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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

Dopo l’incontro con Almunia sulla manovra finanziaria

e di h c a n o cr

Signor ministro, vorremmo sapere la verità sui nostri conti

di Ferdinando Adornato

L’ARRIVO DI BUSH

di Insider

Europa con chi stai?

iulio Tremonti, dismessi da tempo i panni del “creativo” che si era fatto cucire nella sua precedente vita di ministro dell’economia, si è calato in quelli di Quintino Sella. Il Ministro che, subito dopo l’unificazione dell’Italia, risanò il bilancio pubblico stressato dai costi delle guerre di Indipendenza. Grande rigore, stretto controllo delle poste finanziarie, affabile fair play nei confronti delle istituzioni europee. Come testimonia il lungo incontro con Joquin Almunia, al quale ha promesso interventi radicali per ricondurre le incerte finanze italiane lungo il sentiero del risanamento. Il traguardo del bilancio a pareggio resta fissato al 2011. Un anno prima del termine che la Comunità, vista la non facile situazione dell’economia internazionale, ha concesso a tutti i paesi membri. C’è solo di che rallegrarsi di queste ulteriori conferme. Del resto già in campagna elettorale – come ha ricordato Silvio Berlusconi nel convegno organizzato da Milano – Finanza – nessuno aveva garantito “miracoli”. Ed ora si tratta di mantener fede alle promesse di allora. Tanto più se si considera lo stato d’animo del Paese: asfissiato da una pressione fiscale, che è il lascito velenoso del Governo Prodi. Stufo di assistere ad uno spreco continuo di risorse pubbliche, nel momento in cui un’inflazione perniciosa falcidia redditi – specie quelli più bassi – e pensioni.

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È questa la domanda che il presidente americano rivolge ai leader del Vecchio Continente. La posta in gioco è la sicurezza mondiale. Minacciata dal nucleare di Ahmadinejad

alla pagine 2, 3, 4, e 5

se gu e a p ag in a 7

La rivelazione in un libro di Taboga

Parla l’onorevole Paola Binetti

Il leader di Ankara sulle orme di Putin

«Non saremo una riserva indiana nel Pd»

La trappola di Erdogan agli Usa e all’Ue

di Susanna Turco

di Michael Rubin

di Errico Novi

di Emilio Spedicato

Paola Binetti dice la sua sulle randellate di Famiglia cristiana contro il Pd («la provocazione serve a evitare che la tensione arrivi a una soglia critica») sull’aria scismatica che si respira nel partito.

L’insofferenza di Erdogan nei confronti dello Stato di diritto e il suo attaccamento al potere lo fanno sembrare sempre meno un democratico e sempre più un emulo del primo ministro russo Putin.

Il governo è partito a testa bassa con le proposte durissime annunciate dal premier. Ora si trova a dover discutere tutto. È Napolitano a chiedere di «trovare una larga intesa sul provvedimento».

Nel libro di Giorgio Taboga Mozart, una morte violenta, tutta la verità sul compositore, che morì a causa della bastonatura infertagli da tale Hofdemel, la cui moglie il musicista aveva sedotto.

pagina 6

pagina 12

nell’inserto Occidente a pagina 12

pagina 20

MERCOLEDÌ 11

GIUGNO

E il presidente Napolitano invoca le larghe intese

Intercettazioni, la frenata del governo

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

108 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Mozart? Morì di botte a causa di una donna

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


pagina 2 • 11 giugno 2008

europa

con chi stai?

Non generiche sanzioni: ma colpire Ahmadinejad cessando di fornire assistenza per l’estrazione del gas

La vera proposta di Bush alla Ue di Emanuele Ottolenghi a visita del presidente americano George W. Bush segue di appena una settimana la presentazione dell’ultimo rapporto di Mohammed ElBaradei all’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Il rapporto di El-Baradei ha messo a nudo in maniera incontrovertibile gli aspetti militari del programma nucleare iraniano e pertanto le conclusioni che si debbono trarre da tale studio sono più che preoccupanti. Il progetto nucleare iraniano sta avanzando rapidamente e la capacità di Teheran di superare la soglia tecnologica necessaria per costruire un ordigno nucleare si avvicina sempre di più: è questione di mesi, non di anni. Data questa premessa, non sorprende che la priorità dell’agenda della visita di Bush in Europa sia quella di convincere i partner europei ad aumentare la pressione diplomatica su Teheran attraverso un nuovo round di sanzioni.

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La strategia che il Presidente cercherà di perseguire nei suoi colloqui a Lubiana durante il Summit Transatlantico e nelle sue prossime visite a Roma, Parigi, Berlino e Londra sarà di convincere gli alleati ad allargare in maniera significativa – e per l’Europa economicamente dolorosa – il pacchetto di sanzioni economiche contro l’Iran, a partire da quelle relative al settore bancario (vedi la banca Melli) e finanziario per assicurare che le banche iraniane non possano abusare del sistema bancario internazionale per sostenere la proliferazione nucleare e il terrorismo. La speranza americana è che il rapporto di El-Baradei convinca non solo gli europei ma anche il resto della comunità internazionale ad approvare nuove misure in seno al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E tuttavia è prevedibile che il prezzo del consenso internazionale sarà l’annacquamento delle sanzioni. Ecco perché Bush, dunque, nei suoi colloqui europei cercherà di ottenere un immediato consenso per un pacchetto di sanzioni Ue. In questo senso l’amministrazione americana perseguirà due strade parallele. La prima è una serie di misure che possano essere accettate e attuate da tutti i 27 membri dell’Unione europea; anche qui ci sono delle difficoltà dovute alla continua opposizione ad un inasprimento delle sanzioni europee da parte di Paesi come Austria Cipro, Grecia, Malta, Spagna e in misura minore Germania e Italia. Bush spera di convincere il nuovo governo Berlusconi a gettare il peso e il prestigio dell’Italia dietro a questo sforzo di convincimento degli europei meno propensi a nuove sanzioni. Esiste, però, anche una terza via: se il consenso europeo si rivelasse sfuggente, rimane comunque la possibilità di colpire l’Iran attraverso sanzioni selettive che si concentrino contro il settore energetico, specialmente quello del gas naturale, dove è indispensabile la tecnologia e il supporto di alcuni Paesi europei leader nel settore (e solo di questi): la Francia la Germania, l’Inghilterra, l’Olanda, la Spa-

gna e l’Italia. Questa terza opzione sembra la più probabile.

L’Iran ha disperatamente bisogno, infatti, dell’apporto tecnologico europeo per sviluppare il settore del gas naturale liquido. Non dimentichiamoci, infatti, che l’Iran possiede la seconda più grande riserva di gas naturale del mondo, ma che la mancanza di infrastrutture e di capacità estrattiva

regime. Ebbene, proprio questo e altri tipi di sanzioni mirate saranno l’oggetto di discussione tra Bush e i suoi partner europei nei prossimi giorni. Non vi è certezza che tali misure possano avere un effetto dissuasore sul calcolo nucleare del regime iraniano nel breve periodo. Ma

Se il consenso Ue fosse debole, rimane la possibilità di colpire Teheran attraverso sanzioni dedicate al settore energetico, specie quello del gas naturale le impediscono di esportare queste risorse o di utilizzarle per il fabbisogno nazionale. In un mondo sempre più assetato di energia, il gas iraniano fa gola a molti, ma senza gli investimenti e il know-how europeo il gas iraniano è destinato a rimanere dove si trova ora: sottoterra. E questa situazione non farà altro che danneggiare, soprattutto in un’ottica di lungo periodo, la stabilità del

certamente esse incontreranno forti opposizioni da parte degli interessi economici europei, in particolare delle grandi compagnie energetiche. Per l’Europa si tratta di una scelta difficile ma, e questo probabilmente Bush lo dirà

chiaramente ai suoi interlocutori, l’alternativa ad un nuovo round di sanzioni non è lo status quo, ma un attacco militare - probabilmente americano - contro le installazioni nucleari iraniane prima della fine della presidenza Bush.

È opinione condivisa che la campagna elettorale per la Casa Bianca impedisca all’attuale presidente di lanciare ambiziose e rischiose imprese militari contro Teheran, ma entrambi i candidati si sono già espressi in maniera chiara ed inequivocabile al riguardo. E se nei prossimi mesi George W. Bush dovesse disporre di informazioni intelligence ancora più precise di quelle che ha in mano oggi, potrebbe ordinare un attacco previa consultazione con i due candidati alla presidenza. Oppure, se questo accadesse dopo le elezioni di novembre, sotto il diretto coordinamento con il presidente in pectore. E viste le probabili conseguenze di un’azione militare possiamo dire che i costi, i rischi e le difficoltà di nuove sanzioni europee sembrano il male minore.

L’ex sottosegretario agli esteri del Pd prende una netta posizione sui rapporti con l’Iran

«L’opzione militare? Non si può escludere» colloquio con Gianni Vernetti di Cristiano Bosco «Bisogna rafforzare le sanzioni economiche contro l’Iran: una politica di embargo porterebbe all’isolamento del regime in campo internazionale. Un regime estremamente fragile, visto che una porzione consistente del popolo iraniano è contraria all’attuale classe dirigente e a favore della democrazia, come ad esempio gli studenti, che hanno bisogno del nostro sostegno. È necessario organizzare un’azione finalizzata al cambio di regime». Gianni Vernetti, già sottosegretario agli Esteri del governo Prodi, è deputato alla Camera tra le fila del Partito Democratico e membro della Commissione Affari Esteri. Sull’Iran ha le idee molto chiare. Lei ha preso parte alla manifestazione tenutasi a Roma contro il leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, in occasione della sua visita per il vertice Fao. Qual è stato l’esito dell’iniziativa? Il Paese ha reagito bene, dimostrandosi unito. Nessun esponente del governo ha incontrato Mahmoud Ahmadinejad, lo stesso vale per la Santa Sede. Nessuna forza politica ha fatto gioco di sponda. Considero l’Iran un pericolo per la sicurezza internazionale. L’iniziativa ha rappresentato una prova di coesione. È necessario dimostrare che quel regime non può giocare su tavoli separati: l’occidente democratico deve mostrarsi unito di fronte a questa minaccia. Esclude un’azione militare nei confronti dell’Iran? Nessuno può escludere un’opzione militare, nemmeno le stesse Nazioni Unite. L’Occidente non può accettare l’eventualità che Israele venga attaccato, così come non può accettare che l’Iran disponga di armi nucleari, o che si doti di missili balistici a lunga gittata. John McCain, candidato repubblicano alla Casa

Bianca, ha proposto la creazione di una “Lega delle Democrazie”per affrontare le minacce globali. Qual è la sua opinione al riguardo? Faccio parte della “Community of Democracies”, organizzazione internazionale che conta al suo interno più di cento Paesi, creata grazie agli sforzi dell’amministrazione Clinton, allo scopo di diffondere la democrazia nel mondo. Nel 2007, in collaborazione con Paula Dobriansky, rappresentante del dipartimento di Stato americano, abbiamo organizzato un importante meeting a Roma. La promozione della democrazia va ripensata. Essa deve rappresentare una priorità in politica internazionale. Non è possibile ipotizzare una politica dello sviluppo per Paesi del terzo mondo senza che questa sia affiancata alla diffusione della democrazia: la situazione di molti Paesi africani è emblematica, con milioni di dollari di aiuti che finiscono nelle tasche di brutali dittatori. Sicurezza, sviluppo e democrazia viaggiano sullo stesso binario, come dimostrato da quanto sta succedendo in Iraq a Afghanistan. Per questo motivo, la promozione della democrazia deve avere la priorità, nell’agenda internazionale. Che ne pensa dell’ipotesi dell’allargamento del “5+1”, con possibilità per l’Italia di sedersi al tavolo delle trattative con l’Iran? Il Partito Democratico è a favore dell’iniziativa del governo italiano per l’aggiunta del nostro Paese al “5+1”. Il precedente governo Berlusconi commise un grande errore quando, qualche anno fa, decise di non accettare l’invito a partecipare alle trattative. Il governo Prodi, a differenza di quanto sostenuto da alcuni, ha provato a fare entrare l’Italia nel “5+1”, senza tuttavia riuscirci. L’Italia è tra i più importanti partner commerciali dell’Iran, è giusto che


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Come cambiare il sistema di relazioni tra l’Europa e l’Iran

Applichiamo a Teheran il modello Libia di Carlo Cereti alla Slovenia George Bush torna a chiedere ai partner europei una maggiore severità nei confronti dell’Iran, nelle cui ambizioni nucleari egli vede un pericolo per l’umanità intera. Questo segue di pochi giorni la visita del presidente Ahmadinejad al vertice Fao di Roma, accompagnata dalle polemiche che avevano accolto le sue dichiarazioni contro Israele. Per quello che riguarda il nostro Paese, invece, la novità è una ripresa d’iniziativa in Medio Oriente da parte del Governo Berlusconi, che si esplica anche in un maggiore attivismo sul fronte iraniano. Pochi giorni fa il ministro degli Esteri Franco Frattini ha dato voce all’ambizione italiana ad entrare nel gruppo dei Paesi (5 + 1), che trattano con l’Iran sulla questione nucleare, un modo per riaffermare l’interesse strategico italiano per il grande Medio Oriente, all’interno del quale l’Iran è un player di primo rango. Parte centrale di questo dibattito è l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’attuale presidente della Repubblica Islamica. La questione sul tavolo è, dunque, quale atteggiamento l’Occidente debba avere nei confronti dell’Iran. Più nello specifico, dobbiamo interrogarci sul ruolo che il nostro Paese dovrebbe giocare nei confronti della Repubblica Islamica d’Iran, della quale siamo uno dei maggiori partner commerciali. Per scegliere una linea d’azione efficace, occorre capire a fondo la situazione interna del Paese.

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George W. Bush a Brdo con il primo ministro sloveno Janez Jansa, in basso Gianni Vernetti, a destra Ahmadinejad con l’iracheno Nuri Al Maliki

venga coinvolta nelle trattative: su questo tema, siamo in sintonia con il governo. Si preannuncia l’instaurazione di un clima di dialogo con il governo, per quanto riguarda la politica estera del nostro Paese? Sicuramente. Su alcune grandi questioni di politica estera, è fondamentale che il Paese si mostri unito. Si possono trovare punti in comune su argomenti quali la lotta al terrorismo, la ratifica della Costituzione europea, o il rifinanziamento delle nostre missioni all’estero. È normale che il nuovo clima di dialogo sincero, civile e senza posizioni pregiudiziali venga esteso anche alla politica estera italiana. Lei si è dichiarato contrario all’ingresso del Pd nel Partito Socialista Europeo, c’è chi ipotizza che Ds e Margherita entreranno in due gruppi separati all’Europarlamento. Si tratta di un’ipotesi da non escludere. Risulta evidente che, ad eccezione che in Spagna, i socialisti non sono autosufficienti in alcun Paese europeo, e recentemente hanno subito delle pesanti sconfitte elettorali. È per loro necessario cambiare pelle, se non vogliono contare sempre meno, e tentare alleanze con il centro, con la liberaldemocrazia. Non vedo per quale motivo il Partito Democratico dovrebbe appiattirsi sulle posizioni dei socialisti. Se ciò dovesse accadere, saremmo condannati a un lungo periodo di opposizione. Tra le alleanze con il centro, quindi, non esclude un possibile dialogo con l’Udc, con voi all’opposizione? Non ho dubbi che l’Udc possa diventare un nostro partner privilegiato. C’è la possibilità di trovare punti in comune per fare opposizione e ci possono essere le condizioni per provare un esperimento politico anche in occasione di elezioni a livello locale.

della dinastia achemenide e del primo impero universale. Il secondo è la conquista del trono persiano da parte di Shah Ismail, primo dei Safavidi, la grande dinastia che convertì il Paese alla Shi’a. Il terzo è la rivoluzione costituzionale del 1906, che pose le basi della modernizzazione dell’Iran, e alla quale guardano come modello gli attuali governanti.

Ciro rappresenta l’orgoglio nazionale dei persiani, la loro ambizione a giocare un ruolo di primo piano nella politica mondiale, la convinzione di essere la più antica e importante nazione del Medio Oriente. Shah Ismail rappresenta l’Islam divenuto compiutamente iraniano, l’eredità di ‘Ali e degli ‘alidi, l’Iran patria degli sciiti e laboratorio di riferimento di un nuovo rapporto tra fede e politica, reso possibile dalla maggiore gerarchia del clero sciita rispetto al clero sunnita. La rivoluzione costituzionale è il momento cruciale in cui le nuove idee provenienti dall’Occidente, ma anche Istanbul e il Caucaso russo, incontrano il nascente nazionalismo di epoca Qajar, fecondando una nuova riflessione politica che coinvolge intellettuali e chierici islamici. In quel momento ebbe luogo, per la prima volta, quell’alleanza tra moschea e bazar che ancor oggi è vista come il precedente immediato della Repubblica Islamica. Di tutto questo bisogna tener conto, quando si affronta il nodo delle nostre relazioni con l’Iran. Della sua ambizione a giocare un ruolo di potenza regionale, del suo essere una nazione sciita, della maturità e dell’istruzione degli uomini e delle donne che vivono nel Paese, della sua embrionale democrazia. Europei e americani possono solo puntare sulla ripresa del dialogo, ma potranno fare leva sul desiderio degli iraniani di uscire da una situazione d’isolamento, proponendo un modello di relazioni simile a quello praticato con la Libia, e in parte con la Cina: nessun cambio di regime e aiuti all’economia, in cambio di rinuncia all’uso bellico del nucleare, di moderazione nella politica estera e collaborazione economica. Occorre anche rilanciare il dialogo culturale, per dare l’occasione alle forze più moderate di far sentire la loro voce, e in questo quadro la Chiesa Cattolica può giocare un ruolo importante. Infatti, è dall’epoca di Khomeini che il clero sciita cerca un dialogo, e il Vaticano ha sempre mantenuto aperto un canale di comunicazione, anche nell’interesse delle comunità cristiane presenti in Iran e in Medio Oriente. La voce del Papa, di un Papa solidamente conservatore, può trovare orecchie pronte all’ascolto.

