, formazione e lavoro attivo. Ed è quello che il governo intende fare». L’esecutivo studia misure destinate alle donne per il sostegno alla natalità e alla cura dell’infanzia e per conciliare lavoro e famiglia. Il ministro ha poi annunciato modifiche per quanto riguarda gli assegni di disoccupazione: «Chi rimane disoccupato deve poter contare su un sussidio più consistente. Ma nel caso in cui decidesse di rifiutare un posto che gli venisse offerto il sussidio di disoccupazione deve venire meno».
Fmi: l’inflazione alto fino a fine 2009
Il ministro per le Politiche agricole e forestali, Luca Zaia. Dopo aver fatto i conti con la Ue sulle quote latte, ora dovrà perorare la causa dei pescatori
Da venerdì sono in agitazione le marinerie. Il ministro studia i primi interventi, ma la crisi del mondo ittico è profonda di aiuti ’de minimis’ per un massimo di 30mila euro per triennio (10mila euro l’anno). Ma avendo l’Italia una flotta di circa 14mila pescherecci, molti dei quali di piccole dimensioni, l’aiuto finisce per essere molto parcellizzato e quindi meno efficace. Le quattro sigle, però, non si accontenterebbero di ricevere soltanto denaro. «È indispensabile», concludono, «puntare su un piano anticrisi che tenga conto della complessità del nostro settore». In Europa si prepara un’azione già per il prossimo 23 giugno, nel Consiglio dei ministri in programma in Lussemburgo. Lo chiede l’associazione Medisamak, che rappresenta le grandi federazioni europee del settore della pesca nel Mediterraneo (con dentro otto le sigle italiane). E che si è già riunita a Parigi per discutere della crisi. Secondo Medisamak infatti il problema del carburante è ormai strutturale e comune a tutte le flotte, per
La morsa dell’inflazione è lontana dall’allentarsi. Il Fondo monetario ha fatto sapere che nell’Eurozona una riduzione dei prezzi – oggi sopra al 3 per cento – non tornera sotto il 2 per cento prima della fine del 2009. Ma, come si legge nel suo rapporto, «questo percorso è soggetto a un inusuale grado di incertezza, particolarmente per il prezzo delle materie prime e dei generi alimentari».
Fiat: bene in Francia, male a Piazza Affari questo l’associazione richiede un piano europeo per la ristrutturazione del settore sulla base di un finanziamento mirato e, nell’attesa, chiede che venga data la possibilità agli Stati membri di concedere aiuti alle imprese. E anche i livelli locali, vista la drammaticità della situazione, stanno iniziando a muoversi per sgravare di alcuni compiti il ministero. L’Abruzzo, per esempio, con il suo assessore alla Pesca, Mario Verticelli, ha aperto venerdì un tavolo di trattativa permanente, nel quale sono state esaminate le istanze in entrata dalle marinerie.
Un tavolo che vuole essere esteso a tutta la filiera dell’Adriatico e che ha avuto il via in coincidenza con lo sciopero generale. «È evidente», spiega Verticelli, «che il governo debba adottare con urgenza misure precise ed efficaci. Tuttavia la Regione intende fare la sua parte e a tal fine stiamo mettendo a punto un pacchetto di proposte». Su questo esempio, anche altre Regioni stanno già facendo la loro. Ma il pericolo più concreto è che, finiti i soldi e la crisi acuta, i problemi restino solo sopiti, e si ripropongano di qui a pochi anni, se non addirittura mesi. Perché la crisi del settore non riguarda soltanto i piani alti, ma le fondamenta.
Se in Italia l’Ad Sergio Marchionne prevede per maggio un calo delle immatricolazioni del 20 per cento, la Francia continua a sorridere al gruppo Fiat. Oltrealpe, nel mese scorso, il Lingotto ha registrato una crescita del 33 per cento contro l’aumento complessivo del mercato del 7,1. Questi numeri non sono bastati a tranquillizzare gli operatori in Italia: ieri a Piazza Affari, e alla vigilia della pubblicazione dei dati di maggio, il titolo è calo del 3,52 per cento, a 13,83 euro.
General Electric acquista Interbanca Anche Interbanca, banca d’affari un tempo controllata da AntonVeneta, cambia padrone. Ieri General Electric, attraverso GE Commercial Finance, ha chiuso l’acquisto con il Santander per l’istituto passato agli spagnoli dopo lo spezzatino di Abn. Il gruppo guidato da Botin rileverà le attività della controllata di General Electric, GE Money, in Germania, Finlandia ed Austria, oltre ai business di carte di credito e finanziamenti auto in Regno Unito e Irlanda. Le due operazioni hanno un valore nominale pari a un miliardo di euro.
Suprime, lascia l’Ad di Wachovia Ken Thompson, amministratore delegato di Wachovia (la quarta banca Usa), lascia dopo otto anni su richiesta del Cda, andando così ad allungare la lista dei nomi eccellenti caduti a causa della crisi dei mutui subprime. Il posto di Thompson sarà preso momentaneamente da Lanty Smith. «Non c’è stato un singolo episodio che ha portato il board a prendere questa decisione», si legge in un nota. Fatto sta che l’istituto ha chiuso il primo trimestre in rosso (con perdite per 708 milioni di dollari) per la prima volta dal 2001 a causa delle svalutazioni. Prima di Thompson, la crisi dei subprime aveva portato alle dimissioni di Stan O’Neil (Merrill Lynch), Charles Prince (Citigroup) e James Cayne (Bea Stearns). Intanto anche la Washington Mutual ha annunciato di che l’Ad Kerry Killinger si è dimesso dalla carica di presidente.
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cultura
Il pensiero dell’economista nei suoi ultimi due libri
”Iperdemocrazia” Il Mercato secondo Attali di Giampiero Ricci acques Attali prima di accettare l’incarico conferitogli dal Presidente Sarkozy di presiedere la Commissione sui Freni alla Crescita, ha avuto una carriera politica di lungo corso. Consigliere di Mitterand, primo presidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, già insegnante di Economia teorica alla Ecole Polytechnique, da uomo di sinistra fa cose di sinistra, come dirigere Planet Finance, Ong dove si vive l’impegno per la diffusione della microfinanza nei paesi in via di sviluppo, ma soprattutto pubblica, pubblica libri, dizionari, saggi, introducendo il mondo post-socialista alle meraviglie della cultura liberale. Di lui, in Italia, Fazi ha già pubblicato Karl Marx ovvero, lo spirito del mondo (2006) e con la Breve storia del futuro (2007) propone una originale lettura dell’intellettuale francese sul futuro dell’umanità. L’autore, partendo dall’assunto che ai giorni nostri siano le forze del mercato a controllare il pianeta e dalla convinzione che sia oggi che si decide come sarà il mondo nel 2050 e oltre, propone una lettura della storia contemporanea e futura in tre passaggi: iperimpero, iperconflitto, iperdemocrazia.
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per imporre il primato della libertà individuale su qualsiasi altro valore. «La storia umana è quella dell’emergere della persona come soggetto di diritto, autorizzato a pensare e gestire il proprio destino, libero da ogni obbligo che non sia il rispetto del diritto dell’altro alle medesime libertà».
