QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Le contraddizioni della linea dura del governo
he di c a n o r c
Sicurezza sì, intercettazioni no: dove sta la coerenza?
di Ferdinando Adornato
IL MALESSERE DELL’AREA CATTOLICA DEL PD
di Riccardo Paradisi uò un governo che sulla sicurezza ha investito la sostanza della sua campagna elettorale e che su questo tema ha vinto le elezioni prepararsi a varare un disegno di legge che si annuncia molto duro contro le intercettazioni senza far nascere qualche sospetto di incoerenza? Al netto degli eccessi dipietristi – l’Italia dei Valori parla di una legge criminogena – e ammesso che L’Italia ha un doppio record mondiale in materia di intercettazioni che riguarda sia i costi (un miliardo e 150 milioni in 5 anni) sia il numero di persone intercettate, come ricorda il portavoce di Forza Italia Daniele Capezzone, c’è una cosa che non torna. Che le inercettazioni, secondo il Ddl annunciato, potranno essere usate solo in indagini riguardanti il terrorismo e la criminalità organizzata. Una scelta che rischia di derubricare gli altri reati – la concussione la corruzione, la criminalità finanziaria, l’usura – a reati secondari, veniali, su cui, in fondo, si può chiudere un occhio. Magari è un impressione sbagliata, magari no. E in tempi di critica ad alzo zero della casta, di strali anche populisti indirizzati alla corporazione politica, il fatto che le intercettazioni non potranno venire più usate per reati che riguardino la corruzione e la concussione – i più diffusi all’interno del potere politico – potrebbe alimentare il sospetto che questa sia una legge di autotutela.
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Una famiglia in crisi Rutelli non vuole confluire nel Partito Socialista Europeo. Prodi respinge gli appelli della Bindi a rimanere. La Binetti contesta la presenza dei radicali e Famiglia Cristiana accusa Veltroni di aver tradito i cattolici. L’ex Margherita apre la guerra sul futuro del Pd alle pagine 2, 3 e 4
Casini: «Niente ansia per le alleanze»
Al via le trattative con Confindustria
Parte la Costituente di Centro
La Cgil vuole una mezza riforma dei contratti
se gu e a p ag in a 6
I diari inediti del generale italiano
Più di 30 morti in ventiquattr’ore
L’Algeria nel mirino di al Qaeda
La guerra segreta di Graziani
di Giuliano Cazzola
di Enrico Singer
di Mauro Canali
Via libera del Consiglio Nazionale dell’Udc alla Costituente di Centro e un no fermo ad alleanze preconfezionate. Questo il doppio risultato cui è giunta l’assemblea del vertice di ieri.
Si accettano scommesse sulla durata dell’incontro di oggi tra la Confindustria e i sindacati. Ma le quotazioni lasciano intendere che verranno messi in calendario dalle parti altri appuntamenti.
Altri venti morti in un attentato nella stazione di autobus di al Buwiera, a Est di Algeri, dopo i dodici morti nella cittadina di al Akhdaria dove è stato ucciso anche un ingegnere francese.
Quando il 30 aprile del 1945, il generale Rodolfo Graziani si consegnava agli Alleati, aveva con sé numerosi documenti autografi. Comprese tre agende, che coprono il periodo dal 1939 al 1941.
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di Francesco Capozza
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2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
107 •
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il malessere nel
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pd
Divisi, ininfluenti: gli ex Dc cominciano a chiedersi dove sono finiti
Il club cattolico non conta niente di Errico Novi
ROMA. Come accade ai corpi inanimati, i cattolici del Pd esistono solo se a qualcuno viene la smania di classificarli. Da qualche ora nel partito di Walter Veltroni si parla della futura collocazione europea. Soprattutto dell’irritazione che attraversa i popolari ma che ha il suo culmine nella lettera inviata da Francesco Rutelli all’ufficio di presidenza della disciolta Margherita. «No al Pse», sentenzia l’ex presidente dielle. Forse ha sbagliato i tempi Walter Veltroni, che dopo la reciproca autocommiserazione con i socialdemocratici tedeschi a
blea costituente in cui i democratici discuteranno della famiglia di appartenenza. Fatto sta che finora la componente post democristiana del partito ha dato scarsissimo segno di sé: non fosse per l’eterna storia dell’etichetta europea, si continuerebbe a ignorarla. E forse ha ragione don Gianni Baget Bozzo quando arriva a definirla «una pura e semplice zavorra: i cattolici democratici restano lì semplicemente per evitare che il Pd scivoli troppo a sinistra, ma non sono in grado di esercitare un’influenza attiva. Anche perché non hanno per-
GIANNI BAGET BOZZO «Sono ridotti al ruolo di semplice zavorra: servono a evitare che il partito scivoli troppo a sinistra. Ma soprattutto al Nord non sanno esprimere leadership. Rosy Bindi? È una prodiana, un caso a parte»
Berlino incontra oggi il capogruppo dei socialisti a Strasburgo Martin Schulz. Il tutto a dieci giorni dalla nuova assem-
sonalità di rilievo. Chi detiene capacità di leadership, in quel partito, proviene dal Pci: Veltroni, D’Alema, Finocchiaro. Mari-
ni, Fioroni e gli altri non sono in grado di bilanciare questa forza. E fate caso che la presenza dei cattolici democratici è visibile nel Centro e soprattutto nel Sud, dove peraltro regna il caos politico assoluto, ma non nel Settentrione. Rosy Bindi? È prodiana, è un caso a parte».
Diagnosi impietosa che potrebbe essere anche interpretata alla rovescia, e sarebbe anche peggio: i post Dc sono indispensabili agli ex Ds per accreditarsi come partito nuovo, ma al di là di questa funzione edulcorante non possono pretendere di esercitarne altre. La preoccupazione non è sconosciuta a Franco Marini, che però cerca di tenere sotto controllo le tensioni interne: «Non è vero che Berlusconi si è bevuto il Pd come un bicchierino di rosolio, certo abbiamo i nostri problemi: riguardano il modo di organizzare l’opposizione e di dare sostanza al nuovo partito». Non è poco. Il probabile successore di Romano Prodi alla presidenza dei democratici prova a schiarire l’orizzonte europeo: «Dobbiamo trovare una soluzione concordata». Ma puntualizza: «Non è possibile accettare di passare da uno schieramento all’altro, in Europa dobbiamo essere autonomi». Marina Sereni risponde
picche: «Significa finire nel gruppo misto: non ha senso». In perfetta armonia con il clima generale, arriva anche la bato-
FRANCO MARINI «Abbiamo i nostri problemi, dobbiamo dare sostanza al partito. Sulla collocazione a Strasburgo serve una soluzione concordata, ma non è possibile passare da uno schieramento all’altro, dobbiamo essere una forza autonoma»
sta di Famiglia cristiana: «Veltroni ha tradito le attese dei cattolici», si legge nell’editoriale del nuovo numero, «l’anarchia dei valori teorizzata da Berlusconi è trasmigrata e ha infettato anche il Pd». E poi l’ombra più pesante: «Una parte consistente dei deputati dell’ex Margherita si interroga sul perché della loro permanenza nel partito: dovrebbero fare la riserva indiana? Oltre che minoranza, sarebbero insignificanti». Paola Binetti non si arrende: «In questo momento non è in programma nessuna uscita». La clausola temporale non rassi-
Per Bobba bisogna uscire dalla riserva indiana. L’ambizione? I democratici europei
«No, non entreremo mai nel Pse» colloquio con Luigi Bobba di Susanna Turco
ROMA. Una volta tanto, tra Bindi e teodem c’è comunanza di vedute. «Con le vecchie logiche balcanizziamo il Pd», dice l’ex ministro all’Unità. E il piddino Luigi Bobba raddoppia la dose: «Se il partito non lavora seriamente sull’identità, la balcanizzazione diventa realtà», spiega. Così, nel giorno in cui Famiglia Cristiana randella il Pd preconizzando una prossima fuoriuscita dei cattolici, e Paola Binetti assicura al governo l’appoggio «di tutti i teodem» su ciò che riguarda le politiche per la famiglia, l’immagine che del Pd restituisce l’ex presidente delle Acli - per quanto ottimistica - è piuttosto fosca. Anche perché, nel frattempo, infuria la tempesta sulla collocazione europea. Un tema sul quale
il teodem non ha dubbi: «Nel Pse, mai». Bobba, anche lei è con un piede fuori dal Pd, come fa pensare l’endorsement della Binetti? Guardi, anzitutto bisogna dire che la legislazione a favore della famiglia non è un tema dei cattolici: il calo democrafico è pericoloso, è una questione che riguarda futuro, e quindi tutti. Una priorità. Anche lei si affida a Tremonti? Finora ho sentito chiacchiere. Di concreto ho visto due segnali che non mi hanno convinto: l’aver sbaraccato il ministro della Famiglia; l’aver dichiarato che quest’anno non ci sono i soldi e quindi ci si limiterà al bonus bebè: il contrario
di rinnovare il sistema di tassazione per le famiglie. E se alla fine il quoziente familiare arrivasse davvero, lo voterà? Se e quando, lo valuterò. Per ora vigilo, ma temo il peggio. Anche con Prodi ci furono grandi annunci. Da tanto scetticismo se ne deduce che lei non è fra i cattolici che, secondo Famiglia cristiana, «si stanno interrogando sul perché della loro permanenza nel Pd». Sono sempre dell’idea che non si può fondare un partito e poi abbandonarlo dopo sei mesi: gli elettori ti inseguirebbero col forcone. Il settimanale dei paolini torna ad attaccare la presenza
cura. E tra gli altri ex Dc del partito la posizione dei teodem crea malumore: «Sono alla ricerca di una visibilità particola-
dei radicali e dice che «le attese dei cattolici sono state tradite». D’accordo con Rutelli, ho chiesto all’Ipsos una indagine sul voto cattolico in queste elezioni, con un focus su quanto abbiano pesato i radicali. Bisogna capire cosa è capitato davvero. E lei che idea si è fatta? Secondo la mia percezione - non è affatto detto che sia la realtà - nel migliore dei casi si è trattato di un risultato a somma zero. Ma lei pensa che
re», dice il deputato Riccardo Villari, «e il loro caso rimanda al problema generale dei cattolici nel Pd: dovremmo fare un lavoro all’interno, organizzarci per promuovere i valori e i programmi che rappresentiamo, invece restiamo divisi in tre, quattro sottogruppi. Non ha senso giocare a chi è più cattolico degli altri e dire che si è pronti a votare le proposte del governo sul fisco per le famiglie. Sarebbe più sensato mettere le idee a disposizione del dibattito interno in modo che l’iniziativa possa essere adottata da tutto il Pd». Suggerimen-
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Dopo l’incontro Berlusconi-Ratzinger
L’anarchico devoto batte Prodi: ma manterrà gli impegni con il Papa? di Luca Volontè ue anni orsono fu la volta del cattolico adulto, ora è il turno dell’anarchico devoto. Due anni fa un cattolico seppur “adulto” saliva nei palazzi vaticani ad incontrare Papa Benedetto, un colloquio cordialissimo che registrò grande sintonia sulle sfide del Paese e del mondo.Tanta sintonia che l’adulto si prese la briga di legarsi stretto stretto alla compagine e alle richieste di radicali e comunisti, nell’illusione che la sua attempata appartenenza alla Chiesa cattolica potesse essere di per sé garanzia assoluta sui valori non negoziabili. Così si cominciò la legislatura scorsa con baci, abbracci e strette di mano e con frequenti incontri con il Segretario di Stato, ai quali sempre seguirono spilloni ardenti di proposte su “Dico”, “Cus”, “Gender”, “Testamenti eutanasici”. In periodi di magre entrate, si chiese ai parroci di trasformarsi nelle omelie domenicali in esattori delle tasse, per non parlare di quel variopinto ministro degli Interni che invitò i sacerdoti a commentare nelle Messe la ”Carta dei Valori” al posto del Vangelo di Gesù.
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to implicitamente accolto dalla Binetti, che ieri ha annunciato di voler presentare «disegni di legge per per testimoniare i valori cattolici».
Non basta a Villari, che invoca maggiore coesione: «Ricordiamoci che nella Dc eravamo l’8 per cento, qui almeno sfioriamo il 40: non è comunque semplice essere incisivi, ma tutto diventa più complicato se ognuno difende la propria piccola visibilità». Nella lettura Nella foto a destra: il deputato teodem Luigi Bobba
Famiglia cristiana abbia ragione? Il Pd ha tradito le attese dei cattolici? Penso che il tema vero sia nella costruzione del futuro del Pd. In particolare due aspetti: assumere una concezione positiva della laicità, accettando che i valori che nascono dalle religioni sono un elemento vivificante della democrazia; e considerare una risorsa, anziché un ingombro, la vasta e diffusa presenza dei cattolici nel Paese. Il Pd avrebbe tutto da guadagnare. Fuori i cattolici dalla riserva indiana? Un cattolico deve sentirsi un cittadino del Pd al cento per cento: non può andare che si percepisca come una minoranza, una ridotta. Oggi è così?
che dà Famiglia cristiana il problema è anche la presenza dei radicali: «Era così difficile capire che con il loro ingresso si tradiva lo spirito originario? È tempo di pregare Pannella e soci perché si accomodino fuori». Non si può dire che Franco Marini condivida in pieno: «Credevo di essere in minoranza, e invece i sondaggi dicono che solo il 25 per cento dei cattolici suggerisce di non dialogare con i radicali». E in effetti la rappresentanza laica nel Pd
La sfida è aprire una discussione nel Pd: la sua identità è ancora in formazione. Nemmeno si sa ancora a che gruppo europeo si iscriverà... Beh, certo non potremo confluire tutti nel Pse, sia pure con un restyling nel nome. Sarebbe come dire che la sfida che abbiamo iniziato non ha ambizioni di contaminare culture diverse. E allora vi dividerete tra Pse e Alde? Se fosse una soluzione transitoria non la butterei a mare. Ma nell’Alde ci sono anche i radicali, lo sa? Certo, sarebbe una contraddizione. La vera sfida, in prospettiva, è fare i democratici in Europa. Non le pare una scelta minoritaria? Già, ma non si vuole restare nella minorità: l’ambizione è un orizzonte democratico europeo. Certo, potrà costare posti e visibilità. Ma ormai il Rubicone delle ap-
non sembra la causa dello smarrimento. Al massimo ne è la conseguenza. Solo in una formazione dal profilo e dall’identità ancora incerti si può pensare di tenere insieme Binetti e il partito di Pannella. I cattolici sembrano persi nell’indifferenziata vacuità dei democratici, in una rarefatta incertezza di contenuti che rende invisibili anche i loro. Tanto da avvalorare la tesi di Baget Bozzo che li paragona a una mera zavorra.
partenenze l’abbiamo superato. Dopo il voto il Pd è parso dominato da spinte centrifughe: ex margherita di qua, ex ds di là. Proprio come prima del Rubicone. Difficoltà legate all’identità di un partito in costruzione. Ma rintanarsi nelle identità precedenti sarebbe un errore. Vede anche lei il rischio di balcanizzazione del partito? Vedo la necessità che il Pd ci si dedichi a costruirla, questa identità: fino ad allora, faremo come il popolo ebraico che rimpiange le cipolle d’Egitto. Se uno non un nuovo orizzonte politico, cerca di tornare all’antico. Anche con riunioni, associazioni, correnti... Io non demonizzo la storia di nessuno, ma se la nostra identita è un richiamo «come eravamo» allora non ci siamo. Associarsi va bene, ma solo se si guarda al futuro: altrimenti il rischio della balcanizzazione diventa una realtà.
Con grande e forse eccessiva cerimoniosità, il nostro ha azzeccato tutte le parole e le mosse. Intervista con l’Osservatore Romano il giorno prima e grande attenzione sui temi che gli ha sottoposto il Pontefice nell’incontro privato. Persona, famiglia e libertà di educazione: insomma sui valori non negoziabili non c’è nessuna possibilità di anarchia di partito, «la Chiesa è una ricchezza dello Stato laico», toni e contenuti sono da vero statista occidentale, da novello scopritore di quella laicità democratica americana, alla quale si era ispirato il suo collega Sarkozy, nella vista al Pontefice del novembre scorso. L’anarchico devoto ha nettamente superato il cattolico adulto, almeno nella sua prima vista al Pontefice. Ora l’attende la parte più ardua: convincere i suoi ministri e sottosegretari a comportarsi di conseguenza. L’imperativo alla portata del governo, sul quale si potranno registrare ampi consensi anche dalle diverse opposizioni, è dar seguito fin da subito ad alcuni propositi. Ne rammento alcuni, facili e senza spese: abolire le linee guida della legge 40, verificare la applicazione totale e puntuale delle 194, presentare a nome dell’Italia la moratoria di Ferrara all’Onu, ricostruire la minoranza di blocco contro la sperimentazione embrionale, sfasciata da Mussi, introdurre nel Dpef le misure per il quoziente familiare. Io so risolvere i problemi, dice il presidente del Consiglio: bene e complimenti da tutti gli italiani, quindi cominciamo dalle cose facili e immediate.
Di verifiche immediate ce ne sono: abolire le linee guida della legge 40, attuare con coerenza la 194, introdurre il quoziente familiare
La conclusione di quel governo fu tanto cupa ed evanescente da lasciare certamente attoniti: sulla vicenda della visita del Papa alla Sapienza le versioni si moltiplicarono al punto che, mentre Amato chiedeva la rinuncia, Prodi in tv rassicurava il Pontefice. L’adulto aveva già dato prova di sé nelle vicende che interessarono la bocciatura di Buttiglione in Europa: anche allora gli inviti personali rivoltigli da Giovanni Paolo II caddero cordialmente nel vuoto. Oggi la scena è cambiata: quel leader del Pdl che aveva affermato l’anarchia della sua lista sui valori non negoziabili ha svestito gli abiti di partito e indossato quelli del Capo di governo della nazione europea, nella quale il mondo cattolico e laico, alleati insieme, hanno combattuto e vinto la battaglia referendaria sulla legge 40 e sul Family Day.
Con la Finanziaria poi si dovrà passare a questioni più difficili, ma altrettanto condivisibili: libertà di scelta educativa (buono scuola e buono libri), sostegno alla maternità, fiscalità familiare e sussidiarietà fiscale. L’anarchico devoto può veramente farcela a mantenere gli impegni presi con gli elettori e con il Pontefice, dunque si dia inizio ai fatti.
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Un duro attacco della rivista “Il Regno” mette in discussione il ruolo dei cattolici nel Pd
I nuovi “indipendenti di sinistra” di Giuseppe Baiocchi l Partito Democratico è «…un partito privo di identità culturale e di progetto politico, ultima transizione interna alla storia post-comunista e non prima figura di una nuova formazione democratico-riformatrice»… i cattolici rimasti dentro questo partito ….. «hanno un misero futuro da “indipendenti di sinistra”…». Questo giudizio liquidatorio non viene da Baget-Bozzo o da altri esponenti berlusconiani, ma da un editoriale a firma di Gianfranco Brunelli sul numero 8 de «Il Regno», la rivista dei padri dehoniani, da sempre autorevole e ascoltatissima voce del cattolicesimo progressista italiano. A rincarare la dose è altresì sopraggiunta la ricerca (presentata in uno dei tanti convegni delle aree ex margheritine) dei sociologi dell’Università Cattolica Segatti e Ferrari, che segnalano come su cento elettori cattolici che due anni fa avevano votato l’Unione di Prodi soltanto 43 hanno votato il 13 aprile il Partito Democratico di Veltroni.
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Solamente Arturo Parisi, finora, ha parlato esplicitamente di “sconfitta”, non solo elettorale, ma anche e soprattutto “politica”. E non si vorrebbe essere nei panni dei cattolici del centrosinistra, visto che a rapidi passi si sta sciogliendo come neve al sole quel cemento dell’antiberlusconismo pregiudiziale e demoniaco che aveva costituito per quasi quindici anni l’unico produttivo collante con il quale si mietevano ampi consensi nel cattolicesimo organizzato e territoriale. Nel vedere la corrispondenza d’amorosi sensi che si è instaurata tra Berlusconi e Veltroni sulle riforme e sullo stile dei rapporti cade fragorosamente proprio quell’alibi di “unità contro il demonio” che aveva fatto digerire con disinvoltura (anche nella base delle parrocchie e di alcuni movimenti) le esasperazioni laiciste sui temi etici che avevano costellato la vita stentata degli ultimi anni prodiani.
Aver perso in soli due anni i tre quinti del proprio bacino elettorale di riferimento qualche problema dovrebbe porlo. Non solo: ma la suddetta “corrispondenza d’amorosi sensi”, che almeno per un anno durerà imperterrita, lascia
spetto ad un elettorato in gran parte rinsanguato dai robusti afflussi di voti dalla sinistra radicale) non da certamente scandalo: ma per fare che cosa? Se è possibile un sommesso suggerimento, ci vorrebbe un vigoroso bagno di contatto con
tempo contingente è titolato ad operare. E forse non ha torto ancora il “Regno” quando sostiene che di fatto, “avendo laicizzato da destra la politica italiana, Berlusconi ha chiuso definitivamente la questione democristiana”.
