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Il pasticcio di Frattini e Mantica sul “no“ a Pechino
he di c a n o r c
Olimpiadi, per dieci minuti il governo ci ha fatto sperare
di Ferdinando Adornato
I GIORNI DIFFICILI DI TREMONTI
Conti sbagliati (e prestiti vietati)
di Andrea Mancia er qualche minuto ci avevamo creduto. Ma il wishful thinking è durato poco.Troppo poco. Ieri mattina il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica, aveva lanciato la “bomba”. Rispondendo ad una interrogazione di Matteo Mecacci (deputato radicale eletto nelle liste del Pd), che chiedeva al governo di chiarire la sua posizione sulla partecipazione - o meno - alla cerimonia d’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino, Mantica aveva spiegato che la partecipazione delle autorità italiane non era stata ancora decisa, «ma al momento non vede favorevole il governo italiano». Apriti cielo. Dopo le minacce, neppure troppo velate, di Nicholas Sarkozy e Angela Merkel, dopo la sollevazione dell’opinione pubblica occidentale contro la repressione in Tibet, dopo le dure prese di posizione del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e della maggior parte degli Stati che appartenevano al Patto di Varsavia (Estonia, Polonia e Repubblica Ceca in testa), finalmente anche il governo italiano decideva di usare le maniere forti - si fa per dire - contro Pechino? Troppo bello per essere vero. Infatti, sono passati solo pochi minuti prima che il ministro degli Esteri in persona derubricasse la “bomba”di Mantica a “petardo” da strada.
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Bankitalia annuncia l’aumento del debito. L’aiuto di Stato ad Alitalia diventa un incidente con l’Europa. Intanto il ministro fa come Visco: copre la trasparenza sul bilancio
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Intervista al generale Mario Arpino
«Italia, non essere timida sull’Iran»
GIOVEDÌ 12
Ma Veltroni esorcizza la scissione
Prodiani pronti a sbattere la porta del Pd
Altre sei morti bianche in Sicilia
Lavoro: stragi e retorica
di Luisa Arezzo
di Marco Palombi
di Riccardo Paradisi
George W. Bush, partito poco dopo le 14 da Berlino per Roma con l’Air Force One, è arrivato ieri a Ciampino alle 16:10. Imponenti le misure di sicurezza messe a punto dalle forze di polizia e gli 007 americani.
A Napoli per una riunione coi parlamentari del Pse, Veltroni esorcizza la possibilità che il Pd inizi a perdere pezzi. Eppure i democratici restano un albero dai molti rami ma dalle radici debolissime.
Sei operai che lavoravano nel depuratore consortile di Mineo, a 35 km da Catania, sono morti mentre stavano pulendo una vasca del depuratore. A ucciderli, le esalazioni tossiche sprigionate dalla vasca.
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GIUGNO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
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WWW.LIBERAL.IT
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IN REDAZIONE ALLE ORE
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i giorni difficili di
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A marzo i conti dello Stato registrano un passivo record. Che è cresciuto di 50 miliardi dall’inizio dell’anno
Il debito sale, l’Italia scricchiola di Gianfranco Polillo ue notizie: cattiva la prima, buona la seconda. Quella più amara è data dall’andamento del debito. I dati, appena pubblicati dalla Banca d’Italia, mostrano un incremento record: quasi 23 miliardi di euro, il più alto negli ultimi due anni. Che sommato a quello maturato nei due mesi precedenti fa un totale di oltre 50 miliardi e che porta il debito complessivo alla fantastica cifra di 1.646,7 miliardi di euro. Qualcosa come 28 mila euro a testa: compresi i neonati. Ma non è soltanto questa l’unica conseguenza. Perché sul nuovo debito, maturato in questi tre mesi, occorrerà pagare nuovi interessi per una cifra – prudenziale – di quasi 2 miliardi. Oltre i 76 pagati l’anno precedente. In tre mesi ci siamo quasi interamente giocato l’incremento contabilizzato a marzo nella Relazione di cassa. Su base annua, il