Tale processo ha quindi portato ad un costante rimescolamento dell’equilibrio tra i poteri e alla nascita di nuove potenze sociali. Il concetto di “iperimpero” nasce quindi dalla riflessione sopra l’evoluzione dell’ultimo potere, quello mercantile, un potere affermatosi a partire dal XII secolo e che ha viaggiato nella storia da est a ovest, virando per il mare del nord e poi l’Atlantico, oggi il Pacifico e che però alla fine del suo processo avrebbe prodotto nuove élite padrone del capitale e del sapere che hanno finito per scavare nuove disuguaglianze. Nel gioco di Attali intorno al 2035, gli Stati Uniti – impero ancora dominante - saranno vinti da questo particolare corpo politico mercantile e cesseranno di amministrare il mondo, non per essere sostituiti da altre entità statuali, bensì inizialmente da una decina di potenze regionali e poi via via che si assisterà all’indebolimento degli Stati, l’ordine politico mercantile prevarrà sulla democrazia trasformando i servizi collettivi in privati: sanità, educazione, sicurezza e sovranità. Ordine mercantile costituito dalle maggiori multinazionali del mondo e che da potere oligarchico, che muterà la struttura di Corporation in entità “Ipernomadi”, entità per definizione
Secondo l’esperto, nel 2060 nuove forze altruiste e universaliste prenderanno il potere a livello mondiale, in nome di una necessità ecologica, etica, economica, culturale e politica
Il libro lungi dall’essere costituito da previsioni, azzardi, scommesse culturali e ideologiche, come accade spesso nella letteratura di genere, si concentra sulle tendenze già in atto per curarne estrapolazioni circostanziate. Sotto questo profilo la tendenza primigenia, la vibrazione di fondo della storia, viene individuata da Attali nella battaglia dell’umanità, di secolo in secolo,
Jacques Attali, presidente della Commissione sui Freni alla Crescita nominato da Sarkozy, già consigliere di Mitterand e primo presidente della Banca Europea per lo Sviluppo senza terra né patria: saranno esse le colonne del nuovo Iperimpero. Chi si aspetta, alla luce di tale quadro, la descrizione di un disastro, nella lettura del libro sarà accontentato. Popolazioni che si combattono per fazzoletti insignificanti di territori, mercenari, guerre a iosa, pirateria, mafie di ogni genere e grado, movimenti religiosi paramilitarizzati e attivissimi sul fronte missionario, utilizzando strumenti figli della rivoluzione tecnologica che contro essa stessa si ritorceranno. «Intorno al 2060, ma non prima, a meno che l’umanità non scompaia sotto un diluvio di bombe, né l’impero americano, né l’iperimpero, né l’iperconflitto saranno più tollerabili. Nuove forze, altruiste e universaliste, già attive oggi, prenderanno il potere a livello mondiale, sotto l’imperio di una necessità ecologica, etica, economica, culturale e politica. E’ l’iperdemocrazia».
Il libro contiene una visione della storia, per quanto elegante ed erudita, figlia di una visione antitetica all’ispirazione dei principali filoni filosofici liberali usciti vincitori dall’era delle ideolo-
gie e dei pensieri unici di ogni colore. Capitale e sapere che scavano nuove disuguaglianze, il Mercato e il Profitto – più o meno – luoghi di malaffare, per quanto tollerati non sembrano superare il pregiudizio che una volta si sarebbe definito antiborghese.
Sorprende notare anche come la profezia di Robert Nozick, Ayn Rand o di Murray Rothbard, circa la privatizzazione dei servizi collettivi, per quanto certamente figlia di una lettura radicale dei principi di democrazia e libertà, una filosofia che però viene accolta come l’ultima frontiera della libertà individuale dagli amanti di tale letteratura, nel testo sia vista come un abominio. La Breve storia del futuro è la prova provata di come la condivisione della storia come una battaglia dell’umanità, di secolo in secolo, per imporre il primato della libertà individuale su qualsiasi altro valore, in larga parte del mondo politico culturale post-socialista, resti una riflessione isolata e incapace di produrre quegli effetti autenticamente liberali e di rivisitazione autocritica di cui la culturale collettivista maledettamente necessita.
arte
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In mostra a Rimini fino al prossimo 7 settembre ”La rinascita dell’antico nell’arte italiana”
I misteriosi Exempla di Federico II di Olga Melasecchi n questa fervida stagione italiana di eventi culturali, culminata a Roma con la recente inaugurazione della mostra Correggio e l’antico a Villa Borghese e preceduta da Il ‘400 a Roma al Museo del Corso, il tema dominante è il rapporto tra le arti figurative e l’antico, e chiude involontariamente questo cerchio ideale di analisi storica Exempla. La rinascita dell’antico nell’arte italiana. Da Federico II ad Andrea Pisano, esposizione inaugurata il 20 aprile a Castel Sismondo a Rimini, dove rimarrà fino al 7 settembre, ideata e curata da Marco Bona Castellotti e Antonio Giuliano. Si tratta di una triade di mostre sulle “rinascenze”dell’arte italiana con alla base proprio l’evento riminese che ha riunito opere di grande importanza prodotte in un’epoca che può a buon diritto essere considerata rivoluzionaria nell’aver dato inizio ed impulso ad una certa libertà di pensiero che si svilupperà in seguito nel pensiero umanistico, e quindi nel pensiero moderno della cultura occidentale. Sono state selezionate alcune tra le più significative opere prodotte nel XIII secolo. In questo secolo l’Italia è percorsa da una linfa vitale proveniente da culture lontane e di diversi ambiti, ma che sembra quasi manovrata da una volontà superiore. Interprete e messaggero di questa linfa, come accade sempre nella storia, fu un’unica personalità, Federico II Hohenstaufen, re di Sicilia, di Gerusalemme, imperatore dei Romani, re d’Italia e re di Germania. Federico, nato nel 1194 da Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, e Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II il Normanno, ha incarnato in un momento particolare della nostra storia la figura di uno dei primi, se non del primo monarca “illuminato”, il cui destino era racchiuso proprio nell’intero nome, Federico Ruggero Costantino: ”Federico” come guida dei principi germanici quale nipote di Federico Barbarossa, ”Ruggero” per sottolineare la legittima pre-
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tesa alla corona del Regno di Sicilia in qualità di discendente di Ruggero I e ”Costantino” per collegamento ideale con la prima autorità terrena della Chiesa di Roma. Il progetto della creazione del Sacro Romano Impero, che era già stato nel IX secolo di Carlo Magno, artefice della prima grande “rinascenza”, viene ritentato da Federico, questa volta non in un paese
germi di curiosità intellettuale. Alla sua corte soggiornarono infatti uomini di vasta erudizione quali Michele Scoto, che tradusse opere di Aristotele, Maestro Teodoro, un arabo cristiano, e Juda ben Salomon Cohen, grande enciclopedista ebreo. I modelli architettonici e scultorei della Roma imperiale, gli exempla ricordati nel titolo della mostra, mai nascosti e ancora affioranti nel territorio sebbene demonizzati sotto il segno della damnatio memoriae in quanto oggetti di cultura pagana, vengono presi da Federico e dai suoi collaboratori ad esempio per diffondere l’immagine del nuovo sovrano, novello Cesare, e la sua edilizia. Ecco allora che per la prima volta il portale d’in-
Frammento di un sarcofago con leone usato per l’apparato imperiale, importante prodotto di arte romana del III secolo.
