QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Non è solo Israele nel mirino del fondamentalismo islamico
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Medio Oriente: sono cinque gli Stati a rischio distruzione
di Ferdinando Adornato
Daniel Pipes ono due i nuovi Stati, religiosamente identificabili, emersi dai frammenti dell’Impero britannico all’indomani della Seconda guerra mondiale: Israele e Pakistan. Essi formano una coppia interessante, benché siano di rado messi a confronto. L’esperienza del Pakistan con la dilagante povertà, i pressoché costanti tumulti interni e le tensioni esterne, culminanti nella sua attuale condizione di stato canaglia in pectore, ci mostra i pericoli che Israele ha saputo evitare grazie alla sua stabile e progressista cultura politica, a un’economia dinamica, a un settore high-tech all’avanguardia, a una cultura pulsante e ad una impressionante coesione sociale. Eppure, proprio a causa della sua “floridezza”, lo Stato ebraico vive con una spada di Damocle sulla testa, un’insidia che il Pakistan e la maggior parte degli altri Paesi non hanno mai dovuto fronteggiare: la minaccia dell’eliminazione. I suoi notevoli progressi, conseguiti nel corso di decenni, non lo hanno liberato da un pericolo proveniente da più fronti che annovera quasi tutti i mezzi immaginabili: armi di distruzione di massa, attacchi militari convenzionali, terrorismo, sovversioni interne, blocchi economici, assalti demografici e indebolimenti ideologici. Nessun altro Stato si trova a dover fronteggiare una serie di minacce del genere.
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IL MINISTRO CHAMPAGNE
9 771827 881004
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«Anche i ricchi piangano». Ricordate? Era il manifesto di Rifondazione comunista. Adesso è la nuova politica di Tremonti contro i petrolieri
Robin Giulio Tax alle pagine 2 e 3
Il Presidente: «Traffico della camorra»
Altra retromarcia di Berlusconi
Napolitano: Immigrazione: «I rifiuti tossici “pax armata” arrivano dal Nord» tra Lega e premier
s eg ue a pa gi na 10
I consigli degli esperti sui problemi della scuola
Lettere aperte al ministro Gelmini
Una proposta al sindaco Alemanno
Festa del Cinema, di Roma, perché non Pupi Avati?
di Nicola Procaccini
di Irene Trentin
di Guido Trombetti
di Riccardo Paradisi
La camorra è responsabile del traffico di rifiuti tossici, ricorda il presidente Napolitano, che sottolinea come «in gran parte sono arrivati dal Nord, ne sia consapevole l’opinione pubblica».
Avere pareri diversi non è “reato”. Pdl e Lega tentano di addolcire i toni sull’immigrazione clandestina. «Nessuna marcia indietro, ho espresso solo un mio parere», precisa Silvio Berlusconi.
Conti in rosso, lauree inefficaci, mancanza di regole ed emergenza educativa: Maria Stella Gelmini è attesa da un compito arduo. Esperti del settore le danno alcuni suggerimenti.
Avati potrebbe fare della festa del cinema di Roma un festival internazionale vero, che sia volano del cinema italiano, che rappresenti una struttura permanente della produzione nazionale di cultura.
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nell’inserto Socrate a pagina 12
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2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
104 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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robin giulio tax Prima fervente liberale,
Piuttosto che scimmiottare Chavez meglio appoggiare la linea Sarkozy
La tassa
Idea suggestiva, ma a rimetterci sarebbero sempre i consumatori di Enrico Cisnetto iulio Tremonti ha imparato l’arte della comunicazione: la sua “Robin Hood Tax” è un’idea molto suggestiva. E non sarò certo io a scandalizzarmi per la sua ennesima mossa del cavallo, essendo stato uno dei pochi, nella “foresta di Sherwood” del pensiero unico mercatista, ad aver apprezzato la svolta tremontiana, che dal liberismo puro e duro del passato ha virato recentemente verso il colbertismo.Tremonti è uomo con un grande senso del suo tempo e anche quest’ultima proposta di tassare gli utili delle compagnie petrolifere, pur con il chiaro gusto della provocazione, va a centrare un obiettivo sensibile. Non c’è dubbio, infatti, che i prezzi della benzina siano ormai a livelli insostenibili. Ed è vero che le major del petrolio stanno realizzando extra-profitti grazie a questo trend ininterrotto.
G
Tuttavia, l’idea di una tassa ad hoc mi sembra una misura poco realistica. Primo, perché il mercato del petrolio e dei suoi derivati è fortissimamente legato alle aspettative, e quindi eventuali segnali di un inasprimento fiscale si tradurrebbero – anzi, si sono già tradotti – in prezzi ancora più alti alla pompa. A rimetterci sarebbero quindi ancora una volta i consumatori, esattamente come nel caso di una stretta fiscale sulle banche, che si tradurrebbe simultaneamente in maggiori costi per i correntisti. Inoltre, dire, come fa Tremonti, che “tassare un po’ di più i petrolieri per dare burro, pane e pasta alla gente più povera” è un’affermazione popolare ma alquanto rischiosa. Perché non c’è solo l’oro nero a pesare sui bilanci delle famiglie. Pesa, forse anche di più, la spesa quotidiana in pane, pasta e riso. E qui, gli aumenti degli ultimi mesi sono stati più forti di quelli del petrolio: il prezzo del frumento è salito del 77% nell’ultimo anno, trascinando quello del pane del 13% nei primi tre mesi del 2008 e quello della pasta del 18%. Un problema, quello del prezzo delle materie prime agricole, che ha respiro internazionale e che è stato anche al centro del vertice della Fao di questi giorni.
Le tensioni sui prezzi delle materie prime sono un problema globale. A nessuno verrebbe in mente di tassare gli extra profitti di Voiello o Barilla
È chiaro che i due temi viaggiano su binari paralleli: anche sulle commodities agricole incidono – e molto – le speculazioni. A nessuno però verrebbe in mente di tassare, che so, gli eventuali extra profitti della Voiello o della Barilla (ma non vorrei dare qui uno spunto gratuito a Beppe Grillo). Le tensioni sui prezzi delle materie prime – siano esse “nere” come il petrolio o “bianche” come il grano – costituiscono un problema globale. Quindi, se si vuole trovare una soluzione realistica, è chiaro che bisogna affrontarlo in chiave globale, o quantomeno europea. Si può, insomma, seguire l’indicazione del presidente francese Sarkozy, che sul problema del petrolio “ma anche”del grano ha chiesto un intervento congiunto dell’Unione europea. Questa è la strada giusta. L’unica. L’alternativa tremontiana, che penalizzerebbe le società italiane con una tassa apposita “ad petroleum”, mi sembra invece una mossa suggestiva, ripeto, ma di scarsa utilità. E, più che la foresta di Sherwood, fa venire in mente le pampas venezuelane di Hugo Chavez. (www.enricocisnetto.it)
di Errico Novi
ROMA. Bersani non usa mezzi termini: «La demagogia è il cancro della politica: prima ancora che arrivi la tassa di Tremonti ai petrolieri, loro se la saranno già ripagata con gli aumenti. Quello che accade è vergognoso». È solo demagogia? La Robin Hood tax proposta dal ministro dell’Economia è un elegante ma inefficace colpo di teatro? Forse la questione è più sottile. E uno che di industria petrolifera se ne intende, come l’ex presidente dell’Eni Franco Reviglio, riconosce nell’ultima mossa di Giulio Tremonti una straordinaria abilità comunicativa: «Le gente è convinta che le compagnie accrescano i loro guadagni senza alcun merito. Ha questa considerazione di qualsiasi settore protetto, pensa che il corporativismo assicuri rendite ingiuste. Il ministro comprende questo sentimento e sa scegliere il momento buono per strappare l’applauso. Ora però bisognerà vedere in concreto che interventi metterà in campo». Capacità di adattarsi al tempo che cambia, a un Paese in cui «la gente ha fame e non aspetta». Rispetto alla precedente esperienza di governo, il responsabile dell’Economia ha acquisito un talento più sofisticato, più politico. A questo si aggiunge la sua abilità tecnica di «migliore tributarista italiano», come dice Reviglio, che prova a ipotizzare la forma della Robin tax: «Tenderei a escludere un’imposta straordinaria sulle plusvalenze: nel nostro ordinamento non ce ne sono mai state. È più praticabile un intervento che limiti le detrazioni sul reddito per le compagnie petrolifere, o che riguardi gli ammortamenti: in soluzioni del genere Tremonti è il più bravo di tutti». Eppure la novità si presenta sotto la forma di una tassa vera e propria. Ma l’ex presidente dell’Eni, oggi professore di Economia all’Università di Torino, cita gli studi di Rubare ai ricchi per donare ai poveri, dice Tremonti. In fondo è un linguaggio affine a quello usato da Rifondazione comunista nel manifesto della campagna elettorale 2006 (riprodotto sopra)
Luigi Einaudi: «Quando si creano plusvalenze per eventi straordinari più che tassare si tende a regolare. Nel caso specifico bisognerebbe passare a una liberalizzazione vera, con la separazione tra proprietà e uso della rete. È questa in realtà la soluzione, così si riduce la rendita: da economista non riesco a immaginare strade diverse».
Anche perché il Tesoro incassa i dividendi «dell’unica azienda che in Italia non si limita alla raffinazione, cioè l’Eni. Gli altri sono petrolieri senza pozzi. Se fanno profitti straordinari è per la posizione di rendita che occupano, quindi non si
stessa cosa».
La popolarità cresce. Dai Cisl e Uil arrivano ampi cenni di approvazione. Raffaele Bonanni dice che la Robin tax «va bene», che «la strada è questa», anche se bisogna estendere gli interventi all’Iva, alle accise e soprattutto «ai meccanismi internazionali: occorre arrivare a una sorta di Kyoto dell’economia e del commercio per frenare la speculazione». Approva persino Guglielmo Epifani, a condizione che «dopo aver tolto ai ricchi, le risorse vengano destinate a chi ne ha bisogno, lavoratori dipendenti e pensionati». Ma c’è un tradimento dello spirito liberale, in questa rottura strategica di Tremonti?
FRANCO REVIGLIO «La gente è convinta che le compagnie abbiano posizioni di rendita ingiuste. Tremonti è un politico abilissimo capace di intercettare questi sentimenti. Ma in casi del genere la soluzione è ridurre le rendite, liberalizzare, piuttosto che tassare»
può far altro che ridurre le rendite con la liberalizzazione». Ma intanto Tremonti intercetta un sentimento diffuso nell’opinione pubblica: in questo, dice l’ex ministro Reviglio, «è abilissimo, ha grande acume politico. E lo dimostra anche con un altro aspetto chiave della sua strategia: riprendere semplicemente la strada aperta nel precedente quinquennio con le dismissioni del patrimonio pubblico. Un capitolo lasciato inevaso da Romano Prodi, costretto dalla sua maggioranza a limitarsi alle concessioni: ipotesi rimaste sulla carta. Adesso Tremonti ripartirà». C’è una vocazione alla leadership persino sottovalutata, nel ministro dell’Economia, attestata secondo Reviglio «anche dalle parole di elogio che sento spesso pronunciare nei miei colloqui privati dai suoi collaboratori di via XX Settembre: sa come incoraggiarli, come renderli partecipi, e loro gli riconoscono il ruolo di giuda. Con PadoaSchioppa non è avvenuta la
Assolutamente no, spiega il presidente della commissione Finanze del Senato Mario Baldassarri: «Mi meraviglio che la proposta possa essere considerata di sinistra. Ha radici profondamente liberali: se ci sono extraprofitti, per definizione c’è un deficit di concorrenza, una evidente concentrazione del mercato. Basta rileggere Paolo Sylos Labini. Tremonti dimostra in realtà di credere effettivamente nel mercato e nella concorrenza». Secondo Baldassarri si può pensare a uno «schema a tenaglia», per riequilibrare il settore petrolifero, «con l’antitrust da una parte, per rimuovere una condizione di oligopolio, e dall’altra con la tassazione differenziata. Non vedo motivi di perplessità: basta ricordare che la stessa Irpef è progressiva, prevede aliquote che aumentano man mano che crescono i redditi. Alle compagnie petrolifere è giusto applicare un meccanismo straordinario, visto che i redditi salgono in modo esponenzia-
robin giulio tax poi protezionista, ora giustiziere del profitto: in cosa crede davvero Tremonti?
di scena del camaleonte
La copertura del taglio dell’Ici punisce il Sud e i più deboli
Altro che Robin,è lo sceriffo di Nottingham! colloquio con Salvatore Cuffaro di Francesco Rositano
ROMA. «Altro che decreto Robin Hood. Lo chiamerei decreto “Sceriffo di Nottingham»: Tremonti leva ai poveri per dare ai ricchi”. È duro Salvatore Cuffaro, senatore Udc, sulla recente misura annunciata dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, di introdurre una super-tassa sui proventi delle compagnie petrolifere. È ingiusto, a suo avviso, ribattezzarla “Robin Hood Tax”Senatore, va bene non è“un decreto Robin Hood”, ma addirittura“Sceriffo di Nottingham”? Perché deve essere il Sud a pagare la decisione del governo di togliere l’Ici? Noi teoricamente siamo favorevoli al provvedimento, ma a pagarlo non deve essere il Sud d’Italia, che mi pare non faccia parte dei ricchi. Anzi posso affermare senza essere contraddetto che queste regioni siano tra le più povere d’Italia. Quindi Tremonti è come lo sceriffo di Nottingham: toglie ai poveri per dare ai più ricchi. Ci può dimostare concretamente come sono stati recuperati questi due miliardi e mezzo di euro che prima arrivavano in cassa con l’Ici? Ecco, basta fare due conti. Come ha detto lei dalla tassa sugli immobili arrivavano in cassa due miliardi e mezzo di euro. Ma si fa presto a raggiungere questa cifra: 950 milioni di euro sono i fondi Fintecna (ex ponte) che erano stati dati alla Sicilia. A questi vanno aggiunti altri 500 milioni stanziati sempre a sostegno della viabilità della medesima regione. Poi ci sono 40 o 50 milioni di euro di risorse per le calamità in agricoltura dati al Mezzogiorno e alla Sicilia (cosiddetto intervento sulla Terra-nostra sulla malattia delle viti). Ma non finisce qui: ha tolto altri 56 milioni di euro per la stabilizzazione del precariato nella città di Paler-
mo. Senza contare gli 80 milioni di euro di fondi Inail per il Campus Universitario di Enna. E la Calabria? Altra brutta storia. A questa regione sono stati tolti 600-700 milioni di euro. E si tratta dei fondi stanziati per il Ponte sullo Stretto e per il miglioramento della viabilità provinciale, che erano stati previsti d’accordo con il ministro delle Infrastrutture della precedente legislatura Antonio Di Pietro. Tremonti, questi soldi, ha pensato bene di riprenderseli. Come facciamo quindi ad accettare un provvedimento che penalizza il già povero Mezzogiorno? Altro che Robin Hood. Ribadisco… Poi c’è la questione della detassazione degli straordinari. Che ne pensa? La nostra valutazione è questa : va benissimo detassare lo straordinario. Ma lo straordinario non si fa in Sicilia, ma soprattutto al Nord: è lì che ci sono le fabbriche. Anche questo è un provvedimento che per l’80% va a vantaggio del Settentrione e solo per il 20% le zone più povere del Paese Quindi: altra mossa da sceriffo. Vorrei ripetere: non mi sembra che il Mezzogiorno sia la parte ricca. Non è giusto spacciare delle misure che alla fine vanno solo a vantaggio di una fetta ridotta del paese come misure universali. Qui alla fine ne beneficiano sempre i soliti. Insomma: i ricchi. Robin Hood si sarebbe perso nella foresta, a questo punto. Cosa suggerisce quindi per garantire più equità? Invito Tremonti a guardare con attenzione al Mezzogiorno e a favorire tutta una serie di provvedimenti utili allo sviluppo del Sud e quindi dell’intero paese: completamento delle infrastrutture, recupero delle risorse ingiuntive che servono per il Mezzogiorno, fondi per l’agricoltura.
le non per la particolare produttività del settore ma per le distorsioni».
Baldassarri è convinto dunque che una supertassa «troverebbe radici nella conoscenza del mercato di chi come Tremonti crede davvero nella concorrenza, non si illude che nasca spontaneamente come un fiore e sa che ha bisogno di precise regole». D’altronde l’esponente del Pdl ricorda che «negli anni Venti l’Antitrust americano intervenne per rimuovere la concentrazione e spaccò la Esso in cinque compagnie diverse. Bisogna che anche da noi venga eliminato l’oligopolio». Delle due strade indicate dal
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con la concorrenza, si porta giovamento ai consumatori. Con una tassazione specifica si corre il rischio di produrre un ulteriore aumento dei prezzi. In ogni caso bisogna attendere che la proposta di Tremonti venga effettivamente presentata: do per scontato che lui sia il primo ad avere ben presenti certi problemi».
E allora la verità dov’è? C’è la lusinga nei confronti dell’opinione pubblica o il ministro dell’Economia si limita a studiare meccanismi per abbassare il costo all’utenza? Non si può escludere che l’abilità del Tremonti politico, accresciuta dall’esperienza come dice Franco Reviglio, consenta ormai di tenere insieme tutti e due gli aspetti: popolarità delle misure annunciate e effettiva efficacia, suggestione e capacità inventiva. Di certo a un liberale come Della Vedova piace «molto di più il Tremonti ministro pragmatico e rigoroso che il Tremonti scenarista. Con quest’ultimo preferirei discutere, ha una visione che non mi convince». In ogni caso non è detto che l’evoluzione teorica del responsabile dell’Economia derivi dalle sue origini socialiste: «Ci sono molti esponenti politici con una matrice simile, o addirittura comunista, che sono diventati campioni del mercato, a volte in modo intelligente, altre in maniera burocratica». In Italia ci sono settori in cui la liberalizzazione è un’idea lontana, dice il deputato pdl: «Dov’è il collo di bottiglia? Nei comportamenti spregiudicati, per esempio, delle compagnie petrolifere, nei loro margini di guadagno eccessivi, o nel fatto che ci vogliono tempi biblici per aprire nuovi impianti di raffineria? Io credo si debba riflettere molto su questo, se non si vuole aggravare la situazione dei prezzi e penalizzare ulte-
MARIO BALDASSARRI «Tremonti ha profonda conoscenza del mercato, crede nella concorrenza. Sa che l’unico modo per assicurarla è contrastare l’eccessiva concentrazione. Combinata con interventi dell’Antitrust, la tassazione specifica è una via davvero liberale»
presidente della commissione Finanze c’è però chi, nel Pdl, preferirebbe vederne applicata solo una. «Aprire il mercato è l’unica vera ipotesi praticabile», dice il leader dei Riformatori liberali Benedetto Della Vedova, «solo in questo modo,
riormente i consumatori. Parliamo di un settore in cui è difficile fare investimenti, non possiamo complicare ulteriormente il quadro. Se c’è un collo di bottiglia in un deficit di liberalizzazione bisogna affrontare quello, una volta per tutte».
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etica & affari
Annunciato un piano per il sostegno al Terzo mondo pari a 1,7 miliardi di dollari, ma già nel 2007 non ebbe alcun esito
Il bluff della Fao di Raffaele Cazzola Hofmann
ROMA. Nella seconda giornata del vertice mondiale sulla malnutrizione il vicedirettore della Fao, Hafez Ghanem, ha annunciato un piano futuro per il sostegno all’agricoltura e al mercato del cibo nel Terzo mondo pari a 1,7 miliardi di dollari. Tuttavia non c’è da essere troppo ottimisti su quelli che saranno i reali esiti del piano. Infatti gli 1,7 miliardi erano già stati chiesti ai Paesi membri della Fao nel dicembre 2007, ma senza alcun esito. Quella che emerge non è insomma quella novità epocale che ci si sarebbe potuti aspettare dal mastodontico summit romano. Ghanem ha detto che «il vertice non è solo un insieme di belle dichiarazioni» e che «verrà istituito un gruppo specializzato (l’ennesimo, verrebbe da dire, ndr) responsabile dell’applicazione del piano». Ma quanto la Fao sia ormai incapace di catalizzare gli aiuti internazionali è dimostrato dalla modesta entità di quella che invece è l’unica vera novità annunciata: lo stanziamento in via diretta di una cifra in aiuti per i piccoli agricoltori del Terzo mondo, circa 17 milioni di dollari, che rappresenta a malapena l’1,1 per cento di quanto ha annunciato, sempre durante il vertice, di poter mettere sul piatto la sola Banca Islamica. Questa
d’essere e la motivazione per cui si organizzano i mastodontici vertici mondiali sull’alimentazione.
