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François Fejtö, scomparso lunedì a 99 anni
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La grande vita dello storico che ha cambiato il Novecento
di Ferdinando Adornato
Federigo Argentieri unedì mattina è morto all’Hotel-Dieu di Parigi François Fejtö, il grande storico e giornalista franco-ungherese: il prossimo 31 agosto avrebbe compiuto 99 anni. Originario di Nagykanizsa, cittadina a sud-ovest del lago Balaton, proveniva da una famiglia della media borghesia ebraica colta, che aveva ramificazioni in tutta la parte meridionale dell’Impero asburgico, Italia compresa. Il crollo rovinoso dell’impero lasciò su di lui un’impronta indelebile, ulteriormente accentuata dai problemi del primo dopoguerra, che dimostrarono in molti casi come spesso le soluzioni fossero assai peggiori del problema. Alla fine degli anni venti Fejtö si iscrisse alla facoltà di lettere dell’università di Budapest, dove dal 1930 al 1932 militò assieme al coetaneo Rajk nelle file del partito comunista, con cui ruppe a causa del contributo dato dal Comintern al trionfo di Hitler. Conseguita la laurea, divenne molto amico del grande poeta Attila József, con cui pubblicò una pregiata rivista di letteratura, Szép Szó. Nel 1938, a causa delle persecuzioni poliziesche e del crescente antisemitismo, si rifugiò in Francia, dove partecipò alla Resistenza. Dal 1945 al 1949 accettò di lavorare come addetto stampa presso la legazione ungherese a Parigi: durante questo periodo fece una breve visita in patria che gli fu sufficiente a capire quanto pericoloso fosse il clima politico.
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IL CASO AHMADINEJAD Non lo invitano a cena e lo trattano, giustamente, come il diavolo. Ma poi ci fanno affari. E l’Italia e l’Europa sono assai timide sull’atomica e sui diritti umani
La grande ipocrisia
alle pagine 2, 3, 4, 5, 6 e 7
se gu e ne ll ’ in s er to C ar te a pa gi na 12
Primarie democratiche: ultimo atto
Dopo l’incontro con Sarkozy
Obama-Clinton è cominciato il count-down
Alitalia, ritorna l’ipotesi Air France
di Andrea Mancia
di Alessandro D’Amato
di Riccardo Paradisi
di Claudia Conforti
Comunque vada (e comunque siano andate le primarie in programma ieri notte in Montana e South Dakota), è oggi il giorno decisivo per la nomination democratica alla Casa Bianca.
«Di Alitalia abbiamo parlato. La compagnia per il futuro avrà convenienza a trovare accordi con compagnie internazionali. In questo caso Air France potrebbe essere una buona soluzione».
L’annuncio di Berlusconi scatena le reazioni della Lega Nord. Il ministro degli Interni, Roberto Maroni, si dice sorpreso. Il leader del Pd, Walter Veltroni: «Così il Cavaliere dà ragione a noi».
Da alcune settimane circolano due petizioni contrapposte: una, anonima, contro il progetto di Renzo Piano per la riqualificazione di Ronchamp; l’altra è invece a favore.
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MERCOLEDÌ 4
GIUGNO
Il premier incontra Zapatero e gli dà ragione
Berlusconi cambia idea: «Emigrare non è un reato»
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
103 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Il progetto per Ronchamp è pronto
Un Piano per riqualificare Le Corbusier
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 4 giugno 2008
la grande
ipocrisia
Va bene escluderlo dai party: ma cosa si fa davvero per bloccare la sua atomica e difendere i diritti umani?
Isolato. Ma solo a cena di Enrico Singer così Mahmud Ahmadinejad se n’è andato da Roma senza cena. Escluso dalla lista degli invitati eccellenti che hanno passato la serata a Villa Madama con Silvio Berlusconi, con il ministro degli Esteri, Franco Frattini, e con un’altra bella fetta del nostro governo, a conclusione della prima giornata del vertice della Fao. Il presidente della Repubblica islamica dell’Iran, l’uomo che anche durante il suo blitz romano ha ripetuto che «Israele sparirà», l’uomo che sta costruendo la bomba atomica e che arma le milizie dei fondamentalisti di Hezbollah in Libano e di Hamas a Gaza è stato escluso dalla lista degli invitati in degna compagnia del dittatore dello Zimbabwe, Robert Mugabe. Meno male. Quei due coperti saltati sono un gesto simbolico che ha un peso. Ma che rischia di risolversi in una grande ipocrisia se alla forma, che pure molto conta nelle relazioni internazionali, non si accompagnerà la sostanza.
E
È vero che l’Iran è da decenni uno dei migliori partner commerciali dell’Italia che importa dal Paese degli ayatollah soprattutto petrolio e gas: l’84 per cento dei quasi quattromila milioni di euro del nostro import è costituito dalle materie prime energetiche. È vero che, soltanto nel settembre del 2006, l’ex primo ministro Romano Prodi non ha esitato a incontrare Mahmud Ahmadinejad a New York in margine all’Assemblea generale dell’Onu. È vero che la storia e l’attualità sono piene di esempi di quella regola che dice che gli affari sono affari: dalla costruzione di Togliattigrad nella Russia che ancora spediva i dissidenti nei gulag in Siberia, fino alla corsa al business con la Cina nonostante Tienanmen e la repressione in Tibet. Ma è altrettanto vero che il problema dei rapporti e dei comportamenti con i regimi che calpestano i diritti umani in patria, minacciano l’esistenza di altri Paesi e sostengono il terrorismo non si risolve con un posto a tavola negato. Dieci giorni prima delle elezioni del 13 e 14 aprile, in un’intervista al Financial Times, l’attuale presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha
Perché ad Ahmad Rafat non è stato permesso di seguire il vertice
«La peggiore delle censure» di Valerio Venturi
ROMA. Al giornalista italo-iraniano Ahmad Rafat, colleghi per partecipare al vertice in qualità di vicedirettore di AdnKronos International, è stato impedito, ieri, di intervenire al vertice della Fao. «Si è trattato di una brutta censura. È grave che Ahmadinejad arrivi fino a Roma e che impedisca a un giornalista, iscritto all’Ordine dei giornalisti e che dirige un’agenzia italiana, di esercitare la propria professione perché ha opinioni negative su un governo che ha chiuso oltre cento giornali in due anni e ha lasciato senza lavoro oltre mille giornalisti. La Fao, un organismo internazionale ospitato dall’Italia, non dovrebbe rendersi complice di un personaggio simile». Ci spiega bene cosa è successo? Mi ero accreditato tre settimane fa insieme ad altri
definito l’Iran «un pericolo» e ha detto che proprio la nostra posizione di importante partner commerciale di Teheran offre all’Italia «validi strumen-
vicedirettore di Aki-AdnKronos International. I nostri accrediti erano stati ritirati 36 ore prima da un fattorino. Ma ieri, quando sono passato sotto il metal detector, sono stato bloccato da un funzionario che mi ha chiesto pass e documento. Glieli ho dati e lui mi ha detto: “Non può passare, lei non è persona gradita al governo iraniano”. Ha pagato per il suo attivismo? Io critico la mancanza di libertà di informazione in Iran, come moltissimi. Ho ucciso? Ho commesso delitti? No, ma sono stato ripagato con la peggiore delle censure. Nel mio Paese.
dei più importanti dell’Iran passano i finanziamenti a Hezbollah e gli acquisti di tecnologie proibite per arricchirre l’uranio da usare nelle cen-
Per evitare che tutto finisca in una grande ipocrisia, ci vogliono azioni concrete: la decisione di inserire anche la banca iraniana Melli nella lista nera del boicottaggio europeo è un primo passo ti di pressione» per imporre sanzioni contro il programma nucleare del regime di Ahmadinejad. Un segnale concreto c’è già stato: nell’ultima riunione del Comitato politico e di sicurezza della Ue, il Cops, a Bruxelles l’Italia ha fatto cadere le sue obiezioni a inserire la Banca Melli nella lista delle istituzioni iraniane da boicottare. Eravamo rimasti da soli a opporci a questa decisione da quando anche Spagna, Austria e Cipro si erano allineati alla posizione prevalente dei Paesi europei che stanno discutendo i meccanismi pratici per mettere in atto la risoluzione 1803 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che ha allargato le sanzioni contro Teheran per convincerla a modificare il suo programma nucleare in modo che la sua applicazione sia eclusivamente per uso civile. Gli americani hanno incluso la Banca Melli nella loro lista nera dal 2007 dopo avere scoperto che attraverso questo istituto di credito - uno
trali nucleari e nella costruzione della bomba atomica.
Ma la Banca Melli è anche uno dei principali canali degli affari italiani in Iran. Un volume colossale se si aggiungono ai 3.881 milioni di euro di importazioni i 7.029 milioni di euro che negli ultimi anni le nostre principali imprese - in particolare quelle del settore energetico, Eni in testa - hanno investito in Iran. E non è davvero un caso se Mahmud Ahmadinejad, incassato il gelo politico e le proteste di piazza, era più interessato a incontrare almeno una pattuglia di rappresentanti delle aziende italiane che hanno interessi nel suo Paese. Un incon-
tro, naturalmente, del tutto legittimo e normale anche perché le nostre imprese che operano in Iran hanno contatti continui con le autorità di Teheran. E perché non tocca alle imprese decidere la politica estera. In realtà, al di là del peso dei simboli, più che un incontro concesso o negato, conta quello che si dice anche all’interlocutore più scomodo e
quello che si fa per spingerlo a non ripetere frasi come quelle ascoltate nella conferenza stampa che Ahmadinejad ha tenuto ieri nel palazzo della Fao dopo il colloquio che ha avuto con il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, con il quale di sicuro ha affrontato il tema sanzioni. Perché il segnale lanciato da Berlusconi con il mancato invito a cena non si risolva in una grande ipocrisia, ci vuole un salto politico. Una scelta di campo e di strumenti di pressione più netta. Tra i risultati delle oscillazioni del precedente governo c’è anche il recentissimo rifiuto della Germania - che dell’Iran è primo partner commerciale europeo - a inserire anche l’Italia nel cosiddetto ”Gruppo 5+1” che tratta con Teheran e che comprende i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia) più, guarda caso, la Germania. C’è ancora molto da fare.
Tutta la giornata del presidente iraniano
Attacchi all’Onu e agli Usa. Poi alle 17,10 distrugge Israele... di Nicola Procaccini
la grande
ipocrisia
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Le cifre dell’import e dell’export tra Roma e Teheran
I nostri affari con l’Iran
Ahmadinejad in preghiera e (sotto a sinistra) nei suoi abituali atteggiamenti aggressivi. A sinistra Ahamed Rafat, il giornalista cui era stato negato il pass per il vertice Fao
ROMA. L’aereo con a bordo Mahoumud Ahmadinejad è atterrato sulla pista di Campino alle 10 e 17 di ieri. Ad attenderlo: curiosità, rabbia, interesse, paura, ed un mare di giornalisti che l’ha sommerso per tutto il giorno, fino a quando non è ripartito per Teheran. Il presidente iraniano, per la verità, non ha fatto proprio nulla per sfuggire alle domande dei cronisti, anzi, le sue dichiarazioni hanno monopolizzato l’attenzione del vertice Fao. Purtroppo, resterà poco del dibattito sulla crisi alimentare nel mondo, mentre le parole di Ahmadinejad resteranno consegnate alla storia di una bollente giornata romana. Appena giunto nella capitale, attacca con la solita arringa antisionista: «I popoli europei hanno subito i maggiori danni dai sionisti e oggi le spese di questo regime falsificato, sia le spese politiche che quelle economiche, sono sulle spalle dell’Europa».
A chi gli chiedeva se le sue dichiarazioni anti-israeliane di ieri avessero messo in imbarazzo i tanti paesi par-
tecipanti al vertice della Fao, Ahmadinejad ha risposto: «Non credo che le mie affermazioni creino problemi; ai popoli piacciono le mie parole, perchè i popoli poi si salveranno dalla imposizione dei sionisti». Interviene per penultimo il leader arabo, quando l’attenzione va lentamente scemando verso il pranzo. Non saranno esplosioni nucleari, ma certamente sono fuochi d’artificio. «L’Onu è in mano a paesi che pensano a se stessi ed è controllato da volontà varie mosse occasionalmente da motivazioni diaboliche». Il linguaggio del leader arabo, in certi momenti, ricorda quello del leader della Lega Nord, Umberto Bossi. Nel corso della giornata, convoca e sconvoca decine di conferenze stampa, poi finalmente si siede e parte con il nuovo show. Dopo il saluto a Dio e «all’imam Khomeini così simile a Gesù Cristo», Ahmadinejad ha salutato il «valorosissimo popolo italiano mol-
L’Europa è il primo esportatore in Iran, con una quota del 41 percento delle importazioni iraniane dal resto del mondo. Di contro, lo share di esportazioni iraniane per l’Europa è il 24 percento del totale, facendo dell’Europa il primo mercato per i prodotti iraniani nel mondo. Con il 5,64 percento, l’Italia è il secondo esportatore europeo, preceduto da Germania (13,11%), e seguito da Gran Bretagna (4,86%) e Francia (4,8%). Entrando nel dettaglio, dunque, qual è il vero giro d’affari - in termini di scambi commerciali - che l’Italia mantiene con l’Iran? Secondo le elaborazioni dell’Osservatorio Economico del ministero del commercio internazionale su dati Istat, nel 2006 l’Italia ha esportato verso l’Iran merci per un valore di 1.839 milioni di euro, con un calo del 18,5 percento rispetto al 2005, in cui il nostro export verso l’Iran era stato del valore di 2.256 milioni di euro. I dati disponibili per il 2007 confermano la tendenza al calo del nostro export. Nel gennaio 2007 abbiamo esportato verso l’Iran merci per 105 milioni di euro, contro i 143 milioni di euro del gennaio 2006. Verso l’Iran esportiamo prevalentemente macchine ed apparecchi meccanici, per un valore mediamente pari al 64,3 percento dell’export totale, prodotti chimici e fibre sintetiche e artificiali (9,9 %), prodotti della metallurgia (4,8 %), macchine ed apparecchi elettrici (4,4 %), prodotti in metallo esclusi macchine ed impianti (3,5 %), autoveicoli, rimorchi e semirimorchi (3 %). Nel 2006, l’Italia ha importato dall’Iran beni per un valore di 3.881 milioni di euro, con un incremento dell’1,11 percento rispetto al 2005, in cui il valore dell’import era stato pari a 2.946 milioni di euro. Il trend si è confermato nel 2007. Nel gennaio 2007 abbiamo importato dall’Iran per 307 milioni di euro, contro i 224 milioni di euro del gennaio 2006 (sempre +1,11 %). L’aumento del valore dell’import dipende dalla sua composizione merceologica: mediamente l’84,6 percento del nostro import dall’Iran è costituito da petrolio greggio e gas naturale, le cui quotazioni sui mercati internazionali rimangono molto sostenute. Fra le altre, principali voci del nostro import dall’Iran figurano i prodotti della metallurgia (10 %), i prodotti chimici e le fibre sintetiche e artificiali (1,7 %), i prodotti dell’agricoltura e della caccia (1,1 %), i prodotti alimentari e le bevande (0,9 %), i prodotti tessili (0,5 %). Negli ultimi anni, le nostre principali imprese hanno concluso contratti in Iran per circa 7.029 milioni di euro, in prevalenza nei settori petrolifero (2.314 milioni di euro Euro, pari al 33 % del totale), siderurgico (1.493 milioni di euro, pari al 21,2 % del totale), energetico (1.200 milioni di euro, pari al 17 % del totale), petrolchimico (862 milioni di euro, pari al 12,2 % del totale) dell’industria automobilistica e delle relative componenti (509 milioni di euro, pari al 7,3 % del totale) delle costruzioni (484 milioni di euro, pari al 7 per cento del totale), delle macchine e degli apparecchi meccanici (167 milioni di euro, pari al 2,3 % del totale). A tali somme è da aggiungere un volume d’investimenti di circa 300 milioni di euro, per lo più connessi a jont-ventures di ditte italiane in Iran.
to simile a quello iraniano». «Purtroppo - ha detto - il mio calendario è molto fitto e non posso incontrare nessuna autorità». Che nessuno dica che sono state le autorità italiane ad evitare l’incontro con lui. Molto semplicemente, il presidente iraniano era troppo impegnato. Anche se a un certo punto si lascia andare ad una considerazione molto poco equivoca: «Il mondo è gestito proprio da incompetenti».
Conosce bene i meccanismi della comunicazione occidentale e gioca a nascondino con le parole più minacciose
Conosce bene i meccanismi della comunicazione occidentale, alterna i toni del suo discorso, gioca a nascondino con le parole più minacciose ed alla fine colpisce i suoi obiettivi. «Secondo me, il presidente Bush sta pensando di nuovo ad un attacco militare contro l’Iran». Salvo poi aggiungere che, a suo avviso, però, «non riuscirà mai a farlo». Ma è sempre Israele il nemico N° 1 per Ahmadinejad, di più è lo strumento di cui si serve per guadagnare
la scena internazionale. Il senso delle sue parole è quello che usa in Medioriente, ma qui da noi è più subdolo, meno greve, ugualmente chiaro. «Pensiamo che tutte le nazioni del mondo abbiano diritto a esistere» dice il presidente iraniano. Poi alle 17 e 10, sulla ”sparizione” di Israele, aggiunge: «Ho dato soltanto una notizia. Ho parlato solo degli sviluppi che si stavano verificando, messi in luce dagli analisti. Crediamo che Israele scomparirà». Una constatazione dunque, e finge di meravigliarsi dell’indignazione che lo circonda. D’altra parte, conclude: «E’ negli interessi stessi del popolo europeo che ciò avvenga perchè il popolo europeo ha vissuto il costo dell’occupazione israeliana». La chiusura è magnanima nei nostri confronti: «Noi amiamo il popolo italiano e vogliamo rafforzare i legami con l’Italia». Ahmadinejad ringrazia Dio, saluta tutti e se ne va. Lo attende l’aereo che lo riporterà in Iran. A terra restano inquietudini, timori e la sensazione di essere stati, ancora una volta, l’utile strumento dell’astuzia di un piccolo uomo senza scrupoli.
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a che serve
la fao Clima. I dati forniti dalla
Fao, bilancio politico ed economico di un “ente inutile”
Una vetrina per tiranni che spreca miliardi: non è meglio chiuderla?
Nel 2025, di Raffaele Cazzola Hofmann
di Francesco Cannatà
ROMA. Nella giornata inaugurale di ieri la difesa a 42 milioni nel 2004, 854 nel 2006 e 862 quelli denunciati ieri a Roma dal senegalese Jacques Diouf, direttore generale della Fao. Sono i numeri delle persone che nel mondo soffrono la fame. Un esercito di disperati che aumenta al ritmo di 6 milioni l’anno. E come tutti gli eserciti anche questo ha le sue gerarchie e i suoi generali. Gerarchie molto particolari. Alla sua testa non ci sono gli ufficiali, ma i soldati che perdono la vita.
spada tratta di Inacio Lula a favore delle bioenergie (vedi pagina 6) è stato uno dei pochi momenti di rilievo della conferenza della Fao. Il presidente brasiliano ha infatti ricordato come il tema sia cruciale non solo per il suo Paese, maggior produttore ed esportatore mondiale dei carburanti tratti dalla lavorazione della canna da zucchero, ma per tutto il mondo. La questione del bioetanolo, per quanto destinata a strappare la scena, non è tuttavia la sola al centro del vertice. Infatti il titolo stesso del consesso romano cita, al fianco del binomio tra energia e cibo, anche un terzo elemento: il “cambiamento climatico“. Che è quindi l’altro lato della medaglia della malnutrizione che, nei dati del direttore generale della Fao, Jacques Diouf, colpisce ancora almeno 700 milioni di individui nel mondo.
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Una strage globale che, nonostante l’attività di organizzazioni internazionali e Ong, finora non è stato possibile fermare. Ogni minuto il nostro pianeta assiste impotente alle morte per inedia di 16 persone. Otto milioni e 700mila all’anno. Dall’altra parte di queste trincee dell’orrore c’è la Fao. Vincere questa guerra è il compito della Food and agricolture organization. Ma, come spesso avviene, la verità oltre ad essere rivoluzionaria è paradossale. In questo balletto funebre, sono gli affamati che sfamano la Fao. Per capirlo basta dare di nuovo la parola alle cifre. L’altro esercito composto, sembra, da soli generali, nel 2007-2008 ha avuto a sua disposizione un tesoro di 784 milioni di dollari. I suoi tremilaseicento dipendenti sparsi nel mondo, vongono pagati partendo da un minimo di 34.760 dollari l’anno. Chi ha poi la fortuna di lavorare nella sede centrale, a Roma ci sono circa 1900 persone, riceve uno stipendio medio netto di 61mila dollari l’anno. Nulla in confronto a un dirigente che si ritrova in busta paga 159mila dollari. Tutti soldi incassati al netto. È dunque facile capire come mai circa la metà del bilancio annuale finisca nel buco nero della burocrazia Fao. Divorato dalle sue stesse strutture. Se la sede di Bangkok, la più lussuosa del mondo, costa 18 milioni, l’ufficio del direttore generale ne ingoia invece 41. Come è giusto che sia anche la conoscenza ha il suo budget. Ricerche, studi, analisi, previsioni e proiezioni statistiche, strategia per battere la fame, chiedono un finanziamento di 200 milioni.