Una ricerca dell’Università Cattolica segnala come su cento elettori cattolici che avevano votato per l’Unione di Prodi solo 43 hanno votato per il Pd di Veltroni
E tuttavia una “questione cattolica”per la storia del Paese e dell’Occidente può ancora essere di nuova, lacerante attualità. Non spingerebbe il Papa all’impegno civile dei credenti e alla loro educazione
nello stesso identico e scomodissimo disagio della Lega, che vedrà svaporare la sua condizione determinante nei numeri parlamentari senza riuscire a “marcare” con le sue istanze esclusive il connotato del governo.
Il cardinal Camillo Ruini. A sinistra, l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi; in alto la senatrice teodem Paola Binetti
priva di ruolo politico e progettuale una variegata componente cattolica sempre più isterilita anche nel retroterra sociale. Paradossalmente, se è permessa una considerazione che apparirà magari come una bestemmia, si trovano
All’opposizione è certamente peggio. Anche perché il ceto politico cattolico non può riuscire a consolarsi soltanto con la forte presenza negli organigrammi e nei ruoli parlamentari del Partito democratico. Questa sovrarappresentanza (ri-
le realtà ineleganti delle periferie metropolitane, dove sono ormai gli stessi parroci ad aspettarsi dalla politica più un supplemento di rude concretezza che un profluvio di buoni sentimenti che fanno bene (ma sempre meno) solo all’immagine di chi li proclama. D’altronde anche la gerarchia della Chiesa, più preoccupata della questione antropologica e di di una tutela pubblica dei valori umani prima che cristiani con chi ci sta, sembra aver scelto l’antico e saggio realismo di fare i conti con chi c’è e chi nel
anche alla politica. Segno che forse, in una prospettiva non immediata, il richiamo del “Zentrum” può emergere in forme tutte da inventare. Magari, come prima sfida, nel giro largo che passa per l’Europa. Ed è sulla collocazione europea, guarda caso, che si andrà rapidamente consumando l’ultima dirimente contraddizione del Partito Democratico. Chissà, ma se lo scenario è questo, non è una stravaganza pensare che tra un anno sarà d’uopo salutare con affetto un “caro estinto”.
politica
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Il Consiglio nazionale dell’Udc dà il via all’operazione. Casini: «non abbiamo l’ansia delle alleanze»
Parte la Costituente di Centro di Francesco Capozza
ROMA. Via libera del Consiglio nazionale dell’Udc alla Costituente Popolare e un no fermo ad alleanze preconfezionate. Questo il doppio risultato politico cui è giunta l’assemblea del vertice del partito di Casini e Cesa riunitasi ieri a Palazzo Carpegna. La giornata si era aperta con l’intervento introduttivo del segretario politico del partito Lorenzo Cesa, il quale, in poco meno di mezz’ora ha fatto il punto sulla situazione politica a seguito delle elezioni dello scorso 13 e 14 aprile e ha proposto la linea per il prosieguo della legislatura. Secondo Cesa, il Popolo delle Libertà e il Partito Democratico stanno facendo di tutto per traghettare un sistema vagamente bipolare in un sistema di fatto bipartitico. L’Udc e la Costituente devono invece, secondo il segretario del partito, dar voce a chi non crede in questo assetto (tra l’altro del tutto inedito nel sistema politico italiano) e intercettare i voti dei delusi, dei dissidenti e degli esclusi che si riconoscano in alcuni ideali comuni cattolici e liberali.
zione che intende fare l’Udc in parlamento, ha precisato poi Cesa, sarà “un’opposizione repubblicana”, e in quanto tale giudicherà positivamente o negativamente l’operato del governo volta per volta, provvedimento per provvedimento.
«Un no fermo, per esempio, l’Udc lo ha detto al decreto legge sull’Alitalia presentato dal governo. Ma saremo pronti ad approvare quei provvedimenti che affronteranno
lutamente inutile e controproducente» parlare ora, a poco più di un mese dalle elezioni, di alleanze con questo o quel partito. «Il Pdl gode oggi di un picco di popolarità tale che se noi ci ponessimo in una situazione di avvicinamento non saremo nemmeno presi in considerazione. Ma vedrete, tra qualche mese, quando la differenza tra il loro consenso e quello del Pd si sarà assottigliata, ci verranno a cercare ed allora potremo sul serio fare la differenza e scegliere noi liberamente
Il leader centrista non chiude la porta a Berlusconi, ma la questione non è all’ordine del giorno: «Quando la popolarità del governo calerà, saranno loro a venirci a cercare»
Cesa ha poi confermato l’intenzione, se le voci rispetto all’ipotesi ventilata negli ultimi giorni di un progetto di riforma del sistema elettorale per le elezioni europee (che sarebbe allo studio del Pdl al quale il Pd sembrerebbe mostrare appoggio e che vedrebbe cancellato il sistema delle preferenze come accade in Italia con il c.d. porcellum) venissero confermate, di lanciare un Referendum contro il sistema delle liste bloccate. L’opposi-
temi a noi cari come la parità scolastica o la sicurezza ( ammesso che venga eliminato il reato di clandestinità n.d.r.)», questa la linea ufficiale del partito nei confronti del governo presieduto da Silvio Berlusconi. Nel concludere il suo intervento, Cesa ha chiesto ai membri del Consiglio Nazionale di votare una mozione in cui si dà mandato al Segretario e al Presidente del partito Buttiglione di portare avanti il cammino verso la Costituente e di gestire autonomamente il rapporto con i direttivi locali del partito. L’appoggio pieno alla mozione di Cesa è stato dato successivamente dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini che, prendendo la parola subito dopo il segretario, ha posto l’accento anche su un altro punto fondamentale all’ordine del giorno e cioè il nodo delle alleanze. Secondo Casini sarebbe scellerato, oltre che «asso-
chi appoggiare e se farlo». Così il leader centrista ha placato gli animi di chi tra suoi dirigenti (come Mario Tassone) a più riprese e in più occasioni aveva posto il problema del dove e con chi schierarsi nel breve e lungo termine. «Certamente - ha poi precisato Casini - vi pare che io che sono bolognese, quando prossimamente sarò chiamato alle urne per eleggere il sindaco della mia città, potrei mai votare Cofferati? ». Casini, dunque, non chiude le porte a Berlusconi e al Pdl, anzi ritiene che «obbiettivamente, eccezion fatta per la questione Alitalia, il governo si stia muovendo bene in queste prime settimane di mandato». Tuttavia il nodo delle alleanze viene rimandato a dopo l’avvio dei lavori della Costituente e non è all’ordine del giorno - sempre secondo Casini delle prossime riunioni del direttivo del partito. Inoltre, a detta del
leader centrista, c’è da osservare che all’interno dell’area cattolica del Pd si sta verificando una seria battaglia sul posizionamento nel partito e c’è pure chi, come la Binetti, è pronta ad offrire il suo voto a Berlusconi se il governo presenterà un disegno di legge sulla parità scolastica.
Questo fermento all’interno del Pd, e il malessere che molti esponenti dell’area cattolica del partito di Veltroni stanno palesando in questi giorni, non deve essere sottovalutato ma, anzi, intercettato. Un’attenzione ed un’importanza particolare è poi stata data dal leader dell’Udc agli altri esponenti della nuova alleanza di centro dalla Rosa Bianca a Savino Pezzotta dal “rientro” di Bruno Tabacci all’apporto del movimento liberal di Ferdinando Adornato e dei suoi circoli, coordinati da Angelo Sanza. Ai Circoli di liberal, ed in particolare al seminario di cultura politica organizzato ogni anno dalla Fondazione, ha fatto riferimento anche Lorenzo Cesa, il quale, oltre a ribadire la presenza dell’Udc a Todi il prossimo 11 luglio, ha individuato in quell’incontro una tappa importante nel cammino verso la Costituente. Quasi quattro ore di interventi ( pochi, a dire il vero, quelli polemici nei confronti della linea ufficiale del par-
Nella foto grande Pier Ferdinando Casini, Lorenzo Cesa e Rocco Buttiglione; dall’alto Savino Pezzotta, Bruno Tabacci, Ferdinando Adornato e Angelo Sanza tito), e molte riflessioni costruttive terminate le quali il presidente Rocco Buttiglione ha concluso il dibattito chiedendo all’assemblea di votare la mozione di Cesa e di emendare quella di Mario Tassone. Trovata la chiave del dialogo interno, l’Udc si prepara, non senza però evidenziare la sua centralità ( e non solo come collocazione politica) nell’alleanza, ad intraprendere – già in questi giorni- la strada verso la Costituente e verso quel partito di centro che tante volte è stato auspicato ma mai, fino ad oggi, realizzato.
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politica
È molto concreta la possibilità che Pd e Pdl trovino un accordo di convenienza sulla legge
Niente intercettazioni. E la sicurezza? d i a r i o
di Riccardo Paradisi
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Maroni torna sul reato d’immigrazione Durante l’incontro avuto ieri mattina a Parma con i 21 sindaci della ”Carta di Parma” sulla sicurezza, il Ministro dell’Interno Roberto Maroni non ha preso in esame la questione dell’immigrazione clandestina, intervenendo però poi sul tema nella successiva conferenza stampa. «Il reato di immigrazione clandestina è necessario: senza di esso non avremmo la possibilità di espellere davvero chi deve essere espulso. La normativa europea, infatti, prevede solo il foglio di via: in pratica, in questo modo, non viene espulso nessuno. Invece, grazie al reato, possiamo mettere in pratica l’espulsione immediata».
Finocchiaro difende Veltroni Anna Finocchiaro durante Radio City, trasmissione in onda ieri su Radio 1 Rai, ha affermato: «Veltroni non può essere messo in discussione. Certo dobbiamo ancora riflettere molto sulla sconfitta elettorale. Noi tutti sapevamo quello che stavamo facendo e sapevamo realisticamente che difficilmente avremmo vinto. Forse qualcuno si è dimenticato la situazione dei mesi scorsi...»
Castelli: Lega Nord questa volta decisiva segue dalla prima Certo, la regolamentazione dell’uso delle intercettazioni resta una priorità assoluta nell’agenda di un governo liberale e di un Paese civile: ma esiste una linea mediana, un criterio di equilibrio che potrebbe essere seguito. Senza legare le mani alla magistratura, senza mettere il bavaglio alla stampa e senza, di fatto, intimidire i giornalisti. Che in un Paese democratico non possono rischiare fino a cinque anni di galera se informano cittadini e lettori di notizie di pubblico interesse che non riguardano gli affetti personali, la salute, la sfera sessuale degli individui ma i nodi politici e giudiziari di vicende che senza intercettazioni e senza i giornali che le hanno pubblicate sarebbero rimaste sconosciute.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continua a ripetere, anche in queste ore, che lui non torna indietro, che il disegno di legge avrà i caratteri annunciati, che l’alleanza di governo è unita e compatta su questo fronte. Eppure all’interno della maggioranza qualche sommessa ma significativa obiezione riga una superficie di unanimità esibita. A parte la Lega, che con l’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli torna a chiedere che si allarghi la possibilità di usare le intercettazioni ai reati di corruzione e concussione, anche dentro Alleanza nazionale c’è chi non resiste a manifestare il suo dissenso dando voce a un mal di pancia che attraversa il partito. «Eliminare le intercettazioni telefoniche vuol dire privare gli ita-
liani di uno strumento prezioso nella lotta al crimine a favore di chi rispetta la legge», ha dichiarato Giampaolo Landi di Chiavenna, assessore alla Salute del Comune di Milano. «Non possiamo togliere uno strumento», ha aggiunto l’esponente di An, «che è sempre servito per far luce su molte ipotesi di reato». Polemiche dunque, anche se non c’è ancora nessun testo o disegno di legge scritto su cui si possa ragionare concretamente. Tanto da far pensare che a parte Antonio Di Pietro – pronto a capitalizzare ogni pretesto di polemica antiberlusconiana per investirlo nel corpo a
Oltre alla Lega, anche alcuni settori di Alleanza nazionale non sono d’accordo sul disegno di legge annunciato da Berlusconi corpo con il Pd per l’egemonia sull’opposizione – nessuno in questa fase crede davvero che una legge sulle intercettazioni, quando vedrà la luce, avrà i connotati che il leader del Pdl sta tratteggiando in queste ore. Del resto sulla regolamentazione delle intercettazioni, Idv a parte, sarebbero d’accordo tutti gli attori politici – disciplinarne la durata, tutelare la privacy, soprattutto prevenire la fuga di notizie con sanzioni più equilibrate e razionali – mentre sull’eliminazione selettiva delle intercettazioni si troverà un accordo.
D’altra parte, mentre Massimo D’Alema e Piero Fassino restano in silenzio, al segretario del Pd Walter Veltroni, dopo la rituale condanna all’attentato al lavoro autonomo della magistratura, preme soprattutto sottolineare che «non è accettabile che le intercettazioni finiscano sui giornali. La pubblicazione sui giornali non deve essere consentita».
Insomma, il Partito democratico non può non esserci nella polemica di queste ore, se non altro perché non non può consentire a Di Pietro di occupare tutto lo spazio dell’opposizione, ma non ci vuole Machiavelli per capire che una legge che stringa sulle intercettazioni e minacci inasprimenti di pena vertiginosi per i giornalisti che le pubblicano non dispiaccia poi tanto ai protagonisti della vicenda Unipol che in poche settimane ha demolito il mito di un’alterità morale portato in punta di lancia per trent’anni dalla sinistra italiana. E considerando il clima di grande cortesia politica che c’è nel Paese, tenendo conto che stiamo parlando solo di un disegno di legge e non di un decreto, che dunque i tempi saranno lunghi e che in Parlamento giacciono altri ddl sulla regolamentazione delle intercettazioni depositati durante il governo Prodi, ebbene considerato tutto questo si può immaginare che le esigenze di maggioranza e opposizione troveranno un incrocio nel quale incontrarsi. Convenendo magari che sì, il problema della giustizia e della politica italiana forse son proprio i giornalisti.
«La Lega segue il suo destino, quello di pungolatrice per il cambiamento in Italia. Abbiamo sempre combattuto, con alterne fortune, ma c’è un punto sul quale vorrei che tutti riflettessero: per la prima volta la Lega è decisiva in Parlamento». Roberto Castelli puntualizza che «questa non è una minaccia, non è un ricatto ma semplicemente una constatazione» ma sottolinea anche, ospite di Lucia Annunziata a ’In mezz’ora’, che se in passato «dal punto di vista numerico non contavamo, perché la maggioranza poteva andare avanti anche senza di noi, oggi la Lega è l’ago della bilancia in Parlamento. E’ chiaro?». Il sottosegretario alle Infrastrutture mette l’accento sul fatto che quella del Carroccio «è una forza enorme - e aggiunge - Non la useremo contro gli alleati, assolutamente, ma per il rispetto del programma promesso agli elettori, perchè sia tradotto in leggi e perchè le leggi vengano rispettate».
Nuovo scandalo nella sanità Sono complessivamente 14 le ordinanze d’arresto nell’ambito dell’inchiesta su presunte truffe alla Sistema sanitario nazionale che coinvolge la clinica Santa Rita di Milano: 2 in carcere. Agli indagati vengono contesti 90 episodi di lesioni gravi e gravissime e 5 di omicidi volontari per interventi operatori inutili e dannosi nei confronti di pazienti che non sarebbero stati messi al corrente dei rischi che correvano. Secondo l’inchiesta, lo scopo era quello di ottenere rimborsi dal Servizio Sanitario non dovuti per circa 2 milioni di euro.
Accusato Mazzone per morte calciatore Chiuse le indagini sulla morte di Bruno Beatrice, il giocatore della Fiorentina morto di leucemia nel 1987 all’età di 39 anni. L’inchiesta era partita da un esposto della vedova del calciatore, Gabriella Bernardini e si è chiusa con tre indagati: due ex primari ospedalieri più Carlo Mazzone, allenatore dei viola degli anni ’70. Il pm Luigi Bocciolini ha formulato nei loro riguardi l’accusa di omicidio preterintenzionale. L’indagine, condotta dal Nas dei carabinieri, avrebbe anche evidenziato il coinvolgimento di altre due persone nel frattempo decedute. Secondo una perizia disposta dal pm, la leucemia che uccise Beatrice potrebbe essere un effetto compatibile con la massiccia terapia di raggi Roentigen fatta al giocatore nel 1976 per curare una pubalgia.
energia e il futuro è il nucleare, sul presente del fabbisogno energitico non ci sono certezze. E la confusione acuisce l’emergenza con il greggio a 140 dollari al barile. L’Aie ha recentemente calcolato che, di qui al 2050, serviranno qualcosa come 32 centrali nucleari all’anno in tutto il mondo per dimezzare il livello attuale delle emissioni. Servono alternative al petrolio e il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, sembra averle trovato nell’atomo. Di qui a cinque anni arriverà la posa della prima pietra di una centrale nucleare italiana, da costruire in almeno sette-otto anni, facendoci ritornare nel club dell’atomo dopo più di due decadi. Ma, fino ad allora, cosa faremo? Liberal lo ha chiesto a Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. Anzitutto, cosa pensa del nucleare all’italiana? Io rientro nella categoria di coloro che pensano al referendum come a una fortuna. I nostri programmi nucleari erano iniziati nel 1954. Quando li abbiamo sospesi, negli anni Ottanta, avevamo appena una centrale attiva per l’uso commerciale. Si trattò già all’epoca, ma non lo si dice, di un fallimento. Manca poi un quadro normativo senza il quale investire è impossibile. Si tratta di una falsa difficoltà, perché laddove si ravvisi un’esigenza reale e chiara, accompagnata da una effettiva volontà, ci vuole poco a mettere insieme norme che servano ai progetti di sviluppo del settore. Allora qual è il problema? Il problema principale è che il nucleare è una cosa per Paesi ricchi. Non per quelli come il nostro che producono cultura, spiagge, bellezza, musei ma poca spinta economica. Difficilmente riusciremo a sostenere, con la nostra confusione, una qualcosa di talmente complesso come il nucleare. Teme la sindrome Nimby? In Italia non riusciamo a trovare qualche sito dove mettere i rifiuti, figuriamoci se possiamo metterci a costruire centrali. In una parola, il nucleare non è un interruttore che si accende e si spegne: chi lo ha fatto, come la Francia, lo ha costruito nel corso dei decenni. Parliamo di quindici anni per iniziare a vedere i primi risultati concreti. Se i tempi per la posa della prima pietra sono piuttosto lunghi, come si risolvono intanto i problemi che già ci sono? Non possiamo rimanere con le mani in mano. Dobbiamo lavo-
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In basso, Davide Tabarelli, presidente di Nomisma energia. L’economista, allievo di Alberto Clo, teme che le lungaggini burocratiche e le proteste delle popolazioni possano causare l’ennesimo rallentamento al ritorno al nucleare. Invece l’aumento nelle quotazioni del petrolio e una maggiore richiesta di materie prime impongono risposte rapide che soltanto la conversione al carbone delle centrali elettriche e la costruzione di rigassificatori possono dare
Tabarelli (Nomisma): «Misure nel breve contro il caro petrolio»
Carbone e rigassificatori più rapidi del nucleare colloquio con Davide Tabarelli di Giuseppe Latour rare su alternative di breve periodo che possano assicurarci almeno l’energia che ci serve. Quali? Anzitutto i rigassificatori. Dobbiamo chiudere quello che abbiamo cominciato. Se molte delle nostre centrali elettriche vanno a gas, è naturale che cerchiamo di dotarci di impianti per la trasformazione del gas liquido. Non ci servono nuovi impianti di generazione, ma bisogna approv-
vigionare meglio quelle che già abbiamo costruito. Si parla spesso di borsa del gas. I rigassificatori sarebbero anche un modo di rendere più aperto il mercato e fare del gas una risorsa più economica? Assolutamente falso. Certo, avremmo dei benefici in termini generali, ma certamente non sul lato dei prezzi. Oggi sui mercati internazionali il problema non è più a che
prezzo si compra, ma la quantità che si riesce a reperire. Le risorse stanno diventando sempre più scarse e il primo problema di chi ci governa è non farci rimanere a secco. Questo vale sia che si parli di energia fossile sia di energia nucleare. Altra soluzione? Il carbone. Stavolta per una questione di prezzo. Si tratta di una risorsa ancora piuttosto economica le cui quotazioni sono destinate a non esplodere ancora per qualche tempo. Quindi, rigassificatori e carbone pulito? Non mi piace parlare di carbone pulito. Si tratta di un modo ipocrita di porre la questione. Nelle centrali a carbone c’è combustione; e dove c’è combustione viene prodotta Co2, quindi si inquina. Altra cosa, poi, è dire che l’anidride carbonica si trova anche nella Coca cola e nell’acqua minerale o che le centrali moderne hanno il 30 per cento in meno di emissioni rispetto a quelle di vecchia concezione. Si inquina comunque. E se non costruiremo noi, ne faranno almeno cinquanta in Cina. Altre strade? Non possiamo dimenticare le rinnovabili. Su tutte, metterei l’eolico che ha un livello di economicità assolutamente da considerare, anche rispetto a quanto costa il gas. Gli ambientalisti, in maniera emblematica, spesso sono contrari: a parole tutti vogliono le rinnovabili ma alla prova dei fatti la situazione è molto diversa. Che ruolo possono avere i player come Eni o Enel? Soprattutto a Eni io chiederei più infrastrutture. Devono spendere quell’enorme quantità di denaro che sono riusciti a incamerare negli ultimi anni, e lo devono fare soprattutto con investimenti sui tubi. E a chi chiede maggiore concorrenza? Rispondo che al momento non è la priorità e non è una soluzione. Noi abbiamo voluto questi due monopolisti, il sistema è stato tarato in un certo modo e deve andare avanti così ancora per qualche tempo. Se non si creano le infrastrutture adatte, poi, è anche difficile che nuovi attori possano entrare sul mercato e che abbiano convenienza per farlo. Prima la crescita delle strutture e poi il mercato? Soltanto così potremo fare quello che Distrigaz, recentemente acquistata da Eni, ha fatto in Belgio, un mercato “spot”, l’unico che può portare benefici reali. Ma servono più tubi, più terminali.