È difficile non avere il sospetto che aiuti alimentari gestiti direttamente dalle singole organizzazioni internazionali (cioè gruppi di singoli Paesi, ognuno dei quali ha i propri inevitabili interessi politici ed economici) possano essere utilizzati in modo strumentale oppure finiscano con l’essere preclusi a quelle nazioni che non hanno con esse rapporti tali da poter firmare un tanto agognato accordo bilaterale. In situazioni del genere dovrebbe entrare in gioco proprio la Fao per assicurare, dall’alto del suo status di agenzia dell’Onu e di organismo che tutela la sicurezza alimentare del pianeta senza secondi fini, una piena imparzialità nella distribuzione di aiuti. Ma la Fao non è in grado di assolvere a questo compito. Così non può far altro che limitarsi, almeno per salvare le apparenze, a fungere da palcoscenico per gli annunci altrui.
Il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ha annunciato per l’anno prossimo l’aumento del fondo di aiuto all’agricoltura nei Paesi poveri dagli attuali 1,2 miliardi a 5-6 miliardi di dollari
Nonostante la retorica, l’Occidente affama l’Africa di Carlo Lottieri
constatazione ha fatto
emergere in modo lampante le difficoltà e le carenze del sistema di aiuti teoricamente guidato dalla Fao. Infatti a fare la parte del mattatore nello stanziamento effettivo di nuovi fondi contro la fame sono stati altri soggetti presenti al vertice nella veste di ospiti. Il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ha annunciato per l’anno prossimo l’aumento del fondo di aiuto all’agricoltura nei Paesi poveri dagli attuali 1,2 miliardi di dollari a 5-6 miliardi di dollari. Questi fondi andranno non solo all’Africa, ma anche a Paesi di altri continenti che si trovano in altrettanta difficoltà come Haiti, Bangladesh e Yemen. Il capo del Programma alimentare mondiale, Josette Sheeran, ha parlato di un nuovo stanziamento pari a 1,2 miliardi di dollari per l’aiuto ai sessanta Paesi del mondo più colpiti dal rialzo mondiale dei prezzi dei generi alimentari.Tali annunci sono positivi, ma bisogna constatare che questi soldi li gestiranno le stesse organizzazioni internazionali stanziatrici inviandoli a destinazione in forma di aiuti diretti e bilaterali. La Fao, insomma, verrà saltata a pie pari. E ancora una volta dovrà dire addio a quella che in teoria sarebbe insieme la sua ragion
l coro è unanime: bisogna fare qualcosa. Nel momento in cui la fame torna a farsi sentire in mezzo mondo a causa della crisi alimentare e dell’incremento dei prezzi agricoli, a Roma è in corso una grande kermesse della Fao caratterizzata da un’autentica gara a chiedere sempre la stessa cosa: un maggiore impegno degli Stati ricchi a favore di quelli più poveri. Non immemore di essere stato per decenni un dirigente del partito comunista, il presidente Giorgio Napolitano ha così affermato che non si può fare affidamento sulla sola mano invisibile del mercato, e ha invitato l’Onu a moltiplicare la propria azione politica. Ma qualcosa di simile hanno sostenuto Silvio Berlusconi, che ha promesso un impegno crescente in aiuto dei governi che ne più hanno bisogno, e lo stesso Nicolas Sarkozy, che ha promesso un miliardo di euro dei contribuenti francesi nell’arco dei prossimi anni.
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Oggi ci troviamo in una situazione di emergenza ed è possibile che anche tali propositi abbiano una loro giustificazione: quando qualcuno muore di fame, ogni cosa può essere utile. È però vero che l’egemonia quasi assoluta da parte di questa zuccherosa retorica basata sull’aiuto sembra figlia di un’intesa di fatto (e non c’è certo bisogno di immaginare un complotto) tra i politici del ricco Occidente e i ricchissimi governanti del Terzo Mondo. I vari Sarkozy d’Europa e del Nord America si fanno belli per l’elemosina data all’Africa pur di non mettere in discussione quei dazi e quelle barriere che impediscono agli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo di accedere ai no-
stri mercati. Come ha evidenziato il giurista americano Richard A. Epstein in una sua denuncia del protezionismo agricolo: «la democrazia opera sulla base di un principio territoriale, così che coloro che non votano non contano davvero, anche se soffrono. Quelle che per noi sono piccolezze per altri sono questioni di vita o di morte». In Francia, il voto della provincia rurale è decisivo: specie per il centro-destra. E quindi chi muore di fame in Ciad e vorrebbe più spazio per vendere da noi i propri prodotti, dovrà restare nel suo fango ancora a lungo.
Per giunta, il sistema degli aiuti pubblici serve soprattutto a puntellare – con i soldi degli ignari contribuenti occidentali – proprio quei regimi sanguinari che sono la più grave piaga del Sud del mondo. Come è emerso pure a Trento nei giorni scorsi, durante un convegno dedicato al rapporto tra mercato e democrazia, l’avvento di una società liberale è favorito da alcuni cambiamenti strutturali: maggiore ricchezza, una più vasta area di persone benestanti, una rete di imprese e altre realtà sociali ed economiche quanto più è possibile autonome rispetto al potere. Ma la logica degli aiuti da Stato a Stato non va in questo senso e semmai nella direzione opposta, dal momento che rafforza il controllo sulla società esercitato dalle leadership politiche. Basta esaminare in che modo si è arrivati nella situazione attuale per comprendere come le decisioni da prendersi siano ben altre rispetto alle ricette suggerite in questi giorni. L’odierna crisi alimentare è anche figlia dell’uscita dalla povertà di almeno un paio di miliardi di poveri del mondo, soprattutto in Cina e in India, che oggi spendono molto più per cereali e frutta. Ma oltre a questo (altro che mano invisibile!)vi sono talune scellera-
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Il mondo libero tra faccia feroce e accondiscendenza
Doppio gioco su Ahmadinejad? di Aldo Forbice ahmud Ahmadinejad, nella sua visita italiana, un risultato importante lo ha conseguito: è riuscito a far manifestare insieme musulmani iraniani in lotta contro il regime di Teheran, la comunità ebraica romana, cattolici e cristiani di altre chiese. Un’unità così trasversale si era vista raramente. L’ultima volta l’aveva proposta Giuliano Ferrara proprio in risposta alle deliranti affermazioni dello stesso dittatore sulla cancellazione di Israele dalla carta geografica. Ora, in risposta a nuove dichiarazioni dello stesso tenore, l’Italia ha reagito duramente con una serie di “no” da parte del governo, del sindaco, dell’Università “La Sapienza”(che ha negato il consenso per una sua conferenza) e soprattutto col deciso rifiuto del Papa a concedere un’udienza. Ma la risposta più dura è venuta dai giovani ebrei che hanno lanciato manifesti anti-Ahmadinejad dal Colosseo, che hanno steso teli neri sulle scalinate di Trinità dei Monti, che assieme ai giovani della resistenza iraniana e da ragazzi di almeno trenta organizzazioni che si occupano di diritti umani e immigrazione hanno protestato in persiano, ebraico, italiano e in inglese. Non sono mancate le donne, anche iraniane, avvolte in scialli neri in segno di lutto che osservavano: «Noi il velo lo possiamo togliere, le donne iraniane, oppresse dalla dittatura, no». In una conferenza stampa di alcuni dirigenti della resistenza iraniana, che si è svolta martedì in un albergo romano, è stato denunciato che proprio le donne continuano ad essere le principali vittime del regime: maltrattate, umiliate, sottoposte alla rigida e medievale legge islamica (la Sharia), si trovano a migliaia nelle carceri, a cominciare da quello di Evin, dove da otto anni si trova la giovane Kobra, salvata dalla pena capitale e ora diventata un simbolo dello sfruttamento grazie a una campagna di stampa internazionale patrocinata da Zapping. Né Khomeini, né Khamenei, né Khatami, né gli altri massimi esponenti dello Stato islamico e tanto meno il falco Ahmadinejad, hanno considerato le 35 milioni di donne iraniane come cittadine uguali agli uomini. E tutto questo in nome dell’Islam. Attualmente sono nove le donne chiuse in carcere in attesa di essere giustiziate a colpi di pietra. Il quadro delle gravissime violazioni dei diritti umani lo ha ricordato proprio una donna, Farideh Karimi, dirigente del Cnri (Consiglio nazionale della resistenza iraniana). «Il regime iraniano - ha detto - è l’unico al mondo che applica l’esecuzione dei minorenni. Attualmente sono 86 quelli che attendono di essere impiccati sulle gru». Sono centinaia i ragazzi che hanno subito questa sorte
M
te decisioni politiche: dall’incremento delle sovvenzioni statali al bioetanolo (soprattutto in Brasile e Stati Uniti) al ritardo nell’utilizzo degli Ogm, per non parlare – come già si è detto – del persistere di alte barriere protezionistiche che frenano lo sviluppo delle agricolture emergenti.
Quest’ultimo punto è cruciale, dato che l’Occidente appare schizofrenico quando da un lato sogna politiche in grado di redimere chi sta peggio e poi si ostina a difendere quell’esclusione dai circuiti commerciali che è la prima causa dell’immigrazione di massa verso l’Europa. Per giunta è chiaro che, se si vuole limitare l’immigrazione selvaggia, più che l’introduzione del reato di clandestinità è necessario togliere quei dazi che impediscono all’Africa di produrre per l’esportazione. Una decisione unilaterale dell’Europa che si apra alle importazioni di cereali e prodotti ortofrutticoli di origine africana e asiatica non basterebbe a salvare il Sud del mondo. Come ha sottolineato pure l’economista Elsa Fornero, un altro tema cruciale è quello degli Ogm, che rappresentano un moltiplicatore della produzione e quindi un fattore destinato a far crollare i prezzi (mentre purtroppo l’Europa avversa in vari modi il ricorso alle biotecnologie), così come è indispensabile che si abbiano trasformazioni radicali all’interno dei Paesi africani, perché senza diritti di proprietà ben tutelati non ci può essere sviluppo. Questi elementi sono decisivi, ma l’insieme di queste trasformazioni potrebbe più facilmente avere luogo se i governanti occidentali smettessero di discriminare i contadini di Africa e Asia, lasciandoci acquistare quanto viene prodotto in Camerun o nella Costa d’Avorio. In fondo, l’Africa ci chiede soprattutto una cosa: che i nostri governi non calpestino la nostra libertà di consumatori.
(come confermano i servizi trasmessi dalla Tv iraniana che abbiamo visto), condannati spesso per reati non di sangue, ma solo per piccoli traffici di droga o per scippi e furti. In realtà, con queste condanne, vengono colpiti dissidenti, studenti che non seguono le direttive dei pasdaran del regime, scoperti a manifestare contro il governo o mentre si riunivano in assemblee definite “sovversive” dai “guardiani della rivoluzione”. Ma le denunce più pesanti su Ahmadinejad sono state fatte da Abdghassem Rezaii, segretario generale del Cnri. Il presidente iraniano, prima di essere stato scelto dalla Guida spirituale Alì Khamenei, era un fedelissimo pasdaran; ha lavorato nei servizi segreti, organizzato attentati e omicidi mirati ai nemici del regime, in Iran e in altri Paesi; è stato un torturatore spietato di prigionieri politici in diverse carceri, fra cui quello di Evin. Per il segretario del Cnri non vi sono dubbi che Ahmadinejad «debba essere processato e condannato per crimini contro l’umanità». Del resto il governo dell’Australia (unico al mondo) ha deferito al Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità il presidente iraniano anche per il suo tracotante negazionismo della Shoah e per le minacce di sterminio della popolazione israeliana. Eppure numerosi politici europei e soprattutto gli imprenditori (compresi gli italiani) non si mostrano molto sensibili alle violazioni dei diritti umani.Talvolta assistiamo a tante piroette ipocrite (anche l’ex ministro degli Esteri D’Alema eccelleva in questi giochi diplomatici per salvaguardare affari e contratti). Ma c’è un dato che emerge da tutta la vicenda iraniana: la forte accondiscendenza dell’Occidente e, in particolare, dell’Ue che si rifugia dietro le debolissime sanzioni dell’Onu e non mostra sufficientemente i denti di fronte alla pericolosa escalation nucleare dell’Iran, all’insistenza negazionista dello sterminio ebraico nell’ultima guerra e alle ripetute dichiarazioni di guerra a Israele. Certo, è molto importante sbattere la porta in faccia al dittatore di Teheran, ma speriamo che non si tratti di una strategia diplomatica per continuare a tenere i piedi in troppe staffe, al fine di salvaguardare solo contratti industriali e forniture petrolifere. Coprire occhi e orecchie serve solo a favorire, insieme ai propri affari, anche i piani del regime teocratico che continua a operare per destabilizzare il Medio Oriente, finanziando il terrorismo in Iraq e negli altri Paesi, e rischia di provocare seriamente una nuova guerra (anche atomica) contro Israele, che inevitabilmente coinvolgerebbe il mondo intero.
In nome dell’Islam nessuno considera pari agli uomini i 35 milioni di donne iraniane
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politica
Il Capo dello Stato interviene sull’emergenza rifiuti
Napolitano: «quelli tossici arrivano dal Nord!» di Nicola Procaccini
ROMA. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è tornato a parlare dell’emergenza rifiuti da Napoli. Voleva sollecitare l’opinione pubblica ad avere pazienza e compartecipazione nella soluzione dell’emergenza, ma le sue parole sono destinate a provocare aspre polemiche lungo tutta la Penisola. La criminalità organizzata è responsabile di molti traffici compreso quello dei rifiuti tossici, ha detto il Capo dello Stato, sottolineando che questi rifiuti insalubri «in gran parte sono arrivati dal nord, ne sia consapevole l’opinione pubblica delle regioni del nord». Napolitano è intervenuto sul tema dei rifiuti nel corso di un suo discorso a Napoli, all’inaugurazione dell’aula universitaria dedicata al cronista del Mattino ucciso dalla camorra, Giancarlo Siani. Il Presidente ha chiesto ai cittadini della Campania comprensione e disponibilità per affrontare l’emergenza dei rifiuti «con gli opportuni chiarimenti ma senza smarrire mai il senso dell’urgenza e della legalità, nel modo più assoluto». Napolitano ha sottolineato la necessità di non far prevalere visioni localistiche: «Non si tratta della salute dei cittadini di questo o di quel quartiere o di questo e di quel Comune, la salute la si difende estirpando la criminalità, eliminando la piaga dei traffici camorristici, ripulendo le strade, creando condizioni per un ordinato ciclo di smaltimento dei rifiuti».
Insomma, tutto giusto e comprensibile, ma non è difficile prevedere che l’effetto di queste dichiarazioni potrebbe essere quello di caricare la popolazione campana di un pericoloso spirito di vittimismo. D’altro canto, non sembrano sufficienti le parole del capo dello Stato a suscitare nel settentrione italiano un sentimento autentico di solidarietà nei confronti del dramma napoletano. C’è un altro aspetto molto delicato nell’intervento presidenziale di ieri. Napolitano non ha voluto glissare sul conflitto in Campania tra magistratura e Forze dell’ordine. Una spina dolorosa nella questione dei rifiuti di ieri e di oggi. «Ai giudici ha detto il presidente della Repubblica, nonché capo del Csm - rendo omaggio per l’impegno che sta portando avanti a Napoli con sagacia investigativa e professionalità». «Un impegno che unito a quello delle forze dell’ordine - ha proseguito il capo dello Stato, ricercando un difficile equilibrio istituzionale - sta giungendo al nodo del traffico illegale e infame dei rifiuti tossici e delle discariche abusive». Infine, Napolitano ha assicurato che si spenderà personalmente presso il governo e il Csm per dotare i magistrati dei mezzi necessari per lo svolgimento delle proprie funzioni. Ha fatto una scelta difficile, l’uomo del Quirinale, poteva risparmiarsi di entrare così nel merito delle questioni. Ha dimostrato coraggio ed un sincero, affettuoso attaccamento al suo territorio d’origine e alla gente che lo abita. Ma l’ipotesi di un’eterogenesi dei fini sembra pericolosamente reale. «Il tempo è galantuomo», si dice in questi casi.
Altra retromarcia del premier: «Era solo una mia opinione personale»
Immigrati,“pax armata” tra Lega e Berlusconi di Irene Trentin
ROMA. Avere pareri diversi non è “reato”. Pdl e Lega tentano di addolcire i toni sull’immigrazione clandestina. «Nessuna marcia indietro, ho espresso solo un mio parere», precisa Silvio Berlusconi, dopo la levata di scudi della Lega sulla «libertà di coscienza». «Sono sicuro che troveremo una linea», ammorbidisce i toni Umberto Bossi, detentore del copyright della celebre quadra. Di sicuro, però, il Carroccio non ha gradito il «parere personale» espresso dal Cavaliere, e la sua precisazione ha un po’il sapore della conferma. Su un punto il parere, nella Lega, è unanime: gli immigrati irregolari vanno «individuati, fermati e cacciati via».
Non si cambia programma, insomma. «I testi usciti dal consiglio dei ministri sono ottimi - precisa a Liberal il sottosegretario alle Infrastrutture, Roberto Castelli - I nostri elettori non capirebbero una marcia indietro. Il reato di clandestinità è già previsto in molti paesi europei e gli attacchi alla nostra linea politica sono solo strumentali, nascondono interessi di bottega. Se l’Italia stringe le maglie sull’immigrazione, i flussi invaderanno gli altri paesi». In altre parole: Berlusconi sbaglia a cambiare idea sugli accordi presi. Posizione condivisa anche dall’altro “Roberto”, Calderoli, ministro per la Semplificazione normativa: «il reato di clandestinità c’è e ci deve essere perché così è stato deciso in consiglio dei ministri. Sul ddl non credo ci sarà bisogno di invocare il vincolo di maggioranza: contro l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina
non c’è stato un ministro che si è alzato per protestare». «E la prima firma l’ha messa Berlusconi», ha rimarcato Bobo Maroni. Ma la Lega rischia di trovarsi isolata, mentre Pdl e An cercano la scappatoia diplomatica, mediando sulle osservazioni della Chiesa, dell’Onu, e delle associazioni umanitarie.
Tra gli argomenti in agenda domani dettata per l’incontro tra Berlusconi e Benedetto XVI c’è proprio quello degli extracomunitari e dei rifugiati. La patata bollente passa quindi al Parlamento per dare a chi la cerca la possibilità di sal-
Bossi ammorbidisce i toni: «Sono sicuro che troveremo una linea». Calderoli: «il reato c’è e ci deve essere» varsi in calcio d’angolo. Licenziando un disegno di legge sulla sicurezza che trovi un consenso il più ampio possibile, scendendo a trattative anche con il Pd. S’insinua il dubbio che la «tolleranza zero» invocata da Umberto Bossi a Pontida possa iniziare a far acqua. «Bisogna fare pulizia generale - tuona l’europarlamentare Mario Borghezio - Non mi vengano a raccontare la storiella del diritto d’asilo, è solo una truffa, qui di perseguitati ce ne sono ben pochi». Legge le agenzie sul dietrofront di Berlusconi, e sente il bisogno di precisare, ma solo per insistere sul fatto che «è preoccupante se il presidente del Consi-
glio prenda le distanze, sia pure a titolo personale, da un provvedimento che ha voluto anche lui. Temo che non abbia capito bene la nostra politica. Qui sono in ballo provvedimenti urgenti e necessari in materia di sicurezza, decretati da milioni di cittadini che ci hanno votato». In cima alle priorità c’è l’impegno con gli elettori. E introdurre “il reato” d’immigrazione clandestina «è un ottimo strumento di contrasto per realizzare subito le espulsioni», concorda il presidente dei deputati della Lega Nord, Roberto Cota. A confermare che questa è la linea politica che vogliono i cittadini c’è il filo diretto da Radio Padania, condotta come sempre dal neo deputato Matteo Salvini: «La nostra gente chiede chiarezza - dice - Proprio stamattina un radioascoltatore ha paragonato le dichiarazioni di Berlusconi con la multa fatta da un vigile a titolo personale. È sconcertante cambiare idea solo perché lo chiede un vescovone o un diplomatico».
La linea più morbida della mediazione, invece, è anche quella invocata dal senatore Giuseppe Leoni, che da presidente dei Cattolici padani chiede di aprire alle richieste della Chiesa: «La nostra gente si aspetta azioni chiari e forti - dice - ma la via del dialogo resta l’unica possibile. Spetta al Parlamento decidere i provvedimenti con i numeri». E sotto sotto, Leoni forse non è il solo a pensare che la tolleranza zero tanto invocata dal senatùr si possa trasformare «in una tolleranza con un virgola uno dopo lo zero».
proposte
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In basso: a sinistra il critico Gian Luigi Rondi proiettato verso la presidenza della festa del cinema di Roma; a destra il regista Pupi Avati
ROMA.