Certo, la fame nel pianeta si spiega anzitutto perchè «tra il 1980 e il 2005 le donazioni agricole sono scese del 56 per cento e oggi rappresentano solo il 3,5 per cento del totale dell’assistenza ufficiale allo sviluppo». Ma anche gli effetti del cambiamento climatico hanno un ruolo centrale nonostante l’attenzione di studiosi ed opinione pubblica sia monopolizzato dall’affascinante tema delle energie alternative (come confermato anche dalle molte conferenze stampa a margine della conferenza in cui le domande sul bioetanolo l’hanno fatta da padrona). Secondo gli studi della Fao sono dieci gli effetti negativi causati dai cambiamenti climatici sulla sicurezza
Retroscena. Tra polemiche e passerelle non viene fuori nessun
Ma dal vertice solo di Luigi Saluzzo
colma e attesa palpabile. Insomma, di intraprendere il tortuoso viaggio tra “zone rosse” e fermate di autobus e metro soppresse per raggiungere la sede romana della Fao, teatro fino a domani del vertice mondiale sull’alimentazione, ne era valsa davvero la pena. Ma basta poco per vedere che le cose saranno un po’ diverse. Dopo i discorsi inaugurali degli ospiti italiani Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi è il turno del segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon, e del segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone.
stampa nella sede della Fao tende a svuotarsi. Neanche leader di spicco come il brasiliano Lula, il giapponese Fukuda, l’egiziano Mubarak, il francese Sarkozy e lo spagnolo Zapatero bastano. Qualcuno di loro tenta di smuovere la platea e la sala stampa con dei colpi ad effetto. Per esempio Lula che difende a spada tratta i maggiori imputati per la crisi alimentare in atto nel Terzo mondo, i biocarburanti: «Semmai i fattori di cui tener conto sono altri. Costo del petrolio in crescita, volatilità dei tassi di cambio, speculazioni sui mercati, aumento della popolazione del nostro pianeta e protezionismo agricolo attuato dai Paesi ricchi».
Poi, dopo il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, comincia la sfilza di interventi, sulla carta di cinque minuti ma nella realtà di almeno il doppio nonostante gli stanchi richiami all’ordine, di quaranta (!) leader tra capi di Stato, di governo e di organizzazioni internazionali. Sono davvero troppi e con troppo poco tempo a disposizione per poter dire qualcosa di incisivo. Giocoforza, man mano che i leader mondiali intervengono e il tempo passa inesorabile, la sala
Anche Mubarak ci prova attaccando a testa bassa il piano della Fao volto a portare al 19 per cento le riserve mondiali di cereali: «È un’idea ingenua sul lungo termine mentre a breve potrebbe addirittura peggiorare la crisi perché ci sarebbe ancor meno cibo a disposizione con effetti tragici sul piano sociale». Ma non c’è davverno niente da fare. Lo stanco rituale che si ripete identico a sé stesso in ogni occasione dei vertici della Fao (e dell’intera Onu) è
Tra le istituzioni internazionali più prestigiose, sicuramente la più antica, la Fao è guidata da un vero e proprio imperatore. Il senegalese Jacques Diouf, 69 anni, che governa incontrastato da 13 anni questa agenzia dell’Onu in profonda crisi. Sprechi, burocrazia, mancanza di collegamento tra centro e periferia, assenza di serie strategie di sviluppo e un rigore finanziario che definire scarso sarebbe un eufemismo, hanno caratterizzato la sua amministrazione. Ovviamente non saranno gli altri cinque anni di mandato, che Diouf si è già assicurato, a cambiare questo trend. Molti Paesi contestano la gestione del direttore generale che però continua a restare al suo posto perché il cosiddetto G77, ovvero il blocco dei Paesi in via di sviluppo, compresa la Cina, non ha altro modo di manifestare il proprio dissenso se non quello di essere moroso o di pagare in ritardo il contributo obbligatorio. Ma qualcosa sta cambiando. I Paesi membri più influenti tra cui Stati Uniti, Giappone, Francia e, clandestinamente, l’Italia che in quanto Paese ospite deve dare un colpo al cerchio e uno alla botte, hanno detto basta a una gestione che non condividono. Il primo atto d’accusa è arrivato a fine 2007 con un rapporto stilato da una commissione estera indipendente. Una bomba che ha messo sotto accusa proprio il segretario generale e la sua volontà di restare in carica per un terzo mandato.
ROMA. L’avvio è promettente: sala stampa stra-
Alla conclusione della prima giornata predomina la sensazione che summit come questo servano solo a far figurare decine di leader mondiali a corto di idee
la fao un miliardo senz’acqua a che serve
conferenza sono allarmanti soprattutto per l’agricoltura
alimentare. Spiccano il danneggiamento alla produttività delle foreste, l’aumento nell’utilizzo di pesticidi ed elementi chimici, la perdita di terreni arabili e un grave processo di salinizzazione delle falde acquifere.
Si calcola che entro il 2025 saranno 1,8 i miliardi di persone a vivere in aree con scarsità di acqua potabile e che per la fine del secolo la richiesta di acque irrigue per i campi salirà tra il 5 e il 20 per cento. Inoltre è possibile stimare in 42 milioni il numero di pesci a rischio a causa dei mutamenti del clima. Insomma, l’agricoltura è la prima vittima dei cambiamenti climatici. Al punto che, affermano altri studi della Fao presentati a margine del vertice di Roma, entro il 2080 il Pil generato dal settore agricolo potrebbe crollare dell’8 per cento nell’Africa sub-sahariana e del 4 per cento in Asia. Ma è a questo punto che emerge l’elemento più impensabile. Tra i fattori causa dei cambiamenti climatici figurano infatti perfino due attività proprie del mondo agricolo. Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), rispettivamente col 17 e col 14 per cento, la deforestazione e la coltivazione dei campi sono la terza e la quarta origine di cambiamenti climatici. Infatti emettono nell‘atmosfera forti quantità di metano (oltre il 50 per cento del totale mondiale originato da attività umane) e di ossido nitroso. In altre parole ci troviamo di fronte a un ideale cane che si morde
la coda: l’agricioltura è anche causa di quei cambiamenti climatici che poi si ritorcono su sé stessa.
In generale, negli ambienti scientifici il nesso effetto serra-riscaldamento globale-inquinamento è ancora al centro di molte discordie tra gli addetti del settore. È quindi comprensibile come all’interno della conferenza della Fao, che pure nel titolo è stata consacrata anche al loro esame e al loro studio, i cambiamenti climatici recitino un ruolo meno centrale rispetto al grande tema delle energie alternative di origina vegetale. In effetti, negli interventi avvenuti ieri alla sede della Fao, di cambiamenti climatici si è parlato poco o nulla. Anche il “padrone di casa” Diouf ha optato per i più tradizionali argomenti: aiuti alimentari, sussidi agricoli e rapporto tra Nord e Sud del mondo. Nonostante il silenzio ufficiale degli oratori di ieri, però, sono i documenti della stessa Fao a parlare chiaro. Ormai il cambiamento climatico è, insieme alle bioenergie, l’altra frontiera della lotta alla fame.
Secondo gli studi, sono 10 i rischi che corre il settore agricolo: dal danneggiamento delle foreste alla perdita di terreni arabili
diario
dal
vertice
Fao
Benedetto XVI: globalizzare la solidarietà «La fame e la malnutrizione sono inaccettabili in un mondo che, in realtà, dispone di livelli di produzione, di risorse e di conoscenze sufficienti per mettere fine a tali drammi e alle loro conseguenze». E’ il monito che arriva da papa Benedetto XVI, il cui messaggio alla Conferenza internazionale sulla sicurezza alimentare della Fao è stato letto dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano. Secondo il Pontefice, «nuove insidie minacciano la sopravvivenza di milioni di uomini e di donne e preoccupanti situazioni mettono a rischio la sicurezza dei loro Paesi. La crescente globalizzazione dei mercati non sempre favorisce la disponibilità di alimenti, mentre i sistemi produttivi sono spesso condizionati da limiti strutturali, da politiche protezionistiche e da fenomeni speculativi». La grande sfida di oggi è «quella di globalizzare non solo gli interessi economici e commerciali, ma anche le attese di solidarietà, nel rispetto e nella valorizzazione dell’apporto di ogni componente umana».
Sudan: tecnologie per sfamare l’Africa «Il Sudan ha milioni di ettari di terra ancora vergine, è attraversato dal fiume più lungo del mondo e quindi ha enormi risorse d’acqua. Siamo in grado di sfamare l’intero continente africano e anche il Medio Oriente, ma per poterlo fare abbiamo bisogno di capitali e cooperazione tecnologica». Ne è certo il ministro delle politiche agricole del Sudan, Elzubeir Bashir Taha. «Per questo auspichiamo partnership strategiche nel settore agricolo con l’Italia, la Francia e la Spagna e, in America Latina, con il Brasile e l’Argentina».
Mugabe: azioni illegali contro Zimbabwe Nel suo intervento alla Fao Robert Mugabe ha lanciato una forte accusa: «La Gran Bretagna ha mobilitato i suoi amici e alleati in Europa, Nord America, Australia e Nuova Zelanda per imporre sanzioni economiche illegali contro lo Zimbabwe. Ci hanno tagliato tutta l’assistenza allo sviluppo, disabilitato linee di credito e impedito alle istituzioni di Bretton Woods di fornire assistenza finanziaria, ordinando alle compagnie private negli Stati Uniti di non fare affari con lo Zimbabwe», ha aggiunto il presidente africano. Circa la crisi alimentare, per Mugabe «è strettamente connessa con due eventi che richiedono attenzione urgente e risposte planetarie: il riscaldamento globale provocato dai cambiamenti climatici e l’uso di prodotti agricoli per produrre biocarburanti. E l’estremo sud dell’Africa è una delle regioni a maggior rischio per effetto dei cambiamenti climatici nonostante il continente sia responsabile per il 5% delle emissioni di gas serra responsabili del riscaldamento globale del Pianeta».
piano concreto contro la fame
chiacchiere sempre più provato. Questa è davvero la fotografia dell’impotenza di un gigante dai piedi d’argilla. Alla fine della giornata predomina la sensazione che vertici del genere siano solo una passerella per decine di leader mondiali più o meno influenti. Anche perchè, alla fine, a rimanere nel ricordo di chi vi ha assistito sarà il fatto che dalla giornata inaugurale del vertice Fao non è emerso alcun piano contro la fame.
Resteranno invece nella memoria tre elementi che in una situazione normale non avrebbero dovuto avere niente a che fare con una giornata come quella di ieri. Infatti in conferenza stampa il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha strumentalizzato la Fao per ribadire che Israele sarà cancellato dalla carta geografica e per vaticinare che «gli europei si opporranno ai crimini dei sionisti in Palestina» e che «le elezioni negli Usa difficilmente saranno libere». C’è stato poi un episodio che ha lanciato una luce inquietante sull’intero vertice: il ritiro dell’accredito stampa a un giornalista iraniano di stanza in Italia, Ahmad Rafat. Dal canto suo l’altra mina vagante sul vertice, Robert Mugabe, non ha tralasciato di definire le Ong britanniche sui diritti umani - una delle quali, la Care International, è stata messa al bando dal suo governo proprio ieri - come «invenzioni dell’Occidente» ed «emanazioni del colonialismo».
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Cuba: il Nord del mondo è responsabile per la fame «I Paesi del Nord del mondo hanno una indiscutibile responsabilità per la fame e la denutrizione di 854 milioni di persone». Lo ha affermato nel suo intervento al vertice della Fao il primo vicepresidente di Cuba, José Ramon Machado Ventura, ricordando l’impegno di 12 anni fa preso dalla comunità internazionale che «in questa stessa sede - ha detto - decise di debellare la fame nel mondo. Si stabilì allora come obiettivo di dimezzare il numero delle persone denutrite entro il 2015. Quell’obiettivo, timido e insufficiente, oggi risulta una chimera».
Senegal: nessuno ci ha consultato
Un bambino raccoglie l’acqua fangosa di un pozzo in Camerun, fra meno di vent’anni 1,8 miliardi di persone soffriranno per la siccità. In alto il direttore generale della Fao, Jacques Diouf abbraccia il sindaco di Roma, Gianni Alemanno
Il presidente del Senegal Abdoulaye Wade si è detto deluso nei confronti della Fao: «Nessuno ha chiesto le nostre proposte per risolvere la crisi. Dobbiamo pensare ad una nuova istituzione efficace per l’assistenza nell’agricoltura, invece di usare gli esperti che vengono a insegnarci quello che sappiamo meglio di loro, dateci il budget per tre anni e vedrete, ambieremo - ha detto rivolto alla platea - Quando ho letto la bozza di risoluzione ho riso». I presidente del Senegal, tra l’altro, è connazionale del direttore generale della Fao Jacques Diouf. Wade ha poi detto che sarebbe ripartito immediatamente non prima di aver chiesto: «non imponeteci le vostre decisioni perché in passato non hanno funzionato. L’Africa non è più quella di un tempo».
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a che serve
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Energia. Lula, la Kirchner e gli altri sudamericani sfidano l’Occidente: «proseguiremo la produzione di biocarburante»
La guerra dell’etanolo di Oscar Piovesan
ROMA. Sul fronte dell’emergenza alimentare i governi dell’America Latina, in particolare quelli definiti “populisti”, sono convinti di avere (quasi) il coltello dalla parte del manico per gestire anche le rispettive risorse. E non solo per il tornanconto proprio e della regione, ma anche per quello del resto del mondo. Su questo si stanno particolarmente impegnando i di presidenti Brasile e Argentina, Luis Inacio Lula da Silva e Cristina Fernandez de Kirchner. Il summit della Fao è stata l’occasione per sbandierarlo. E per assicurare che ognuno, secondo le peculiari caratteristiche del rispettivo Paese, è pronto ad adoperarsi per trasformarlo «in un granaio mondiale». Previsioni di Fao e Ocse hanno indicato che tra una decina d’anni a farla da padrone nella produzione agricola mondiale, con l’India, vi saranno Brasile e Argentina.
l’intera area corre passi rapidissimi verso l’integrazione economica, in particolare energetica, e politica. Il Brasile ne è l’instancabile promotore. E tutti gli altri, per la prima volta, hanno capito che é indispensabile salire su tale carro ed affidarne la leadership al gigante regionale che si sta finalmente svegliando. Lo si è visto il 23 maggio a Brasilia, quando i presidenti dei 12 Paesi della regione, il colombiano Alvaro Uribe compreso – con il cambiamento di inquilino alla Casa Bianca non si sa mai! -, dopo 40 mesi di batti e ribatti, hanno siglato l’atto costitutivo dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (Unasur). Blocco da 360 milioni di abitanti e con un Pil di 800 miliardi di dollari. Certo, diseguale. Ma che quanto a risorse conta anche sul rame del Cile, il ferro del Perù ed il gas della Bolivia. 11 dei 12 presidenti (Uribe non ha voluto rischiare) hanno anche gettato le basi di un consiglio della Difesa, una sorta di Nato regionale, ma senza gli Usa. «Cominceremo facendo il necessario, poi faremo il possibile e, prima ancora di rendercerne conto, staremo facendo l’impossibile», ha enfatizzato Lula, pensando ad una moneta unica e ad un Banco del Sur sul modello della Bce. La strada non è in discesa. Gli attacchi, sia interni che esterni, si sprecano. Contro l’esagitato venezuelano Hugo Chavez già si sa.Tocca quindi a Lula fare la voce grossa.
Il piano è quello di mettere le mani sul “tesoro” delle risorse per aumentare il reddito dei loro elettori
Il Brasile, 190 milioni di abitanti, pur se importa 1,5 milioni di tonnellate di frumento, produce 42 milioni di tonnellate di cereali all’anno. L’Argentina, 40 milioni di abitanti, produce alimenti per 450 milioni di persone. Nel complesso, per l’Istituto Interamericano di Cooperazione per l’Agricoltura, America Latina e Caraibi esportano un “eccedente” del 30 percento della produzione di alimenti, pur se hanno 80 milioni di bocche da sfamare. Un tesoro immane. A cui si aggiunge l’energetico. Al di lá del Venezuela, in Brasile le scoperte di greggio off-shore da sfruttare sono quasi all’ordine del giorno (nel 2007, Petrobras, con utili per 11 miliardi di dollari, ne ha investiti 25). Lula, durante un incontro con la cancelliera Merkel, ha scherzato con i giornalisti tedeschi: «Se tornerete tra un decennio, dovrete chiamare sceicco il mio successore». Un boom cerealicolo ed energetico con cui tutti dovranno fare i conti. Anche perché, come non mai,
Al summit della Fao ieri, ha chiesto l’eliminazione dei sussidi agricoli di Usa e Ue e vuole vincere la “guerra dell’etanolo”. La canna da zucchero, dalla quale lo estrae, è al secondo posto dopo il petrolio come fonte d’energia, superando le centrali idroelettriche. E ha difeso l’Amazzonia, «che ha un padrone ed è il popolo brasiliano». Non solo: per gli attacchi degli ambientalisti per la deforestazione, per produrre soia e legname, Lula ha
chiesto agli imprenditori di essere piú cauti, poiché «se non abbiamo cura dell’Amazzonia, sorgerà un movimento internazionale per boicottare i prodotti brasiliani e saranno problemi». Come quelli finanziari. In un Brasile in cui le banche non hanno mai guadagnato tanto come nel suo settennato, la decisione di Standard’s and Poor e Fitch di affibbiargli l’investment grade ha provocato un nuovo rialzo del real sul dollaro. Colpo basso per export e inflazione. Lula ha pensato ad un controllo sulle entrate di valuta. Poi ha ribattuto con due misure. Un Fondo Sovrano da 20 miliardi di dollari, per far fronte al carovita, sussidiare esportatori e per investimenti esteri nella regione (già 8 miliardi di dollari in Argentina), ma anche in Africa. Ed un Piano per lo Sviluppo Produttivo, emulato dall’India. Con il quale, per il 2010, punta ad incrementare del 21 percen-
to il Pil e portare la fetta brasiliana nel commercio mondiale all’1,25 percento contro 1,18 percento attuale. D’altra parte, Lula, Chavez, Cristina e gli altri “populisti” hanno una meta comune: mettere il piú possibile le mani dello Stato sul “tesoro” delle risorse per disporre una maggiore ridistribuzione del reddito tra i ceti che li hanno votati. Non per nulla l’aumento della spesa pubblica e dell’inflazione da consumi sono i cerberi contro i quali si scagliano i loro oppositori, più mediatici che politici. Per i primi, ermergenza alimentare ed energetica sono quindi il cacio sui maccheroni. Gestendole (con il piano Fame zero, che piace tanto al direttore generale della Fao, Jacques Diouf, Lula ha ridotto la povertà al 19,3%, dal 35,2% del 1992), pur se accontentano di poco gli elettori, sanno che avranno in cambio il loro voto. Apparentemente un trend non ciclico, ma irreversibile.
Il responsabile dell’American Enterprise boccia la linea latino-americana
Sono pazzi.Avanti così e avremo nuove carestie di Kevin Hasset iciamolo: delle pessime politiche economiche non sempre provocano catastrofi, ma qualche volta accade. Per anni gli Stati Uniti hanno fornito massicci sussidi per la produzione di etanolo dal mais. E adesso l’impatto mondiale di questa politica sta cominciando a mostrare le sue crepe drammatiche. Non vi è dubbio che i sussidi abbiano sortito l’effetto desiderato: un’enorme percentuale di cereali e granaglie viene oggi utilizzato per la produzione di energia. Di che percentuale parliamo? Un recente rapporto della Banca mondiale afferma che «negli Usa quasi tutto l’aumento della produzione mondiale di mais registrato dal 2004 al 2007 (periodo nel quale i prezzi di cereali e granaglie sono aumentati notevolmente) è stato utilizzato per la produzione di bio-combustibili». Fermatevi un istante a riflettere e rileggete la frase una seconda volta. C’è di che restare sbalorditi. E mettersi a pregare affinché il mercato del lavoro e gli sforzi in materia
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di assistenza possano scongiurare il ripetersi di un’altra carestia del Bengala, pur in presenza di un aumento dei prezzi dei generi alimentari di tali proporzioni. Considerato l’aumento della popolazione mondiale e l’aumento dei redditi, una maggiore produzione alimentare è necessaria al fine di mantenere un livello accettabile di nutrizione. Ma dal 2004 la produzione di mais disponibile per il consumo da parte dei singoli individui non ha subito variazioni. Anche se il mais non è l’unica derrata disponibile, è comunque un genere alimentare importante, e la sua penuria ha portato ad un notevole aumento dei prezzi di quasi tutti gli altri cereali. Sempre secondo la Banca mondiale, nel complesso, dal febbraio 2005 al febbraio 2008 i prezzi dei generi alimentari a livello mondiale sono aumentati dell’83 percento. Secondo un classico delle analisi economiche, la carestia del Bengala, che si protrasse dal ’42 al ’44,
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diario
dal
vertice
Fao
Frattini incontra i ministri degli Esteri di Australia e Brasile
Foto grande: il presidente brasiliano Luis Ignacio Lula da Silva, detto Lula, la presidentessa argentina Cristina Kirchner e il venezuelano Hugo Chavez
Ricca giornata di incontri per il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini, a margine della Conferenza Fao. Tra gli altri, Frattini ha incontrato il ministro degli Esteri del Brasile, Celso Amorim. «Un colloquio - si legge in una nota della Farnesina che ha offerto l’opportunità di fare il punto sulla preparazione della visita di Stato in Italia del Presidente brasiliano e di confermare, in una fase di forte rilancio delle relazioni bilaterali, la volontà dei due Paesi di dare continuità e spessore alla loro collaborazione». Frattini ha anche incontrato il ministro degli Esteri dell’Australia, Stephen Smith. L’incontro «ha fornito l’occasione per uno scambio di vedute sulle principali tematiche dell’attualità internazionale: in particolare l’Afghanistan, dove Italia e Australia sono fortemente impegnate nel processo di stabilizzazione e consolidamento democratico del Paese, e la preparazione della prossima Conferenza Internazionale di Parigi. Sono stati inoltre confermati il comune impegno ad un forte rilancio nei rapporti bilaterali e la volontà di dare continuità e spessore alla collaborazione reciproca, anche alla luce dell’importante presenza della collettività italiana in Australia».