pensieri
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L’intento del Cavaliere è di tenere sotto scacco i propri alleati
Perché Berlusconi vuole il dialogo di Fabio G. Angelini orse è ancora presto per tirare delle conclusioni, ma l’impressione è che per la maggioranza parlamentare e per il governo la festa, tutta caviale e champagne, del dopo elezioni stia volgendo al termine. Certo, almeno per ora non sembra in arrivo la stagione delle piogge, ma le avvisaglie dell’instabilità e della variabilità ci sono tutte. Il dietrofront del governo sul provvedimento “salva Rete4” e la recente marcia indietro di Berlusconi sul reato di immigrazione clandestina rappresentano due segnali politici da non sottovalutare che offrono spunti interessanti per le forze di opposizione. In particolare, sebbene si tratti di due episodi che (almeno per ora) non sembrano lasciar presagire alcuno scenario di clamorosa implosione e sfascio della maggioranza, sono tali da svelarne il punto debole. L’alleanza Popolo della Libertà -
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Lega Nord si è presentata agli elettori come una forza politica coesa, fortemente legata al proprio leader carismatico e, soprattutto, capace di cavalcare con grande maestria e opportunismo le paure e le speranze degli italiani.
chiedono un atteggiamento particolarmente attento e conciliante nei confronti dell’opposizione. Ed è in particolare Berlusconi, questa volta, ad aver bisogno del consenso e della legittimazione dell’opposizione per riaffermare e mantener vi-
Puntando ad un riassetto interno del Partito democratico D’Alema potrebbe mettere in seria crisi il disegno di potere del leader PdL Inoltre, la Lega, vera vincitrice della competizione elettorale, ha puntato tutto sul tema della sicurezza e sul federalismo, ricevendo in cambio un cospicuo numero di consensi. È evidente come una vittoria costruita su queste premesse, in una situazione economica e sociale difficile e con un’opinione pubblica ormai stanca di aspettare, generi sul Governo un carico di responsabilità e di aspettative che, per essere affrontate, ri-
vo, nei confronti dei suoi alleati, il proprio ruolo di leader e di guida dell’esecutivo. Il leader del PdL sembra essere di fronte ad un bivio: continuare a coltivare i propri interessi (politici e non) pagandone però il prezzo alla Lega, oppure vestire i panni dello statista, dialogando con il maggiore partito di opposizione, con il duplice scopo di isolare i restanti partiti di opposizione - e non - e di porsi al centro del sistema poli-
tico nel ruolo di sintesi e di garante nell’ottica di una futura nomina a Capo dello Stato. Il dietrofront sul “salva Rete4”, la contrarietà manifestata sull’introduzione del reato di immigrazione clandestina e la sottolineatura sul ruolo sovrano del Parlamento sono il chiaro segnale della scelta “istituzionale” compiuta da Berlusconi. Certo, non è facile immaginare gli esiti, visto che senza dubbio la Lega, che vanta un cospicuo credito elettorale, farà sentire il proprio peso proprio sui temi della sicurezza e del federalismo. In questo scenario, le tre opposizioni presenti in Parlamento (Pd, IdV e Udc) hanno due possibili alternative: seguire la via del dialogo tracciata da Veltroni, il quale, accompagnato Berlusconi sul colle, potrebbe ambire senza par-
ticolari problemi alla guida del Paese, oppure fare una dura opposizione al Governo sui contenuti, pur senza porre pregiudiziali ideologiche, sfruttando il potenziale conflitto di interesse che si va sempre più delineando tra la Lega Nord e le ambizioni berlusconiane. Quest’ultima pare essere la linea sposata dall’ultimo presidente dei Ds, Massimo D’Alema, che puntando ad un riassetto interno del Pd e ad una ricollocazione del partito nell’ambito della tradizione socialdemocratica può mettere seriamente in crisi il disegno di potere “veltrusconiano” e, indirettamente e di contro, favorire la nascita di un’aggregazione di centro di ispirazione popolare e liberale. (Centro Studi Tocqueville-Acton)
Borghezio in piazza (su richiesta) per difendere la ragazza marocchina violentata
Quando a stuprare è un “lumbard” di Pier Mario Fasanotti nche i leghisti leggono i giornali. Anzi Il Giornale. Il vice-direttore e corsivista del quotidiano milanese, Michele Brambilla, invita la Lega a pronunciare parole di sdegno contro il trentenne “lumbard” accusato di aver violentato e messo incinta una tredicenne marocchina nell’orrendo quartiere Gratasoglio, a Milano. Il giorno dopo Il Giornale riporta: «(Quasi) incredibile ma (a un passo dal) vero, ecco Mario Borghezio in piazza per difendere la ragazzina violentata». Il paffuto e iroso Mario, europarlamentare e già consigliere comunale a Torino, ha fatto il suo dovere. Con sciarpa verde (ma lo sanno i leghisti che quel colore contorna spesso la mezzaluna musulmana?) e megafono ha urlato: «La
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Nella foto qui sopra, il deputato europeo della Lega Nord, Mario Borghezio. In alto, l’ex ministro degli Esteri, Massimo D’Alema
Lega è imbestialita con i delinquenti, sia di nazionalità clandestina sia italiana. Non siamo né razzisti né xenofobi». E noi, così goffi sull’uso dell’ossimoro, abbiamo finalmente appreso che c’è anche una nazionalità “clandestina”.Vabbè. Il Borghezio dal cervello muscoloso è
no essere aiutati sì, ma a casa loro. In milanese si dice “foera di ball” (fuori dalle scatole): espressione colorita che racchiude più la managerialità padana che non lo spirito cristiano. Ma non è finita:«In Marocco» ha detto «non sarebbe mai successo, lì ci sono pene severe
«In Marocco - dice l’eurodeputato del Carroccio - non sarebbe mai successo, lì ci sono pene più severe». Proprio come in Inghilterra proprio quello che sui treni di tarda sera e notte Torino-Milano, affollati di prostitute nigeriane, disinfettava i sedili. Un giorno qualcuno l’ha menato. Il passo più bello del suo sdegno civile riguarda la convinzione che gli extracomunitari debba-
e più controllo sociale. Non questo buonismo». Probabilmente il verdissimo (anche di collera) Mario per “controllo sociale” intende che se una indossa la minigonna o una canottiera striminzita i guai se li cerca. Il velo o il burka sono la miglior
garanzia di castità. Se poi il padre o il marito uccide a pietrate una fanciulla in fiore, be’questa è giustizia statal-familiare. Borghezio, che è avvocato, sogna la sinossi dei codici, quelli etici e quelli penali. Un librone così pesante che può diventare arma impropria. Pare comunque che il Marocco sia pacifico e sonnolento come la campagna del Surrey. Borghezio dovrebbe informarsi su ciò che avviene nelle grandi città di quel paese. A Rabat e a Casablanca, ma non solo, sono frequenti le aggressioni col coltello. I più prudenti avvisano: usate i taxi, meglio ancora assieme a un amico. Borghezio, più affascinato dalle pene che dai delitti, però ha ragione: lì le donne sono tranquille, al calar del sole. Ovvio: non escono di casa.
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Il ministro di via XX settembre è riuscito ad assestare alcuni colpi ben riusciti. Non è però certo che siano anche duraturi
Così Tremonti ha stregato i banchieri: ma per quanto? di Giancarlo Galli
el piccolo mondo antico della Finanza italiana, è «scoppiata la pace». D’un colpo, dopo le elezioni di aprile e l’esiliazione di Romano Prodi (con scarsissime possibilità di resurrezione o ripescaggio politico), i maggiori banchieri s’infervorano in pilotate interviste nello scambiarsi attestati di reciproca stima. Negando l’esistenza di precedenti ed aspre rivalità. Il tutto sotto l’occhio vigile, e compiaciuto, del Gran Ministro Giulio Tremonti. Che sia stato Tremonti, coriaceo sessantenne valtellinese, a propiziare se non addirittura a
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stendere il protocollo che sancisce la fine delle ostilità o quantomeno un lungo armistizio, sono in pochi a dubitarne. Come sia riuscito, permane un mistero, sebbene le sue capacità mediatorie, dietro la maschera arcigna siano proverbiali e collaudate: nel suo studio di avvocato e consulente tributarista in via Crocefisso a Milano, essendo passati i più bei nomi dell’industria e del banking. Probità personale, laico rigore civico di Tremonti sono fuori discussione. Al pari dell’iter parlamentare: dalle iniziali simpatie per il Garofano socialista alla sintonia con Mariotto Segni, che lo portò in Parlamento nel 1994. Quindi l’aggancio a Forza Italia, con Berlusconi che gli affida il mini-
stero delle Finanze. È per natura scorbutico, talvolta saccente, concede di malavoglia interviste, non ama le comparsate televisive, privilegiando la sostanza delle idee alla vanagloria delle luci della ribalta. Nell’intimo, un calvinista. Basta scorrere i suoi libri (ultimo della serie il bestseller La paura e la speranza) per coglierne la vocazione: sostanzialmente dirigista proprio il richiamarsi idealmente a Colbert “pianificatore” di Luigi XIV, favorisce la sintonia con Sarkozy nello scarso amore per l’Europa (in questo vicino alla Lega dell’euroscettico Umberto Bossi), e sotto-sotto fautore di un ri-
calo di passeggeri: ad aprile: 25,7 per cento. La cancellazione delle rotte da Milano Malpensa ha infatti poco giovato a Roma Fiumicino così, lo scontro fra i due hub s’è tradotto in un generale disastro: per allontanare lo spettro del fallimento il Parlamento è alla prese con un decreto-ponte di 300 milioni. L’Europa e tutte le compagnie aeree lo contestano; Tremonti vola a Bruxelles onde rassicurare su una reale privatizzazione prossima ventura. Al momento, complice il caro petrolio, tutte le compagnie mondiali vedono passare dal nero al rosso i bilanci; e nes-
Sui peccati dei banchieri, sembra disposto ad un’assoluzione collettiva purché pongano fine alle intestine querelle, allineandosi con lui ed il premier
sul cruscotto della Finanza. Non dimenticando quella “scarsa trasparenza” nei rapporti con la clientela della quale s’è fatto interprete il governatore Mario Draghi. Infine, in privato, non c’è banchiere che neghi: i due terzi degli utili derivano dalle commissioni imposte alla clientela (dal doppio al triplo rispetto alla media europea); ed appena un terzo dall’intermediazione che dovrebbe essere la fonte principale. Financo la più astuta volpe del nostro sistema creditizio Cesare Geronzi, ex Capitalia ora in Mediobanca sulla poltrona che fu di Enrico Cuccia, ha pubblica-
MARIO SEGNI
NICOLAS SARKOZY
GIOVANNI BAZOLI
Dopo una iniziale infatuazione per il Partito Socialista di Bettino Craxi, Giulio Tremonti si imbarcò nell’avventura di Mariotto Segni. Grazie a lui nel 1994 approdò per la prima volta in Parlamento.
L’attuale ministro delle Finanze è sostanzialmente un dirigista, sotto sotto fautore di un ritrovato orgoglio nazionale, in piena sintonia con l’euroscetticismo del presidente francese Nicolas Sarkozy.
Per Alitalia, s’è chiamata ad advisor Intesa Sanpaolo. Il presidente Giovanni Bazoli, prodiano doc, aveva contrastato Carlo Toto di Air One. Uscito di scena Prodi, Bazoli ha deve averci ripensato.
trovato orgoglio nazionale. Destinato appunto a sconfiggere la “paura”.
Tremonti consapevole o meno, s’è trasformato nel regista (o burattinaio?) del fai-date per il salvataggio di Alitalia. Il governo Prodi di errori ne aveva commessi a valanga, lasciando marcire la patata bollente, trafficando politicamente per svendere a prezzi stracciati ad Air France; contando sulla benevolenza dei sindacati rivelatisi invece insuperabile ostacolo alla conclusione delle trattative. Mesi di melina, di scriteriate scelte hanno tolto alla Compagnia di bandiera quel che di buona immagine le restava. Oggi, nonostante i tagli, Alitalia perde 2,7 milioni al giorno, con un impressionante
suno spasima per investire nel nostro Paese. «L’Italia non riesce ad attrarre investimenti esteri», ha denunciato su 24Ore (4 giugno), Carlo Bastasin, aggiungendo: «se le scelte pubbliche corteggiano retoricamente l’autarchia, prima o poi la distanza economica diventa distacco culturale e questo chiude la porta allo sviluppo». Che Tremonti con Berlusconi ed i leghisti coltivi un protezionismo autarchico, non è ancora dimostrabile. Sarà il tempo a chiarire, ma i segnali si moltiplicano. Con Alitalia a fare da cartina di tornasole. Per il rilancio s’è chiamata ad advisor Intesa Sanpaolo. In un recente passato, il dominus Giovanni Bazoli, prodiano doc, aveva poco gradito (eufe-
mismo) le accostate del braccio destro Corrado Passera a Carlo Toto, l’ambizioso proprietario di Air One. Uscito di scena Prodi, Bazoli ha da averci ripensato, lasciando al collaboratore carta bianca.
Quali le arti di moral suasion messe in atto dal super ministro Tremonti? Fra le boisserie dell’Alta Finanza si sussurra che in cambio di una collaborazione a tutto campo, i banchieri godranno di un occhio di riguardo. A dispetto di quel che si proclama, i bilanci delle nostre carissime banche non sarebbero infatti al di sopra di ogni sospetto circa investimenti e pratiche non proprio esemplari. Col calo progressivo dei loro valori in borsa a segnalare una spia rossa accesa
mente ammesso: «dobbiamo assumerci la responsabilità di esserci distratti nel rapporto col cliente. Non abbiamo saputo vedere come la conservazione della clientela fosse un bene assoluto per il sistema bancario». Sui peccati dei banchieri, Giulio Tremonti sembra tuttavia disposto ad un’assoluzione collettiva, purché pongano fine alle intestine querelle, allineandosi a Palazzo Chigi e a Via XX Settembre. Recalcitrassero? Prendano nota del trattamento che si intende riservare ai “cattivi petrolieri” ipertassando i profitti e così conferendo a Giulio Tremonti l’immagine del Robin Hood che toglie ai ricchi per distribuire ai poveri. Ma le banche ed i banchieri?
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Il caso. Inglesi e tedeschi ai ferri corti
La black list del turismo di Silvia Marchetti
LONDRA. Turisti tedeschi?
Da un mese il presidente venezuelano veste i panni del leader “moderato” e attacca solo le Farc
Il silenzio di Chavez è una trappola perfetta di Maurizio Stefanini or qué no te callas? A sei mesi di distanza dal memorabile «perché non stai zitto?» gridatogli da re Juan Carlos al vertice ibero-americano di Santiago dello scorso 10 novembre, Chávez sembra essersi deciso finalmente a seguire il consiglio. E sebbene domenica scorsa il presidente venezuelano si sia rivolto alle Farc colombiane chiedendo di liberare senza condizione tutti gli ostaggi, perché «La lotta guerrigliera è diventata storia e voi delle Farc siete diventati il pretesto dell’imperialismo per minacciarci tutti, siete la scusa perfetta», l’ultima sua clamorosa sparata risale al 12 maggio, quando poco prima del vertice Europa-America Latina di Lima diede alla cancelliera tedesca Angela Merkel dell’«erede di Hitler». E l’aspettativa era dunque che al Vertice stesso avrebbe fatto un altro show. Invece niente, alla Merkel chiese addirittura implicitamente scusa stringendole la mano, e finì che il vero conflitto diplomatico da risolvere fu, a sorpresa, quello tra Spagna e Italia, per le uscite di alcuni membri del governo Zapatero contro la nostra politica sull’immigrazione. Anche quando è emersa la clamorosa notizia della morte del capo delle Farc, Tirofijo, si è mantenuto tutto sommato su un piano di grande moderazione: parlando solo dopo parecchio tempo, e limitandosi a biascicare qualche frase di corcostanza su quanto è brutto quando un essere umano muore, e quanto sarebbe bello se in Colombia tornasse la pace e liberassero gli ostaggi. Bella differenza, rispetto a quando a inizio marzo il
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numero due delle Farc, Raúl Reyes, fu ucciso in territorio ecuadoriano con un blitz all’israeliana e Chávez mandò addirittura le truppe al confine. In seguito il presidente venezuelano ha perfino iniziato a rinunciare a quello spazio tv di Aló Presidente, da cui ogni domenica mattina i giornali di tutto il mondo si erano ormai abituati a pescare per fare titoli a effetto. Al suo posto, sono andati i dibattiti congressuali del Psuv, il nuovo Partito Socialista Unito del Venezuela in cui si stanno fondendo i partiti chavisti. Da ultimo, è spiccata anche l’assenza di
giornale Reporte Diario de la Economía, assassinato dopo una lunga serie di attacchi agli scandali della petrolifera di Stato Pdvsa: l’agguato è stato in motocicletta nel più puro stile delle squadracce chaviste, ma non è una prova. Però è stato il ministro dell’Informazione Andrés Izarra che proprio nel primo anniversario dell’esclusione dall’etere della tv di opposizione Rctv ha deciso di far pagare 55 dollari al secondo i diritti di utilizzo del segnale della pubblica Vtv, per quelle stazioni non allineate che con quelle immagini cercano di porre rimedio al non ricevere più inviti agli eventi ufficiali. Nel contempo, lo stesso Chávez ha approfittato degli ultimissimi giorni di pieni poteri che gli restavano per varare una legge sullo Spionaggio e Controspionaggio che manderebbe addirittura in galera chi si rifiuti di “cooperare”come informatore per i Servizi. E già in passato alcuni momenti di apparente calma di Chávez hanno coinciso con intensi lavorii sotto banco per mettere oppositori e stranieri di fronte al fatto compiuto della trasformazione del suo governo in regime. Se Chávez tace, d’altronde, non manca tra i suoi amici chi spara in vece sua. Dopo la morte di Tirofijo, in particolare, è stato il nicaraguense Daniel Ortega a esaltare il defunto, vantandosi di avergli dato una decorazione. È l’ecuadoriano Correa che non ha ancora ristabito le relazioni con la Colombia. Ed è il boliviano Morales il cui ambasciatore a Lima è stato convocato dal governo di Alan García: da lui definito «più ciccione e meno anti-imperialista».
La sua foga oratoria si è affievolita man mano che filtravano alla stampa gli imbarazzanti contenuti dei computer che i militari colombiani avevano sequestrato a Raúl Reyes dopo la sua morte Chávez dal vertice della Fao di Roma, a differenza di due suoi stretti alleati come il presidente dell’Iran Ahmadinejad e quello dello Zimbabwe Ahmadinejad.