Venne scelta dai suoi architetti la tipologia dell’arco di trionfo romano per edificare la porta di accesso al suo regno al confine con lo stato pontificio, la distrutta Porta di Capua, decorata, sempre secondo gli esempi classici, con suoi bustiritratto, di personaggi della sua corte e di divinità pagane, alcuni di questi ora esposti a Castel Sismondo. Nei cantieri federiciani si formarono personalità fondamentali per lo sviluppo dell’arte occidentale come Nicola da Foggia, autore del cosiddetto Busto di Sigilgaida, del 1272, proveniente dala Museo del Duomo di Ravello, e soprat-
Per l’occasione sono state selezionate alcune tra le più significative opere prodotte nel XIII secolo, periodo in cui l’Italia venne percorsa da una linfa vitale proveniente da culture lontane del nord Europa come Aquisgrana, ma a Palermo, centro della cultura mediterranea, e anche di quella araba.
Sincretismo culturale in cui si veniva ad innestare la coeva predicazione pauperistica e altamente mistica dell’ordine cistercense, al quale sembra che Federico fosse particolarmente legato tanto da voler indossare il saio di quell’ordine in punto di morte nel dicembre del 1250. In un uomo solo, nelle cui vene scorreva sangue di forti dominatori ma, rimasto orfano all’età di quattro anni, temperato dall’educazione ricevuta da singolari maestri come il frate Guglielmo Francesco ed un imam musulmano, si concentrarono forze di libertà dai pregiudizi religiosi propri delle correnti più “bizantine” della Chiesa di Roma e
gresso di Castel del Monte, l’o- tutto Nicola Pisapera architettonica cui più è le- no, quel Nicola de gato il nome di Federico II, il Apulia (1215/1220 misterioso tempio ottagonale – 1278/1284) che sembra della piana di Ruvo di Puglia, sia arrivato in Toscana al seviene sormontato da un timpa- guito delle maestranze feno classicheggiante, così come dericiane impegnate nelacquistano una nuova volume- la costruzione del casteltria, vicina ai modelli naturali, lo di Prato e dell’abbaalcune figure di telamoni, pro- zia di San Galgano. Nitomi umane o animali che de- cola rimase però in Tocorano capitelli e peducci di ar- scana dove ha realizchi nel medesimo castello o in zato i suoi capolavori, quello di Lagopesole, due tra i ispirati dai numerosi duecento e più castelli che Fe- sarcofagi romani del derico fece costruire nel suo re- camposanto di Pisa, e gno di Sicilia. In mostra è pos- dove nella sua bottega sibile ammirare calchi di Nella mostra che la città alcune di di Rimini ospiterà fino queste al prossimo settembre, opere, cosi possono ammirare sì come un alcune tra le più belle opere del XIII secolo italiano, tra cui cammei, monete, sigilli, codici miniati, epigrafi, bronzetti, alabastri, antichi e medievali per un immediato ed evidente confronto tra gli exempla e i diversi manufatti duecenteschi
si formarono gli altri due importanti artefici della rinascita gotica italiana, il figlio Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio. Mentre Giovanni si orienta maggiormente verso il naturalismo del gotico transalpino, in cui viene accentuato l’aspetto emotivo della narrazione scultorea, come si vede nella straordinaria Danzatrice del Museo dell’Opera del Duomo di Pisa, Arnolfo segue la linea classicista tracciata dal maestro, rivestita di una particolare sensibilità religiosa, che si incarna nella severità delle espressioni e delle forme. La vediamo nelle due stupende teste di Cristo e dell’Animula della Madonna, già su di una facciata dei Santa Maria del Fiore a Firenze. Il nome di Arnolfo richiama il problema della cultura a Roma, e nella mostra la pittura romana tra Due e Trecento è testimoniata da alcuni meravigliosi dipinti uno dei quali attribuito a Pietro Cavallini da Federico Zeri, cui la rassegna riminese è dedicata nel decimo anniversario della morte. Sempre da Roma viene il noto altorilievo con Teoria funeraria di Arnolfo, vera traduzione in marmo delle teorie francescane degli affreschi giotteschi, così come si può riconoscere nell’Assetata con brocca dalla distrutta fontana di Perugia, sempre di Arnolfo, capolavoro della scultura medioevale per l’impressionante modernità della sintesi volumetrica, altre soluzioni iconografiche del pittore di Assisi. Sono infine affiancati cammei, monete, sigilli, codici miniati, epigrafi, bronzetti, alabastri, antichi e medievali per un immediato ed evidente confronto tra gli exempla e i manufatti duecenteschi.
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società
Da sinistra il sequesto di Aldo Moro; l’omicidio di Carlo Casalegno; il figlio Andrea Casalegno; i brigatisti Renato Curcio, Mario Moretti e Alberto Franceschini leggono il giornale prima di un processo. A destra la scrittrice Silvana Mazzocchi e gli ex terroristi, ora scrittori, Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti Adriana Faranda e Valerio Morucci
Nei loro libri molte reticenze, narcisismo senza limiti e spietati regolamenti di conti
Le parole dopo le pallottole di Riccardo Paradisi segue dalla prima Senza cultura e senza qualità morali. Basta guardarli oggi per capire chi son sempre stati, sorprenderne le pose esistenzialiste, i visi che esibiscono contrizione e complessità, basta leggere i libri che scrivono o che si fanno scrivere addosso. Libri che nell’Italia dimèntica delle vittime del terrorismo, delle famiglie distrutte dai necrofili della stella a cinque punte, godono di attenzioni e analisi, recensioni e ristampe, diventano addirittura spartiti per sceneggiature di film, come è avvenuto per Il prigioniero (Mondadori e Feltrinelli) di Anna Laura Braghetti (carceriera di Moro e assassina di Vittorio Bachelet) e per L’anno della tigre. Storia di Adriana Faranda di Silvana Mazzocchi (Baldini e Castoldi). Libri che testimoniano come dietro l’idea che qualcuno s’era fatto di una “terribilità carismatica” con cui i brigatisti si son sempre ammantati (da qui la morbosa fascinazione per loro) c’erano solo frustrazioni comuni, complessi banali, narcisismi esasperati, risentimenti sordi e, soprattutto, sottocultura: confusione ideologica, cattive letture, marxismi abborracciati declinati secondo umori e incomprensioni, elaborazioni monotematiche e monomaniacali della realtà. Insomma se li leggi e li ascolti, capisci quasi subito che i Moretti e i Morucci, le Faranda e le Braghetti, le Balzerani e i Franceschini, son gente piccina, periti industriali falliti, capetti d’assemblea senza futuro, bellocce col mito di Rosa Luxemburg senza averne l’intelligenza, bruttine che scelsero la rivoluzione piuttosto che un’onesto impiego e un marito perbene, provinciali col pallino della resistenza e delle armi. La banalità del male appunto: la
grottesca farsa tutta italiana degli assassini con l’editore.