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mento così forte del debito italiano? Le ragioni sono diverse. Cominciamo dalla base di partenza: il dato del dicembre 2007. In quel mese il debito è sceso di circa 29 miliardi di euro. Un miracolo di Tommaso Padoa-Schioppa? Più semplicemente una furba operazione per dimostrare che il debito scendeva. Per ottenere questi risultati, sono state fortemente ridotte – come annota diligentemente l’ultimo Bollettino economico della Banca d’Italia – le «attività detenute dal Tesoro» presso la Banca stessa: per un valore pari a 13,1 miliardi di euro. Una specie di partita di giro che ha dato smalto al bilancio di fine anno, ma che non ha certo risolto il problema.Ecco quindi, ma parzialmente, spiegato il balzo dei tre mesi successivi. Senza quella trovata, l’incremento sarebbe stato di poco superiore alla metà. Il secondo motivo sta nel cosiddetto fly to quality. Nei momenti di turbolenza finanziaria i sottoscrittori di titoli chiedono ai paesi indebitati un maggior premio per il rischio implicito nei loro investimenti. È quanto si è verificato durante la crisi dei subprime, cui aggiungere il peso degli swap. Dei qua-
Bankitalia annuncia uno stock pari a 1.646,7 miliardi di euro, dovuto a mancati tagli alla macchina pubblica, poste finanziarie allocate in modo sbagliato e tensione sui titoli di Stato. Contraccolpi se la Bce alzerà a luglio i tassi maggior salasso previsto era di circa 2,5 miliardi. Cifra oggi irrealistica. Lo è ancor di più se si considerano i propositi della Bce, decisa ad aumentare a luglio dello 0,25 per cento i tassi di interesse. Misura prudenziale – viene detto – per contrastare il fenomeno inflazionistico, che turba i sonni dei banchieri centrali. Ma non tutti sono d’accordo. Contesta la tesi Nicolas Sarkozy. La Francia non cresce abbastanza e l’Eliseo ne attribuisce, in parte, la colpa all’Eurotower, che fa poco per contrastare la discesa del dollaro. Se i tassi di interesse diminuissero – questo è il ragionamento – l’euro si indebolirebbe e l’export francese riprenderebbe fiato sui mercati internazionali.
Più cauta la posizione di Giulio Tremonti, che si limita a osservare come non esista un problema di inflazione generalizzata, le cui cause potrebbero essere determinate da un eccesso di domanda interna. Si assiste invece a una variazione dei prezzi relativi.Vi sono, in altri termini, alcuni prezzi – energia, alimentari e materie prime – che aumentano. Altri – produzione industriale in genere – che rimangono stabili. Altri ancora – l’Ict – che diminuiscono. In una realtà così variegata non ha senso strozzare la domanda. Occorre invece potenziare l’offerta nei settori in cui si manifestano le più forti tensioni. Quindi inutile inasprire la politica monetaria. Aumenterebbe solo il peso del debito, senza risolvere alcunché dei problemi strutturali dell’Europa. Questi i temi. Ma come si spiega un au-
li, tuttavia, non si conosce l’esatto ammontare. L’unica cosa certa è che le perdite relative hanno pesato almeno per 600 milioni di euro: una cifra troppo modesta rispetto a quanto abbiamo riportato. Vedremo – ne sa qualcosa il neosindaco Gianni Alemanno alle prese con lo stesso problema per il comune di Roma – in futuro quanto ne sarà l’importo effettivo.