Che succede? Da una parte circolano rumores incontrollabili su una sua malattia. Dall’altra si può notare come la sua foga oratoria si sia ammosciata man mano che filtravano alla stampa gli imbarazzanti contenuti dei laptop che i militari colombiani avevano preso a Reyes dopo la sua morte, con i files suoi suoi legami con le Farc. Ma dall’altra ancora le notizie che arrivano dal Venezuela sembrano improntate a toni ben diversi dalla remissione. Lasciamo perdere Pierre Fould Gerges, il vicepresidente del
No thank you. Dopo la polemica turistica scoppiata alcuni anni fa tra Italia e Germania, oggi a prendersela con i villeggianti crucchi troppo rumorosi e numerosi che invadono le spiagge tocca all’Inghilterra. In particolare a un certo signor David Barnish, la scorsa estate turista suo malgrado in un albergo colonizzato da tedeschi nell’isola greca di Kos. Dopo una vacanza d’inferno Barnish ha fatto causa all’agenzia di viaggio Thomson perché lui e la sua famiglia non erano stati informati che al Grecotel Resort c’erano solo ed esclusivamente turisti provenienti dalla Germania e che tutto, dai menù alle gite fino all’intrattenimento serale e ai giochi per bambini, era in lingua tedesca. Barnish ha vinto la causa: una corte inglese gli ha riconosciuto un risarcimento del valore di 948 euro per il “danno”arrecatogli dall’invasione di crucchi a Kos. «Non sono razzista», si giustifica Barnish, ma la sentenza inglese ha urtato l’orgoglio della Germania facendo scoppiare una campagna mediatica contro la Gran Bretagna. I tabloid tedeschi, da sempre intrisi di nazionalismo, si sono lanciati in attacchi e insulti. Tanto che lo scandalistico Bild si dedica a fornire ai lettori “consigli utili” su come evitare in vacanza i turisti inglesi «ricoperti di tatuaggi che a torso nudo girano con boccali di birra in mano», pubblicando una guida turistica con la black list delle mete vacanziere off-limits. Il tabloid cita tour operator tedeschi che mettono in guardia i turisti perché loro, a differenza del signor Barnish, in caso di una vacanza rovinata si possono scordare eventuali risarcimenti. L’Express va oltre e tira un colpo basso agli inglesi, «Carissimi, ora potete avere tutte le spiagge soltanto per voi perché noi saremo agli europei di calcio». La nonqualifica dell’Inghilterra ai campionati era già stato oggetto di parodia al carnevale di Colonia.
mondo
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Una carneficina alla vigilia del processo ai terroristi che tentarono di uccidere il presidente Bouteflika
L’Algeria nel mirino di al Qaeda d i a r i o
di Enrico Singer
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g i o r n o
Crescono le spese per gli armamenti Le spese per armi sono in crescita, ma cresce pure la convinzione che serva il controllo degli armamenti. Questo risulta dalla relazione annuale dell’Istituto di Stoccolma per le ricerche internazionali sulla pace, Sipri. «È necessario intraprendere passi seri sulla strada del disarmo», ha dichiarato durante la presentazione della relazione il direttore del Sipri, Bates Gill. Le spese per armi sono cresciute del 6 per cento, raggiungendo 1340 miliardi di dollari. Usa, 547 miliardi, il 3,4 per cento in più rispetto al 2006 e più che in qualsiasi altro anno dalla fine della seconda guerra mondiale. Seguono Gran Bretagna, 59,7 miliardi, Cina, 58,3 e Francia. Questa la classifica che a livello regionale vede gli aumenti massimi in Europa orientale con la Russia, 35,4 miliardi, nella parte del leone.
Patto con gli Usa, Bagdad rassicura Teheran
Un’immagine dell’attentato del 6 settembre a Batna, nell’Est dell’Algeria: morirono 27 persone. I terroristi volevano uccidere il presidente Abdelaziz Bouteflika che sfuggì all’agguato ltri venti morti in un attentato nella stazione di autobus di al Buwiera, a Est di Algeri, dopo i dodici morti nella cittadina di al Akhdaria dove è stato ucciso anche un ingegnere francese. Una carneficina in 24 ore alla vigilia del processo che si dovrebbe aprire oggi contro i terroristi accusati di avere organizzato, il 6 settembre, l’agguato al presidente Abdelaziz Bouteflika nel quale morirono altre 27 persone a Batna. La violenza nel più grande Paese dell’Africa settentrionale sembra ormai quasi un male endemico con cui tutti sono costretti a convivere: gli algerini, i tecnici delle imprese europee che lavorano qui e i turisti che continuano a visitare Algeri la bianca o ad attraversare il piccolo Sahara lungo lo Shott el Jerid, il lago salato al confine con la Tunisia. Ma la guerra che il fondamentalismo islamico sta combattendo in questa parte del mondo non può essere liquidata come se fosse una specie di disgrazia ambientale. Anche perché dai tempi degli attentati terroristici degli Anni ’90 del Fis il Fronte islamico di salvezza - e del suo braccio armato - l’Ais, Armata islamica di salvezza - agli attacchi di Al Qaeda nel Maghreb, il nuovo gruppo che ha unificato sigle e movimenti, lo scenario è completamente cambiato.
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Come è accaduto già nei Territori palestinesi con Hamas o in Libano con Hezbollah, la lotta armata ha perso le sue connotazioni nazionali, territoriali o sociali per inte-
grarsi nella jihad islamica contro gli infedeli, i nuovi crociati, l’Occidente e i regimi moderati dei Paesi della regione predicata da Osama bin Laden e dai suoi seguaci. Non solo. I relativi successi politici del governo iracheno del premier Nouri al Maliki - che appena domenica ha incontrato il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad a Teheran e quelli militari delle forze americane sul terreno, hanno spinto gli strateghi del terrore a spostare il mirino dei loro attacchi. Le difficoltà del qaedismo in Iraq hanno rafforzato la rete terroristica nel
Più di trenta morti in 24 ore: sotto pressione in Iraq, le forze di Osama attaccano in Nordafrica Maghreb che, con il rientro di molti volontari già addestrati, si è riorganizzata. Non a caso gli Stati Uniti hanno varato un programma di sostegno ai Paesi nordafricani - la Trans Sahara Counterterrorism Initiative - che ha già visto l’intervento di esperti delle forze speciali americane al fianco dei soldati algerini in operazioni contro le milizie jihadiste. In realtà il fondamentalismo islamico algerino nasce dalle proteste scoppiate dopo l’annullamento delle elezioni politiche del 1991 che erano state dominate del Fronte islamico di salvezza che aveva già
vinto le elezioni comunali del 1990. La messa al bando del Fis ha scatenato una guerra civile che in dieci anni ha provocato più di centomila morti e almeno altri diecimila desaparecidos eliminati dalle bande islamiche e dai militari. Dal Fis è nato poi il Gia - Gruppo islamico armato - e, da questo, il Gspc: il temibile Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento che, oltre a compiere attacchi in tutta l’Algeria, ha stretto rapporti con i gruppi jihadisti attivi in Marocco e in Libia e, soprattutto, con la rete di al Qaeda saldando il nuovo rapporto tra i movimenti terroristici nazionali e la centrale qaedista.
Un rapporto sempre più stretto dal momento che, secondo l’intelligence Usa, almeno un quarto dei terroristi suicidi che si sono fatti esplodere a Baghdad erano maghrebini. Il Gspc ha allargato le sue attività anche nel Sud creando campi d’addestramento nel deserto algerino e arruolando volontari per combattere in Niger, Mali e Mauritania. All’inizio del 2006 tutti i gruppi islamisti del Maghreb e del Sahel sono confluiti nella organizzazione di Al Qaeda nel Maghreb che è ramificata in tutti i Paesi della regione ed anche in Europa. Proprio il grande numero di immigrati maghrebini che vive in Francia, in Spagna e in Italia rappresenta un serbatoio di possibili reclute per la jihad e una vasta retrovia per le azioni terroristiche come hanno dimostrato anche i numerosi arresti degli ultimi mesi.
Il primo ministro iracheno, Nuri al Maliki, in una visita a Teheran ha chiesto il sostegno dell’Iran per il patto di sicurezza che Bagdad ha intende firmare con gli Usa. Un Iraq più stabile è utile alla regione e al mondo ha dichiarato al Maliki incontrando il presidente iraniano. Contemporaneamente il primo ministro ha assicurato che dal suo Paese non potrà mai venire un pericolo per Teheran. Da parte sua la dirigenza iraniana ha promesso che appoggerà ogni azione del governo iracheno per arginare la violenza che ancora sconvolge il Paese del Golfo. Secondo gli Usa è però proprio l’Iran a sostenere la guerriglia anti governativa in Iraq.
Consiglio dei ministri franco-tedesco Per il consiglio dei ministri franco-tedesco nella cittadina di Straubing sono arrivati Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. All’incontro prendono parte anche i ministri di Difesa, Esteri, Economia e Ambiente dei due Stati. A dieci giorni del vertice Ue di Bruxelles si parlerà soprattutto di ecologia. La Germania è contro il limite di emissioni di monossido di carbonio per le automobili di nuova immatricolazione che entrerà in vigore nel 2012. Berlino ritiene che i produttori tedeschi con le loro vetture di lusso, siano svantaggiati rispetto ai loro colleghi italiani e francesi.
Per Spidla, donne sottopagate in Europa Secondo il Commissario Ue Vladimir Spidla, le donne tedesche sono pagate peggio degli uomini. «In Germania lo stipendio medio delle donne è più basso del 22 per cento di quello degli uomini», ha dichiarato il funzionario europeo alla Die Welt di ieri. Solo in Estonia, Cipro e nella Slovacchia, le differenze di salario tra uomini e donne sono peggiori.
Germania, a Dresda avanza l’estrema destra Nelle elezioni comunali in Sassonia la Cdu ha riaffermato il suo ruolo di prima forza politica del Land. È stata però l’estrema destra dell’Npd ha registrare il maggior guadagno di voti. a destra vince il sindaco uscente Helma Orosz, senza però raggiungere la maggioranza assoluta. Tra due settimane il ballottaggio.
Al Jazeera: sul luogo di lavoro pregare meno Il padre spirituale della Tv araba al-Jazira, Yusuf al-Qaradawi si è pronunciato contro la perdita di tempo nelle preghiere. Qaradawi, uno dei maggiori prominenti sceicchi del mondo arabo, rispondendo alla domanda di un telespettatore si è pronunciato sul tempo delle cinque preghiere quotidiane dell’Islam, affermando che si trattava di un giudizio giuridicamente vincolante, Fatwa. Le due preghiere che cadono nel tempo di lavoro devono durare al massimo 10 minuti.
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speciale
economia
NordSud
Le aziende italiane provano ad affacciarsi fuori dai confini Ue. Per rispondere al deficit di domanda interna e sostenere la produzione
EXPORT, VERSO NUOVI MERCATI di Giuseppe Latour anto manifatturiero, pesante deficit sul fronte dell’energia, made in Italy a fare da traino. E ancora agricoltura storicamente fortissima, rapporti privilegiati con i Paesi dell’Unione europea ma anche la speranza di emanciparsi da questa dipendenza, guardando lontano, dall’altra parte della Cortina di ferro. È la storia infinita dell’export italiano, che ripropone ciclicamente gli stessi temi di analisi. Anche se, dicono i fatti, siamo a un punto di svolta. I 360 miliardi di euro all’anno della nostra bilancia commerciale stanno rimodulando la loro distribuzione e, pur con
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commerciale in rosso. Anzi, in rosso profondo, con un deficit da 545 milioni di euro. L’import, infatti, è stato pari a 31,825 miliardi, mentre l’export è andato a 31,280. Rispettivamente in calo tendenziale del 2,5 per cento e del 3,8.
La composizione del dato, però, rivela degli aspetti ulteriori, non nuovi ma in qualche modo endemici del nostro modo di fare esportazione. Se si guarda ai soli Paesi dell’Unione europea, il saldo diventa improvvisamente positivo: 667 milioni in più, con 17,664 miliardi di importazioni e 18,331 di esportazioni. Bene
A incidere sulla bilancia commerciale soprattutto le risorse energetiche molte difficoltà, stanno andando in buona parte fuori dall’Ue. Così, in un momento difficile sul fronte dei consumi interni, le esportazioni rappresentano una risorsa sempre più irrinunciabile, che fa da combustibile per un’economia assolutamente in affanno. Soprattutto per quanto riguarda le voci di politica energetica. Gli ultimi dati rilevati dall’Istat nel mese di marzo parlano di un saldo della bilancia
quindi il dato relativo all’Ue. Dalla quale, numeri alla mano, dipende ben più del 50 per cento delle nostre esportazioni. Ma il confronto con lo stesso periodo dello scorso anno segnala che sia le importazioni sia le esportazioni hanno fatto registrare un calo molto pesante, superiore a quello complessivo: rispettivamente il 6,6 per cento e il 6,8. E questo vuol dire che i rapporti tra Italia ed estero
stanno rapidamente cambiando la loro composizione. Le imprese stanno cercando di non muovere più solo in direzione del Vecchio Continente, ma puntano a spostare il proprio asse altrove. E, infatti, alcuni storici interlocutori commerciali dell’Italia in Europa hanno fatto registrare dei cali decisi nelle esportazioni dall’Italia. La Germania è calata del 4 per cento, la Francia del 3,6, la Spagna del 10 e la Gran Bretagna addirittura del 12,8. Nonostante il rallentamento le esportazioni verso l’Unione europea continuano a essere trainanti. Lo dimostra l’analisi della situazione trimestrale. Nei primi tre mesi del 2008, infatti, la bilancia commerciale con i Paesi Ue ha fatto segnare un incremento delle esportazioni dell’1,6 e un incremento delle importazioni dello 0,6. Con un saldo finale in attivo a quota 1,771 miliardi contro i 1,243 dei primi tre mesi del 2007. E anche a livello complessivo si fa registrare una crescita. Salgono del 5,4 le esportazioni e del 4,4 le importazioni con un deficit di 5,1 miliardi rispetto ai 5,686 miliardi dello stesso periodo del 2007. I settori che hanno fatto registrare le frenate più brusche sul dato tendenziale sono quelli dei minerali non energetici e del legno: entrambi sono settori legati al ciclo dell’edilizia. Performance che hanno molto a che vedere con il calo della domanda e dei consumi all’in-
terno del Paese. Un’analisi confermata anche dall’Istat. Sul lato delle esportazioni, invece, gli andamenti tendenziali hanno quasi tutti davanti un segno meno. I decrementi più significativi ci sono stati nel settore dei prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi (12,4 per cento), legno e prodotti in legno (-11,4), prodotti chimici e fibre sintetiche artificiali (-10,6), apparecchi elettrici e di precisione (-10,4), articoli in gomma e materie plastiche (9,4). L’export di prodotti petroliferi raffinati è invece cresciuto del 33,1, mentre l’import è salito del 33,9.
Complessivamente, comunque, il governo ha ritenuto questi dati allarmanti. Il sottosegretario allo Sviluppo economico, Adolfo Urso, ha parlato di «segnale allarmante sull’ondata recessiva in atto». Ed ha aggiunto: «È chiaro che in questa fase delicata occorre una
politica di sostegno per le esportazioni». Se, però, allarghiamo la prospettiva, possiamo osservare che le caratteristiche italiane sono storicamente sempre le stesse. Anzitutto, una forte dipendenza dall’estero sul fronte dei minerali energetici, che ci regalano oggi spese per circa 5 miliardi ogni mese: il disavanzo della nostra bilancia commerciale dipende in gran parte da loro. E se non sarà eliminato il problema della dipendenza energetica italiana difficilmente ci libereremo del segno meno. Opposto il discorso per il manifatturiero. Sono soprattutto i settori delle macchine e degli apparecchi meccanici e, in generale, tutti i settori legati alla metallurgia a rappresentare il motore della nostra economia. Il secondo traino storico, poi, è rappresentato dai prodotti agricoli e della pesca. Anche se su entrambi negli ultimi mesi si sono addensate nubi
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L’analisi di Stefano Manzocchi: si investe poco nei Paesi lontani
«Troppo piccoli per andare in Cina» colloquio con Stefano Manzocchi di Francesco Pacifico export regge. Non sarà il 5-6 per cento registrato negli ultimi due anni e che ha portato il nostro Paese a conquistare il 3,7 per cento del mercato mondiale, ma anche nel 2008 il made in Italy continuerà a marciare nonostante la forza dell’euro, l’aumento dei prezzi alla produzione e una congiuntura non certo positiva. «L’export sta continuano a sostenere la domanda e il fatturato industriale», spiega Stefano Manzocchi, ordinario di economia internazionale dell’università Luiss e direttore di Luiss Lab. «E lo fa in una fase nella quale gli investimenti delle imprese sono fermi da un anno, dal primo trimestre 2007 per la precisione, i consumi interni sono in calo, mentre dal 1991 il reddito disponibile degli italiani è cresciuto dello 0,3 per cento medio annuo, contro il +2 di quello dei francesi e il +1 dei tedeschi». Qual è il livello di penetrazione delle nostre aziende a livello inter-
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piuttosto funeste. Soffre molto, invece, il tessile.
Ma la vera speranza el futuro è rappresentata dai paesi extra europei. I settori tradizionalmente forti dell’economia italiana, infatti, potrebbero trarre nuova linfa vitale dai mercati asiatici. I dati che più fanno comprendere il fenomeno sono quelli di gennaio scorso, da leggere pensando al pesante calo nella bilancia commerciale italiana verso Paesi come la Spagna o la Germania. Nel primo mese dell’anno, l’ultimo positivo sul fronte della bilancia commerciale, l’export verso i paesi extra Ue è cresciuto del 18,3 per cento e l’import è salito del 12,9. Una bilancia commerciale con il segno positivo a cifra doppia verso Russia, Paesi Opec, Cina e Mercosur. E proprio nei settori dove è più forte il made in Italy.
nazionale? Se guardiamo agli ultimi dieci anni, le imprese esportatrici sono passate dal servire, in media, dai cinque ai sei mercati stranieri. Detto questo, è aumentato il numero di imprese che esportano, un dato importante perché l’internazionalizzazione del Paese avanza non tanto con gli aumenti del fatturato estero delle singole imprese, quanto con la crescita della partecipazione ai mercati esteri delle aziende. Quindi? Non conta tanto quanto esporta la Fiat, ma il totale delle realtà produttive che spostano in avanti i confini della loro attività.
Quante ci riescono? Se è vero che è aumentato il numero di imprese esportatrici, è pero diminuita in termini relativi la quota di export delle realtà più piccole. Una tendenza che segnala il nostro, solito, problema dimensionale. Le Pmi sono ferme? Non direi. Piccole e medie imprese non hanno mancato di internazionalizzarsi in senso attivo. Si sono rese conto che solo con l’esportazione non ce le facevano più e sono state “costrette”ad investire all’estero. Ma fanno investimenti soprattutto nelle vicinanze: in NordAfrica, nell’Est Europa, nei Balcani. Allontanandosi un po’, gli italiani stanno facendo bene in Russia, Paese molto più vicino anche culturalmente. La Russia? Qui si è materializzata una classe di consumatori molto ricchi, esigente e attratta dagli standard di vita occidentali. E sono ben disposti a spendere per i beni italiani. Tanto che alcune nostre imprese hanno creato prodotti sofisticati e di qualità specifici per questo mercato, che talvolta non vengono commercializzati neanche in Italia. Tutto bene? Non proprio: se in media le aziende italiane riescono a coprire sei mercati esteri, le Pmi tendono a fermarsi a 3. Guardando questa fascia del sistema, si comprende quanto è difficile per noi affrontare i mercati esteri. Nei mercati più lontani è difficile vendere se non si fanno prima investimenti in termini di produzione e, soprattutto, di distribuzione. Un altro freno per l’Italia Gli altri nostri partner europei si muovono da sempre in maniera sistemica. Noi abbiamo cominciato più tardi, con le missioni congiunte ConfindustriaAbi-Governo. Abbiamo poi un pezzo d’Italia come il Mezzogiorno, che è lontano dal sistema degli scambi. Nella media nazionale, stando al grado di apertura commerciale, siamo lontanissimi dalla Germania. Si paga anche un deficit culturale? Si paga la frammentazione e la gestione obsoleta. Quando si cresce, e si va sui mercati esteri le funzioni che dovrebbero essere managerializzate sono il controllo della gestione, la progettazione e
l’export management. Invece nelle nostre piccole aziende il titolare tende ancora a fare da solo. Guardando ai dati, ancora una volta regina del Made in Italy è la meccanica. Anche questo settore manifesta sintomi di rallentamento rispetto allo scorso biennio, mentre tiene il comparto della meccanica strumentale. Il suo vantaggio competitivo è legato anche alle competenze e alle conoscenze tecnologiche, che non possono essere insidiate o copiate dai concorrenti stranieri. Lo stesso discorso non si può fare per il tessile. È uno tra i settori tradizionali più penalizzati, nonostante la crescita della moda. Anche perché una volta venduti i macchinari, non è difficile fare una produzione standard non lontana dalla nostra. Ma molto preoccupante è poi la situazione dell’oreficeria. Basta guardare ai problemi del distretto di Vicenza. Rallentano anche le nostre produzioni high-tech. Qui non eccelliamo da tempo, ma pesa anche la crescita della Cina in questo campo. Sbaglia chi pensa che fa soltanto le magliette: il suo export di high-tech è cresciuto del 30 per cento nella prima metà del decennio. Per concludere, proprio i mercati emergenti come la Cina, sono fuori dalla nostra portata? La Cina resta lontana, nonostante i tanti sforzi che sono stati fatti. Ma non sempre è un male, perché almeno si evita di fare il passo più lungo della gamba. Addirittura… Quello cinese è un mercato tosto, e non soltanto per i problemi di distanza o per le interferenze di vario genere. Intanto parliamo di un Paese che contiene al suo interno almeno altre cento nazioni: un discorso è andare a Pechino o a Shanghai, un’altro in una provincia più remota. Poi c’è un concetto diverso di concorrenza, come dimostrano le grandi commesse che sono decise a livello governativo o le agevolazioni che le imprese locali hanno, per esempio, nel pagamento degli interessi bancari. Perché sono da evitare le joint venture? A volte sono obbligate, ma si sono anche registrate esperienze molto negative. Le autorità cinesi favoriscono le joint venture come forma di investimento estero, con l’esplicita o implicita richiesta alle imprese straniere –magari comunicata dopo un certo periodo – di cedere il controllo al partner cinese. Diciamo che dopo l’iniziale euforia, ci si è reso conto quanto è difficile questo mercato. E vale anche per le grandi imprese: non ricordo di recente nuove grandi commesse, per esempio, negli appalti pubblici.