«Non sono minimamente interessato». Gian Luigi Rondi, decano della critica cinematografica italiana e presidente dei David di Donatello era stato lapidario nel respingere anche solo l’ ipotesi, avanzata dopo le dimissioni di Goffredo Bettini, di una sua presidenza alla Festa del Cinema di Roma: «Non avrei tempo per occuparmi anche di questa cosa - spiegava - e certo non lascio i David che rappresentano il cinema italiano, mentre quello di Roma è un Festival internazionale». Poi verso le 18 del pomeriggio, dopo un incontro chiarificatore con il sindaco Alemanno Rondi ci ripensa. Ritira la sua indisponibilità e diventa disponibile. Chissà, forse Rondi aveva pensato fosse un pesce d’aprile quello del suo nome per il vertice del festival. Come quando lo scorso primo d’aprile il quotidiano Repubblica pubblicava la notizia che il critico italiano era stato invitato da Sean Penn nella giuria del Festival di Cannes.
«È una questione di formalizzazione, spiegano dalla giunta Alemanno, il sindaco sottoporrà il nome di Gian Luigi Rondi al Cda della Fondazione della Festa del Cinema che dovrà decidere nel merito la nomina». A Rondi la festa del Cinema di Roma è molto piaciuta in questi due anni faceva sapere ieri ai giornalisti mentre in Campidoglio aspettava di incontrare il sindaco che lo aveva chiamato per cercare di convincerlo ad accettare l’incarico. Rondi sottolineava anche che la sua missione è quella di promuovere il cinema italiano. Senonchè la festa del cinema di Roma è stata fino ad oggi una passerella di lusso per attori hollywoodiani, entusiasti di partecipare a una kermesse che li pagava a peso d’oro e che di fatto costituiva uno spot per il cinema e i produttori americani. Per questi motivi, Gianni Alemanno, nella lunga campagna elettorale per il Campidoglio aveva prima ventilato addirittura la possibilità di abolire la festa del cinema di Roma – espressione del più distillato veltronismo come amava ripetere – poi, in un secondo momento, aveva avanzato l’ipotesi di un accorpamento tra la manifestazione dei David e la Festa di Roma. Infine era tornata a galla la possibilità della soppressione dell’evento. A scongiurarla, esito felice
Una nostra idea per dirigere la Festa del Cinema
Signor sindaco di Roma, perché non Pupi Avati? di Riccardo Paradisi della vicenda, l’happy end dell´incontro tra il sindaco Alemanno e lo stesso Bettini che annuncia sofferente le sue dimissioni dalla presidenza della kermesse «al fine di sgombrare il campo da ogni possibile polemica e strumentalizzazione politica» e dunque di salvare la festa del Cinema. La festa si continuerà a fare e il comune vi contribuirà con la rispettabile somma di un milione e mezzo di euro. E a questo punto con la direzione di Rondi come il sindaco dovrebbe confermare quasi sicuramente in una conferenza stampa lunedì prossimo. Il nome di Rondi era cominciato a circolare del resto come successore naturale di Bettini al vertice della kermesse capitolina. Per una serie di motivi. Il primo è quello prima ricordato sulla proposta di alleare ai David il festival romano, idea che Alemanno aveva, tra le altre, accarezzato come possibile
quando ne parlò col critico del Tempo. Il secondo è che Rondi è uno dei pochi addetti ai lavori, dei pochi uomini di cinema, che non siano dichiaratamente di sinistra. Il terzo è che ha un curriculum da fare paura. Una candidatura la sua che segue quella, tenuta invece in piedi per qualche settimana e lanciata dallo stesso Alemanno, del regista Pasquale Squitieri, ritenuto, nel gioco deterministico delle caselle delle appartenenze politiche, da sempre vicino
Prima Rondi rifiuta la proposta alla presidenza del festival, poi dopo un colloquio in Campidoglio si dice disponibile ad Alleanza nazionale. Malgrado un’espulsione clamorosa dal partito comminata al regista proprio dal presidente di An Gianfranco Fini a causa di una sparata pubblica antisionista che il regista fece alla presentazione di un libro sulla destra e gli ebrei. Circolava, tra i possibili, anche il nome di Luca Barbareschi. L’attore, ora deputato del Pdl, non rilascia dichiarazioni ma per capire come la pensa in materia di nomine basta ricordare il suo polemico invito rivolto al ministro dei Beni culturali San-
dro Bondi a praticare uno spoyl system energico tra i quadri di via del Collegio romano.
Un criterio questo che non sembra essere troppo a la page in tempi di cortesia politica come gli attuali e che in particolare non sarebbe stato seguito dalla nuova giunta capitolina se la scelta della gestione della kermesse fosse dovuta cadere su un altro dei nomi che circolavano fino a ieri, quello del presidente della Camera di commercio di Roma Andrea Mondello, uomo chiaramente collocabile in area veltroniana. La sua nomina sarebbe stata un segno di quella continuità o transizione morbida che lo scorso aprile auspicava niente meno che Francesco Storace, l’uomo chiamato epurator. Prima del ballottaggio romano Storace testualmente dichiarava:«Sarebbe sbagliato fare tabula rasa su Goffredo Bettini. Non deve mancare il rispetto per la storia politica di questa città, il centrodestra non
deve fare come la sinistra che in questi anni ha cancellato qualsiasi traccia di quanto fatto di buono dalla destra a Roma». Resta il fatto che al netto dei nomi la destra a Roma non è riuscita ad esprimere una candidatura sua. C’è chi dice, e lo dicono all’interno della destra, che il risultato di decenni di indifferenza verso il mondo del cinema abbia prodotto il fatto che al momento di fare il nome di un addetto ai lavori non di sinistra per un’incarico strategico e di rilievo si sia fatto quello di un critico cinematografico che è si di assoluto prestigio e di grande autorevolezza – parte del suo pedigree – e che però ha ottantasette anni, cura già un’altra manifestazione e che per questi due motivi messi assieme aveva detto no solo poche ore dopo che il suo nome era stato speso come quello per la candidatura più papabile. Oltre non sembra si riesca ad andare.
Non si comprende nemmeno – altro rilievo che viene fatto all’interno dell’ambiente del cinema – che per dirigere una manifestazione che voglia incidere sul serio e promuovere il cinema italiano serve un nome prestigioso e conosciuto. Negli Stati Uniti il Sundance film festival di Park city, la kermesse dove viene promosso e presentato il cinema indipendente americano, è presieduto da Robert Redford; il Tribeca film festival di New York da Rober De Niro. Anche il festival di Venezia, che è una cosa seria, è stato diretto da Carlo Lizzanni, da Gillo Pontecorvo (ora da Marco Muller che ha maturato una lunga esperienza come direttore del Festival di Locarno). Che in Italia ci sia un regista che si chiama Pupi Avati, che è uno dei grandi maestri del cinema internazionale, un profondo conoscitore della complessa macchina cinematografica e un’intellettuale cristiano e liberale non sembra essere venuto in mente a nessuno. Avati avrebbe potuto fare e potrebbe fare della festa del cinema di Roma un festival internazionale vero, che sia volano del cinema italiano, che rappresenti, insieme a Cinecittà, una struttura permanente della produzione nazionale d’arte e cultura.
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società
L’Italia delle comunità religiose. Viaggio nelle associazioni cattoliche/5 Comunione e Liberazione
Il futuro di don Giussani di Francesco Rositano on è bastata la diffidenza del mondo politicoculturale italiano e di certi ambienti interni alla stessa Chiesa cattolica per togliere forza al movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione. Nato in forma embrionale nel 1954 nel liceo Berchet di Milano per intuizione di don Luigi Giussani - prete brianzolo, morto il 22 febbraio 2005 che lasciò l’insegnamento di Teologia nel seminario di Venegono per insegnare religione in quella scuola - è uno dei movimenti ecclesiali più diffusi al mondo. È presente in settanta paesi: dall’Ungheria alla Russia, dall’Africa alla piccola isola di Taiwan. Dal Kazakistan al Giappone. Tracce, la rivista internazionale del Movimento a diffusione mensile, è stampata in undici lingue, gli iscritti alla Fraternità di Cl sono circa centomila. E il “Meeting per l’Amicizia dei Popoli”che, dal 1980, si svolge tutte le estati a Rimini, richiama migliaia di persone: politici, giornalisti, intellettuali, sportivi, imprenditori. Ma soprattutto i volontari che per una settimana offrono gratuitamente il loro lavoro per rendere possibile un momento altrimenti impensabile.
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Vi sono poi i Memores Domini, laici consacrati a Cristo che rendono la loro testimonianza nel mondo del lavoro e sono presenti in 30 paesi; i sacerdoti della Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo; le Suore di Carità dell’Assunzione; la Compagnia delle Opere che collega circa 30 mila imprese industriali. Dall’ambiente di Cl è nata la fondazione Banco Alimentare, una Onlus per la raccolta e la redistribuzione delle eccedenze alimentari (a cui si è poi aggiunto il Banco Farmaceutico) e l’Avsi (Associazione dei Volontari per il Servizio Internazionale). Vengono dalle fila di questo movimento anche esponenti di spicco della Chiesa, come il cardinal Angelo Scola, Patriarca di Venezia; monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino–Montefeltro e monsignor Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca, nominato nel settembre 2007 da papa Benedetto XVI. E anche politici. Primo fra tutti Roberto Formigoni, da
tredici anni presidente della Regione Lombardia, e fondatore del Movimento Popolare: una realtà in cui confluirono membri di Cl, ma anche molti della Cisl, della Dc, delle Acli e dell’Azione Cattolica. Il movimento Popolare si sciolse in seguito alla tempesta di Tangentopoli e molti dei suoi aderenti, tra cui lo stesso Formigoni, confluirono verso Forza Italia.
L’aspetto originale di questo movimento, riconosciuto anche da papa Benedetto XVI è stato quello di «riproporre in modo affascinante e in sintonia con la cultura contemporanea, l’avvenimento cristiano, percepito come fonte di nuovi valori e capace di orientare l’intera esistenza». Negli anni Cinquanta l’Italia era un Paese sospeso, erano anni di cambiamenti sociali enormi. Cambiamenti che non avevano risparmiato la religione. Don Giussani aveva amaramente constatato come il cristianesimo si fosse «scollato dalla vita della gente», soprattutto dei più giovani e si fosse rinchiuso nell’ambito ristretto delle parrocchie e delle associazioni. Ecco perché, proprio nel ’54, lascia l’insegnamento di Teologia nel seminario di Venegono e comin-
Per don Giussani (qui accanto in un incontro con Paolo VI) il cristianesimo è soprattutto «un’estetica, prima che un’etica»: colpisce per la sua bellezza ed era questa l’unica ragione per cui bisogna aderirvi liberamente. Secondo il suo insegnamento, la fede cristiana ha la forza di dare forma ad ogni aspetto della vita, e diventa con essa una cosa sola
nuovo era la modalità con cui portò ad avvicinarsi alla fede.
Condusse molti ragazzi ad appassionarsi a Dante, Leopardi, Montale. Trasmesse loro la sua passione per la musica e il canto, che sono un aspetto essenziale del movimento. Secondo don Giussani il canto è «l’espressione più alta del cuore dell’uomo», «la carità più grande di tutte perché rende vicino e visibile il Mistero». Già nei primissimi tempi dell’insegnamento al Berchet il sacerdote brianzolo faceva ascoltare in classe, nelle sue lezioni di religione, dischi di Beethoven, Chopin, Brahms: l’ascolto e il commento di musica e canti è rimasto poi come uno dei fattori fondamentali della vita del movimento. Negli ultimi anni della sua vita Giussani ha fondato e diretto la collana di cd Spirto Gentil con i pezzi che riteneva meglio eseguiti, non solo di musica classica ma anche canti e musiche di altre tradizioni. In seno al movimento si sono formati anche cantautori conosciuti in tutto il mondo cattolico. Claudio Chieffo, originario di Forlì, morto nell’agosto del 2007, è uno di loro. Giussani lo chiamava «il poeta». Oltre ad avvicinare
Nato nel 1954 nel liceo Berchet di Milano, il movimento ecclesiale è uno dei più diffusi al mondo. È presente in settanta Paesi, la sua rivista mensile è stampata in undici lingue, gli iscritti alla Fraternità sono circa centomila cia ad insegnare a tempo pieno religione al liceo Berchet di Milano. Da questa decisione scaturì poi uno degli aspetti distintivi di questo movimento che lo caratterizzano ancora oggi: il forte radicamento tra i giovani, nelle scuole e nelle università. Giussani, come scrisse molti anni dopo a Giovanni Paolo II, non pensò mai di dare al movimento né un nuovo nome né un programma. Si può dire che mise un vino nuovo in otri vecchi. Le otri erano quei ragazzi con i loro bisogni, i loro desideri; il vino
i suoi ragazzi alla musica, il sacerdote brianzolo li portava in gita in montagna, faceva conoscere loro i canti alpini, la tradizione delle laude medievali. Il suo intento era dimostrare che il cristianesimo era, usando le sue parole, soprattutto «un’estetica, prima che un’etica»: colpiva per la sua bellezza ed era questa l’unica ragione per cui bisognava aderirvi liberamente.
Secondo l’insegnamento di don Giussani, la fede cristiana ha la forza di dare forma ad ogni aspetto della vita, con ogni espressione umana. Fede e vita nella sua concezione non erano più staccati, ma diventavano una cosa sola. Ecco perché negli atenei italiani il movimento di Cl ha fatto sentire la sua voce con nette prese di posizione, dimostrazioni, volantinaggi, manifestazioni durante incontri pubblici su alcuni temi scottanti della politica italiana ed europea. Gli anni più duri comunque furono gli anni ’70, quando molti studenti di Cl, in virtù delle loro posizioni di aperta difesa dei principi cristiani negli atenei divennero spesso oggetto di pestaggi e di attacchi dai membri dell’estrema sinistra e delle Brigate Rosse. Eppure questo grande protagonismo nella vita pubblica da parte del Movimento non fu esente da critiche ed attacchi. Anche da ambienti della stessa gerarchia cattolica. Era il 1968 quando monsignor Franco Co-
sta, incaricato dalla Conferenza episcopale italiana di tracciare un documento su Cl, bollò il movimento di don Luigi Giussani con l’accusa di «integrismo». E questa fu un’etichetta che rimase a lungo pendente sul Movimento, accusato di avere la pretesa che i principi religiosi dovessero diventare al tempo stesso modello di vita politica e fonte delle leggi dello Stato. Attualmente le diffidenze della Chiesa Cattolicasono acqua passata. Ma trascorsero diversi anni prima che Cl ottenesse il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa: che arrivò, nel 1982, con il pontificato di Giovanni Paolo II, il quale era legato a don Giussani da una stima profonda. L’apice di una ormai completata accettazione di Cl da parte della Chiesa cattolica si è avuta con Benedetto XVI. Fu proprio papa Ratzinger a celebrare i funerali di don Giussani nel Duomo di Milano nel febbraio 2005, pochi mesi prima di essere eletto al soglio pontificio. Allora, davanti a quarantamila persone ebbe a dire: «Don Giussani avendo guidato le persone non a sé, ma a Cristo, proprio ha guadagnato i cuori, ha aiutato a migliorare il mondo, ad aprire le porte del mondo per il cielo». Per Ratzinger non c’era ombra di dubbio: il lavoro di don Giussani era un impegno ideale per testimoniare ovunque il fascino del cristianesimo. Fu lo stesso Giussani, nel 2004, in una sua lettera a Wojtyla, a risponde-
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Lo scrittore racconta il suo primo incontro gli «irritanti» ragazzi di Cl
«Come fu che, nell’ottobre del ’71, mi innamorai di Gesù Cristo» di Luca Doninelli l Sessantotto a Desenzano sul Garda era un ricordo ancora fresco, l’aggregazione tra noi ragazzi era agognata non come un dovere sociale ma come una necessità vitale. Si partecipava al maggior numero di incontri e assemblee possibili, e tutti avevamo una gran voglia di dire la nostra su qualunque argomento. Si andava a quegli incontri anziché passeggiare sul lungolago o sotto i portici del centro.Tutti pensavamo di avere molte opinioni. Qualcuno, già smaliziato, si presentava con discorsi pieni di rabbia e di lucidità, analisi puntuali della condizione giovanile e del mondo. Quello a cui nessuno pensava, partecipando a questi incontri, era di uscirne cambiato.Tutti volevamo parlare, discutere, litigare, possibilmente sopraffare chi sosteneva opinioni opposte, e poi tornarcene a casa tali e quali com’eravamo arrivati: solo un po’ euforici (se avevamo vinto la nostra battaglia dialettica) o abbattuti (se avevamo perso). Ma in quell’ottobre del 1971 successe qualcosa di diverso. Invitato a una delle tante assemblee, ci andai con un’unica aspettativa: quella di ritrovare una ragazza che mi piaceva. Incontrai persone che sulle prime mi sembrarono un po’ irritanti. C’era anche la ragazza, ma faceva anche lei discorsi irritanti. Queste persone non erano affatto interessate alle mie opinioni, nessuno di loro diceva sentiamo cosa dice Luca. Non erano lì per discutere. Alla prima riunione una ragazza di nome Daniela, di qualche anno più grande di me, propose di imparare e cantare insieme una canzone. Sedevamo intorno a un grande tavolo, e non eravamo in tanti come l’anno prima. Mi ritrovai accanto Marco, un vecchio simpaticissimo compagno di avventure musicali (io ero a quel tempo chitarra solista in un gruppetto rock, lui bassista in un altro gruppetto). Lo guardai con una certa ironia complice, come a dire: cosa vogliono farci fare, questi? Ma lui, che frequentava quel gruppetto già da qualche settimana, mi zittì: «Tu comincia a cantare, poi si vedrà».
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re implicitamente a chi lo accusava di aver fondato un movimento para-politico più che religioso: «Non ho mai inteso “fondare” niente. Ritengo che il genio del movimento che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di ritornare agli aspetti elementari del cri-
neralmente sui testi di don Luigi Giussani o del Magistero, organizzata dalle singole comunità e aperta a tutti: intende essere un metodo per verificare la presenza di Cristo nella propria vita, la ragionevolezza dell’Incarnazione, l’umanità nuova che nasce dalla comunione con Cristo attraverso la Chiesa. Altro asse portante dell’educazione data da Giussani è la caritativa: letteralmente un gesto di carità (aiuto allo studio dei più giovani, assistenza agli anziani o ai malati), vista come l’unico modo per capire la «legge dell’esistenza», ossia che la vita è innanzitutto un dono. Dal marzo 2005 il compito di guidare il movimento spetta a don Julián Carrón, un prete originario di Madrid chiamato dallo stesso Giussani quando era ancora in vita per succedergli in quella grande responsabilità. Al sacerdote, recentemente confermato alla guida del Movimento per altri sei anni, spetta senz’altro un compito arduo: mantenere il movimento sui binari tracciati dal suo fondatore, arginare le spinte dal carattere più politico e valorizzare i frutti positivi che questo carisma è in grado di suscitare nel mondo.
Musica e canto sono un aspetto essenziale: ascolto e commento dei pezzi (soprattutto classici come Beethoven, Chopin e Brahms) è da sempre uno dei fattori fondamentali della vita del movimento stianesimo, vale a dire la passione del fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».
Grazie a questo sacerdote dal temperamento appassionato e dalla fede genuina in molti che non avevano mai varcato la soglia di una chiesa si avvicinarono al cristianesimo. Giussani riuscì a trasmettere ai suoi ragazzi il valore dell’amicizia cristiana, vista come strada principale con l’incontro con Dio. Un’amicizia che permea tutte le circostanze della vita: lo studio, il lavoro, i rapporti affettivi. Ecco perché il sacerdote brianzolo fece della “scuola di comunità” il gesto distintivo organizzato dal movimento. Essa è una catechesi, a cadenza settimanale, svolta ge-
che mi disturbava profondamente. Qualche giorno più tardi – furono giorni di rimuginio continuo vennero a trovarmi a casa mia Daniela, detta Dani Ti (esisteva anche una Dani Ci). Anche questo incontro fu per me drammatico e doloroso. Dissi a Daniela che da grande volevo fare lo scrittore, lei rispose che era una bellissima idea, ma che in ogni caso la cosa più importante era un’altra, da cui dipendeva tutto.