Ebrei in corteo contro Ahmadinejad Giovani, donne e bambini ebrei sono sfilati ieri nel centro di Roma, diretti al palazzo della Fao, attorno al quale le forze dell’ordine hanno istituito una zona rossa accessibile soltanto alle delegazioni del vertice, per protestare contro il presidente dell’Iran Mahmoud Ahmadinejad e la sua politica contro l’esistenza dello stato di Israele. I manifestanti sono partiti dal Portico d’Ottavia, nel cuore del ghetto, e hanno sfilato per piazza della Bocca della Verità e via dei Cerchi per arrivare in piazza di Porta Capena. La manifestazione è stata organizzata a sorpresa e, a quanto si è appreso, in maniera spontanea.
Veltroni incontra Zapatero, Lula e Ban Ki-Moon Presente al vertice della Fao questa mattina il segretario del Pd,Walter Veltroni, si è intrattenuto brevemente con il presidente brasiliano Lula e con il premier spagnolo Zapatero. Il leader democratico ha incontrato anche il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon. fu provocata dall’aumento dei costi dei generi alimentari, e costò quasi tre milioni di vittime. In particolare, la carestia iniziò a colpire seriamente quando il prezzo del riso aumentò del 61 percento fra il dicembre del 1942 ed il marzo del 1943. Ecco perché dovremmo sperare e pregare affinché il mercato del lavoro e gli sforzi congiunti possano migliorare le cose e scongiurare il ripetersi di un’altra carestia del Bengala, pur in presenza di un aumento dei prezzi dei generi alimentari di tali proporzioni. Tuttavia, i segnali che arrivano non vanno in quella direzione. Ad Haiti, le rivolte causate dalla crisi alimentare hanno già provocato la morte di sette persone, ivi compreso l’assassinio di un funzionario nigeriano della forza di pace delle Nazioni Unite e la rimozione del Primo Ministro Jacques Edouard Alexis. Il disordine che regna nel Paese è stato ben descritto il 9 aprile scorso in un discorso alla radio del Presidente haitiano Renè Prèval, nel quale ha fatto appello al suo popolo affinché metta fine a violenze e distruzioni: «Popolo di Haiti, che stai patendo indicibili sofferenze, che sei stato costretto a scendere in piazza a causa dell’elevato costo della vita; io ti chiedo di calmarti e di far sbollire la rabbia. A coloro che stanno seminando il caos e la distruzione, che stanno lanciando sassi e dando fuoco alle proprietà di altri cittadini, dico che la polizia non potrà più tollerare i disordini». E se i prezzi non scenderanno, questo è solo l’inizio. Non solo: rivolte di questo tipo si sono già registrate in altri nove Paesi. In un recente rapporto la Fao ha rilevato che nelle settimane scorse violenze connesse al-
Alemanno a Sarkozy: «Ha ispirato la mia campagna elettorale» la crisi alimentare si sono registrate in Burkina Faso, Camerun, Egitto, Indonesia, Costa d’Avorio, Mauritania, Mozambico e Senegal. Fino a che punto l’etanolo è responsabile dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari? Un nuovo studio elaborato dall’economista Thomas E. Elam della società di consulenza FarmEcon Llc ha esaminato la questione. Va detto che lo studio è stato commissionato da gruppi d’interesse che si occupano del settore dell’allevamento, anche se sembra fondarsi su modelli economici largamente accettati. Elam ha utilizzato il suo modello per effettuare una simulazione volta a calcolare quale sarebbe stato oggi il prezzo del mais se gli Stati Uniti non avessero fornito sussidi per la produzione di bio-combustibili. Ebbene, il calcolo dice che sarebbero stati più bassi del 50 percento. Una cifra che ci porta a un’altra considerazione: l’indipendenza energetica è importante, ma i bio-combustibili hanno un potenziale molto limitato in tal senso. Elam afferma che l’intera produzione mondiale di cereali e granaglie garantirebe una produzione di etanolo utile a sostituire il solo consumo annuale di benzina degli Stati Uniti. Fermo restando che una soluzione atta a ridurre l’eccessiva dipendenza dai combustibili fossili deve essere trovata, la soluzione non è certo rappresentata dai bio-combustibili. E dunque non si possono più giustificare i sussidi forniti dai governi a queste produzioni.
Secondo uno studio il prezzo del mais oggi sarebbe dimezzato se gli Usa non avessero sostenuto la produzione di bio-combustibili
A margine del vertice della Fao, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha incontrato il presidente francese, Nicolas Sarkozy. Il primo cittadino della Capitale ha ricevuto i complimenti del capo di Stato francese per la recente vittoria alle elezioni comunali. Sarkozy ha affermato di aver seguito con particolare interesse e vicinanza l’intera competizione elettorale e di essere rimasto soddisfatto per la storica vittoria della coalizione di centrodestra al Comune di Roma. Alemanno ha invitato il presidente della Repubblica Francese a tornare a Roma per una visita ufficiale. Nel corso del colloquio, il sindaco ha inoltre affermato che la sua campagna elettorale è stata ispirata a quella del leader francese e lo ha ringraziato per l’appoggio ricevuto dall’Ump, il partito di Sarkozy, nelle settimane che hanno preceduto l’elezione di Alemanno in Campidoglio.
Della Vedova: «Lotta alla fame non diventi lotta al mercato» «Di fronte all’emergenza della fame, che coinvolge circa un sesto dell’umanità, occorre prevedere un piano straordinario di aiuti, come ha detto con chiarezza il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi - lo dichiara Benedetto Della Vedova, presidente dei Riformatori liberali e deputato del Pdl - Tuttavia, nell’immaginare strategie di lungo periodo capaci di contrastare il fenomeno endemico della fame e della denutrizione, occorre uscire dalla logica dell’emergenza e guardare ai fattori che “strutturalmente” lo favoriscono e accompagnano». «La lotta alla fame - ha aggiunto Della Vedova -, non può diventare lotta al mercato e alla globalizzazione, cui si deve al contrario il progresso di molti Paesi del sud del mondo. La polemica contro il mercato e le sue insufficienze, non deve fare dimenticare che la fame è anche e soprattutto figlia dell’assenza di diritto e democrazia e della devastante corruzione politica propria dei regimi autocratici».
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politica
Al vertice Fao il Cavaliere rassicura Zapatero: «Per me l’immigrazione non è reato» e salda l’intesa con Sarkozy
Immigrati, Berlusconi cambia idea di Riccardo Paradisi
ROMA. «Siamo due paesi molto amici noi e la Francia». Sono le prime parole che Silvio Berlusconi pronuncia alla conferenza stampa che tiene subito dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il presidente della Repubblica francese Nicolas Sarkozy, in Italia per partecipare al vertice della Fao. Non è una concessione al protocollo quella del Cavaliere e nemmeno un’esibizione del cameratismo confidenziale che Berlusconi usa di solito con i grandi della terra: Vladimir (Putin) e George (Bush). Gli assist politici che Sarkozy e Berlusconi si sono scambiati in poche ore - dalla necessità di una politica comune europea sull’immigrazione, all’alleanza tra Alitalia e Air France, dal sostegno francese per la partecipazione dell’Italia al 5+1 dell’Onu, a quello italiano ai progetti transalpini per la presidenza del semestre dell’Unione europea - tra Italia e Francia si va configurando un asse solido.
Paesi fino a poco tempo fa divisi da un’ostilità mai mai sopita, trovano oggi una piattaforma di interessi e politiche comuni che sono un buon cemento per le amicizie di questo tipo. «Sintonia su tutti i punti» dice Berlusconi, e il punto che a Berlusconi preme di più in queste settimane è proprio quello sull’immigrazione. Che gli è costato polemiche con la Spagna ma anche con le gerarchie vaticane. Un punto tra i primi a comparire nell’agenda per la presidenza francese del semestre europeo. «Occorre dare una risposta europea alla questione migratoria, ha spiegato lo stesso Sarkozy, l’immigrazione è necessaria ma deve esser controllata. A questo fine abbiamo bisogno di un patto europeo sui flussi in ingresso e l’asilo, che fissi alcuni grandi principi comuni, fra cui il rifiuto di regolarizzazioni di massa e il potenziamento di Frontex (l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne)». Un assist che Berlusconi coglie al volo non prima però di aver rassicurato il premier spagnolo Zapatero, anche lui a Roma per il vertice Fao, spiegandogli che la normativa che
L’incontro di ieri tra il primo ministro spagnolo Josè Luis Zapatero e Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ha spiegato al suo collega il senso delle politiche italiane sull’immigrazione rassicurandolo sul reato di clandestinità. «Non ci sarà», ha garantito Berlusconi, anche se ha specificato che la clandestinità sarà giudicata un’aggravante
il Parlamento italiano approverà non introdurrà il reato di immigrazione clandestina ma porrà la clandestinità come aggravante ai reati consumati dagli irregolari Una mediazione diplomatica che si aggiunge al viaggio in Spagna del ministro alle politiche comunitarie Andrea Ronchi, già duramente contestato da Giorgio La Malfa, che lo ha giudicato superfluo e umiliante per l’Italia, considerando anche il fato che la Spagna usa nei con-
tenze che a Germania e Spagna non dispicarebbe affatto. Del resto che questa sia una tentazione di certi Paesi europei è abbastanza chiaro. L’antiberlusconismo di maniera che prima aveva infatti il suo centro di irradiazione in Francia - ricordate i titoli di Le Monde che invitavano gli italiani a non votare Berlusconi, uomo inaffidabile e pericoloso? - si è trasferito nella penisola iberica mentre il governo tedesco ha pronunciato uno
mia preoccupazione, non è una questione che mi pongo alzandomi la mattina», aggiungendo blasè che «se c’è da dare una mano la daremo». Assist francese anche sul nucleare: «Se un giorno l’Italia dovesse tornare sulla scelta del nucleare, saremmo lieti di lavorare insieme. Bisogna avere dei progetti industriali comuni. Se in passato ci sono stati dei deficit è proprio perchè non abbiamo investito abbastanza».
Un trionfo di comuni intenti quello tra Berlusconi e il presidente francese: dalle politiche sui flussi migratori al nucleare sono d’accordo su tutto. E al premier spagnolo viene spiegata la nuova normativa voluta dal governo fronti dei migranti misure durissime per scoraggiarne l’arrivo e ciò che muove i ministri di Zapatero a contestare la politica italiana sull’immigrazione è proprio il timore di dover far fronte a nuovi arrivi in transizione per per l’Italia. Ma la realpolitick del governo Berlusconi in questo momento prevede una ragnatela sottile che saldi l’intesa con Sarkozy eliminando i rischi di isolamneto italiano dal novero delle grandi po-
stop chiaro sull’ipotesi di un ingresso dell’Italia nel ”5+1”, il gruppo dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania, che conduce i negoziati sul nucleare iraniano. Anche su questo però il presidente Sarkozy non ha fatto mancare il suo soccorso e il suo sostegno: «L’Italia ha fatto la sua parte e deve essere presente nel 5+1», mentre Berlusconi affettava sull’argomento un esibito distacco «Non è una
Assist persino sulla cooperazione col terzo mondo: «La Francia, ha detto Sarkozy, accoglie la proposta del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi di non computare nei vincoli Ue imposti dai parametri di Maastricht i maggiori aiuti che verranno concessi ai Paesi del terzo mondo per combattere l’emergenza fame causata dall’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. Anche Chirac propose di de-
curtare le spese militari dal deficit. Guardo all’iniziativa di Berlusconi anche come una proposta a fare di più contro la fame a quei Paesi che fanno poco». Un trionfo di concordia insomma, un tandem perfetto e rodatissimo che mette sul binario politico lungo affinità e intenti comuni. Qualcuno ha già battezzato questa luna di miele sarkoberlusconismo. Espressione coniata dal politologo francese Pierre Musso che a Sarkozy non piace anche se in conferenza stampa ammette che «il punto comune che ci affianca è il rifiuto di guardarsi l’ombelico». «Entrambi, conferma il Cavaliere, siamo persone concrete che sanno che la politica deve risolvere i problemi della gente. Questo ci accomuna veramente». Se l’asse italo-francese riuscirà a saldarsi, l’Europa dei prossimi anni sarà molto diversa da quella che avevamo imparato a conoscere. E Berlusconi, forse per la prima volta, sarà riuscito a spezzare quel cerchio di ostilità europeo la cui circonferenza non aveva mai smesso di passare per la Francia.
pensieri & parole
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Amato lancia una provocazione e subito Borrelli e D’Ambrosio replicano. Ma anche Oscar Luigi Scalfaro...
La lingua batte dove Mani Pulite duole di Arturo Gismondi
in una intervista al Corriere della Sera, nella quale si annuncia il ritiro definitivo dalla vita politica attiva, peraltro preannunciata qualche mese fa rinunciando alla candidatura per le elezioni del 13-14 maggio, che Giuliano Amato ha riproposto all’opinione pubblica, agli storici e ai più attenti fra gli osservatori politici che vissero quegli anni difficili, un episodio al tempo controverso, poi seppellito dal silenzio, che segnò però quella che si è convenuto di definire, da allora, in modo un po’ neutro, la «stagione delle mani pulite». L’evento porta la data del 5 marzo 1993 quando il Ministro della
È
favore della procura si mobilitò soprattutto la sinistra, e per la prima volta il «popolo dei fax», che fece sentire la voce di una opinione pubblica favorevole alla via intrapresa dalla Giustizia nei confronti del potere politico.
La vertenzache per qualche giorno divise verticalmente la politica e l’opinione pubblica in grado di farsi sentire, venne risolta dal nuovo Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il quale intervenne affermando in modo reciso che egli non avrebbe mai votato il decreto Conso. Alla rievocazione di Giuliano Amato hanno puntualmente risposto, in una intervista sl
GIOVANNI CONSO Il 5 marzo 1993 presentò un decreto che cercava di depenalizzare i reati minori: sollevò una rivolta nella procura di Milano, sostenuta dalla sinistra e , per la prima volta, dal «popolo dei fax»
Giustizia del governo Amato, Giovanni Conso, un giurista insigne, abbastanza estraneo ai padrinati politici, presentò un decreto nel quale, dinanzi alla pioggia di avvisi di garanzia e di accuse per corruzione che colpivano a raffica un po’ tutti i partiti, ma soprattutto quelli del centro, si cercava di distinguere, di depenalizzare fra i tanti i reati minori, semplici finanziamenti ai partiti, casi di raccomandazioni e reati consimili. Il decreto sollevò immediatamente, negli ambienti giudiziari, una tempesta di reazioni, e una rivolta in piena regola nella Procura di Milano, che organizzò una vera e propria manifestazione di protesta pubblica, chiedendo il ritiro del decreto. Furono giorni di grande agitazione, e di lacerazione profonda, i partiti si divisero, a
Corriere sia la Procura di Milano nella persona di Gerardo D’Ambrosio, sia l’allora Capo dello Stato Scalfaro. Nella risposta, né l’uno né l’altro oppongono argomenti che non siano quelli di allora. Scalfaro sembra soprattutto preoccupato di smentire di aver preso posizione a favore della Procura di Milano affermando che fu lui, avuta notizia dell’iniziativa del governo, a convincersi che era suo dovere negare la firma trattandosi di opporsi a quello che appariva come un intervento nelle indagni della magistratura. Quanto a D’Ambrosio, oggi senatore del Pd, anch’egli ripete le ragioni di allora. Non entra neppure nel tema giuridico proposto dal decreto Conso, la necessità di distinguere fra reati veri di concussione e corruzione e reati minori, estendendo-
ne le conseguenze, giuridiche e morali in danno di una infinità di casi non meritevoli di tanta severità. A smentire la tesi di D’Ambrosio è il fatto, oggi accertabile, che molte delle chiamate di correo sono in seguito cadute, non dando luogo ad alcun processo, ma lasciando dietro di sé una scia di vergogna che ha colpito innumerevoli persone e famiglie. Fra le testimonianze, c’è un libro dell’onorevole Carlo Giovanardi che ha ricostruito la vicenda dei parlamentari Dc coinvolti nella furia accusatrice, documentando che nella grande maggioranza dei casi alle richieste di autorizzazioni a procedere non è seguito alcun processo, e neppure la
ranzia perché coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che aveva movimentato le cronache politiche e bancarie qualche anno prima. L’avviso fu seguito dalle sue dimissioni, seguite a loro volta da una sorta di curiosa crisi-rimpasto che portò alla nomina di un nuovo ministro della Giustizia nella persona di Giovanni Conso. Il quale non ebbe, dalla Procura di Milano, trattamento migliore almeno a giudicare dalla sorte del suo decreto.
Il governo Amato, costituito sulla base delle elezioni del 1992, che avevano segnato una sconfitta clamorosa del Pds di Oc-
sociali. E ci fu chi non sopravvisse alla vergogna. Renato Amorese, dirigente del Psi, si ucciderà, come fece il deputato socialista di Brescia, Moroni, del quale non si conosceranno le accuse rivoltegli. Seguirono avvisi e comunicazioni per Gianni De Michelis, per il repibblicano Del Pennino, per il segretario dl Pri La Malfa, del Pli Altissimo, moltissimi fra i dirigenti della Dc. E alla fine dell’anno 1992, arrivò, attesa, la prima comunicazione giudiziaria per Bettino Craxi, quello che ai più era apparso da tempo come un obbiettivo politico decisivo. Segui il laborioso procedimento per mafia contro Giulio Andreotti, che riuscirà, solo, a procurare
GERARDO D’AMBROSIO
OSCAR LUIGI SCALFARO
Non vuol neppure entrare nel tema giuridico proposto da quel decreto, ossia la necessità di distinguere tra i reati: ma la sua tesi è smentita dal fatto che molte delle chiamate in correo per Mani pulite sono oggi cadute
Oggi sembra soprattutto preoccupato di smentire di aver preso posizione a favore della Procura milanese: afferma che fu lui a convincersi che era suo dovere negare la firma al decreto
contestazione diretta di alcun reato. E si tratta del 90 per cento dei casi che però si sono risolti nella fine politica degli accusati o dei parlamentari chiamati in causa, in una vergogna che ha pesato sugli accusati e sulle famiglia.
In realtà, la vicenda che oggi Amato ricorda dimostrò una verità che, di lì a Mastella, avrebbe reso difficile la vita a diversi Guardasigilli da allora succedutisi al ministero di Via Arenula. E il governo Amato aveva avuto già la sua parte di difficoltà. Al momento della sua costituzione, il 28 giugno 1992, come ministro della Giustizia venne nominato in realtà Claudio Martelli, del Psi, ma la sua carriera fu breve: il 10 febbraio 1993, il ministro socialista ricevette un avviso di ga-
chetto (fermatosi al 16 per cento dei voti con una perdita dell’11 per cento rispetto alle precedenti elezioni del 1987) venne costituito dai partiti del vecchio centro, Dc, Psi, Psdi, Pli, in qualche modo sopravvissuti alla tempesta elettorale che aveva colpito soprattutto la sinistra. Fu dunque il prodotto democratico di elezioni del tutto democratiche. Ma si ebbe ben presto la sensazione, e tanto più dopo la sorte del decreto Conso, che si trattava di una coalizione di sopravvissuti, destinati ad accompagnare un dramma politico che si svolgeva altrove . Fra i partiti di governo vennero raggiunti da avvisi di garanzia l’amministratore della Dc Severino Citaristi, non scamperà il segretario Forlani che finirà la sua carriera affidato ai servizi
alla propria vita politica una nuova stagione. Giuliano Amato si dimise il 22 aprile 1993. Egli lasciò intendere, al momento di abbandonare, di aspirare a un silenzio rotto soltanto nei giorni scorsi ricordando un momento significativo della «rivoluzione dei giudici». A Palazzo Chigi arrivò Carlo Azeglio Ciampi, che operò riforme importanti per una economia pressoché definitivamente consegnata, dai suoi predecessori, a un debito pubblico che continua a pesare sulla nostra vita. Ciampi chiamò a partecipare al governo tre ministri del Pds, il partito non ritenne di accettare, giudicò forse intempestivo l’ingresso al potere. Il Pds si rifarà, come partito di governo, dopo la nuova sconfitta elettorale del 1994.
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omunque vada (e comunque siano andate le primarie in programma ieri notte, ora italiana, in Montana e South Dakota), è oggi il giorno decisivo per la nomination democratica alla Casa Bianca. Proprio oggi, infatti, Barack Obama potrebbe tentare il colpo di reni definitivo verso quota 2.118 delegati, il “numero magico” che gli consentirebbe di affrontare senza rischi la convention di agosto a Denver (Colorado). Con il compromesso raggiunto dai notabili democratici sulla sorte dei delegati di Florida (dimezzati) e Michigan (neutralizzati), qualsiasi risultato esca dalle urne di Montana e South Dakota non è in grado di incidere più di tanto sull’esito della sfida. I delegati in palio nei due stati sono appena 31 e l’ipotesi più probabile è che, dopo il voto, vengano ripartiti quasi equamente tra i due candidati. Il nodo della questione, dunque, sono ancora una volta i “superdelegati” che non vengono eletti dal voto popolare - o dai caucus - ma sono espressione diretta del partito.
mondo
C
Barack Obama sta lavorando disperatamente per raggiungere quota 2.118 nelle ore immediatamente successive alla chiusura delle urne in Montana e South Dakota. O almeno entro la fine di questa settimana. Nel conteggio di Real Clear Politics (uno dei più affidabili), attualmente al senatore junior dell’Illinois mancano 42 delegati. Anche considerandone 17-18 conquistati con le ultime elezioni primarie in programma (nella migliore delle ipotesi), ne mancherebbero circa 25 per chiudere definitivamente la partita. Perché, come scrive Tom Bevan proprio su Rcp, «una volta fatto uscire il genio fuori dalla bottiglia, per Hillary sarebbe praticamente impossibile ricacciarlo dentro». Al ritmo di 2-3 endorsement di “superdelegati” al giorno (ieri è stato il turno di Maria Chappelle-Nadal del Missouri e di Joyce Lalonde del Michigan), Obama però rischia di sprecare ancora troppo tempo prezioso. Mentre adesso, oggettivamente, si è creata una “window of opportunity” che sarebbe importante non lasciarsi scappare. Lo sa benissimo Obama, che sta muovendo mari e monti per assicurarsi, nel giro di 24-48 ore, il numero di deputati, senatori, governatori e burocrati che ancora gli mancano. E lo sa benissimo la Clinton Attack Machine che, seppure acciaccata, non sembra intenzionata a rinunciare di sparare le sue ultime cartucce.