Il Vaticano deve aiutare le forze moderate a far sentire la propria voce. È dai tempi di Khomeini che il clero sciita cerca un dialogo e il Papa può trovare un terreno fertile

L’elezione di Ahmadinejad non può essere analizzata semplicemente come la vittoria della parte più radicale di un regime islamico, come pure hanno fatto molti commentatori, ma segna piuttosto l’inizio della presa del potere da parte della generazione che ha combattuto, in modo spesso eroico, la lunga e sanguinosa guerra contro l’Iraq, nutrendosi d’ideali religiosi e di spirito nazionalistico. Quanti hanno votato questo Presidente lo hanno fatto perché vedevano in lui un uomo vicino al popolo e capace di difendere gli interessi nazionali, anche sulla questione atomica. Per comprendere le complesse dinamiche che regolano la vita politica iraniana, occorre tenere conto del fatto che una parte delle sue istituzioni (il presidente, il parlamento e l’assemblea degli esperti) sono elette dal popolo, anche se molti candidati di fatto vengono preventivamente esclusi. Resta il fatto che il popolo vota, e che questo voto si fonda non solo sulla valutazione della realtà politica ed economica immediata, ma anche su alcuni elementi di lunga durata. La Repubblica Islamica d’Iran è l’erede di un patrimonio storico complesso, sul quale si fonda l’identità del Paese; per brevità citerò solo tre eventi, ognuno dei quali esemplifica uno dei pilastri di quest’identità. Il primo è la salita al trono di Ciro il Grande, fondatore


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Dopo Bush. Nessuno dei due candidati alla Casa Bianca ha intenzione di ridurre le spese per la Difesa

E il prossimo presidente? La “continuità” militare di McCain e Obama di Stranamore otranno avere idee diverse (molto) sulla strategia di uscita dall’Iraq, la penseranno in maniera opposta su come approcciare l’Iran o confrontarsi con la Russia, ma di sicuro Barack Obama e John McCain, i due candidati alla presidenza degli Stati Uniti, pensano di non poter o voler ridurre in misura considerevole la spesa per la difesa. Al Pentagono ne sono convinti e, sia pure con maggiore prudenza, l’idea è condivisa anche nelle file della industria della difesa, malgrado ci sia il convincimento che il “picco”di spesa sia stato raggiunto quest’anno o comunque non vada oltre il 2009. Del resto malgrado gli Usa si sentano e siano in guerra, la spesa militare non supera di molto il 4 per cento del Pil e, ancorché elevata, specie per una economia che rischia la recessione, rimane comunque sostenibile.

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sca come con Teheran. Entrambi, pragmaticamente, sono molto morbidi nei confronti della Cina ed sono favorevoli a migliorare i rapporti con gli alleati, dopo i disastri compiuti in questo senso da BushRumsfeld.

Come è naturale, Obama e McCain hanno posizioni differenziate sul futuro della presenza militare statunitense in Iraq. Obama si è spinto fino ad offrire una vera e propria tabella di marcia per il ritiro delle truppe statunitensi dal paese: due brigate combattenti al mese e tutti a casa entro 16 mesi dalla sua nomina a Presidente. Dopodiché, niente basi militari permanenti in Iraq. McCain ha detto di non voler mantenere soldati in Iraq un secondo in più di quanto non sia necessario, ma non ha intenzione di far ricadere il paese nel baratro da cui sembra sollevarsi ritirando troppo in fretta le truppe. McCain è un sostenitore delle strategie adottate dal Generale Petraeus e ha approvato la “surge”, il potenziamento temporaneo delle forze USA nel Paese. La situazione in lento, ma costante miglioramento in Iraq dovrebbe comunque consentire, dal 2009, tagli anche consistenti ali contingenti americani in Iraq. Obama e McCain in compenso condividono la necessità di continuare ed eventualmente incrementare la sforzo militare in Afghanistan, che è meno osteggiato dalla opinione pubblica e che comunque non ha davvero alternative. In ogni caso, se diminuiscono i costi, astronomici (190 miliardi di dollari nel 2008) delle operazioni di guerra potrà essere ridimensionato il ricorso ai finanziamenti straordinari che attualmente rappresentano il 27 per cento della spesa per la difesa. Il bilancio ordinario è comunque intorno ai 500 miliardi di dollari. In questi anni di guerra sempre più si è fatto ricorso ai fondi “extra”per finanziare spese, acquisti e programmi che formalmente dovevano essere nel bilancio ordinario. Cosa che a McCain non piace, perché i controlli sulle spese di guerra sono decisamente modesti ed ha infatti proposto di unificare gli stanziamenti. Quindi se una riduzione della spesa ci sarà, sarà su questo versante. Anche perché il bilancio “core” è già sotto pressione: da un lato entrambi i candidati appoggiano la scelta Bush di incrementare, anche

Il senatore dell’Illinois non può mostrare il fianco ad un rivale indiscusso eroe di guerra, che si è guadagnato una solida reputazione di fustigatore di scandali delle forze armate In generale, nell’anno elettorale non è mai pagante per un candidato preannunciare tagli alla spesa per la difesa e Obama in particolare deve essere molto prudente se vuole evitare di mostrare il fianco ad un rivale indiscusso eroe di guerra, con una competenza in materia e che si è guadagnato una reputazione di incorruttibile fustigatore di sprechi e scandali industrial-militari. Al punto che nella Washington Belt, così come in certi uffici oltre il Potomac c’è chi fa un tifo discreto… per il candidato democratico. Obama è perfettamente consapevole della situazione e proprio per questo è attento nel vagliare il profilo del suo compagno di “ticket”, il possibile vicepresidente, così come dei membri della sua squadra di governo, a partire dal Segretario alla Difesa.

In linea di principio, McCain propugna una politica di sicurezza di stile repubblicano “tradizionale”, depurata dagli eccessi sulla “esportazione della democrazia”, quindi più isolazionista che interventista. E in questo senso è il rifiuto di“aprire uno spiraglio”all’Iran e della linea di confronto duro nei confronti della Russia, con tanto di proposta di espulsione di Mosca dal G7. Obama al contrario è favorevole all’engagement, alla discussione, con Mo-

Sia il candidato repubblicano John McCain (a sinistra nella foto grande) che quello democratico Barack Obama (a destra) sono molto morbidi nei confronti della Cina. Nella foto a destra, il premier israeliano Ehud Olmert

rapidamente, gli organici dell’Esercito di 65mila unità e quelli del Corpo dei Marines di 28mila, per consentire alle due Forze Armate più impegnate nelle operazioni di avere un maggior volano di personale per fronteggiare le attuali e le eventuali esigenze operative. Questa espansione è molto costosa, anche perché si accompagna a provvedimenti volti a migliorare le retribuzioni, i benefits, la assistenza medica per il personale. E nessuno dei due candidati può tagliare queste voci di spesa. C’è poco da risparmiare anche sul versante della spesa per addestramento, logi-

che soffre di livelli di efficienza pericolosamente bassi. Rimangono i fondi per l’ammodernamento e ricerca/sviluppo. Anche negli Usa i soldi non bastano per finanziare tutti i programmi di acquisizione in corso o programmati. Sia Obama sia McCain hanno promesso una attenta analisi e revisione delle priorità, a partire da alcuni superprogetti. In generale entrambi i candidati parlano delle esigenze della guerra al terrorismo, della controguerriglia, ovvero di esigenze “contingenti”che si sono trasformate in permanenti. Ma al Pentagono molti vorrebbero che superata la fase di “emergenza” si tornasse ad investire per mantenere una ampia superiorità tecnologica nei confronti di tutti i potenziali avversari “convenzionali” e questo richiede soldi per la ricerca e per acquistare nuovi sistemi d’arma. Difficilmente saranno accontentati. McCain poi vuole mettere mano al sistema di “procurement” militare e Obama vuole elimina-

McCain propugna una politica di sicurezza di stile repubblicano “tradizionale”, depurata dagli eccessi sulla “esportazione della democrazia”, più isolazionista che interventista stica e formazione. Anzi, considerando il logorio al quale sono stati sottoposti materiali e mezzi nel corso di questi anni di guerra, occorreranno risorse extra per rimettere in forma una macchina militare che è stata messa davvero a dura prova e


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La campagna elettorale e il nodo del rapporto con Israele

Il futuro dell’asse Washington-Gerusalemme di Daniel Pipes on la fine delle primarie del Partito democratico, l’elettorato americano può focalizzare l’attenzione su delle questioni politiche veramente importanti. Ad esempio: in cosa si differenzia l’approccio dei due candidati alle presidenziali statunitensi riguardo a Israele e agli argomenti ad esso correlati? Le interviste parallele, rilasciate all’inizio di maggio dal democratico Barack Obama e qualche settimana più tardi dal repubblicano John McCain al giornalista Jeffrey Goldberg (vedi liberal di venerdì 6 giugno), offrono degli spunti interessanti. Nel rispondere più o meno alle stesse domande, i due sono andati in direzione opposta. Obama si è servito dell’intervista per convincere i lettori della sua buona fede nei confronti di Israele e del mondo ebraico. Egli ha reiterato per ben tre volte il suo appoggio allo Stato di Israele: «Lidea di uno Stato ebraico sicuro è fondamentalmente giusta e necessaria»; «la necessità di preservare uno Stato ebraico che sia sicuro è un’idea fondata e dovrebbe essere caldeggiata qui negli Stati Uniti e altrove nel mondo»; e infine: «sotto la mia presidenza, non vi sarà alcun cedimento nell’impegno volto a preservare la sicurezza di Israele». Obama ha circostanziato il suo appoggio in quattro contesti tipicamente ebraici: 1. Sviluppo personale. «Quando rifletto sull’idea sionista, penso a come i miei sentimenti verso Israele siano stati forgiati da ragazzo - in realtà, da bambino. Quando frequentavo la sesta classe avevo un consulente scolastico che era un ebreo-americano e che aveva vissuto in Israele». 2. Carriera politica. «Quando misi in moto la macchina organizzativa, i due organizzatori di Chicago erano ebrei, ed io fui attaccato per essermi legato a loro. Così, mi trovo nella stessa trincea con i miei amici ebrei». 3. Idee. «Scherzo sempre sul fatto che devo la mia formazione intellettuale ad accademici e scrittori ebrei, anche se all’epoca non ne ero consapevole. Che siano stati teologi o Philip Roth oppure qualcuno degli scrittori più famosi come Leon Uris, tutti hanno contribuito a formare la mia sensibilità». 4. Filosofia. «Talvolta il mio staff mi prende in giro per le mie afflizioni riguardo alle questioni di carattere etico. Credo di aver imparato qualcosa dal pensiero ebraico: che le azioni hanno delle conseguenze e che abbiamo degli imperativi morali».

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re gli sprechi. Anche i programmi per la difesa missilistica, tradizionale fissazione repubblicana, che trova scarso supporto tra i democratici, sono in larga misura protetti dai risultati che finalmente cominciano a conseguire, dal supporto ottenuto presso gli alleati, prima in Giappone, poi in Corea e ora con la Nato. Oltre che dal crescere della minaccia. Il Pentagono dovrà invece rinunciare ai tentativi di sviluppare una nuova generazione di armi nucleari, che già hanno pochi sostenitori tra i repubblicani, ma che Obama sicuramente bloccherà definitivamente. Poco male. Gli analisti infatti ritengono che, a meno di un drammatico incremento dell’inflazione (e l’inflazione “militare” corre più di quella degli altri settori) o di una stagflazione il bilancio militare core rimarrà “flat”, più o meno costante quale sia il nuovo Presidente. Ci saranno aggiustamenti anche significativi, che saranno forniti con la nuova edizione della Qdr (Quadriennal Defense Review). Ma l’America non può certo permettersi di mostrarsi “debole” sul fronte militare e della sicurezza.

egli ha utilizzato la sua intervista per sollevare delle questioni di politica spicciola, e in particolar modo ha affrontato il nodo della minaccia iraniana. Ad esempio, alla domanda sulla fondatezza del sionismo, McCain ha replicato dicendo «è degno di nota che il sionismo campeggi nel bel mezzo delle guerre e delle grandi prove e che esso si aggrappi agli ideali della democrazia, della giustizia sociale e dei diritti umani», per poi aggiungere «penso che lo Stato di Israele continui ad essere sotto la significativa minaccia di organizzazioni terroristiche, come pure della reiterata difesa iraniana dell’idea di cancellare Israele dalla carta geografica». E ancora, parlando di Iran, McCain si è impegnato a «non permettere mai un altro Olocausto». Nel far riferimento alla minacciata distruzione di Israele, egli ha chiosato che ciò avrebbe «importantissime conseguenze per la sicurezza nazionale» ed ha sottolineato che Teheran promuove gli intenti di organizzazioni terroristiche «in merito alla distruzione degli Stati Uniti d’America». Una seconda differenza concerne l’importanza rivestita dal conflitto arabo-israeliano. Obama l’ha presentato come una ”ferita aperta” e come una ”piaga sanguinante” che infetta ”tutta la nostra politica estera”. In particolare, egli ha detto che la sua mancanza di risoluzione «fornisce una scusa ai jihadisti militanti antiamericani per perpetrare imperdonabili azioni». Alla richiesta di un parere sulle affermazioni di Obama, McCain ha duramente criticato l’idea che l’Islam radicale sia una conseguenza del conflitto arabo-israeliano: «Non penso che il conflitto sia una piaga. Esso rappresenta piuttosto una sfida alla sicurezza nazionale». Il candidato repubblicano ha volutamente continuato «se la questione israelo-palestinese fosse risolta domani, dovremmo ancora affrontare l’ingente minaccia dell’estremismo islamico radicale». E per finire, i due non sono d’accordo sul numero degli israeliani che continuano a vivere in Cisgiordania. Obama pone grande enfasi sull’argomento, spiegando che se le loro cifre continueranno a crescere «ci impantaneremo nello stesso status quo in cui ci siamo impaludati da decenni». McCain ha ammesso che si tratta di una questione importante, ma ha poi cambiato discorso, parlando della campagna missilistica lanciata da Hamas contro Sderot, la città israeliana sotto assedio, dove si è recato in visita nel marzo scorso, e la cui situazione difficile egli ha esplicitamente paragonato al territorio continentale statunitense che subisce un attacco da uno dei propri confini. Le interviste gemelle di Goldberg sottolineano due fatti. Innanzitutto, i due candidati alle presidenziali americane devono ancora rendere omaggio ai cordiali rapporti che intercorrono tra gli Stati Uniti e Israele, e comunque lo facciano, come nel caso di Obama, ciò potrebbe clamorosamente contraddire le opinioni nutrite in precedenza. In secondo luogo, se McCain è tranquillo sull’argomento, Obama si preoccupa di guadagnarsi i voti dell’elettorato filo-israeliano.

Il senatore dell’Arizona non ha problemi con l’elettorato ebraico. E resta tranquillo. Obama, invece, si preoccupa di riconquistare i voti filo-israeliani

Di contro, McCain non ha sentito alcuna esigenza di comprovare il suo sionismo né di ostentare le sue credenziali filo-ebraiche. Assumendo ciò come un dato di fatto,


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politica Paola Binetti sul ruolo e sul futuro dei cattolici nel partito di Veltroni

«Non saremo una riserva indiana» colloquio con Paola Binetti di Susanna Turco

ROMA.

Curioso è l’effetto contrappunto. Mentre nel Pd continua a soffiare forte il vento della questione cattolica, l’onorevole Paola Binetti - che di quella vicenda è uno dei protagonisti - si ritrova a fare lo yo-yo tra l’intervista e l’Aula della Camera, dove si sta votando il decreto fiscale. Non vuol perdersi nemmeno una votazione, epperò non rinuncia neanche a dire la sua sulle randellate di Famiglia cristiana contro il Pd («una provocazione da accogliere», «serve a evitare che la tensione arrivi a una soglia critica»), sull’aria scismatica che si respira nel partito (nonostante tutti lo neghino), sulla collocazione europea del partito di Veltroni e il «benedetto» ritorno di Rutelli, che fa «una proposta convincente». Perché una cosa è certa: «Nessuno vuol fare scissioni, però di rimanere nella riserva indiana non se ne parla», giura la capofila dei teodem. Ho letto che ha condiviso l’intervento di Famiglia cristiana. Si tratta di una provocazione da accogliere, se la si interpreta come un’opportunità in più per capire fino a che punto sia necessario per noi cattolici, avere il coraggio di posizionare i nostri valori.Viceversa, se il significato è per così dire scissionista, certamente va respinta: perché, sottolineate le difficoltà, il senso di stare nel Pd è quello di esprimere al suo interno questi valori. La sfida è riuscire a farsi capire. Perché denunciare proprio adesso che le «attese dei cattolici sono state tradite»? Negli ultimi tre mesi Famiglia Cristiana non ha risparmiato a nessun partito sollecitazioni concrete: e non credo che anche con gli altri, in futuro, si tratterrà. Marini dice che si tratta di un intervento «inaccettabile», che i cattolici nel Pd «non sono sotto tutela». Nessuno lo è. La stampa non allineata esercita il diritto di critica, verso di noi come mi auguro verso altri. Ma lei ritiene che sul «tradimento» dei cattolici ci sia del vero? Il Pd non ha ancora realizzato tutte le attese dei cattolici, però i cattolici del Pd ci stanno lavorando. Non è una cosa che si possa fare dall’oggi al domani, sottraendosi a un vero

dialogo. I risultati dovranno venire. Ma lei oggi si sente in una ridotta, in una riserva indiana? Mettiamola così: il Pd è minoranza nel paese, i cattolici probabilmente lo sono nel Pd: la sfida per il futuro è duplice. Al Corriere Rutelli dice che la svolta passa attraverso costruzioni di «nuove alleanze». È un fatto. Il Pd deve allargare i propri consensi, se ambisce a governare il Paese. E per far questo ci sono tre strade: guardare agli elettori della sinistra, a quelli dell’Udc o a quelli del Pdl.