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economia
NordSud
libri e riviste
Il Belpaese secondo al mondo nella produzione di macchine da precisione con un fatturato dai 44 miliardi
La meccanica segna la rivincita della old economy pesso si pensa a questo come a un settore “maturo”. Che a causa della scarsità di materie prime e della necessità di investimenti in manodopera sia destinato a una massaccia delocalizzazione, perché il costo del lavoro è un onere che cresce anno dopo anno, mentre la scarsità di personale qualificato non viene colmato neppure attraverso l’immigrazione. Invece in Italia l’industria meccanica è viva, vivissima, e contribuisce in modo decisivo alla formazione del Pil nazionale e alla relativa ripresa del nostro export. Insomma, con fatica, e sostenendo il costo di continue ristrutturazioni che hanno colpito sia le medie sia le grandi aziende, l’industria riesce a reggere il confronto e la concorrenza internazionale. Soltanto in Italia, il comparto – nella componente degli associati alla rappresentanza di settore, l’Anima – ha fatturato nel 2007 43 miliardi di euro, in crescita dell’8 per cento rispetto all’anno precedente, e conta di sfondare quota 44 miliardi nell’anno in corso (+3 per cento). E se l’ export è aumentato del 10 per cento lo scorso anno – e che riguarda quasi il 60 per cento di quanto prodotto – l’occupazione non è lontana dalle 200mila unità.
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Proprio le vendite all’estero riguardano per il 50 per cento l’Unione europea, per il 19 l’Asia e per il 9 l’America del Nord. L’industria ha guadagnato soltanto nel Vecchio Continente una quota di mercato pari al 21 per cento, un record che la piazza al secondo posto dopo la Germania (al 41) e che permette di doppiare la Francia (all’11).
per cento: una performance che con buona probabilità verrà ripetuta quest’anno. Nel dettaglio, il settore è composto da una serie di comparti ad altissima specializzazione. Le macchine per la produzione di energia e per l’industria chimica e petrolifera e gli impianti industriali rappresentano quasi la metà del fatturato. Le macchine per l’edilizia e le tecnologie per i prodotti ali-
mentari sono i più robusti. Subito dopo vengono gli impianti per la sicurezza dell’uomo e per l’ambiente. Questa realtà affonda le sue radici nel triangolo industriale Torino-Milano-Genova, sul cui asse sono nate e hanno prosperato negli anni una serie di imprese di subfornitura che poi, durante il boom degli anni Sessanta e poi ancora negli anni Ottanta hanno saputo emanciparsi, staccandosi progressivamente da un legame a doppio filo con la Fiat. Per poi espandersi geograficamente tanto da arrivare nell’Emilia “rossa”e operaia, dove oggi macchinari per imballaggio (compreso il tetrapak), agricoli, oleodinamici o per il food la fanno da padroni in una produzione che ne fanno il distretto più fiorente d’Europa. Poi c’è la subfornitura vera e propria, che si estende dal Piemonte al Veneto per quanto riguarda il Nord, e lungo tutta la via Emilia per chi lavora con la Ferrari e l’Alfa. Più di tremila sono le piccole e medie imprese della zona, la stragrande maggioranza al di sotto dei 50 addetti, e tutte con un fatturato ragguardevole. C’è chi ha fatto il grande salto, cominciando a produrre in proprio dopo essere uscito dal vortice del contoterzi.Turbine, pompe, elettrodomestici, macchine per la lavorazione dei metalli e del legno: una strut-
Anche nel 2008 dovrebbe confermarsi il trend positivo. Il deficit di manodopera L’anno appena passato ha portato un aumento nel volume di produzione complessivo di circa il 5,8 per cento nell’Europa a 27, un trend confermato anche nei primi mesi del 2008. Sempre nel 2007 il comparto della meccanica ha raggiunto il 9 per cento della produzione industriale della Ue e ha accresciuto il suo fatturato raggiungendo un livello storico grazie anche all’intensificazione degli scambi commerciali intra ed extra Ue pari al 10 per cento. Decisiva la spinta dei distretti, che hanno aumentato le vendite all’estero di quasi il 13
iccardo Perissich descrive, forte della sua esperienza diretta di funzionario a Bruxelles e di manager privato, la storia e l’evoluzione dell’Unione europea, attraverso personaggi e avvenimenti spesso sconosciuti ai più. Un viaggio per comprendere meglio i pesi e i contrappesi dell’istituzione quanto i suoi limiti. Limiti che per l’autore possono essere superati soltanto spingendo gli Stati membri – oggi abbastanza refrattari a delegare poteri alla Ue – a trovare una sintesi che oggi all’Europa manca. Al riguardo Perissich è convinto che l’Unione, dopo i successi in campo economico, debba dotarsi di una veste più politica. Altrimenti si rischia uno scollamento che può portare a un’implosione morbida. Riccardo Perissich L’Unione europea Una storia non ufficiale. Longanesi, 336 pagine, 18 euro
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di Alessandro D’Amato tura industriale che in quattro anni ha incrementato il proprio export del 70 per cento, riuscendo contemporaneamente nell’impresa di aumentare l’incasso per unità di prodotto. Oggi raccolgono il 70 per cento dell’occupazione totale, stanno sul mercato e cominciano persino a investire in marketing e pubblicità, grazie all’aiuto delle Camere di commercio di zona. Ed esportano tantissimo: i migliori clienti risiedono nell’Europa a 15 (circa il 50 per cento di quanto fatturato) seguiti dagli Stati Uniti e poi, last but not least, l’Asia, dove le imprese manifatturiere acquistano i macchinari per produrre quanto riversano nei nostri mercati. Per la meccanica il 2008 si annuncia ancora pieno dati positivi. L’indagine congiunturale relativa al primo trimestre, condotta dall’ufficio studi dell’Anima, evidenzia un quadro di sostanziale tenuta delle aziende del comparto, nonostante la congiuntura economica sfavorevole e il clima di generale sfiducia degli operatori. Il 51 per cento delle aziende intervistate ha registrato nei primi tre mesi del 2008 un fatturato “stabile” rispetto al IV trimestre 2007; per il 29 per cento è in crescita, mentre il 20 ritiene la propria situazione leggermente peggiorata. «Nonostante la difficile congiuntura il settore si dimostra vitale», dice Vittorio Leoni, il presidente dell’associazione, «I primi dati rilevati sono meno negativi di quanto prospettato. In questi anni le performance della meccanica italiana hanno raggiunto dei picchi importanti nelle esportazioni e mantenuto costante l’occupazione».
Ma c’è un problema, che sta diventando sempre più grosso: la manodopera. Servono tecnici e periti, ma la scuola italiana non sembra in grado, per ora, di formarli. E l’immigrazione non riesce a sopperire la richiesta visto che per lavorare in officina c’è bisogno di alta specializzazione. Il rimedio? A Modena è nata Officina Emilia, laboratorio didattico multidisciplinare dove si studia e si lavora tra scienze, tecnologia e organizzazione, allo scopo di costruire un rapporto tra scuole e imprese e tra scuole e mondo locale della produzione. Duecento classi all’anno per imparare la tecnica e trovarsi poi avvantaggiati nel momento della scelta del lavoro. Un modo per legare formazione e occupazione.
ultimo numero di East dedica ampio spazio al tema delle migrazioni (e delle politiche per affrontarle) con gli interventi e le interviste di Anna Iara, Andrzey Bratkowski, Donato Speroni, Matteo Ferrazzi, Josè Luis Rhi-Sausi, Fabrizio Coricelli, Elena Fenili e Francesca Nenci. Nell’editoriale l’ex ministro degli Esteri Renato Ruggiero si occupa di globalizzazione e dei tentativi di governarla. Piero Sinatti anticipa i rapporti tra la Russia e l’America che uscirà dalle urne per le presidenziali di novembre. L’economista Stefano Chiarlone si concentra sui punti di forza e di debolezza dell’economia indiana. East Baldini Castoldi Dalai editore 158 pagine, 10 euro
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Come la nostra industria risolve (o aggira) il problema dei costi di produzione
Contoterzi, il motore del made in Italy di Alessandro D’Amato
MERCATO GLOBALE
Sulle spalle dei più poveri di Gianfranco Polillo
mpacchettano, imballano, spediscono. Oppure curano alcune fasi della lavorazione della filiera. E a volte, a parte la progettazione, arrivano a coprirle in toto. Le aziende che operano per conto terzi, ovvero che somministrano dalla manodopera alla subfornitura per altre imprese, sono migliaia: lavorano in maggior numero per settori come l’abbigliamento, il calzaturiero, il pellame, i tomaifici e la cosmesi. Sono 900mila complessivamente gli occupati di cui 555mila donne. Producono o lavorano per grandi marchi, spesso si tratta di piccole, se non minuscole, medie realtà imprenditoriali: si va dal piccolo laboratorio familiare alle aziende con meno di dieci addetti che vanno letteralmente a prendere la merce nelle fabbriche per poi riportarla dopo la lavorazione. E, in alcuni casi, nascondono anche terribili realtà di sfruttamento.
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È il caso della filiera produttiva della pelletteria e del calzaturiero come dell’abbigliamento: i grandi produttori di moda in genere preferiscono non produrre direttamente, ma scaricare sui fornitori tutti i costi d’impresa.
Marchi italiani ed esteri, recentemente finiti sotto mira grazie alle inchieste di “Report”: in laboratori improvvisati dentro cantine o magazzini decine di immigrati, spesso non in regola con i permessi di soggiorno, vengono tenuti a lavorare in condizioni igieniche disastrose e senza rispettare le norme sul lavoro, per fornire alle grandi aziende semilavorati o prodotti finiti a prezzi più che concorrenziali, strozzando così le imprese italiane che operano nello stesso settore e che seguono comportamenti virtuosi. Ma i contoterzisti sono anche altro: l’industria salentina del tessile-abbigliamento e delle calzature, per esempio, rappresenta un vero e proprio distretto della subfornitura in questi settori. Dopo la crisi degli ultimi anni, il comparto produttivo dei sopravvissuti è diventato più forte, cominciando anche un lungo cammino orientato alla produzione originale, con marchi di proprietà, alla quale si è affiancata quella per altri. Grandi firme come Armani, Ferragamo, Burani, Cavalli, Max Mara utilizzano il distretto leccese, che conta oggi 10mila aziende forti e in grado di sfidare la concorrenza e la delocalizzazione.
Realtà per le quali oggi l’unico grande problema è la selezione di personale qualificato: mancano i sarti “di livello”tanto che la locale Provincia ha promosso corsi di sartoria rivolti a giovani comunitari dell’Est. Poi c’è il caso della cosmetica, dove l’Italia è leader mondiale nella produzione in conto terzi: piccole e medie aziende “invisibili” per il grande pubblico, che offrono un pacchetto “full service”, non limitandosi a produrre una sostanza di cui è stata data loro la formula ma si occupano anche del packaging esterno e del design.Tutti i grandi gruppi, a cominciare dai francesi di L’Oreal, fanno lavorare i loro prodotti di gamma alta e di lusso proprio in Italia. La maggior parte dei terzisti sono vincolati da accordi di segretezza e, come avviene per il tessile-abbigliamento, non possono comunicare per chi operano. Ma alcuni non si accontentano di lavorare per altri e tentano il grande salto: per esempio, la bergamasca Valetudo, azienda con 70 dipendenti che produce creme anche con marchi propri. O la cremonese CB Automazione, che realizza macchine per il packaging, inalatori e prodotti farmaceutici. Poi c’è il private labeling nell’alimentare. I prodotti a marca commerciale creano un fatturato superiore ai 4,2 miliardi di euro, con una quota di mercato del 12 per cento: un settore in lenta crescita (in Francia e Germania la fetta è ancora maggiore) ma che ha già trovato per mezzo della partnership con la grande distribuzione la possibilità di svilupparsi: puntando alla fascia media e alta di produzione con prodotti competitivi che vengono garantiti dai marchi della grande distribuzione. Il ricorso alla subfornitura è pratica molto diffusa, specie per la pelletteria e vestiario: se ne serve quasi il 52 per cento delle imprese. E sono Emilia-Romagna e Umbria le regioni dove questa tipologia di impresa è più diffusa, anche se al suo interno la realtà è molto variegata.
In Umbria un’impresa su due dipende per metà del suo fatturato da un committente unico, mentre in Emilia questo accade solo per il 17 per cento delle aziende. I subfornitori fatturano prevalentemente all’interno della regione d’appartenenza (75 per cento). Un altro 18 si registra nel resto d’Italia e una piccola parte, circa il 5, all’estero. È la Toscana la regione leader, con fatturati più alti che in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Umbria. E il fattore imprenditorialità è decisivo, visto che il rapporto cliente-terzista è in continua evoluzione: il 60 per cento delle imprese non si limita a un rapporto soltanto esecutivo, ma cerca di inventare best practices per diventare sia esclusivista sia venditore in proprio. Piccole imprese crescono, sempre di più.
na serie di episodi, seppure lontani e contraddittori, dimostra che qualcosa si muove nelle acque, in apparenza chete, della situazione internazionale. Mentre il petrolio è inarrestabile, c’è la crisi di liquidità, della quale si parla poco, lontana dall’essere risolta. Rispetto a qualche mese fa i toni sono meno allarmati, le previsioni, specie per l’Europa, più tranquillizzanti, ma nessuno può dire se la calma piatta non sia soltanto la quiete che precede la tempesta.
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A Roma la grande assemblea della Fao si è chiusa con un nulla di fatto. Ciascun Paese si è prodigato soprattutto nel difendere le proprie posizioni: come Brasile e Usa che non cedono sull’uso del mais per produrre energia. Enormi estensioni territoriali messe a cultura, mentre gran parte della popolazione mondiale soffre di inedia, a causa dell’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Senza dimenticare le pratiche protezionistiche che contribuiscono a una drastica riduzione degli scambi e alla difficoltà di approvvigionare i Paesi più poveri del necessario per vivere: un pugno di riso, grano, una ciotola di polenta. A Tokio un G8 allargato ha trattato dei temi dell’energia. Il caro petrolio – è stato detto – rischia di determinare una recessione di carattere mondiale. È necessario che l’Opec e gli altri Paesi produttori aumentino la produzione del greggio. Chissà se a Riad o a Dubai questo monito avrà qualche conseguenza? Le resistenze sono tante e giustificate. Dei 140 dollari che costa un barile di petrolio, almeno la metà deriva dalla grande speculazione internazionale. Sabato scorso, per la prima volta dal 1991, è stata disposta la sospensione degli
scambi di futures al New York Mercantile Exchange. Motivo? Mentre il greggio balzava di 10 dollari, gli scambi avevano raggiunto quota un miliardo di barili, contro una produzione fisica di 85 milioni. Frenesia della speculazione. Ma è un mercato senza regole, quello che ci sta di fronte. In questi ultimi anni le Autorità di sorveglianza hanno sguarnito ogni difesa. Le somme a garanzia dell’esecuzione del contratto sono minime. Male che vada, quindi, l’operazione può essere abbandonata in qualsiasi momento con una perdita limitata. In grado di compensare, tuttavia, il rischio connesso alla possibilità di lauti guadagni. In queste circostanze la speculazione non è più lo strumento che consente una maggiore ottimizzazione delle risorse, ma diventa una roulette russa. Di chi è la colpa? Delle banche centrali, dicono gli economisti o meglio alcuni economisti. La politica monetaria inventata da Greenspan e proseguita da Bernake sta generando dei mostri. L’eccesso di liquidità internazionale alimenta continue bolle speculative che, di volta in volta, gonfiano i prezzi. All’inizio era la new economy, quindi gli immobili, ora le materie prime e i prodotti alimentari.
Più rigore chiedono la Bce e la Bri, la Banca dei regolamenti internazionali. Ma soprattutto basta con un dollaro in caduta libera, che spinge i grandi paesi produttori, per cautelarsi, ad alzare il prezzo delle proprie commodities. Critiche pungenti, quindi, con un immediato risvolto politico. Se ne è fatto interprete Medvedev, il capo del Cremino, che ha accusato gli Stati Uniti di voler svolgere un ruolo sproporzionato al loro peso effettivo negli equilibri mondiali.
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i accettano scommesse sulla durata dell’incontro di oggi tra la Confindustria e le confederazioni sindacali. Ma le quotazioni, questa volta, lasciano intendere che, dopo un primo incontro di routine, verranno messi in calendario dalle parti altri appuntamenti. In sostanza, oggi Guglielmo Epifani starà seduto al tavolo e si alzerà soltanto alla fine. Se poi questo maggiore (e inusitato) fair play avrà un seguito fecondo è tutto da scoprire. Ma levate di scudi non se ne vedranno. Quattro anni or sono il “gesto” di Epifani bloccò il negoziato; adesso nessuno si precipiterebbe a rincorrerlo. Sul piano della tecnica contrattuale – lo si è capito nel weekend anche a Santa Margherita Ligure – un’intesa è meno lontana di quanto possa sembrare in apparenza. Quello messo a punto da Cgil, Cisl e Uil non è sicuramente un progetto innovativo. Anche se ha la pretesa di cambiare i contenuti del Protocollo del 1993, in realtà continua a muoversi (il che non è necessariamente sbagliato) all’interno di quelle coordinate. Ma a essere rafforzato e potenziato è il livello nazionale che svolge addirittura la funzione di «centro regolatore» per la definizione delle competenze da affidare al secondo livello, fino a prevedere persino che «la contrattazione salariale ... si sviluppi a partire da una quota fissata dagli stessi Ccnl».
economia
S
Sono previsti, poi, alcuni vincoli che possono entrare in conflitto con le più recenti tendenze dell’organizzazione della produzione e del lavoro come appalti, outsourcing, cessioni di azienda. Per queste forme vanno definiti – suggerisce l’intesa – accordi e norme quadro per garantire condizioni normative, salariali e di sicurezza per arginare il fenomeno del dumping contrattuale «in particolare con la piena utilizzazione della “clausola sociale”». Al contratto nazionale resta affidato il compito di adeguare periodicamente il salario al costo della vita. Desta però qualche interrogativo l’adozione del criterio della «inflazione realisticamente prevedibile», (unitamente al superamento del cosiddetto biennio economico). Si rinuncia, così, a uno dei capisaldi del protocollo del 1993, laddove il riferimento all’inflazione programmata (salvo eventuale conguaglio successivo) era finalizzato a contenere l’incremento, giocando d’anticipo. L’indicatore, peraltro, non costituiva una camicia di forza per le retribuzioni dei lavoratori, ma un tentativo – non sempre riuscito – di difendere il loro potere d’acquisto. Il nuovo concetto di «inflazione
Oggi iniziano le trattative tra Confindustria e sindacati
La Cgil vuole una mezza riforma dei contratti di Giuliano Cazzola realisticamente prevedibile», rischia, invece, di trasformarsi in una nuova «scala mobile» travestita: una soluzione assai insidiosa in un momento in cui l’inflazione (per giunta spinta da fattori esterni) è tornata a livelli preoccupanti. Ciò detto per il livello nazionale (va incoraggiato il proposito di accorpare i contratti, ora in numero di oltre 400), alle modifiche proposte per la contratta-
zione decentrata non è attribuibile un percorso di rafforzamento. Nel Paese, poi, è aperto un altro problema ben più significativo di quello attinente all’actio finium regundorum tra contrattazione centrale e decentrata. È evidente che una
contrattazione uniforme a livello nazionale – se fosse correttamente applicata – favorirebbe il Sud, grazie al differenziale del costo della vita (rispetto a quello più elevato delle regioni settentrionali), nonostante che la produttività media del lavoro
Si rischia soltanto un rafforzamento del livello nazionale mentre in tutt’Europa si applicano deroghe
Anche al loro interno imprese e rappresentanti dei lavoratori sono divisi sulla strada da seguire
Tante proposte per un solo tavolo di Vincenzo Bacarani
ROMA. Contratto nazionale, contratto aziendale o territoriale o di filiera, e poi gabbie salariali e ora anche contratto individuale. Prima di cominciare, la trattativa tra imprenditori e sindacati per la riforma contrattuale – al via oggi pomeriggio nella foresteria di Confindustria in via Veneto – è una babele di proposte spesso opposte tra loro. Segnali e moniti vengono lanciati dal governo Berlusconi attraverso il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e quello della Funzione pubblica, Renato Brunetta. Il primo si dice disposto a dialogare solo con Cisl e Uil, se la Cgil continuasse a dire sempre no. L’altro chiede il licenziamento a chi fa troppe assenze o rifiuta trasferimenti. Anche la Confindustria ha cominciato a mostrare i denti. La nuova presidente Emma Marcegaglia, pur ammettendo che «ci sono le condizioni per fare un buon accordo», ha voluto sottolineare che non sarà «un accordo a tutti i costi». Non deve essere, secondo Marce-
gaglia un negoziato basato sull’ideologia (chiaro avvertimento rivolto alla Cgil), ma si deve tener conto «degli interessi dei lavoratori e delle imprese». A metterci il carico da novanta è arrivata la nuova presidente dei Giovani industriali. Federica Guidi ha ipotizzato una sorta di contratto individuale, cucito e confezionato per ciascun lavoratore in base a determinati parametri. Una provocazione? Se sì, l’unico a cascarci è stato Guglielmo Epifani che invita gli imprenditori «a rimettere i piedi in terra», se la prende con governo per «l’unanimità di vedute che si va profilando tra lo schieramento di centrodestra e il settore imprenditoriale». Più cauti i leader di Cisl e Uil. Mentre Raffaele Bonanni, che da mesi spinge per una robusta riforma contrattuale, cerca di smorzare i toni, Luigi Angeletti ribadisce l’importanza della trattativa che comincia oggi: «Abbiamo bisogno di un accordo sul modello contrattuale, non c’è alternativa».
sia inferiore del 18 per cento rispetto a quella del Centronord (si vedano le Considerazioni finali di Mario Draghi). Per uscire da questo cul de sac, che genera soltanto sommerso, occorrerebbe (ecco la vera riforma) mettere in discussione il principio della inderogabilità (il suo superamento è all’ordine del giorno in tutta Europa) delle norme contrattuali in forza del quale due livelli di negoziazione continuano a essere contemplati, da noi, in una prospettiva aggiuntiva (l’intesa intersindacale usa l’aggettivo «accrescitiva») e di progressivo miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro. In Germania questa ricerca si è concretizzata nella introduzione delle “clausole di apertura” (applicate nel 35 per cento delle aziende e nel 22 degli uffici) che consentono di scendere al di sotto degli standard previsti dai contratti collettivi (è frequente la prassi delle retribuzioni agganciate agli utili).