Barack a un passo dalla nomination democratica. Voci e smentite sulla vicepresidenza di Hillary
Obama-Clinton, inizia il count-down
mizi Obama ha espresso ripetutamente parole di apprezzamento per Hillary, sottolineandone le capacità di combattente ed esprimendo ammirazione e rispetto. Oggi, con ogni probabilità, scopriremo se si tratta soltanto di schermaglie tattiche ad uso e consumo dei media o se i due, effettivamente, sono vicini a raggiungere un accordo che sarebbe forse in grado di alterare la dinamica elettorale. In caso contrario - e a nostro giudizio si tratta ancora del caso più probabile - la strada democratica verso la Casa Bianca potrebbe essere più in salita di quanto molti prevedevano appena qualche mese fa. In un contesto politico totalmente sfavorevole al Grand Old Party, che rischia di perdere parecchi seggi sia alla Camera che al Senato, infatti, la candidatura di McCain (e il prolungato scontro fratricida in campo democratico) rende “non impossibile” la terza presidenza repubblicana consecutiva. Analizzando le medie dei sondaggi nazionali, il vantaggio di Obama nei confronti del senatore dell’Arizona è inferiore al margine d’errore statistico, con i tracking quotidiani di Gallup e Rasmussen Reports che oscillano, ormai da qualche giorno, tra un leggero vantaggio di McCain e la perfetta parità.
di Andrea Mancia Ieri, per esempio, il mondo dei blog vicini al partito democratico è stato scosso da due voci incontrollate e contrastanti. La prima, proveniente dall’Obama Camp, parlava di una e-mail fatta circolare negli ambienti vicini a Hillary secondo la quale l’ex First Lady era sul punto di mollare la presa, convocando un discorso di “commiato” a New York. La seconda, diffusa da un prestigioso blogger proHillary, fantasticava dell’esistenza di un video in cui la moglie di Obama, Michelle, si lasciava andare a sproloqui razzisti contro i “bianchi”. Alla fine della giornata, entrambe le voci erano state ridimensionate. Hillary terrà effettivamente un discorso a NewYork, ma non c’è nessuna prova certa che in quella sede venga annunciato il suo ritiro dalla contesa. E del fantomatico video di Michel-
le Obama ancora non c’è traccia, tanto che la tesi della “bufala”è ormai la più accreditata.
Tanto rumore per nulla, insomma, come è accaduto molto di frequente in questa lunga ed estenuante rincora alla nomination democratica. Ma soprattutto la dimostrazio-
ne che, tra i due sfidanti, il clima è ancora tesissimo, malgrado gli inviti sempre più frequenti alla necessità di formare un “dream ticket” in grado di neutralizzare John McCain a novembre e assicurare una vittoria landslide ai democratici. Secondo la Cnn, che cita una «fonte anonima molto vicina a Hillary», la senatrice di
Ieri le ultime primarie in Montana e South Dakota. Cresce la voglia di un “super-ticket” capace di fermare McCain. Ma il senatore dell’Illinois soffre il repubblicano nei sondaggi New York nel suo discorso di ieri notte avrebbe dichiarato di «essere pronta a fare tutto il necessario a lavorare per la vittoria dei Democratici».
Una presa di posizione, seppure indiretta, che alcuni hanno interpretato come un’apertura nei confronti dell’avversario, al prezzo - piuttosto salato, per la verità - della vicepresidenza. Dal canto suo, negli ultimi co-
La situazione è ancora più complicata nel calcolo degli electoral votes, stato per stato, con Obama forse in grado di strappare ai repubblicani (rispetto al 2004) Colorado e New Mexico, ma in grave sofferenza in alcuni stati industriali del Nord, come Michigan e Wisconsin. Senza contare che il senatore dell’Illinois è molto più debole di Hillary nello stato-chiave della Florida. La mappa provvisoria del collegio elettorale di Real Clear Politics, ad oggi, assegna a Obama 228 voti (di cui soltanto 60 “solid”) e a McCain 198 (di cui 96 “solid”). Gli altri 120 electoral votes sono ancora nella colonna “toss-up”. Si tratta degli undici (Nevada, Colorado, New Mexico, Missouri,Wisconsin, Michigan, Indiana, Ohio,Virginia, New Hampshire e North Carolina) in cui Obama e McCain si giocheranno le loro chance di vittoria. A dare retta esclusivamente ai sondaggi delle ultime settimane, necessariamente poco significativi a cinque mesi dal voto, Obama riuscirebbe a superare - a stento - la quota di 270 necessaria per vincere le elezioni. Ma McCain lo incalza a brevissima distanza. E basterebbe un “ribaltone” in Ohio, tanto per fare un esempio, per regalare ai repubblicani la Casa Bianca. In un anno in cui neppure il più fedele dei sostenitori del Gop avrebbe scommesso un dollaro sul proprio partito.
mondo
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Xinjiang, 20 milioni di persone in un territorio grande 5 volte l’Italia. È un nuovo Tibet, ma la Cina non fa trapelare nulla
Gli Uiguri, un popolo senza voce d i a r i o
di Fernando Orlandi ell’ultimo mese il regime di Pechino si è trovato sotto l’occhio della stampa e della comunità internazione in ragione di due tragedie: il catastrofico terremoto che l’ha colpita e la decennale repressione messa in atto nel Tibet. Ma i tibetani non sono i soli a soffrire la particolare forma di dominio che Pechino riserva ad alcune delle sue minoranze. A nord il Tibet confina con la più vasta regione dell’attuale Cina, originariamente abitata da popolazioni turcofone e musulmane, a cui i cinesi hanno dato il nome di Xinjiang (Nuova frontiera), ma storicamente era Turkestan. È un territorio vasto (cinque volte e mezza l’Italia), popolato da una ventina di milioni di persone. È un territorio ricco di risorse naturali, destinato al passaggio di futuri gasdotti. I cinesi vi hanno costruito il poligono militare di Lop Nor, dove dal 1964 hanno effettuato tutti i loro test per le armi nucleari. Sulla carta il Xinjiang è una regione autonoma, ma gli uiguri (nome della popolazione) questa autonomia l’hanno conosciuta ben poco. All’inizio degli anni Sessanta, quando esplose la contesa fra Mosca e Pechino, un consistente gruppo di abitanti varcò la frontiera, scegliendo il revisionismo di Khrushchev di contro al radicalismo rivoluzionario di Mao. Fu un vero e proprio schiaffo in faccia a Pechino, che rispose con un inasprimento del controllo militar-poliziesco.
g i o r n o
Cina, cariche della polizia
N
Da allora la situazione non è migliorata. Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica la regione si è venuta a trovare al centro di numerosi confini: a quelli con Federazione Russa, Mongolia, Afghanistan, Pakistan e India, si sono aggiunti quelli con Kazakhstan, Kirgizistan e Tajikistan. Come in Tibet, anche in Xinjiang la politica di Pechino è stata quella di “cinesizzare” la regione, alterando drasticamente la composizione della popolazione. Attorno al 1955 il 90 percento degli abitanti erano musulmani turcofoni (la maggior parte dei quali quali uiguri, cui si aggiungevano piccoli gruppi di appartenenti alle tribù dell’Asia centrale: kazaki, kirgisi, tajiki, tatari e uzbeki). Attualmente gli uiguri sono divenuti una minoranza. Immigrazione cinese, controllo delle nascite e trasferimento forzoso di giovani
d e l
I genitori dei bimbi morti seppelliti dalle macerie causate dal terremoto che ha colpito di recente la Cina, sono stati caricati dalle forze dell’ordine mentre protestavano per quelle che ritengono essere state mancanze nelle costruzioni di edifici pubblici, soprattutto scuole. I dimostranti ritengono che alla base dei crolli vi sia, oltre alla catastrofe naturale che ha travolto l’Impero di mezzo, anche speculazione e corruzione. «Vogliamo avere giustizia e per questo ci rivolgeremo ai tribunali», gridavano i manifestanti che portavano cartelli con le foto dei bimbi scomparsi nel cataclisma del 12 maggio.
Russia, per Medvedev i media non sono liberi Il presidente russo è contro l’ulteriormente restringimento della libertà dei media del suo Paese. Una strategia a questo riguardo era stata elaborata già durante il mandato di Vladimir Putin. Secondo una revisione legislativa approvata in prima lettura dalla Duma in aprile, sarebbe stato possibile chiudere i giornali poco rispettosi verso l’esecutivo. Il Cremlino invece ritiene che le nuove norme potrebbero «impedire il normale funzionamento dei media». Secondo il quotidiano Kommersant, queste parole segnano la fine del progetto di legge presentato da Russia unita, il partito di maggioranza il cui leader è Putin.
Zimbabwe, libertà per Mutambara
donne, sono stati alcuni dei metodi impiegati da Pechino per cinesizzare il Xinjiang. Se negli anni Cinquanta vennero chiuse migliaia di moschee e gli imam imprigionati, nella seconda metà degli anni Sessanta (il periodo della cosiddetta Rivoluzione culturale) si ebbero enormi distruzioni del patrimonio culturale storico. È naturale che in un contesto del genere si sia sviluppato un piccolo movimento separatista, sempre represso con brutalità dalle autorità. Ma dopo l’11 settembre è accaduto qualcosa di nuovo. Pechino ha approfittato della guerra al terrore lanciata da Washington per appiccicare l’etichetta di terroristi agli uiguri. Laddove fino a quel momento le autorità cinesi non avevano fatto parola di terrorismo si è “scoperto” che esistevano legami con Osama bin Laden e che al Qaeda aveva fornito fondi, armamenti e addestramento. Ma alle parole della propaganda non sono seguite le prove. L’accusa di terrorismo rivolta agli uiguri è ritornata nei mesi scorsi. In marzo l’agenzia Xinhua ha fatto sapere che è stato sventato un progettato attentato alle olimpiadi di agosto. Due giorni prima alcuni terroristi
Dieci anni fa il 90% degli abitanti erano musulmani turcofoni. Oggi, dopo una “cinesizzazione” forzata e il controllo delle nascite, sono in minoranza
islamici avrebbero tentato di “provocare un disastro aereo” (un volo decollato da Urumqi, la capitale del Xinjiang). Le prove a sostanziare queste accuse mancano e molti osservatori sono scettici.
Non mancano invece le prove sulle repressioni cinesi (da anni Amnesty International ha documentato brutalità e torture) e sulle repressioni gratuite o ricattattorie. Di recente è stato condannato a nove anni di detenzione Ablikim Abdiriyim. La sua “colpa” sarebbe stata quella di avere inviato alcuni articoli “separatisti” al webmaster del servizio in lingua uigura di Yahoo. Un servizio di Yahoo, secondo la denuncia di Reporters sans frontières, non esiste. La vera “colpa” di Ablikim Abdiriyim è quella di essere il figlio di Rebiya Kadeer, già membro della Conferenza politica consultiva del popolo cinese e di delegazioni ufficiali della Cina all’Onu. Ma la nota imprenditrice si trasformò in attivista e per questo venne arrestata nel 1997. Rilasciata nel 2005 dopo anni di detenzione, ora vive negli Usa e prosegue nel suo impegno civile, alla testa dell’Associazione degli uiguri d’America. C’è da attendersi che anche gli uiguri cercheranno di utilizzare le olimpiadi di Pechino per convogliare l’attenzione del mondo sulla loro causa. E c’è parimenti da attendersi che da Pechino saranno rinnovate le accuse di terrorismo.
Una corte di Harare ha rilasciato martedì, in cambio del pagamento di una cauzione, Arthur Mutambara, leader dell’opposizione dello Zimbawbe. Mutambara, capo di una frazione dissidente del Movimento per il cambiamento democratico, era stato arrestato domenica dopo aver scritto un’articolo critico nei confronti del presidente, Robert Mugabe. Mutambara aveva abbandonato il Movimento di Tsvangirai nel 2005. Dalle elezioni di marzo, nelle quali la sua forza politica ha segnato un pessimo risultato, aveva però fatto capire di voler tornare all’alleanza con Tsvangirai.
Olmert cerca la protezione di Washington Il primo ministro israeliano Ehud Olmert è giunto ieri negli Stati Uniti per una visita che durerà tre giorni. Olmert che a Gerusalemme si trova sotto pressione a causa delle sue controverse relazioni con un magnate americano, spera nel sostegno dell’amministrazione americana. Con la Casa Bianca il capo del governo israeliano intende parlare dello stato del processo mediorientale, del conflitto con l’Iran e della possibile installazione in Israele di uno scudo Usa che dovrebbe proteggere lo stato ebraico da missili e caccia nemici.
Francia si allargano le proteste Contadini, tassisti e camionisti continuano le manifestazioni contro gli aumenti del prezzo del petrolio. Oltre a diversi blocchi stradali i dimostranti hanno impedito l’ingresso ad otto municipi e assessorati alla finanza nel centro del Paese. Nel sud della Francia i camionisti hanno impedito l’accesso al deposito della Total a La Mède. I contadini da parte loro hanno usato i trattori per bloccare l’ingresso di altri stabilimenti del colosso petrolifero nel sud dell’Esagono.
Bolivia, nuove sfide per Morales In Bolivia altri due dipartimenti, quelli delle regioni di Beni e Pando, vogliono rendersi più autonome dal centro dello Stato. Domenica i due referendum tenuti su questa questione hanno dato parere positivo. Il governo ha già fatto sapere che, come già fatto con l’importante dipartimento di Santa Cruz, ritiene le due consultazioni popolari anticostituzionali.
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speciale approfondimenti
Carte
La grande vita di François Fejtö, scomparso lunedì a Parigi all’età di 99 anni
LO STORICO CHE CAMBIÒ IL NOVECENTO di Federigo Argentieri segue dalla prima Quando, nell’estate 1949, il regime stalinista ungherese mise in scena il processo-farsa contro il suo amico Rajk, Fejtö scrisse per la rivista Esprit una meticolosa denuncia del meccanismo repressivo e dell’assurdità delle accuse, che gli valse forte inimicizia da parte del Pcf e stima ed interesse da parte, tra gli altri, di Raymond Aron, che gli consigliò di intraprendere la stesura di quella che divenne la famosa Storia delle democrazie popolari: il primo volume uscì in Francia nel 1952 (in Italia fu pubblicato da Vallecchi nel 1955), il secondo nel 1969, mentre Bompiani pubblicò un’edizione ridotta dei due volumi nel 1977. Non si trattava del primo libro del nostro, che già nel 1946 aveva pubblicato uno studio su Heinrich Heine, il poeta tedesco che amava la Francia, e nel 1948 aveva curato gli atti di un convegno sulla “Primavera dei popoli” di cento anni prima. La Storia consacrò Fejtö come esperto d’area: nel 1955 conseguì la cittadinanza francese e divenne commentatore dell’Agence France Presse sulle vicende del blocco comunista. Nel 1956, nessuno meglio di lui poteva seguire e interpretare la catena di eventi – dal “discorso segreto” di Khrusciov all’affossamento della rivoluzione ungherese – che scossero in modo convulso l’Europa centro orientale: appena conclusosi l’anno, Fejtö dava alle stampe un altro libro, La tragédie hongroise, pregevolmente tradotto da Carlo Fruttero per Einaudi e pubblicato in Italia poco dopo con il titolo Ungheria 1945-1957, che resta – nonostan-
te l’impossibilità di consultare fonti d’archivio – un testo fondamentale e penetrante. Fu proprio allora che Fejtö iniziò ad avere rapporti regolari con l’Italia, soprattutto attraverso Silone, attivissimo nella solidarietà con la rivoluzione ungherese, con il quale strinse una profonda amicizia. Altri contatti italiani erano Alberto Carocci e sua moglie Eva Vedres, figlia di un noto arti-
sta ungherese: ma i rapporti si guastarono notevolmente quando il direttore di “Nuovi Argomenti” prese posizione a favore di Togliatti su quelli che proprio allora, con farisaica definizione, venivano definiti “i fatti d’Ungheria”, e fu eletto senatore nelle liste del Pci.
Negli anni Sessanta Fejtö si affermò definitivamente come uno dei maggiori esperti del mondo comunista, scrivendo quantità
ustro-ungarico, ungherese, francese, ebreo e cattolico, François Fejtö è sempre stato, durante la sua lunga vita, un esule. A prima vista la sua condizione non ha nulla di straordinario. Dagli ebrei della diaspora spagnola agli ugonotti, dagli emigranti della rivoluzione francese agli esuli russi dell’Ottocento, dai fuoriusciti antifascisti fra le due guerre ai dissidenti sovietici del secondo dopoguerra, l’esilio è una delle molte nazionalità europee. È un ”paese” informe che si rinnova continuamente, una tribù in cui coloro che rientrano lasciano il posto a coloro che arrivano, un luogo in cui il territorio è più stabile della popolazione che lo abita. Gli esuli vanno e vengono, ma i luoghi dell’esilio rimangono gli stessi da una generazione all’altra: gli stessi caffè, le stesse pensioni, gli stessi ristoranti, le stesso tipografie, gli stessi commissariati di polizia. Cambiano le lingue, le abitudini gastronomiche e la materia delle discussioni, ma sul palcoscenico dell’esilio i fondali del dramma sono quelli di sempre. Per recitare una nuova scena basta sostituire il samovar con una caffettiera napoletana, appendere il ritratto di Marx al posto del ritratto di Mazzini, un’icona al posto della foto di famiglia. Il teatro ideale in cui recitare il dramma dell’esilio è la città, Parigi, dove Fejtö ha vissuta gran parte della sua vita. «A Londra o a New York scrisse un altro ungherese, Arthur Koestler - farete presto a fare qualche amicizia; e tuttavia potreste sentirvi egualmente soli come cani. A
A
Biografia d’autore
Il dramma dell’esule che ritrovò la patria in Europa di Sergio Romano
incredibili di saggi e articoli senza mai annoiare o essere ripetitivo: in quel periodo uscì, tra l’altro, il libro Revisionisti contro Dogmatici (ed. di Comunità), una raccolta pubblicata soltanto in Italia. La sua presenza in questo paese divenne assidua a partire dal 1974, quando con Montanelli e Bettiza contribuì alla fondazione del Giornale ed iniziò a scrivere pregevoli corrispondenze da Parigi: va notato che gli interessi di Fejtö erano molteplici, la sua
curiosità penetrante ed infinita: la sua passione giovanile per la letteratura non fu mai messa da parte. Tra i libri di quel periodo va ricordato Il colpo di Praga 1948 (Bompiani, 1977), tema verso cui era stato attratto dalla sorte toccata alla Primavera di Dubcek. Nel 1980 pubblicò uno dei pochissimi libri ingiustamente trascurati dai nostri editori: La socialdémocratie quand m^eme, in cui rinnovava una fiducia mai sopita nel riformismo.
Parigi le case vi rimangono chiuse, ma i marciapiedi sono vostri, i caffè sono vostri, la città è vostra; e siete parte della città, che i suoi ritrosi cittadini vi accolgano o no. In realtà la sentite più intimamente, più sensualmente vicina di quanto non sia per loro. Essi vivono nei loro circoli ermeticamente chiusi, voi vivete all’aria aperta; essi vivono nel loro quartieri, voi vivete a Parigi. Perché Parigi è una città adultera: fredda coi suoi legittimi padroni, passionale con lo straniero che passa».