«Nessuna scissione, Famiglia cristiana ha segnalato una tensione. La proposta di Rutelli è convincente. Parisi lo critica? Per bocciare un’idea si deve proporre un’alternativa» E la sua personale ricetta qual è? Cercare di convincere gli elettori cattolici che il Pd ha le risorse per realizzare le loro aspettative. La sfida è convin-

cerli, ovunque stiano. La proposta di Rutelli le piace. È convincente: ha dimostrato di essere capace di riposizionarsi nel Pd, di avere un pensiero forte. Senza cercare spaccature, vuol spingere il Paese verso una sintesi più creativa, che non ha niente a che vedere con il correntismo. Tutti voi cattolici del Pd, Rutelli compreso, negate propositi scissionisti. Ma come mai, allora, Famiglia cristiana scrive che tra voi c’è chi «si interroga sulla sua permanenza nel Pd»? Se lo è inventato? La tensione è espressione di vitalità, ma se si arriva alla soglia critica, allora bisogna richiamare l’attenzione, per non trascendere. In questo momento nel Pd nessun cattolico vuol stare nella riserva indiana, ma è anche troppo presto per dire che non riusciamo a uscirne. Quello che si vuol realizzare nel Pd è complesso, non a caso sinora non ci si è mai riusciti. E il settimanale dei paolini si è assunto il compito di rammentare a tutti cosa accadrà se non si abbattono i muri del ghetto. A proposito di tensioni: Arturo Parisi, durissimo, afferma di «non capire come faccia Rutelli a riproporre la sua proposta politica», visto che è «stata la sua iniziativa una della cause più prossime della sconfitta». In questo momento siamo tutti impegnati a ragionare sulla sconfitta e sulle possibili soluzioni per il futuro. Ma non c’è dubbio che il Pd vuole candidarsi al governo del Paese: serve dunque allargare i consensi. Sul come farlo ci possono essere idee diverse. Ma mi guarderei bene dal cancellarle senza averle esaminate. Se si critica, sarebbe bene proporre un’alternativa. Sembra anche a lei che il dopo voto abbia moltiplicato le spinte centrifughe nel Pd, per cui si tende a tornare alle vecchie appartenenze? Le sconfitte creano sempre stordimento. Si deve elaborare il lutto e di solito vien fuori il bisogno di capire chi e dove ha sbagliato. Ma alla fine è nella sconfitta che si formano i partiti, mi auguro si tratti di una crisi di crescita. Del resto, il fatto che Rutelli si rimetta in gioco è positivo, rispetto al dualismo Veltroni-D’Alema per dire.

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Sicurezza: il decreto giovedì in senato Il decreto sulla sicurezza andrà giovedì nell’Aula di Palazzo Madama e quasi sicuramente verrà approvato nella prossima settimana. Dopo gli incontri di ieri mattina tra il presidente del Senato Schifani con i ministri Alfano e Maroni, e il successivo vertice di maggioranza, il decreto prosegue il suo esame nelle commissioni congiunte Affari Costituzionali e Giustizia. Il doppio vertice di ieri mattina è servito per decidere che l’emendamento sulla prostituzione non farà più parte del decreto ma verrà inserito nell’apposito disegno di legge sulla sicurezza che la maggioranza confida di approvare prima della pausa estiva. Il presidente della commissione Affari Costituzionali Vizzini ha fatto sapere che alcuni emendamenti verranno riscritti o accorpati mentre saranno ritirati quelli che non attengono direttamente al merito del decreto.

Mastella a Casini: «Sì alla Costituente» «Guardiamo con grande interesse all’iniziativa politica dell’Udc per una Costituente popolare che dia voce e visibilità a quanti non ritengono che la vita del Paese debba essere segnata da un forzato bipartitismo». Lo ha affermato Clemente Mastella che, attraverso una nota, ha annunciato che il 27 giugno riunirà a Roma il Consiglio Nazionale del Partito. Il segretario Udeur ha confermato «di essere favorevole alla reintroduzione della preferenza nel nostro sistema elettorale e alla eventualità di una iniziativa referendaria in tal senso». «Riteniamo - ha aggiunto Mastella - che la scommessa sul Centro, seppure alleato, sia ancora di attualità e rappresenti un investimento credibile e un approdo naturale per rilanciare una proposta politica nel Paese che tenga conto di quei temi come la famiglia, il sud, la solidarietà sociale, la sicurezza e la scuola alla base della nostra società».

Gelmini: «Più soldi agli insegnanti» «Questa legislatura deve vedere uno sforzo unanime nel far sì che gli stipendi degli insegnanti siano adeguati alla media Ocse». Lo ha sottolineato ieri il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini, illustrando in commissione Cultura alla Camera il suo programma per la scuola. A sostegno della sua affermazione, ha ricordato alcuni numeri. «Non possiamo ignorare - ha detto - che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore dopo 15 anni di insegnamento è pari a 27.500 euro lordi annui, tredicesima inclusa. Fosse in Germania - ha aggiunto - ne guadagnerebbe 20 mila in più. In Finlandia 16 mila in più. La media Ocse è superiore ai 40 mila euro l’anno». Per il ministro, per adeguare gli stipendi bisogna «aggredire le cause dell’iniquità del sistema, mediocre nell’erogazione dei compensi, mediocre nei risultati, mediocre nelle speranze».

Bondi: «Serve più cultura in tivù» Più cultura in televisione. È questo uno dei temi sul quale garantisce il proprio impegno il ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, presente ieri in commissione Istruzione al Senato, insieme al sottosegretario Francesco Giro, per il dibattito sugli indirizzi della politica del suo dicastero. Una questione, quella del rapporto fra cultura e piccolo schermo, sulla quale «tutti, in commissione, hanno posto l’accento e cui voglio dare seguito: perché è vero che la tivù dedica alla cultura poco spazio e in orari che sono peggio che di nicchia». Bondi ha citato come esempio il festival del teatro organizzato in questi giorni a Napoli e lamentato il fatto che «un evento importante come questo non abbia trovato molto spazio. La tivù dovrebbe fornire maggiore attenzione perché il festival non è importante solo in sé, ma è anche il segno del risveglio civile della città. Di questo - ha concluso - parlerò con il presidente e il direttore generale della Rai». Le repliche del ministro in commissione sono state fissate per il 25 giugno prossimo.


politica

11 giugno 2008 • pagina 7

Dopo l’incontro di Tremonti con Almunia sulla manovra finanziaria

Signor ministro, vorremmo sapere (Eni): la verità sui nostri conti «LaScaroni Robin Hood Scontro tra il Cane a sei zampe e il suo azionista

di Insider

Le prime indiscrezioni, per perseguire il risamento di bilancio, parlano di una pre-manovra a luglio di 10-15 miliardi. Una «finanziaria triennale» che dovrebbe guidare i poteri pubblici verso l’agognato traguardo del close to balance. Le intenzioni sono buone, più incerta la strumentazione legislativa che dovrebbe guidare questo processo

segue dalla prima desideroso, infine, di riforme in grado di dare una svolta all’economia italiana: per renderla, al tempo stesso, più forte e solidale. Una strada obbligata, quindi. Per perseguire questi obiettivi le prime indiscrezioni parlano di una pre manovra a luglio di 10-15 miliardi. Quindi di una «finanziaria triennale» che dovrebbe guidare i poteri pubblici verso l’agognato traguardo del close to balance. Le intenzioni sono buone. Più incerta la strumentazione legislativa che dovrebbe guidare questo processo. Sulla premanovra non dovrebbero sussistere problemi. È nella prassi parlamentare il ricorso al «decreto di luglio», quale anticipo di quel che accadrà a settembre, con la presentazione della normale «legge finanziaria».

A questo strumento hanno fatto quasi sempre ricorso tutti i precedenti governi. L’eccezione sarebbe, semmai, il contrario. Più nebuloso, invece, il concetto di «legge finanziaria triennale». Che significa? Le norme - la legge 468 del 1978 - prescrivono un percorso rigido nell’approvazione della legge di bilancio. Essa, non solo, deve essere presentata ogni anno, ma deve sottostare ad una serie di vincoli e barocchismi che sarebbe il caso di spazzare via. Ma finchè la norma esiste sarà difficile agirarla o far finta ch’essa sia semplicemente decaduta. Quindi qual è il significato ef-

fettivo e non solo propagandistico di questi annunci? Confessiamo di non essere in grado di rispondere a questo interrogativo. Andando per esclusione, si potrebbe pensare ad una legge che compie, in anticipo, le scelte del triennio, per poi modificarle, volta per volta, qualora si

Alcuni dati parziali sul fabbisogno evidenziano un miglioramento, ma un pizzico di trasparenza in più nella comunicazione istituzionale aiuterebbe il ministero rendesse necessario. Ma è proprio la legge 468 che impedisce di inserire nella «finanziaria» norme che non entrino in vigore l’anno successivo. Se quella ipotizzata fosse la strada, allora si dovrebbe cambiare prima la procedura: cosa non facile da ottenere. È prassi costante che ogni modifica della legge 468 debba avvenire con un disegno di legge. Il che escluderebbe il ricorso alla decretazione d’urgenza. Insomma, gli ostacoli sono molteplici. Uno soprattutto. Come stanno andando i conti pubblici? Rispondere a questa domanda è pregiudiziale. Se la situazione

è di allarme rosso, allora ogni forzatura diventa possibile. Ma è questa la realtà? Forse Giulio Tremonti dispone di dati che noi non conosciamo. Ma quelli finora resi accessibili dal suo ministero dimostrano il contrario. Nei primi cinque mesi dell’anno, il fabbisogno dello Stato è migliorato, rispetto all’anno precedente, di circa 6 miliardi di euro. Le previsioni di Tommaso Padoa Schioppa erano invece catastrofiche. Ipotizzavano, a fine anno, un peggioramento di oltre 13 miliardi, rispetto al periodo precedente. Secondo elemento, coincidente con il primo: le entrate. Sempre Padoa Schioppa ipotizzava una crescita, su base annua, del gettito complessivo del 2,4 per cento.

Nei primi tre mesi del 2008, invece, la sorpresa è stata di una crescita complessiva del 5,3 per cento. Più del doppio, nonostante la caduta dell’Iva, a seguito del rallentamento congiunturale. Dati, ovviamente, provvisori; ma, comunque, tutt’altro che collimanti con l’ipotesi di una catastrofe imminente. Certo bisognerà aspettare ancora un po’per vedere se le rose fioriranno. Ma il bel tempo, il più delle volte, si vede dal mattino. Ed allora? Se ci è consentito un consiglio: va bene seguire l’esempio di Quintino Sella, ma con un pizzico di trasparenza in più. Che il ministro renda esplicito lo scenario di riferimento. Ne guadagnerà la comunicazione istituzionale e la sua stessa credibilità.

Tax è inutile» di Francesco Pacifico

ROMA. Il sottosegretario Ugo Martinatt ieri ha ammesso che «la Robin Hood Tax è un percorso in salita». E dal Tesoro, dove si lavora per realizzare l’obiettivo di Giulio Tremonti (tassare gli extraprofitti dei petrolieri e distribuire risorse alle categorie più colpite dal caro greggio) confermano che è difficile trovare uno schema che non sia contestabile. Il ministro vuole portarla in Parlamento a luglio, con il prossimo Dpef, ma oltre agli ostacoli di natura tecnici, dovrà vedersela con il fuoco incrociato dell’Eni. Ieri l’amministratore delegato Paolo Scaroni – appena riconfermato dall’assemblea come il presidente Roberto Poli – ha definito la tassa inutile. «Colpirebbe un pezzetto piccolissimo delle entrate petrolifere. Se si vuole fare Robin Hood sarebbe allora giusto andare a tassare i paesi produttori». Tremonti mandò nel 2001 Scaroni all’Enel, ieri l’ha confermato all’Eni. Il gruppo, come dimostra la conquista di Distrigaz e l’espansione nel Mare del Nord annunciata ieri, dall’inizio dell’anno registra un ritorno per gli azionisti del 10 per cento. Ma dietro le parole del manager c’è l’insofferenza del Cane a sei zampe per le mosse del ministro. Il quale, a quanto pare, vuole colpire le attività di upstreaming, di estrazione del petrolio e che fa soltanto l’Eni, non quelle di downstreaming, di raffinazione. I motivi sono molti. Intanto, il colosso petrolifero ha segnato nel 2007 20 miliardi di utili, mentre raffinazione e commercializzazione hanno un giro d’affari da un 1,2 miliardi. Eppoi intervenire sull’attività di upstreaming permetterebbe al ministro di ampliare l’imponibile del gruppo, inserendo anche gli introiti in capo ad attività estere. Per Tremonti potrebbe essere la conclusione di un percorso iniziato con il collegato mondiale all’Ire. E starebbe studiando come intervenire sulle voci relative agli ammortamenti dei giacimenti. Nota l’economista Alberto Clò, che da poco ha mandato in libreria Il rebus energetico (Il Mulino): «Non metto in dubbio le finalità del ministro, ma sarebbe più utile spingere l’Europa a chiedere una nuova regolamentazione per i mercati americani, dove si trattano con poca trasparenza i futures del greggio»


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il caso

Pronto un testo di mediazione, sarà discusso venerdì in Consiglio dei ministri

Intercettazioni, Napolitano frena il governo di Errico Novi

ROMA. Imprevisti della distensione. Sulle intercettazioni il governo è partito a testa bassa, con le proposte annunciate dal premier. Adesso si trova a dover cercare un punto di equilibrio. È Giorgio Napolitano a chiedere di «trovare una larga intesa sul provvedimento», considerato che «la questione è reale, né nuova né recente». A questo punto non sarà più possibile fare tutto da soli. E dunque il testo che sarà presentato venerdì in Consiglio dei ministri non sarà troppo lontano dal disegno di legge varato nella scorsa legislatura da Clemente Mastella e sul quale era stata raggiunta un’ampia convergenza. Se l’esecutivo si muovesse con un passo troppo pesante finirebbe per contraddire il clima di concordia orgogliosamente rivendicato da Berlusconi anche davanti a Papa Benedetto XVI. Ecco dunque quali effetti concreti produce il rapporto disteso inaugurato da Silvio e Walter: sui passaggi delicati, come questo delle intercettazioni, la maggioranza non può prescindere dal negoziato.

Dal Capo dello Stato arriva un segnale rasserenante. Viene riconosciuta la necessità di intervenire e viene persino indicata una strada per trovare l’accordo: «Il problema è stato affrontato in al-

Il presidente tre legislature, pendeva un disegno di legge del precedente governo: si può della Repubblica Giorgio sempre discutere sulle norme che devoNapolitano no garantire alcune esigenze fondaha esortato mentali». È più che esplicito il riferia trovare mento al testo Mastella, sul quale gravalarga «una vano due soli punti controversi: il mointesa» sulla mento a partire dal quale gli atti di un legge per le processo possono essere considerati pubblicabili e l’entità delle sanzioni pe- intercettazioni e ha anche cuniarie per i giornalisti. Ieri il ministro indicato della Giustizia Angelino Alfano e il canel ddl Mastella po del Viminale Roberto Maroni si sono il punto confrontati alla Camera per definire un disegno di legge che accolga parte delle da cui partire restrizioni annunciate dal presidente del Consiglio ma non sia indigesto né per l’opposizione né per la stessa Lega. Anche il democratico Marco Minniti A questo punto il governo dovrà anapre a un’intesa sulla base del lavoro la- che evitare che l’iniziativa provochi un sciato a metà nei mesi scorsi: «Il ddl calo di popolarità. Pesa enormemente lo Mastella sarebbe un buon punto di rife- scandalo della clinica Santa Rita di Mirimento da cui partire». In questo clima lano, che ha offerto ai pm l’occasione di di inevitabile armonia colpisce molto difendere lo strumento investigativo. Iel’interventismo sempre meglio indiriz- ri ha contribuito a rafforzare il concetto zato del presidente della Repubblica, persino il questore di Palermo Giuseppe che fa da regolatore del dibattito senza Caruso: «Tecnicamente è impossibile mai dare l’impressione di invadere il senza le intercettazioni telefoniche concampo. «Bisogna assicurare la riserva- figurare il reato di associazione per detezza e il ricorso misurato allo strumen- linquere», ha detto, mentre raccontava to investigativo», si è spinto a dire Na- di 26 arresti contro altrettanti ladri d’aupolitano. to. Che non ci siano le condizioni per

Dopo il caso del Santa Rita di Milano: una denuncia dal mondo medico

«Colleghi, abbiamo dimenticato l’etica» colloquio con Alfredo Anzani di Nicola Procaccini

ROMA. Con il passare delle ore, lo scandalo della casa di cura Santa Rita di Milano assume connotati e dimensioni sempre più inquietanti. Per i mass media è la clinica degli orrori, o dei macellai. Sembrano titoli da film horror anni settanta. L’opinione pubblica è sotto shock e, come avviene sempre in questi casi, fatica a ritrovare la calma per discernere le responsabilità. Sotto accusa non c’è solo una clinica ed alcuni medici che vi operano, ma l’intera classe medica italiana. Approfondiamo l’analisi con Alfredo Anzani, docente di Etica clinica e vice presidente della Federazione europea medici cattolici. Che idea si è fatto della vicenda? Mah! Ho il massimo rispetto per il lavoro della magistratura milanese, ma devo confessare alcune perplessità. Faccio davvero fatica a credere alla cosiddetta “clinica degli orrori”, soprattutto se penso che in sala operatoria c’è una intera equipe composta da infermieri, ferristi, anestesisti, etc… E’ strano che fossero tutti d’accordo. Eppoi c’è bisogno del consenso dei pazienti, dei familiari. Proprio ieri alcune persone ricoverate nella stessa clinica mi dicevano di essere state ben curate. Staremo a vedere. Diamo per buona la ricostruzione degli inquirenti,

una forzatura lo si capisce anche dalle parole del vicepresidente della Camera Maurizio Lupi: «Quella delle larghe intese è la strada giusta, l’appello lanciato oggi dal presidente Napolitano è positivo e condivisibile. Serve spirito costruttivo, tenuto conto che non esistono intercettazioni buone e intercettazioni cattive».