cresciute del 7,3 per cento. In valore assoluto lo Stato ha incassato circa 8 miliardi in più, rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente, quando le entrate erano già migliorate (6 mi-
Positiva invece la dinamica delle entrate fiscali: nei primi mesi del 2008, in termini di cassa, sono aumentate del 7,3 per cento del Pil per un totale di 8 miliardi in più. Utili per ammortizzare il peso degli interessi passivi
Fin qui le cattive notizie. Quelle buone riguardano, invece, la dinamica delle entrate tributarie ancora in crescita, nonostante la crisi congiunturale e la bassa crescita del Pil. Nei primi quattro mesi dell’anno, in termini di cassa, sono
In alto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Come molti suoi colleghi europei – Francia in testa – reputa sbagliato un inasprimento della politica monetaria annunciato dalla Bce. In basso, da sinistra, il segretario dell’Ugl, Renata Polverini, quello della Cisl, Raffaele Bonanni, quello della Uil, Luigi Angeletti, e quello della Cgil, Guglielmo Epifani
liardi e mezzo) nei confronti del 2005. Insomma il cittadino italiano, nonostante le prediche contro l’evasione, continua a fare il suo dovere, sconfessando ogni cassandra. Ma soprattutto le deboli previsioni dell’ultima Relazione di cassa che aveva previsto un incremento del 2,4 per cento. Pari ad appena un terzo lo sforzo finora prodotto. Speriamo, solo, che tutto questo continui. Sul debito, almeno nel breve periodo, il governo è impotente. Le variabili che lo governano sono legate alla situazione internazionale e all’erraticità dei mercati. Le maggiori entrate fiscali consentono, almeno, di ammortizzare il peso dei maggiori interessi. Non è molto. Ma a volte, purtroppo, bisogna accontentarsi di poco.
Tredici sigle, la babele del pubblico impiego di Vincenzo Bacarani
ROMA . Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confsal, Cisal, Usal, Cida, Confedir, Confedirstat, Cse, Cgu e Cosmed. Tredici sigle sindacali del pubblico impiego ieri mattina erano presenti all’incontro con il ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, con due o tre rappresentanti ciascuna: in tutto circa 30 persone autorizzate a sedere al tavolone della trattativa. Una riunione sindacale oceanica che la dice lunga sulla situazione del lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Un argomento che interessa oltre tre milioni e mezzo di lavoratori frammentati tra diverse categorie di pari dignità ma di diversa impostazione sindacale: confederali, autonomi, semi-autonomi, superautonomi. E poi ci sono le amministrazioni centrali che hanno le loro esigenze, quelle periferiche che ne hanno altre e poi quelle della scuola, della sanità, delle varie strutture pubbliche. Un ginepraio in cui è difficile districarsi. Nei prossimi giorni, forse entro fine giugno, l’Aran, l’agenzia per la rappresentanza negoziale delle Pubbliche amministrazioni, potrebbe procedere a un’operazione di “pulizia”escludendo quelle organizzazioni sindacali che – dati alla mano – non hanno i numeri per poter rappresentare i lavoratori. Una sfoltimento che viene reclamato da anni da diverse parti, ma che non mancherà di suscitare polemiche e ricorsi ai Tar. Si vedrà. Nel frattempo la trattativa va avanti con moderati segni di ottimismo. «Brunetta è il primo ministro che dice le cose
che io vado dicendo da anni». Il segretario della Cisl-Fps (Funzione pubblica), Rino Tarelli, scopre un’identità di vedute con Renato Brunetta.
L’incontro di ieri tra ministro e sindacati è servito quantomeno a chiarire alcuni punti fondamentali. «Non c’è una sola amministrazione pubblica», dice il leader Cisl, «ma ci sono tante realtà, tante amministrazioni pubbliche che hanno diverse esigenze e questo il ministro Brunetta l’ha detto in maniera chiara, finalmente». La questione principale, secondo la Cisl, è il completamento del discorso della privatizzazione del settore. «È uno snodo fondamentale», prosegue Tarelli, «sul quale la
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tremonti
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Per l’economista è ormai indispensabile «un alleggerimento della spesa»
Vaciago: «Troppi soldi per pensioni e sanità» colloquio con Giacomo Vaciago di Francesco Pacifico