Anche in Italia, nel 1997, la Commissione presieduta da Gino Giugni approfondì – per incarico del primo governo Prodi – il problema della riforma della contrattazione (ne facevano parte Massimo D’Antona e Marco Biagi) e arrivò a prefigurare un’ipotesi derogatoria incentrata sulle “clausole d’uscita” rispetto a quanto definito dalla contrattazione nazionale. Si tratta di un’esigenza tuttora valida (già recepita nella contrattazione del settore chimico) e divenuta più pressante in un ordinamento federalista e a fronte dei problemi di sviluppo del Mezzogiorno, le cui realtà produttive non sono in grado di «sostenere» una regolazione del lavoro sostanzialmente e forzatamente uniforme. Quanto a Confindustria, le sue preoccupazioni sono altre. I datori di lavoro preferiscono, per ovvie ragioni, erogare il maggior numero di risorse disponibili ai propri dipendenti ottenendone in cambio migliori prestazioni. Ma il principale problema di viale dell’Astronomia è quello di non dover negoziare più volte (a Roma e in azienda) le stesse materie, essendo costrette a misurarsi con sindacati che non si accontentano delle mediazioni raggiunte nei contratti nazionali, ma che rilanciano abitualmente sui medesimi temi a livello decentrato. Quanto poi alla riforma della contrattazione, un contributo decisivo è venuto dal governo con la detassazione degli straordinari e dei premi. È normale che tali istituti – la cui sede naturale è il posto di lavoro – saranno privilegiati nelle pratiche negoziali, proprio perché su di loro peseranno di meno le ritenute fiscali.
economia
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Il mondo delle telecomunicazioni plaude all’iniziativa del governo che amplia l’uso di internet veloce sul territorio
Ricette on line,volano per la banda larga d i a r i o
di Alessandro D’Amato
d e l
g i o r n o
Tremonti incontra Almunia a Roma Il commissario Ue agli Affari economici e monetari, Joaquin Almunia, sarà oggi a Roma dove incontrerà il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Il faccia a faccia tra Almunia e Tremonti sarà l’occasione per il ministro per ribadire le linee generali del programma di politica economica del governo Berlusconi. Probabile che si entrerà un po’ più nel dettaglio sui contenuti che dovranno riempire la prossima manovra finanziaria del governo italiano: quel piano triennale che vedrà la luce entro fine giugno col Dpef e che sarà affiancato da un piano di sviluppo fatto di liberalizzazioni e privatizzazioni. Tutto ciò partendo da un punto fermo: il rispetto degli impegni presi in Europa dal precedente governo, a partire dal pareggio di bilancio da centrare entro il 2011.
Statali: il 18 il piano Brunetta Il piano strategico della pubblica amministrazione, messo a punto dal ministro Renato Brunetta, sarà presentato al Consiglio dei ministri il prossimo 18 giugno. Lo ha annunciato, in una nota, la fondazione Magna Charta. Le indiscrezioni trapelate ieri, sono state confermate da fonti governative secondo le quali sarebbe questa la data «indicativa» per il varo del provvedimento.
Petrolio, primi segnali di discesa
ROMA. Una “exit strategy” dalle scartoffie burocratiche. E i primi a sperimentarla saranno medici e farmacisti. Lo aveva promesso, il Popolo delle Libertà, nel suo programma elettorale: avrebbe varato un piano per la digitalizzazione della pubblica amministrazione che avrebbe consentito allo Stato di risparmiare qualche miliardo di euro. E Tremonti e Brunetta hanno deciso di cominciare direttamente dalla prossima Finanziaria. Le prescrizioni mediche per gli esami specialistici, e poi anche quelle per i farmaci, si trasferiranno su Internet. L’intenzione primaria è quella di razionalizzare la spesa: portando il ricettario medico sul web si punta a controllare meglio un settore che allo Stato costa alcuni miliardi e nel quale le frodi – vista anche la difficoltà delle Asl a controllare l’erogazione delle prestazioni – sono all’ordine del giorno. Ma accanto a questo obiettivo se ne intravede un altro, non meno importante.
A quanto pare, guarda con molto interesse a questo progetto tutto il mondo italiano dell’Ict, provider in testa. E non soltanto perché la digitalizzazione potrebbe riguardare un settore, la sanità pubblica, che vale qualcosa come 97 miliardi di euro. Rispetto agli anni scorsi, nei quali si sperava nell’intervento statale per dotare l’Italia di una rete a banda larga di ultima generazione – la Next generation net, che costerà almeno 15 milioni di euro – oggi le aziende di Tlc puntano su misure che rendano obbligatorio
l’uso del web, come l’erogazione delle ricette sanitarie attraverso internet. Le occasioni possono essere molteplici. E infatti il mondo dell’Ict si aspetta moltissimo dal piano Brunetta per la pubblica amministrazione. Non a caso il ministro ripete che, «nell’era digitale, non è possibile che molti servizi debbano avere ancora bisogno della carta, di penna e calamaio». Spiega Gianmarco Carnovale, consigliere dell’Associazione Italiana Internet Provider (AIIP): «Quello sulle ricette è un provvedimento positivo, soprattutto perché co-
In passato le aziende auspicavano un intervento dello Stato per la Ngn, oggi si punta al trasferimento dei servizi verso la rete stringerà i medici di base a dotarsi di una connessione a internet: i provider non possono che esserne contenti visto che i camici della mutua sono alcune migliaia e, per quanto ho potuto vedere, sono una categoria particolarmente refrattaria a lavorare con la rete, soprattutto per quanto riguarda la componente più anziana». E quali potrebbero essere i prossimi provvedimenti delle amministrazioni contro il digital divide? «I Comuni», aggiunge Carnovale, «specialmente quelli più piccoli,
dovrebbero facilitare le istruttorie per la posa della fibra ottica, visto che si riscontrano molti problemi e lungaggini autorizzative. L’Amministrazione centrale dovrebbe finalmente decidersi ad accelerare sull’identificazione elettronica dei cittadini e sulla possibilità di ottenere certificati e iscriversi ai servizi essenziali o prenotare visite ospedaliere attraverso internet. Non dovrebbe essere impossibile».
Se le aziende dell’Ict gongolano e il governo stima un risparmio del 10 per cento della spesa farmaceutica totale, le categorie interessate sono meno ottimiste. I medici, per esempio, sono favorevoli all’iniziativa, ma, come nota, il segretario nazionale della Fimmg Giacomo Milillo, «esistono seri problemi di organizzazione. Non è impossibile a livello di tecnologie, ma ci sono seri problemi per le strutture e l’organizzazione». Anche perché il governo punta a ricostruire un vero e proprio fascicolo sanitario elettronico del cittadino. «Questo significa», per Milillo, «conoscere oltre ai dati anagrafici anche le terapie in corso, le malattie croniche, le allergie. Ma così si garantisce una migliore assistenza». Ma di strada da fare ce n’è ancora tanta. Era stato sbandierato il servizio del portale della Regione Lazio che permetteva di cambiare medico di base direttamente con un click, per chi si registrava on line. Dopo due anni dal lancio, il form di prenotazione continua a rimandare a una pagina di errore e il servizio risulta inaccessibile.
Brusco calo dei corsi petroliferi, dopo una mattinata in cui si erano tenuti in prossimità dei record toccati venerdì scorso, a un soffio dai 140 dollari al barile. Gli analisti prevedono che la tensione sottostante favorisca un proseguimento dell’altalena dei prezzi. Negli scambi dell’after hours sul Nymex, la Borsa merci di New York, i futures sul greggio in prima scadenza calano di 1,33 dollari. Venerdì il Wti ha segnato un picco massimo a 139,12 dollari. Sempre nella mattinata di ieri a Londra il barile di Brent, il petrolio del Mare del Nord, è sceso di 2,31 cents a 135,38 dollari.
Telecom: sarà ceduta Alice France Telecom ha avviato una trattativa in esclusiva con la società francese Iliad per la cessione di Liberty Surf Group, l’internet service provider che opera in Francia prevalentemente con il marchio Alice di Telecom Italia. È quanto si apprende da una nota secondo la quale l’operazione, destinata a concludersi entro il prossimo mese di settembre, prevede un valore d’impresa di 800 milioni di euro. Advisor per Telecom Italia sono Calyon e Mediobanca.
Lehman Brothers, un aumento da 6 mld Lehman Brothers ha annunciato un piano di aumento di capitale da 6 miliardi di dollari attraverso l’offerta di azioni ordinarie e privilegiate. L’annncio dell’aumento del capitale è giunto in concomitanza con la pubblicazione dei risultati nel secondo trimestre che hanno rilevato una perdita di 2,8 miliardi di dollari. In Borsa il titolo è crollato. A scatenare il sell off non sono però né la perdita trimestrale (la prima dal 1994) né la notizia in sé dell’aumento del capitale ampiamente attesa dai mercati, spiegano gli analisti, quanto l’entità della suddetta emissione di nuove azioni, la prima dallo sbarco di Lehman Brothers a Wall Street. L’annuncio rientra nella strategia del top management di ripristinare la credibilità del broker tra gli investitori che dall’inizio dell’anno hanno dimezzato il valore del titolo in borsa.
Cristofori: da Tiscali a Seat Massimo Cristofori ha lasciato Tiscali per Seat Pagine Gialle dove è stato nominato Direttore finanziario. Si rafforza così la squadra di Luca Majocchi dopo la nomina, settimana scorsa, di Massimo Castelli (ex Telecom) alla direzione generale Italia. Cristofori, si legge in una nota, assume anche l’incarico di dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, ruolo fino ad oggi ricoperto ad interim dall’amministratore delegato.
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cultura
L’inventore dell’antipolitica non fu Guglielmo Giannini, ma suo padre Federico
Il qualunquista, quello vero di Giancristiano Desiderio a parola “antipolitica” oggi è di gran moda. Tanto di moda che si tende a credere - qualunque sia il suo significato, tutt’altro che pacifico - che sia una invenzione di recente conio. L’antipolitica, invece - la cosa, prima della parola - è antica e uno dei suoi tanti inventori fu un napoletano: Guglielmo Giannini. Chi era costui? Un commediografo e giornalista che nel 1944 a Roma fondò, diresse e in gran parte scrisse il settimanale dal successo inaspettato L’Uomo qualunque il cui slogan diretto contro coloro che «hanno fatto della politica un mestiere» era: «Non ci rompete le scatole!».
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Se ne volete sapere di più leggete il bel libro di Carlo Maria Lomartire uscito ora da Mondadori: Il qualunquista. Sottotitolo: Gugliemo Giannini e l’antipolitica. Vi troverete una storia bella, umana, appassionante. In un’Italia semidistrutta, affamata, disorientata e depressa Guglielmo Giannini si inventò un “foglio” aggressivo e ironico, semplice, popolare, “napoletano”, che chiariva i sentimenti della gente comune contro il fascismo e il comunismo, ma anche contro il nuovo sistema dei partiti che si costruiva sulla base dell’esperienza del Comitato di liberazione nazionale. Se volete approfondire leggete il libro. Perché io, ora, qui, voglio raccontare solo un aneddoto di Giannini padre, Federico, anche lui brillante giornalista napoletano (ma tutta la famiglia Giannini è brillante: Guglielmo è il nonno della più nota, a noi contemporanei, Sabina Ciuffini, la “valletta”di Mike Bongiorno). Verso le ultime pagine de La Folla, il libro che è il manifesto politico del qualunquismo, Guglielmo Giannini racconta il rivelatore “fattariello”. Al tempo del fascismo trionfante, durante la guerra d’Etiopia, il vecchio e brillante giornalista napoletano, dallo spirito ironico e dalla battuta sempre pronta, non se la passava bene. Troppo libero, troppo libertario, troppo indipendente per andare d’accordo con il regime di Mussolini. Ma è proprio allora, in quel tempo di massimo consenso, che Mussolini dispone una specie di “mietitura di cervelli”: in altre parole, coinvolgere anche chi finora non si era fatto coinvolgere, cercare il consenso anche di chi finora non l’aveva voluto rilasciare. Il prefetto, così, ricordando gli splendori di Federico Giannini lo mandò a chiamare e gli disse: «l governo vi vuole aiutare, indicateci dunque in che modo possiamo esservi utili, quale attività, con la vostra esperienza e cultura, potreste svolgere». Il vecchio giornalista ci dovette pensare un po’ su e poi, invece di mordersi la lingua come
avrebbe fatto qualunque altro uomo qualunque, avanzò la sua proposta per Mussolini e il fascismo: «Dovrei essere sempre vicino al duce e ogni mattina lo andrei a riverire prima di chiunque altro, dicendogli queste parole: Benito, non dimenticarti che sei uno sciocco». Anche se, in verità, la frase dovette esser detta in napoletano, che suona in modo assai più autentico e gustoso: «Benì, nun te scurdà ca si fesso». Il giornalista napoletano scherzava, era uomo di mondo, ma chi lo ascoltava non aveva una gran voglia di questi scherzi da prete e il regime ritirò la mano tesa e anche l’assistenza. Federico Giannini menerà vita grama per poi morire di stenti a seguito di una brutta polmonite. Quell’ennesimo sberleffo al potere gli costò la vita.
Nella frase del padre di Guglielmo Giannini c’è la “filosofia qualunquista” de L’Uomo qualunque. Lo stesso Giannini, infatti, ricorda che quel “Benì, nun te scurdà ca si fesso” altro non era che un adattamento del “sic transit gloria
Per una frase irriverente a Mussolini fu costretto a vivere di stenti. Il figlio fondò il movimento che è considerato ”la prima protesta contro la casta” Il 27 dicembre 1944 uscì il primo numero del settimanale ”L’uomo qualunque”, ideato da Guglielmo Giannini che poi fondò un partito che elesse 32 parlamentari
mundi” che l’ammonitore, nell’antica Roma, ripeteva ai duci affinché non perdessero la testa inebriati dal trionfo e restassero con i piedi per terra senza accarezzare strane idee che avrebbero procurato problemi alla Repubblica. Troppo qualunquista? Può darsi. Ma non ripetiamo noi che il potere va criticato, controllato, incalzato? E perché se non perché il potere va sempre limitato
perché sempre in conflitto con le libertà degli uomini e dei cittadini? All’origine del qualunquismo di Giannini c’è un liberalismo istintivo che lo portò ad essere nemico dei “gemelli totalitari”, fascismo e comunismo, ma anche della nascente partitocrazia, tanto che l’idea di oggi, quella di avere solo due o tre grandi partiti, è un’idea di ieri espressa proprio dal Giannini uomo qualunque.
Nell’Italia dell’immediato dopoguerra, l’avventura giornalistica e politica di Giannini rappresenta per noi oggi “la prima protesta contro la casta”. Quando il 27 dicembre del 1944 uscì il primo numero del settimanale che aveva come simbolo un omino stritolato da un torchio, il suo ideatore, fondatore, direttore, redattore non solo non pensava, ma non poteva neanche minimamente immaginare il successo che avrebbe avuto. In poche ore il giornale sparì dalle edicole. In poche settimane raggiunse la cifra di 850mila copie.Tanto che Giannini - il liberale Giannini, il repubblicano Giannini, l’antifascista Giannini, l’anticomunista Giannini, il borghese e cattolico Giannini, ve-
dete voi se qui non c’è quella che si chiama “l’Italia moderata”, compresa l’antipatia che Giannini aveva per la Dc e che la Dc gli ricambiava - moltiplicò le sue iniziative editoriali, a partire dal quotidiano “Il Buonsenso”. Ma prima o poi capita a tutti gli “antipolitici”: fanno una fesserie, fondano un partito. Sulle prime fu un successo anche il partito, tanto che nell’Assemblea costituente c’erano ben trentadue qualunquisti (e tra questi l’unica donna che Giannini volle candidare alla presidenza provvisoria dello Stato). Poi arrivarono le delusioni, le sconfitte, i tradimenti. E Giannini capì che mai avrebbe dovuto trasformare in partito il suo “movimento ideale” che seppe fare, come mai in seguito, pelo e contropelo al potere al fine di salvare le libertà dell’uomo qualunque.
musica
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lzino la mano gli over 50 che non ricordano almeno una canzone dei Creedence Clearwater Revival, Proud Mary, Bad Moon Rising o Have You Ever Seen The Rain. Sempreverdi che continuano a nutrire le radio formato “classic rock”di tutto il mondo: eppure il loro autore, John Fogerty, per la prima volta in Italia il 12 giugno prossimo all’Alcatraz di Milano, non è mai diventato un’icona come Mick Jagger, Robert Plant o sir Paul McCartney, e siete perdonati se non ricordate la sua faccia.