Le domandai cosa fosse questa altra cosa che permaneva come acciaio nelle parole e nelle azioni di questa gente. Lei rispose che era Gesù Cristo. Questa risposta mi offrì un appiglio: anch’io, replicai, credo in Gesù Cristo. In realtà questo non era del tutto esatto: da qualche tempo non frequentavo più la Chiesa, e la mia opinione sul tema, o meglio quella che ritenevo la mia opinione, poiché in realtà non pensavo niente di niente, era quella allora diffusa, secondo cui Cristo è una cosa e la Chiesa un’altra. Daniela, imperturbabile, continuò dicendo che anche lei era cresciuta in una famiglia cristiana, ma che l’incontro con le persone della «comunità» aveva trasformato Gesù Cristo «in qualcosa di così vivo da cambiare il modo in cui ti alzi la mattina, ti lavi la faccia, saluti tuo papà e tua mamma». Se Daniela mi avesse chiesto cos’era per me il cristianesimo, avrei risposto che era un insieme di norme di vita. Che Gesù fosse esistito non m’importava molto, l’importante erano i precetti attribuiti a lui, uno soprattutto: ama il prossimo tuo come te stesso. Anche questo era un luogo comune molto diffuso: e approvato, purtroppo, anche da alcuni preti. Per fortuna Daniela non mi chiese niente: così non fui costretto a dover spiegare cosa significava per me la parola «amore», un punto sul quale non avevo molto da dire. Disse un’altra cosa, un esempio che poi ho sentito ripetere: se vinci il primo premio alla lotteria, il giorno dopo ti alzi lo stesso dal letto, fai colazione, vai al lavoro, ma fai tutte queste cose in un modo diverso, e la gente più curiosa se ne accorge: guarda – dice – che faccia ha quello lì... E gli vien voglia di chiedertelo. «Ecco» concluse Daniela «l’incontro con Cristo è come vincerne cento, di lotterie». A quel punto avevo capito. Gesù Cristo per queste persone non era né un’idea né un memorabile personaggio storico, ma una persona reale, presente: così reale da lanciarmi una sfida, la più grande sfida che si potesse immaginare. Se quello che Lia e Daniela mi avevano detto era vero, come io presentivo tra me, la vita non sarebbe stata mai più la stessa. La frase di San Paolo, che diceva «non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me» mi fu chiara prima ancora che la leggessi. Quella notte non dormii. Un gran fuoco mi agitava, e io continuavo a tremare e a girarmi nel letto. Mi sentivo come quando si ha la febbre, e la testa corre da sola. Con la differenza che i pensieri, pur disordinati, erano tutti bellissimi. Mi sembrava di precipitare, ma non nel vuoto: dentro una specie di abbraccio. La ragione di questo stato d’animo mi fu immediatamente chiara: mi ero innamorato, proprio come ci s’innamora di una ragazza. Ma io mi ero innamorato di Gesù Cristo.
Proposero di cantare insieme. La canzone non era bellissima, ma io avevo accettato di fare qualcosa di cui non ero io il protagonista
La grande novità della mia vita cominciò in quel momento. La canzone non era bellissima, ma io avevo compiuto un’azione per me del tutto nuova: c’ero stato, avevo detto di sì, l’avevo imparata e cantata, avevo accettato di fare qualcosa di cui non ero io il protagonista. L’annuncio cristiano mi aveva raggiunto non attraverso fragili argomenti (gli argomenti cattolici erano, purtroppo, fragili e minoritari già allora) ma attraverso un gesto. Quella piccola azione fu per me la porta che m’introdusse a una novità inaudita. Stetti zitto per tutta la sera, ascoltando parole che capivo sì e no. Ricordo un’espressione ripetuta più volte: giocarci la faccia. Io non la capivo perché, probabilmente, non avevo ancora una faccia da giocare. Ma desideravo possederne una, e qualcosa – nell’ingenua serietà dei miei quindici anni – mi diceva che quella faccia era lì, vicinissima. Dopo la riunione un’altra ragazza più grande, di nome Lia, si offrì di accompagnarmi a casa. Camminammo su e giù, tra casa sua e casa mia (che non erano vicine), una decina di volte. Non ricordo quello che mi disse, ma ricordo che le sue parole erano invincibili, perché non nascevano dalla sua intelligenza ma da qualcos’altro che non capivo e
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segue dalla prima A dirla tutta, probabilmente nessuno Stato ha mai dovuto far fronte ad esse. I nemici di Israele si suddividono in due fazioni principali: la sinistra e i musulmani, con l’estrema destra che costituisce un terzo elemento minoritario. La Sinistra include una fanatica frangia estrema (International Answer, Noam Chomsky) e un centro “più diplomatico” (l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Liberal Party canadese, i media tradizionali, le principali chiese, i libri di testo). Ma in ultima analisi, la sinistra è poco meno di una forza ausiliaria rispetto al principale attore antisionista per eccellenza, vale a dire la popolazione musulmana. Quest’ultima, a sua volta, può essere divisa in tre blocchi distinti.
Il primo equivale ai Paesi stranieri. Le cinque forze armate che invasero Israele al momento della proclamazione della sua dichiarazione di indipendenza nel maggio 1948 e poi gli eserciti dei Paesi vicini, le forze aeree e navali che combatterono nelle guerre del 1956, 1967, 1970 e 1973. Se la minaccia convenzionale è andata scemando, la proliferazione delle armi da parte dell’Egitto, finanziata dagli Stati Uniti, costituisce un pericolo e le minacce rappresentate dalle armi di distruzione di massa (specialmente da parte dell’Iran, ma altresì provenienti dalla Siria e in fieri da molti altri Paesi) costituiscono un’insidia ancor più grave. Nel secondo gruppo rientrano i palestinesi residenti all’estero, quelli che vivono fuori i confini di Israele. Messi in disparte dai governi dal 1948 al 1967,Yasser Arafat e l’Organizzazione per la libera-
mondo
Oltre Israele, nel mirino Libano, Kuwait, Bahrein e Giordania
Sono cinque gli Stati a rischio distruzione di Daniel Pipes zione della Palestina (OLP) ebbero la loro opportunità al momento della sconfitta di tre eserciti nazionali nella guerra dei Sei Giorni. I successivi sviluppi, come la guerra del Libano del 1982 e gli Accordi di Oslo del 1993, confermarono la centralità dei palestinesi residenti all’estero. Oggi, sono loro a tenere le redini del conflitto, attraverso la violenza (terrorismo, lancio di missili da Gaza) e cosa ancor più importante, veicolando l’o-
hanno beneficiato della mentalità aperta di Israele, crescendo demograficamente ed evolvendosi da docile e inefficiente comunità in una segnatamente assertiva, che sempre più rifiuta la natura ebraica dello Stato israeliano, con delle conseguenze potenzialmente profonde per la futura identità di quello stato. Se questa lunga lista di pericoli differenzia Israele da tutti gli altri Paesi occidentali, costringendolo a tutelarsi quo-
della Siria dal 1976 e se gli sviluppi dovessero giustificare un’annessione formale, esso potrebbe essere ufficialmente incorporato da Damasco. Il Bahrein è occasionalmente reclamato da Teheran come parte del territorio iraniano, come è accaduto nel luglio 2007, quando un portavoce dell’Ayatollah Ali Khamenei, leader supremo iraniano, asserì che «oggi la principale richiesta del popolo del Bahrein consiste nel resti-
«I nemici dello Stato ebraico si suddividono in due fazioni principali: la sinistra e i musulmani, con l’estrema destra che costituisce un terzo elemento minoritario. Ma il principale attore antisionista è la popolazione musulmana» pinione pubblica mondiale contro Israele grazie a uno sforzo di pubbliche relazioni, con ampia risonanza tra i musulmani e la sinistra. Del terzo gruppo fanno parte i cittadini musulmani di Israele, le cellule dormienti dell’equazione. Nel 1949, erano appena a 111mila persone, ovvero il 9 percento della popolazione israeliana, ma nel 2005 il loro numero si è decuplicato fino a superare abbondantemente il milione, dunque il 16 percento della popolazione. Costoro
tidianamente dalle fila dei suoi innumerevoli nemici, la difficile situazione in cui esso versa lo rende stranamente simile ad altri Paesi mediorientali, che fronteggiano altresì una minaccia di eliminazione.
Il Kuwait sconfitto dall’Iraq è di fatto scomparso dalla faccia della terra tra l’agosto del 1990 e il febbraio 1991 e se non fosse stato per una coalizione guidata dagli Stati Uniti, esso di certo non sarebbe mai risorto. Il Libano è sotto il controllo
tuire questa provincia (…) alla madrepatria, l’Iran islamico». L’esistenza della Giordania come stato indipendente è sempre stata precaria, in parte, perché esso è ancora considerato uno stratagemma coloniale di Winston Churchill e, in parte, perché diversi stati (Siria, Iraq, Arabia Saudita) e i palestinesi lo ritengono un’ottima preda. Il fatto che Israele si trovi in compagnia di questi Paesi ha delle diverse implicazioni e mostra, in prospettiva, tutto il dilemma esistenziale dello Sta-
to ebraico. Se nessun Paese al di fuori dell’area mediorientale rischia l’eliminazione, all’interno della regione ciò costituisce un problema di pressoché ordinaria routine, denotando che lo status non-definito di Israele non troverà una repentina soluzione. Questo paradigma evidenzia altresì la vita politica crudele, instabile e fatale del Medio Oriente, senza ombra di dubbio la regione che annovera i peggiori vicini al mondo. Israele è il bambino con gli occhiali che cerca di andare bene a scuola, pur vivendo in una zona della città infestata da gang.
La grave ed estesa malattia politica del Medio Oriente dimostra quanto sia errato considerare il conflitto arabo-israeliano come la forza motrice dei suoi problemi. È più ragionevole considerare la difficile situazione di Israele come il risultato della politica tossica della regione. Prendersela con l’autocrazia mediorientale, il radicalismo e la violenza contro Israele è come biasimare lo scolaro diligente per le gang. Viceversa, risolvere il conflitto arabo-israeliano non fa altro che dirimere solamente quello specifico conflitto senza sanare i problemi della regione. Se tutti i membri di questo quintetto in pericolo si preoccupano per l’estinzione, i guai di Israele sono quelli maggiormente complessi. Essendo lo Stato ebraico sopravissuto alle innumerevoli minacce alla sua esistenza nei passati sessant’anni, ed avendolo fatto senza perdere l’onore, ciò offre un motivo di festeggiamento alla sua popolazione. Ma il giubilo non può durare a lungo, poiché Israele è giusto che torni sulle barricate per difendersi dalla prossima minaccia.
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I corrispondenti italiani e americani sfavorevoli al “dream ticket”: gli conviene concentrarsi sugli swing states
Obama, meglio solo o con Hillary? d i a r i o
di Francesco Cannatà eoretici contro pragmatici. La piccola gara i tra corrispondenti americani a Roma e i loro colleghi italiani negli Stati Uniti mette in evidenza anche la differenza tra i caratteri nazionali degli osservatori. Uguale invece la passione e la competenza messa nel seguire gli avvenimenti della nomination democratica conclusasi con la vittoria di Barak Obama. Con qualche punto di vantaggio a favore di chi sta seguendo sul campo la sfida che a novembre farà conoscere al mondo il prossimo leader della superpotenza globale. Due considerazioni uniscono italiani e americani. La prima è che Obama non può accettare Hillary Clinton come vice, senza tradire l’impegno per il cambiamento di migliaia di giovani, «seguo dai tempi di Reagan le campagne elettorali Usa e non ha mai visto un tale seguito entusiasta e trasversale di giovani, come ora con Obama. Ho parlato con molti di loro e nessuno vuole Hillary come vice», afferma Anna Guaita del Messaggero. Del resto il realismo politico impone di non buttare alle ortiche i voti, 18 milioni, ricevuti dalla senatrice di New York. Uno scontro di tale portata tra i due big democratici, «una cosa eccezionale» per John Phillips, corrispondente un po’ disincantato del Washington Times a Roma, che non sarà superata facilmente per cui «le possibilità per il dream ticket sono molto basse, anche se in politica tutto è possibile», afferma Phillips che non sembra credere molto al prossimo cambiamento americano. Anche per Victor Simpson dell’Associated Press «l’accoppiata da sogno» presenta molti ostacoli che però pensando alla storia possono essere benissimo superati. «Kennedy aveva scelto Johnson, un dandy del Massachussetts contro un texano dalla pelle molto dura. Per vincere si fanno molte cose».
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Zimbabwe, arrestato Tsvangirai
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La polizia dello Zimbabwe ha arrestato il leader dell’opposizione, Morgan Tsvangirai, nel sudovest del Paese. Lo ha riferito il Movimento per il cambiamento democratico, il partito che si oppone al regime di Robert Mugabe al potere da ventotto anni. Tsvangirai era tornato nei giorni scorsi nel Paese per il ballottaggio del 27 giugno delle controverse presidenziali. È stato fermato ad un posto di blocco sulla strada che lo portava a Lupane e viene ora tenuto in custodia insieme ad alcuni collaboratori.
Kosovo, forza congiunta Ue e Nato Un comando unificato tra la missione Ue in Kosovo (Eulex) e la missione delle Nazioni Unite Unmik, sotto il cui protettorato l’ex provincia serba si trova dal 1999: è questa l’ipotesi a cui stanno lavorando le diplomazie europee e dell’Onu, per cercare di superare le difficoltà legali e giuridiche che stanno ritardando il dispiegamento della missione europea. Il piano originario prevedeva il dispiegamento da parte della Ue di circa 2.200 uomini in sostituzione della missione Unmik dal 15 giugno prossimo, in corrispondenza con l’entrata in vigore della nuova Costituzione del Kosovo.
Germania, crolla la Spd
portare il simbolo dello status quo alla Casa Bianca, ma i 18 milioni di voti presi dalla senatrice sono un problema politico al quale deve dare risposta. Del resto l’ex first lady candidandosi ha fatto una mossa molto abile. È questa la prima vera sfida politica per Obama, nei prossimi giorni vedremo quale risposta darà». L’altro argomento che mette d’accordo italiani e americani è il fatto, «che i cinque mesi di campagna elettorale che restano, sono in grado di azzerare molte previsioni, non dimentichiamo che John Kerry era il favorito fino al giorno precedente il voto. Poi ha vinto Bush con tre milioni di voti di differenza. Ora i due cansono didati due deboli senatori, questo aumenta l’incertezza del voto nel quale c’è anche l’incognita di Hillary. Nel caso non dovesse affiancare Obama che farà?». Questo l’interrogativo di Molinari. Anche Anna Guaita è perentoria, «non è affatto detto
Arriva il primo vero scoglio politico per il senatore dell’Illinois. Puntare sul cambiamento o inseguire l’elettorato della ex First Lady?
Chi esclude la possibilità della corsa in comune tra Obama e Clinton è il corrispondente dell’agenzia Bloomberg, Alma Davanzo: «Hillary non sarebbe da sola, verrebbe anche il marito che è stato presidente per otto anni. Per me i giochi sono già fatti. Credo che Obama vincerà anche da solo». Molto più netti i corrispondenti italiani. Per Maurizio Molinari della Stampa, «Obama non ha nessun interesse a
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che il candidato democratico vincerà le elezioni». Il rappresentante di un’importante agenzia di stampa statunitense che preferisce restare anonimo perché, dice, «mi chiedi delle opinioni politiche e nel nostro mestiere, almeno negli Usa, noi non ne diamo», ammette che il compito di Obama, con o senza Clinton, sarà molto difficile. «Il senatore nero dovrà essere in grado di fare quello che Ronald Reagan ha fatto vincendo il primo mandato. L’ex attore di Hollywood ha creato i Reagan Democrats, sbancando negli swing states. Obama sta cercando di fare lo stesso con i repubblicani. Portare Stati fedeli al Gop dalla sua parte. Per realizzare questa strategia Hillary sarebbe un vantaggio o un palla al piede? Ovviamente nessuno lo sa, ma sin da ora si può affermare che nessun personaggio politico è cosi malvisto dai repubblicani, come la ex first lady e, soprattutto suo marito». Dopo tanti colpi bassi, passare ora improvvisamente alla luna di miele avrebbe, come si dice in Italia, il sapore un po’ dolciastro dell’inciucio. Troppo anche per la Washington di questi tempi.
Secondo l’istituto demografico Forsa, i socialdemocratici tedeschi sono in picchiata. Il nuovo minimo storico li avvicina alla Linke, la forza di sinistra che sembra sempre più in grado di erodere il bacino elettorale della Spd. Con questo ennesimo scivolone nelle intenzioni di voto dei tedeschi i socialdemocratici perdono altri tre punti, attestandosi attorno al 20 per cento dei consensi. La contestata nomina di Gesine Schwan alla candidatura per la prossima presidenza della repubblica, sarebbe il motivo della perdita di terreno della principale forza della sinistra tedesca. Secondo Forsa, la Linke, 15 per cento dei consensi, braccherebbe ormai la forza storica del movimento socialista europeo.
Obama e la difesa di Israele Barack Obama ha annunciato che da presidente si impegnerà a «eliminare» la «minaccia» che il programma nucleare iraniano rappresenta per Israele e il Medio Oriente. «Non scenderò mai a compromessi quando si tratta della sicurezza del popolo israeliano», ha aggiunto raccogliendo un lungo applauso. Obama ha affermato che «farà tutto il possibile», ripetendo per tre volte la parola ”tutto”, per evitare che l’Iran possa entrare in possesso di un ordigno nucleare. «Non esiste più grande minaccia dell’Iran per Israele e per la pace e la stabilità nella regione», ha detto Obama. «Il pericolo posto dall’Iran è così serio e reale che il mio obiettivo sarà eliminare questa minaccia. Lascerò sempre - ha aggiunto Obama - la minaccia di un’azione militare sul tavolo per difendere la nostra sicurezza e quella del nostro alleato israeliano».
Somalia, la peggiore crisi da 10 anni Conflitti armati, aumento costante dei prezzi dei generi alimentari e dei carburanti, la siccità che da almeno due anni flagella le zone centrali della Somalia. Secondo il direttore della delegazione della Croce rossa internazionale, Pascal Hundt, sono questi i segnali che fanno temere che il Paese del Corno d’Africa tra poco sarà di fronte alla crisi peggiore degli ultimi dieci anni. Facendo ieri queste dichiarazioni a Nairobi, Hundt non ha nascosto le sue preoccupazioni per i collaboratori della sua organizzazione. Per impedire l’ulteriore acutizzarsi della crisi, la Croce rossa intende triplicare il budget destinato al Paese africano.
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speciale educazione
Socrate
Conti in rosso e lauree inefficaci da una parte, mancanza di regole ed emergenza educativa dall’altra. Maria Stella Gelmini è attesa da un compito arduo. Esperti del settore le danno alcuni suggerimenti
CARO MINISTRO, LE SCRIVO di Guido Trombetti l nuovo ministro è certamente persona di qualità. Disponibile a comprendere i problemi. A trovare soluzioni equilibrate e condivise. Questa è l’impressione che ho riportato nel primo incontro che ho avuto. Pertanto, è facile rivolgersi a lei. Sono un matematico. Parto quindi dai numeri. La Germania investe 10.000 euro per studente, il Regno Unito 7.500, l’Italia meno di 4.000. L’Italia investe lo 0,8 per cento del Pil. La media Ocse è dell’1,2. Il sistema è sottofinanziato qualsiasi indicatore si scelga. Lo ha riconosciuto anche la Commissione tecnica del ministero dell’Economia e delle finanze in un documento del luglio 2007. Si tratta pertanto di un dato incontrovertibile. Il Fondo di Finanziamento ordinario in questi anni è cresciuto (quando è cresciuto) meno delle spese obbligatorie. Vale a dire degli aumenti di stipendio del personale universitario docente e non do-
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porto studenti-docenti in Italia è 21,6 mentre la media Ocse è 15,5. Così come va ricordato che i costi per il personale incidono sul totale delle spese del 60 per cento contro la media Ocse per il 65. Per inciso, nell’ultima fase parlamentare sono stati tagliati 90 milioni di euro sul Ffo (Fondo di Finanziamento ordinario, ndr). In sostanza, ancora una volta l’ultima Finanziaria ha destinato agli atenei meno risorse degli aumenti stipendiali. L’università italiana presenta sia luce che ombre. Il suo livello qualitativo però, nonostante la scarsità di investimenti, non è inferiore a quello dei Paesi più avanzati. Occorre pertanto un piano di investimenti pluriennali che consenta l’avvio di un processo che porti l’Università italiana al livello della media europea. Ma all’Università non servono solo risorse. Servono anche regole snelle e rigore. Ciò al fine di incentivare comporta-
«La qualità non manca ma ora servono più fondi, regole snelle e rigore» cente previsti per legge. Se da oggi fosse bloccato il turn-over, la spesa del personale continuerebbe a crescere nei prossimi anni con un tasso non inferiore al 4 per cento annuo. Il fenomeno, così com’è, rischia di portare il sistema al collasso.