Cisl da anni è d’accordo». Tutto rose e fiori allora l’incontro con Brunetta che vuol fare la guerra ai “fannulloni”? Neanche a pensarci. I segretari di categoria di Cgil, Cisl e Uil ieri hanno trascorso tutto il pomeriggio a discutere, a confrontarsi per presentare alla controparte una relazione che entro oggi dovrebbe arrivare sulla scrivania del ministro della Funzione Pubblica. «Il tema è complesso», mette le mani avanti, il segretario confederale della Uil Paolo Pirani, «Prendiamo la questione del licenziamento». Siete contrari a prescindere? «No, ma occorre stare attenti. Secondo l’impostazione data dal ministro se un dipendente viene licenziato perché sottoposto a procedimento giudiziario non verrebbe riassunto automaticamente se la sentenza lo dovesse scagionare. Per noi questo non va bene, è anticostituzionale». Per il resto? «Stiamo ultimando le controproposte che invieremo a Brunetta». Anche gli autonomi sembrano ben disposti. «Siamo d’accordo sugli obiettivi di maggiore qualità della pubblica amministrazione», dice Federle Ricciato della Confsal, «e sulla promozione professionale e retributiva. Diciamo che si sta declinando in modo positivo la cultura del merito. Siamo anche molto attenti alla parte dell’attuazione delle norme e vogliamo verificare quali sono i percorsi normativi, legislativi o negoziali». Intanto il ministro Brunetta ha confermato che «i rinnovi contrattuali relativi al biennio 2008-2009 vanno onorati». Bisognerà vedere ora se gli aumenti decisi lo scorso anno con il ministro del governo Prodi, Luigi Nicolais, hanno la copertura finanziaria. A ogni modo Brunetta, forse anche per nascondere sotto al tappeto la polemica sui fannulloni, ha evidenziato la «disponibilità» dei sindacati «a una collaborazione sulla base di un impianto condiviso del piano industriale». Il confronto con le 13 sigle sindacali proseguirà martedì.
ROMA. Professor Giacomo Vaciago, il debito pubblico ha raggiunto la cifra record di 1.646,7 miliardi di euro. Numeri spaventosi. Con il petrolio alle stelle, l’inflazione che sale, la Borsa che cade e la crisi alimentare, mi sembra il minore dei nostri problemi. Anche perché nel mondo i debiti eccessivi sono quelli privati. Da noi è il contrario. La Ue, che ci impone di portarlo al 60 per cento del Pil, la pensa diversamente. Quel numero è una stupidaggine, non c’è motivazione scientifica che lo giustifichi: serviva soltanto per tenere fuori l’Italia dall’euro ma Ciampi ci fece entrare nonostante fossimo al 130 per cento. Io dico che oggi il debito pubblico non è il maggiore dei nostri problemi. In un futuro potrà tornare a esserlo, ma guarderei alle criticità che rallentano il mondo e che influiscono anche su di noi. Per esempio? L’agricoltura. Ce l’eravamo dimenticata. Eravamo rimasti a quei noiosissimi convegni degli anni scorsi, quando l’unico problema erano le eccedenze da smaltire. Soltanto ora, con i redditi che crollano e la domanda che cresce, ci accorgiamo che la prima cosa che vuole l’umanità quando si sveglia è mangiare. Noi, però, abbiamo anche una spesa pubblica altissima. La soluzione è semplice: convertire il debito in asset da dismettere. E c’è ancora tanto da vendere, ma bisogna decidersi a farlo. Perché è inutile ripetere che si vogliono tagliare spesa e tasse, se non si riduce la dimensione patrimoniale del Paese. Privatizzare come per Alitalia? Finirà che dovremo dare noi dei soldi a qualcuno ché se la prenda. Riusciamo a spendere anche per le dismissioni. Perché siamo affezionati a un grande stato – lo dico con la s minuscola, inteso come passato – non vedendo che il Paese si è via via rimpicciolito. Gli interessi passivi sul debito supereranno i 70 miliardi di euro. Be’, il problema si è attutito da quando li abbiamo convertiti in tassi tedeschi… Tassi tedeschi? Perché, l’euro cos’è se non il muro della Germania. E per noi è stato un grande affare muoverci sui titoli di Stato con il passo dei tedeschi. Il problema è che abbiamo speso anche quanto risparmiato sui tassi d’interesse. Perché la cosa che sappiamo fare meglio è spendere i soldi degli altri. L’Ocse, visto il debito pubblico, dubita che Tremonti abbia anche i soldi per tagliare l’Ici. Siamo ancora una volta punto e daccapo. Quello che vince le elezioni è lo schieramento che promette di