La sirena delle cinque (Jaka Book) di Barbara Balzerani, ci promette la quarta di copertina «è un libro carico, carnale, pieno. La profondità dei sentimenti passa attraverso una scrittura che dona l’incanto di una narrazione asciutta». Non è vero. La raccolta di racconti autobiografici della Balzerani è qualcosa di avvilente: son storie brutte, didascaliche, scritte con un linguaggio parasociologico dove di narrativo non c’è niente e il sentimento predominante nel lettore è solo l’imbarazzo per l’autrice. Ciò che rende un libro come questo pubblicabile è solo il fatto che chi l’ha scritto è
Fatti e comportamenti
La memoria lunga di Casalegno e gli strani silenzi di Lotta Continua di Pier Mario Fasanotti
una ex terrorista. Ritratto di un terrorista da giovane, di Valerio Morucci (Carole) è invece un’autobiografia dove l’autore, uno dei macellai della scorta di Moro, si ammira organizzatore di interven-
vana Mazzocchi. La tigre naturalmente sarebbe la Faranda stessa in un rimando che mischia suggestioni salgariane e astrologia cinese. Il curriculum brigatista di Adriana Faranda del resto è di
«Alberto Franceschini era invidioso del successo che aveva con le donne Mario Moretti. Uno che aveva una donna ad attenderlo in ogni città, una compagna ad aspettarlo in ogni colonna» ti nei licei, seduttore di compagne, responsabile del lavoro illegale di Potere Operaio, alle prese con le prime pistole ed emulo della lotta partigiana. Un narcisismo esasperato attraversa le pagine di questo libro che trova una suo gemello stilistico Nell’anno della tigre (Baldini Castoldi) dove la vita avventurosa di Adriana Faranda viene narrata con partecipazione da Sil-
quelli importanti: compagna di Morucci, gambizzatrice del professor Remo Cacciafesta, feritrice di due agenti della Digos la brigatista siciliana è stata uno dei capi riconosciuti dell’organizzazione terrorista più pericolosa d’Italia. Ma il libro non si limita all’attività eversiva di Adriana: il doppio registro di scrittura adottato infatti consente irruzioni intimistiche
nevitabile avvertire un brivido. E il brivido si fa subito indignazione se la memoria ha la funzione primaria di mettere a confronto parole, comportamenti. Ho conosciuto Carlo Casalegno ai tempi in cui ero redattore de La Stampa, di cui lui era vice-direttore e corsivista (aveva una rubrica intitolata Il nostro stato). Ricordo quel novembre del 1977 quando un commando delle Brigate Rosse scaricò le armi contro di lui, nell’androne di casa. Brivido allora, brivido anche oggi avendo davanti il libro doloroso e coraggioso di suo figlio Andrea (classe 1944).
I
L’attentato (Chiarelettere editore). Andrea ricorda, senza celarsi dietro un labirintico giustificazionismo ideologico, d’essere stato militante di Lotta Continua quando nel 1972 venne assassinato il commissario Luigi Calabresi, fatto per mesi e mesi bersaglio di ingiurie e di odio, spietato, stampato e urlato. Il giovane Casalegno venne arrestato per aver distribuito volantini in cui c’era scritto: «I proletari considerano l’uccisione di calabresi un atto di giustizia». E confessa d’essere stato convinto di questa “verità”. C’è un passo importante nel suo libro che riguarda il coinvolgimento diretto di Lotta Continua nella morte del poliziotto. No, a quei tempi non lo credeva possibile: «Sarebbe stato, oltre
della brigatista: «Facile non sono mai stata facile. Sei un’anarchica, mi ripetevano in continuazione. Forse, rispondevo io, prendendoli in giro, o forse marxista.
Leninista no, mancava troppo di senso dell’umorismo quell’uomo. Trotzkista, piuttosto. Perché stalinista mai. Stalinista, non mi avrete mai». Ma Adriana ragiona anche di emancipazione femminile e dopo aver sparato sotto casa e alle spalle a un professore universitario, racconta che la sua determinazione e il suo coraggio (sic) hanno ben impressionato i compagni maschi delle bierre: «Il mio atteggiamento ha colpito tutti, lo avverto da come ascoltano le mie parole. Uno commenta: molti compagni maschi avrebbero abbandonato. Se ancora qualcuno poteva avere una riserva su di me in quanto donna, oggi ho fugato
che vile, un imperdonabile errore politico». E oggi? «Non ho più le certezze del 1972». A differenza di molti, Andrea ha guardato a lungo nell’abisso delle coscienze deviate e infrante. Il suo dolente percorso è iniziato nei tredici giorni in cui il padre Carlo era quasi morto nella sala di rianimazione dell’ospedale. Decine e decine di persone lo andavano a trovare. Andrea ne ricorda i volti. I volti di quelli «che avevano fatto la Resistenza nel Partito d’Azione, come l’uomo che i sedicenti rivoluzionari avevano colpito perché “agente della contro-guerriglia psicologica. Il pellegrinaggio degli amici di “Giustizia e Libertà” era la materializzazione dell’antitesi inconciliabile tra la vera lotta partigiana e la sua caricatura criminale». L’emozione squassante diventò riflessione prolungata:«I terroristi non vivono nell’isolamento. Tutti coloro che li conoscevano e non li hanno denunciati, pur essendo consapevoli che avrebbero ucciso ancora, sono degli assassini, né più né meno dei terroristi». No, non c’è nel libro l’ipocrita accenno a un sogno sbagliato. Non si parla dei conniventi, dei
società ogni dubbio». Quando l’emancipazione femminile passa per la canna del fucile.
Brigate Rosse, una storia italiana (Baldini e Castoldi) è il libro che raccoglie un lungo colloquio intervista tra Rossana Rossanda e Mario Moretti, il capo delle Br ai tempi del rapimento Moro, il successore di Curcio e Franceschini. Ecco la sua prosa:«In fabbrica si avverte presto che, a quello stadio di sviluppo delle forze produttive e della conflittualità operaia, non funziona lo schema: vertenza, accordo al ribasso. E allora bisogna uscirne. La spinta di classe è di una qualità senza precedenti in società di capitalismo maturo. Non può richiamarsi né a un’analisi né a una teoria precedente. E le Br indicano nella guerriglia la forma del potere proletario delle metropoli». Uno che parla così perché non dovrebbe uccidere? Però Moretti sa essere anche spiritoso, ed è guascone, l’assassino di Moro, il killer spietato che lordò di sangue le strade d’Italia negli anni Settanta, quando racconta dei suoi tanti passaporti
in clandestinità: «Ne avevo diversi. Il più bello era il passaporto di Maurizio Iannelli, che era della colonna romana e lavorava all’Alitalia». A massacrare la scorta di Moro infatti i brigatisti andarono trafelati con le divise di piloti dell’Alitalia. Il gioco abissale del teatro e della maschera: attori dalle mille identità che diventano demiurghi della vita e della morte degli altri. Eccitante. Del resto solo gli uomini banali hanno una sola identità. E i morti ammazzati con la divisa non hanno nemmeno quella quando sono in servizio; sono bersagli anonimi, ruoli a cui si può sparare. Niente di personale, per carità, specifica Moretti.