È vero. Gli organici della docenza si sono incrementati negli ultimi anni. Anche per effetto del sistema di reclutamento. Si dimenticano però due dati. Il rap-
menti positivi e di evitare gli errori del passato. Risorse, rigore e regole. Regole che vanno proiettate su un orizzonte lungo di programmazione. Consentendo quindi un discorso complessivo che porti a una distribuzione delle risorse equa ed efficiente. Che consenta una politica di riequilibrio senza strangolare nessuno. Che obblighi tutti al rispetto del rigore. Con un piano di risorse aggiuntive il quadro strategico cambia radi-
calmente. Le risorse devono da un canto garantire la copertura degli incrementi stipendiali del personale decisi al di fuori degli atenei. Pena la progressiva cancellazione del sistema pubblico dell’istruzione universitaria. Dall’altro creare meccanismi premiali che inneschino politiche sempre più orientate alla qualità dell’offerta. Ad ogni ateneo si potrà legittimamente chiedere di formulare un piano di sviluppo. Così come gli si dovrà chiedere conto delle azioni proposte. E dei risultati ottenuti. Si potrà sviluppare un dialogo costruttivo tra il centro e la periferia. Si potranno esaltare i valori dell’autonomia e del coordinamento. Attuando rigorose verifiche in itinere ed ex post. Fondamentale è l’avvio efficace del sistema di valutazione. In attesa che parta l’Agenzia, il cui regolamento probabilmente deve essere rivisto, vanno riattivati il Cnvsu (Comitato nazionale per la Valutazione del Sistema universitario, ndr) e il Civr (Comitato di indirizzo per la Valutazione della ricerca, ndr). Il sistema non può rimanere fermo sul versante della valutazione. In quest’ordine di idee, va anche rivisto il cosiddetto “modello di finanziamento”.
Ho sempre sostenuto che è meglio avere un modello che nessun modello. Occorre però introdurre correttivi nel modello vigente che tengano conto delle specificità dei singoli atenei spesso difficilmente comparabili (mega-atenei, piccoli atenei, politecnici, atenei generalisti, atenei non statali, ecc.). Il modello inoltre non potrà ignorare gli oggettivi fattori di contesto. Un altro tema importante è quello dell’internazionalizzazione. Bisogna favorire reti di collaborazione
con università ed enti di ricerca stranieri. Istituzionalizzare la figura del Visiting Professor. Un altro punto centrale è il rapporto tra università e mondo produttivo. Anche su questo siamo in ritardo rispetto all’Europa. Qualcosa si è fatto. Molto resta da fare. È ad esempio molto importante accentuare le facilitazioni di natura fiscale per le imprese che investono nella ricerca. Le università producono brevetti, danno vita a spin-off, attivano incubatori per la ricerca applicata ed il trasferimento tecnologico. Nelle università si produce più del 50 per cento della ricerca del Paese. Un altro nodo da sciogliere al più presto, e che potrebbe liberare risorse oggi impegnate altrimenti, è quello relativo al personale universitario docente e non docente convenzionato con il Servizio sanitario nazionale. Esso viene infatti attualmente retribuito totalmente sui fondi a carico delle università anche per la parte dovuta per l’attività assistenziale, con rimborsi limitati alla differenza del trattamento economico più favorevole previsto dai contratti del personale ospedaliero. L’assunzione degli interi costi assistenziali da parte della Sanità, oltre ad essere giu-
sta e coerente in sé, rappresenterebbe un forte alleggerimento per i bilanci degli atenei comprensivi di Facoltà di Medicina, quale che sia l’appartenenza e la natura delle strutture sanitarie di riferimento.
Un’altra voce che oggi grava in maniera molto pesante sui bilanci universitari, e che andrebbe quanto prima rivista, è quella dell’Irap, computata, oltretutto, alle sue aliquote massime. Negli ultimi anni si è assistito anche a una riduzione degli investimenti nel diritto allo studio. Capitolo questo che deve essere il fiore all’occhiello di un Paese democratico. È scomparso altresì, praticamente azzerato, il fondo per l’edilizia. In sintesi, in un rinnovato spirito del Patto per l’Università, occorre una scelta decisa nella direzione dello sviluppo, dell’alta formazione e della ricerca scientifica. Risorse, ma non solo risorse. Anche rigore e regole. Senza uno di questi tre ingredienti, ogni azione rischia di essere inefficace. Presidente Crui Rettore Università Federico II di Napoli
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Urgono percorsi alternativi e selezione
l Centro per la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento (Cqia) dell’università di Bergamo ha appena concluso una ricerca di oltre 500 pagine sull’orientamento e sul tutorato universitario in ingresso e, più in particolare, sul modo con cui 29 università che avevano presentato al Ministero progetti specifici in proposito, da finanziare, hanno applicato l’articolo 6, co. 1 del D.M. 270/2004. Come è noto, questo comma prescrive a tutte le università i seguenti adempimenti: 1. precisazione della nozione di “preparazione iniziale”degli studenti e analitica declinazione delle “conoscenze richieste” per l’accesso ai vari corsi di laurea; 2. determinazione delle “modalità di verifica e valutazione”del possesso dei requisiti richiesti; 3. realizzazione di “attività formative propedeutiche”per sostenere la preparazione degli studenti; 4. eventuale assegnazione di “obblighi formativi aggiuntivi” agli studenti che mostrino di non aver raggiunto il livello di preparazione richiesto. Senza entrare nei dettagli della ricerca, risulta che oltre il 70 per cento degli atenei rispetta almeno un punto della prescrizione normativa contenuta nell’art. 6.Tale rispetto tuttavia, da un lato, non è stato eretto a sistema, per cui non è disponibile un knowhow da esportare come attendibile paradigma di azione in tutte le università. Non c’è consenso, non si dice, sul modo con cui sondare la “preparazione iniziale”delle matricole, ma nemmeno sul semplice modo con cui concepire il significato di termini come “conoscenze e abilità” o “competenze”da verificare.
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co che si sarebbe trovato in sovrannumero a causa della ipotizzata riduzione di un anno della durata della secondaria, ma avrebbe costituito allo stesso tempo l’occasione, sia per incrementare la qualità degli studi secondari, concentrandoli e razionalizzandoli, sia per introdurre un’articolazione delle funzione docente, in una carriera afflitta da sempre dall’egualitarismo sindacale. La proposta venne naturalmente seppellita dal clima politico e sindacale avvelenato del tempo. Nel 2005, però, mantenuta la secondaria di 5 anni, si dispose, con il Dlgs. N. 226, di strutturare almeno l’ultimo della secondaria in modo tale da permettere ai ragazzi di scegliere 8 ore su trenta del loro piano di studi per prepararsi in maniera specifica agli studi necessari per la facoltà che avrebbero inteso frequentare. Anche qui proteste e nulla di fatto. Forse è giunto il tempo, tuttavia, di recuperare con urgenza questa opportunità. Ma anch’essa è insufficiente per sperare di invertire la tendenza in atto. Occorrono altre tre condizioni di sistema, da creare nell’arco di questa legislatura. La prima riguarda la secondaria. Serve prendere sul serio la legge n. 53/03 e istituire quel sistema formativo lì auspicato in cui la differenziazione dei percorsi tra licei, istruzione tecnica e istruzione/formazione professionale non si sposi con la loro gerarchizzazione culturale, e in cui l’orientamento, il tutorato e la flessibilità dei piani di studio siano davvero indici per promuovere e documentare l’eccellenza e il merito di ciascuno. La seconda condizione è ancora più decisiva, ma non sarebbe possibile senza la prima. È costituita dallo sfondamento verso i diplomi superiori e dell’alta formazione professionale di tutto l’arcipelago secondario dell’istruzione tecnica e professionale e, soprattutto, del lavoro svolto in apprendistato. Perché solo in Italia, unica eccezione al mondo, gli studi superiori devono essere esclusivamente quelli universitari? Ovvio che, con i numeri che ha, l’università sia costretta a far le nozze con i fichi secchi. Costruire una ricca, prestigiosa, articolata offerta di istruzione e formazione professionale superiore, dai 18 ai 23-24 anni, legata al lavoro e alle imprese, parallela e concorrenziale, ancorché integrata all’istruzione universitaria tradizionale, aiuterebbe anche quest’ultima ad applicare davvero, senza finzioni, l’articolo 6 co. 1 del Dm 270/04. L’ultima condizione è una politica del reclutamento universitario, dell’alta formazione professionale e della stessa secondaria che sia degna di questo nome, e che cioè scelga i migliori. Ciò che non si è avuto da decenni, e che il fermo imposto ai provvedimenti Moratti ha ulteriormente acuito. Si potrà mai sperare di vedere qualcosa di simile in tempi ragionevoli?
Altro che bamboccioni
Dall’altro lato, il rispetto in questione si presenta in moltissimi casi lacunoso e, purtroppo, più formale che sostanziale. E senz’altro anche per questo che si spiega come mai se, nel 2001, prima della riforma Berlinguer Zecchino, si laureavano in corso meno di 10 studenti su cento, il 25 per cento andava sui cinque anni e la media complessiva per la laurea era sette anni, nel 2006 i fuori corso sono il 50 per cento nella laurea triennale, ci si laurea in media a 24,2 anni, più di 8 laureati su 10 proseguono poi nella specialistica (con picchi di 9 per Psicologia, Sociologia, Comunicazione) e si finisce così per tornare al punto di partenza del 2001: 4 anni in media per raggiungere la triennale, 3 per ottenere la specialistica, totale 7. Ed è senz’altro anche per questo che Mario Pirani può far ridere i lettori di Repubblica informando di un laureando che scrive “all’unghiamoci”; Pietro Citati può cantare la sua nostalgia per i tempi in cui l’università era “una cosa seria”e molti altri si distinguono nel registrare tra i laureati quegli stupidari che avevano fatto la fortuna del maestro
di Giuseppe Bertagna napoletano Marcello D’Orta con i ragazzi dei quartieri più degradati di Napoli. Colpa dei “bamboccioni”, come li ha ormai eponimamente chiamati l’ex ministro dell’Economia Padoa Schioppa? Colpa delle università che non fanno quello che, in teoria, per legge, dovrebbero fare in ingresso e soprattutto in itinere? Colpa delle scuole secondarie che diplomano con votazioni d’eccellenza persone che avrebbero fatto fatica a raggiungere la sufficienza solo alla fine degli anni Sessanta?
Dire così, tuttavia, per citare Talleyrand, c’est plus qu’un crime, c’est une faute. È un errore perché, se è senza dubbio vero che ci sono casi singoli di studenti bamboccioni, di università che, pur di raccogliere studenti, distribuiscono 27/30 senza ritegno e di docenti secondari che, per non avere storie, più che insegnare socializzano, è ancora più vero che la causa di questa situazione non può che essere, per forza di cose, strutturale. Ritorniamo da dove siamo partiti, allora. Come si fa, ragionevolmente, ad applicare nel merito qualitativo l’intero e complesso disposto dell’articolo 6, co. 1 del D.M. 270/2004 su una massa di oltre 320mila persone con le risorse soprattutto umane, ma non meno finanziarie, che ha oggi a disposizione l’università? E il tutto, per di più, in pochi mesi, prima dell’inizio dei corsi? Nel 2001, agli Stati generali sull’istruzione, si era proposto di ridurre proprio per questo, come in tutti gli altri Paesi del mondo, la scuola secondaria a 4 anni, di ammettere subito all’università gli studenti che avessero dimostrato di possedere la buona “preparazione iniziale” di cui si diceva, di assicurare poi a chi avesse avuto bisogno di“attività formative propedeutiche” ai corsi di laurea prescelti interventi di riallineamento per il tempo necessario a colmare le loro lacune e di reclutare, infine, per tutti questi servizi, i migliori docenti della secondaria che avrebbero dovuto lavorare a stretto contatto con i docenti universitari. La proposta serviva certo anche per riassorbire l’organi-
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speciale educazione
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Premi e sanzioni fin dalle elementari: le fumisterie sociologiche minano l’autorevolezza dei docenti
Basta sofismi, lasciateci educare di Giorgio Ragazzini
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aro Ministro, durante la campagna elettorale un gruppo di autorevoli studiosi e commentatori indirizzò ai partiti e ai candidati una lettera aperta per chiedere che la vita della scuola si fondi sui valori del merito e della responsabilità. Avendo contribuito a promuovere quella lettera con i colleghi del Gruppo di Firenze, mi sembra doveroso cercare di indicare alcuni possibili provvedimenti per passare dai princìpi ai fatti, senza nessuna pretesa di completezza o di organicità. Negli ultimi tempi sembra farsi strada la convinzione che sia necessario ristabilire nelle scuole un clima di serietà, di impegno, di rispetto delle rego-
spensabile per far interiorizzare le regole e prevenire ulteriori mancanze.
È per questo che lo Statuto degli studenti va riformato più radicalmente di quanto abbia fatto – meritoriamente – il Ministro Fioroni, soprattutto per garantire un requisito essenziale di ogni sanzione: la tempestività. Oggi, per l’eccessivo garantismo dello Statuto, questo è possibile solo violando la legge. Gli insegnanti devono essere considerati educatori con tanto di autorità e responsabilità, non come potenziali nemici da tenere a bada con vincoli e pastoie. Dobbiamo anche fare in modo che la condotta abbia un peso nella valuta-
Più crediti per la buona condotta, no all’assenteismo e ai “6 politici” le. E questo vale per tutti i protagonisti dell’ “impresa” istruzione: dirigenti, docenti, allievi. Ma è ancora diffusa l’idea, specie quando si parla di ragazzi, che la sanzione sia una sconfitta dell’educazione, quando invece essa costituisce uno dei suoi strumenti, a volte indi-
zione complessiva di ogni studente. E oltre a scoraggiare i comportamenti scorretti, andrebbe finalmente dato un riconoscimento a chi si comporta bene e si impegna. Basta con l’ironica e sussiegosa svalutazione dei ragazzi educati, quelli che spesso subiscono il clima
imposto da compagni scorretti che una scuola troppo “comprensiva”non intende punire. E allora, Ministro, Lei potrebbe introdurre un’innovazione fortemente simbolica: stabilire che all’interno del credito scolastico per l’esame di Stato sia riservato un punteggio premia-
le per il comportamento corretto: che cioè per ciascuno degli ultimi tre anni di corso 1 punto venga assegnato ai candidati che abbiano meritato un voto di condotta di almeno 9/10. Ancora: la necessità di stabilire regole e limiti non comincia in prima media, e non cominciano
LETTERA DA UN PROFESSORE
LA SCUOLA GUIDA NON SI FA IN CLASSE di Giancristiano Desiderio
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on possiamo mettere sulle spalle della scuola italiana tutti i mali della società. Non possiamo pensare che la soluzione dei problemi sociali si trovi sempre e comunque nella scuola. Esempio: ci sono molti incidenti stradali allora, si ricorra all’educazione stradale nelle scuole. Altro esempio: ci sono i rifiuti per strada allora, si istituisca l’ora di igiene per la raccolta differenziata. Ancora: c’è il bullismo allora, si faccia un’ora in più di educazione civica. In questo modo si aggrava soltanto la situazione già infelice della scuola. Il problema infatti, non è quello di aumentare le materie, ma di diminuirle. La scuola non è una “scuola guida”. L’idea
che ogni problema si possa risolvere con l’intervento della scuola si fonda su un pregiudizio scientista: quello che ogni cosa si risolva con il sapere. Ma non è così: compito della scuola non è il sapere astratto, ma la formazione della volontà. Se si snatura il compito della scuola si aggiungono solo disagi a disagi. L’idea madre deve essere questa: la scuola non deve servire allo Stato ma all’educazione, solo se serve ad educare sarà anche una scuola utile allo Stato. Un ragazzo ben educato, sarà un buon cittadino anche se non ha fatto studi sulla Costituzione; rispetterà il codice della strada anche se non lo ha studiato; avrà cura per la raccolta della spaz-
zatura e per la pulizia delle strada anche se la scuola non lo ha informato sullo scarto della carta e sul riciclo della plastica. L’idea che la scuola debba servire a darci delle informazioni che poi useremo nella vita è una delle idee più antiscolastiche che si siano mai partorite: è l’idea che ci sia un tempo per educarsi e un tempo per vivere secondo educazione. Mentre la scuola deve educare a educarsi, a formarsi, a vivere secondo un principio perenne di miglioramento. Tutto ciò che si apprende a scuola è destinato all’oblio, tranne l’idea e direi la buona abitudine a saper capire e a saper fare la cosa giusta al momento giusto.
in prima media neppure i comportamenti inaccettabili. È ormai tempo di introdurre anche nella scuola primaria un regolamento di disciplina con le relative sanzioni. Non è educativo che un bambino possa dire alla maestra che lo rimprovera: «Tanto non mi puoi fare nulla!»
Ma una scuola seria deve anche esigere una frequenza regolare. Un limite alle assenze esiste solo nella scuola secondaria di primo grado; ma è una vera e propria legalizzazione dell’assenteismo. Il decreto legislativo 59 del 2004 ha introdotto infatti il tetto di un quarto dell’orario complessivo: oltre cinquanta giorni, con possibilità di deroghe! Stabiliamo che in qualsiasi grado di istruzione non si possa stare assenti per oltre il 10 per cento dei giorni (o delle ore) previsti dal calendario affinché l’anno sia valido. Un limite superabile in via eccezionale esclusivamente per documentati motivi di salute. Da molte parti poi si lamenta la mancanza di un valido sistema di valutazione dei docenti. Nell’attesa, però, non c’è bisogno di sofisticate osservazioni per individuare i casi di evidente inadeguatezza o di clamorosa inadempienza, come quello del
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professore assenteista reso noto da Pietro Ichino. Vogliamo dare ai dirigenti gli strumenti adeguati per risolverli in tempi brevi? La maggioranza dei colleghi è seria e impegnata, ma l’iper-tutela di chi demerita gravemente lede l’immagine di tutta la categoria. Una responsabilità particolarmente delicata è quella che compete ai docenti in questa fase dell’anno scolastico: la valutazione finale degli allievi. Nel rispetto della libertà di insegnamento, bisogna fare in modo che tali valutazioni vengano sempre formulate basandosi sugli effettivi risultati conseguiti dagli studenti e seguendo criteri di equità e di merito.Troppe volte i 4 diventano 6 in nome di pseudo-motivazioni psicologiche e sociali. Mi permetto infine di sottoporLe con franchezza la questione di chi contribuisce a elaborare le politiche scolastiche. Da alcuni commentatori è stata denunciata – a mio avviso correttamente – l’influenza negativa di un “monopensiero” pedagogico che ha egemonizzato le scelte delle commissioni ministeriali. Per quanto riguarda in particolare la didattica, negli scorsi decenni questi pedagogisti, anziché indicare ai docenti una varietà di possibili opzioni, si sono fatti banditori di dogmi pedagogici e didattici, con il risultato di demotivare la gran parte dei docenti, regolarmente trattati non come professionisti, ma come incompetenti da rieducare. È quindi fondamentale che Lei ribadisca la libertà e la responsabilità del docente nelle sue scelte di metodo, mettendo fine ai tentativi diretti e indiretti di imporre una didattica di Stato. Nella scuola devono ricominciare a circolare il buon senso e il valore dell’esperienza; il metodo migliore è quello che funziona. E di conseguenza, in luogo dell’aggiornamento calato dall’alto, che in molti ha prodotto il rifiuto di ogni aggiornamento, deve essere favorita la creazione di un ambiente professionale in cui si possano comunicare e discutere, con metodo seminariale, esperienze positive, difficoltà, proposte. Ma le responsabilità degli studiosi (con le dovute eccezioni) non finiscono qui. Ormai da molti anni si è largamente diffusa la peste linguistica del didattichese, che ha reso illeggibile quasi ogni libro, articolo, circolare che tratti di scuola. Ecco un’altra leva del rinnovamento: un italiano chiaro ed essenziale, capace di informare e spiegare in modo semplice e diretto. Cominciamo dai curricoli, rendendoli così accessibili alle famiglie e agli stessi ragazzi. Con un cordiale “buon lavoro”, Giorgio Ragazzini
Lo Stato monopolizza l’istruzione, negando alle famiglie il diritto di scegliere
Un gesto epocale, e poco altro di Giuseppe Lisciani aro Ministro, le scrivo per chiederLe un gesto epocale e poche altre cosucce. Né esito ad ammettere che alcuni passi di questa lettera aperta potrebbero vestire i panni di una provocazione ambiziosa. Comincerò citando un “descolarizzatore”, Ivan Illich, sociologo e scrittore, ex sacerdote ed ex prorettore dell’Università Cattolica di Porto Rico. Nel 1971, le sue idee attraversarono l’America e l’Europa e ne misero in subbuglio princìpi e metodi educativi. Che cosa aveva pensato e detto di così rivoluzionario l’ex reverendo Illich? Egli aveva auspicato e profetizzato la fine della scuola, a beneficio della società, per una più equa e funzionale distribuzione del sapere e di tutto quanto ne consegue. Scrisse, a tal proposito, molti libri, tra cui un libro-shock, Descolarizzare la società, che fece il giro del mondo e che in Italia fu tradotto da Mondadori. Si legge, a p. 77 di questo libro, che «in un mondo scolarizzato» la felicità si misura con gli «indici di consumo». E a p. 163: «Lo smantellamento dell’istituzione scolastica è ormai inevitabile, e si verificherà molto prima di quanto si pensi». Everett Reimer, amico e sodale di Illich, gli fece da controcanto scrivendo, nello stesso 1971, La scuola è morta, pubblicato in Italia dall’editore Armando due anni dopo. Le speranze e le profezie percorrono a volte sentieri
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in stile farisaico: l’autonomia della scuola italiana, appunto, è molto predicata, anche in sede legislativa, e quasi niente praticata. Ecco perché, caro Ministro, Le chiedo di restituire la scuola alla società civile italiana. Le chiedo un gesto epocale come epocali sono, sempre, le grandi riforme. Le chiedo di percorrere la strada dell’autonomia, perché i tempi sono maturi, sebbene maledettamente complessi e insidiosi. Vorrei, in proposito, insinuare alcune ipotesi di lavoro. In
ca arriverà senza scossoni, con atterraggio dolce e con monitoraggio assiduo. In secondo luogo, conceda un utile omaggio alla figura retorica dell’ossimoro: faccia la rivoluzione nella scuola (cioè l’autonomia), ma la faccia lenta e per gradi. Step by step. In terzo luogo, quale conseguenza di quanto detto sopra, inizi la sua “rivoluzione graduale” affidando agli insegnanti la responsabilità del “curricolo”. Di fatto. Perché a parole già ce l’hanno. Primi responsabili debbono essere, non di rimando. Sarebbe un “incipit” strategico, poiché il “curricolo”è padre e madre di tutte le riforme. In quarto luogo, la prego di avere fiducia nelle professionalità e nelle intelligenze periferiche. Non di sola Roma et similia vivono le competenze. Le ricordo, per esempio, che tra Modena e Reggio Emilia sono nate e prosperano scuole dell’infanzia eccellenti, conosciute e studiate nel mondo. In quinto luogo, se desidera procedere in via sperimentale (cosa prudente), cominci dalla Lombardia. Qui esistono già ricerche importanti sull’argomento. In sesto e ultimo luogo, avviando la “riforma epocale”, non si faccia monopolizzare da questa e intervenga anche su episodi significativi del fare scuola. Ad esempio, ponga, di nuovo e presto (se non l’ha già fatto), l’accento sull’inglese come lingua veicolare e sulla alfabetizzazione informatica. A cominciare dalla scuola primaria. (Anche se Masaru Ibuka, fondatore della Sony, ha scritto, Sopra una caricatura di Ivan Illich, quasi cinquanta anni fa, un ispirata a un suo scritto del 1982, bello e intrigante libro per dire Il silenzio é un bene comune Sotto la copertina del suo libro choc che «nel giardino d’infanzia è già troppo tardi»). Concludo con una scorbutica illazione: spesso, i politici fanno una sorta di uso blasfemo del Ministero dell’Istruzione, lo riducono a predellino di primo luogo, non passaggio verso altre cabine e mescoli acqua al leve di comando, verso altre vino, delinei con più ambite tappe della propria chiarezza un “concarriera. Ma Lei certamente cetto forte” di ausa, caro Ministro, che, se mette tonomia. Per inmano all’autonomia scolastica, tenderci, un consarà una operazione molto difcetto che preveda, ficile, molto tentacolare, da acper istituti scolacudire con grande assiduità e stici singoli o per con impeccabile stile. Ho conoreti di istituti, mosciuto, negli ultimi decenni, un dalità operative solo Ministro cha ha inteso dein ambiente di dicare alla scuola il proprio immercato, cioè pegno politico, e cioè Franca concorrenziale: faccia in modo che la so- Falcucci, che restò in viale Trastevere dal cietà civile – cioè la famiglia – possa esami- 1982 al 1987, mentre si avvicendavano quatnare e scegliere le scuole migliori per i pro- tro governi: Fanfani, Craxi, ancora Craxi, anpri figli. Divulghi il concetto, ma faccia sape- cora Fanfani. Era una persona di scuola e per re, con ugual rilievo mediatico, che la prati- la scuola. Fu un buon Ministro.