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più, quello che le perde, è perché non è riuscito a realizzare quanto annunciato. Per essere popolari bisogna spendere. In verità speravo che con questo governo, che ha in programma il federalismo fiscale, si rendesse lo Stato più leggero, si risparmiasse sulla spesa. Invece? Credo che il commissario Almunia dovrà prendere una camera fissa in via XX settembre, perché verrà giù tutte le settimane da Bruxelles per ricordarci di tagliare il deficit. E ogni suo monito ricorderà al mondo che siamo un Paese da evitare. Almeno aumentano le entrate. Ma soltanto perché il Pil nominale continua a crescere. Anche il prezzo della benzina fa bene alle entrate. Ci vorrebbe invece un piano strategico di alleggerimento del governo: passare da un’Italia dove tutto gira intorno a esso a uno dove il governo fa soltanto quello che serve e il resto lo fa il Paese. Un tempo la chiamavano sussidierità. Devolvere competenze per alleggerire la spesa? Lo Stato deve fare, e bene, le poche cose previste nella prima parte della Costituzione: sicurezza, scuola, politica estera, al limite neanche la pensione, che si costruisce con i propri risparmi. Invece è un enorme banca che dà soldi a tutti, anche per servizi che non utilizzeremo mai. Soprattutto per pensioni e sanità. Il nocciolo duro del debito pubblico è proprio questo. Tra gli anni Settanta e Ottanta abbiamo trasferito tanta spesa corrente sul debito. Non per gli investimenti, ma per mangiare. È ora di rimodulare i servizi? Ma dove? in Italia? Se è difficile parlare di autofinanziamento per costruire un’autostrada. Uno Stato leggero è uno Stato utile, uno pesante è soltanto opprimente. Ma il capovaloro l’ha fatto il ministro Bossi: ha detto che l’Ici non è stata eliminata, ma la pagherà la Stato. Allora perché non accollargli pure l’Irpef? Professore, sarà più preoccupante l’agricoltura, ma il debito acuisce la frattura tra le generazioni. E la cosa è destinata soltanto a peggiorare, perché la spesa è indicizzata all’età: più si invecchia e più i costi per pensioni e sanità crescono in modo esorbitante. Soluzioni? Intanto servirebbe un patto tra giovani e vecchi generazioni. Eppoi intervenire sulle pensioni. Dopo l’abolizione dello scalone? Bisogna tornarci. Da Bruxelles ci dicono che si può lavorare 60-65 ore, spero che aggiungereranno anche che si deve farlo fino a 60-65 anni. Almeno i numeri del passato, 18 e 35, come l’articolo che blocca i licenziamenti e le ore lavorate, sono finiti nel dimenticatio.
Tra petrolio e deficit alimentare le priorità sono altre. Ma dobbiamo privatizzare per evitare le crisi del passato
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Breve storia di un fallimento che parte nel ‘97 e che l’aiuto di Stato voluto dal governo (e contestato dalla Ue) non risolve
Il prestito sciagurato di Rocco Buttiglione a crisi di Alitalia inizia in realtà nel 1997, quando il governo in carica realizza un grande aumento di capitale che costituisce nei fatti un aiuto di Stato in termini di legislazione europea. L’aiuto di Stato viene debitamente segnalato alla Commissione Europea che lo autorizza. Invece di affrontare una ristrutturazione vera, in termini di mercato, ci si tira fuori dalle difficoltà con un aiuto di Stato. Si evitano tensioni sociali e si rende più facile la vita del governo. Il governo di allora mostra in tal modo la sua ignoranza della legislazione europea e la sua mancanza di visione degli sviluppi futuri del mercato del traffico aereo. Ottenere l’assenso della Commissione ad un aiuto di Stato non è senza costi e non è indolore. Ovviamente i denari dell’aiuto di Stato si debbono usare non per espandere l’azienda ma per ristrutturarla mantenendone invariata la presenza sul mercato. Alitalia accetta di non aprire nuove rotte o sottoporre l’apertura di nuove rotte a gravami e controlli che ne impacciano gravemente i movimenti. Negli anni in cui altre compagnie moltiplicano i voli verso la Cina e verso l’India e aprono nuovi mercati in America ed in Europa; negli anni in cui il traffico aereo si espande in modo tumultuoso nel mondo, Alitalia rimane ferma.