Il prigioniero di Anna Laura Braghetti (Mondadori), il libro che è poi diventato lo spartito per il copione del film Buongiorno notte di Marco Bellocchio, racconta i cinquantacinque giorni del rapimento Moro. Lauretta, come la chiamavano i compagni, giura che era carina a quei tempi, ci racconta che Moretti la sgridava perché le piacevano i vestiti vistosi e che la
fiancheggiatori e dei simpatizzanti come persone degne di perdono morale. Scrive Andrea Casalegno: «Lo stravolgimento dei valori fondamentali non può essere perdonato. Nessuno tocchi Caino, d’accordo. Nessuno gli rivolga più la parola. Nessuno gli stringa la mano». E a proposito delle ombre del passato, ecco che la memoria fa scattare il suo meccanismo intrinseco, quello del collegare. Erri De Luca, oggi scrittore, lettore e traduttore di testi sacri, era in forze nel servizio d’ordine di Lotta Continua. Lui ha pronunciato frasi che giuridicamente e moralmente sono dei macigni: «Si potrà parlare di quegli anni quando non ci saranno più prigionieri. Quando saremo tutti liberi potremmo sapere la verità su Calabresi. Su chi lo ha ucciso preferisco non rispondere. Non mi sento libero di parlare di questo. Ne parleremo quando non avrà più rilevanza penale». Insomma, il silenzio. Quella cosa contro cui Andrea Casalegno lancia strali.
Adriano Sofri è stato condannato come mandante dell’uccisione di Calabresi a 22 anni di carcere (sentenza confermata dalla Cassazione). È da qualche giorno in libreria un suo libro. S’intitola Chi è il mio prossimo (editore Sellerio). È una citazione da una parabole del Vangelo. A pagina
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sera, quando gli uomini tornavano a casa in Via Montalcini, lei preparava minestre per tutti, Moro compreso, «perché le minestre rinfrancano sempre». Poi, sempre Lauretta, ci racconta che Prospero Gallinari aveva una passione per i canarini, Germano Maccari era fedele alla sua compagna e Mario Moretti bravissimo nei lavoretti di ca-
cative: anche perché i brigatisti cominciano a regolare tra loro vecchi conti rimasti in sospeso. Molto istruttivo a questo riguardo, e in fondo anche onesto, è La peggio gioventù di Valerio Morucci, opera più matura di quella che abbiamo citato in precedenza e su cui vale la pena soffermarsi perchè è in questo libro che emerge
«Quando Curcio uscì dal carcere e fondò la sua cooperativa editoriale andai a trovarlo, indossava sopra la camicia un gilet peruviano multicolore e al polso un braccialetto tintinnante» sa «fatti per ammazzare il tempo» (quando si dice l’abitudine). Il libro si legge bene e non impressiona troppo: gli ammazzamenti avvengono col silenziatore, il sangue non si vede mai e quando c’è è scolorito. Nemmeno il sangue di Bachelet si vede: eppure Lauretta gli spara addosso undici colpi di fucile per freddarlo nell’androne dell’università di Roma. Un anno dopo che Moretti nel garage di casa aveva ammazzato Aldo Moro, come un cane, dopo averlo tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni. Senza mai fargli mancare le minestre però. Le opere più recenti sono le più esplicite e signifi-
188 leggo: «…Così la nuova sinistra ribelle e scanzonata si costruì presto una storia sacra….». Le memorie di Adriano girano attorno al nucleo della verità, evitano il mea culpa o lo infrattano in una prosa che corteggia la filosofia. Per uso di altri, s’intende. Quanto alla parola “scanzonata”, la memoria-sì ancora quella bestia che non scompare mai del tutto- risulta doveroso riferire qui alcuni titoli di Lotta Continua, di cui Sofri era il timoniere, in merito a Luigi Calabresi: «Siamo stati troppo teneri con il commissario di Ps Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente... Facendo questo, però, si è dovuto scoprire, il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i compagni che hanno imparato ad odiarlo. La sua funzione di sicario - scriveva Lotta Continua - è stata denunciata alle masse che hanno cominciato a conoscere i propri nemici... E il proletariato ha già emesso la sua sentenza. Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara». Un modo di scrivere “scanzonato”, indubbiamente. Sofri scrive anche: «Non abbiamo scelto, né voi né io, i nostri compagni di viaggio e di naufragio». Certo, un naufragio umano e giudiziario, non certo intellettuale visto che lui ha trasformato la sua cella in una cattedra giornalistica ed editoriale.
con più chiarezza l’identikit delle Brigate rosse. La narrazione di Morucci è naturalmente scandita dalle azioni di sangue delle Br: nel giugno del 76 a Genova viene ucciso il giudice Coco, con lui vengono assassinati anche gli agenti della scorta. Si poteva evitare, dice Morucci. Moretti invece, nel libro intervista con Rossana Rossanda e Carla Mosca che abbiamo prima citato, la racconta in modo diverso: «Non è possibile risparmiare un agente armato durante un’azione, quando si poteva lo si faceva».
Secondo Morucci, dopo quella strage Moretti spiegò le cose in modo diverso ai compagni dell’organizzazione: si erano ammazzati per dare un esempio. Un gesto gratuito. Fatto per dimostrare la propria potenza di fuoco e spietatezza. Nulla di eroico dunque. E del resto anche l’epilogo delle Bierre è una rassegna di squallori: regolamenti di conti, di mobbing organizzato su questo o quell’elemento di questa o quella fazione dell’orgnanizzazione ormai allo sfacelo. In questo quadro fa capolino anche il ritratto di Alberto Franceschini, il regista del sequestro del giudce Sossi che con Curcio rappresenterebbe il brigatismo rosso della prima ora, quello cavalleresco e pulito, precedente all’avvitamento militarista della successiva leadership di Moretti. Questo almeno secondo la ricostruzione fornita dallo stesso Franceschini nel suo Che cosa sono le Br (Rizzoli, 2004), un libro che come dice Morucci serve a calunniare Moretti come un infiltrato nel-
l’organizzazione e salvare la dignità di Curcio e dello stesso Franceschini. Ma l’animus di Franceschini verso Moretti, ci dice Morucci, nasce anche dal fatto che Franceschini, rigido e legnoso, era invidioso del successo con le donne di Moretti «che aveva una compagna ad aspettarlo in ogni colonna». Franceschini, il capo delle Br che avevano il senso dell’onore, chiedeva ai brigatisti fuori se a loro facesse piacere che a Morucci, dissociatosi dall’organizzazione e quindi ritenuto un traditore, venisse fatta la pelle. Do ut des: noi vi facciamo fuori chi vi ha tradito e voi ci fate evadere dal carcere. Moretti preferì risparmiare la vita di Morucci, ma solo perché, spiega la potenziale vittima di allora, «ammazzare uno che a Roma aveva il suo seguito e la cui diaspora era finita con clamore sui giornali avrebbe potuto essere controproducente». Ma se la vita fu risparmiata a Morucci a tanti altri pesci più piccoli no: nelle carceri italiane di loro si fece mattanza da parte di brigatisti e detenuti comuni loro alleati. Nel 1981 viene assassinato anche Roberto Peci, il fratello di Patrizio, l’infame per eccellenza per le Br, perché da pentito collaborava attivamente con la giustizia. Del resto i capi storici Br, Curcio, Franceschini, Semeria e tutti gli altri, avevano ormai «messo in piedi dall’eremo carcerario una macchina di morte ancora peggiore di quella che dicevano voler contrastare. Hanno armato la mano di Caino. Alcuni dicono che le loro, di mani sono pulite». E infatti questa storia delle mani pulite di Curcio e di Franceschini, delle mitiche prime Brigate rosse buone, contrapposte a quelle militariste e cattive di Moretti, è solo una favola per gonzi. «Quando Curcio uscì dal carcere e fondò la sua cooperativa editoriale, racconta Morucci, andai a trovarlo...indossava sopra la camicia, un gilet peruviano multicolore, e aveva al polso un tintinnante braccialetto. La riverniciatura». Il capo storico delle Br vestito da peruviano col braccialetto al polso oggi impegnato tra studi di antipsichiatria e conferenze in giro per l’Italia. Il male oltre che banale è anche grottesco.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Quali le misure efficaci per ridurre l’inflazione? CONTRATTIAMO CON LA GRANDE DISTRIBUZIONE I PREZZI DEI GENERI DI PRIMA NECESSITÀ
AVANTI CON LA RIDUZIONE DELLE TASSE E AVANTI CON IL NUCLEARE, MA IN FRETTA
L’ultima rilevazione Istat annuncia che l’inflazione - ma perché non chiamarla come una volta con il suo vero nome e cognome «caro vita»? - è arrivata in Italia al 3,6%, un po’ più che nel resto d’Europa. Ma in realtà quella percepita dalla massa degli Italiani è molto più alta dal momento che i generi di prima necessità, quelli che tutti dobbiamo acquistare, hanno raggiunto un aumento a due cifre. Cosa fare? Io non sono un economista e quindi non ho alcuna indicazione da avanzare, ma qualcosa bisogna pur fare.Trichet, secondo me, fa bene a non ridurre il costo del denaro, altrimenti l’inflazione aumenterebbe ancora di più, ma contemporaneamente si deprimono i consumi e l’economia rischia di ristagnare. E allora? Io ricordo che nel suo precedente governo, Berlusconi contrattò con la grande distribuzione la stabilità dei prezzi dei generi di prima necessità per circa sei mesi. Non potrebbe fare altrettanto ora? Non bastano l’abolizione dell’Ici e la detassazione degli straordinari (i pensionati non fanno straordinari). Cordialmente ringrazio per l’ospitalità. Distinti saluti.