Si rischia d’altronde di vanificare l’effetto del decreto sicurezza, all’esame delle commissioni del Senato. Il governo ha subito provato ad accreditarsi come restauratore dell’ordine, ma parte

come nasce un orrore del genere? Dobbiamo necessariamente guardare dentro gli uomini e dentro un sistema sanitario che dimostra la sua inefficienza. Partiamo dal sistema. Semplicemente, non funziona. Bisogna restituire alle diverse professionalità i ruoli che a loro competono. Al medico non deve essere richiesta una competenza economica o finanziaria, ma un’ottima preparazione professionale. Se invece diventa un economista, dedito a mandare avanti finanziariamente una struttura pubblica o privata, si proietta in una dimensione sbagliata. Credo che la soluzione stia in un lavoro comune dove lavorano fianco a fianco l’economista ed il medico, lo psicologo e l’assistente sociale. Senza alcuna confusione dei ruoli. Poi c’è il rapporto pubblico-privato da riorganizzare e la giusta rilevanza da dare al consenso informato dei pazienti. Veniamo agli uomini. Io sostengo che al medico vadano chiesti professionalità ed umanesimo. La formazione etica è fondamentale per tutti, particolarmente per chiunque eserciti una funzione di relazione con gli altri. Ed è importante per coloro che svolgono un ruolo più sensibile nei confronti delle persone più


il caso

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Conversazioni criminose e polemiche strumentali

La clinica immorale della capitale morale di Nicola Procaccini ontro Francesco Pipitone, il notaio proprietario della clinica Santa Rita, finita nella bufera giudiziaria, «l’accusa ha messo insieme un ”bel racconto” che però va verificato. Le accuse formulate sono tutte da provare». E’quanto ha affermato ieri l’avvocato Enzo Brienza, difensore del notaio finito agli arresti domiciliari. Certo l’accusa «ha messo insieme un bel racconto», suffragato però da una serie di intercettazioni che per ora hanno il sapore davvero di un “bel racconto” a metà tra l’horror e la commedia all’italiana. Insomma il sottofondo musicale a tratti sembra l’ossessiva nenia di “Profondo rosso”a tratti il ”tà-tatata- tà” di Guido Tersilli, medico della mutua. Prendiamo la conversazione telefonica del 6 febbraio scorso tra la dottoressa Arabella Galasso, ortopedico indagato, e una collega. La prima dice alla seconda: «ciao gioia senti abbiamo un casino...». Risposta: «allora ma non gliel’avete poi messo il tendine?». E la Galasso «sì, no no quello di ieri non era nostro...». la collega: «...ah non era suo?». Galasso: «oggi l’abbiamo ritirato». La collega: «ah non era il medico quello che si era rotto!». Galasso: «no... si il medico che si è rotto l’abbiamo operato oggi, so che ieri ti hanno restituito un tendine... ma non era roba nostra». Risposta: «ah, e di chi era?». Galasso: «non era della mia equipe, non so dirti chi l’ha ordinato e l’ha rimandato indietro. Senti abbiamo un problema sul tendine di oggi, perchè voi mi avete mandato questo emitendine rotuleo con tutto il certificato di idoneità e il codice del donatore, la data di nascita, di morte, gruppo sanguigno peccato che la busta che m’avete mandato è un tendine tibiale anteriore... nato in una data diversa da questo qua, cioè non c’è corrisponde... noi abbiamo dovuto usare il tibiale purtroppo perchè ormai il paziente era aperto… quindi l’abbiamo usato». Collega: «cosi è andato bene il tibiale?». Galasso: «sì non era fantastico rispetto al rotuleo che ci aspettavamo anche perché qui abbiamo tutta la descrizione del tendine». Incredibile, un tendine tibiale anteriore destro impiantato al posto di quello rotuleo sinistro. Sembra una barzelletta. Anche se il paziente in questione adesso sorriderà a denti strette e forse a gambe sghembe.

C

dell’opinione pubblica si sentirebbe tradita se davvero l’uso delle intercettazioni fosse limitato a mafia e terrorismo. È l’Italia dei valori ad amplificare la contraddizione, con il capogruppo alla Camera Massimo Donadi: «Ai proclami sulla sicurezza faccia seguito un comportamento coerente. Il presidente Napolitano ha ragione sulla necessità di un’intesa, è Berlusconi ad avere un’idea diversa: eliminare le intercettazioni per la gran parte dei reati sarebbe un duro colpo alla sicurezza dei cittadini». Il Pd resta sospeso tra la

tentazione di dare una mano e quella di lasciar naufragare i propositi dell’esecutivo. Tra i veltroniani c’è anche chi, come Pierluigi Mantini, paragona la proposta del premier all’indulto: «È anche peggio: in quel caso c’era uno sconto di pena, qui c’è lo sconto sulla possibilità di catturare i criminali». Toni diversi dall’Udc, che però fa notare come il dibattito sia «surreale»: si potrebbe partire dal testo Mastella, dice Michele Vietti, «e invece siamo di fronte all’ennesimo caso di annuncio shock».

fragili, dei malati. In questi casi, come dicevo, la risposta di salute deve venire attraverso professionalità ed umanesimo. La prima permette di dare delle risposte corrette sul piano tecnico-scientifico. Il secondo consente di capire i problemi emotivi ed umani che soggiacciono ad una malattia. Lei è un docente di Etica clinica, ma c’è chi sostiene che nella formazione dei giovani medici ci sia sempre meno spazio per l’insegnamento dell’etica a vantaggio della tecnica medica. Il caso di Milano non sarà mica la conferma di questa tesi? Sarebbe utile un’inchiesta giornalistica sul percorso complessivo d’istruzione dei medici. Ma lei ha idea delle peripezie burocratiche che impiega un medico per formarsi, prima e dopo la specializzazione? E’ davvero un percorso che può portare all’alienazione, con tutto quel che di brutto ne consegue. Comunque è vero che serve un supplemento di formazione etica per i medici. Ma non dimentichiamoci che siamo tutti figli della stessa realtà. Mors tua vita mea, il profitto a tutti i costi, valgo solo per quello che posseggo, il bambino handicappato che non ha diritto di vivere, l’anziano abbandonato, questi sono i messaggi che prevalgono. Ed allora l’etica deve essere ovunque. E’ una modalità di vita, è la mia casa, la mia famiglia, la mia nazione.

anche quando le conversazioni non risultino determinanti per le indagini né per la pubblica opinione. Gli argomenti utilizzati da Silvio Berlusconi e dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sono salienti (rispetto della privacy, costi esorbitanti, inutile pervasività…), sebbene di fronte a notizie di reato di tale gravità perdano parte del loro impatto.

Nel caso del Santa Rita, se tutto sarà confermato, anche grazie alle intercettazioni, è stato bloccato un meccanismo aberrante.Più importante è invece il dibattito circa la sanità lombarda, impostato da Roberto Formigoni, che fa della sussidiarietà e del privato cardini imprescindibili che, tra l’altro, hanno decretato l’eccellenza del sistema in termini di qualità e costi del servizio. Giustamente il presidente Formigoni ha difeso il modello al quale si rivolgono pazienti da tutta Italia e perfino dall’estero. Mentre esponenti della sinistra massimalista milanese hanno dichiarato senza remore che «è criminogeno il celebrato modello sanitario lombardo basato sulla privatizzazione e la concorrenza delle strutture sanitarie per accaparrarsi il denaro pubblico». Affermazione che fa il paio con quella del primario Brega Massone, accusato di omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà, quando al telefono spiega che il fine non è curare, semmai avere pazienti: «I numeri sono questi. Cioè, tu o fai 15 polmoni o altrimenti non puoi pagare un’equipe... E per fare 15 polmoni, auguri...». Certo, auguri. Forse alla fine ha ragione l’associazione medici cattolici italiani che appoggiando la magistratura, non tacendo l’orrore e il raccapriccio di fronte alle notizie diffuse dagli organi di stampa, «constata l’effetto perverso che si può avere quando si considera un luogo di cura semplicemente come un’azienda, quando si ritiene la propria professione non più una missione, ma un mezzo per accumulare ricchezze sulla base delle prestazioni che si compiono». La concorrenza eccessiva, è vero, può far perdere di vista il fine, ma la gestione statalista della sanità spesso ha prodotto risultati peggiori: morti sospette, ritardi nei ricoveri e nelle cure, mancanza perfino dei letti. Ad un costo perfino decuplicato. D’altronde un tempo anche i comunisti italiani vantavano l’eccellenza del sistema sanitario sovietico, ma poi quando c’era da curarsi (vedi Togliatti o più prosaicamnete Peppone) preferivano la democristiana madrepatria.

Sotto accusa il modello sanitario lombardo che fa della sussidiarietà e del privato i suoi cardini imprescindibili

Al di là delle battute lo scandalo milanese propone questioni fondamentali. Innanzitutto l’opportunità delle intercettazioni. In questi giorni il governo sta tentando di limitare la cattiva abitudine dei magistrati di far intercettare centinaia di migliaia di utenze telefoniche e dei giornalisti di pubblicarne i relativi brogliacci


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società

L’Italia delle comunità religiose. Viaggio nelle associazioni cattoliche/7 Rinnovamento nello Spirito

Dio, che carisma! di Francesco Rositano

i riuniscono una volta alla settimana per pregare insieme. Battono le mani, intonano canti di lode, a volte si muovono a ritmo di musica, e parlano in lingue diverse, come accadde agli apostoli il giorno di Pentecoste. I più ispirati aprono a caso la Bibbia, cercando di trovare quella parola in grado di aiutare tutti. È così che si abbandonano allo Spirito Santo, al “grande Sconosciuto”, come usava chiamarlo papa Leone XIII, che scrisse un’Enciclica sul tema. Questa è la peculiarità del Movimento Carismatico, conosciuto anche con la dizione di Pentecostale, un mondo vasto e articolato che conta seicento milioni di aderenti e abbraccia le diverse confessioni cristiane: cattolici, evangelici, ortodossi, protestanti. Un mondo che fiorì in maniera molto forte in seguito alla grande trasformazione portata dal Concilio Vaticano II. Un rinnovamento che si fece sentire forte in America, nel paese dove la religione di comunità era tradizionalmente più sviluppata, agendo in profondità soprattutto nella Chiesa protestante, portando in breve tempo tanti suoi aderenti ad abbracciare questa nuova modalità di educazione alla fede. Ed è sempre negli Stati Uniti che il pentecostalismo diventa anche fenomeno cattolico. È il febbraio 1967, quando alcuni giovani studenti dell’Università Duquesne a Pittsburgh (Usa) durante un ritiro si riunirono spontaneamente per pregare e implorare lo Spirito Santo.

S

Per la gente, giovani, famiglie e sacerdoti, che incontravano questa modalità nuova di abbandono totale a Dio anche con il corpo (pregando, ballando, muovendo le mani, e lasciandosi andare a ritmo di musica) fu amore a prima vista. E nei vari paesi del mondo, oggi sono quasi trecento, cominciavano a sbocciare comunità del Rinnovamento che si riunivano a pregare insieme, facevano la catechesi, e avevano dei momenti di convivenza. Fu un duro colpo all’individualismo, soprattutto a quello americano. Un’attrattiva, particolarmente marcata ancora oggi, soprattutto per le comunità protestanti: pensiamo al Brasile dove insieme alla crescita del protestantesimo si registra la grande “esplosione” delle chiese cosiddette pentecostali. Questa grande espansione del Movimento creò l’esigenza di mettere in piedi una struttura di coordinamento e di promozione del Rinnovamento nel mondo. Il Rinnovamento Carismatico Cattolico infatti non è un’organizzazione pastorale con una dirigenza mondiale, ma ha solo responsabili riconosciuti

a livello nazionale. Così nacque l’ICCRS, che sta per Servizi al Rinnovamento. Ecco come inquadra questo frutto del Concilio, Salvatore Martinez, 42 anni, siciliano, presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito per l’Italia: «Il Rinnovamento nasce negli USA nel 1967, in ambiente universitario. Giunge in Italia nel 1972, comincia a strutturarsi nel 1975 con una prima forma di coordinamento nazionale. Sino a quell’epoca si denominava soltanto “Rinnovamento Carismatico Cattolico”. Fu poi il cardinale di Malines – Bruxelles, Leo J. Suenens, primo grande sostenitore del Rinnovamento, a chiedere a tutte le diverse espressioni nazionali che si andavano producendo nel mondo di denominarsi “Rinnovamento nello Spirito Santo”. Noi, guidati da saggi teologi dell’epoca, in gran parte gesuiti e docenti della Pontificia Università Gregoriana di Roma (solo per fare alcuni nomi: Grasso, Martini, Beck, Sullivan, Faricy, Baruffo, Savoca, Cultrera, Bentivegna),

convenimmo sull’opportunità di adeguarci all’istanza, così da mettere in risalto il Donatore sui doni, segnalando la novità del “Movimento Carismatico Cattolico” rispetto alle altre forme di rinno-

I Carismatici nel mondo sono seicento milioni: cattolici, evangelici, ortodossi e protestanti. In Italia RnS è la realtà pentecostale cattolica più grande, ma non l’unica esistente vamento post conciliare. Infatti, se il rinnovamento liturgico, biblico, ecumenico furono promanazione della Autorità ecclesiastica, il Rinnovamento carismatico, invece, si produceva dal basso, come frutto della pietà popolare, senza fondatore, propagandatori, o strutture ecclesiastiche caratteristiche di altri Movimenti cattolici, con una decisiva polarizzazione sulla Persona dello Spirito Santo, il “grande Sconosciuto”, come lo definì Leone XIII».

Certamente, nonostante le differenze, c’è un trait d’union, una comune scaturigine tra queste realtà: la riscoperta dell’azione rinnovatrice dello Spirito Santo, ritenuta necessaria per trasformare nel profondo la società: «Molti credono di credere - continua Martinez - ma poi la Bibbia si riduce ad uno dei tanti libri da scaffale impolverato». Ecco l’esigenza di proporre un cammino in cui il Vangelo non sia ridotto a parole, ma abbia la capacità di trasformare letteralmente la vita dei credenti. E proprio per questo che il Rinnovamento non propone tanto una spiritualità particolare, ma un cammino permanente di educazione alla fede e di riscoperta dei doni della Terza Persona della Trinità che tutti i credenti hanno ricevuto nei sacramenti del Battesimo e della Cresima. Un vero e proprio cam-

mino a tappe che, dopo un adeguato percorso di formazione, culmina nel Battesimo dello Spirito Santo. Un gesto semplice costituito dall’imposizione delle mani e da una semplice preghiera che un“fratello più anziano”recita sul fedele. Questo gesto non è un sacramento della Chiesa cattolica, ma ha un suo grande significato nello scandire il percorso che ogni aderente fa all’interno del Movimento Carismatico. L’idea che la fede non sia un regalo ricevuto una volta per tutte, ma un “pacco da scartare e scoprire per tutta la vita”accomuna il Rinnovamento nello Spirito al Cammino Neocatecumenale.

Anche in Italia, il movimento carismatico cattolico, ha assunto diverse sfumature. Il Rinnovamento nello Spirito, infatti, anche se è la realtà carismatica cattolica italiana più grande, non è l’unica. Esistono altre realtà come la Comunità ”Gesù Ama”, la Comunità “Gesù Risorto”, “i Servi di Cristo Vivo”, il movimento “Dives in Misericordia”, “la Comunità Maria”. Salvatore Martinez, di RnS, cerca di far chiarezza in questo arcipelago: «In Italia – afferma - è accaduto che, nel tempo, le realtà comunitarie che hanno ritenuto di volersi “staccare” dal tronco originario nazionale recuperassero la prima denominazione di Rinnovamento carismatico cattolico. Ma non si tratta di due diversi Movimenti, piuttosto della stessa famiglia, di una madre e di altri figli oggi grandi, maturi, talvolta non sempre sinceramente liberi nel riconoscere la loro vera storia e scaturigine».Tra le critiche mosse negli anni al Movimento Carismatico quella di accentuare il carattere ispirato del cattolicesimo comunitario, facendo troppo leva sulle esperienze soprannaturali, sulle guarigioni, sui dialoghi in


società

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Intervista al presidente nazionale Salvatore Martinez

«L’errore della modernità: separare Cristo dall’uomo» colloquio con Salvatore Martinez di Francesco Rositano a sua non è stata «una caduta da cavallo sulla via di Damasco» com’ è accaduto a San Paolo, ma un dono coltivato fin da bambino. Salvatore Martinez, presidente nazionale di RnS, 42 anni, sposato, una e una laurea in Musicologia con un dottorato in storia della Chiesa, spiega il significato di questo Movimento: «Molti cristiani, di fatto, credono di credere, ma forse non hanno mai iniziato a avere una fede autentica. I sacramenti ricevuti sono come un pacco mai scartato; i carismi come crediti ottenuti e mai ritirati. La preghiera sembra essere l’S.O.S prima del naufragio e la Bibbia un libro da scaffale impolverato. Una fede morta, in cui anche la Chiesa tende a morire. La possibilità di esperimentare la bellezza, l’originalità, la potenza della fede cristiana è il grande impegno del Rinnovamento». Presidente, quando ha incontrato il Rinnovamento nello Spirito Santo? La mia esperienza di “vita nuova nello Spirito” – è questo il fine del nostro Movimento Ecclesiale – non è figlia di una “caduta da cavallo”, dal momento che la mia infanzia e la mia giovinezza sono state accompagnate da un’educazione cattolica, da una vita familiare e sociale sana e sobria, dalla partecipazione attiva alla vita della Chiesa, sin da ragazzino. Dove, allora la svolta? Stavo completando i miei studi universitari quando all’alba di una domenica di marzo, diretto a Milano, assistetti ad un incidente automobilistico in cui un giovane perdette la vita. L’indomani, appresi che aveva la mia stessa età e il mio stesso nome. Mi ricordai di una parola evangelica, pronunciata da Gesù: «Stolto, continui ad accumulare ricchezze: questa notte stessa ti sarà richiesta la vita e tu non sei pronto». Pensai che avevo già ricevuto tanto da Dio, ma non avevo ancora iniziato ad offrire la mia vita agli altri. Quel giorno la scelta fu fatta. Anno dopo anno la mia vita è stata come “ripulita” di tutto ciò che è superfluo, secondario rispetto a questa visione che ha fatto di Dio non una sorta di primus inter pares, ma l’alfa e l’omega, cioè il principio e il fine ispiratore di tutta la mia vita. Recentemente è stato nominato consultore del Pontificio Consiglio per i Laici. Come giudica questo nuovo incarico? Non è un premio, piuttosto una richiesta ulteriore di fedeltà alla Chiesa, di amore al Santo Padre, di collaborazione sincera e responsabile con la gerarchia. Il Concilio Vaticano II segnalò al mondo che era scoccata l’ora dei laici, in particolar modo di un laicato associato, aggregato intorno a nuovi carismi, ad un nuovo stile di vita evangelica. Pertanto, profonda gratitudine al Santo Padre per questa inaspettata e immeritata scelta; e disponibilità ancora più marcata a testimoniare la duplice indole – ecclesiale e secolare – che è nei laici. In un tempo in cui si vorrebbe reiterare “l’errore della modernità”, per dirla con Luigi Sturzo, cioè la separazione, la contrapposizione di Umanesimo e Cristianesimo, ritengo che sia sempre più decisivo lo sviluppo di una laicità positiva e propositiva, che ritessa il tessuto del nostro tempo

L

In alto un momento dell’ultima Convocazione RnS a Rimini. In basso a sinistra un momento della «preghiera carismatica». A lato Salvatore Martinez, presidente nazionale RnS lingue sconosciute. Ma il timore più grande, sorto anche all’interno della Chiesa cattolica, era il fatto che il Movimento carismatico si disperdesse in tanti rivoli, e manifestazioni particolari, con il rischio di perdere di vista la finalità più importante: quello di essere parte dell’unica grande missione della Chiesa.