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Nel 1997 Alitalia è una delle grandi aviolinee europee. Già si capisce che il mercato sta subendo un cambiamento strutturale, al termine del quale non vi saranno più di tre o quattro protagonisti. Alitalia, se avesse affrontato una vera ristrutturazione di mercato, avrebbe potuto essere uno di questi protagonisti. Certo, è una compagnia di bandiera, cioè una azienda che bada molto alla qualità del servizio, ma non si preoccupa affatto dei costi ed ha sacche impressionanti di inefficienza. La situazione al momento dei suoi competitori europei non è però molto diversa. La transizione al mercato sarà difficile per tutti ed Alitalia non è messa molto peggio degli altri e potrebbe farcela. Purtroppo, Alitalia non solo si tarpa le ali con la condizione imposta dalla Commissione per concedere
l’aiuto di Stato, ma usa i soldi dell’aumento di capitale per sopravvivere senza ristrutturarsi. Dopo pochi anni, al 2001 o al 2002, siamo di nuovo alla canna del gas. Bisognerebbe ristrutturare, ma ristrutturare è doloroso. Il governo non potrebbe intervenire, ai sensi della norma europea e degli impegni presi. Tuttavia interviene lo stesso, erogando un prestito di 400 milioni di euro per far fronte alla crisi di liquidità dell’azienda. Il prestito viene giustificato davanti alla Commissione Europea come «prestito dell’azionista». In altre
A fine anni Novanta la compagnia è costretta a rimanere ferma proprio quando il traffico aereo si espande in modo tumultuoso nel mondo parole il governo si comporta come un azionista privato che eroga un prestito alla sua azienda al fine di poterla vendere. La Commissione, su impulso di un grande commissario che era anche un grande
Cosa vuol dire ristrutturarsi? Alitalia è troppo piccola per potersi permettere due grandi aeroporti di riferimento (hub). Deve scegliere: o Fiumicino o Malpensa. Alitalia ha una componente di servizi a terra sproporzionata rispetto ai servizi di volo. Questa componente, almeno in alcune sue parti, è di eccellente qualità. Non sarebbe impossibile renderla autonoma e metterla sul mercato e vedere se riesce a vendere i suoi servizi anche ad altre compagnie. È infine necessario un certo ridimensionamento del personale e l’abolizione dei privilegi di cui godono alcune categorie. Al 2004 Alitalia potrebbe ancora essere salvata con sacrifici dolorosi ma sopportabili. Lo scrivente, che allora era ministro per le Politiche Comunitarie e convinse il commissario De Palacio a dare il via libera al prestito ponte, ricorda diversi colloqui con i sindacalisti di Alitalia. Essi erano anche, alla fine, disponibili ad accettare una ristrutturazione vera. Chiedevano solo una cosa: che il governo, e al di là di esso la politica, parlasse con una voce sola. Invece Storace e Veltroni vennero fuori dicendo: Fiumicino non si tocca. E Formigoni e Maroni fece«Abbiamo costruito dei grandi aeroporti adatti a funzionare come hub ma abbiamo adottato una strategia generale del trasporto aereo da punto a punto. Si può rimediare a questo errore? No»
amico dell’Italia, accetta questa tesi ed autorizza il prestito. È in effetti pronto un consorzio di banche che acquisiscono il rilevante aumento di capitale impegnandosi a collocarlo sul mercato. Quanta parte dell’aumento di capitale sia poi stata effettivamente collocata non saprei dire. Alitalia, comunque, ha di nuovo denaro in cassa e potrebbe tentare di rilanciarsi. Invece non lo fa.
ro eco: Malpensa non si tocca. E vennero fuori i progetti più improbabili di risanamento senza sacrifici. La posizione dei sindacati ovviamente si irrigidì. Qual è quel sindacalista che è disposto ad andare a spiegare ai lavoratori che bisogna accettare licenziamenti ed altro se dei politici stanno dicendo che in realtà ci sono soluzioni indolori per tutti i problemi? Solo un pazzo suicida lo farebbe.