Inflazione al 3,6%! Ma pane, pasta, riso, benzina e gasolio volano fino a raggiungere cifre iperboliche. Lo so che questa situazione non riguarda solo l’Italia, lo so che la causa principale è l’aumento del petrolio. Ma l’inflazione è una vera peste soprattutto per coloro che hanno un reddito fisso.Vogliamo fare qualcosa per costoro? Le tasse le pagano per intero solo i lavoratori dipendenti, i controlli fiscali vengono fatti per lo più sui lavoratori dipendenti, l’inflazione colpisce come abbiamo già detto particolarmente i lavoratori dipendenti! Cavaliere si muova in fretta,perché pensionati e in genere coloro che vivono a reddito fisso non ne possono più. Lo sappiamo che le colpe maggiori sono di Prodi e Visco, ma i voti ora li abbiamo dati a Lei caro Cav., e Lei ci deve togliere dai pasticci. Avanti dunque con i controlli sui prezzi, avanti con la riduzione delle tasse, avanti con il nucleare. Ma in fretta.
Fabio Corradetti - Roma
LA DOMANDA DI DOMANI
Se poteste scegliere, chi vorreste come prossimo presidente della Repubblica? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Claudio Melis - Cagliari
RIDURRE L’INFLAZIONE E TORNARE A CRESCERE? CON UNA POLITICA DI VALORIZZAZIONE DEI GIOVANI Praticamente tutti positivi i commenti alla relazione annuale del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Il presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, ha riferito che con Draghi «la sintonia è totale. L’analisi è chiara, la ricetta è la stessa: produttivitá, riduzione della spesa pubblica e della pressione fiscale, grande investimento nella scuola e nei giovani. L’auspicio è quello di riprendere presto con l’aiuto di tutti il percorso della crescita». E in definitiva, anche io mi sento di condividere abbastanza le parole del governatore: «I protagonisti della ripresa devono essere coloro che hanno in mano il futuro: i giovani, oggi mortificati da un’ istruzione inadeguata, da un mercato del lavoro che li discrimina a favore dei più anziani, da un’ organizzazione produttiva che troppo spesso non premia il merito, non valorizza le capacità». Il Paese ha desiderio, ambizione, risorse per tornare a crescere. Fatecelo fare.
L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE... LENINISTA La vita di un’intera generazione di migliaia di giovani è stata compromessa negli anni Settanta dalle vicende del terrorismo e dell’attivismo extra parlamentare. Quello che era all’inizio un movimento di liberazione nei costumi nel 1967 negli Usa, in Europa si è trasformato in questione sociale. Il Pci aveva una politica doppia, di opposizione e di consociativismo, che si concretizzava nel partecipare di fatto al potere e logorare chi ne era formalmente responsabile, in attesa del grande giorno dell’assunzione di responsabilità dirette, che gli stessi dirigenti comunisti in realtà temevano. Se la situazione internazionale avesse preso pieghe spiacevoli per l’Occidente, avrebbero avuto paura, perché troppo moderati, per i loro stessi destini individuali. Un modo insostenibile di essere. Un’insostenibile leggerezza dell’essere comunista. Per questa doppiezza ogni tanto qualche credulone ha pagato il conto. Un giorno infatti, questi giovani si sono sentiti “scaricati” dal Pci: la chiarezza definitiva politica nella lotta al
GREEN HOUSE
Progettato da due architetti sudcoreani un edificio ricoperto all’interno come all’esterno di Pachysandra terminalis, pianta sempreverde in grado di ricoprire tutto. L’obiettivo dei creatori, «interpretare la convergenza tra naturale ed artificiale»
TOH, DE BENEDETTI HA PRESO A LICENZIARE
RIFIUTI IN CAMPANIA, PERCHÉ L’UE REMA CONTRO?
Ooohhh non ci possiamo credere, che notizia. Sì, è proprio Lui. Un’altra volta. Ahh l’ingegner Carlo De Benedetti, il noto industriale e finanziere di sinistra, proprietario di Repubblica e dell’Espresso, e primo tesserato del Pd, ritorna. Sì, sì, eccolo qui. Che rabbia. Però, non fate così. Il Nostro ha deciso la chiusura di una fabbrica a Mantova, il licenziamento di 232 persone e la delocalizzazione produttiva all’estero.Vuoi vedere che ha ragione chi dice che si è proprio convinto di essere uno spietato tagliatore di teste e un liquidatore d’imprese senza remora alcuna dimenticandosi d’essere un grande imprenditore e benefattore? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Se il governo sta facendo di tutto per risolvere il problema monnezza, perché l’Ue ed alcune forze d’opposizione remano contro? Si dice che il lucro è nelle mani della camorra: un dubbio del genere non sarebbe più che sufficiente per partiti politici e movimenti ambientalisti per rimanerne fuori? La democrazia è il potere alla maggioranza: come chiamare allora coloro che, dopo aver tentato la via democratica, sconfitti, si oppongono ai vincitori per le strade? La sinistra in Parlamento dichiara di voler collaborare. Non è giunto il momento di farlo in modo chiaro, in piazza, dopo che la situazione monnezza è riconducibile in massima parte a loro?