Predicata ma per niente praticata: ora l’autonomia diventi concreta bizzarri. Così, nel nostro Paese, la scuola non è morta (anche se sta molto male), mentre la società, sì, quella è stata descolarizzata: non dal popolo per il popolo, come immaginava Illich, ma dallo Stato per lo Stato. Uno Stato, il nostro, evidentemente non totalitario, anzi palesemente democratico. Il quale, però, seguendo un paradosso (o forse in omaggio a una tradizione da indagare), si è appropriato della scuola, scippandola alla società civile. E centralizzando i programmi di insegnamento-apprendimento. E argomentando, per conto delle nuove generazioni, quale debba essere la cultura da respirare, quali le idee di cui nutrirsi, quali i valori da perseguire. Questo Stato si attarda anche (abbastanza spesso in questi ultimi anni) in discorsi sull’autonomia del sistema educativo. Ma lo fa solo
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economia Mediobanca, tramite Compass, ha acquisito il 96% di Linea, la terza società di credito al consumo, dopo Agos e Ducato, messa in vendita da Popolare di Vicenza e Banco Popolare
ROMA. Sono mesi cruciali per le società di credito al consumo. Nonostante un’economia che traballa e una crescita di settore non esplosiva, l’aria si sta surriscaldando tra alcune delle maggiori banche italiane, proiettate verso alleanze, fusioni e acquisizioni in tempi record per crescere dimensionalmente nel comparto del credito alle famiglie. È il nuovo risiko e quest’anno ha portato alla nascita di importanti joint venture. Ma la stagione del consolidamento è appena cominciata e future aggregazioni sono all’orizzonte. Anche perché Bankitalia ha dato segnali di apprezzamento e le parole pronunciate a luglio, in un’audizione al Senato sul Dpef, dal governatore Mario Draghi - nel credito al consumo - paiono avere innescato tra i grandi player una forma di reazione a catena.
Due le intese siglate negli ultimi mesi. Mediobanca, il salotto buono della finanza, è andata in cerca di spazi retail e tramite Compass ha acquisito il 96 per cento di Linea, società di credito al consumo messa in vendita da Banca Popolare di Vicenza e Banco Popolare, per 405 milioni (18 volte gli utili di Linea nel 2007), dando vita al terzo operatore del settore (8,5 per cento la quota di mercato). Accanto al “nuovo corso” di Piazzetta Cuccia, ci sono le mosse transnazionali di aggregazione. Il Banco Popolare ha stretto con Credit Agricole, leader in Europa, un accordo per l’integrazione delle rispettive
È iniziata la corsa all’acquisto nel settore dei prestiti alle famiglie
Risiko bancario per il credito al consumo di Serena Mattei società di credito al consumo, Agos e Ducato. L’intesa punta alla creazione di una joint venture detenuta per il 61 per cento da Sofinco, divisione del gruppo francese e per il 39 per cento dall’istituto guidato da Fabio Innocenzi. «L’accordo determina la nascita del primo operatore nazionale (14 per cento la quota di mercato), in grado di mettere a fattor comune i numeri e le risorse di Duca-
siness in grado di ottimizzare ogni possibile sinergia tra le joint due “anime” della venture».
Secondo gli esperti, tramite le economie di scala e di gamma ottenute, le fusioni possono aumentare l’efficienza e la capacità di competere. «In un mercato dove i margini sono andati riducendosi negli ultimi anni per via della concorrenza spie-
per un valore di 20,8 miliardi, pari ad oltre 30,8 milioni di operazioni (dati Osservatorio Assofin). In calo i prestiti finalizzati (-7,8 per cento); sopra la media i prestiti personali (+18,1 per cento) e verso la cessione del quinto (+18,7 per cento). Cifre a parte, l’attenzione del mercato sembra concentrata su Findomestic, preda tra le più appetite, perché leader indiscussa in Italia per quota di
I principali istituti italiani ed europei sono impeganti in alleanze e fusioni in un comparto in forte espansione. In soli tre mesi (gennaio-aprile) i prestiti erogati sono stati 20,8 miliardi di euro, pari ad oltre 30,8 milioni di operazioni to e di Agos» dice Rodolfo Cavallo, direttore generale di Ducato. «I due gruppi bancari – spiega Cavallo - hanno deciso di mettere insieme le proprie società specializzate che manterranno il proprio marchio e la propria rete distributiva ma che verranno armonizzate sulla base di un piano industriale comune e di un modello di bu-
tata – spiega Giuseppe Piano Mortari, direttore operativo di Assofin (l’associazione che raggruppa il 75 per cento delle società finanziarie italiana) – la politica perseguita è quella del contenimento dei costi operativi creando economie di scala attraverso fusioni e acquisizioni». Cifre alla mano: a gennaioaprile sono stati erogati prestiti
mercato (10,4 per cento), prima di venire scalzata da Agos-Ducato. In effetti la società, divisa al 50 per cento tra Intesa Sanpaolo e Bnp Paribas, non sa chi la controlla e questa situazione di stallo ne penalizza non poco lo sviluppo. A marzo 2007 saltò l’accordo tra i soci: Cetelem (gruppo BNP Paribas) e Carifirenze. Si dice che i francesi, su
questo fronte, male inghiottirono l’amaro boccone della fusione dei fiorentini con Intesa Sanpaolo e, puntando dichiaratamente a crescere in Findomestic, esercitarono una call sull’1 per cento del capitale della società per salire al 51 per cento. I fiorentini contestarono l’esercizio dell’opzione e da allora è partito un arbitrato che, come la tela di Penelope, non arriva a conclusione. In caso di fallimento della mediazione, o comunque di un esito negativo per i francesi, Bnp potrebbe decidere di prendere la via più diretta, accordandosi con Intesa Sanpaolo per l’acquisizione di Findomestic. Secondo Parigi, infatti, «la cessione della partecipazione di Cetelem in Findomestic è assolutamente esclusa», trattandosi di «un asset strategico e inalienabile».
In attesa che si sciolga il nodo gordiano sulla governance Findomestic, non si escludono altri fuochi d’artificio. Il mercato scommette sul possibile ingresso di un nuovo attore, magari estero, in Neos Banca, altra società con capitale Intesa Sanpaolo. Potrebbe essere, secondo qualche osservatore, il Santander per rafforzarsi in Italia. Fino a qualche tempo fa i rumors di Borsa “quotavano” un accordo degli spagnoli con MontePaschi, ma il presidente dell’istituto di credito senese, Giuseppe Mussari, ha smentito che una trattativa sia in corso. E ora su Neos Banca c’è chi è convinto di una vendita “spezzatino”, previo scorporo della rete di sportelli. I giochi sono aperti.
economia
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L’Ocse, per il 2008, prevede una crescita del Pil dello 0,5 per cento rispetto all’1,9 di Germania e Francia
Italia cenerentola dell’eurozona d i a r i o
di Alessandro D’Amato
d e l
g i o r n o
Ecomafia: un business da 18,4 miliardi Aumentano i reati contro l’ambiente (+27 per cento), crescono gli incendi dolosi, i clan salgono a 239 (36 in più rispetto allo scorso anno), il businnes delle ecomafie raggiunge i 18 miliardi e 400 milioni di euro. La Campania, sempre in testa per illegalità ambientali, ha il record di inchieste, mentre il Veneto occupa il secondo posto per infrazioni nel ciclo dei rifiuti. Questi i numeri di Ecomafia 2008, l’annuale rapporto di Legambiente sulla criminalità ambientale. Il bilancio dell’anno appena trascorso parla di 83 reati contro l’ambiente al giorno (oltre 3 reati all’ora).
IntesaSanpaolo, iniziativa per credito immigrati Nasce Primi, il Progetto Imprenditori Immigrati. Obiettivo dell’iniziativa lanciata da IntesaSanpaolo, Provincia di Milano, Fondazione Ethnoland e Fondazione Lombarda Antiusura è quello di agevolare l’accesso al credito e prevenire il ricorso alla cosiddetta ”finanza informale” da parte dei nuovi cittadini imprenditori. Sono quasi 250 mila le imprese di origine immigrata in Italia. «Favorire l’accesso al credito per quelle fasce sociali che lo meritano è alla base della nostra responsabilità sociale», ha commentato l’ad di IntesaSanpaolo, Corrado Passera.
Ue-15: commercio al dettaglio in calo icchiere mezzo vuoto o mezzo pieno? Quest’anno l’Italia crescerà, secondo l’Outlook di primavera dell’Ocse, appena dello 0,5 per cento rispetto all’1,1 per cento previsto a marzo e dall’1,3 per cento indicato a dicembre, per poi andare allo 0,9 per cento nel 2009 (il Tesoro aveva previsto una crescita dello 0,6 per cento). Una manna, se si pensa che fino a qualche tempo fa si paventava, da parte del Centro Studi Confindustria – e anche dall’economista Mario Baldassarri – un incremento del pil pari allo zero, mentre secondo l’Fmi non si sarebbe andati oltre lo 0,3 per cento. I motivi del – microscopico – passo in avanti li svela la stessa organizzazione parigina: la crisi finanziaria che è scoppiata con la crisi dei subprime negli Stati Uniti ha avuto pochi effetti diretti in Italia.
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I prestiti delle banche alle imprese italiane sono cresciuti ad un ritmo di circa 12 per cento fino alle fine di febbraio 2008, registrando così un aumento simile a quello osservato nel 2008 mentre i prestiti alle famiglie hanno rallentato. In più, l’indebitamento delle famiglie italiane anche se è cresciuto fortemente, è minore rispetto a numerosi Paesi dove il boom dell’immobiliare è stato più consistente e dove i prestiti ai creditori a rischio hanno finanziato in gran parte questa espansione. In questi ultimi due anni, secondo l’Ocse «la crescita dei consumi si è comunque realizzata compromettendo il tasso di risparmio alle famiglie che ormai si dovrebbe più o meno stabilizzare». Le buone notizie, però, finiscono qui: l’Italia rimane
comunque la cenerentola dell’eurozona: la Germania e la Francia, in tandem, metteranno a segno rispettivamente incremento dell’1,9 per cento e 1,8 per cento quest’anno, dell’1,1 per cento e dell’1,5 per cento l’anno prossimo. Niente di trascendentale, ma comunque il triplo di noi. E meno male, sottolineano gli economisti, visto che dalla crescita tedesca dipende parte della nostra, soprattutto per i semilavorati del ricco Nord-Est. E i pericoli non finiscono qui, visto che, sempre secondo le stime, i conti pubblici italiani potrebbero «deteriorarsi» nel 2008, proprio a causa del rallentamento della
I conti pubblici potrebbero «deteriorarsi» a causa del rallentamento della crescita e dell’aumento del deficit. Sul banco degli imputati il taglio dell’Ici e dell’Irap crescita e delle misure di aumento del deficit. Oltre che dal mancato aumento dell’avanzo primario. E sul banco degli imputati l’Ocse mette anche il taglio dell’Ici e dell’Irap, provvedimenti del governo Berlusconi. L’organizzazione prevede per quest’anno un deficit al 2,5 per cento e per il 2009 al 2,7 per cento (era all’1,9 per cento nel 2007): «ci si potrebbe pentire dei tagli alla pressione fiscale se i recenti miglioramenti nella riscossione e il conseguente allargamento della base fiscale non
saranno sostenuti», fanno sapere da Parigi. Il tasso di disoccupazione dovrebbe andare al 6,4 per cento, da 6 per cento registrato nel 2007, per poi arrivare nel 2009 al 6,6 per cento. «Mentre calava regolarmente dal 2002, la riduzione del tasso di disoccupazione ha segnato il passo alla fine del 2007, visto che si è attestato al 6 per cento nel terzo trimestre e che è rimasto a questo livello negli ultimi tre mesi dell’anno». E l’inflazione dovrebbe arrivare a toccare il picco del 3,6 per cento, mentre le previsioni sui tassi sono per la stabilità forse addirittura fino alla fine dell’anno prossimo. La ricetta per far fronte ai pericoli è sempre la stessa.
Il governo dovrebbe tenere sotto controllo la spesa e lasciare agire gli stabilizzatori automatici. E deve perseguire riforme strutturali che rafforzino la produttività, a cominciare dalle liberalizzazioni e dalle riforme della scuola e del mercato del lavoro. In più, «ulteriori ritardi alla piena applicazione della riforma delle pensioni dovrebbero essere evitati e i piani di medio termine per ridurre deficit e debito - scrive l’organizzazione - devono essere mantenuti, non da ultimo per gli incrementi della spesa legata all’allungamento dell’età». L’esatto contrario di quanto dice il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, il quale, commentando i numeri dell’Ocse, auspica che il governo lavori a politiche anticicliche che interessino le infrastrutture, l’energia e l’istruzione: «l’assorbimento del debito insieme ad un rilancio dell’economia si fa investendo. I soldi investiti non sono debito e non vanno nel rosso».
Vendite al dettaglio ancora in calo in aprile nei 15 Paesi della zona euro. Il volume del commercio ha visto una diminuzione dello 0,6 per cento. In marzo era già sceso dello 0,9 per cento. Lo ha rilevato Eurostat, l’ufficio europeo di statistica. Stesso andamento è stato registrato anche nell’Ue-27 dove il calo ad aprile è stato dello 0,4 per cento contro l’1,1 per cento di marzo.
Alitalia, compagnie aspettano Bruxelles La Association of European Airlines «aspetta il pronunciamento della Commissione europea su Alitalia prima di prendere qualsiasi decisione». Lo ha indicato la portavoce Francoise Humbert . L’Aea, di cui fa parte anche Alitalia, ha discusso il caso recentemente «a livello di alti dirigenti delle compagnie», ma non intende compiere mosse formali prima delle conclusioni di Bruxelles che dovrebbe aprire un’inchiesta per aiuti di Stato tra una settimana. Da quando Antonio Tajani, commissario Ue ai Trasporti, è entrato in carica non ha fatto alcuna dichiarazione sul caso Alitalia. Motivo: pur essendo a tutti gli effetti nel pieno delle sue funzioni, non è ancora passato al vaglio dell’Europarlamento.
Telecom Italia taglia il personale Telecom ha varato un piano che prevede la riduzione del personale in Italia di circa 5 mila unità entro il 2010 con una riduzione dei costi a regime per circa 300 milioni all’anno. Il piano, spiega una nota, comporterà oneri di ristrutturazione aggiuntivi per circa 250 milioni all’anno, rispetto ai 100 già previsti dal piano 2008, che si prevede impatteranno principalmente sui risultati di quest’anno e sui relativi target comunicati lo scorso 7 marzo.
AirOne acquista 24 aerei da Airbus AirOne procede nel programma di ampiamento e rinnovo della flotta e si prepara al grande ”decollo” sul lungo raggio. La compagnia di Carlo Toto e Airbus hanno firmato, infatti, un contratto che prevede l’ordine fermo d’acquisto per 24 aeromobili di lungo raggio per un valore di 4,8 miliardi di dollari. A questo si aggiungono opzioni per altri 20 velivoli che portano il valore della commessa a 8,6 miliardi di dollari. Ad annunciare l’accordo strategico sono stati ieri a Roma il patron di AirOne, Carlo Toto, e il presidente e ceo di Airbus, Thomas Enders.
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cultura Con il libro ”300” (a sinistra) Andrea Frediani ha bruciato cinque edizioni e oltre sessantamila copie in pochi mesi. Lo scrittore finalmente è tornato con un nuovo romanzo che sposta lo scenario dalla battaglia delle Termopili all’assedio di ”Jerusalem” (in basso).
on 300 guerrieri ha bruciato cinque edizioni e oltre sessantamila copie in pochi mesi. Andrea Frediani, conosciuto e apprezzato ormai da centinaia di migliaia di lettori come uno dei maggiori esperti di storia antica, torna in libreria con il suo secondo romanzo. Questa volta lo scenario si sposta dalla battaglia delle Termopili all’assedio di Gerusalemme. Ma la vicenda di quella che viene definita una delle pagine più sanguinose della storia della cristianità, fa solo da sfondo a un intreccio molto complesso che mescola storia a leggenda, documenti reali a vicende inventate, che vede sotto i riflettori di una narrazione serrata e coinvolgente ben otto protagonisti.