Ieri la Commissione ha aperto l’inchiesta sul
I tempi di Bruxelles di Maria Maggiore
BRUXELLES. Tutto secondo copione. Almeno finora. La Commissione europea ha aperto ieri un’inchiesta approfondita sul prestito ponte da 300 milioni offerto all’Alitalia lo scorso 22 aprile e poi trasformato dal governo Berlusconi in aumento di capitale alla società moribonda. È un atto dovuto, visti i presupposti di questo intervento pubblico che ha tanto il sapore di un aiuto di Stato, vietato dalla regole Ue. Ma i tempi e la procedura fanno pensare che, alla fine, l’esecutivo europeo potrebbe ricucire lo strappo con l’Italia. In tempo per la nomina del futuro Presidente della Commissione europea, posto a cui l’attuale Presidente Barroso tiene molto. L’accusa con cui è partita l’indagine europea era nell’aria da tempo: sospetto di non rispetto delle regole comuni di mercato, aggravato dalla decisione, contenuta nel decreto legge attualmente all’esame del Parlamento, di convertire il prestito in un aumento di capitale, operazione ancora più spregiudicata per le norme sulla concorrenza. I principi europei sono chiari: perchè lo Stato possa intervenire su una compagnia, deve comportarsi come farebbe un qualunque azionista privato, l’operazione dev’essere quindi redditizia. E non un calmante per un’impresa sull’orlo del fallimento. Inoltre, per le compagnie aeree vale la regole del “one time, last time”, si consente un intervento pubblico una volta ogni dieci anni e solo per ristrutturazione o salvataggio. L’Alitalia ha ricevuto 400 milioni nel 2004 considerati aiuti di Stato legittimi, quindi fino a 2014 non ci sono santi che tengano. Ma la politica può ribaltare i fatti. Invece di pubblicare subito la decisione nella Gazzetta ufficiale, come il Trattato richiede, e far partire l’indagine, ieri si è preferito infatti offrire al Governo quindici giorni lavorativi in più, quindi circa un mese. E nel frattempo non si richiede la sospensione del prestito, come la Commissione ha preteso in un altro caso nel 2005, ma i soldi possono rimanere nelle casse, vuote, di Alitalia. Il primo mese serve a ricevere chiarimenti da Roma.
i giorni difficili di
tremonti Il governo avrebbe dovuto dire ai manager: «Scegliete voi; noi vi diamo un unico mandato: salvate Alitalia». Il governo, però, non se la sentì di affrontare lo scontro con l’opposizione, con il sindacato e con una parte della sua stessa maggioranza. Mengozzi se ne andò e Cimoli fu costretto a galleggiare. Così si perse l’occasione per risanare prima di vendere, cioè per vendere alle condizioni migliori. Allora era già evidente che Alitalia non avrebbe potuto costituire il perno di una delle tre o quattro aggregazioni destinate a dominare il mercato nel secolo XXI. Avrebbe però potuto essere un forte numero due in una di queste aggregazioni (preferibilmente con Air France al posto di Klm). L’occasione fu persa.
prestito ponte, ma per il verdetto ci vorranno 18 mesi
ci salveranno. Per ora Non dovessero arrivare o fossero insufficienti, scatterà un altro mese in cui i terzi, le altre compagnie aeree, possono intervenire, con lettere, denunce e quant’altro. Cosiderando la pausa estiva, si arriverà così con comodità a ottobre. A quel punto la Commissione farà i suoi commenti che comunicherà a tutte le parti e aspetterà ancora risposte prima del verdetto. Il tutto in massimo diciotto mesi, un tempo ragionevole per mettere insieme un nuovo piano industriale e provare a trovare degli acquirenti per Alitalia. Così tutti sono contenti. Il nuovo Commissario ai Trasporti Antonio Tajani, fedelissimo di Berlusconi, mostra serietà e distacco firmando la lettera di apertura dell’indagine approfondita e si presenta con «le carte a posto» davanti agli eurodeputati che il 16 giugno lo interrogheranno per concedergli la «fiducia» come Commissario. Barroso fa vedere al resto d’Europa, e all’Irlanda che oggi va al voto per un delicato referendum sul Trattato, che la Commissione non fa favoritismi, tenendo nel frattempo a bada le grandi compagnie aeree europee, pronte a attaccare la Commissione sul caso Alitalia. E, Berlusconi ottiene più tempo per trovare un piano B e cominciare i negoziati per la privatizzazione con nuovi candidati, avendo già speso i 300 milioni di euro, che la Commissione si è guardata bene dal sospendere.