Ma non tutti gli esuli appartengono con la stessa coerenza e costanza alla patria dell’esilio.Talleyrand fu per quattro anni in Inghilterra e negli Stati Uniti, dal 1792 al 1796, ma si trattò d’un malinteso. La condizione dell’esule non gli si addiceva. Non era spregevolmente opportunista, come sostennero i suoi avversari, ma realizzava se stesso soltanto nell’arte del compromesso. Tradì più volte perché la fedeltà gli avrebbe impedito di creare e lo avrebbe condannato all’impotenza. Fejtö, invece, non ha conosciuto altra condizione nella sua vita fuor che quella dellíesule. Negli anni in cui l’Ungheria era governata dall’ammiraglio Horthy, egli fu, come ebreo e intellettuale di sinistra, esule in patria. Giunto in Francia alla fine degli anni Trenta, dovette nascondersi durante il regime di Vichy e fu, per così dire, esule nell’esilio. Terminata la guerra, quando fu tra i primi a denunciare la vera na-
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Un saggio ”sfrontato” sul rapporto tra Dio e il popolo eletto
Se Lui fosse antisemita di François Fejtö a allora non siamo innocenti? Non abbiamo la coscienza tranquilla? Ahimè, no! Non abbiamo la coscienza tranquilla. Abbiamo la coscienza sporca. Ma di chi è la colpa? Chi turba la nostra pace, chi ci accusa? E di chi è la colpa, se in piena febbre creativa, in piena crescita, nel cuore stesso della felicità all’improvviso ci sentiamo di nuovo alienati, scissi, estranei a noi stessi? Evidentemente la colpa è Sua. Questa volta non ci sono dubbi. È Lui che ci avvelena l’esistenza. Dio è antisemita. Ma se Dio fosse soltanto antisemita, la nostra causa sarebbe persa. Ci sentiremmo respinti, isolati, messi al bando dalla divinità, al bando dall’umanità che è cara a Dio e che a sua volta lo ama. L’odio che prova nei nostri confronti non gli impedirebbe in alcun modo di amare altri, con i quali potrebbe essere dolce. «Se Dio esiste», dice un proverbio russo, «non può che essere buono». Non è forse questa la più grave, la più peri-
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L’eccezionale longevità fisica ed intellettuale del nostro gli permisero di assistere con la consueta lucidità anche alla fine delle democrazie popolari: nel frattempo, per la maggior parte degli anni Ottanta, si dedicò al suo libro più sofferto e più discusso, Requiem per un impero defunto (1988). In quello stesso anno, esattamente due decenni fa, Fejtö organizzò al Père Lachaise di Parigi una sepoltura simbolica di Imre Nagy e dei suoi compagni, martiri della rivoluzio-
ne ungherese: pochi potevano credere che appena un anno dopo la stessa cerimonia si sarebbe svolta a Budapest, dove il nostro tornò dopo 42 anni di assenza. A vita postcomunista di Fejtö è stata anch’essa molto lunga e ricca: una delle poche delusioni gli è stata riservata dal presidente Sarkozy, con cui fin dai tempi in cui era sindaco di Neuilly sur Seine voleva celebrare le radici comuni e con cui invece non è mai riuscito a stabilire un contatto.
tura delle democrazie popolari, venne esiliato dall’intelligencija dominante. Se si fosse congedato dal mondo e dagli amici quando l’Ungheria era una democrazia popolare, l’Unione Sovietica era la ”patria del socialismo” e gli intellettuali dell’Europa occidentale erano solidamente schierati a sinistra, Fejtö avrebbe totalizzato il massimo degli esili possibili. È accaduto invece che le patrie perdute ritornassero a lui, una dopo l’altra, senza che egli dovessse riattraversare la frontiera dell’esilio. Dopo gli avvenimenti ungheresi del 1956 una parte dell’intelligencija europea capì che i suoi studi sulle democrazie popolari erano assai più vicini alla realtà delle rappresentazioni ideali con cui aveva nutrito le sue illusioni e i suoi inganni.
Dopo gli avvenimenti cecoslovacchi del 1968 nessun intellettuale si vergognò di tenere sulla sua scrivania il libro che egli pubblicò presso le Editions du Seuil, qualche anno dopo, sul colpo di Praga del 1948. E dall’inizio degli anni Ottanta, lentamente, l’Ungheria stessa, infine, è tornata a François Fejtö. Dopo essere stata lungamente bandita dal regime la sua opera ha trovato il posto che le spettava nelle librerie, nelle biblioteche, nei dibattiti e soprattutto nelle formazione dei nuovi intellettuali ungheresi. Ma ecco che il vecchio esule, nel ridiventare cittadino delle sue patrie perdute, sceglie ancora una volta la via dell’esilio. In Requiem per un impero defunto, apparso presso Mondadori nel
1990, Fejtö rivela che la sua vera patria non fu l’Ungheria liberale di Károlyi, sovietica di Béla Kun, autoritaria e conservatrice di Horthy, ”popolare” di Rákosi, generosa e martire di Nagy, trasformista di Kádár e di Grosz, e forse neppure quella liberale e democratica degli anni Novanta. L’Ungheria a cui Fejtö appartiene è quella della Duplice Monarchia, vale a dire di uno Stato multinazionale che si stava progressivamente liberalizzando e che gli consentì di essere al tempo stesso ebreo, ungherese, croato, triestino. I lettori delle Mémoires de Budapest, la bella autobiografia apparsa nel 1986, sanno che l’esilio di François Fejtö cominciò nella notte del 21 novembre 1916, quando un giornalista svegliò suo padre per annunciargli la morte di Francesco Giuseppe. Nessuno potrà restituire a Fejtö quello che Stefan Zweig definì maliconicamente il «mondo di ieri». L’impero austro-ungarico è irrimediabilmente scomparso e il suo posto è occupato da altri. È l’Unione europea, oggi, l’unico ”impero” che possa essere, a dispetto dei suoi molti errori, liberale, multinazionale e multireligioso. È questa la vera patria di Fejtö, la sola che permetta a tutte le componenti della sua cultura politica e religiosa - ungherese, germanica, slava, francese, italiana, ebraica, cattolica - di convivere armoniosamente in una stessa cittadinanza ideale. Fejtö è nato europeo. L’Europa, dopo molte traversie e travagli, finalmente gli assomiglia.
colosa delle illusioni, che noi abbiamo avuto il torto di diffondere nel mondo? Dio-Padre, Dio-Padre-Buono, siamo stati noi a dirlo in giro, e ora ricade sulla nostra testa, sulla testa del figliol prodigo. È giunto il momento di capire, di far capire, che Dio, se esiste, non è buono. Oh no! La prova: guardatevi attorno, con la mente lucida, con occhio critico. Fate il bilancio di tutto ciò che esiste nella nostra società umana che si dichiara cristiana. «Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano». Il peccato, ossia l’espropriazione, il furto, il saccheggio, la violenza. La terribile infelicità e umiliazione di migliaia di poveri. Questo “sistema”per il quale, per dirlo con le parole di Disraeli, in ciascuna nazione ci sono due nazioni, e un abisso invalicabile tra chi ha e chi non ha.
È mai stato fatto l’inventario delle sofferenze dei contadini cacciati dalle loro terre, trasformati in vagabondi, il cui calvario inizia all’alba dell’industrializzazione capitalista? Dov’era, come si manifestava il famoso Dio-Padre quando i proprietari terrieri si abbandonavano a incommensurabili e imperdonabili atti di slealtà? E che dire del diritto borghese, diritto “razionale”, diritto che subentrò per abolire i privilegi feudali in nome della morale, della proprietà privata, della libertà, dell’uguaglianza, della fraternità: che vantaggi ne trassero i poveri? Un ebreo ne sa qualcosa. Figlio umiliato di ebrei tedeschi, di ebrei convertiti, fu lui a rilevare che la prima conseguenza dell’aver introdotto il diritto borghese nelle campagne della Germania fu l’annullamento dell’uso di spigolatura per i poveri. Diritto consuetudinario, diritto millenario, che i monasteri avevano rispettato. Ma se il feudalesimo serbava ancora un riflesso, un residuo delle proprie origini teocratiche, la borghesia invece non rispetta più niente, trasforma le contraddizioni del Medioevo in cinismo, e se continua ad aggrapparsi a Dio, non è per fede o amore, ma
per timore delle conseguenze sociali del suo ateismo. La religione va bene perché il popolo maltrattato, sottoposto a vessazioni, ingannato e sbeffeggiato crede di essere salvo. Per la salvezza è pronto a tutto. Dunque, sia fatta la volontà di Dio. Il borghese si incarica di ubbidire alla volontà di Dio: arricchirsi. Per il borghese Dio è buono, la religione è merce che rende, è l’oppio dei poveri.
Buon Dio del borghese, domestico del capitale: ecco l’ultima tappa di una degenerazione nel corso della quale il sogno si altera tanto da diventare inganno. In origine il sogno, il grande sogno «che da molto tempo il mondo possiede e di cui ora è necessario essere consapevoli per possederlo realmente», afferma Marx. Ecco, in termini astratti, filosofici, il programma della rivolta più radicale. Dio, in origine, è un sogno dell’uomo, l’immagine della potenza, della perfezione, della sicurezza tanto desiderate dall’uomo. In questa immagine la fragile creatura investe il meglio di sé, il suo ideale, la sua gloria, la pienezza della sua essenza. Essere come Dio. È il sogno di Adamo e di Prometeo, il desiderio segreto e proibito, proibito perché desiderato. Essere come Dio: ecco la salvezza, il paradiso, la pulsione originaria, la raccolta dei frutti, la religione del godimento. Adamo ha voluto mangiare la mela e ha fatto bene. Era suo diritto, suo dovere. Lungi dall’essere sospetto, il suo atto prefigura l’azione futura dell’umanità. In questo consiste la dialettica. Si vieta al povero di spigolare gli alberi ormai secchi? E lui si approprierà di quelli verdi. Chi glielo impedisce? Chi impedisce all’uomo, al “quarto Stato”, a questa nullità, di volere il Tutto? Chi impedisce a noi, che non abbiamo né diritti né beni, di divertirci, di regnare, di governare, di possedere? Soltanto la coscienza mistica, questa degenerazione della visione originaria in alienazione, la coscienza religiosa che asserisce l’esistenza di Dio chiudendo l’accesso a Lui. segue da pagina 13
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speciale approfondimenti segue da pagina 13
Ciò che, in origine, nasce come appello all’azione, all’ambizione, al progresso, è stato trasformato in impedimento. La religione incatena l’uomo, lo lega al suo passato, lo paralizza. In questo risiede la principale lacerazione dell’uomo, la sua ‘alienazione’. È scisso in due parti di cui una, Dio, congloba tutta la forza, mentre l’altra, l’uomo, rappresenta la debolezza e la fragilità. Al diavolo questa morale della rassegnazione che «distoglie l’uomo dalla lotta per i propri fini». La salvezza non è nei Cieli, né in una felicità oziosa: è nel futuro, sulla terra, nella lotta per il futuro e per la terra. Il vangelo, quello vero, non è un messaggio di umiliazione. È: l’uomo è capace di autogovernarsi. È il padre di se stesso. Non ha più bisogno di paternalismi mistici o altro. Lo Stato sono io, dichiarò Luigi XIV. Dio siamo noi, proclamò Marx. Noi, ossia i diseredati. Abbiamo più valore dei borghesi che hanno degradato Dio abbassandolo al proprio livello di mercanti di tappeti. Riconosciamo Dio come una grande idea da realizzare che ci accaparriamo, che dividiamo con gli altri, che sfruttiamo per il bene del mondo. Facciamo parte della storia. Dio appartiene alla storia universale di cui siamo gli eredi, gli artefici.
Carte soggezione, l’espoliazione, per fare dell’uomo un onnipotente che si governa da sé.
Quanto a Hegel, venutosi a trovare all’improvviso di fronte all’immagine della libertà assoluta, della rivoluzione totale, si è coperto gli occhi spaventato. La libertà, per lui, aveva le sembianze di un teschio. «L’unica opera e l’unico atto della libertà universale è perciò la morte», scrisse. «La morte più fredda e più piatta, senza altro significato che quello di tagliare una testa di cavolo». La vita totale, la vittoria totale sarebbe dunque la morte. Quest’uomo ha avuto paura. Probabilmente alcuni aspetti eccessivi della Rivoluzione francese
L’impresa più importante, la più urgente è indurre l’uomo a ribellarsi al miraggio di Dio
Noi, i diseredati di tutte le razze, il proletariato, il popolo eletto. Grazie al proletariato l’uomo, liberandosi da qualsiasi impedimento feudale e borghese, dissipando la coscienza mistica, si erige a Dio amandosi di un amore infinito. Caccerà i filistei da Canaan, si insedierà nella Terra Promessa,
l’hanno spaventato. Rileggete la pagina in cui parla del governo dalla libertà assoluta: «Il governo stesso è soltanto il punto che si rende fisso, è l’individualità della volontà universale. In quanto volontà ed esecuzione che procedono da un punto, il governo vuole e, al tempo stesso, esegue un ordine e un’azione determinati. Da una parte, quindi, il governo esclude dal proprio atto gli altri individui, e, dall’altra parte, si costituisce perciò come una volontà determinata contrapposta alla volontà universale. Il governo non può dunque fare a meno di presentarsi, sempre e comunque, come una fazione. Solo la fazione vittoriosa si chiama governo, e appunto perché è fazione essa implica immediatamente la necessità del suo declino; e il fatto che essa costituisca il governo, viceversa, la rende una semplice fazione e ne determina la colpevolezza. Se la volontà universale si attiene all’azione reale del governo come al crimine che questo commette contro essa, il governo per contro non ha nulla di determinato e di esterno con cui raffigurarsi la colpa della volontà che gli si oppone; dinanzi al governo inteso come volontà universale reale, infatti, sta soltanto la volontà pura e non reale, cioè l’intenzione. Qui allora il divenire-sospetto ha il significato e l’effetto dell’essere-colpevole, ne prende il posto».
Il complesso del Padreterno lavorerà con gioia, consumerà secondo i propri bisogni, svilupperà le forze produttive. E dopo aver debitamente castigato i cattivi, castrato i proprietari e cacciato i feudatari, farà finalmente regnare la pace e la giustizia. Tutto questo non ha niente a che vedere con l’immaginazione e il sogno. La dottrina qui esposta non è un’eresia utopistica, ma si basa invece su fondamenti rigorosamente scientifici, saldi, dialettici, statistici, storici e materialisti. La scienza è dalla nostra parte. Il proletariato non è un mito. Rumoreggia nei sobborghi di Parigi, distrugge le macchine in Inghilterra, muore di fame, di miseria e di rivolte. La storia è dalla nostra parte. Il nostro avvento è garantito. Il borghese stesso, incarnazione del male, si incarica di accelerarne i tempi. È il becchino di se stesso. Ma per riuscire nella sua impresa ha bisogno di moltiplicare il numero dei proletari, di rovesciare i ruoli tradizionali della società, di risvegliare appetiti, di scuotere gli animi. E noi lo aiuteremo. È lui che si fa carico di dissodare i terreni che noi coltiveremo. È lui che colonizza, sottopone a martirio, industrializza, modernizza, disorganizza e organizza... Sarà lui a spodestare Dio nell’animo dei poveri mostrando la sua incapacità, la sua indifferenza, la sua nullità. Sarà lui a scalzare ogni autorità dalla base quando avrà dato prova di irresponsabilità nel badare ai suoi affari. La società moderna affidata ai commercianti! L’uomo consegnato agli agenti di Borsa! È ridicolo! Ma è proprio dall’umiliazione più completa che scaturisce la speranza della redenzione. È una legge della natura morale. Il proletariato, questa nullità, diventerà tutto.Tutto l’uomo.Tutto ciò che vale nell’uomo, e che supera i sordidi interessi. L’uomo che saprà cavarsela da solo, senza salvatore supremo, senza Dio, senza Cesare, senza tribuno, senza religione, senza tradizione, senza falsa morale, senza le autorità. È il regno della libertà assoluta così come Hegel l’aveva previsto. È la rimozione delle «masse spirituali differenziate», della «vita limitata degli individui». Distruzione di tutto ciò che ricorda la
La volontà generale è il terrore: visione limitata, borghese, superata della rivoluzione. L’avvenire è tutt’altra cosa. La missione del proletario è risolvere tutte le contraddizioni; la sua dittatura sarà il compimento della democrazia; la volontà generale si confonderà con la volontà di tutti e ognuno; non vi sarà più colpevolezza, l’interesse generale si sostituirà all’egoismo e di conseguenza non vi saranno più fazioni. Ma per arrivare a questo punto occorre, prima di tutto, sbarazzarsi della finzione di Dio. Non mi stancherò mai di ripeterlo. Dio è il male. È il fantasma di Dio che ci impedisce di portare a buon fine i nostri sforzi per far esistere realmente ciò di cui la religione è soltanto un sogno abortito: il regno della giustizia, della felicità, del paradiso in terra. La più grande, la più grossolana, la più dannosa delle menzogne non è forse quella che identifica l’amore di Dio con l’amore dell’uomo, che ci impone di amare noi stessi attraverso l’amore di Dio? Queste due forme di amore, invece, e noi lo sappiamo per esperienza, sono incompatibili. Per questo abbiamo amato Dio, per questo abbiamo trasferito su di lui il meglio di noi stessi, per questo abbiamo dimenticato l’uomo. Osservate soltanto lo stato di arretratezza delle nostre
campagne: la ricca dimora di Dio, colma di gioielli, di reliquiari, di tesori, di oro e argento, svetta ovunque orgogliosamente, ironicamente, sprezzantemente, in mezzo alle capanne dei poveri. Lo sfruttatore, il capitalista, il predone numero uno dell’umanità è Dio. È lui il fondamento, la fonte morale di tutte le disuguaglianze, di tutte le iniquità esistenti. È lui l’ostacolo. Socializzare Dio è l’unico modo per riuscire a socializzare la società, a umanizzare l’uomo. L’impresa più importante, la più urgente è indurre l’uomo a ribellarsi al miraggio di Dio. È la rivoluzione delle rivoluzioni, il Giudizio finale, che unirà i buoni e travolgerà i cattivi. Fintantoché il fantasma di Dio ossessionerà la coscienza degli uomini non vi sarà felicità né autentica gioia e neppure pace o tranquillità. Con Marx, si dichiara guerra al fantasma di Dio.
Forse direte: questo Dio, questo fantasma di Dio che lei denuncia con tanto zelo, questo Dio di cui sostiene che non esiste e che, nel medesimo tempo, rende capro espiatorio carico di tutti i mali dell’umanità, è veramente sicuro che non esista? È veramente sicuro che sia lui il colpevole? È veramente sicuro di essere innocente? Di aver ragione contro di lui? Confessate la vostra coscienza infelice. Ammettete di avere la coscienza sporca. È stato davvero lui a inculcarvela? Vi sentite colpevoli. Respingete questa sensazione come se fosse sbagliata. Sostenete che non corrisponde ad alcuna colpa oggettiva, che è un’invenzione dei preti, come l’inferno. Perché dovreste essere colpevoli, dal momento che siete buoni, che amate, che avete sempre amato? Ed è vero. Ma l’amore è davvero così semplice come ve lo immaginate? Il fraintendimento non nasce forse da questo? Non da Dio, ma dal vostro modo di amarlo? Forse è venuto il momento di fare un esame di coscienza a questo proposito. Altri l’hanno fatto, prima di voi. Altri che, invece di indirizzare requisitorie implacabili contro Dio, hanno esaminato il vostro dossier, analizzato il vostro comportamento. Che cosa sono, in-
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Nelle foto, in senso orario da sinistra, la Torah, le sacre scritture ebraiche; il candelabro a “otto braccia” utilizzato durante la celebrazione della festa di Hannukkah; Uno tzitzis (stile Askenazita) e il suo Talled, l’abito indossato esclusivamente dagli uomini. In basso a sinistra il menorah, candelabro “a sette braccia”, presente nello stemma ufficiale dello Stato di Israele. In basso a destra il kippah, il copricapo indossato dai maschi
fatti, l’Antico Testamento e i Libri dei Profeti e le esegesi se non una psicanalisi del popolo ebraico, della sua storia, del suo amore infelice per Dio, contro Dio? È uno specchio veritiero, fareste male a non guardare come riflette la vostra immagine. Che cosa vedreste? Che cosa vi colpirebbe più di tutto? La gelosia. Siete il popolo geloso per eccellenza. Questa è la vostra verità e la vostra menzogna, questa è la vostra maledizione. Il vostro amore è una grande passione. Nessuno oserebbe negarlo. È la vostra gloria, e forse vi salverà. Nessuno ha amato quanto voi. Eppure il vostro amore - ecco la maledizione! il peccato! - si è trasformato velocemente in gelosia. E siete diventati malvagi. Avete incominciato a fare il processo a Dio e continuate tuttora.