dai circoli liberal Greta Gatti - Milano
terrorismo significò, dopo alcuni anni, migliaia di arresti e di latitanze. Il Pci comprese che se la sua posizione non fosse stata una chiara condanna al movimento, ne sarebbe stato considerato ispiratore e responsabile. Conseguenze: un colpo di Stato stile Cile o una guerra civile o l’annullamento elettorale del Pci. Con la posizione di fermezza invece lo Stato avrebbe avuto bisogno del Pci. Allora, senza un minimo di consociativismo con il Pci, neppure una giunta di un piccolo comune avrebbe potuto sopravvivere. Poi Craxi con il Pentapartito garantì la governabilità anche senza il Pci. Fu nuova crisi. Invece “mani pulite”, la fine di Craxi, dei socialisti e del pentapartito con esili e latitanze e il ristabilimento dell’egemonia a sinistra del nuovo Pci pronto per il Governo. Improvvisamente invece Berlusconi! Allora un nuovo grande Male, l’odio, i movimenti extraparlamentari antagonisti e i partiti radicali di sinistra. Ma il Paese non va avanti, si impoverisce, rischia la bancarotta e la rivolta per il fisco e per la sicurezza. Bisogna dare la colpa a qualcuno per sopravvivere, mantenere l’egemonia a sini-
Pierpaolo Vezzani
L. C. Guerrieri - Teramo
stra e crearsi un ruolo e un futuro. E allora è solo colpa di Bertinotti, di Pecoraio Scanio, di Diliberto, della sinistra antagonista. Serve una svolta. «Berlusconi, facciamo un po’ di pulizia? Non hai anche tu lo stesso problema riguardo il domani?Per il bene del Paese». «Cribbio! E’ vero: allora è colpa anche di Casini!». Di nuovo latitanze ed esili, questa volta attraverso l’annullamento elettorale di tradizioni politiche partitiche. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog NO ALLA MOSCHEA SUGLI IMMOBILI PUBBLICI
Un combattimento da incidere in bronzo Fratelli, ieri l’altro, sui campi di Sant’ Antonio, ad una lega e mezzo dalla città, abbiamo sostenuto il più terribile ed il più glorioso dei nostri combattimenti. Le quattro compagnie della nostra Legione ed una ventina uomini di cavalleria non solo si difesero contro mille e duecento uomini di Servando Gomes, ma hanno interamente distrutta la fanteria nemica. II fuoco, cominciato a mezzogiorno, finì alla mezzanotte. Né il numero dei nemici, né le ripetute cariche, né le imponenti masse di cavalleria, né gli attacchi dei fucilieri a piedi, hanno potuto sgomentarci; sebbene non avessimo altro rifugio all’infuori di un hangar in rovina, i legionari hanno respinti gli assalti accaniti del nemico: tutti gli ufficiali si sono fatti soldati in quella giornata. Oh! E’ un combattimento che merita d’essere inciso in bronzo. Una voce di maledizione sì alzerà sul capo dello storico di questa guerra se non mette questo combattimento primo tra i primi ed il più onorevole. Giuseppe Garibaldi alla Commissione di Montevideo
COSA SCRIVEVA COLOMBO NEGLI ANNI NOVANTA? Per comprendere quale livello ha raggiunto l’informazione di sinistra, consiglio di leggere, via internet, la prima pagina dell’Unità e gli editoriali di Furio Colombo. Credo siano anche retribuiti (nella vita ci vuole anche fortuna, è più che chiaro) e non si tratterà di bruscolini. Sembra di essere di fronte a quel giapponese che, sull’isola, dopo dieci anni... qualcuno doveva pur dirgli che la guerra era finita! Una sola domanda: sarei curioso di conoscere quali fossero i contenuti dei suoi articoli negli anni ’90, prima dell’era Berlusconi e della destra al governo. Cosa scriveva il signor Colombo? E soprattutto per quale testata i suoi preziosi sforzi intellettuali erano tanto preziosi? In me, povero mortale, suscitano una via di mezzo tra il triste e l’ilare, ma non faccio testo. Sicuramente le migliaia e migliaia di lettori dell’Unità faranno a pugni per accaparrarsi la copia con l’editoriale. Peccato mi manchi ancora qualcosa per comprenderli, veramente peccato!
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
3 giugno
Tagliamo la testa al toro circa la questione moschea a Padova, su immobili pubblici, con costo previsto di circa 870 mila euro (L’intervento, Gazzettino 29.05.2008), direttamente o indirettamente a carico della cittadinanza. Soccorre l’insegnamento di Thomas Jefferson, Presidente Usa per due mandati e redattore della Dichiarazione d’indipendenza: «Nessuno può venir costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso…» (cit. in M. Teodori, Laici, Marsilio 2006, epigrafe).
Gianfranco Nìbale - Padova
GRILLO, LA MUSICA E LA PRESSIONE Dicono gli esperti che ascoltare musica ritmica e, in particolare, musica classica per mezz’ora al dì fa bene perchè abbassa la pressione sistolica. Che dite, da quanto tempo non l’ascolta, secondo voi, mister Capopopolo, Beppe Grillo?
Lettera firmata
1654 A Reims viene incoronato Re Luigi XIV di Francia
1784 Per rimpiazzare l’Esercito Continentale, che era stato sciolto dopo la guerra, il Congresso crea l’ United States Army, l’esercito degli Stati Uniti 1935 Il Nastro azzurro viene assegnato alla nave Normandie, per la più veloce traversata dell’ Oceano Atlantico verso ovest, superando il precedente record del Rex 1940 La Battaglia di Dunkerque termina con una vittoria tattica dei Tedeschi obbligando gli Alleati a ritirarsi, nell’operazione chiamata Dinamo 1944 Charles de Gaulle diventa Capo del governo provvisorio di Francia 1972 I Pink Floyd pubblicano l’album Obscured by clouds, colonna sonora del film francese La Vallée 1989 Il governo della Cina invia le truppe per cacciare i dimostranti fuori da Piazza Tiananmen 2004 George Tenet si dimette da direttore della Cia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
PUNTURE Il sottosegretario alle Infrastrutture, Roberto Castelli, ha detto: “Il ponte sullo Stretto potrà partire un minuto dopo l’avvio delle grandi infrastrutture del Nord”. Un po’ stretta come condizione, ecco perché si chiama ponte sullo Stretto.
Giancristiano Desiderio
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La storia: testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra della vita, nunzio dell’antichità MARCO TULLIO CICERONE
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Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di STRATEGIA DELLA TENSIONE I fatti di Pigneto stanno prendendo giorno dopo giorno contorni più inquietanti e pericolosi. La squadraccia fascista che aveva aggredito tre negozi gestiti da extracomunitari si è trasformata in un cinquantenne di sinistra, pregiudicato, esasperato da un furto commesso da un marocchino e da un gruppo di ragazzi, tra i quali anche uno di colore. Quindi, niente fascisti all’orizzonte. Eppure, come per i fatti di Verona e quelli della Sapienza, la stampa di sinistra, i partiti massimalisti e cattocomunisti avevano subito gridato al pericolo nero, al rigurgito di eversione nazifascista. E’ in atto una strategia della tensione ben chiara. Morto, per volontà di Veltroni e per la chiara sconfitta elettorale, l’antiberlusconismo militante, la sinistra è tornata sul suo altro cavallo di battaglia. Chi è contro di noi è fascista, che poi sia liberale, cattolico, socialista o altro non importa. E, soprattutto, il pericolo fascista è sempre dietro l’angolo. Una strategia che a volte è portata avanti in buonafede, altre volte per stupidità, spesso per interessi di parte. Per una persona, invece, la malafede è ovvia e chiara. Si tratta della collega di Radio Capital, Simona Zappulla, giornalista dell’Agi. La Zappulla, proclamatasi testimone d’eccellenza dai fatti di Pigneto, infatti, ha raccontato in tempo reale gli avvenimenti di quel giorno. Lei era lì. Lei aveva visto tutto. Lei aveva visto le svastiche sulle sciarpe della squadraccia nazifasciata. Simona Zappulla si è inventata tutto. Nessuna svastica, nessun fascio, nessuna squadraccia. Eppure, è bastata la sua parola per rilanciare la propaganda sinistroide. Per far salire la ten-
sione e gridare al pericolo fascista. Simona Zappulla è una bugiarda. Nulla di male, se non fosse una giornalista professionista. Ora, l’Ordine dei giornalisti intervenga! Non è tollerabile un utilizzo dei mezzi di stampa per fomentare una controviolenza inaccettabile. La libertà di stampa non è libertà di inventare pericoli inesistenti e di raccontare panzane. Simona Zappulla venga cacciata! Di giornalisti come lei l’Italia non ha bisogno!