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Siamo nel 70 dopo Cristo. Un giovane membro della famiglia di Gesù mette in salvo dalla devastazione dei romani di Tito le memorie scritte da Giacomo che, secondo alcuni vangeli apocrifi, sarebbe il fratello del Salvatore. Oltre mille anni dopo, il manoscritto ricompare a Magonza nelle mani della comunità ebraica che intende usarlo come prova dell’assoluta innocenza dei giudei per la morte di Gesù. Queste le premesse su cui si apre il sipario del romanzo di Frediani. Nel 1099, mentre Gerusalemme è assediata dai crociati, il prezioso documento è di nuovo nella città, dove lo cercano i capi cristiani per impedire che il suo messaggio provochi una scissione all’interno della Chiesa. Sulle tracce del memoriale di Giacomo, volontariamente o involontariamente, vengono calamitate le sorti di otto personaggi molto diversi tra loro. Quelli di due sorelle ebree sopravvissute al pogrom crociato in Germania, quello di una prostituta semipagana e di un monaco cluniacense scampati all’epilogo della crociata di Pietro l’Eremita, quello di un emiro arabo e di tre reduci della battaglia di Manzikern. Lo sviluppo della storia, tra assalti e inseguimenti, descrizioni di vicende storiche e costruzione di tasselli di raccordo di pura fantasia, dimostra la grande padronanza dell’autore non solo nei confronti della storia del tempo ma anche la sua capacità di raccordarla con una trama romanzata assolutamente plausibile nella sua matrice fantastica che fa di Jerusalem uno dei romanzi italiani più interessanti e appassionanti degli ultimi anni. A pochi giorni dall’arrivo in libreria, l’ultima fatica di Andrea Frediani sta scalando rapidamente
Tra gli scaffali per Newton Compton ”Jerusalem”, il nuovo libro di Andrea Frediani
Addio Termopili, ora assediamo la Città Santa di Roberto Genovesi le classifiche dei libri più venduti. Al momento in cui scriviamo si trova al quattordicesimo posto ma siamo convinti che quando leggerete questo articolo sarà entrato senza fatica nella fatidica decina dei più venduti. Se
fronte alla consacrazione di una firma che si candida a diventare l’erede indiscusso di Valerio Massimo Manfredi. Il romanzo della maturità artistica, il romanzo della consacrazione, semmai ne avesse bisogno. Andrea Frediani, a diffe-
ma scandita da una costante ascesa. Oggi sono molte decine i suoi libri di saggistica che si possono trovare negli scaffali delle librerie, tutti pubblicati da Newton Compton, come Gli Assedi di Roma con cui nel 1998 vinse il premio Orient Express
Un romanzo avvincente, un intreccio complesso che mescola storia a leggenda, documenti reali a vicende inventate, che vede sotto i riflettori di una narrazione serrata e coinvolgente ben otto protagonisti con 300 guerrieri, Frediani aveva lanciato un sasso nello stagno di acque chete e paludose della narrativa di firma italiana mettendosi in luce come promessa dopo anni di successi nel settore della saggistica, con Jerusalem ci troviamo di
renza di molti colleghi italiani, non vende i suoi libri partecipando a talk show o frequentando i salotti buoni. Non è ”ammanicato”con le grandi firme delle terze pagine dei quotidiani più letti e non è ”amico”di qualcuno che conta. La sua è stata una gavetta lunga e lenta
come migliore opera di romanistica, o il recentissimo I grandi condottieri che hanno cambiato la storia. Insomma un autore affidabile che ha messo la sua firma negli ultimi anni sulle inchieste più interessanti pubblicate da testate come Storia e Dossier, Medioevo e Focus Sto-
ria. Il successo degli ultimi due libri è tutto farina del suo sacco, della sua professionalità e della sua convinzione nei propri mezzi.
Un autore che, per come lo conosciamo, è – per fare una metafora calcistica – ancora al cinquanta per cento della forma e destinato a riservare al suo pubblico, nuovo e vecchio, altre, piacevoli sorprese. Un autore che non seguirà mai la moda imperante fatta di romanzi autocelebrativi ma che continuerà a scavare tra le righe della storia antica per presentarla con un linguaggio chiaro e coinvolgente a tutti quei lettori che gli hanno spalancato in questi ultimi anni a suon di vendite le porte del meritato successo.
cultura
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Rivive nel libro di Anna Spissu la spietata caccia di Andrea Doria alla «spada vendicatrice dell’Islam»
La revanche del pirata Dragut di Filippo Maria Battaglia VI secolo, l’Europa è dilaniata da guerre intestine. Due i protagonisti principali pronti a spartirsi il continente a colpi di battaglie. Da un lato c’è Francesco I di Francia, figlio di Carlo di Valois e di Luisa di Savoia. Dall’altro Carlo di Gand, poi noto come Carlo V, re di Spagna e imperatore del Sacro Romano impero, quello in cui – per usare le sue stesse parole – «il sole non tramonta mai». Tra i due, non scorre buon sangue. I veri problemi iniziano intorno al 1519.
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Da poco più di tre anni Carlo è diventato re di Spagna, ora mette le mani anche sul trono d’Austria. E il 28 giugno dello stesso anno, con l’appoggio dei potentissimi banchieri Fugger, è eletto imperatore del Sacro Romano Impero. Prevale sull’altro candidato, Francesco I. Di lì in avanti e per poco meno di sei lustri, tra i due sarà una continua serie di colpi di scena, con tanto di ricorso a mezzi leciti e meno leciti pur di prevalere. È in questo contesto assai turbolento che Anna Spissu decide ora di raccontare la storia del pirata Dragut, meglio noto come la «spada vendicatrice dell’Islam» (Il pirata e il condottiero, Corbaccio). Già, perché in quegli anni l’impero ottomano gioca un ruolo decisivo negli equilibri geopolitici europei. A raccontarci parte di quella storia è un altro protagonista del romanzo, il genovese Andrea Doria, l’ammiraglio che dà la caccia a Dragut e insie-
me il suo primo rivale: «Era tanti anni fa, ma nessuno in Europa può dimenticare quando Francesco I ha chiamato i turchi per chiudere in una morsa di ferro e fuoco i possedimenti di Carlo V. L’Empia Alleanza, l’hanno chiamata. Gli eserciti francesi avevano invaso l’Italia a settentrione e la flotta ottomana portava devastazione a sud della Penisola». A capeggiarli c’è Khayr al-Din, meglio noto come “Barbarossa”, al quale – fa dire sempre Anna Spissu all’ammiraglio genovese - «aveva promesso onori e ricchezze». Ma Barbarossa non è «una donnicciola. È un uomo d’azione, sanguigno e vendicativo». E del suo stesso stampo è Dragut, anche lui comandante navale ottomano, poi suc-
faccia». Niente da fare. A catturarlo è suo nipote Giannettino.
«Un’infamia» per il Dragut personaggio romanzato, anche perché il giovane è «uno che non valeva niente». «C’è l’ho ancora negli occhi, quel momento. Quel maledetto è davanti a me, con l’aria del vincitore e la spada al fianco. Mi gettano a terra, legato, e lui mi schiaccia la faccia col piede, lo fa così forte che mi si apre la bocca e il sangue mi cola dalla testa. Il bastardo grida, si gloria delle sue parole. Non le capisco e allora qualcuno le traduce nella mia lingua. Dicono di ripeterle adesso, davanti a lui, le bestemmie che urlavo giù, nella stiva. Sento la voce di un uo-
Dopo una prigionia di quattro anni, il corsaro, ormai considerato del tutto innocuo, viene venduto come schiavo e riscattato da Barbarossa. Torna libero in Turchia e nel 1549, a Rapallo, fa la sua prima incursione cessore dello stesso Khayr al-Din. Grazie alle sue azioni, diventerà viceré di Algeri, signore di Tripoli e di al-Mahddiya per conto di Solimano il Magnifico.
Nel romanzo è lui il principale obiettivo di Andrea Doria, anche perché proprio con lui ha un vecchio conto in sospeso. I suoi problemi con i genovesi iniziano nel 1540, a Gozo, di ritorno da una scorreria a Pantelleria. È accerchiato, sconfitto, catturato. «Mi uccideranno per primo» - gli fa dire la Spissu nel romanzo - «lo farà l’Ammiraglio Doria, il Principe, come lo chiamano. Ci incontreremo. Saremo faccia a
mo e di un ragazzino che le ripete». Il pirata riconosce l’accento: è la «leggera inflessione cantilenante di Selim», un mozzo dodicenne a cui nei mesi precedenti si è affezionato. «Selim, ragazzo, hanno preso anche te!» si duole Dragut. E invece no. Presto il suo dispiacere si trasforma in rabbia per essere stato circuito: «Non lo guardo in faccia, gli guardo le mani e i piedi senza catene.“Se mai verrà il giorno della vendetta, saranno proprio quelle
Fresco di stampa, il libro di Anna Spissu ”Il pirata e il condottiero” (in alto la copertina) racconta la storia del pirata Dragut (a destra), meglio noto come la «spada vendicatrice dell’Islam», attraverso un altro protagonista del romanzo, il genovese Andrea Doria (a sinistra), l’ammiraglio che lungo tutta la narrazione dà la caccia a Dragut
parti che ti taglierò per prime. Lo farò io, Thargoud in persona”». E il momento della vendetta, quantomeno nel romanzo, arriverà. Anche perché, come ci ricordano la cronache e i libri di storia, il pirata resterà quattro anni prigioniero, incatenato come galeotto della nave ammiraglia. Poi, ormai considerato del tutto innocuo, verrà venduto come schiavo e riscattato dallo stesso Barbarossa. Tornerà libero in Turchia.
Di lì si preparerà alla revanche e a Rapallo, nel 1549, farà la sua prima incursione. «E’ notte. Una tranquilla notte di luglio attraversata dal vento che arriva a piccole folate da sud e muove le foglie dei cespugli vicino alla spiaggia. Ci sono solo respiri e sogni... Poi il rumore cambia ritmo, centinaia di remi fendono l’acqua». Arriva l’ora dell’attacco, della scorreria: Dragut e i suoi razzieranno oggetti sacri e religiosi e riusciranno a scamparla. «C’è l’ho fatta. Quel vecchio bastardo di Andrea Doria sarà felice di sapere che sono andato vicino a casa sua. Armi le sue galere per inseguirmi, lo aspetto» gli fa dire Anna Spissu. Nel romanzo il duello tra i due continuerà, intrecciandosi con vicende di pura immaginazione. Nella storia Dragut morirà nel 1565 dopo un assedio al Forte di Sant’Elmo, nell’isola di Malta. E il galeotto incatenato da Giannettino resterà alla memoria come uno dei più arditi pirati di sempre.
il caso
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McMafia racconta il lerciume globalizzato a est dell’Europa Al confronto, il terreno della camorra è un microcosmo
Tutto il mondo è Gomorra di Pier Mario Fasanotti rmai sono in tanti a sbagliarsi. La camorra la chiamano Gomorra. Il titolo del libro di Roberto Saviano (edito dalla Mondadori), diventato film premiato a Cannes, ha un significato ampio. Che include organizzazione criminale, corruzione, delinquenza, esecuzioni mafiose, piccoli stati nei grandi Stati. Gomorra, come Il Padrino degli anni Settanta, sta figliando nelle sale della fantasia: molti editori son ben lieti di dare alle stampe romanzi che abbiamo come sfondo qualcosa che assomigli alla camorra. Lo stesso vale per le fiction televisive. Il rischio è che si alimenti ancora, attorno ai boss della mafia, un alone di eroismo. Fascino nero, ma pur sempre fa-
O
geografica dove pullulano migliaia di paesi e città come Casal di Principe, tornata alla ribalta in questi giorni per il connubio mondezza-sangue.
IL VIAGGIO DI LUDMILLA Una bella ragazza moldava che sogna di andare in Israele, dove c’è il sole e il mare. Una sua amica le fornisce documenti e indicazioni di viaggio. Ludmilla non sa che l’amica è una reclutatrice di prostitute. Treno per Odessa, poi a Mosca dove viene rinchiusa assieme ad altre donne in un appartamento. Qualche giorno dopo all’aeroporto di Domodedovo.
su un camioncino. «Continuammo il viaggio per un po’ e poi ci obbligarono a strisciare sotto una staccionata. Di là c’erano altri beduini che ci presero, ma a quel punto fummo avvistati da una pattuglia israeliana di confine, che ci inseguì a gran velocità. Io speravo tanto che ci raggiungessero, ma i beduini cominciarono a spararci ai piedi, e
Nel suo saggio-racconto il giornalista della Bbc Misha Glenny tratteggia una lurida cartina geografica dove pullulano migliaia di paesi e città come Casal di Principe e dove tutto è permesso scino. Conviene dunque attingere alle informazioni vere. È appena uscito un libro che forse avrebbe potuto scriverlo Saviano se solo si fosse spostato da Napoli e provincia. E dimostra come il terreno della camorra è un microcosmo a confronto con il lerciume globalizzato dove tutto è permesso, dagli omicidi alla schiavitù sessuale, dal commercio illegale al silenzio ufficiale su fatti tremendi che accadono a est dell’Europa. S’intitola McMafia (Mondadori, 432 pagine, 18 euro) e lo ha scritto Misha Glenny, un giornalista che per conto della Bbc ha osservato sul campo le disastrose conseguenze del crollo dell’Unione Sovietica, i conflitti nei Balcani, l’attività dei nuovi vory (ladri e padroni) di Mosca, l’arricchimento selvaggio dei cinesi del dopo Mao. Quello di Glenny è un saggio-racconto impressionante. È una lurida cartina
«Sei davvero sicura di quel stai per fare?» le chiede un funzionario della dogana, un compassionevole. Lei non ha scelta perché uno dei gangster le è dietro. All’arrivo al Cairo, alcuni egiziani la portano in albergo. La mattina dopo viene consegnata a un gruppo di beduini e rinchiusa in una grotta. Di solito i beduini stuprano le donne di cui fanno commercio. Proposte sessuali gliene fanno, ma lei rifiuta. Una delle sue compagne di viaggio tenta di fuggire e quelli le infliggono quella brutta punizione molto nota nell’Irlanda del Nord: le sparano alle ginocchia. Ludmilla e altre sono abbandonate nel deserto. Poi sono nuovamente caricate
così dovemmo correre più veloci che potevamo verso l’altro camioncino che ci aspettava»: questo il racconto della ragazza. Altra tappa, un albergo del Negev. Ludmilla è messa in mostra davanti a potenziali acquirenti: «Gli uomini parlavano quasi sempre in ebraico per non farsi capire,
ma quando ci davano ordini parlavano correntemente in russo». Le ordinano di spogliarsi. Lei rifiuta. E loro: «Qui la parola “rifiutarsi”non esiste. Hai capito?». Al suo arrivo a Tel Aviv Ludmilla è già passata per mani moldave, ucraine, russe, egiziane, beduine, russo-ebraiche e israeliane autoctone. Tutti
l’hanno trattata con estrema brutalità. Ludmilla entra in un bordello dove è obbligata a lavorare per dodici ore al giorno. È riuscita a scappare una volta, ma il poliziotto di turno l’ha restituita al protettore. Un’altra fuga: Ludmilla si consegna a un commissariato più lontano, dove è trattata come immigrata clande-
il caso
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stina e rinchiusa in carcere.
GLI EBREI RUSSI - Nella prima metà degli anni Novanta un numero incredibile di russi prese la cittadinanza israeliana. Molti erano “Sette Stelle”, ossia i più vicini alla cerchia di Boris Eltsin. Cominciò così la “colonizzazione” di varie zone israeliane di oligarchi e boss mafiosi russi. Il Paese era considerato il posto ideale per investire o ripulire il denaro sporco. Il sistema bancario era organizzato in modo tale da incoraggiare la aliyah (immigrazione di ebrei da tutte le parti del mondo). La polizia israeliana calcola che nei 15 anni seguiti al crollo del comunismo, questi russi abbiano riciclato tra i cinque e i dieci miliardi di dollari attraverso banche locali. Fecce dell’umanità? Per Gerusalemme erano soprattutto fratelli ebrei. La polizia israeliana si è poi resa conto di aver cresciuto in patria una genia di malavito-
duttrice, soprattutto Amsterdam) si dirama fino agli Usa, ha il suo fulcro proprio in Israele: «Le organizzazioni israeliane sono la principale fonte di distribuzione ai gruppi americani». Altre informazioni di prima mano ci fanno sapere che i gangster israeliani spadroneggiano a Las Vegas. Scrive l’autore di McMafia: «Il grado di internazionalizzazione raggiunto dalle mafie, e il ruolo che in questo ebbero a giocare gli israeliani non sarebbero stati pensabili senza la globalizzazione e in particolare senza un suo aspetto: la deregulation dei mercati finanziari». A poche migliaia di chilometri da Israele pulsa il cuore delle operazioni di riciclaggio: gli Emirati Arabi Uniti.
CECENI - Sera del 30 aprile 1994, Woking, cittadina del Surrey inglese. Un tizio scende dalla sua Toyota e suona alla porta di una graziosa villetta a schiera. Apre Karen
250 mila dollari per modernizzare le raffinerie della Cecenia, e di avviare altri affari più o meno puliti (in ballo c’erano duemila missili Stinger terra-aria). Alison, per l’intervista ai ceceni, chiese al marito Gacic di fare da intrerprete. Siccome l’armeno non aveva lavoro stabile e se l’aveva era sempre al limite del lecito, Alison lo raccomandò a quelli. Ma i rapporti tra armeni e ceceni si deteriorarono. Si mise in moto la giustizia inglese e un pm britannico sostenne che Gacic aveva scoperto che i missili Stinger erano destinati all’Azerbaigian e lì essere usati contro la sua patria. Pare che Gacic avesse informato alcuni funzionari del Kgb armeno e che da Los Angeles, capitale della diaspora armena negli Usa fossero partiti due sicari. Fatto sta che i fratelli ceceni furono ammazzati in modo orribile. Ecco l’origine della vendetta dell’uomo con la pizza.
Il crollo dell’impero sovietico ha consentito la creazione di un’autostrada del crimine a più corsie, che viaggia tra Balcani, Pakistan, Cina, Afghanistan Reed alla quale l’uomo che tiene in mano una scatola piatta chiede: «Ha ordinato una pizza?». Karen non ha tempo di rispondere: il finto fattorino estrae una pistola calibro 38 e la colpisce più volte alla testa. Karen era una geofisica che si occupava di dati sismici. Non doveva essere lei la vittima, bensì la sorella Alison Ponting, produttrice della Bbc World Service. Settimane più tardi si saprà che l’uomo della pizza era lì su istigazione degli uomini di Dzochar Dudaev, presidente della Repubblica cecena. Perché? Bisogna fare un passo insi. Ci furono anche sollecitazioni del presidente americano Clinton in questa direzione. Ma la mafia locale si è ben radicata, gestisce droga, armi, gioco d’azzardo, soldi sporchi, prostituzione. Spiega un comandante dell’esercito: «L’intera questione del terrorismo palestinese ci impedisce di mettere in campo molte
A sinistra, la copertina americana e quella italiana di McMafia. Qui sopra il via vai della gente in una strada di Pechino. In alto, la Cattedrale di San Basilio sulla piazza Rossa di Mosca
risorse nel settore del crimine organizzato; stiamo sempre arrancando». In un sondaggio del 2003, il 38 per cento la popolazione israeliana diceva di avere «un’opinione molto negativa» della comunità russa. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato americano, il traffico di ectasy, che dall’Europa (principale pro-
dietro. Alison aveva sposato Gacic, un affascinante armeno. Un anno e mezzo prima dell’assassinio di Karen, due fratelli ceceni erano giunti a Londra con l’incarico conferito da Dudaev di confezionare passaporti e banconote per lo stato ceceno, di trattare con un americano il prestito di
RAMIFICAZIONI -
Il crollo dell’impero sovietico ha causato sacche di povertà, eccezionali arricchimenti da parte di alcuni gruppi, instabilità sociale e allentamento dei controlli istituzionali. In pochi anni furono creati numerosi canali per il contrabbando a favore del paradiso consumistico dell’Unione Europea. A pensarci fu soprattutto l’immenso potere del crimine organizzato dei Balcani. È qui che inizia quel “cuscinetto di instabilità” che ha propaggini in Pakistan e in Cina. Insomma una nuova Via della seta, un’autostrada del crimine a più corsie che collega anche regioni turbolente come l’Agfanistan. A viaggiare sono persone, stupefacenti, armi, valuta e quant’altro. Si sono create “economieombra”, più vicine ai poteri legali di quanto uno possa immaginare. Si legge in McMafia:«Questa area economica priva di regole è una palude che contiene sostanze nutritive ad alto contenuto proteico per attività destinate a minare la sicurezza di tutti. Certamente il terrorismo internazionale si pasce delle medesime sostanze, ma in termini di miseria e morti il terrorismo è un fenomeno primitivo e relativamente insignificante».