Gli rimproverate di non avere rispettato i patti e di esser stato infedele, ingiusto e iniquo, gli rimproverate di non amarvi, di non amare l’uomo, di scherzare con lui, di essere indifferente, di trarre piacere dalla sua sofferenza, come un padre sadico, un padre terribile. Un cattivo padre. Ma questi sono soltanto pretesti, e voi lo sapete bene, il vostro vero dolore non nasce da qui. Il vostro vero tormento non è questo.Voi rimproverate a Dio, e non potete perdonargli, di non amarvi così esclusivamente, così totalmente come voi sostenete di amare lui, come vorreste che vi amasse in cambio. Gli avete attribuito il comandamento: «Non ti inginocchierai davanti a nessun altro Dio, perché l’Eterno porta il nome di Geloso. È un Dio geloso». In realtà, questi termini del patto recano la vostra impronta.Voi portate il nome di gelosi, voi esigete da Dio che non abbia a che fare con altri popoli, che ripudi tutti gli altri suoi figli. Tutto o niente: è il vostro motto, non il suo. Figli tirannici, lo volete tutto per voi. Con il pretesto di farne il vostro unico Signore, il vostro solo Maestro, il vostro solo Re, in realtà vi accanite ad abbassare questo Dio al vostro livello, a dominarlo, a farne lo schiavo e lo strumento della vostra espansione nazionale. Ecco il peccato! Vi sforzavate assai poco di capire Dio così com’è, nella sua indefinibile infinità. Pochi di voi (e pochi anche tra coloro che sono contro di voi) l’avevano colto nella sua verità, nella sua libertà. La libertà di Dio per voi era intollerabile. Sentivate che vi sfuggiva, che vi oltrepassava. Ma non sapevate rassegnarvici. Non potevate accettarlo per quello che è. Il vostro amore era più terra terra. Volevate possederlo nella sua integrità, fino al punto di assimilarlo a voi, di farne parte integrante di voi stessi. Avete infranto tutti i vostri idoli, ma, da inguaribili materialisti quali siete, avete cercato di ridurre Dio allo stato di idolo. Avete tentato di rinchiuderlo nel vostro santuario, come l’eroe di Proust ha tentato di far prigioniera Albertine,
per renderla inoffensiva, vietandole qualsiasi contatto con altri, e di sorvegliare anche i suoi pensieri, persino i suoi sogni.Vanitas vanitatum! Quanti sforzi vani! Che amore stupido, grossolano, superfluo! Come se l’amore, quello vero, non fosse, non dovesse essere prima di tutto, disinteressatamente, dolce abbandono di sé, rispetto della libertà dell’altro, e perdono. Come se l’amore non consistesse precisamente nel vincere lo spirito di dominio, nel dare senza riserve. (Come ha insegnato il Figlio della vostra carne, di cui non amate sentir parlare e che costantemente ”apre”ciò che voi vi ostinate a chiudere) Niente è meno generoso, niente è più possessivo del vostro amore per Dio. Niente è più impaziente, più aggressivo, più smisurato.Vi è sempre mancato il senso della misura.Volete semplicemente essere come lui, sostituirvi a lui, prendere il suo posto. Come se fosse cosa da poco! Siete un popolo geloso. Dio con voi! E soltanto con voi, soltanto per voi, grazie a voi. Un oggetto di adorazione, ma pur sempre un oggetto. Una carta vincente. Inizialmente avevate progettato di catturarlo per poi tributargli la vostra adorazione. Un progetto assurdo perché l’inafferrabilità di Dio era evidente, Dio era il contrario di un oggetto, potentemente, terribilmente soggetto, libero di muoversi come voleva per offrirsi all’adorazione, alla meditazione del mondo intero. Ma l’idea di condividere Dio con altri vi sembrava inammissibile. E vi sembrava ugualmente intollerabile l’idea della vostra disuguaglianza, della vostra inferiorità rispetto a Lui. Perché tutto per lui e niente per voi? Perché lui onnipotente e voi impotenti? Perché lui può prendersi tutto ciò che vi appartiene, se vuole: le vostre mogli, vostra madre, le vostre sorelle, le vostre figlie, le vostre greggi, la vostra terra, mentre voi potete soltanto inchinarvi davanti all’espressione della sua volontà? Non è giusto! gridavate. Non è un’alleanza tra uguali, è una schiavitù. Non è un contratto, è un diktat. Continuavate ad amarlo, certo, eravate affascinati da lui come Kafka bambino dal suo tirannico padre; lo rispettavate, anche il suo più piccolo gesto suscitava la vostra ammirazione. Quanto timore vi incuteva, Dio! Nessuno vi sembrava più amabile di lui, più degno di stima e di devozione. Ma è proprio perché lo amavate tanto che nel cuore del vostro amore si è dischiuso un senso di ribellione e di rivalità. Che cosa fare di un amore che vi sembra sempre più un giogo? Che finisce per dominarvi? Ed ecco che sorge in cuor vostro, nei bassifondi della vostra
Abbiamo ferito Dio, ma ci dichiariamo non colpevoli! Ci perdoneranno perché abbiamo amato molto. Siamo posseduti dal nostro amore. Siamo ossessionati dal nostro amore. E il nostro amore è ferito. Il nostro cuore è ferito e il nostro amore è colpevole. Colpevole di un peccato che porta con sé il proprio castigo: l’inquietudine, l’insoddisfazione. Continuiamo ad amare, ma questo non ci rende felici. Non c’è un altro popolo sulla terra che ami con più passione, e che sappia amare meno bene di noi. Siamo assetati d’amore. E sulla terra non c’è acqua che possa placare la nostra sete. Siamo come un animale ferito, febbricitante, che corre verso una fonte, e di fonte in fonte, ma sempre invano. Siamo una ferita aperta che non si cicatrizza mai. Un vuoto che grida contro il proprio contenuto, ma che non viene mai riempito. Per questo, e non per altri motivi, siamo diventati eterni nomadi. Non possiamo rimanere nello stesso posto. La nostra felicità è sempre altrove. Ciò che, per altri, è fonte di piacere e di pace, spesso per noi costituisce tristezza e umiliazione. La paura di Dio si frappone tra noi e il nostro amore. Si direbbe che non conosciamo la vera intimità, che non siamo mai soli. Ci sentiamo sempre osservati, sorvegliati, spiati. Anche questo fa parte del nostro castigo. Non avendo saputo liquidare il nostro contenzioso con Dio, semplicemente ci sembra di non avere il diritto di amare noi stessi.
Siamo indebitati fino al collo, non c’è niente da fare. E non ci serve a niente ignorarlo e dire che, dopo tutto, siamo creditori nei confronti del mondo intero che sarebbe
Non è un alleanza ma una schiavitù nostro debitore. Siamo costantemente in debito, e il creditore ci aspetta al varco. «E non ci serve neppure, per liberarci di questo profondo senso di colpa, inventare la psicanalisi, perseguitare il fantasma del Padre (del Padre carnale), fare di questo fantasma il responsabile delle angosce insensate che ci avvelenano il sangue. Il nostro ‘complesso di Edipo’, infatti, la nostra ferita, il nostro male ha radici molto più profonde. Il nostro vero complesso è Dio. È lui il Padre con il quale siamo alle prese. E questo conflitto non è per niente facile da risolvere. Proprio perché da sempre, per quanto oscuramente, siamo consapevoli di questa difficoltà (sarei tentato di dire: di questa impossibilità) e perché, nel medesimo tempo, non si può vivere sempre in conflitto, abbiamo fatto tanto per risolverlo, questo conflitto, o quanto meno abbiamo fantasticato di riuscirci. Siamo il più angosciato, il più tormentato di tutti i popoli, ma siamo anche il più ottimista, il più sicuro della guarigione definitiva. Che cosa sarebbero diventati i nostri avi, complessati, lacerati, costantemente perseguitati (dal nemico di fuori e da quello di dentro) senza la speranza che «l’anno prossimo (si sarebbero ritrovati)... a Gerusalemme?» Li ha tenuti in vita la speranza della Salvezza. La Salvezza è un’idea ebraica». «E il Cristo?». «L’abbiamo respinto perché ci ha indicato una via per la salvezza troppo semplice». «”Siate come i bambini”. No, non vogliamo essere come i bambini. Siamo adulti e non sappiamo che farcene di una religione fatta di rinunce e di crocifissioni». «Lui è libero di crocifiggerci. Ma allora che non ci parlino di bontà infinita, di perdono». «Non accetteremo mai una resa incondizionata davanti a Dio».
Siamo il più angosciato, il più tormentato di tutti i popoli, ma siamo anche il più ottimista coscienza collettiva, in quei quartieri in cui non si osa avventurarsi una volta scesa la notte, quel sogno indicibile, mostruoso, di farlo sparire in un modo o nell’altro, di sostituirvi a lui, di diventare come lui, di essere Dio.
Non avete impiegato molto tempo a trasformarvi da Adamo in Caino, a uccidere Abele, ossia il migliore di voi, quello la cui offerta era stata accettata. Ma quell’arma che avete alzato contro Abele, vostro fratello, contro voi stessi, sapete benissimo contro chi l’avete impugnata, in realtà. L’avete sempre saputo, anche se facevate di tutto per ignorarlo. Il vostro peccato, il nostro peccato consiste anche in questo. È il peccato originale che avete fatto di tutto per negare, per far diventare un fantasma, un mito, un’illusione. Abbiamo messo del sangue tra noi e Dio. Il sangue di nostro fratello. Il sangue di nostro padre. Il nostro stesso sangue.
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economia Deutsche Post e Deutsche Bahn hanno ormai staccato i concorrenti Ue. Deutsche Post-Dhl conta 500mila dipendenti e registra un fatturato annuo di oltre 60 miliardi di euro, mentre DB Logistics, la divisione logistica delle ferrovie realizza circa 17 miliardi di vendite
BERLINO «Un centro logistico di livello mondiale». Così il numero uno di Deutsche Post, Frank Appel, ha definito il nuovo hub della controllata Dhl presso l’aeroporto di Lipsia/Halle, inaugurato questa settimana. Un gigante che consentirà di mobilitare ogni giorno 1.500 tonnellate di merci (che diventeranno duemila dal 2012) e intorno a cui sorgeranno entro quattro anni 10mila posti di lavoro, tra occupati diretti e indotto.
Cifre da capogiro, soprattutto se si pensa che saranno generate in un’area della Germania con tassi di disoccupazione doppi rispetto ai ricchi Länder occidentali. I numeri in sé, comunque rivelano ben poco del progetto. Molto più importante è semmai l’aspetto strategico di questo processo, che porterà i tedeschi a essere il maggiore attore – se non il suo monopolista – della logistica mondiale. Quest’attività supera ormai tanto l’industria automobilistica quanto quella siderurgica per fatturato e numero di addetti. E rappresenta uno dei cardini della crescita mondiale, come ha ricordato anche il ministro federale degli Esteri, Frank-Walter Steinmeier, accorso a Lipsia da Berlino per l’inaugurazione del hub. Di fronte alle prospettive di ulteriore espansione del settore, la Germania ha deciso di posizionarsi in prima fila. E ha già conquistato saldamente le posizioni di vertice a livello europeo, grazie soprattutto a due nomi. Da un lato, l’accoppiata Deutsche Post-Dhl, che conta 500mila dipendenti in 220 Paesi e registra un fatturato annuo di oltre 60 miliardi di euro. Dall’altro, DB Logistics, la divisione logistica
Europa Cina e Usa: con il nuovo hub i tedeschi leader della logistica
Tutti i cargo portano a Lipsia di Alessandro Alviani delle ferrovie tedesche, che, attraverso le controllate Railion e Schenker, riesce a realizzare ogni anno vendite per circa 17 miliardi. Insieme, Deutsche Post e Deutsche Bahn hanno ormai staccato i concorrenti Ue. DB Logistics è già oggi leader europeo nel trasporto merci su rotaia, seguita dai polacchi di PKP e dai francesi di Sncf (le Ferrovie italiane si piazzano al quarto po-
ta nella logistica su rotaia, occupa circa cento dipendenti e offre collegamenti diretti con il Nord Europa.
Eppure Berlino non si accontenta e punta a rafforzare la sua leadership. Per rendersene conto basta guardare al nuovo centro nell’Est della Germania, il terzo al mondo per Dhl dopo quelli di Wilmington (per gli Usa) e Hong Kong (per l’Asia).
Proprio da qui, per giunta, partiranno dall’aprile del 2009 i primi velivoli di AeroLogic, la nuova società logistica di Dhl e Lufthansa Cargo. Così d’un tratto, e tra meno di un anno, Lipsia entrerà a far parte dei primi cinque hub per il trasporto merci al mondo. Deutsche Post ha inoltre annunciato una cooperazione con Ups sul mercato statunitense, canadese e messicano, dove la sua
I due colossi Deutsche Post e Deutsche Banh vicini al monopolio sul trasporto merci. La prima, con la controllata Dhl, va alla conquista del mercato americano, le Ferrovie sono pronte a collegare Berlino e Pechino sto) e numero uno nel trasporto su gomma (davanti a Dhl e ai danesi di Dsv). La strategia di espansione dei tedeschi ha raggiunto da tempo anche l’Italia. Schenker Italiana, la divisione per i trasporti su camion, ha costruito una rete di 33 filiali nella penisola, mentre Railion Italia, specializza-
L’hub europeo della società è stato trasferito da Bruxelles a Lipsia, sia per posizionarsi a un tiro di schioppo dai mercati emergenti dell’Europa orientale, sia per riuscire a decollare e atterrare 24 ore su 24, grazie a una generosa concessione che ha fatto infuriare i residenti nella zona.
Dhl registra da tempo pesanti passivi. Dal canto suo, Deutsche Bahn non resta a guardare. Da sola, la divisione logistica è responsabile di circa il 60 per cento dell’intero fatturato delle ferrovie tedesche. Quota destinata a crescere ulteriormente, in vista del progetto di privatizzazione che consentirà di vendere il 24,9 per cento delle attività di trasporto merci e passeggeri della società: “DB Mobility & Logistics AG”, infatti, dovrebbe fare il suo debutto in Borsa nel
prossimo novembre. Già oggi DB lavora per potenziare la sua presenza internazionale, in Europa e non solo. Il numero uno della divisione logistica, Norbert Bensel, ha rivelato al quotidiano Handelsblatt di aspirare a nuove acquisizioni di società logistiche e di trasporto merci nell’Europa sud-orientale. La vera sfida si gioca però in Asia.
Per avere un’idea della posizione assunta dai tedeschi nel continente basti pensare che la rete di filiali di Schenker in Cina passerà presto dalle attuali 33 a quasi 70; a titolo di paragone, i concorrente svizzeri di Kühne & Nagel sono presenti oggi nell’Impero di Mezzo in 36 località. Meglio di Schenker fa soltanto Deutsche Post con la sua Dhl, numero uno della logistica in Cina. Ma Schenker ha iniziato la rincorsa, portando il fatturato cinese entro il 2015 dagli attuali 1,4 a 6,5 miliardi di euro. Come se non bastasse, il gruppo di Hartmut Mehdorn si prepara a inaugurare, fra tre mesi, un servizio regolare di treni merce tra la Germania e la Cina. I convogli, che partiranno due o tre volte a settimana, copriranno in 15 giorni i circa 10.000 chilometri che separano Berlino e Pechino. Mentre la concorrenza sullo scacchiere asiatico si inasprisce, in Europa i due giganti della logistica provano a lanciare nuovi progetti. Da Lipsia Dhl vuole trasportare per la prima volta anche delle merci su rotaia. A tal scopo dovrebbe partire ogni giorno un convoglio diretto all’aeroporto di Francoforte sul Meno. E per trasportare i carichi, ha annunciato di voler utilizzare i treni di Deutsche Bahn.
economia
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Dopo l’incontro tra Berlusconi e Sarkozy si rafforza l’ipotesi di un rientro di Air France nella trattativa
Alitalia,la via francese non si dimentica mai d i a r i o
di Alessandro D’Amato
d e l
g i o r n o
Tremonti: «La Robin Hood tax forse nel Dpef» Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha difeso l’idea della “Robin Hood tax”, ossia una supertassa sui profitti delle compagnie petrolifere. «In tempi straordinari servono forme di prelievo straordinarie», ha ribadito il ministro che ha poi precisato che la tassa potrebbe essere inserita nel provvedimento legislativo di giugno, che affiancherà nel Dpef: «Stiamo studiando, è un’ipotesi». Anche dall’Ue arriva un quasi via libera al progetto.
Opec, pronto ad aumentare produzione «L’Opec è pronto ad aumentare la produzione di petrolio solo se il mercato ne avesse bisogno». È stato il ministro del petrolio del Kuwait, Mohammad al-Olaim, a comunicare la possibile scelta dell’organizzazione. Olaim ha aggiunto che l’attuale elevato prezzo del greggio non è legato ai fondamentali quali la domanda e l’offerta».
Conti pubblici, chiusa la procedura Ue
ROMA. «Di Alitalia abbiamo parlato. La compagnia per il futuro avrà convenienza a trovare accordi con compagnie internazionali. In questo caso Air France potrebbe essere una buona soluzione». A riportare in auge la soluzione francese (ma soltanto come alleato) è stato ieri il presidente Berlusconi, dopo il colloquio con Nicholas Sarkozy - il quale ha comunque subito dopo precisato che «sarà il management a decidere» - in una giornata che è stata già molto difficile per il nostro vettore nazionale.
In mattinata era infatti arrivata la levata di scudi da parte di British Airwais e Ryanair contro il prestito da 300 milioni che, secondo il governo, assicurerà la continuità aziendale per i prossimi dodici mesi, il tempo necessario a privatizzare la compagnia. Se l’amministratore delegato della compagnia inglese, Willie Walsh, si è limitato a dire che il sostegno finanziario dello Stato non era equo, dal direttore finanziario della low cost irlandese, Jimmy Dempsey, sono giunte ben altre parole: il prestito «è oltraggioso. Gli aiuti di Stato hanno fatto sì che Alitalia restasse operativa negli ultimi dieci anni, dovrebbero lasciarla fallire». E che aveva trovato la pronta replica di Tremonti: «È un contributo legittimo, finalizzato ad un aumento di capitale coerente con un piano industriale per il mercato», il quale avrebbe accolto con piacere l’apertura del premier ad Air France, visto che in privato si era sempre detto scettico sulla «soluzione italiana». Ma la presa di posizione delle compagnie
aeree serviva soprattutto a rendere arroventata la vigilia delle decisioni della Commissione Europea sul dossier Alitalia, che proprio di recente si è arricchito del capitolo sul prestito ponte. E che potrebbe anche trovare nuovi argomenti di contestazione nel decreto per derogare alle regole delle privatizzazioni che Tremonti ha varato tre giorni fa, sul quale la Commissione potrebbe sollevare altre perplessità. Eppure forse non serviranno: perché è vero che, dopo la documentazione inattaccabile presentatagli, il neo commissario ai trasporti Tajani aprirà l’indagine su Alitalia. Ma le
La nuova compagnia, grazie al sostegno di banche e imprenditori, dovrebbe fondersi con Air One per poi convolare a nozze con un grande partner industriale concorrenti stanno tentando di spingere la Commissione Europea ad andare direttamente alla Corte di Giustizia: una soluzione non più veloce, ma politicamente più gravosa per l’Italia e la compagnia di bandiera. Difficile che Bruxelles però segua questa strada, un po’ per rassegnazione (viste le condizioni della compagnia di bandiera e il caso della greca Olimpic, considerato un precedente), un po’ perché si pensa che per il tempo necessario alla chiusura della procedura su Alitalia sarà tutto definito: e la compagnia avrà un nuovo pa-
drone o sarà in fallimento. Ieri, intanto, il cda della Magliana ha affidato ufficialmente a Intesa San Paolo il ruolo di advisor nel terzo tentativo di privatizzare la compagnia. A questo punto, la palla passa a Ca’ de’ Sass e a Corrado Passera. Che potrà partecipare alla definizione della trattativa - eventualmente anche con un impegno economico - ma non acquistare la compagnia per intero. Una situazione resa ancor più difficile dal fatto che le altre banche italiane e straniere che si erano in un primo momento impegnate nella squadra che faceva capo a Carlo Toto si sono tirate indietro.
È per questo che nel frattempo sono ripartite le voci sulla cordata italiana: la nuova Alitalia, grazie al sostegno delle banche e degli imprenditori contattati da Bruno Ermolli, dovrebbe fondersi con Air One e altre compagnie minori per poi convolare a nozze con un grande partner industriale portando in dote il 70 per cento del mercato nazionale. Questo schema, anche secondo l’ad dello Iata (l’organizzazione internazionale delle compagnie aeree con sede a Montreal), il prodiano Giovanni Bisignani, è l’unico che può permettere il rilancio della Magliana, che oggi «può solo cercare di sopravvivere, con una ristrutturazione e una struttura più leggera. Poi, quando le difficoltà del settore saranno superate, può darsi che qualche interessato venga fuori». Ovvero, sempre la solita Air France. Che a quel punto potrà comprare a prezzi ancora più stracciati di quelli concordati a marzo.
Il Consiglio Ecofin ha approvato l’abrogazione della procedura di infrazione per deficit eccessivo aperta nei confronti dell’Italia nel 2005. Nel 2007 - si legge nella decisione dell’Ecofin e comunicata dal presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker - il rapporto deficit-Pil è sceso sotto il tetto del 3 per cento «in maniera credibile e sostenibile». Ma dall’Europa arrivano anche brutte notizie. L’Italia è ancora il fanalino di coda d’Europa. Secondo Eurostat, l’ufficio statistico delle comunità europee, l’economia della zona euro è cresciuta del 2,2 per cento rispetto all’anno precedente e dello 0,8 per cento rispetto al trimestre precedente. Mentre il Pil italiano è cresciuto solo dello 0,2 per cento rispetto al primo trimestre del 2007 e dello 0,4 per cento rispetto al quarto trimestre del 2007. Si tratta della crescita più bassa di tutti i Paesi dell’Unione europea.
Ocse: Gurria, economia rallenterà L’economia della zona Ocse rallenterà e i prezzi del petrolio non scenderanno «in modo significativo». È il commento del segretario generale dell’Organizzazione, Angel Gurria, nell’ambito dell’Ocse Forum. I prezzi dei generi alimentari, inoltre, «anche se non resteranno ai livelli attuali», si manterranno su livelli molto più alti delle medie storiche a causa della maggiore domanda dai Paesi emergenti. Le economie dei Paesi più industrializzati registreranno «una crescita minore» nei prossimi mesi. Quanto ai prodotti petroliferi «non prevediamo cali significativi».
Vendita As Roma, Procura apre fascicolo La Procura della capitale ha aperto un’inchiesta sulle oscillazioni del titolo della As Roma Calcio in seguito alle voci sull’interessamento al club da parte del magnate statunitense George Soros. Il fascicolo per il momento è intestato «atti relativi a», ossia senza ipotesi di reato e senza indagati. Gli uffici di piazzale Clodio in merito hanno chiesto alla Consob informazioni sull’indagine avviata dall’organismo di controllo della Borsa. La Procura intende accertare se vi siano eventuali fatti penalmente rilevanti e verificare quindi se vi sia stata qualche speculazione o manipolazione del mercato.
Caro-libri, al via la prima class action Un rimborso tra gli 80 e i 400 euro a famiglia. È questa la cifra chiesta dall’Adoc alle case editrici segnalate dall’Agcom, in relazione ai continui aumenti del costo dei testi scolastici. L’associazione ha promosso la prima class action contro i rincari dei libri, che negli ultimi anni hanno registrato aumenti del 10-15 per cento. Nel 2007 - secondo le stime - l’incremento dei prezzi è stato del 12,4 per cento, con una spesa di 40 euro in più a famiglia.
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sattamente trent’anni fa, Vittorio Mathieu diede alle stampe un libro che compendiava in sé un perfetto stile teoretico e un lodevole coraggio civile. Riguardo al primo aspetto, va sottolineata l’argomentazione limpida, incalzante e stimolante; per il secondo, è adeguato parlare di coraggio, perché Mathieu era conscio che la corrente nella quale si stava incanalando l’opinione pubblica italiana, accortamente manipolata dalle cerchie maggioritarie degli intellettuali e dei giornalisti, andava in direzione opposta a quella che egli aveva imboccato e che invocava il recupero di un sempre più incrinato senso del bene in quanto tale e dell’interesse comune. Ora quel saggio viene ristampato da Liberilibri (Perché punire. Il collasso della giustizia penale), casa editrice di Macerata nata più di un decennio fa e che, grazie alla passione e all’intelligenza del suo fondatore Aldo Canovari, è riuscita a ritagliarsi uno spazio di visibilità e a imporre un proprio segno di autorevolezza nell’editoria nazionale.
cultura giustizia penale rappresenta il fondamento, formale e sostanziale, dell’intero sistema giudiziario e sociale. Ripensare la commisurazione della pena rispetto al reato significa rimediare agli errori compiuti da quell’ideologia del rifiuto generalizzato del punire che si è imposta nella società contemporanea, e in primo luogo vuol dire rivedere le basi etiche e sociologiche delle sanzioni, a partire da quelle maggiori come l’ergastolo e la pena capitale.