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Neppure da giovane ha mai indugiato in atteggiamenti e abbigliamenti eccentrici: quando gli altri indossavano collanine e caffettani colorati inghiottendo tavolette di Lsd come se fossero pasticche per la tosse, lui sfoggiava imperterrito i suoi camicioni a quadri da boscaiolo e il suo caschetto post British Invasion, indietro di qualche anno sulle mode del momento. E dire che veniva da El Cerrito, sobborgo di San Francisco, la culla dei figli dei fiori e della controcultura. Gli hippies e i benestanti, i «figli fortunati» di una sua celebre canzone «nati con il cucchiaio di argento in bocca», contestavano il Vietnam dai campus dei loro esclusivi college universitari; lui invece dava voce a quelli che venivano spediti al fronte perché non avevano soldi né santi in paradiso per eludere la chiamata dello zio Sam. Altrettanto controcorrente e fuori tempo Fogerty era nei gusti musicali, nei modelli culturali. Doors, Jefferson Airplane e Grateful Dead si ispiravano a Burroughs, a Ginsberg e agli acid tests di Ken Kesey, lui continuava a venerare il vecchio rock’n’roll di Jerry Lee Lewis e di Little Richard con cui lo scorso febbraio si è esibito ai Grammy Awards chiudendo un cerchio aperto più di quarant’anni prima. Mica un agnellino, mr. Fogerty. Cresciuto all’ombra del fratello Tom, chitarrista ritmico e leader della banda giovanile dei Blue Velvets, pian piano lo sovrastò spingendolo ad abbandonare i Creedence nel 1972. Quando il maggiore dei Fogerty morì stroncato dall’Aids nel 1990 i due fratelli avevano smesso di parlarsi da anni. John non aveva mai perdonato a Tom di non aver preso le sue parti nella feroce disputa con Saul Zaentz, il titolare della casa discografica Fantasy che si intascava le sue royalty disponendo a piacimento del suo catalogo: per quindici lunghi anni il cantante e chitarrista fu costretto a dimenticarsi dei Creedence, anche negli spettacoli dal vivo, sfogando la sua rabbia in pezzi velenosi e dai titoli elo-
John Fogerty per la prima volta in Italia
Splende ancora la luna dei Creedence di Alfredo Marziano
L’anima dei Ccr, il 12 giugno sarà a Milano per un concerto all’Alcatraz. Un evento del classic rock hippie quenti come Zanz Kant Danz e Mr. Greed, il signor Avidità (ed ecco un altro cerchio che si chiude: scomparso anche Zaentz, Fogerty è tornato a incidere di recente per la sua storica etichetta). Uomo brusco e ispido, John, però le ragioni artistiche stavano dalla sua parte: i Creedence, una meteora bruciante che in sei anni appena di vita si lasciò dietro una scia di polvere di stelle e di successi da classifica, funzionarono finché lui li governò con mano ferma da despota illuminato.
Quando, cedendo finalmente alle insistenze del bassista Stu Cook e del batterista Doug “Cosmo”Clifford che pretendevano la loro fetta di luce e di gloria, accettò di spartirsi equamente con loro onori ed oneri, ne uscì
In alto, John Fogerty in una recente esibizione dal vivo. Qui sopra, la copertina di un vecchio disco dei Creedence Clearwater Revival
fuori un disco fiacco come Mardi Gras, ultimo capitolo della saga e unico flop in carriera. Da allora, tra i tre superstiti, c’è stata solo ruggine e muffa: il grande sgarbo risale al ’99, quando alla cerimonia di introduzione dei Creedence nella Rock and
Roll Hall of Fame, Fogerty rifiutò di salire sul palco insieme a Clifford e Cook facendosi accompagnare invece da Bruce Springsteen e Robbie Robertson; la vendetta dei due gregari si consumò con l’allestimento di una improbabile Creedence Clearwater Revisited con cui riuscirono a turlupinare solo i più sprovveduti. Ovvio, la vita artistica di Fogerty non si è fermata lì: a metà anni Ottanta Centerfield sembrò anzi dimostrare che lui poteva fare a meno dei Creedence e non viceversa, e il suo ultimo album Revival – un titolo che è tutto un programma – ha acceso qualche fiammella nostalgica nei vecchi fan. Ma è certo che la formula magica della sua splendida arte povera resta tutta racchiusa in quei primi sei album che uscirono a raffica nello spazio strettissimo di quattro anni cruciali, 1968-1971. La ricetta base consisteva in canzoni di due o tre minuti, d’apparenza grezza ed elementare ma sempre con un gancio irresistibile, una capacità di sintesi fulminante. Due accordi, due strofe, un ritornello e il gioco era fatto, nasceva un classico istantaneo dietro l’altro: Born On The Bayou, Green River, Down On The Corner, Run Through The Jungle, la metaforica Who’ll Stop The Rain che cinque anni fa, nel diluvio di San Siro, Bruce Springsteen cantò a squarciagola mentre fiumi d’acqua colavano dal suo cappellaccio fradicio da cowboy. Fogerty è un contraltare meno epico e romantico del Boss e di un certo modo di essere americani tutti d’un pezzo: con la sua voce maschia e cartavetrata faceva rivivere il blues di Screamin’ Jay Hawkins, il folk di Leadbelly, il rock and roll di Elvis, il soul di Marvin Gaye (una chilometrica versione di I Heard It Through The Grapevine). Californiano doc, s’è inventato un falso storico che suona più vero del vero, un sound torrido e fangoso che sa di Bayou country e di umidi vapori swamp blues , di Louisiana e di paludi. Conservatore? Forse, ma alla maniera di Clint Eastwood, con lo stesso sguardo amaro e disincantato su un’America dove la pagano sempre i poveracci, con «la polizia all’angolo/la spazzatura a bordo strada/e gli attori alla Casa Bianca» (Ramale Tamble). Certo cinema revisionista, da Il grande freddo a Forrest Gump, non ha potuto fare a meno di citare la musica Creedence: incastrata nella memoria di tutti i baby boomers, Lawrence Kasdan, Robert Zemeckis, John Landis e persino il presidente George W. Bush che cita Centerfield come sua canzone preferita. E pazienza se nel 2004 mr. Fogerty si schierò pubblicamente per John Kerry
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memorie
Ritrovato, dopo più di sessant’anni, il diario del generale che guidò l’esercito italiano nel secondo conflitto mondiale
La guerra segreta di Graziani di Mauro Canali uando il 30 aprile del 1945, il generale Rodolfo Graziani si consegnava agli Alleati, con i quali aveva preso contatto tramite l’agente dell’OSS “Dario”, cioè il capitano D’Addario, aveva con sé numerosi documenti autografi che consegnava loro. Vi erano comprese tre agende, che coprono il periodo da settembre 1939 al gennaio 1941, quando egli ricoprì la carica di capo di stato maggiore, su cui riportò le sue impressioni, i suoi spostamenti, i suoi incontri ed anche alcuni sintetici ma sempre interessanti giudizi su uomini ed eventi. Si tratta delle agende che mancano tra le sue carte depositate all’Archivio centrale dello Stato. Le tre agende si trovano, insieme ad altri documenti provenienti dagli archivi di Graziani, ai National Archives, dove le ho rintracciate insieme a un importante memorandum compilato da Graziani per Mussolini sugli incontri che egli andava facendo con i tedeschi per concordare con loro lo sforzo bellico imminente. Un mio saggio sulla nuova documentazione di Graziani vedrà la luce a breve per Nuova Storia Contemporanea, la rivista diretta da Francesco Perfetti. E’ inutile dire che si tratta di documenti di grande interesse, che consentono di capire meglio e, in alcuni casi, di chiarire alcuni punti interrogativi sull’ingresso dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940.
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Sulle condizioni dell’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania, vi sono, nei diari di Graziani, assieme ad alcune conferme, alcuni non irrilevanti dettagli che sono decisivi per una visione più completa della condizione con cui il regime fascista si accingeva a trascinare il paese in guerra. Per esempio, il 12 marzo 1940, giusto all’indomani della visita di von Ribbentrop a Roma, quella del 10-11 marzo 1940, i documenti di Graziani riportano di una riunione tenuta da Soddu nell’ufficio di Graziani, presenti Roatta, il generale Rossi e il col. Sorice, nel corso della quale ciò che nei diari di Ciano appare assai generico, il
ministro degli Esteri scrive di un colloquio «senza slanci né da una parte né dall’altra», viene rappresentato con molta più precisione da Soddu ai responsabili militari riuniti. Scrive Graziani che Soddu riferisce loro: «La Germania non ci chiede di intervenire subito in guer-
to a voltarsi contro la Germania dopo esserne stata alleata, ma anche la diffidenza nei confronti di Ciano, ministro degli Esteri, allora già nel mirino di Hitler e dei suoi collaboratori in quanto ormai su posizioni fortemente ostili nei confronti dell’alleanza Roma-Berlino.
qualcosa da quelli di Ciano, è la vana insistenza tedesca per un riavvicinamento italiano all’Urss. Ciò che non si sapeva era che Ribbentrop in occasione della sua visita offrì, in cambio di un accordo del regime fascista con l’Urss, sia pure momentaneamente a carattere esclusivamente commerciale, l’impegno tedesco a fare pressioni su Stalin affinché acconsentisse a una espansione dell’influenza italiana nei Balcani. Interpretando molto probabilmente le convinzioni di Mussolini, Soddu si era dichiarato convinto che si potesse «correre il rischio di dover intervenire entro il 1940». E, in questa prospettiva, auspicava che si accelerasse almeno «l’approntamento dei fucili commissionandone un altro milione in modo di arrivare ad una disponibilità di circa tre milioni», e si intensificasse «la produzione delle munizioni». Ma ancora più interessante appaiono i passaggi della documentazione relativi ai colloqui Mussolini-Hitler avvenuti
Negli scritti i dettagli dello scontro con il maresciallo Badoglio, che rivelano una certa animosità anche nei confronti di Ciano ra»; Hitler tuttavia vuole, - e questo è un passaggio interessante - aver chiaro «in modo definitivo» quale sarà l’atteggiamento italiano. Cioè, dichiara esplicitamente Soddu, la Germania vuole «avere la certezza che non interverremo contro di essa». Vi è nell’incertezza tedesca non solo la residua diffidenza per un paese, la cui classe politica già in passato non aveva esita-
Nel corso dell’incontro, riferisce ancora Soddu, Ribbentrop aveva poi dichiarato a Mussolini che «presentandosi l’opportunità di un ns. intervento la Germania ce lo avrebbe reso noto». Mussolini, a sua volta, si era «riservato, a tale riguardo, libertà di azione e di scelta del momento».
Altra conferma che viene dai diari, di cui già sapevamo
al Brennero il 18 marzo 1940, cioè alcuni giorni dopo gli incontri romani Mussolini-Ribbentrop. Di ritorno dall’incontro, il 19 marzo, Mussolini convoca Graziani, il quale riferisce in modo sintetico ma molto interessante sul colloquio. In quella occasione, scrive Graziani, Mussolini «fissa le linee definitive fondamentali politiche: 1°) da escludere che l’Italia possa rimanere non
belligerante fino all’ultimo; 2°) da escludere che l’Italia possa mai marciare a fianco dei Franco-Inglesi; 3°) da tenere per fermo che noi faremo guerra parallela alla Germania; 4°) scelta del momento assolutamente riservata a noi». Mussolini aveva terminato il colloquio invitando Graziani a «considerare la eventualità che, a seguito di gravi colpi inferti dalla Germania alla Francia, si produca per noi il momento favorevole per intervenire a completare il successo e renderlo definitivo». Cioè si ha la conferma che Mussolini progettava sin dal marzo di vibrare la cosiddetta ”pugnalata” alle spalle della Francia. In un successivo colloquio Mussolini-Graziani del 25 marzo, il capo del governo autorizza-
memorie Benito Mussolini saluta la folla durante un discorso. Qui accanto, piazza Venezia invasa dai sostenitori del capo del fascismo. Nell’altra pagina, il ”maresciallo d’Italia” Rodolfo Graziani (Filettino, 11 agosto 1882 – Roma, 11 gennaio 1955). Di fianco, una pagina autentica del diario sequestratogli dagli inglesi durante il suo arresto. Oggi, le memorie di Graziani sono custodite presso l’archivio statale britannico a Londra
va il capo di S.M. «ad intavolare intese con lo S.M. tedesco».
L’ordine di attaccare la Francia. Dopo la dichiarazione di guerra presentata al governo francese il 10 giugno 1940, sul fronte occidentale poco o niente era accaduto, se non qualche piccola scaramuccia tra pattuglie francesi e italiane. In realtà questa sorta di ”drole de guerre” sulle Alpi occidentali era stata decisa da Mussolini e Badoglio sin da prima che iniziassero le ostilità. Il diario di Graziani lo conferma, quando alla data del 9 giugno il generale scrive di aver ricevuto conferma da Roatta «di non sparare per primi alla Frontiera occidentale». Naturalmente al sopraggiungere dei primi atti offensivi francesi Graziani si
precipita a scrivere che con essi veniva a cadere «l’illusoria e dannosa inscenatura provocata da Poncet con Ciano e da Parisot con Badoglio, per la quale si era data disposizione ai nostri di non essere i primi a far fuoco», e a ricordare che tali direttive non erano state da lui condivise ma erano state «attuate a mia insaputa, durante la mia permanenza alla frontiera nei giorni 7 e 8». Quindi la guerra sul nostro fronte occidentale iniziava con una sorta di ”cessate il fuoco” ancora prima che il fuoco fosse aperto. Con una direttiva data da Badoglio, capo di S.M. generale, e non condivisa dal suo sottoposto capo di S.M. dell’Esercito. Su questo conflitto BadoglioGraziani i diari sono naturalmente costellati di dettagli, ma
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alla animosità nei confronti di Badoglio i diari aggiungono alcuni interessanti dettagli di una particolare animosità nei confronti di Ciano, considerato da Graziani il principale ostacolo allo sforzo bellico concertato tra Italia e Germania. Senza dirlo esplicitamente Graziani considera una iattura la decisione di Mussolini di condurre una “guerra parallela”. Lo scriverà esplicitamente quando cercherà di far risalire le cause del poco felice andamento della guerra sul fronte occidentale con il rifiuto di Mussolini di far entrare le nostre truppe in azione sull’ala sinistra dello schieramento tedesco, la cosiddetta questione della ”Porta Burgundica”. Graziani si mostra furioso e, di fronte alle notizie dell’avanzata tedesca su Lione e sulla loro possibile discesa su Marsiglia, così commenta: «Questa è la parte che avremmo fatto noi qualora si fosse aderito alla proposta tedesca di inviare una ventina di Divisioni alla P.Burgundica. Proposta che lo S.M. (e per esso io) sostenne e che era scaturita dai contatti avuti con quello tedesco. Proposta che fu fatta naufragare dalla Politica Estera (Palazzo Chigi).
I vantaggi che la mossa ci avrebbe dati appaiono oggi palesi. Dopo operato su Belfort noi marceremmo già lungo il Rodano». Di nuovo è Ciano ad essere chiamato in causa. I diari di Graziani sciolgono anche un nodo che aveva interessato anche Renzo De Felice: e cioè «quella di quando Mussolini decise il passaggio all’offensiva e del perché». De Felice ricordava che fino ad allora era stata presa per buona la versione di Badoglio per cui «la decisione sarebbe stata presa dal Duce il 15 giugno, quando, nonostante il suo parere contrario, Mussolini gli avrebbe dato l’ordine di attaccare il 18», e che tale ordine era stato «spiegato o con la caduta di Parigi e la volontà del duce di conseguire anche lui un successo militare prima che la Francia fosse messa completamente in fuori giuoco o come risposta al bombardamento navale francese del giorno prima di Genova e Savona». In quella circostanza De Felice mostrava di non credere a Badoglio ma di ritenere che l’ordine fosse stato impartito solo il 17, dopo le prime notizie relative alla richiesta di armistizio trasmessa dai francesi ai tedeschi. In realtà i diari smentiscono De Felice e danno in parte ragione a Badoglio. Infatti già il 14 giugno Graziani annotava: «Alle ore 11 sono convocato da S.E. Badoglio nel suo ufficio. Porto con me S.E. Roatta. Impartisce ordini a nome del Duce di ri-
prendere atteggiamento aggressivo alla frontiera occidentale. Meno male!» Ordini ribaditi il giorno dopo, allorché Graziani ci fa sapere che: «Alle 18 S.E. Badoglio chiama me, o Roatta a conferire.Va Roatta, in mia assenza. Il M.llo chiede notizie più precise sulle suddette ipotesi offensive. S.E. Roatta da chiarimenti e mi riferisce. In conseguenza dei successi tedeschi anche sul rovescio della linea Maginot, alle 19.45 ordino a S.E. Roatta di impartire senz’altro gli ordini di movimento relativi alla co-
Dopo la resa di Petain, a sciogliere i dubbi sull’attacco fu una telefonata di Benito Mussolini stituzione delle masse di manovra relative. Sospendo di conseguenza la mia partenza per la fronte, che avevo deciso di effettuare stasera e ne do avviso a Soddu con preghiera di informare il Duce. Giunge notizia che i tedeschi hanno occupato Verdun. Gli eventi precipitano. Speriamo di aver il tempo per muoverci!». Il pomeriggio del 15 perciò Graziani era messo in condizione di preparare «l’azione offensiva alla frontiera occidentale (Piccolo San Bernardo – la Maddalena)». Sono quindi le notizie di successi delle armate tedesche a indurre Mussolini a rompere gli indugi e non le notizie di una richiesta di armistizio avanzata dai francesi, come immaginava De Felice.
La preparazione dell’attacco procede alacre. Il 17 mattina Graziani firma le direttive per i comandi periferici confermando quelle concertate la sera prima con Badoglio. Solo a questo punto cominciano ad arrivare le notizie sulla «crisi di Governo in Francia (Ministero Petain)». A seguito di queste notizie, e «previa concertazione» con Badoglio e con Soddu, Graziani decide «di confermare le direttive stesse», ma riser-
vandosi «di dare il via ai movimenti delle truppe nelle Valli, per la costituzione delle masse di manovra, allo scopo di non essere in crisi di spostamento qualora, concludendosi la pace o un armistizio, ci si chiedesse di muovere senz’altro verso il Rodano». A mezzogiorno Mussolini convoca Graziani a Palazzo Venezia, dove si trova anche Badoglio, per chiedergli «notizie sul nostro schieramento». In questa circostanza egli approva gli ordini dati e, scrive Graziani: «Si decide di agire con mossa principale dalla Maddalena, e dimostrativa dalla Val d’Aosta». Solo quando si stanno diramando gli ordini per l’offensiva, riferisce ancora Graziani che: «Petain ha comunicato alla Radio che la Francia cessa di combattere». I vertici militari si chiedono se, alla luce di quanto diramato dalla radio, i preparativi per l’offensiva debbano procedere. A sciogliere qualsiasi dubbio è una telefonata diretta di Mussolini a Graziani. Riferisce Graziani: «Infatti alle ore 17.35 mi chiama al telefono il Duce che mi da le seguenti direttive: 1°) Continuare la preparazione per le operazioni studiate. 2°) Cessare da questo momento ogni atto di ostilità al confine. 3°) Ulteriori decisioni saranno prese dopo il convegno di Monaco - per stabilire le condizioni di pace - che avrà luogo domani tra il Duce ed Hitler». E’ solo dopo il ritorno di Mussolini da Monaco dove s’era incontrato con Hitler, che verrà dato l’ordine di attaccare. La nuova documentazione conferma quindi che, dopo la dichiarazione di guerra del 10 giugno, Mussolini ordinò d’iniziare vere e proprie operazioni militari non quando gli giunsero le notizie di richieste di armistizio avanzate da Petain ai tedeschi, ma molto prima, cioè quando si rese conto della rapida avanzata tedesca a sud, lungo il Rodano, oltre Lione. Ciò proverebbe tra l’altro che Mussolini, sempre perseguendo l’idea della «guerra parallela», coltivasse l’idea di estendere la zona di occupazione italiana fino al Rodano, e che ad impedirglielo fosse la richiesta di armistizio di Petain.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Immigrazione, giusto l’intervento dell’Anm? GIUSTO CHE LA MAGISTRATURA FACCIA LUCE SU UN ARGOMENTO COSÌ DELICATO E CONTROVERSO Sì, alla fine credo che la Magistratura abbia fatto bene a intervenire su una questione tanto delicata come il reato di immigrazione clandestina. Non sono certo una amante della categoria, anzi, penso che in troppe occasioni ci sia stata una vera e propria ingerenza da parte della Magistratura, strumentale e politicizzata, finalizzata a interferire e colpire solo certa parte politica (nello specifico il centrodestra, soprattutto quello di Berlusconi). Ma in questo caso ben venga a fare luce anche la giustizia. Purché, stavolta, tenti di operare realmente in maniera obiettiva.
Greta Gatti - Milano
LA CATEGORIA, ORMAI SI SA, NON È OBIETTIVA, IN QUESTO CASO NON DOVREBBE INTERVENIRE Il tema della sicurezza è stato centrale nella campagna elettorale ed è stato inoltre decisivo nel determinare la larga vittoria del centrodestra. Bene fanno dunque Berlusconi ed alleati nel prendere iniziative e provvedimenti che realizzino la volontà della stragrande maggioranza degli Italiani. Ma ecco che riemerge quello che per me è il male
LA DOMANDA DI DOMANI
Ricette mediche online, innovazione o rischio caos? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
maggiore della nostra Italia, la casta più potente: la Magistratura. A parte l’abolizione dell’Ici e la detassazione degli straordinari, tre sono stati i provvedimenti più importanti annunciati dal nuovo governo: l’introduzione del reato di immigrazione clandestina, quello sull’emergenza rifiuti e quello sulle intercettazioni. Niente è andato bene ai ”Signori Magistrati”. Inutili, incostituzionali, repressivi e gravosi sono stati giudicati i provvedimenti governativi da quella Magistratura che però ha milioni di processi in arretrato, che dimentica di motivare le sentenze, da quella Magistratura che rimette in libertà assassini conclamati che tornano a delinquere, da quella Magistratura che emette sentenze sconcertanti, da quella Magistratura tanto silenziosa nei due ultimi anni e già tanto inquieta e loquace in questi due mesi. Ma la Magistratura è... indipendente. Cordialmente ringrazio per la cortese attenzione.