E fu proprio per evitare una diffidenza all’interno della gerarchie del Vaticano che il Rinnovamento nello Spirito ha chiesto e ottenuto l’approvazione del proprio Statuto dalla Cei. La prima approvazione risale al 1996. Fu un fatto nuovo nella scena mondiale, perché mai prima di allora una Conferenza Nazionale Episcopale aveva approvato canonicamente a livello nazionale un’espressione del Rinnovamento. A distanza di 11 anni, nel 2007, si è proceduto ad una ricognizione dello Statuto, così che si potessero meglio fotografare le novità intercorse. Sull’importanza di mantenere un’unità con la Madre Chiesa, interviene ancora Martinez: «Un’approvazione, quindi, non è solo un atto di fiducia che segnala la bontà di un cammino di fede, quanto un mandato a vivere l’apostolicità della Chiesa in nome dell’unica Chiesa di cui si è parte. Si vive, forti di questa coscienza, l’impegno a fuggire da ogni forma di chiusura o di autoreferenzialità carismatica: non si esiste per se stessi, per la gioia dei propri aderenti, ma per “dilatare”i confini di un Regno di Dio sempre in costruzione e in espansione».

con nuova fiducia nel pensiero cristiano e nella forza di cambiamento e di progresso umano racchiusi nel Vangelo. Questo è l’impegno richiesto che spero di non deludere. Qual è il rapporto del Rinnovamento con la società e la politica? Non può esserci vero rinnovamento spirituale senza un rinnovamento sociale, altrimenti il cristianesimo sfuggirebbe alla legge dell’incarnazione e della prossimità umana, specie verso quanti soffrono ingiustizia o mancano di speranza. Questo nostro tempo continua a partorire folle di solitudini: la vita comunitaria è l’antidoto che proponiamo al mondo. C’è poi un egoismo sfrenato, un individualismo etico che partorisce crudeltà e ingiustizie: il noi, il pronome dello Spirito Santo, indica un modo nuovo di affrontare i problemi, di trovare soluzioni condivise, di aprirsi al dialogo. Un movimento è una pedagogia educativa: si impara l’arte di vivere, ogni giorno, in ogni ambiente, con ogni uomo. Questa “cura dell’uomo” è un dato crescente nella vita del RnS. Ciò avviene sia a livello personale: i nostri sostengono con il loro impegno le principali iniziative di Rete o di volontariato presenti nel nostro Paese (dai Forum, ai Consultori, alle Case di recupero e accoglienza, alle Associazioni di categoria); oppure creando nuove strutture sociali: un esempio per tutti è il Polo di eccellenza della solidarietà e della promozione umana “Mario e Luigi Sturzo”, una cittadella dedicata ai carcerati e alle loro famiglie nel fondo rurale storico dei venerati fratelli. Qual è il contributo del RnS nel favorire l’unità tra cattolici, protestanti ed ortodossi? «O sarà ecumenico o non sarà vero Rinnovamento». Lo scriveva il card. Suenens in uno dei documenti teologico-pastorali delle origini del Movimento. Già nella encliclica Ut unum sint il Papa Giovanni Paolo II aveva sottolineato il valore dell’ecumenismo spirituale, tema caro anche a Benedetto XVI che a Bari, in occasione della sua prima uscita “italiana”, per il Congresso Eucaristico Nazionale, volle riaffermarne il valore ecclesiale all’indirizzo del mondo ortodosso. Lo Spirito ci spinge a ricercare e ad enfatizzare ciò che ci unisce e non ciò che ci divide. Spesso i dialoghi istituzionali tra le Chiese e le Comunità cristiane procedono a rilento perché si accetta il riconoscimento dell’altro a partire da se stessi. L’esodo che lo Spirito ci chiede è di segno opposto. A questo esito provvede la preghiera comune, l’ascoltare in umiltà la parola di Dio che ci chiama a conversione, il promuovere gesti fraterni e concreti di pentimento e di riconciliazione. È questo l’ecumenismo spirituale, un bene dello Spirito che sta avanzando con esiti inattesi anche nei luoghi più aspri. Noi ne siamo testimoni. Siamo sfidati dalla secolarizzazione e da uno spirito di morte, satanico, che tende a frantumare le coscienze e le istituzioni. Per questo lo Spirito sta suscitando un forte sentimento di dialogo e di unità tra le tre tradizioni cristiane. Una via nuova, carismatica, nella quale i laici avranno un ruolo decisivo, che non mancherà di riservare sorprese.

Questo nostro tempo continua a partorire folle di solitudini: la vita comunitaria è l’antidoto che proponiamo al mondo


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speciale esteri

Occidente

Il leader di Ankara segue le orme di Putin, gli Stati Uniti e gli europei devono stare attenti

LA TRAPPOLA DI ERDOGAN di Michael Rubin i recente la Corte costituzionale turca ha bloccato una nuova legge che avrebbe consentito alla donne della Repubblica laica creata nel 1923 dall’occidentalizzante Mustafa Kemal Ataturk, di indossare il velo musulmano nelle università. Appare ormai certo che quest’estate la Corte si spingerà ancora oltre quando dovrà decidere su un caso di maggiore portata che coinvolge il partito di matrice islamica Giustizia e Sviluppo (Akp). Il primo ministro Recep Tayyip Erdogan e l’Akp sono accusati di violare «i principi di una Repubblica democratica e laica». Le sanzioni potrebbero andare da una sospensione dei finanziamenti pubblici al partito fino al suo scioglimento e alla sospensione della sua leadership dalla politica. Eventualità che sarebbe ben

D

trebbe assestare un colpo mortale alla democrazia in Turchia.

L’insofferenza di Erdogan nei confronti dello Stato di diritto e il suo attaccamento al potere lo fanno sembrare sempre meno un democratico, parte lesa, e sempre più un emulo del primo ministro russo Vladimir Putin, un uomo che oggi molti funzionari occidentali ritengono essere un dittatore. Potrebbe essere troppo tardi a Mosca, ma è già un déjà vu ad Ankara. Sia i diplomatici che i turchi avevano accolto con gran favore l’ascesa di Erdogan. Nel febbraio 2001 l’economia turca aveva subito un tracollo. In un sol giorno le quotazioni sui mercati azionari erano scese del 18%, la lira turca aveva perso un terzo del suo valore e il reddito pro capite era crollato. Corruzione e scandali avevano delegittimato i leader al potere. Le

Sullo scontro con la Corte costituzionale si gioca il futuro del premier turco accolta negli Stati Uniti. Perché Erdogan può, certo, aspirare ad essere un nuovo Putin, ma non dovrebbe avere né il sostegno americano né quello dell’Unione europea per le sue ambizioni. Alcuni ex-diplomatici americani sostengono che la Corte sia antidemocratica. «La neutralizzazione del partito sarebbe una grave battuta d’arresto per la democrazia», scrive Mark Parris, ex-ambasciatore americano in Turchia. Tuttavia un tale sentimento discolpa il reo e po-

promesse fatte da Erdogan per una ”nuova era” entusiasmarono non solo l’opinione pubblica turca – che vide una faccia nuova all’epoca non deturpata dalla corruzione – ma anche una vasta gamma di funzionari americani che videro in lui e nel suo partito una forza liberatrice e liberale che avrebbe potuto riconciliare l’Islam politico con la democrazia occidentale. Alle elezioni del novembre 2002, l’Akp ottenne il 32% dei voti, una vera e propria valanga di consensi considerati gli stan-

dard turchi, amplificata da un controllo politico senza precedenti in quanto, grazie alla legge elettorale turca, il partito di Erdogan si ritrovò ad avere quasi i due terzi dei parlamentari. Beneficiando del pacchetto di riforme del Fondo monetario internazionale negoziato dal suo predecessore e di un enorme afflusso di soldi provenienti dall’Arabia Saudita e dagli Emirati arabi, Erdogan ha visto il suo Paese registrare una crescita economica media di quasi il 7% l’anno. Lentamente il divario fra mito e realtà si è ampliato. Man mano che l’Akp si rafforzava sempre più dopo il primo successo parlamentare e quello successivo alle elezioni comunali, Erdogan ha fatto marcia indietro proprio nei confronti di quella democrazia che aveva opportunisticamente sposato. Ha istituito una sorta di procedura basata su interviste per assicurarsi della lealtà politica dei funzionari pubblici e, nel tentativo di impacchettare e mettere da parte la magistratura con tutti i suoi burocrati, ha cercato di costringere quasi la metà dei giudici al pensionamento anticipato. Quando i tribunali si sono pronunciati contro il governo per avere sequestrato illegalmente le proprietà dei propri oppositori, Erdogan si è rifiutato di onorare il verdetto.

La crisi si è acuita la scorsa estate. Piuttosto che continuare una lunga tradizione di ricerca di un candidato di consenso per la presidenza, una carica da sempre considerata al di sopra delle parti e della politica, Erdogan ha imposto il suo candidato scelto nelle fila del partito (l’imperturbabile islamista Abdullah Gul) nonostante le obiezioni sollevate dall’opposi-

A fianco, il premier turco Recep Tayyip Erdogan e, sopra, donne velate in una strada di Ankara

zione. Il disprezzo mostrato da Erdogan nei confronti dell’indipendenza della stampa non è da meno di quello del Cremlino. Ha citato in tribunale molti più giornalisti rispetto ai suoi predecessori e ha fatto affidamento sui proprietari dei mezzi di comunicazione per imbrigliare ed addomesticare editori e redattori. Coloro che non sottostavano ai suoi desiderata si trovavano ad affrontare conseguenze spiacevoli. Nell’aprile del 2007, il Saving Deposit Insurance Fund (Tmsf) turco - per il quale lavorano soltanto persone nominate da Erdogan – ha

assunto il controllo del quotidiano Sabah e della televisione Atv, fiori all’occhiello della seconda società di telecomunicazioni turca. All’inizio di quest’anno la proprietà è passata a un alleato di Erdogan dopo che il primo ministro era entrato in scena per costringere tutti gli altri concorrenti al ritiro ed


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Sarkozy sarà un giudice severo del cammino turco verso la Ue

Con l’Europa una partita a scacchi di Enrico Singer è una capitale che guarda a quanto sta avvenendo in questi giorni in Turchia con una lente molto particolare. Questa capitale è Parigi che, tra meno di un mese diventerà anche il centro politico dell’Europa perché, dal prossimo primo luglio, scatterà il semestre francese di presidenza della Ue. E Nicolas Sarkozy, tra i tanti problemi sul tavolo, si ritroverà anche quello del giudizio sui progessi - o sugli arretramenti - del governo di Recep Tayyip Erdogan sulla tormentata strada dell’adesione turca al club europeo. La pagella dovrà essere stilata in dicembre nel vertice dei capi di Stato e di governo dei Ventisette sulla base di un rapporto che gli esperti della Commissione stanno già preparando ed è già chiaro, dalle indiscrezioni che circolano nei palazzi dell’esecutivo europeo di Bruxelles, che nel documento ci saranno luci e ombre. Ma, come sempre accade in questi casi, il bicchiere può essere valutato mezzo pieno oppure mezzo vuoto. Molto dipenderà dall’arbitro di questo giudizio e Sarkozy, si sa, non è proprio un arbitro imparziale. Le sue riserve sull’apertura dell’Europa alla Turchia le aveva espresse anche nella campagna elettorale che lo ha portato un anno fa all’Eliseo. E da allora non sono cambiate. Certo, Sarkozy che pure ama essere sempre netto nelle sue posizioni - non è arrivato a dire che «la Turchia non può entrare nell’Unione europea per il semplice fatto che non fa parte dell’Europa», come ha detto l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Ma di sicuro guida la pattuglia di quanti, nella Ue, sono i più scettici sull’opportunità di agganciare la Turchia al treno europeo.

C’

aveva anche rimosso i governatori delle banche statali che si erano opposti al finanziamento della vendita, in quanto il prestito proposto violava i loro regolamenti interni ed i patti parasociali. L’Akp ha utilizzato la sua maggioranza assoluta in Parlamento per chiudere l’indagine che ne è derivata. Anche questo la dice lunga. Il suo gabinetto deve affrontare circa 30 indagini per fatti di corruzione e il premier più di una dozzina. E adesso, piuttosto che mostrare attenzione di fronte al vaglio della Corte costituzionale, Erdogan ha aumentato gli attacchi alle libertà civili. Persino il vicepresidente della Corte costituzionale ha affermato di essere vittima di un controllo del tutto illegale da parte della polizia. Una Turchia autocratica non è certo nell’interesse degli Stati Uniti e dell’Europa. A parole Erdogan esprime sostegno nei confronti dell’Europa, ma poi disprezza ed oltraggia le sue istituzioni, affermando ad esempio che soltanto i religiosi musulmani possono decidere in tema di di-

ritti umani in Turchia.

Piuttosto che colmare il divario fra Islam ed Occidente, egli lo ha ancor più ampliato incoraggiando le più virulente teorie cospirative anti-americane ed anti-semite. Secondo il Pew Global Attitudes Survey, la Turchia è oggi il paese in assoluto più anti-americano. Il successo elettorale non dovrebbe mai porre i politici al di sopra dello stato di diritto. Il fatto che Erdogan abbia ottenuto il 47% dei consensi alle ultime elezioni non fa altro che rendere le cose più allarmanti, ma non gli dovrebbe certo permettere di comprarsi una patente di immunità. Negli Stati Uniti e in Europa, la magistratura è garante della democrazia. Che lo sia anche in Turchia non fa altro che sottolineare la maturità della democrazia turca. Erdogan può pure aspirare ad essere Putin, ma non dovrebbe avere né il sostegno degli Stati Uniti né quello dell’Europa per le sue ambizioni. Resident scholar presso l’Aei

Con la Germania di Angela Merkel - che ha appena incontrato nel vertice franco-tedesco di lunedì e che è un’altra turcoscettica - Nicolas Sarkozy sa benissimo che il processo di adesione della Turchia alla Ue è, ormai, una decisione presa e ratificata ufficialmente due anni fa che Bush ieri ha di nuovo benedetto nel vertice con gli europei a Lubiana. Non è più in discussione, quindi, se accogliere Ankara tra le capitali della Ue, ma come e quando accoglierla. La partita a scacchi dell’Europa con Erdogan si gioca tutta qui: nella valutazione dell’adeguamento della vita politica, economica e sociale della Turchia agli standard dei Ventisette. Che può essere più o meno severa - ecco che ritorna alla storia del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto - ma che segue delle regole precise. È dal 1993, quando si cominciò a parlare di allargamento della Ue ai Paesi dell’Est dopo il

crollo dell’impero sovietico, che la Ue ha fissato in un vertice che si tenne a Copenaghen i ”criteri” indipensabili per l’ingresso di nuovi membri. Quelli che nel gergo bruxellese sono, appunto, chiamati i ”criteri di Copenaghen” prevedono tre capitoli fondamentali.

C’è un criterio politico che pretende istitutzioni stabili che garantiscano la democrazia, i diritti dell’uomo - compresa la libertà di religione - e il rispetto delle minoranze. C’è un criterio economico che richiede la piena applicazione delle leggi di mercato e di libera concorrenza. C’è, infine, il cosiddetto criterio dell’acquis comunitario: cioé l’accettazione da parte del Paese che vuole entrare nella Ue di tutte le regole che gli altri Paesi già hanno accettato. Quando, nell’ottobre del 2005, sono stati ufficialmente avviati i negoziati di adesione della Turchia, insomma, non è stata soltanto la Ue ad aprire le sue porte ad Ankara, ma anche il governo dell’islamico moderato Recep Tayyip Erdogan ha preso l’impegno di cambiare il suo Paese. E per questo cammino non è stata fissata una scadenza precisa, anche se tutti concordano nel dire che l’adesione formale non potrà avvenire, comunque, prima di dieci, quindici anni. Proprio la lentezza del processo è l’altro aspetto decisivo della partita a scacchi tra Europa e Turchia. Anche se il disegno di Erdogan è abbastanza chiaro l’attuale premier punta diventare presidente della Repubblica tra sei anni per conservare, addirittura, il potere fino al 2021 - a Bruxelles si ipotizzano ben altri scenari. In particolare ci si chiede se la Turchia che entrerà in Europa sarà ancora guidata dall’attuale premier. Molti - e tra questi anche Nicolas Sarkozy - scommettono, o almeno sperano, che a porre la firma sotto il protocollo di adesione sarà un leader ancora più aperto alle riforme e alla laicità dello Stato di quanto non lo sia Erdogan. Magari espressione di un governo che non sia egemonizzato dal solo partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) fondato e presieduto dello stesso Recep Tayipp Erdogan. Per questo a Parigi si seguono con particolare attenzione tutti i fermenti che si muovono nella società e nel mondo politico turco che possono, in prospettiva, portare a un’accelerazione del processo di democratizzazione. Perché se è vero che il pericolo più grosso di un eventuale stop della marcia verso l’Europa, è un ripiegamento in direzione islamista della Turchia, è anche vero che il dialogo possibile tra Islam e Occidente passa proprio da qui.


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speciale esteri

Occidente In alto il ponte che unisce Istanbul all’Europa e, sotto, Ali Babacan che ha sostituito l’attuale capo dell Stato Abdullah Gul, alla guida della diplomazia turca

Uomo forte di Erdogan, mediatore gradito all’Occidente e possibile successore in pectore

Ritratto di Ali Babacan l’uomo nuovo del Paese di Francesco Cannatà l cinquantatreenne e carismatico Tayyip Erdogan ha un delfino. Un successore che dovrà permettere all’astuto temporeggiatore, al sottile mediatore, all’abile interlocutore di esponenti occidentali e islamici, di realizzare le proprie ambizioni. Quando l’attuale capo dello Stato, Abdullah Gul, finirà il suo mandato, Erdogan intende infatti

I

prendere il posto dell’attuale primo ministro turco?