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Scuola, è giusto tornare agli esami di riparazione? GLI ESAMI? SERVONO PER NON CONFONDERE LA TAVOLA DI MENDELEEV CON UN... RISTORANTE! «Evvai, adesso posso anche studiare di meno, tanto non mi rimandano più, e vuoi che mi boccino per due materie in cui tutto sommato ho 5?». Ecco. Confesso che questa è stata sin da subito la mia reazione alla notizia dell’abolizione dei famigerati esami di riparazione. Sono una ragazza classe 1979, appartengo dunque a quella categoria di studenti che s’è beccata gli esami a settembre per un solo anno, e io mi presi matematica al primo del Liceo scientifico Plinio Seniore di Roma. Terribile. Giugno e luglio con un professore che sembrava la mia ombra, agosto a fare un esercizio dietro l’altro con mio padre e a settembre la prova scritta e quella orale. Ora, viste come sono andate le cose (passai l’esame e conclusi il liceo perfettamente in cinque anni), tutto sommato non mi posso lamentare. Ma adesso che ho quasi trent’anni, che della matematica ricordo solo qualche nozione e solo quelle imparate proprio in quell’estate, e che vedo in giro un’ignoranza imbarazzante, penso che sarebbe sacrosanto ritornare agli esami di riparazione. Magari si potrebbe fissare le prove a fine luglio, dopo due mesi intensi di studio e ripasso (ad agosto è
LA DOMANDA DI DOMANI
Gli Ogm possono rappresentare una soluzione per la fame nel mondo? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
difficile che un adolescente si applichi più di tanto). Ma sarebbe importante ripristinarli. Senza dubbio io oggi ricorderei anche cosa sia una proiezione ortogonale e non penserei che la tavola di Mendeleev sia il nome di un noto ristorante dell’Ucraina dell’est. Cordialità.
Gaia Miani - Roma
LA PAURA DI ”GIOCARSI” UN’ESTATE, SI SA, MOBILITA IL GIOVANE E LO RENDE PIÙ ISTRUITO Proprio non ci riesco. Ho provato e riprovato a trovare anche un solo motivo per contrastare il ritorno degli esami di riparazione a settembre nelle scuole. Niente, neanche uno. Sono forse l’unico modo per far tornare i giovani allo studio. La paura di ”giocarsi” un’estate o di essere bocciati, si sa, ”mobilita il giovane” e lo rende più istruito.
Amelia Giuliani - Potenza
RICORDO IL SOSPIRO DI SOLLIEVO DI MIA FIGLIA: SEMPRE PROMOSSA E SENZA IL MINIMO SFORZO Indubbiamente più che giusto. I ragazzi di oggi, nessuno può in tutta coscienza negarlo, sono piuttosto ignoranti e credo che questo sia dovuto anche all’assenza degli esami di riparazione. Ho vissuto in pieno con mia figlia il passaggio dalla loro abolizione all’istituzione dei cosiddetti debiti formativi e ricordo bene il sospiro di sollievo di molti dei suoi compagni a fine anno scolastico. Certamente non è solo colpa dei provvedimenti del ministero dell’Istruzione, anche i professori hanno enormi responsabilità. Prendiamo i famosi corsi di recupero per rimediare ai debiti formativi. Mia figlia un anno ne incassò uno in greco e un altro in scienze. Volete sapere quante ore di corso di recupero straordinario le hanno fatto i professori? Nessuna. Niente di niente. Risultato: promossa con la minima sufficienza del 6 in entrambe le materie, senza che lei avesse realmente recuperato le lacune. Se fosse stata rimandata a settembre sarebbe stato diverso: prima ripetizioni estive, quindi l’esame e poi via, a pedalare con lo studio per non ripetere l’esperienza l’anno successivo.
ASPETTANDO GISCARD In relazione alla possibile costituente di centro, credo sia interessante ricordare come la Francia uscì dalla leadership di De Gaulle senza per questo consegnare il paese alle sinistre fino a Mitterand. E’ in sostanza la storia di un partito, l’Udf, nato nel ’78 come Confederazione di 5 partiti di ispirazione democristiana, socialdemocratica, liberale ed europeista. La sesta componente degli Aderenti diretti dell’Udf, raccoglieva coloro che aderivano direttamente alla Confederazione e non ai singoli partiti. E’ stata una confederazione decisiva per la modernizzazione della Francia nel dopoguerra, favorevole al decentramento e più determinante per l’europeismo dei gollisti. Il merito della federazione moderata fu di Valéry Giscard d’Estaing, che intuendo una possibile rimonta delle sinistre alle legislative dello stesso anno, riuscì a far nascere un polo moderato distinto dai gollisti ed autonoma sia da destra che da sinistra. E’ come se l’umore elettorale verso il governo Berlusconi non fosse così favorevole come lo è oggi e la sinistra di Veltroni avesse
CASA VERDE CASA
A Lucban, città nelle Filippine, ogni anno si celebra una festa in onore del protettore dell’agricoltura. Per propiziare il raccolto, melanzane, foglie di palma, banane e fagiolini vengono appesi alle facciate delle case, arricchite anche da decorazioni di carta composte da riso e acqua
A NATALE DIRANNO CHE IN USA È FINITA LA DEMOCRAZIA La maggioranza della stampa e delle tv italiane (e non solo queste) ora sono per Obama: alcuni mesi or sono partirono per la Hillary Clinton, lasciarono la Clinton per l’altro democratico (Veltroni parafrasò lo slogan per le elezioni in Italia) quando videro che aveva meno fascino, ma sui programmi silenzio assoluto. Per non parlare del candidato repubblicano John McCain, come se non esistesse. Accadde la stessa cosa per le elezioni di Bush e prima ancora per Reagan. L’Italia, come informazione equidistante, è campione: sembra... l’ultima stella degli Usa, come la Liberia, o peggio, senza diritto al voto che conta, come Portorico. Speriamo ci dicano almeno a Natale che ha vin-
dai circoli liberal Greta Gatti - Milano
molte probabilità di vincere. Questo sembra ridicolo, ma è stato incauto pensare molte cose sia pochi gironi prima della crisi provocata da Mastella, che pochi giorni prima dell’ultimo esito elettorale. Come credo non sia ridicolo pensare che se An si scioglierà nel Pdl, farà inclinare il suo asse su posizioni similgolliste. Tuttavia non si intravedono ancora progetti e idee risolutive. Non è questione solo di infrastrutture, minori, tasse e clandestini. Questi sono temi da terapia intensiva per evitare il decesso, progetti per il futuro. I termini più usati da D’Estaing erano libertà, giustizia e unità. Per lui una società unita è l’esito immancabile della lunga evoluzione dell’Occidente cristiano, poi filosofico. L’unità deriva dall’uguaglianza che non è livellamento, ma è impedire che per gli individui handicap e privilegi non si riproducano automaticamente e interrottamente di generazione in generazione. L’ineguaglianza economica deve discendere da ineguaglianza di sforzi, ingegni, rischi e responsabilità, ma tenendo conto che vi è uno scarto sociale massimo che ricompensa le attività al di là del quale il tessu-
to il repubblicano: diranno che negli Usa è finita la democrazia.
L. C. Guerrieri - Teramo
MISFATTI E VIOLENZE ALLA SAPIENZA DI ROMA A Roma, alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università La Sapienza, gli studenti e purtroppo anche alcuni loro cosiddetti docenti hanno goduto di un fiammeggiante ingresso nell’estate. Sono volate parole grosse e sopra le righe, ci sono state gravi minacce, violenze e botte. Il tutto per impedire un convegno sulle foibe autorizzato dal Preside. Proprio vero: non viene mai meno la luce e non tramonta mai il sole sulla tolleranza, la temperanza, il rispetto degli altri, il senso del limite e la saggezza umana.
Pierpaolo Vezzani
to sociale si lacera. Ma c’è un paese europeo più lacerato socialmente del nostro? Dove finiremo se non vi si porrà rimedio? Il quotidiano liberal è posizionato in modo ideale per essere oggi l’unico in grado di essere di riferimento e riportare alla ribalta le anime della grande cultura storica liberale, repubblicana, socialdemocratica e democratico cristiana. Uniche culture nei fatti della storia, autenticamente di libertà, giustizia e unità per gli italiani. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI ROMA - VENERDÌ 6 GIUGNO 2008 Ore 11 a Palazzo Ferrajoli (piazza Colonna) Riunione nazionale dei presidenti e dei coordinatori regionali dei Circoli liberal. ATTIVAZIONE Il coordinamento regionale della Campania ha attivato il numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio: 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Mi trattate come solo i «grandi morti» Caro signore, come ringraziarvi dignitosamente per questa nuova prova della vostra amicizia? Voi mi venite in aiuto in un momento in cui sono bistrattato e vilipeso da un buon numero di critici seri e sedicenti tali. Quei signori vogliono solo cose grandi, mentre io ho ingenuamente consegnato tutte le opere concluse, senza usare il metro per verificare se stavo dentro le misure prescritte per giungere convenientemente alla posterità, l’accesso alla quale dubito che quei signori mi avrebbero facilitato. Avendo avuto la fortuna di piacervi, mi consolo dei loro rimproveri.Voi mi trattate come si trattano solamente i «grandi morti». Mi fate arrossire compiacendomi molto, noi siamo fatti così. Addio caro signore. Pubblicate più spesso. Mettete del vostro in tutto quel che fate e gli amici del vostro talento non si lamenteranno che della rarità delle vostre uscite.Vi stringo la mano molto cordialmente. Eugène Delacroix a Charles Baudelaire
QUALCHE PRECISAZIONE A UN ARTICOLO DI LIBERAL Il racconto Non Votò la Famiglia de Paolis, scritto da mio padre Uguccione Ranieri e da Donato Martucci è stato descritto in termini lusinghieri da Filippo Battaglia nel suo articolo di sabato 31 maggio. In realtà si tratta di un brillante pamphlet di fantapolitica che diede, a detta di molti, un contributo non piccolo alla vittoria anti-comunista del 18 aprile. La storia è l’immaginaria vicenda dei De Paolis, famiglia della piccola borghesia romana, di convinzioni moderate, i cui membri tuttavia, per distrazione o faciloneria, nel giorno delle elezioni politiche del 18 aprile ebbero la debolezza di preferire una gita in campagna al dovere civico di votare, indirettamente contribuendo alla vittoria del Fronte Popolare. Nei mesi successivi la loro corrispondenza con un parente lontano raccontava vicende sempre più cupe di intimidazione, processi, condanne, via via che l’Italia scivolava verso la dittatura “popolare”. L’autore del pezzo, però, stenta
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
5 giugno
a riconoscere la paternità del pamphlet ai due autori, definiti “giovanotti del Ministro degli Esteri”. In realtà si trattava di due persone ben conosciute nell’ambiente giornalistico romano, che poi avrebbero prodotto insieme altri lavori. Mio padre Uguccione è stato, in particolare, scrittore, direttore dell’Istituto Italiano a New York, giornalista e saggista. Il libretto venne concepito nel febbraio 1948 e fu pubblicato poco dopo su Oggi e poi, sotto forma di volumetto, per Longanesi. Se di una regia si deve parlare, senza negare un interessamento di Longanesi, probabilmente bisognerebbe risalire ad Andreotti, a cui Martucci fece leggere il manoscritto e che ne fiutò il valore propagandistico (ne furono stampate duecentomila copie). Tale fu il successo, che l’illustre giornalista Giovanni Ansaldo intitolò un pezzo uscito dopo le elezioni, “I De Paolis hanno vinto”.
Ruggero Ranieri
1783 I Fratelli Montgolfier dimostrano in pubblico la loro montgolfière 1900 Guerra Boera: I soldati britannici prendono Pretoria (Sudafrica) 1947 Piano Marshall: Il Segretario degli Stati Uniti George Marshall propone l’aiuto economico per i paesi d’Europa 1963 Il Segretario di Stato alla Guerra del Regno Unito, John Profumo, dà le dimissioni a causa di uno scandalo sessuale 1967 Guerra dei Sei Giorni: l’aviazione israeliana lancia attacchi simultanei contro le forze aeree di Egitto, Giordania e Siria 1968 Sirhan Sirhan spara a Robert F. Kennedy all’Ambassador Hotel di Los Angeles, California. Kennedy morirà il giorno dopo. 1984 Il Primo Ministro dell’India, Indira Gandhi, ordina un attacco al Tempio d’Oro, il luogo santo dei Sikh
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
PUNTURE Il ministro dell’Interno è per il reato di clandestinità, il presidente del Consiglio dice no. Per ora sembra che clandestino sia il governo.
Giancristiano Desiderio
“
Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere sempre nuovi occhi MARCEL PROUST
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di RAGIONI ESOTERICHE E RAGIONI ESSOTERICHE Ci sono almeno un paio di ragioni per cui una società organizzata intorno ad istituzioni di mercato abbia buone possibilità di evolvere e raggiungere uno status invidiabile di prosperità. Solo della prima di queste ragioni è lecito parlare con un certo orgoglio, quindi sparo subito tutte le mie cartucce. Una società informata ai principi borghesi fornisce i ”giusti” incentivi affinchè si operi alacremente al servizio del prossimo. Sebbene in essa la fortuna resti elemento ineliminabile, il merito e il talento vengono spesso premiati quando non esaltati. Cio’ fa sì che merito e talento fioriscano e diano slancio alla costruzione di un bene comune. Quando parlo di ”giusti incentivi”mi riferisco ad incentivi corretti per un soggetto dotato di una natura che non puo’ escludere un certo egoismo. Siamo dunque distanti da deleterie farneticazioni utopistiche. Ma veniamo alle note dolenti. La seconada ragione è infatti piuttosto infamante e da almeno un secolo ad essa non si puo’ più nemmeno accennare. Parlo del darwnismo sociale, un processo che si coniuga bene con le strutture del capitalismo. Come avviene questo connubio? Semplice: le istituzioni capitalistiche e il successo economico creano disparità di dotazioni tra i componenti della società. Cio’ fa sì che nella ”lotta per la sopravvivenza” esistano individui più attrezzati di altri e destinati a prevalere. Se così è, nel tempo, la selezione formerà gruppi sociali sempre più idonei al fine di perseguire ricchezza e sviluppo. Le generazioni successive saranno spurgate della parte più ”difettosa” del corpo sociale, della parte più aliena dal successo economico, della parte meno adatta a produrre ricchezza. Oggi questo non
è più vero in quanto la nostra sensibilità non ci consente di accettare questi processi un tempo abituali ed esemplificabili in molte forme. Esempio, tanto per capirsi: su cinque concepimenti il ricco aveva tre nascite e mezzo, il povero neanche due. Evidentemente cio’ era implicato alla disparità nelle dotazioni sanitarie e nell’ alimentazione. E’ evidente che imponendo una ”sanità universale” il processo darwiniano venga smorzato: tutti avranno 2 nascite e mezzo. Il ruolo che il darwinismo sociale ha giocato nel creare le strabilianti condizioni dell’ umanità contemporanea è sottaciuto per pudore ma secondo Gregory Clark è stato di gran lunga superiore rispetto al ruolo delle ”giuste istituzioni”. Queste ultime hanno cominciato a far sentire il loro influsso solo negli ultimi due secoli e hanno potuto farlo grazie al fatto di agire nei confronti di un’ umanità ”selezionata”. Il darwinismo sociale opera ovunque ma è particolarmente efficiente nelle società con un germe istituzionale capitalista. Guardando alla storia dell’ uomo questo germe è sviluppato più nelle società agricole rispetto a quelle dei cacciatori e raccoglitori. In particolare dalle società agricole europee e asiatiche. Contano poi anche una serie di fattori legati ai costumi e alle contingenze. Ma qui le cose si complicano e bisogna cedere la parola all’esperto. A GM, per esempio. Il lavoro di GM, con la mole e la passione dirompente di chi scrive ”il libro della vita”, si prodiga per sostenere che il darwinismo sociale si è fatto sentire in Europa molto più che altrove. E proprio a cio’ l’ Europa deve le fortune che l’ hanno condotta a conquistare il mondo fino all’ imposizione ovunque del suo modello democratico e liberale.
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PAGINAVENTIQUATTRO Lo scrittore inglese a Roma per presentare il nuovo libro. Storia di due adolescenti alle prese con una gravidanza inaspettata
Sorpresa:i ragazzi di Nick Hornby scelgono di Nicola Procaccini guardarlo da vicino, la sua faccia da vecchio bravo ragazzo ricorda qualcuno, sarà la testa rasata, sarà il viso sbarbato… poi abbassi gli occhi sul suo nuovo libro Tutto per una ragazza, ed un brivido corre lungo la schiena: Nick Hornby sembra Federico Moccia. Fortunatamente il titolo italiano non rende giustizia all’ultima opera dello scrittore inglese. Intendiamoci, davvero nulla contro il nostro re del best seller adolescenziale, ma il vecchio Nick è un mito. E lo è fin dal 1992, dal suo esordio letterario con il romanzo Fever Pitch, un testo sacro per i tifosi di calcio di tutto il mondo. Da allora Hornby ha inanellato una serie impressionante di successi letterari, alcuni dei quali si sono trasformati in film di grande successo. Da Alta fedeltà con John Cusack ad About a boy con Hugh Grant, allo stesso Fever Pitch, tradotto in Febbre a 90 gradi, che lanciò nel firmamento holliwoodiano l’attore Colin Firth.
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Ieri Hornby era qui, in una Roma blindata a causa del vertice Fao, per presentare ai giornalisti italiani il suo ultimo libro, già campione di vendite non appena è comparso sugli scaffali delle nostre librerie. Non è stata la solita conferenza stampa, è stata molto di più: una sfida lanciata da un vecchio fan di Tony Blair (un pulpito insospettabile) al politically correct. Proprio come il suo libro. Tutto per una ragazza è la storia di due adolescenti, Sam ed Alicia, con diversi problemi a casa, ma tutto sommato sereni, verrebbe da dire normali, se non entrassimo subito in un campo minato. Sam ed Alicia si innamorano e fanno sesso, ma l’inesperienza e l’entusiasmo giocano loro un brutto tiro: lei rimane incinta. Nonostante i consigli prima e le insistenze poi dei suoi genitori, Alicia non ne vuole sapere di abortire e sceglie di portare avanti la gravidanza. Nascerà Rufus, detto Ufo. E per i due ragazzi verranno tempi difficili, costretti a far convivere la propria adolescenza con l’enorme responsabilità di crescersi un figlio. Nonostante la fragile durezza di Alicia, nonostante il panico sincero di Sam, nonostante tutto, non rimpiangeranno mai la loro scelta pro life. Ha buon gioco la giornalista a chiedere ad Hornby il perché di questo libro realizzato partendo da un argomento così delicato e discusso come l’aborto. Per la precisione, la doman-
da è stata: «Prima il film Juno che ha vinto il festival del cinema di Roma, ed ora il suo romanzo, ma non è che sta diventando una moda raccontare storie di genitori adolescenti?». Nick calibra bene le parole, ma non sfugge alla provocazione: «Juno è un film meraviglioso e mi sembra che abbia ricevuto le stesse identiche critiche che ho ricevuto io. D’altra parte, il fatto è lo stesso: una ragazza decide di non
E’ difficile chiamare eroismo, quello raccontato da Hornby, forse dovremmo parlare di qualcosa di più simile all’istinto. All’origine della scelta, in quei ragazzi c’è una tensione individuale, autenticamente ribelle, priva delle sovrastrutture rivoluzionarie messe in piedi dalle generazioni precedenti. Non per niente, il conflitto tra giovani nonni e giovani genitori è l’altro tema sociologi-
LA VITA All’origine della scelta pro life, in quei ragazzi, soprattutto in Alicia, c’è una aspirazione individuale autenticamente ribelle, priva delle sovrastrutture rivoluzionarie messe in piedi dalle generazioni precedenti
abortire, con tutto quel che ne consegue». Poi spiega: «Non volevo fare un trattato sull’aborto, mi importava solo raccontare una storia interessante che fosse aderente alla realtà. Ecco, io non la chiamerei moda ma è una realtà che sempre più giovani, incappati in una gravidanza imprevista, scelgano di portarla avanti, nonostante tutti gli indichino la strada contraria. Perché optano per la vita? Si tratta di una scelta difficile, impensabile rispetto a pochi anni fa, in cui ritroviamo una certa dose di ingenuità e provocazione, ma c’è anche dell’altro».
co presente nel libro. Lo so, me ne rendo conto: raccontato così, il nuovo libro di Nick Hornby sembra la ”corazzata Potemkin”. Ma non lo è perché il tono è sempre leggero e divertente. Un tuffo nella nostalgia di un’età che per tutti noi ha avuto degli indubbi vantaggi, ma anche momenti di formidabile angoscia. A lui piace così, adora raccontare storie di «persone incasinate». Che abbiano trenta, quaranta o sedici anni, il requisito per diventare personaggi in un libro di Nick Hornby è che si tratti di uomini o donne ancora alla ricerca di un assestamento esistenziale. Mentre si alza per congedarsi dalla conferenza stampa, la sensazione è che lo scrittore londinese sia uno di loro. Alzi la mano chi di noi non lo è.