E
Mathieu, uno dei decani e dei maestri della filosofia italiana contemporanea, affronta un tema di grande rilevanza etica, politica e sociale: il rapporto fra delitto commesso e pena comminata, nel contesto concreto dell’amministrazione della giustizia. Egli ritiene che a partire dai presupposti dell’illuminismo e del positivismo, il processo di svalutazione, concettuale e pratica, della dimensione punitiva della giustizia sia culminato, nell’Italia degli anni Settanta, in un «rifiuto generalizzato della pena» nel quadro della «crisi più drammatica che mai si sia avuta nella giustizia penale». Oltre a riconoscere la validità dell’impostazione teorica del problema, dobbiamo constatare l’attualità di queste considerazioni riguardo alla crisi complessiva del sistema giudiziario italiano, che non solo perdura ma si è pericolosamente aggravata. Alla fine degli anni Settanta, sotto la spinta culturale di un «movimento contestativo» che spaccia la pena per repressione e che considera il delitto come una conseguenza dell’autoritarismo statale e dell’ingiustizia sociale, la classe dirigente italiana stava mostrando il suo maggior difetto: era diventata «incapace di pensare, non solo nel modo formale, ma anche nel modo empirico necessario alla prassi». Quell’atteggiamento ipocrita (che oggi potremmo definire buonismo cinico) con cui le pene vengono decretate quasi «chiedendo scusa» al condannato è il
Liberilibri ristampa il saggio di Vittorio Mathieu sul rapporto tra delitto e pena
Chi ha paura dell’etica della legge? di Renato Cristin paradigma della concezione politico-giuridica della nostra epoca.
La causa primaria di questo modo di concepire l’esercizio della giustizia consiste nella negazione dell’individualità e del suo principale attributo: la coscienza. Questa eliminazione scaturisce dall’azione convergente delle due principali potenze socioculturali del Novecento: da un lato la scienza, che non prende in considerazione l’individuo in quanto sarebbe «non ricostruibile» e quindi, per essa, «impensabile», dall’altro lato la politica rivoluzionaria di stampo marxista, vera dominatrice della scena postbellica italiana, che nega l’individuo in quanto espressione formale di una falsa morale borghese. Chi invece persiste nell’attribuire la responsabilità ultima degli atti criminali al sogget-
to che li compie viene tacciato di oscurantismo, subisce una fustigazione sociale e inizia ad avvertire «un doppio complesso di colpa»: si sente arretrato sia in senso scientifico sia in senso etico, preda di dogmi mitico-metafisici e di riprovevoli pulsioni egoistiche. Insieme alla disgregazione dell’individuo si genera un’irrime-
«Alla certezza della pena bisogna affiancare l’esigenza di “efficacia” punitiva, la cui giustificazione primaria è la giustizia» diabile deformazione del concetto di umanità: l’umanitarismo ha voluto «riaffermare la dignità incomparabile dell’uomo» ma negandone l’individualità di coscienza gli ha negato «la capacità di essere libero». In questo senso, l’umanitarismo «è nemico degli uomini», perché li
deresponsabilizza, concependone la capacità delittuosa come mera forza deterministica simile a quella dei fenomeni naturali. Non ci si dovrà pertanto mai stancare di ribadire come l’eliminazione del concetto di responsabilità dalla scena etica contemporanea sia un deleterio fattore di trasformazione antropologico-sociale.
La punizione si giustifica dunque come esercizio della responsabilità nel senso più ampio e più alto: dell’uomo verso il suo simile (nel caso di chi la delibera concependola come equa) e dell’individuo verso se stesso (nel caso di chi la subisce accettandola come giusta). La rottura della simmetria fra crimine e punizione, ovvero la rottura del meccanismo etico della giustizia penale produce dunque uno scardinamento dei rapporti all’interno della società, perché la
Alla, mai come oggi tanto invocata, certezza della pena bisogna affiancare l’esigenza di «efficacia» punitiva, la cui giustificazione primaria è la «giustizia» e le cui implicazioni derivate sono l’espiazione, l’intimidazione e la rieducazione. Nell’erogare una sanzione penale, il giudice risponde a un imperativo morale: bisogna che la punizione determini un preciso condizionamento delle azioni future del condannato, riducendo al minimo i rischi che questi reiteri il proprio crimine. A tal fine, il colpevole deve rendersi conto che «la pena inflittagli è giusta», accettando il fatto che espiare significa anche patire, nella memoria, per il delitto commesso. «Non esiste pena senza la memoria», scrive Mathieu citando Leibniz, e pertanto i «mezzi correzionali» non sono estrinseci al fondamento morale della sanzione e non vanno relegati sul piano del mero esercizio operativo del sistema giudiziario. In questo senso, il carcere a vita sarebbe la massima espressione della punizione perché conserva vivo nel detenuto il ricordo del delitto. L’ergastolo sarebbe l’esito della connessione fra due concetti divergenti di pena: la punizione, che si rivolge alla gravità del delitto compiuto, e la difesa, che guarda al «danno temuto» futuro. Ma la pena deve essere commisurata «alla gravità del fatto, anziché alla durata del pericolo», e quindi, in linea di principio, si può giustificare anche la pena di morte, che «è assurda in una concezione utilitaristica, ma non per chi veda nella pena un mezzo indispensabile per ridare valore alla persona del reo». Riammettere nella società anziché punire con la morte il criminale che si è macchiato di delitti abnormi significherebbe infatti violare «il sistema del diritto»e lacerare l’etica che lo presiede: non si sarebbe «preso sul serio ciò che ha commesso» e non lo si sarebbe «veramente emendato». Ma questo è un ragionamento filosofico, e la vita, purtroppo, è un’altra faccenda.
cultura
4 giugno 2008 • pagina 19
Il progetto dell’architetto genovese per l’area del santuario di Ronchamp è pronto, ma c’è chi lo osteggia
Un Piano per riqualificare Le Corbusier di Claudia Conforti a alcune settimane circolano sul web due petizioni contrapposte: una, anonima, contro il progetto di Renzo Piano e del paesaggista Michel Corajoud per la riqualificazione di Ronchamp; l’altra, promossa e diffusa dagli Amici di Le Corbusier e dall’Association Oeuvre Notre Dame du Haut è invece a favore. Il santuario di Notre Dame du Haut a Ronchamp, costruito da Le Corbusier tra il 1950 e il 1955, irrompe come una rivelazione sulla scena dell’architettura mondiale, scompaginando le coordinate espressive del purismo geometrico che si era affermato come cifra dell’avanguardia architettonica europea d’anteguerra. Su un pianoro erboso, circondato dai boschi, Le Corbusier è chiamato da François Mathey a riedificare un santuario mariano, oggetto di un intenso culto popolare, distrutto durante la seconda guerra mondiale. Toccato dal rude paesaggio dei Vosgi, Le Corbusier abbraccia con quest’opera un itinerario creativo straordinario, che scatena le valenze plastiche ed espressive del cemento armato fino a innalzarlo alla gioiosa spiritualità della fede, che accende gli animi e illumina il paesaggio.
D
La chiesa si disegna all’improvviso sulla sommità nuda della collina con un profilo sommosso ed enigmatico: possenti muri bianchi di calce si srotolano sotto una vela gonfiante di copertura; al di sopra si impennano due torri semicilindriche. Sono due colossali periscopi che catturano la luce profondendola nell’aula sacra, ed evocano la preminenza territoriale dei campanili, arcaici marcatori del tempo e dello spazio della civiltà contadina. Catturata da feritoie quadrate, schermate da vetri colorati che traforano la parete di mezzogiorno, la luce naturale dardeggia in un’aula liturgica umbratile e irregolare, dallo sconcertante pavimento inclinato, alitandovi una vitalità sublime e misteriosa, che culmina nella ieratica semplicità dell’altare mariano. L’edificio, immediatamente icona dell’architettura del novecento, è una meta tra le più frequentate del turismo architettonico internazionale. Le masse
di visitatori secolari hanno finito con l’espropriare il santuario della sua funzione, derubricando la sua originaria ragione d’essere, intimamente fusa con la religiosità popolare e con la pratica della meditazione e della preghiera nella solitudine della natura, dove più netta spira la benevolenza divina. Intorno
al magnifico santuario di Le Corbusier sono proliferate microstrutture edilizie di servizio: uno spiazzo asfaltato per il parcheggio; una portineria con vendita di souvenir; un edificio per l’accoglienza visitatori; servizi igienici d’emergenza. Costruzioni frettolose e meno che mediocri, che involgariscono il luogo,
assimilandolo a una remota periferia metropolitana. Per riqualificarlo e restituirlo alla dimensione religiosa e spirituale, che ne è all’origine, l’Association Oeuvre Notre Dame du Haut, responsabile del santuario, di concerto con gli Amici di Le Corbusier e con l’ordine delle Clarisse di Besançon, ha incaricato Piano e Corajoud di redigere un progetto architettonico e paesaggistico per il sito. Esso implica in primo luogo la demolizione dei manufatti impropri che assediano il monumento; seguirà l’edificazione di un romitorio, dotato di oratorio, di atelier per il lavoro in comune e di piccola foresteria, destinato a dodici clarisse, che da Besançon si trasferiranno in loco, così da assicurare continuità e presenza religiosa al santuario. Nuovi e adeguati servizi di accoglienza turistica sono predisposti a rispettosa distanza dal santuario, compreso un parcheggio schermato dagli alberi.
Negli anni,le masse di turisti hanno finito con l’espropriare il luogo della sua funzione,determinando il proliferare di costruzioni frettolose e mediocri (parcheggi,negozi di souvenir) che lo fanno somigliare a una periferia
Questi piccoli manufatti, tutti a una distanza variabile tra 50 e 100 metri dal santuario, sfruttano il declivio e si incastrano nella roccia, accomodandosi nei penetrali geologici del colle mariano, di cui divengono parte. Le minuscole architetture sono i delicati frammenti di un discorso amoroso che Piano rivolge sommessamente al capolavoro di Le Corbusier che, finalmente liberato dalle scorie di sbadati interventi senza qualità, potrà sfavillare, come un’antica cattedrale, nella turgida pienezza del suo messaggio spirituale, addobbato di abiti squisitamente mondani. L’eleganza silente del progetto di Piano è la cifra della sovrana umiltà che distingue i grandi ingegni. Essa ben si accorda con una natura sapientemente artificiata, che digrada verso valle, a configurare un anello boschivo, una selva densa e oscura, efficace introibo naturalistico alla stupefacente apparizione della chiesa, che si erge trionfante e isolata nel prato sommitale. Il progetto, dopo una lenta elaborazione da parte degli autori che conoscono bene l’azione feconda del tempo sull’architettura, ha superato tutti i gradi di valutazione che, in Francia come in Italia, disciplinano gli edifici classificati come monumenti storici. Pronto per il cantiere, esso è ora osteggiato da alcuni componenti della Fondazione Le Corbusier, in nome di un’ambigua cristallizzazione del reale che rifiuta l’abbraccio del tempo e sdegna gli omaggi della storia.
Due immagini del santuario di Notre Dame du Haut a Ronchamp, costruito da Le Corbusier tra il 1950 e il 1955. A sinistra, il manifesto della petizione a sostegno del progetto di riqualificazione firmato da Renzo Piano e dal paesaggista Michel Corajoud. In altro, uno schizzo di Piano
pagina 20 • 4 giugno 2008
società
Belle illusioni. Dai corsi nelle scuole ai ”ministeri del benessere”, tutto ciò che la modernità ci propone per raggiungere l’happiness
Tutti a lezione di felicità di Roselina Salemi
li italiani sono “abbastanza” felici. Il voto medio, secondo il sociologo Enrico Finzi, oscilla tra 7,2 e 6,9. Insomma, siamo vicini al famoso “settepiù” di Cochi e Renato. Il libro-ricerca Come siamo felici, (Sperling & Kupfer), si apre con una simpatica pagella che fa scoprire come le soddisfazioni migliori vengano dal privato, la famiglia, i figli, la casa, persino gli animali, tutti sopra la sufficienza, mentre lo shopping, la bellezza, lo sport e «la situazione dell’Italia» sprofondano al 4,6. Ma alla fine, quattro italiani su dieci si dichiarano appagati, più di un quinto non ha di che lamentarsi, un terzo vive mediocremente, senza infamia e senza lode, uno su dieci si dichiara drasticamente infelice. E la sociologia, dopo tanta fatica, numeri tabelle e interviste, rischia di scoprire più o meno la verità dei proverbi: i soldi non sono tutto, la salute conta più del lavoro, dell’amore e dei rapporti con gli altri.
G
del fiume/ la felicità». Ma ognuno ha la sua.
Per Giovanni Allevi è «musica», per Giovanna Mezzogiorno «un cinema da sola, alle tre del pomeriggio», per Frank O. Gehry è «progettare, sempre», per Angelina Jolie è «sentirmi madre, non solo dei miei figli». Soltanto Sergio Castellitto, in controtendenza, diffida della felicità: «Che è breve e isterica. Meglio la contentezza, che ti accompagna per tutta la vita». Ma la contentezza non la insegna nessuno. A Cambridge, invece, Nick Bayles tiene seminari su «star bene con se stessi e con gli altri», mentre ad Harvard, le lezioni di felicità tenute all’interno del corso di Psicologia positiva da Tal BenShahar (90 minuti dove c’è di tutto, dalla GIOVANNI ALLEVI meditazione all’autocoscienza) hanno Vero e proprio sfiorato la cifra record di 900 studenti. pallino della «Fondamenti dell’economia» non è arrimoderna sociologia vata a 700. Sempre ad Harvard, lo psico(ma non solo), il logo Daniel Todd Gilbert, ha inventato la fenomeno che da «scienza delle previsioni emotive», un sempre porta calcolo matematico per pianificare la felil’uomo all’eterna cità, guadagnandosi il soprannome di ricerca della felicità. Smiling Professor, Professor Felicità, da Scontata ma quanto quando dirige l’Hedonic Psychology Lamai azzeccata l’idea boratory. di felicità di Certo, i francesi lo fanno meglio (parlare Giovanni Allevi: di felicità). Sarà per l’eredità cartesiana «La musica» delle idee chiare e distinte, sarà perché hanno una vera passione per i meandri dell’inconscio, ma i consigli dello psichiaPerò la maggioranza assoluta crede che la felicità tra “felicitologo”Christophe André incassano un connon sia di un altro mondo, ma di questo e la cerca, senso strabiliante (vedere il sito Jubilation). «L’arte più o meno disperatamente. Tanto da far nascere l’i- della felicità» offre 25 curiose lezioni attraverso quadea che un’«educazione alla felicità» sia possibile, dri celebri, da Klimt a Courbet. E l’ultimo, come sostiene Flavia Arzeni in un saggio pubblicato impegnativo studio (Imperfetti e felici, con Rizzoli, seguendo il percorso di Herappena pubblicato da Corbaccio), spiega man Hesse e Tagore. Che “studiarla” e supecome si possa essere gioiorare l’esame con un buon voto non sia una samente vitali recuperando trovata così balzana. Succede già in molte la propria autostima, accetscuole inglesi (in Italia il mondo accademitando le sconfitte i fallimenco si oppone fieramente, anche se di feliti, volendosi bene. cità si scrive molto: 25 titoli importanti dalMa ci provano in tanti, a trol’inizio dell’anno). vare la Via. Forse perché, in L’esperimento al Wellington College di tempi di ansia e paranoia, Crowthorne ha reso famoso il preside crisi e depressione, la felicità Anthony Sheldon, e ha lanciato un’ora è diventata un autentico obsettimanale di «introduzione alla felicità» bligo sociale, come fitness e dalla scuola media.Tony Blair pensava semoda. Un altro traguardo da riamente a un «ministero del benessere» prima raggiungere. Ha ragione Serdi essere costretto a farsi da parte. gio Castellitto a diffidare. Ma la tentazioIl problema vero è dare un contenuto al termine hap- ne è forte. piness (successo? denaro? amore? celebrità?) altri- La chiave di tutto è la psicologia positiva, che racmenti si ricade nella filosofia spicciola che ha reso coglie studiosi di varia formazione in un network famoso Phliippe Delerm (felicità è la prima sorsata internazionale. La loro idea è: ci occupiamo tanto di birra, il profumo delle mele in cantina, se hai una della patologia, perché non studiare le persone che cantina, la raccolta delle more nei boschi, le chiac- stanno bene per capire se ci sono modelli di comchiere attorno a un tavolo sgranando piselli) e nelle portamento replicabili, schemi che possono aiutacanzonette: «Felicità/ è un cuscino di piume, l’acqua re chi soffre a tirar fuori ogni possibile risorsa? Ed
GIOVANNA MEZZOGIORNO Un po’ banale e quanto mai esistenzialista la rappresentazione di felicità secondo Giovanna Mezzogiorno, che ha confessato di adorare «il cinema da sola, alle tre del pomeriggio»
ecco i risultati.
C’è chi affronta la questione con l’arma della riflessione filosofica, come Remo Bodei (o Adriano Sbernini, fondatore di Lifecoaching Italia). Chi, tra l’irriverente e il profetico, promette 888 consigli per essere «selvaggiamente felici», trasformando la pa-
società
4 giugno 2008 • pagina 21
Tra i Paesi ”più esperti” in termini di felicità applicata c’è la Francia, che in 25 lezioni private spiega come raggiungerla attraverso lo studio e l’analisi di quadri celebri, da Klimt (a sinistra ”Le tre età della donna”) a Courbet (in alto ”Riva del mare di Palavas”). Tra i libri freschi di pubblicazione, ”Dell’arte della felicità” di Christophe André, ”Economia della felicità” di Luca De Biase, e ”Come siamo felici” di Enrico Finzi ranoia in “pronoia”, e cioè Rob Brezsky, musicista, SERGIO CASTELLITTO Decisamente scrittore, ideatore del in controtendenza «Laboratorio per la bell’attore Sergio lezza e la verità». Chi Castellitto, spiega (e bisognerebbe che alla felicità ascoltarlo), come ottenere preferisce happiness nelle aziende: «la contentezza Christian Boiron, filosofo che ti accompagna e imprenditore numero tutta la vita», uno della medicina omeoal contrario patica ha scritto Le ragioni della prima, della felicità e coltiva l’utopia con convin«troppo breve zione. Chi mescola psicologia, new age e e isterica» senso pratico (Hal Urban, uno dei leader del Character Education Movement). Ognuno a modo suo, assicura che la felicità, come l’amore, la carriera e quasi tutto nella vi- Robbins, trainer di Bill Clinton, perfetto «per chi ta, è solo questione di metodo. vuole dare una svolta alla propria vita e costruirsi un Volendo, ci si può iscrivere ai corsi tenuti da guru più futuro di successo e di felicità». Mentre c’è ancora o meno di tendenza (150 on line, una trentina sparsi tempo per quello dello psicologo John Gray a Roma, per l’Italia). Si è concluso gioiosamente, ovvio, il se- il 13 e 14 giugno, dedicato a chi vuole migliorare i minario di «motivazione personale» con full immer- rapporti interpersonali e risolvere problemi sentision a Londra, tenuto lo scorso febbraio da Anthony mentali. Gray, 30 milioni di copie vendute in tutto il
mondo, è l’autore del bestseller Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere e promette di insegnare «tecniche utili per sviluppare relazioni gratificanti». Niente di strano, perciò, che anche gli economisti (per citarne uno, Maurizio Franzini, professore di Politica economica alla Sapienza di Roma) stiano accettando l’idea del diritto alla felicità nelle società avanzate, anche se il copyright, datato 1776, sarebbe di Gaetano Filangieri. Il sito della European School of Economics si apre con la citazione: «Soltanto un uomo felice può cambiare l’economia» (dirlo a GiulioTremonti, please). E i soldi? In tutto questo discutere di felicità, quanto c’entrano? Alfio Bardolla, che ha il suo quarto d’ora di gloria come fondatore del wellness finanziario e unico financial coach italiano, ha pubblicato un esplicito: I soldi fanno la felicità ed è in arrivo il sequel, Il denaro logora chi non ce l’ha (Sperling &Kupfer). Lui si sente abbastanza sicuro, ma in realtà il tema è controverso.
Due eccentrici professori inglesi, Andrew Oswald e Jonathan Gardner hanno studiato 9.000 famiglie per dieci anni e hanno scoperto che mille sterline (circa 1.600 euro) aggiunte al reddito familiare aumentavano il «tasso di felicità». Mentre all’Università di Utrecht sono arrivati alla conclusione che oltre una certa soglia (garantito cioè il benessere), il denaro in più non migliora la vita. Che l’Economia della felicità, bellissimo titolo del saggio di Luca De Biase (Feltrinelli), va ricalcolata in base a nuovi parametri, «oggetti economici che derivano dalle relazioni tra le persone». Esempio? «Se uno sposa la colf, aumenta la sua felicità, perché risponde a un bisogno d’amore, ma fa diminuire il Pil, dal momento che non la paga più. Secondo l’economia classica c’è perdita, ma per l’economia della felicità è un guadagno netto». Capito?