Il primo passo in questa direzione Babacan lo ha già fatto. La promozione è arrivata a 39 anni. Nell’agosto 2007 questo rampante politico del partito della giustizia e dello sviluppo, Akp, ministro dell’Economia fino alle elezioni del 27 luglio 2007, è diventato il nuovo re-

Il ministro degli Esteri incarna l’ala riformatrice dell’islamismo moderato diventare il prossimo presidente della Turchia. Per poter raggiungere questo obiettivo il primo ministro turco deve trovare qualcuno in grado di continuare il suo lavoro di buon governo. È chi più del giovane Ali Babacan, con le sue ottime relazioni con i media anglosassoni, la stima della borghesia imprenditoriale del Paese e la fiducia dei mercati, potrà

sponsabile della diplomazia di Ankara al posto di Abdullah Gul. L’ex capo della diplomazia di Ankara che aveva sostituito l’ultralaico Ahmet Sezer alla presidenza della repubblica. Il caos politico scoppiato per l’occasione, sintomatico dello scontro tra le due anime della Turchia, non ha impedito al nuovo ministro degli Esteri, giovane rappresentante dell’ala riforma-

trice dell’islamismo moderato, di continuare a mantenere il posto di negoziatore capo nelle trattative per l’ingresso del Paese anatolico nell’Unione europea. Sotto pressione da parte di militari e pubblica amministrazione secolarizzata dello Stato, il governo turco non deve solo fare attenzione al proprio elettorato religioso-conservatore. Anche la politica estera dell’esecutivo di Ankara si comprende meglio se si capisce il momento di transizione del Paese, innescato dal cambio dell’elite turca dovuto alle vittorie dell’Akp nelle ultime due elezioni politiche. Un percorso diplomatico obbligato a ondeggiare tra un chiaro ancoraggio al mondo degli Stati occidentali e i buoni rapporti, da non perdere, con gli islamisti. Hezbollah e Hamas compresi. Una strategia che, nonostante le ottime relazione con Israele volute da ambedue i Paesi, attira a volte su Ankara gli strali dello Stato ebraico. L’atteggiamento ecumenico della diplomazia anatolica è dovuto al fatto che, al di là delle convenienze economiche, la Turchia da tempo aspira a surrogare la mancanza di leadership delle nazioni ara-

be per assumere il ruolo di mediatore ineludibile nel conflitto israelo-palestinese. Ovvio allora, che il nuovo responsabile delle relazioni internazionali di Ankara, cerchi di farsi spazio dove può. In questo senso vanno viste le dichiarazioni spesso ultimative, fatte da Babacan nei confronti di Bruxelles. Recentemente il ministro degli Esteri ha preteso dall’Unione Europea una «scadenza-obiettivo», che fissi la data definitiva dell’ingresso del suo Paese dentro le strutture europee. Da parte sua il diplomatico non ha dubbi, entro il 2013 la Turchia avrà soddisfatto tutte le condizioni previste dalla Ue.

Nella partita a ping-pong che la Turchia sta giocando a livello globale è in ballo anche la stabilità regionale di Ankara. Babacan porta avanti la sua strategia con l’appoggio di Ezim Ekren. L’ex banchiere è la pedina fondamentale per aiutare il ministro a risolvere tutte le questioni tecniche. Ekren è infatti anche vice primo ministro incaricato del coordinamento economico. Un posto chiave per le controversie legate agli acquis comunitari.

L’azione di Babacan, guidata dalla realpolitik delle relazioni internazionali, non dimentica i problemi che il Paese deve risolvere nel cortile di casa. In un’intervista a un quotidiano tedesco il ministro, pur facendo attenzione a non delegittimare i militari, ha detto che la «fonte di stabilità della società turca proviene dalla democrazia». Sulla questione del velo, riportata in primo piano da una recentissima sentenza della Corte costituzionale sul divieto del copricapo per le studentesse universitarie, Babacan si mostra meno prudente. «Siamo uno Stato secolare, dove vale la supremazia della legge», ha dichiarato diverse volte il ministro ribadendo che il suo partito e il governo hanno su questo argomento una opinione molto chiara. «I cittadini devono essere liberi di scegliere come praticare i precetti della propria religione e, dunque, liberi anche di portare o meno il velo». Il dilemma di Babacan non è diverso da quello cui sembra prigioniera la Turchia. Ankara sarà in grado di restare ancorata alla civiltà europea, o rivolgerà il suo sguardo alla steppa anatolica dove l’Europa non gode di molta simpatia?


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Dietro la mediazione tra Damasco e Gerusalemme c’è l’offerta di rifornimenti idrici

Ankara, acqua in cambio di pace di Angelita La Spada tentativi della Turchia di portare Israele e Siria al tavolo negoziale dei colloqui di pace e il ruolo da essa ricoperto nel raggiungimento dell’accordo di Doha, che ha permesso l’elezione di Michel Suleiman a presidente della Repubblica libanese, hanno posto Ankara sotto i riflettori della comunità internazionale, guadagnandosi il titolo di alfiere delle questioni mediorientali. Ma qualche settimana fa il ministro degli Esteri turco, Ali Babacan, ha categoricamente smentito voci e illazioni che Ankara abbia offerto forniture di acqua alla Siria in cambio dell’avvio di negoziati indiretti di pace con Israele. E non solo. Il titolare del dicastero degli Esteri ha accusato i partiti d’opposizione di voler minare la reputazione dell’Akp – il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo al governo – diffondendo delle voci in merito ai tentativi di quest’ultimo di subornare la Siria offrendole risorse idriche in cambio del suo ritorno al tavolo negoziale con Israele.

A fianco la grande diga sul Tigri e, sotto, il presidente siriano Bashir el Assad

I

La stessa stampa israeliana ha riportato la notizia che, qualora i due Paesi riuscissero a siglare un accordo di pace, Damasco sarebbe disposta a permettere allo Stato ebraico l’uso di acqua dalle Alture del Golan, in cambio di forniture idriche turche. Rimbalzano altresì le congetture di un rilancio dei piani da parte di Ankara per la realizzazione di una “pipeline di pace”. Piani inizialmente discussi negli anni Novanta e riguardanti il trasporto di risorse idriche turche in Siria, Libano, Giordania, Israele e nei territori attualmente posti sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese. Poi, nel 2004, Turchia e Israele siglarono un accordo che prevedeva

l’importazione da parte dello Stato ebraico di 50 milioni di metri cubi di acqua l’anno, per la durata di 20 anni, per una cifra che oscillava tra gli 800 e i 1.000 milioni di dollari. Due anni dopo, la decisione dei due paesi di congelare l’applicazione dell’intesa e rinviarla a una futura data da destinarsi, non ultimo per un fattore economico più che strategico, giacché per Israele sarebbe stato più vantaggioso costruire un maggior numero di impianti di desalinizzazione. A prescindere dalla fondatezza o meno delle illazioni basate sulla logica del do

libri e riviste

a debolezza delle forze terrestri convenzionali rimane la fragilità strutturale della potenza militare Usa. I tagli portati dall’amministrazione Clinton e gli errori di quella di Bush jr. avrebbero ridotto la capacità americana di condurre conflitti a lungo termine. Queste le tesi del libro che ha ottenuto grande successo anche negli ambienti del Pentagono. Il termine long war è ormai usato comunemente per definire il conflitto iracheno. Perciò serve una forza armata di almeno 800mila uomini per sostenere anche gli altri impegni di Washington. Le missioni che vanno dagli interventi in Africa alla lotta al terrorismo e alle guerre in Iraq e Afghanistan chiedono più soldati. Anche il corpo dei Marines avrebbe bisogno di una profonda

L

riforma. Un esempio è la forza delle brigate, portata, con il progetto di esercito leggero, a 3.500 uomini e tornata, con l’esperienza sul campo, all’originario numero di 5mila. L’eccessivo utilizzo della poco addestrata Guardia nazionale è un’altro punto dolente. «That’s the war we are in» come ha affermato il segretario alla Difesa statunitense, Robert Gates e il rischio non è solo quello di sfasciare lo strumento militare, ma che gli Usa non vincano più le guerre «where they are in». Fredrick W. Kagan e Thomas Donnelly Ground Truth - AEI Press 161 pagine – 20 dollari

ut des, la Siria è impaziente di ricevere più acqua dalla Turchia, in particolar modo dall’Eufrate e dal Tigri che nascono in Anatolia, per poi attraversare Siria e Iraq.

Con un accordo siglato nel 1987, Ankara garantisce a Damasco un flusso d’acqua di 500 metri cubi al secondo, quantità oggi insufficiente per l’aumento dei dati demografici. La stampa turca ha annunciato che i tre paesi hanno deciso di creare un apposito istituto idrico che cerchi di venire incontro alle loro esigenze in materia di approvvigionamen-

ex vicesegretario di Stato, dal 1994 al 2001, fa un analisi di ciò che dovrà essere messo nell’agenda della Casa Bianca nei prossimi anni: l’emergenza ambientale. La «sporca dozzina», cioè i 12 paesi produttori di gas serra dovranno darsi una politica vincolante di riduzione delle emissioni dannose. I Big Three, Cina, India e Brasile rappresentano la massa di popolazione che produrrà più Co2 in futuro. Washington dovrà fare la sua parte perché i disastri ambientali provocati dal surriscaldamento del clima avranno conseguenze politiche sugli Stati. Strobe Talbott The Great Experiment: The Story of ancient empires, modern states and the quest for a global nation Simon&Schuster 496 pagine - 30 dollari

L’

ti idrici e i cui esperti dovranno presentare un rapporto congiunto al 5° Forum mondiale dell’acqua che si terrà a Istanbul nel marzo 2009. L’acqua, dunque, come bene strategico. In realtà, però, la Turchia sta fronteggiando una grave crisi idrica. I dati parlano chiaro. L’estate 2007 viene ricordata come la stagione più asciutta degli ultimi dieci anni; e alla fine dello scorso marzo i livelli delle riserve idriche che riforniscono Ankara e Istanbul erano alquanto bassi. A ciò si aggiungano le preoccupazioni in merito agli insufficienti livelli di acqua contenuti nelle dighe utilizzate per gli impianti idroelettrici del paese, che quest’estate determineranno un taglio nell’erogazione di elettricità. Allarmanti anche le voci di un previsto calo di produzione agricola: le stime rilevano che i raccolti 2008 siano di un buon 30-40 per cento più bassi rispetto all’annata precedente. Acqua come risorsa geo-strategica in Medio Oriente. Acqua che potrebbe evocare scenari di guerra. Ma soprattutto l’acqua può e deve essere un elemento di cooperazione e non di un casus belli.

algono le quotazioni di Jim Webb nella veep running, la corsa dei vicepresidenti alla Casa Bianca. Dietro le prime crepe del dream ticket con la signora Clinton, che starebbe perdendo la presa sul partito democratico, si muoverebbe il senatore della Virginia. Un uomo di Ronald Reagan, già segretario alla Marina militare. Così Obama continua a muoversi sfidando i repubblicani sul proprio terreno, specularmente a ciò che fa McCain. L’ennesimo tentativo dei democratici di togliere di dosso al candidato la nomea di poter essere un comandante in capo poco abile nella gestione dei conflitti sullo scenario globale. Philip Klein Webb auditions for Obama The American Spectator – May 2008

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a cura di Pierre Chiartano


pagina 18 • 11 giugno 2008

cultura

Spopola in Grecia il best seller «per persone intelligenti» ”Delitti pitagorici”, di Tèkfros Michailìdis

Il teorema dell’assassino di Adriana Dragoni n Grecia è un best seller. E non solo tra i matematici. Anche tra quelli che considerano una perdita di tempo leggere nei libri, gialli o non gialli che siano, soltanto i fatti altrui. Ed è un best seller anche perché, girata la voce che questo è un libro per persone intelligenti, tanti si affrettano a comprarselo se non a leggerlo. Comunque Delitti pitagorici del greco professore di matematica Tèkfros Michailìdis è veramente un libro interessante e stimolante. Parla anche di matematica, ma in un modo particolare, come non l’avresti mai pensato, e la rende un fatto concreto. E ti rende molto concreto anche l’ambiente, precisamente ricostruito, in cui il racconto si svolge. Poche pagine descrivono un episodio immaginato nella Grecia antica, o meglio nella Magna Grecia, quando, in quella sorta di college universitario che era la scuola di Pitagora, a Crotone, un allievo, Ippaso di Metaponto, appena laureato, si pone un quesito matematico, quello che fece andare in tilt la geometria pitagorica e che solo dopo duemila anni è stato risolto. Ma la maggior parte del racconto si svolge, in forma autobiografica, nella Parigi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, a un di presso quella della Belle Epoque. Quella tra la place Pigalle e il boulevard Saint Michel, quella che stupisce con la nuovissima Tour Eiffel, inaugurata nel centenario della Révolution (1889), quella dove il protagonista, un giovane ricco ateniese, va in landò con la sua bella, frequenta il teatro di Sarah Bernardt, l’Opera, il Moulin Rouge e il Moulin de la Galette, assiduamente frequentato da un uomo basso e bruttino, amatissimo dalle ballerine, come la famosa Jane Avril. Quest’uomo è Toulouse Lautrec.

quello risolto dall’ortolano che dispone in un certo modo le mele nelle cassette. Una matematica che rende reali e semplici anche alti problemi filosofici: infinito e finito, immobilità e movimento. E’ l’epoca, quella del libro, di Poincaré, Lobiacevskij e della nascita delle geometrie non euclidee. Non esiste una geometria migliore di un’altra, solo quella più utile: se per costruire una casa è più utile la geometria euclidea, per i viaggi spaziali è inadeguata e altre funzionano meglio.

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E a Parigi il giovane ateniese conosce poi il cinema, in una sala dove avviene la prima proiezione pubblica della storia, quella del film L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, confezionato da George Mélies, un bel tipo, ex prestigiatore, diventato regista di punta. Ma il giovane ateniese, oltre che bon vivant, è anche uno studente di matematica, capitato a Parigi appunto per seguire un convegno sulla materia. E allora giù conversazioni tra lui e i suoi amici su numeri e figure geometriche.

Pagina dopo pagina il lettore si imbatte in equazioni, calcoli e problemi filosofici sapientemente snocciolati, a partire da un quesito di geometria risolto solo duemila anni dopo i tempi di Pitagora E qui l’autore è straordinario e ci consente di vendicarci di tanti prof di matematica che si son creduti intelligenti e avrebbero voluto farci passar per deficienti. E non erano altro, chiarisce Michailìdis, che operai di una sorta di macchinario matematico, per il quale, come per una macchina Jaquardt, quella dei disegni tessili, date le premesse, son scontate le conseguenze. Bella forza! La matematica trattata nel libro, inve-

ce, è creatività, continua scoperta, intuizione. E può affascinare anche quelli di noi che l’hanno sempre aborrita e mai capita. Ci fa appassionare perfino. Perché fa capire d’un subito non solo gl’incommensurabili, che spiega benissimo (meglio di così non si può), ma finanche che cos’è il metodo di esaustione, su cui si basa il calcolo integrale. E roba simile. Una matematica realissima perché, ci spiega il libro, un problema di alta matematica è anche

La matematica, lo sappiamo, è legata all’arte della guerra, non per niente sia Cartesio che Désargues erano stati nell’esercito per professione. Lo ricorda il protagonista del libro, che combatte, nel 1912, la guerra dei greci contro i turchi. Ma ancora più interessante è quel rapporto tra la matematica e l’arte, che viene messo in luce nel racconto del protagonista che, a Parigi, frequenta pittori come Pablo Ruiz, che non è altro che Pablo Picasso prima che prenda il cognome di sua madre. E qui c’è la descrizione dell’appartamento di Picasso a place Goudeau, nella Maison du Trappeur, ovvero del cacciatore, più nota come Bateau Lavoir, il battello della lavandaia. E’ frequentato da tanti giovani e meno giovani artisti, dalla bella Fernande Olivier, da Max Jacob e da quel Guillaume Apollinaire, il poeta, noto squattrinato, che fa visita agli amici sempre all’ora di pranzo. Sì perché quella descritta nel libro è anche la Parigi bohémien dei poveri artisti. Ed è anche quella dei poveri operai, che lavorano dodici ore al giorno e bevono ratafià per consolarsi dei conti che a fine mese non tornano mai. Perché tutto è numero, come diceva Pitagora. Autòs èfa. Ipse dixit. D’accordo, Delitti pitagorici parla di matematica. Ma i delitti? Non vi preoccupate, ce n’è più d’uno e, come nei libri che si rispettano, c’è anche un finale a sorpresa.


musica

11 giugno 2008 • pagina 19

Il ”genio di Minneapolis” tra promesse (e smentite) di superconcerti aghi, gnomi e folletti non dovrebbero avere età. E invece anche per Prince Roger Nelson, il piccolo principe delle fiabe musicali, gli anni passano e sono già cinquanta (compiuti giusto sabato scorso, 7 giugno). Il genietto di Minneapolis vorrebbe festeggiarli alla sua maniera, con la grandeur che gli si confà: per esempio con un grande show all’Arena di Verona di cui in questi giorni si parla ma che per ora resta più sogno che realtà.