Rinascita Liberale rinascitaliberale.splinder.com
LA SAPIENZA SEQUESTRATA «Ci hanno di fatto sequestrato per almeno venti minuti. Lì fuori erano più di un centinaio, tutti dei Collettivi di sinistra. Non potevamo uscire. Poi hanno cercato di sfondare la porta prendendola a calci. Gridavano: ”Dimettiti o ti mandiamo via noi». E’ il racconto al Corriere del preside di Lettere, Guido Pescosolido,(...) Il sequestro e la tentata aggressione del preside di Lettere da parte dei collettivi chiariscono una volta per tutte la sostanza del ”caso Sapienza”. Una facoltà, se non tutto l’ateneo più grande d’Italia, è nelle mani dei collettivi di sinistra. E’ così da sempre e i presidi, il rettore, le autorità accademiche, oggetto di aggressioni e intimidazioni, hanno gravissime responsabilità per aver sottovalutato il fenomeno e, in alcuni casi, favorito e legittimato (per simpatia ideologica o vicinanza politica) una vera e propria egemonia che ormai è andata oltre la vita ”politica” della facoltà, arrivando a minacciare il semplice funzionamento dell’istituzione.
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e di cronach
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PAGINAVENTIQUATTRO Dopo la vista, arrivano corpo, parola e olfatto
È sensoriale la nuova frontiera dei di Roberto Genovesi
ulle prossime frontiere dei videogiochi si discute praticamente ogni sei mesi. Tanto è il tempo di invecchiamento stimato nel settore per i nuovi prodotti. Si parla spesso di grafica, di programmazione, di fluidita’ di gioco e innovazione nel gameplay ma raramente si affronta il problema, o la svolta, della multisensorialità. Il discorso è complesso ed investe la sfera del racconto multimediale nella sua generalità. Molte volte capita di dover analizzare l’evoluzione del narrato - nei fumetti, nei romanzi o negli script cinematografici - rilevando la capacità di adattamento alle esigenze del pubblico dei nativi digitali sulla base degli input che il prodotto riesce a dare non solo all’occhio ma anche agli altri sensi. Ebbene, apprestatevi ad una vera e propria rivoluzione copernicana sul fronte dei videogiochi perché, come accade ormai da anni, diventeranno il paradigma di un nuovo modo di raccontare una storia e di un diverso modo di sostenere l’attenzione dell’utente. Vi ricordate quanto si è parlato dei pad vibranti? Oggi “sentire” l’avatar che salta, subisce colpi o starnutisce attraverso la vibrazione del controller è pressoché scontato ma solo qualche anno fa si gridò alla svolta. Ma che ne direste se un proiettile in fronte trapassasse la barriera del monitor e vi colpisse tra gli occhi? I videogiochi multisensoriali sono alle porte ed e’ arrivato il momento di farsi male davvero.
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Fra qualche settimana sarà infatti in commercio Mindwire V5 un nuovo apparecchio collegabile al pc o alla consolle che, attraverso cinque elettrodi adesivi da fissare ai muscoli (un po’ come gli elettrostimolatori) permetterà di trasmettere all’utente, ad ogni colpo subito, una piccola dose di dolore fisico paragonabile a qualcosa in più rispetto ad una puntura di spillo. Immaginate però uno sparatutto in prima persona in cui i proiettili fischiano come saette da tutte le parti. Ci penserete due volte, a differenza di come ora avete sempre fatto, ammettetelo, a buttarvi nella mischia dello scontro a fuoco pensando “tanto c’è il respawn”perché cento punture di spillo valgono un bello schiaffo in piena faccia e stavolta sentirete il sapore amaro delle cinque dita. Se volete capire in anteprima di che si tratta basta fare un salto sul sito della www.mindwireMindwire all’indirizzo
VIDEOGIOCHI v5.com. Per farvi male da soli vi chiedono solo 140 euro. Già immagino le reazioni, perfino in parte giustificabili ma non giustificate, di psicologi dell’infanzia ed opinionisti: non bastava il videogioco immersivo che ipnotizza il ragazzino per ore davanti al monitor. Adesso lo prendiamo anche a calci e schiaffi.
Ma la realtà è che il videogioco non è, non è mai stato e non sarà mai un prodotto esclusivo per bambini. Chi lo pensa non sa di cosa parla. E a questo si va ad aggiungere che non c’è campo migliore di quello delle videosimulazioni (termine ormai vetusto) per sperimentare le tecnologie applicate alla persona. E, comunque, anche se qualcuno non se ne è accorto, la multisensorialità nei videogiochi ha già messo le tende da tempo. Da quando è arrivata sul mercato la consolle Nintendo Wii, infatti, non si è fatto altro che sperimentare propaggini in grado di gestire i movimenti del corpo nel loro complesso e l’uso delle mani sul pad è diventato perfino superfluo. Corpo, parola e olfatto stanno diventando gli struTra qualche settimana sarà in commercio Mindwire V5 un apparecchio collegabile al pc o alla console che permetterà di trasmettere all’utente, ad ogni colpo subito, una piccola dose di dolore fisico
menti di comunicazione tra il giocatore e il gameplay. Ci sono le piattaforme per il fitness, le racchette da tennis, le spade laser e perfino i propagatori di odori. Strumenti che hanno soppiantato la ormai banalissima pistola laser. Vi potrebbe perfino capitare di sentire vostro figlio (o vostra moglie, perché no) che urla nell’altra stanza «Obiezione, vostro onore!», ma non sta vedendo un telefilm poliziesco. Sta giocando sulla Nintendo DS a Ace Attorney o ad Apollo Justice che consentono, attraverso un microfono e l’uso della parola di far interagire il giocatore/avvocato con il giudice png gestito dal computer.
Tutto questo per ribadire, ancora una volta, che i videogiochi non vanno sottovalutati, nel bene e nel male. E che per arginarne i danni così come per esaltarne tutte le potenzialità, vanno studiati e giocati e solo dopo un’attenta riflessione ci si può lasciare andare a dichiarazioni sui giornali invece di fare a gara alla battuta a sensazione del gioco “per partito preso’’. Pensare di relegare i videogame al ruolo di giocattoli tecnologici per bambini sarebbe da ignoranti. Ma adesso scusatemi, vi devo lasciare, sta entrando la corte e il mio cliente, virtuale s’intende, rischia di prendersi vent’anni per un delitto che non ha commesso. Credo che dovrò alzare la voce.