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Chi vorreste che fosse il prossimo capo di Stato? MI PIACEREBBE MOLTO GIANNI LETTA, SAREBBE GRADITO ANCHE ALL’OPPOSIZIONE
SENZA DUBBIO L’ATTUALE PREMIER BERLUSCONI, L’UOMO CHE HA SVECCHIATO LA POLITICA ITALIANA
Lunga vita a Napolitano. Ma in un mondo che gira a velocità della luce, già si pensa al dopo, al 2013, e ci si chiede: quale sarà o dovrebbe essere il successore dell’attuale Capo dello Stato? Diciamo Gianni Letta come auspicato dallo stesso Berlusconi. Si continuerebbe con la tradizione che vuole per l’Italia un Presidente della Repubblica non più giovane. Nel 2013 Gianni Letta avrebbe infatti già settantotto anni, non pochi, ma comunque tre in meno di Giorgio Napolitano, quando questi fu eletto il 10 giugno del 2006. La signorilità che lo ha sempre contraddistinto, unita alla sua sapiente pazienza e alla sua invidiabile lucidità, ne farebbero certamente un eccellente Capo dello Stato, gradito persino alla attuale opposizione, talché potrebbe essere eletto plebiscitariamente come avvenne per Ciampi. E secondo me con maggiore garanzia di imparzialità. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità su liberal, un quotidiano che ho preso a leggere ormai tutti i giorni per la sua eleganza nella forma come nei contenuti d’analisi politica, economica e sociale. A presto.
Berlusconi! Se lo merita ampiamente. E’l’uomo che più di ogni altro ha cambiato, negli utimi quindici anni, la stantia vita politica italiana. Con poche parole ha sghettizzato i milioni di voti della destra, ha dato la spinta decisiva alla democratizzazione del Partito Comunista, ha ”inventato” il bipolarismo portando l’Italia nel novero dei Paesi occidentali più evoluti e, in questo ultimo anno, ha messo ko il radicalismo politico dei partitini che hanno ostacolato la vita democratica del Paese. Da ultimo, ma non ultimo come suol dirsi, è riuscito ad instaurare un rapporto non bellicoso con l’opposizione. E di ciò bisogna rendere il dovuto merito anche a Veltroni e Napolitano. Da qui al 2013 il Cavaliere, si spera, avrà modo di risolvere il suo enorme conflitto di interessi e il problema del suo carattere eccessivamente esuberante che ne fa decisamente un ”simpatico” gaffeur.
Tullio D’Amato - Firenze
LA DOMANDA DI DOMANI
Favorevoli o contrari al ritorno degli esami di riparazione nelle scuole italiane? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Giampiero Semprini - Cuneo
IL PAESE HA BISOGNO DI UNA FIGURA GIOVANE, OBIETTIVA E LUNGIMIRANTE. MA CE N’È UNA COSÌ? Non è semplicissimo rispondere a questa domanda. Prima di tutto, bisognerebbe procedere per esclusione. In questi ultimi giorni, s’è ad esempio parlato di Berlusconi o Letta. Ecco, tenderei a depennarli entrambi. Motivo: nel 2013 avrebbero già una certa età e penso che, così come non lo è stato Napoliano, nemmeno loro sarebbero garanti di una certa imparzialità. O quanto meno probabilmente non lo sarebbe Berlusconi. Credo che per l’Italia ci sia bisogno di forze esperte ma giovani, di occhi lungimiranti per il futuro ma allo stesso tempo molto obiettivi sul passato della storia d’Italia. Il problema è che al momento, non mi sembra che nel Paese esista un politico o un tecnico che racchiuda in sé tutte queste condizioni. Dunque che si fa? Si fa che allora tocca aspettarci davvero Berlusconi o Letta. Nella speranza che l’età (e magari qualche consigliere di qualità) suggerisca sempre un approfondito ragionamento.
FARE CENTRO, FARE MASSA Quando nasce un nuovo movimento politico mi viene in mente una lapidaria frase di Gobetti: «E’ bene sentirsi soli, quando soli vuol dire distacco dalla leggerezza e dall’insincerità». E’ il grande tema del movimento di idee che sente che la via per il partito di massa non è conciliabile con la propria profondità di pensiero e la sincerità. E’ un tema ancor più importante oggi, visto che le probabili evoluzioni delle riforme istituzionali condurranno all’impossibilità di sopravvivenza di partiti piccoli anche se densi di pensiero. Può essere che la questione del federalismo fiscale, che si sta per aprire, veda un cammino unitario verso un federalismo riequilibrato dal bipartitismo con l’elezione diretta del premier. Può essere invece che ne sia l’elemento di crisi, soprattutto se emergerà che il federalismo, nel breve, significa maggior prelievo fiscale e un domani, forse, mantenimento nel territorio di risorse. Siccome questo clima favorevole alle “serietà” è sorto come conseguenza di una amplificazione di temi quali la sicurezza, l’inefficienza pubblica nazionale
PAZZA IDEA
Un giovane concorrente conclude il suo sfortunato volo nell’acqua di un laghetto durante la quarta edizione del concorso ”Flugtag” a Poznan, in Polonia. Per gareggiare i competitori devono provare a volare sui più strani dispositivi, purché siano autoalimentati
GRAZIE AL SINDACO CACCIARI VENEZIA TORNERÀ ALLA DESTRA Adesso si sta proprio esagerando! La Lega blocca a Venezia la costruzione di un campo nomadi e Cacciari la difende dicendo che è regolare e vi andranno persone di seconda e terza generazione già in Italia. La Lega non intralci: finalmente qualcuno che si assume la responsabilità! Se in quel campo verranno trovati, in normali controlli, clandestini, illegali, delinquenti o altro, ne risponderà Cacciari: dov’è il problema? Cacciari garantisce del loro lavoro (raccolta del ferro) e di altro: bene, se si troverà refurtiva o materiale illecito, Cacciari ne sarà corresponsabile. Lasciamoli fare e così anche Venezia ritornerà al centrodestra: un grazie a Cacciari, che si giustifica dicendo che nel1997 tutto in Co-
dai circoli liberal Amelia Giuliani - Potenza
collegata all’emergenza dei rifiuti e l’emergenza economica e sociale in termini di potere d’acquisto, l’attuale governo e quello ombra saranno pressati da una parte dal far vedere che i problemi “un poco” si risolvono e dall’altra “ma non al punto “ da far cessare il clima di emergenza. Se termina lo “stato di emergenza” infatti è difficile giustificare l’incesto politico culturalmente duopolista tra maggioranza e opposizione. Parlo di incesto perché il percorso istituzionale non è stato trasparente, neppure istituzionale, oltre a non essersi basato su una nuova solidarietà tra i partiti come viatico di una nuova solidarietà tra gli italiani. Resta di fatto che la situazione potrebbe essere ancora in forte evoluzione e quindi è necessario che si crei uno nuovo movimento politico moderato, responsabile e di collaborazione nei governi locali per non favorire la sinistra, ma distinto dalle responsabilità dell’attuale governo nazionale. Perché il Pd non sfondi un domani al centro se mai Berlusconi, malauguratamente, avesse le sfortune di Prodi e perché comunque l’attuale caratterizzazione del Pdl non corrisponde a
mune fu deciso in modo regolare, i tempi non sono cambiati, beato lui! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
IL NUCLEARE È PROPRIO COOL, PIACE ANCHE A CHICCO TESTA Il nucleare è proprio cool. A molti pare, da sempre, la soluzione giusta per abbattere costi insostenibili, sconfiggere la depressione economica ed eliminare lo stress da lettura della bolletta energetica. Ma ora la passione dilaga, anche a sinistra è gettonatissimo. Tra i fan c’è pure Chicco Testa. Chiamate i trampolieri, le ragazze pon pon e le cheerleaders e facciamo festa. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
un’idea del partito dei moderati di tradizione europea. Lo spazio politico di massa è legato sia alla probabile caratterizzazione come destra similgollista e sia dalla capacità di saperne evidenziare i connotati con argomenti non sinistrosi, ma fortemente indirizzati a riconoscersi come membri di una medesima comunità, giusta e unita per essere forte cosi da garantire libertà, ordine e sicurezza, anche senza monarchie a destra come a sinistra. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog L’ITALIA ADESSO HA BISOGNO DI UN ”SORPASSO ELETTRONICO”
Sii forte Julca, e pensa ai bambini Mia carissima Julca, ricordi una delle tue ultime lettere? Mi scrivevi che noi due siamo ancora abbastanza giovani per poter sperare di vedere insieme crescere i nostri bambini. Occorre che tu ora ricordi fortemente questo, che tu ci pensi fortemente ogni volta che pensi a me e mi associ ai bambini. Io sono sicuro che tu sarai forte e coraggiosa, come sempre sei stata. Dovrai esserlo ancora di più che nel passato, perché i bambini crescano bene e siano in tutto degni di te. Ho pensato molto, molto, in questi giorni. Ho cercato di immaginare come si svolgerà tutta la vostra vita avvenire, perché rimarrò certamente a lungo senza vostre notizie; e ho ripensato al passato, traendone ragione di forza e di fiducia infinita. Io sono e sarò forte. Voglio farti sentire forte forte tutto il mio amore e la mia fiducia. Abbraccia tutti di casa tua; ti stringo con la più grande tenerezza insieme coi bambini. Antonio Gramsci alla moglie, dal carcere di Regina Coeli
SE LA SINISTRA RACCONTA BUGIE Dice Veltroni: «Attenti a minimizzare sulle violenze». Scrive l’Unità: «Da Roma a Pisa, allarme Italia violenta. Aumentano le aggressioni e le violenze razziste di gruppi legati al neofascismo. Raid al Pigneto». Se questo è quanto ci dicono Veltroni e l’Unità, altro non c’è contro la destra! Peccato però che il capo del raid avesse il ”Che” tatuato sul braccio e che gli italiani non minimizzino assolutamente: leggere, per documentarsi, i risultati delle ultime elezioni, sinistre estreme cancellate dalle istituzioni, destre anche, e una valanga di voti al Pdl. Come se non bastasse, si sente anche dire: ma bisogna recuperarli alle istituzioni, così sono pericolosi, la piazza, questo, quello, ecc. Sì, è vero, bisogna fare qualcosa, per esempio cominciare a sbatterli in galera, buttare la chiave e far vivere la gente più tranquilla, con tutti i problemi che già ha. Si chiede troppo? Le elezioni non hanno chiarito? Allora... diamo loro anche brioches! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
Valeria Monteforte Teramo
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
4 giugno 1859 Seconda guerra di indipendenza italiana: battaglia di Magenta 1878 L’Impero Ottomano cede Cipro al Regno Unito 1936 Léon Blum diventa Primo Ministro di Francia 1940 Le truppe tedesche entrano a Parigi 1944 Le truppe alleate liberano Roma 1989 I dimostranti di Piazza Tiananmen, a Pechino, vengono repressi, il tutto viene filmato dalle televisioni. La vittoria di Solidarnosc nelle prime elezioni parlamentari parzialmente libere della Polonia del dopoguerra, innescano una sequenza di pacifiche rivoluzioni anticomuniste nell’Europa Orientale 1798 Muore Giacomo Casanova, avventuriero, scrittore e diplomatico veneziano 1994 Scompare Massimo Troisi, attore, regista e sceneggiatore italiano 2004 Muore Nino Manfredi, attore, regista e sceneggiatore italiano
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
C’è una canzone che in Italia si conosce poco, si chiama Sorpasso elettronico e l’ha scritta un gruppo che si chiama Sotto Fascia Semplice. L’inizio fa: «Ci vuole un’invenzione, un cambio di caricatore...»; e poi all’incirca prosegue così: «Una cosa che, quando la vedono gli inglesi, non ci fanno quella faccia come a dire ”siete bravi”; una cosa che, quando la sentono i piacioni, gli si infila nella schiena e si trasformano in Romani/Una cosa italiana, sopra gli altri di una testa, una cosa che si adatti al meccanismo avanguardista... che ci prova e ci riprova e ci riprova...». Ecco, in Italia serve questo, in politica come in cultura, nell’economia come nel mondo dello sport e in società: un’invenzione che sia davvero italiana, ferma «in mezzo al Mare Nostrum», tenace, testarda, orgogliosa, fiera, futurista e, appunto, avanguardista. In poche parole: una cosa Romana. E che se sbaglia ci riprova. E che se ci vuole un po’ di tempo, però si ricordi che «la rivoluzione... scoppia in un momento». Cordialità.
Gaia Miani - Roma
PUNTURE Per l’Alitalia - ha detto Spinetta - ci vuole solo l’esorcista. Basta anche un parroco di campagna.
Giancristiano Desiderio
“
Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui EZRA POUND
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di MA CHE STATE A FAO? Quale modo migliore di inaugurare il vertice della Fao, l’organizzazione che dovrebbe combattere la fame nel mondo, con un bella cena di gala? Proviamo ad immaginare i delegati che discutono del pancino vuoto dei bimbi africani o asiatici, quelli delle immagini televisive, afflitti dalle mosche, con le costole che si vedono sotto la pelle o con i pancini gonfi per la dissenteria, mentre affondano le protesi dentarie in un meraviglioso risotto allo champagne o una tartina al caviale o del migliore fois gras. Il solito irriverente? Il solito a sdegnarsi di fronte a siffatti inutili appuntamenti? Non credo. Il fatto è che da oggi e fino a giovedì sentiremo parlare di riscaldamento globale, di sementi che non bastano mai, di biocarburanti, principali colpevoli dell’aumento delle derrate e cose del genere. Dobbiamo ancora una volta fare i conti con la ipocrisia mondiale. Quella della Fao per esempio, dal 1948 ad oggi è risultata essere praticamente inutile. La sua influenza nella lotta alla fame nel mondo ha inciso come la classica goccia in un mare di problemi legati alla malnutrizione. Il tutto solo per segnalare, studiare, sprecare le risorse messe a disposizione dai governi. Di cibo realmente prodotto, attraverso serie politiche alimentari, pochino. Il fatto è che meno del dodici per cento dell’intero budget della organizzazione viene destinato in progetti in cui compare realmente la parola cibo, il restante viene diviso nei mille rivoli degli studi, dei viaggi, dei convegni e delle spese di funzionamento. Quest’ultimo davvero elefantiaco, sia per corposità del personale impiegato, tremilaseicento unità, sia per gli stipendi percepiti, davvero un bell’affare
se solo si pensa che una segretaria può arrivare a guadagnare anche settantatremila euro netti all’anno. Queste notizie sono spesso passate in secondo piano. Vengono invece alla ribalta mediatica le solite polemiche per la partecipazione di dittatori ed affamatori di popoli a vario titolo, ma anche qui la situazione non migliora quanto a chiarezza di informazione. Mentre tutti i mezzi di comunicazione di massa si spellano le mani per l’esclusione dalla cena di gala di personaggi come il presidente iraniano e quall’altro africano, chiaro segno di una politica forte del governo italiano, organizzatore del convegno, contro la violazione ripetuta dei diritti umani nei loro paesi d’origine, nonché per la sempre paventata cancellazione di Israele, nessuno pone l’accento sul fatto che a quella cena saranno presenti delegati di governi ugualmente canaglia. Nessuno mi pare abbia preso le distanze dal governo cinese, da quello cubano, e men che meno da quello di Chavez e i paesi a lui satelliti. Il motivo risiede nella stessa ipocrisia di cui trattavo più in alto, ovvero nel fatto che quelle mani vanno strette per altri motivi, motivi di interesse economico e commerciale, quelle mani, in definitiva, valgono svariate centinaia, se non migliaia di milioni di dollari e, converrete, per la banconota verde, per averne sempre una maggiore quantità, qualche omicidio, qualche fossa comune, qualche repressione di monaci tibetani vale poco, molto poco. L’importante è che lo champagne sui vassoi della cena di gala abbia sempre una temperatura di servizio al di sotto dei sei otto gradi.
L’Osservatore ”del” Romano giusva1.iobloggo.com
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PAGINAVENTIQUATTRO In un libro le notizie più bizzarre del 2007
Il ladro che ha morso il cane e le altre di Mario Bernardi Guardi erto che ce ne sono al mondo di tipi strani. Ad esempio i vecchietti“sprint”. Come il napoletano Giovanni Viglione che ha rinnovato la sua patente perché per nessuna ragione al mondo vuol rinunciare alla guida della sua amatissima 500 verde metallizzato. E perché dovrebbe? Solo perché è un centenario? Non sia mai. Invece un nonno olandese di 86 anni, con la patente ha un fatto personale: ha guidato per 67 anni senza prenderla mai. Finché non è stato fermato dalla polizia a un controllo di routine. Niente manette, però. In tanti anni il nonno non ha mai avuto multe, non è mai stato coinvolto in incidenti. E non ha mai sottoposto la sua auto a revisione. Un coetaneo veneto dell’Olandese Viaggiante è anche lui un po’“distratto”ma coriaceo: partito da Vicenza, alla volta di Camisano Vicentino, ha sbagliato strada e pedalato per 16 ore, arrivando a Lavis, a nord di Trento. Dove, finalmente, ha chiesto informazioni agli agenti della polizia stradale. In Sicilia facciamo invece la conoscenza del centenario Giovanni Malizia che magari non guida l’auto e non va nemmeno in bicicletta, ma in compenso ama l’arte e non la mette da parte: dalla bellezza di ottanta anni è abbonato al Teatro Massimo di Palermo. Il sindaco gli ha fatto i complimenti e lo ha voluto accanto, in prima fila, ad una rappresentazione di Mozart. Quanto alla peruviana Antonia Paz, che dire? La signora, al pari di Filumena Maturano, è convinta che i figli siano “piezz’‘e core”, e siccome di “pezzi” ne ha dodici, sparsi per il mondo, e il suo cuore di mamma ci tiene a sentirseli vicini, che c’è di meglio che inviar loro delle belle lettere affettuose? E se si è analfabeti, non è mai troppo tardi per imparare a leggere e scrivere. Nemmeno a 103 anni. “ Il vecchietto, dove lo metto?”, cantava Domenico Modugno, quando già la famiglia patriarcale appariva in fase disgregativa e non erano ancora arrivati gli eserciti (o le armate Brancaleone) delle badanti: bene, fossero tutti come quelli di cui sopra, il problema della terza, quarta, quinta età non si porrebbe. Botte di vita in attesa del gran botto? Mettiamola così, ma certe notizie oltre che curiose e divertenti sono anche confortanti.
C
FUNNY NEWS
Gerardo Picardo, filosofo, giornalista e saggista, impegnato in una società del gruppo Adnkronos, nel suo libro ne raccoglie una vera e propria miniera (“Funny News. L’altra faccia del 2007 nelle notizie più divertenti del pianeta”, pp.222, euro 13). Ed ha ragione Mauro Mazza, direttore del Tg2, quando scrive nella prefazione che sarebbe bellissimo offrire agli spettatori un telegiornale che li allietasse con simpatiche amenità del genere proposto. Insomma, anche solo per un giorno, una bella pausa a cazzotti e veleni via-video. Del resto, se il mondo è bello perché vario e ne capitano di tutte, e visto che i pezzi raccolti nella galleria di Picardo sono tutti autentici,
perché non provarci? Nell’attesa, godiamoci questo provvidenziale vademecum cartaceo, confezionato con l’ausilio soprattutto del web e in secondo luogo di agenzie stampa, giornali, tv e media in generale. Centinaia di notizie ordinate secondo 13 voci(Tipi strani/ Imbranati/ Costume e Società/ Pazzo Web/ Salute/ Animali/ Lavoro/ Politica/ Sesso/ Famiglia e affetti/ Morte e horror/Religioni/ Sport): una “vacanza”divertente, liberatoria, intelligente. E lunga: dal dicembre 2006 al dicembre 2007. Il lettore si prepari a tutto. Perché farà la conoscenza di ciechi che sfrecciano in autostrada, di un tipo che pretende di riscuotere un assegno con firma ”Il Re dei Sapienti, il Re dei Re, il Signore dei Signori”, in una parola Dio, e di un altro tipo che denuncia l’Onnipotente per abuso di ufficio (lo ha fatto diventare un criminale,afferma arrabbiatissimo), di un ragazzo che rapisce il gatto alla madre e chiede un riscatto, di uno spagnolo in crisi mistica che, per smettere di peccare, si taglia il pene e lo butta nel water, di un ladro che morde un cane poliziotto, di uno studente sospeso fino al 2070 dal prestito libri per aver sottolineato a matita un volume della Biblioteca di Lecco (quando si dice Padania…), di una quarantenne british che per cinquanta volte tenta di ammazzarsi gettandosi in Chissà se Kate Moss sa che nei taxi londinesi non si può salire se si ha la peste, né si possono portare cani rabbiosi o salme
mare e che viene così bandita da tutte le spiagge, di un ladro indiano che ingoia una collana e viene condannato a mangiare 50 banane (ma il potente lassativo naturale non funziona; funziona, invece, un piatto a base di pollo, riso e pane locale)…
E a proposito di “Insolita lex sed lex”, tenete presente che il seriosissimo quotidiano britannico “Times” nell’agosto del 2007 ha scovato le 25 norme più bizzarre del mondo,Ve ne proponiamo qualcuna, l’elenchino lo troverete in “Funny News”. Cominciamo dall’Inghilterra. A Londra, non si può salire in taxi se si ha la peste né vi si possono portare cani rabbiosi o salme, e non sognatevi di morire in Parlamento perché è assolutamente vietato. In compenso, una donna incinta può partorire dove vuole: anche nel casco di un poliziotto. Passiamo ai cuginetti francesi: beh, ragazzi, che avessero la fissa con la “grandeur” lo sapevamo, ma che fosse proibito chiamare un maiale Napoleone, ci sembra un po’ troppo. Anche gli yankee non scherzano quanto ad assurdità: nel Vermont le donne hanno bisogno del permesso scritto del marito per mettersi i denti finti; in Florida le donne non sposate che fanno paracadutismo la domenica rischiano la galera; in Alabama è illegale per un autista guidare bendato. Ma come, e gli autisti dell’Alabama non si ribellano?