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I fan italiani attendono da quasi due anni, dopo la bufala mal digerita di quel concerto milanese prima annunciato, poi annullato e infine rimpiazzato da uno spettacolo blindatissimo e a inviti per il nuovo Teatro Versace. E sperano, contando sul fatto che al Principe la voglia di esibirsi in pubblico non manca. Ultimamente si concede persino ai festival rock, accuratamente evitati in passato: al Coachella californiano, recentemente, è apparso in gran forma e prodigo di omaggi, tra la beatlesiana Come Together e una Creep pescata dal catalogo dei Radiohead. In concerto cavalca spesso e volentieri i vecchi cavalli di battaglia, anche perché l’ultimo disco, Planet Earth, non ha fatto gridare al miracolo nonostante il ritorno all’ovile delle sue figliol prodighe, Sheila E., Wendy & Lisa. Se n’è parlato tanto comunque, perché il suo autore, che ne sa una più del diavolo, ancora una volta ha anticipato i tempi e spiazzato tutti: annusando l’aria che tira sul mercato discografico, ha pensato bene di regalarlo, il suo cd, prima agli spettatori dei suoi concerti e poi anche ai lettori del domenicale britannico Mail On Sunday. Polemiche a non finire: e la Sony, titolare dei diritti di pubblicazione sul mercato internazionale, si è sdegnosamente rifiutata di distribuirlo ai negozi inglesi. Poco male, anzi tutta pubblicità gratuita per Prince che, ridendo sotto i suoi baffetti appena accennati, ha incassato gratuitamente enorme visibilità mediatica. Più un anticipo sostanzioso, mezzo milione di sterline o forse più, dal Mail, che non tirava

Le manie di grandezza del ”piccolo Prince” di Alfredo Marziano Per Prince Roger Nelson, il piccolo principe delle fiabe musicali, gli anni passano e sono già cinquanta (compiuti sabato scorso, 7 giugno). Il genietto di Minneapolis vorrebbe festeggiarli con la grandeur che gli si confà: per esempio con un grande show all’Arena di Verona di cui in questi giorni si parla ma che per ora resta più sogno che realtà

Di recente ha accettato di esibirsi alla festa privata di compleanno di un facoltoso quarantenne della Florida in cambio di un cachet da 2 milioni di dollari tanto dai tempi della morte di Lady D. Ai soldi non dice mai di no, il signor Nelson: recentemente ha accettato di esibirsi alla festa privata di compleanno di un facoltoso quarantenne della Florida in cambio di un cachet da 2 milioni di dollari. E nemmeno alle donne: la sua ultima

passione (platonica) è Manuela Arcuri che ha voluto come protagonista del videoclip di Somewhere Here On Earth. E la musica? Ammettiamolo, l’alchimista della black music, inventore di stupefacenti intrugli di soul, funk, jazz e rock hendrixiano, non è più scoppiettante, rivoluzionario e provocatore come un tempo, anche se le esplicite allusioni erotiche dei suoi show continuano a scandalizzare l’America più puritana (è successo all’ultimo Superbowl). Ma è pur sempre un irregolare, un eccentrico, un vulcano di idee, uno che detta la linea e richiama le folle. Quando qualcuno lo dava già per bollito, s’è permesso una residency da record nella più grande arena coperta di Londra, la O2 che troneggia oggi sul Tamigi al posto dell’ef-

fimero Millennium Dome voluto da Tony Blair per celebrare l’avvento del 2000 e la sua Cool Britannia: 21 concerti 21 (e 21 Nights si intitola anche un suo libro di prossima pubblicazione) che lo hanno tenuto inchiodato nella capitale inglese da inizio agosto 2007 alla terza settimana di settembre andando esauriti in un batter d’occhio. Ha avuto ragione lui, in quel che poteva sembrare un ennesimo atto di presunzione, una scommessa vanesia e un po’ sventata. E ha indicato un’altra strada ai colleghi. Come quando, agli inizi degli anni ’90, si affrancò dalla schiavitù delle major discografiche («slave», schiavo, se l’era scritto pure sulla guancia) rivendicando il diritto di fare di testa sua e di sfuggire al personaggio pubblico che lo aveva ingabbiato, persino al nome d’arte con cui s’era fatto conoscere: diventò così «l’artista precedentemente conosciuto come Prince» (o T.A.F.K.A.P.), poi The Artist, infine solo il «simbolo dell’amore» che fonde i segni grafici distintivi del sesso maschile e femminile. E tutti a inseguirlo, a sopportare le sue bizze e le sue mattane. Pioniere nell’uso di Internet come strumento di libera espressione e canale di distribuzione della musica, ce l’ha a morte con chi attraverso la Rete «si appropria indebitamente della mia arte»: YouTube, eBay, persino i fan che amano scambiarsi online le sue canzoni, le sue foto e i suoi testi (un mezzo passo falso, prontamente corretto ben sapendo che quei fedelissimi sono la sua assicurazione per il futuro). Resta un signor Genio & Sregolatezza, uguale sputato al suo padre putativo Sly Stone.

Ma ultimamente sembra desiderare soprattutto classicità e tradizione, tra escursioni nel jazz e nel soul vintage di James Brown, di Al Green e della Motown, la storica etichetta di Detroit per cui ha pubblicato il penultimo 3121 (il numero civico del suo indirizzo di casa). Impossibile chiedergli ancora una 1999 e una Purple Rain, una Sign O’The Times e una The Cross, la sensualità voluttuosa di Kiss e la fresca immediatezza di Raspberry Beret, oggi che lo star system – Madonna in testa - insegue adorante altri guru della scena afroamerican, Timbaland, Will.i.a.m e Pharrell. Prince abbozza, e da incendiario si trasforma gradualmente anche lui in pompiere, ora che ha bisogno di più fiato per soffiare sulle candeline della torta.


pagina 20 • 11 giugno 2008

rivelazioni

In un libro Giorgia Taboga ricostruisce un’altra verità volontariamente tenuta nascosta per non offuscare il mito

Mozart? È morto di botte di Emilio Spedicato a storia è fatta dalla presentazione e dalla discussione di fatti. Questi possono essere realmente avvenuti o non essere veri, spesso per copertura di eventi reali che non è interessante divulgare, o per errori di comunicazione o per altri motivi. Uno degli aspetti affascinanti della ricerca storica è scoprire la verità, a volte banale ma a volte sorprendente, che si cela dietro la versione ufficiale. Chi scrive è un matematico che da un quarto di secolo dedica una parte crescente del proprio impegno intellettuale a problemi di natura storica, relativi non a tempi recenti, ma all’antichità biblica e dei tempi remoti. La natura di tali studi rende coscienti di come un approccio a questioni storiche, esterno all’accademia, possa portare a soluzioni di problemi compatibili con i dati (non dirò certe, non essendo la certezza una virtù della storia) che difficilmente verrebbero in mente a uno storico professionale che abbia avuto una full immersion nei libri e nelle pubblicazioni di colleghi viventi o precedenti, e che rischierebbe il posto sostenendo tesi in contraddizione con la verità dominante. Quanto affermato vale per le ricerche compiute dal collega matematico Giorgio Taboga e a un suo libro, le cui conclusioni hanno suscitato - già con la prima edizione, ma tanto più susciteranno con questa seconda di cui ci occupiamo qui - forti reazioni da parte dell’establishment culturale ed economico.

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Trattare di eventi recenti dove per recenti si intende anche di qualche secolo fa - è più difficile, e a volte più rischio-

so, che trattare di eventi lontani migliaia di anni, quindi onore a Taboga per il coraggio nell’affrontare un tema tanto controverso come quello della morte di Mozart, cosa che ha fatto in Mozart, una morte violenta (Archè, 2008). Restiamo in attesa che ci presenti un altro libro, centrato sulle relazioni di Mozart con il Kapellmeister di Bonn, e maestro di Beethoven, il veneto Andrea Luchesi, nonché sulle relazioni intercorse tra quest’ultimo e Joseph Haydn.

Fu un compagno massone geloso della moglie a colpirlo a bastonate. Con la benedizione della loggia...

L’incontro del sottoscritto con il lavoro di Taboga è avvenuto in modo del tutto casuale. Trovandomi in Germania e leggendo ogni giorno nella ben dotata biblioteca dell’Università di Wuerzburg i quotidiani italiani, notai un trafiletto che presentava la sua teoria sulla morte di Mozart. Rientrato in Italia cercai il libro che trovai convincente, sebbene troppo polemico nei confronti degli storici tradizionali. Contattai telefonicamente l’autore per complimentarmi e suggerirgli di cercare qualche discendente dei due medici che furono al capezzale di Mozart, ricordando come uno storico di Scarlatti, avuta l’idea di cercare tale nome sull’elenco telefonico di Madrid, avesse rintracciato, dopo circa 250 anni, dei discendenti ancora in possesso di documenti e di sonate inedite. Ebbi poi l’opportunità di in-

contrare Taboga in varie occasioni. Una di queste si presentò a Bergamo nel 2000, anno mondiale della matematica, dove Taboga venne per fare una presentazione di Andrea Luchesi - amico dei fratelli Riccati, gesuiti ai vertici della matematica italiana del Settecento - profondamente coinvolto nella creazione della Wiener Klassik e nelle vicende di Mozart, Haydn e Beethoven. Il libro di Taboga analizza le

Mozart nella sua raffigurazione più classica. In basso a sinistra, un documento autografo del musicista. Sotto, come appare in un altro ritratto. A destra, casa Mozart a Salisburgo. Nella seconda edizione del suo libro “Mozart, una morte violenta” appena pubblicata da Archè, Giorgio Taboga ha aggiunto nuovi tasselli alla sua investigazione, tra cui molti riguardanti il presunto cranio di Mozart, tenuto nascosto per quasi un secolo. Nella foto piccola, a destra, Antonio Salieri cause della morte di Mozart, escludendo, con considerazioni varie, che sia morto per malattia o per avvelenamento. Nota anche la falsità dell’affermazione che il suo funerale, che doveva essere assai solenne data la fama e la recente nomina a Kapellmeister, non si fece causa un’intensa nevicata: infatti dai giornali dell’epoca si legge che il tempo era buono anche nei giorni precedenti e successivi al funerale. Sostiene che il corpo non fu posto in una fossa comune in quanto il becchino lo seppellì a parte per rivendere dopo un anno il cranio a un patologo interessato. Con varie argomentazioni mostra che Mozart morì a causa della bastonatura infertagli, con il permesso della loggia massonica cui tutti e due appartenevano, da tale Hofdemel, la cui moglie il musicista aveva sedotto. La morte violenta venne tenuta celata anche grazie a una cospicua pensione che fu corrisposta, benché non ne avessero diritto, alla moglie e alla sorella di Mozart nonché

alla moglie di Hofdemel, che fu sfregiata dal marito cui fu imposto di suicidarsi.

Rispetto al precedente libro, in questa seconda edizione Taboga porta nuovo materiale emerso. Particolare rilevanza assume il presunto cranio di Mozart, tenuto nascosto per quasi un secolo e tornato alla luce fortunosamente. Il cranio ha caratteristiche compatibili con quelle di Mozart, che era nato con un piccolo difetto alla scatola cranica, e al momento della morte subiva ancora gli effetti di una caduta da cavallo. Incredibilmente non decisivo è stato invece il test del dna effettuato sul cranio, perché la tomba di famiglia ospitava anche defunti non imparentati con Mozart. Ma una risposta certa potrà venire da un’esistente ciocca di capelli del musicista, che il Mozarteum non ha ancora messo a disposizione. Importante inoltre sarà recuperare il registro e parte dei diari dei membri della loggia massonica cui appartenevano sia Mozart che il suo bastonatore Hof-


rivelazioni

demel, il quale ben difficilmente poteva agire di testa sua. Tali documenti si trovano ora, a quanto ci risulta, a Budapest e sarà impegno del sottoscritto, che ha con l’Ungheria contatti da tempo, fare il possibile per poterli visionare. Un libro, quello di Taboga, che è un affascinante lavoro di investigazione e di logica nel trattare i problemi e che suggerisce scenari ancora aperti. Inoltre rivaluta immensamente il ruolo dei grandi musicisti italiani del secondo Settecento, Luchesi e Sammartini in particolare, e l’influenza da loro esercitata sulla nascita della cosiddetta Wiener Klassik e nella formazione di Beethoven, il gigante della musica che, come abbiamo già accennato, per una decina di anni fu allievo di Luchesi. Il mistero della morte di Mozart perdura ormai da più di 200 anni senza che ricercatori e fondazioni deputate sentano l’obbligo di fare chiarezza. Una morte, alla luce del libro di Taboga, dalla spiegazione molto più prosaica e pragmatica di quelle ammanniteci dalla ricer-

11 giugno 2008 • pagina 21

ca «ufficiale», impegnata a mantenere un alone di mistero e indecifrabilità sulla persona e sul musicista Mozart.

D e n u nc ia v a H i l d e s h e i m e r nel 1979 che «anche la letteratura mozartiana che si sforza onestamente di non lasciarsi fuorviare, si regge su conclusioni che non solo occultano le proprie premesse ma presuppongono anche credibili e oggettive le testimonianze dei contemporanei, soprattutto poi le autotestimonianze. […] Si sono affidati tutti a un’immagine che risulta da consuetudine biografica, per così dire, da una tramandata routine. L’inquietante viene minimizzato […] all’imbarazzante viene data sbrigativa giustificazione: ne risulta così una figura a tutto tondo, tutti i lati ben smussati tanto nelle parti superiori quanto, soprattutto, in quelle inferiori, ben lisciata e azzimata, così che corrisponda a un vago ideale - idolo - apollineo che, naturalmente, recita male la sua parte». A distanza di quasi trent’anni, nulla sembra cam-

biato. Se non per questo libro che costituisce una severa critica alla visione agiografica che contraddistingue la maggior parte della ricerca mozartiana e fa luce su quello che ormai non è più un mistero: la morte violenta di Mozart.

Quale fu infatti la causa della morte di un uomo di 35 anni, fino a pochi giorni prima del decesso perfettamente sano? Perché morì? Chi furono le persone e le istituzioni coinvolte nella sparizione del cadavere, primo tassello per creare il «mi-

stero della morte di Mozart»? Perché Franz Hofdemel si suicidò il giorno successivo al decesso del musicista, dopo aver sfregiato la moglie? Che ruolo la massoneria, ebbero l’establishment absburgico, il barone van Swieten e Constanze Mozart nella vicenda? Perché un oscuro becchino conservò il cranio di Mozart, vanificando una strategia della sparizione sapientemente architettata? Perché la prova del dna operata sul presunto cranio conservato al Mozarteum di Salisburgo, in occasione del 250° anniversario della nascita del genio austriaco, s’è ridotta a una farsa? A questi e a molti altri quesiti Taboga fornisce risposte documentate e logiche, che si propongono di fare piazza pulita delle fantasiose elucubrazioni di oltre 200 anni di «ricerca istituzionale», tesa più ad alimentare il «mito Mozart» che a fornire spiegazioni accettabili sui molti aspetti oscuri della sua vita. Al veleno massonico, all’acqua tofana, alle impersonali epidemie e malattie endemiche, ecco sostituirsi l’impoetico bastone di un marito geloso, creditore e compagno di loggia del grande musicista. Il conseguente timore di uno scandalo, dai risvolti pesanti anche per la corte imperiale, dà origine alle false leggende e all’omertoso silenzio dei protagonisti, uniti nell’obiettivo di nascondere la cruda verità. Con questo libro l’autore pone le basi per una nuova ricerca che, partendo dalla vita di Mozart, indaghi i profondi legami tra politica e musica della seconda metà del XVIII secolo. Emergeranno così nuove scale di valori che renderanno giustizia a quella migrazione di intellettuali e artisti italiani, veri protagonisti della vita culturale europea del secolo dei lumi.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Ricette mediche online, innovazione o rischio caos? UNA PICCOLA GRANDE RIVOLUZIONE CHE EVITEREBBE DUPLICAZIONI DI INDAGINI

LE RICETTE ONLINE SONO UNA BUONA IDEA, MA NON CREDO UNA VIA COSÌ PRATICABILE

Nuovo progetto governativo per risparmiare sulla Sanità: prescrizioni mediche e cartelle cliniche on line. Si tratta indubbiamente di una grande e rivoluzionaria novità. Innovazione che, a regime, secondo i politici e i tecnici che stanno lavorando su questa ipotesi, porterebbe alla riduzione di circa il 10% della spesa farmaceutica. Perché però questa proposta, oltre che innovativa, sia anche proficua dovrà essere esaminata molto attentamente perché si tratta di mettere sul web dati personali altamente sensibili. Ecco perché pensare che si possa partire già dal 2009 sembra un po’ improbabile. Meglio partire un po’ più tardi ma meglio organizzati. I medici di famiglia si dichiarano favorevoli: «La novità permetterà risparmi, meno code ai centri di prenotazione, meno spostamenti, ma anche più vite salvate», dichiara Giacomo Melillo, Segretario Nazionale dei medici di famiglia. Indubbiamente avere sul web una informazione completa sul paziente è estremamente utile e permetterebbe di evitare duplicazioni di indagini con conseguente riduzione del costo della spesa sanitaria.

E’ troppo bello per essere vero. E infatti temo fortemente il caos. Intanto si tratterebbe di mettere online dei dati strettamente personali con conseguente pericolo di violazione della privacy del cittadino. Ma quand’anche si riuscisse a realizzare la protezione di detti dati, mi chiedo: ma con quali informazioni verrebbero elaborate le singole cartelle cliniche? Mi sembra che attualmente i medici di famiglia non siano in possesso di dati che permettano loro di assolvere a questo delicato compito. Lo so che dovrebbero esserne in possesso, ma il più delle volte il loro intervento si esaurisce nel prescrivere medicine in base a precise richieste dei pazienti. Comunque, ciò premesso, i medici di famiglia, attraverso il loro Segretario Nazionale, si sono dichiarati favorevoli. Secondo loro questo progetto governativo porterebbe a risparmio di tempo, per le indagini, e di denaro pubblico. Dunque si vada avanti e si studino meticolosamente tutti gli interventi da realizzare perché l’innovazione non produca caos.

Giuliano Lai - Nuoro

Filippo Giro - Sondrio

UN PROVVEDIMENTO CHE CREEREBBE CONFUSIONE, SOPRATTUTTO A CHI NON SA ANCORA USARE IL PC

LA DOMANDA DI DOMANI

Disastro Italia: voi chi schierereste contro la Romania? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Innovazione o caos? Senza dubbio confusione e rischi per la salute di molti. Gestire le ricette mediche attraverso il web credo siano una follia che porterà solamente a un caos ingestibile se non addirittura pericoloso. Che cosa succederà ad esempio a tutti quegli anziani che ancora oggi non sanno neanche cosa sia un computer? E’ vero, l’attuazione di questo provvedimento molto probabilmente permetterà notevoli risparmi, eviterà delle code estenuanti e scongiurerà la duplicazione di diverse indagini cliniche. Ma siamo proprio così sicuri che già a partire dal prossimo anno si possa iniziare a ”spostare” sul web una procedura così delicata come la prescrizione di ricette mediche? Mi auguro almeno che questa ”rivoluzione”si attui in modo dolce. Cordialità.

GUARDIA E LADRI La Lega nei sondaggi si avvicina al 10% (Svg) nonostante il governo Berlusconi abbia un buon consenso. Come mai più la Lega che Berlusconi e il Pdl raccoglie i frutti dell’aumento della fiducia?Non doveva accadere che la Lega avrebbe sofferto a causa dei successi di Berlusconi? Il Governo non ha ancora veramente fatto qualcosa di concreto, si tratta di annunci più che altro. Ma oramai chi non tifa perché diventino azioni concrete?Credo anche il mio amico pescivendolo ambulante di Caorle, dal cuore grande come una balena, che ha adottato una bambina cubana e ha la foto di Fidel nel portafoglio: sembra che finalmente si vogliano affrontare le questioni di fondo. Ma si sa, in tutti noi abbonda un certo distacco e scetticismo verso il “voler fare”, che non è “il fare” concretamente in Italia. A mio avviso il successo elettorale della Lega non deriva tanto da un suo merito, ma dal fatto che era un chiaro giudizio negativo verso Berlusconi. Chi al nord è un moderato e voleva dare un “voto utile”, ma di più

LA SIGNORA DEGLI ANELLI

E’ africana la donna con più piercing al mondo. Ha 43 anni, 5.920 ”buchi” sparsi per il corpo (per un totale di 3 chili di peso) e un posto certo nel libro del Guinness dei Primati. A chi le chiede il motivo di tale ”passione” risponde: «Semplice, mi piace il dolore»

L’EUROPA PROMUOVE IL MINISTRO TREMONTI Non diteglielo, potrebbero imbufalirsi. Forse a Prodi,Visco, Padoa Schioppa e Bersani è sfuggito che Giulio Tremonti è ora ministro dell’Economia, non si ricordano più chi sia Jean Claude Junker e hanno dimenticato pure che spetta a Junker promuovere o bocciare la politica economica nazionale. Una cosa è certa: l’Europa ha appena promosso il piano di Tremonti. Il pareggio di bilancio sarà raggiunto nel 2011. Che emozione.