TESTA A TESTA
La Mercedes McLaren di Lewis Hamilton immortalata lo scorso 7 giugno mentre evita (fortunatamente con successo) una marmotta che si stava avventurando sulla pista durante le prove pomeridiane del circuito Gilles Villeneuve, a Montreal, in Canada
Fabrizio Germanò - Catania
SI PUÒ DISCUTERE SULLA MISURA TRA REATO E PENA MA LA PUNIZIONE CI DEVE ESSERE E VA SCONTATA Sicuramente prevedibile considerata la paternità del provvedimento. Inopportuno, come inopportuni sono sempre gli interventi politici della Magistratura. Ma di che meravigliarsi? Dobbiamo aspettarci un quinquennio di guerra tra potere politico e Magistratura, e finché questa dovrà rispondere solo a se stessa non dobbiamo illuderci, per Berlusconi e compagnia sarà sempre lotta dura come lo fu dal 2001 al 2006. L’unico punto a favore di Berlusconi, rispetto al quinquennio precedente, è la presenza al Quirinale di una personalità che offre maggiori garanzie di equidistanza ed equità. Un altro aiutino potrebbe arrivare da Veltroni, che sì dovrà pure fare opposizione, ma dovrà anche provare ad arginare gli spropositi di Di Pietro, ed è indubbio che sappia dire pure basta, quando è troppo.Tutto ciò che è clandestino è riprovevole, è reato per definizione, e il reato va punito. Si può discutere sulla misura, sulla proporzionalità tra reato e pena, ma la punizione ci deve essere e va scontata.
COSTITUENTE: IN ALTO O IN BASSO? COSTITUENTE OVUNQUE E SUBITO! Sarà che sono ottimista per indole e forse anche per formazione, visto che da 15 anni sono all’opposizione per coerenza, senza afflizione per un’ideale politico ma io credo che l’Unione di Centro abbia più che uno spiraglio, un portone attraverso il quale riuscire a collocarsi fra Pd e Pdl. Se vorrà. Ciò per due ordini di motivi: in primis perché, accantonato il momento elettorale nazionale, dove l’Italia in ginocchio si è arresa votando in massa l’alternativa al malcapitato e maldestro Governo Prodi, la politica si accinge gradualmente a rinnovare la maggior parte dei Consigli regionali, provinciali e comunali ove, candidati a governare non sarà Berlusconi ma i figli della sua struttura aziendale. Questi, come sempre, vedranno ben ridimensionato il consenso locale perché pagano lo scotto della stagnante distanza dall’elettorato e la mancanza di democrazia di partito che renderà ancora vane le loro aspettative e li relegherà ancor più nell’alveo del sottobosco della politica che la-
LA ”SCINTILLA” DI ROMANO PRODI Riporto sotto la striscia rossa dell’Unità (4 giugno 2008), che avrebbe bisogno di molti chiarimenti, uno per tutti: i privilegi, il profilo economico, l’adeguamento a bisogni ed esigenze eccetera. Prodi dovrebbe raccontarlo in altra sede e riferito ad altre situazioni e cifre, e non so se riuscirebbe ad uscire illeso! Se non è da far conoscere questo: «Sono stato l’uomo più potente d’Italia fino a pochi giorni fa e ora sto qui a casa, parlo con voi, metto a posto i miei libri, non ho privilegi. Aggiungo che negli ultimi anni ci ho rimesso sotto il profilo economico, ma questo mi sembra giusto perché potere e responsabilità significano anche la necessità di adeguarsi a bisogni ed esigenze. Penso che la casta si sia allargata troppo, ecco il vero pro-
dai circoli liberal Enrico Maselli - Roma
vora sodo, gratis e si becca pure gli insulti alla casta. Ancora una volta imboniti ed ingarbugliati in un frenetico percorso di rinnovamento, qual è stata la nascita del Pdl, realizzeranno che la politica è ben altra cosa e potranno collocarsi quindi nella vera area cattolica-liberale dell’Unione di Centro che, trasfusa dei contributi di Adornato, Pezzotta e De Mita, si candida a rappresentare l’unico soggetto politico serio, moderno ed evoluto nato nell’ultima metamorfosi della politica italiana. Secundis, l’Udc è una forza ramificata che si è ben consolidata sul territorio con la su menzionata linfa e pertanto può veramente avviare il processo di costruzione del “partito di base” da tutti sempre sbandierato ma poi calato, per convenienza, sempre di imperio. Bisogna attendere quindi i “tempi della politica” mentre si prepara la vera “struttura democratica di partito” senza giochi di prestigio, con il lancio della costituente a tutti i livelli. I primi sono però un problema, la seconda decisamente non è facile. Ed allora, il successo del progetto Unione di Centro dipenderà dalla garan-
blema» (Romano Prodi, intervista a La Scintillia, mensile del liceo Marconi di Pesaro, 4 giugno).
Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)
CURE DIMAGRANTI: IL PROGRAMMA ”ANNOZERO” Difficile trovare di meglio. Per chi vuole dimagrire senza sforzi, ecco in esclusiva la cura di Annozero. Santoro, Travaglio e Di Pietro uniti in un sol coro sul palco. Come spalla speciale, Sandro Ruotolo. Il programma è pieno, completo e di sostanza. Per alcuni risulta anche divertente, pieno di energia e tonificante. Il risultato è assicurato: si bruciano calorie stando fermi in poltrona. Non c’è bisogno di faticosi movimenti e neanche di dolorosi piegamenti. L’unico rischio sono i giramenti.
Pierpaolo Vezzani
zia che tutte le anime moderate chiamate a comporre la nuova compagine riusciranno ad ottenere nella direzione di una seria prospettiva di crescita nel nome del sacrosanto principio della rappresentanza. Una seria costituente poi, dovrà farsi carico, immediatamente, di aprire una nuova fase di celerità decisionale sostenibile, sia per quanto concerne i processi interni al partito sia per quelli inerenti tutte le attività istituzionali e politicoamministrative. Massimo Golino COORDINATORE REGIONE CAMPANIA CIRCOLI LIBERAL
APPUNTAMENTI Il coordinamento regionale della Campania ha attivato un numero verde per aderire ai circoli liberal del territorio 800.91.05.29
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog La vostra lontananza mi priva di ogni forza Sono sempre più consapevole della tenera amicizia che provo per voi, mio caro Casanova; e l’attuale situazione me ne persuade più che mai. La vostra lontananza mi causa un dolore che non sono in grado di descrivervi: sono così spossata da non averne la forza. Questi tristi pensieri mi opprimono, mi straziano il cuore.Vi amo, non posso negarlo (e che questa confessione serva a far crescere il vostro amore, e non a sollecitare la vostra vanità). Dunque vi amo. Ho letto e riletto la vostra cara lettera: mi raccomandate di essere allegra, ma pensate che io possa esserlo sapendovi lontano da me? Se mi amate, mio caro, non dovreste proprio dispiacervene, e dovreste anche ben sapere che io vi corrispondo. Addio, mio unico amico; addio, non smettete di amarmi. Sappiate che io non cambierò mai e che soltanto il vostro ritorno potrà rendermi felice. Manon Balletti a Giacomo Casanova
SOFFIA ANCORA IL VENTO DELLA PROTESTA DEI NESSUNO Egregio Direttore, lanci un appello: la Moratti, sindaco di Milano, è di cattivo esempio, mettiamola sotto inchiesta e non se ne parli più: pensi, senza l’Ici, ha chiuso il bilancio in attivo! Si ricorda quando la Rai andava a rotoli, anzi a go go: la Moratti risanò il bilancio. E quando tentò la riforma da Ministro? Lei contestata, la scuola a ramengo ed i presidi sequestrati... dagli studenti! Milano ed i milanesi se la ripresero, la elessero sindaco ed i risultati si vedono. Anche Roma, Bologna e Napoli elessero i loro sindaci ed i risultati? Ovvio, i risultati... si vedono, ma quo usque tantem abutere patientia nostra? Ora dicono stia cambiando il vento: per me l’aria della protesta dei nessuno, incapaci di professione, continua, smorzata forse, ma continua, non facciamoci illusioni e stiamo in guardia!
L. C. Guerrieri - Teramo
BUCO DI BILANCIO CAPITOLINO: VELTRONI NON SI NASCONDESSE Credo sia opportuno che l’ex sindaco di Roma, Walter Veltroni, si renda utile in questa fase
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
10 giugno 323 a.C. Muore Alessandro Magno, condottiero e sovrano macedone 1610 I primi coloni olandesi si insediano sull’Isola di Manhattan 1907 Prende il via da Pechino il Raid Pechino-Parigi, 14.000 km a bordo delle prime automobili 1914 Viene fondato il Comitato Olimpico Nazionale Italiano 1924 Italia - Delitto Matteotti, Giacomo Matteotti viene assassinato dai fascisti 1938 Usa - Sul numero 1 della rivista Action Comics appare la prima storia del personaggio a fumetti Superman 1940 Seconda guerra mondiale: l’Italia dichiara guerra a Francia e Regno Unito 1947 La Saab produce la sua prima automobile 1967 Fine della Guerra dei Sei Giorni. Muore Spencer Tracy, attore statunitense 1990 Nelson Mandela viene liberato dalla prigione 2004 Muore Ray Charles, musicista, pianista e cantante statunitense
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
di difficile gestione di un bilancio capitolino al dissesto economico e finanziario, e comunque non deve nascondersi dietro i suoi ex assessori volendo far credere che non ha alcuna responsabilità. Veltroni, è ormai certificato dalla storia, ovunque abbia operato ha lasciato dietro di sé buchi economici di varia entità, come non dimenticare le tappe più luminose del suo trascorso: i bilanci in rosso del quotidiano l’Unità e dell’ormai sciolto Pds. E’ opportuno che il centrosinistra rifletta sul suo modus operandi e consiglio al Pd di ingaggiare due ”mastini napoletani” da posizionare di fronte i forzieri del partito, nella speranza che la sua gestione non tocchi più nessun cittadino. Aspettiamo una sola parola di assunzione di responsabilità rispetto a quello che sta avvenendo a Roma e sul suo modello che, prima di esaurirsi politicamente, ha prosciugato le casse capitoline e di tutte le aziende municipalizzate. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine di liberal. A presto e buon lavoro.
Alessandro Ricciuti - Roma
PUNTURE Una Kennedy sarà vice di Obama, ancora il nome Kennedy alla Casa Bianca. Manca solo che dica di essere juventina e il gioco è fatto.
Giancristiano Desiderio
“
Le teorie sono esposizioni senza valore. Ciò che conta in realtà è l’azione sola COSTANTIN BRANCUSI
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di FALSI ALIBI PER IMMIGRATI IRREGOLARI E MONNEZZA Il Presidente della Repubblica, affermando giustamente che l’emergenza rifiuti del Napoletano è una questione nazionale, ha rammentato i camion di materiali tossici che, provenienti dal Nord, hanno preso nel tempo le vie della Campania: mossi da industrie disoneste che hanno evitato il più costoso smaltimento previsto dalla legge, ricorrendo a zone franche con il beneplacito della camorra. Non l’avesse mai detto. E non perché i fatti siano in sé contestabili, ma perché le sue parole sono cadute in una situazione precaria e forniscono alibi agli abitanti che, in buona o mala fede, si ribellano contro le nuove discariche. Hanno colto la palla al balzo anche i responsabili della mefitica alluvione. Come la rediviva Iervolino, che si è affrettata a proclamare: «Giustizia è fatta: ci hanno trattati come se fossimo noi gli inquinatori del mondo». E invece no, perché i pochi o tanti criminali del Settentrione non pareggiano la rete della malavita locale e non assolvono le istituzioni del Sud, per la remissività, la mancata vigilanza, l’incapacità decisionale. (...) Qualche puntino sulle «i» meritano anche certe levate di scudi che arrivano da parte cattolica sull’altra «vexata quaestio» concernente l’immigrazione. Ci sono prelati, operatori del volontariato, biblisti che, dinanzi alla stretta avviata dal governo, (...) esortano a privilegiare la solidarietà sulla repressione. Ma nessuno spiega quali debbano essere i limiti dell’accoglienza per quanto riguarda gli immigrati clandestini (...). Nessuno che faccia quattro conti per individuare le risorse necessarie a garantire degne condizioni di vita a centinaia di migliaia di persone, parte delle quali attratte in Italia da una giustizia troppo lasca. Occorre ribadire con fermezza il no a qualsia-
si forma di razzismo o xenofobia, ma i più nobili principi non possono eludere questi interrogativi. Se non vogliono ridursi a predicazioni astratte o cedere a un radicalismo religioso che dovrebbe intanto essere testimoniato concretamente, spogliandosi di beni e di agi, da chi, chierico o laico, lo professa.
Hurricane_53 Hurricane_53.ilcannocchiale.it
IL BULLISMO? COLPA DEL DIVORZIO «Il terreno fertile della criminalità minorile è senz’altro il bullismo imperante contro il quale non sono state adottate misure adeguate, complice anche la latitanza di molte famiglie, assolutamente disimpegnate rispetto al processo educativo dei figli od addirittura complici delle loro gesta». Chi ha pronunciato queste parole? Gian Ettore Gassani, avvocato e presidente dell’Ami, associazione matrimonialisti italiani. L’occasione è la presentazione di un loro studio, nel quale la crescita sia qualitativa che quantitativa dei fenomeni di bullismo è messa in stretta relazione con la diffusione nel tessuto sociale italiano di separazioni e divorzi (cresciuti rispettivamente del 57,3% e del 74% in dieci anni). Eventi traumatici per i figli delle coppie “scoppiate”, che spessissimovengono affidati ad un solo genitore. (...) Che cosa hanno ottenuto le cosiddette “battaglie civili per i diritti”, figlie dello scciagurato movimento femminista e radicaloide? Verrebbe da intentare una class action di tutte le vittime del bullismo, nei confronti dei fautori dello smantellamento razionale delle strutture famigliari tradizionali… Speriamo che ora la direzione di marcia si inverta, e punto di partenza deve necessariamente essere l’azione di governo.
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PAGINAVENTIQUATTRO Ieri l’addio a Dino Risi, oggi alla Casa del Cinema si proietta il Sorpasso
Il domatore dei mostri di Priscilla Del Ninno e note della colonna sonora di Profumo di donna eseguita al pianoforte da Armando Trovajoli hanno aperto alla Casa del Cinema di Roma, poco dopo le 13 di ieri, la commemorazione di Dino Risi. Ma il cinema italiano continuerà a rendere omaggio al maestro anche oggi, sempre alla Casa del Cinema, con la proiezione del Sorpasso e la lunga intervista che Gianni Minà fece a Risi insieme a Vittorio Gassman alla fine degli anni ’90. E lo stesso Risi affidò alcune riflessioni sull’incedere del tempo, l’avanzare della vecchiaia, l’incombere della morte qualche anno fa affidava alla sua autobiografia, I miei mostri, un pamphlet ironico, pungente, costruito attraverso aforismi, citazioni fulminanti, amarcord cinefili e sferzate personali. Un testo amaro eppure struggentemente avvolgente, come era lui, e come è il suo cinema. «Quando ero ragazzo l’idea di arrivare al Duemila mi sembrava un’ipotesi fantascientifica. Invece, piano piano ce l’ho fatta… e confesso che un po’mi vergogno. Quasi tutti i miei amici se ne sono andati. Che ci sto a fare io qui? Ogni tanto mi danno un premio di sopravvivenza. E gli indiani, appostati sulle colline, lanciano una freccia. Mirano al cuore, al cervello, ai muscoli, all’occhio, all’orecchio. Quasi sempre mancano il bersaglio pieno, ma un po’di danno lo fanno… La mia memoria ancora tiene però, ma il mio futuro è dietro le spalle… La morte non mi fa paura, non mi ha mai fatto paura, non vedo l’ora che arrivi: solo mi dà noia la durata del viaggio prima che io torni a vivere, perché questo è sicuro, altrimenti vuol dire che il sole, le stelle, il mare, il vino, le donne, tutto ciò non esiste, e questo non può essere».
L
Affabulatore sagace, sempre in perfetta sintonia con l’evoluzione del costume nazionale.Autore, nella composizione di una partitura filmica, capace di attingere, indifferentemente, alle corde drammatiche come ai toni più irriverenti, forte di uno spirito d’osservazione acuto e di un estro pungente che gli hanno facilitato – nel corso degli anni e con la maturazione del mestiere – quel senso del contrappunto che gli ha permesso si sferrare, a suon di emozioni, lacrime amare e risate agrodolci, quei cazzotti nello stomaco che solo un maestro senza maestri come lui ha saputo tirare con efficacia sociale e passione narrativa. Forza affabulatoria, spirito d’osservazione e critica del costume sono state sempre le coordinate della sua etica cinematografica che, attraverso i tic e i drammi di quella galleria di maschere sciorinata nei Mostri del 1963, come grazie alla freschezza del racconto nazional-popolaresco di quei Poveri ma belli (1956) che lanciarono il neorealismo rosa anni ’50, ha saputo raccontare il cammino del Paese e le tappe della crisi che, tra paradossi e contraddizioni, lo hanno caratteriz-
Per l’ultimo saluto a Dino Risi niente camera ardente, ma una cerimonia con tanti amici e la musica di Armando Trovajoli
ITALIANI zato. Come emblematicamente racchiuso in due titoli su tutti della vasta e preziosissima filmografia risiana: Una vita difficile (1961) e Il sorpasso(1962).
E allora, per capire l’intricato nesso tra vita e cinema di Dino Risi, quella sua singolarissima amalgama di populismo affabulatorio e rigore intellettuale, accattivante cialtroneria e imprescindibile spirito moralistico, bisogna guardare alle tante pieghe della sua esistenza, alle diverse declinazioni della sua anima cinefila: quelle di un uomo arguto e di un cineasta disincantato, che tra le righe di un malcelato disfattismo ha sempre nascosto più un animo indomito che un melanconico senso di incompiutezza. È in questa ottica che va riletto oggi, a poche ore dalla sua scom-
una commedia del ‘59, o il già citato Una vita difficile, di cui fu poliedrico interprete uno strepitoso Sordi, chiamato ad attingere ora alla corda comica, ora a quella più sottilmente tragicomica. E ancora, film come Il Mattatore, (1960), ad uso di un Gassman dal virtuosismo fregolistico; Straziami ma di baci saziami (1968), affidato al misurato istrionismo di Manfredi e scritto da Age e Scarpelli con dialoghi ricalcati sulla lingua della subcultura popolare che, tra romanzi e canzoni, ridisegna il fumetto di un’epoca che sta per cedere il passo a un’altra fase della storia di casa nostra. Come anche In nome del popolo italiano(1971), una dissacrante parabola sul moralismo diretta da Risi con graffiante immediatezza e trasformata dalla sceneggiatura al film in una delle più corrosive commedie giudiziarie italiche degli anni Settanta, in cui peraltro giganteggiano un Tognazzi in sordina e un Gassman sul crinale del grottesco. Fino ai titoli più letterari, da Profumo di donna (1974), sempre con Gassman, dal romanzo di Giovanni Arpino, a Fantasma d’amore, (1981), dal libro di Mino Milani, con un Mastroianni tra il romantico e il metafisico. Sono i lavori ascrivibili alla vena gotica di Risi, quella che preludeva al disincanto spietato che nel 2000 lo porterà a dirigere per la televisione Bellissime, una fiction ispirata al concorso di Miss Italia, un accenno di quella che avrebbe voluto essere una sua più compiuta dissertazione sulla bellezza e sulla sua rilettura mediatica. Un cammino lungo e articolato, quello registico di Dino Risi, sottolineato con l’assegnazione di un Leone d’oro alla carriera nell’edizione 2002 della Mostra veneziana, a conferma di come ruggente sia stato il suo linguaggio cinematografico e affilati i suoi artigli di uomo.
Nella sua autobiografia con la solita graffiante ironia, scrisse: «Stanco di curare gente che non guariva, tra essere uno psichiatra e un regista ho scelto il manicomio più allegro e pieno di ragazze» parsa, l’approdo al cinema di un ragazzo laureato in medicina e specializzato in psichiatria che, con disarmante sarcasmo, nella sua autobiografia rivela: «stanco di curare gente che non guariva, tra essere uno psichiatra e un regista ho scelto il manicomio più allegro e pieno di ragazze». Quello in cui lo hanno fortuitamente introdotto gli amici Lattuada, Soldati, Comencini, e dove si è poi svezzato sotto la sapiente guida di Jacques Feyder. Complici, nel processo di formazione di un mito come il suo, attori sodali del calibro diVittorio Gassman, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, intramontabili protagonisti di titoli indimenticabili quali Il vedovo, per nominare