Pierpaolo Vezzani

INTERCETTAZIONI E SINISTRA: IL SOLITO GIOCO DELLE TRE CARTE Esponenti di sinistra si ostinano a combattere il ddl contro le intercettazioni. Ho timore che, al solito, sia il gioco delle tre carte:

dai circoli liberal Gaia Miani - Roma

esprimere una insoddisfazione verso Berlusconi, non poteva che votare Lega. Per questo motivo Berlusconi ben si è guardato dall’accettare l’Udc: lo stesso “sfogo” meno concentrato ma più nazionale poteva avvenire in favore dell’Udc a prescindere dal merito. Troppo: mentre la Lega poteva essere ricondotta ad un fenomeno regionalistico, un 9-10% dell’Udc sarebbe stato mortale come leadership. Ricordo una dichiarazione dell’Udc, prima della formazione delle alleanze, che distingueva per il futuro tra leadership politica di coalizione e figura del primo ministro. Diversamente dalle previsioni l’Udc non ha raccolto il risultato sperato, il che ha significato, con l’annullamento della sinistra radicale, la sconfitta della strategia del “pareggio”. Questo perché votare Udc significava si sfiduciare Berlusconi, ma anche correre il rischio di far vincere la sinistra: puro masochismo. L’elettorato Udc è in buona parte nuovo e molto da sinistra: l’Udc si è salvato per il voto di chi non ha più voluto votare a sinistra ma era troppo votare Pdl. Questa volta. Il sondaggio favorevo-

se la maggioranza vuole il ddl, diciamo no per salvare la faccia, tanto la legge passerà lo stesso. Non si capirebbe infatti come mai, quando le intercettazioni hanno riguardano certi noti esponenti politici, sia successo... il finimondo! Magistrati trasferiti, braccio di ferro tra ministri e alti gradi della Finanza, presidenti di coop in difficoltà. Sembra che le intercettazioni riguardino il Pdl e Berlusconi, diciamolo francamente! Gli altri sono sfortunati, innocenti, estranei ai fatti o piccoli «mariuoli»! E’ come la mafia: o è Berlusconi o vicina a Berlusconi, il resto è delinquenza da accertare! E ancora si cercano i motivi della sconfitta elettorale? Siamo seri. Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)

le alla Lega evidenzia che per molti, se ora si affrontano i problemi, non è merito di Berlusconi, ma della Lega perche ne è, come percezione, il vigile con il manganello pronto all’uso, come a guardia e ladri. D’altra parte il tentativo su Rete 4 e la questione delle intercettazioni aiutano a pensar male in termini di “vizietti”. Probabile che Berlusconi porrà rimedio in futuro amplificando il rapporto con Veltroni come fonte delle soluzioni cruciali, per svilire la Lega, con la legittimazione propagandistica dell’emergenza. Tutto ciò dovrebbe far pensare gli attori della Costituente di Centro. Se si usano vecchi schemi e logiche non includenti, inconcludenti, e tentennamenti invece essere concreti, uniti, accoglienti e decisionisti, non si agisce adeguatamente al sentimento dei cittadini per una nuova e più efficace soluzione politica: sarà inevitabile l’idea della nascita solo di un nuovo intralcio al “fare” ed impossibile la prospettiva di una funzione storica. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Il racconto sarà una porcheria, ma forte e vera Amico mio, tu probabilmente hai ricevuto la mia ultima lettera. In essa ti scrivevo che il racconto non sarà finito a tempo. E ora te lo ripeto, Misa: io sono sottoposto a una tale tortura, sono così schiacciato dalle circostanze e mi trovo attualmente in una situazione così tormentosa che non sono in grado di rispondere nemmeno delle mie forze fisiche e della mia capacità di resistenza al lavoro. Il racconto cresce continuamente. Forse arriverà a cinque fogli a stampa, non lo so; e comunque, anche sforzandomi al massimo, è materialmente impossibile che lo finisca in tempo. E allora cosa fare? Si potrebbe pubblicarlo non finito? Impossibile. Non è possibile dividerlo in due parti. E, tra l’altro, non so nemmeno cosa ne verrà fuori: forse sarà una porcheria, ma io, per quanto mi riguarda, ripongo in esso grandi speranze. Sarà una cosa forte e sincera; sarà la verità. Farà sensazione. Questo lo so. E forse sarà una cosa molto buona. Fedor Dostoevskij a Michail Michajlovic Dostoevskij

DIVERSIVO DEL CALCIO E GRAVI PROBLEMI IRRISOLTI Durante le partite del campionato europeo di calcio, le strade sono pressoché deserte: posso godermi una biciclettata serena, quasi esente dal rischio d’essere investito da automezzi. Eventuali risultati sfavorevoli dei calciatori azzurri produrranno ben pochi danni: anziché distrarsi col gioco strapagato della pedata, l’Italia potrà concentrarsi, per rimediare ai più gravi mali e disfunzioni criminalità, sinistrosità stradale, statalismo economico, burocratismo, antimeritocrazia, scarsa efficienza della pubblica amministrazione ed eccessivo costo della casta partitocratica.

Gianfranco Nìbale

I POLITICI DOVREBBERO SBIRCIARE I SONDAGGI SUL WEB Si diffonde sempre di più l’uso di sondaggi online: siti di quotidiani ne fanno molto uso. Capisco che non siano il verbo, ma a volte, per i politici, potrebbe essere fonte d’informazione o quantomeno d’ispirazione per provvedimenti da prendere. Sulle intercettazioni, sulla prostituzione e sul pacchetto sicurezza, se fossi un politico, una sbirciata la darei: certo,

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

11 giugno 1509 Matrimonio di Enrico VIII d’Inghilterra e Caterina d’Aragona 1534 Jacques Cartier e il suo equipaggio celebrano la prima messa in Nord America di cui si abbia notizia 1775 Luigi XVI di Francia viene incoronato re di Francia 1788 L’esploratore russo Gerasim Izmailov raggiunge l’Alaska 1859 Muore Klemens von Metternich, diplomatico e statista austriaco 1974 Scompare Julius Evola, filosofo, saggista e pittore italiano 1984 Muore Enrico Berlinguer, politico italiano 1988 Scompare Giuseppe Saragat, politico italiano 2002 Il congresso degli Stati Uniti, con la risoluzione 269, ha riconosciuto ufficialmente il fiorentino Antonio Meucci come primo inventore del telefono (e non Alexander Graham Bell)

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,

dopo aver capito come va usato quell’oggetto, il pc, che lo Stato fa trovare gratuito sul tavolo dell’ufficio, anch’esso gratuito, al momento dell’insediamento. Le più importanti testate d’informazione sfornano quesiti su quesiti, ma non credo utili per l’intellighentia parlamentare! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

Federico Guerrieri - Teramo

DOV’È ANDATO A FINIRE L’ANTIBERLUSCONISMO? Come sembrano tristi ora le giornate, come sono cupe e senza sogni le notti e quant’è pesante il nostro cuore. Tutti sentiamo la mancanza delle lotte, delle faide e delle polemiche antiberlusconiane. Il giornalaio, il panettiere e il droghiere ce ne chiedono spesso notizie. Siamo stupiti del gran numero di amici e sodali che il premier Silvio Berlusconi si è conquistato in poco più di un mese. Anche Bruno Tabacci e Marco Follini pare abbiano capito le tante virtù, l’indole buona e la giusta ambizione del Cavaliere. Resta soltanto il dottor Tonino Di Pietro. L’antiberlusconismo? A lui!

Lettera firmata

PUNTURE Italia-Romania: e ora vedremo se saremo noi a cacciare i romeni o saranno i romeni a cacciare noi.

Giancristiano Desiderio

Un’impossibilità verosimile è sempre, sempre preferibile a una possibilità che non convince ARISTOTELE

Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di IL BUE ANTONIO E IL RISPARMIO TRADITO Vorrei presentarvi mio cugino Antonio. Tra il ‘97 e il 2000 prese i suoi risparmi, qualche decina di milioni di lire, e si mise a comprare azioni. O, più precisamente, si mise a “giocare in borsa”. Il cugino Antonio sapeva di non poter battere il mercato, di non saper leggere un bilancio meglio di un analista e che il prezzo dei titoli avrebbe rispecchiato l’andamento delle aziende. Non aveva speranza di guadagnare in fretta. Così si fece un “giardinetto” di grandi nomi: Mediobanca, Rcs, Gemina, Fiat, Montedison, Bipop, Cirio e ovviamente tutta la galassia Telecom. Punto in comune di questi titoli era che il loro valore a Piazza Affari dipendeva da valutazioni “non economiche”, come i rapporti di potere nell’establishment nazionale e l’interferenza della politica sulla gestione e la proprietà. Solo così poteva far meglio dei professionisti, anzi puntava a guadagnare proprio dal fatto che il mercato si sarebbe ostinato a decidere razionalmente, punendo e premiando i risultati aziendali e le strategie dei manager, mentre lui avrebbe comprato secondo alcuni “postulati” non violabili. Mediobanca? Troppo decisiva per deprezzarsi, tutti quelli che contano hanno partecipazioni e interessi a Piazzetta Cuccia. Gemina, Hdp e Rcs? Cosa importa se il gruppo editoriale ha una redditività ridicola e la lunga fila di scatole cinesi distrugge valore, la verità è che in quel salotto si entra solo sgomitando e ogni volta che succede il titolo sale. Fiat? Troppo grande e troppo importante per fallire, la salveranno sempre e comunque, quindi peggio va e più probabi-

lità si creano di guadagnare speculando. Bipop? I nuovi capitalisti, la razza padana, ne hanno fatto la loro roccaforte, presto sfiderà le primissime banche della nazione. Cirio? I conti sono uno sfacelo, ma Cragnotti ha troppi agganci a Roma, dalle banche ai politici, perché lo lascino in mezzo ad una strada. Montedison? I poteri forti si stanno scannando sui resti dei Ferruzzi, ogni colpo di scena arricchisce gli azionisti. Telecom? Il destino di quell’azienda lo decide il governo e poi, non c’è limite ai soldi che si possono spremere da una società che riscuote la bolletta ogni due mesi da 40 milioni d’italiani. Il cugino Antonio ha perso parecchi soldi. Molte delle sue convinzioni erano esatte, ma da qui a trasformarle in moneta sonante ce ne passa. È un po’ come se uno scommettitore fosse sicuro, in quanto esperto di calcio, di indovinare in che minuto una certa squadra segnerà. Di giocatori come lui ce ne sono tanti anche al giorno d’oggi. Prendete Alitalia, i suoi movimenti giornalieri sono causati esclusivamente da questo tipo d’investitore. La Consob ormai sulla compagnia di bandiera ha alzato le mani: la società da tre anni è nella “lista nera” di chi può fallire da un momento all’altro e più volte l’Autorità ha sottolineato come le fluttuazioni del titolo non rispondano a nessuna logica economica e non sono coerenti con il flusso di notizie sulla società. A questo punto Cardia non ritiene, a ragione, di dover proteggere ulteriormente i vari “cugini Antonio” sparsi per l’Italia con i loro account di trading on line e i loro book a cinque livelli.

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PAGINAVENTIQUATTRO Le strane idee Mustafa Ceric Il Gran Mufti Mustafa Ceric con il presidente della Commissione europea Manuel Barroso. L’idea dell’esponente musulmano è quella di legalizzare la legge islamica in Europa. Il rischio di una proposta simile è la creazione di società separate ed enclavi radicali nel cuore del Vecchio Continente

Il Gran Mufti che vuole l’imam di Roberto de Mattei n “Imam europeo” e un nuovo “contratto sociale” per i musulmani del nostro continente? È questa la proposta lanciata dal Gran Mufti Mustafa Ceric, dalle pagine di un’autorevole rivista internazionale, per garantire una pacifica convivenza della popolazione musulmana sul continente europeo (The Challenge of a single Muslim authorithy in Europe, European View, 6,1 (December 2007), pp. 41-48). Mufti è il titolo che nell’Islam sunnita si applica a chi ha l’autorità di interpretare la la legge islamica. Mustafa Ceric, oltre ad essere il Gran Mufti della Bosnia-Erzegovina, dove è nato, a Visiko, nel 1952, è uno dei 138 firmatari della lettera ”A Common Word Between Us and You” del 13 ottobre 2007, scritta in risposta al discorso di Regensburg di Benedetto XVI del 12 settembre 2006, ed è considerato un musulmano colto e“moderato”, fautore del dialogo e della collaborazione con i cristiani.

U

Il Gran Mufti bosniaco appoggia la sua proposta su tre cardini tradizionali dell’islamismo: i concetti di aqidaha, di sharia e di imamah. Il primo termine si riferisce alla dottrina islamica, compendiata da queste parole: «Confesso che non c’è altro Dio al di fuori di Allah e che Maometto è il suo profeta». Il secondo cardine teologico è la sharia, la legge islamica, che riassume il patto dei musulmani con Dio, analogo a quello stipulato da Mosé e da Gesù per l’Ebraismo e il Cristianesimo. Il terzo concetto, l’Imam (imamah), titolo spesso intercambiabile con quello di califfo ( khalifa), è più immanente che trascendente, perché si riferisce ad una autorità umana, che agisce sulla base della fede divina, rappresentando la comunità raccolta nella moschea. La questione dell’ “Imamato”, come ‘suprema ‘leadership’ islamica, è divenuta, secondo Ceric la questione centrale dell’attuale mondo musulmano, dal centro alla sua periferia, inclusa l’Europa. Per il Gran Mufti, l’Europa non la casa dell’Islam, e neppure la casa della guerra. L’Europa è la casa del contratto sociale. Ma il contratto sociale islamico, coincide con la sharia, il patto con Allah, “non negoziabile”, perché deriva da un Dio infinito e non ha termine nel futuro. La proposta di un “contratto sociale” islamico si accompagna a quella di creare un Imam che rappresenti tutti i musulmani di Europa e che possa negoziare il contratto con le autorità politiche europee. In Europa vivono circa 30 mi-

EUROPÉO EUROPEO

lioni di musulmani, divisi in tre grandi gruppi: indigeni, immigrati e nativi. Indigeni sono i musulmani che hanno radici remote in Europa, come quelli di Bosnia, Albania, Kosovo, Macedonia, Bulgaria e così via. Immigrati sono coloro che dopo essere emigrati come studenti o come lavoratori, si sono stabiliti in modo permanente negli Stati dell’Unione. Nativi sono infine i figli di emigrati musulmani, ma anche quegli europei che si sono recentemente convertiti all’Islam. Tutti questi gruppi hanno in comune la legge del Corano, anche se differiscono in quanto ad esperienze e ad aspettative. Secondo Ceric, gli indigeni difendono la loro continuità religiosa e culturale; gli emigranti vogliono superare lo “status” di

Mufti bosniaco può sembrare ragionevole, se si considera che uno dei problemi che ha oggi l’Europa è proprio la mancanza di un interlocutore ufficiale islamico. La Chiesa ha una sua gerarchia, e una sua autorità, l’Islam, per sua natura, ne è privo.

Il problema è che l’Imam, o Califfo, non costituisce solo un’autorità religiosa, ma anche un’autorità politica, perché l’Islam assorbe, come è noto, la politica nella religione. Lo slogan “Il Corano è la nostra costituzione” esprime l’intima unione tra politica e religione, in opposizione alla sentenza del Vangelo “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. L’Imam non si limita ad essere la voce di una fede religiosa, perché ciò presupporrebbe la accettazione della distinzione occidentale tra Chiesa e Stato. L’Imam è anche il rappresentante politico della comunità che vive secondo la legge islamica. Ma questa legge si accorda con la democrazia? Il diritto familiare islamico è compatibile, ad esempio, con quello europeo? Non si capisce perché i musulmani, in quanto cittadini, debbano essere rappresentati da un Imam e non dalle istituzioni democratiche europee, organizzate attorno a regole e procedure condivise da tutti gli Stati dell’Unione. L’Islam europeo avrebbe una rappresentanza caratterizzata da una specificità politica e culturale diversa, se non opposta, agli standard democratici vigenti. Negli ultimi due secoli l’Europa ha conosciuto un processo di laicizzazione che ha spogliato la Chiesa cattolica e le altre chiese di ogni rapporto diretto con il potere. Ma mentre l’Europa ha reciso ogni forma di legame istituzionale tra Chiesa e Stato, Mustafa Ceric vorrebbe riconfessionalizzarla, in nome di una tradizione e di una cultura ben diversa da quella occidentale. Il pericolo è evidente: istituzionalizzare l’Islam significa creare nell’Europa secolarizzata “ghetti”.

Il religioso bosniaco, che propone un imamato per i musulmani europei, vorrebbe la legalizzazione della legge coranica nel nostro continente. «La nostra costituzione, ama ripetere, è il Corano» stranieri; i nativi e i convertiti all’Islam vogliono preservare la loro identità: in tutti i casi essi si richiamano all’Islam. Il Gran Mufti non rivendica per loro gli stessi diritti degli europei. Egli chiede invece di «istituzionalizzare la presenza sia dell’Islam come religione universale che dei musulmani come cittadini globali». L’Imam dovrebbe rappresentare la voce dei musulmani, sotto i due aspetti, di credenti nell’Islam e cittadini di Europa. La creazione di un “Imamato”, inteso come un’autorità politica e religiosa al tempo stesso, che rappresenti l’insieme della comunità musulmana, è considerata da Ceric come un’occasione da non perdere al fine di legalizzare la sharia in Europa, superando le attuali divisioni interne, soprattutto tra sunniti e sciiti. Il discorso del Gram


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