In teoria, interventi pubblici sono preclusi al vettore fino al 2014, ma la politica può ribaltare i fatti
Il lettore mi perdonerà a questo punto una digressione su una parola che ha avuto molta fortuna: la parola “hub”. Uno hub non è semplicemente un grande aeroporto intercontinentale. Lo hub è un elemento di una strategia del traffico aereo che fa convergere da tutta un’area geografica i voli su di un punto dal quale partono i voli intercontinentali. Esistono hub di compagnia (la compagni aerea fa convergere lì i suoi voli), ma esistono (esistevano) anche hub di Stato: da tutta la Francia i voli convergono sullo Charles De Gaulle di Parigi per poi diramarsi verso il mondo intero. In altre parole, se uno da Strasburgo vuole andare a New York deve prendere l’aereo per Parigi e lì ha la coincidenza per New York. Oggi ufficialmente gli hub nazionali (come le compagnie di bandiera) non esistono più. Sono vietati dalla direttiva “Cieli Aperti”. Quei paesi però (la Francia) che a suo tempo hanno incanalato il loro traffico verso un grande aeroporto nazionale, continuano di fatto ad avere un forte beneficio competitivo. Ci vorrà molto tempo perché le correnti di traffico incanalate verso Parigi trovino modo e convenienza per muoversi liberamente verso altre destinazioni. Noi abbiamo fatto i grandi aeroporti, ma fuori di una vera strategia di hub. Prendiamo Malpensa. All’inizio era collegato malissimo non dirò con il territorio nazionale, ma anche con quello lombardo. Lo hub deve avere eccellenti collegamenti anche ferrovieri ed autostradali in modo che il cliente vi possa arrivare facilmente e sia quindi spinto a sceglierlo. Già per chi sta a Bergamo andare a Malpensa è una vera impresa. Se si aggiunge che da Orio al Serio (cioè da Bergamo) si può prendere un volo per Francoforte e lì cambiare per andare in tutto il mondo, si capisce perché il sistema degli hub italiani non ha funzionato. Abbiamo costruito dei grandi aeroporti adatti a funzionare come hub ma abbiamo adottato
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una strategia generale del trasporto aereo da punto a punto. Da qualunque aeroporto italiano si decolla per qualunque destinazione europea. Gli aeroporti italiani non servono in modo preferenziale gli hub nazionali, ma in modo imparziale tutti gli aeroporti intercontinentali europei. Si può rimediare a questo errore? No, non è pobbile. Adesso la normativa europea impone a tutti la liberalizzazione delle rotte. Paesi più accorti di noi (la Francia) hanno prima risanato la loro compagnia di bandiera e creato un sistema di trasporto aereo convergente sull’hub nazionale e poi, dopo essersi assicurate queste posizioni di vantaggio, hanno liberalizzato. Entrano nel mercato libero dopo aver precostituito una posizione di forza. L’Italia invece entra nel mercato libero del
Oggi l’unica soluzione è la legge Marzano, cioè il riconoscimento dello stato fallimentare: allora i compratori si faranno vivi trasporto aereo mondiale da una posizione di grande debolezza. È mancata una visione ed una politica del trasporto aereo. Il governo Berlusconi (20012006) ha perso l’occasione per ristrutturare. I cattivi risultati delle elezioni locali e poi l’avvicinarsi di quelle nazionali sconsigliavano di prendere le misuri impopolari ma salutari che avrebbero potuto salvare l’azienda. Si perse tempo e si consumò progressivamente l’aumento di capitale così faticosamente ottenuto. Per evitare la crisi di liquidità si ricorse a misure disperate. Al governo Prodi viene consegnata una situazione disperata: è necessario vendere senza ristrutturare. Il governo Prodi indice un’asta nella quale vengono inserite (anche per la pressione della sinistra radicale) condizioni assolutamente irrealistiche.Tutti sapevano che l’asta sarebbe andata deserta e così, infatti, è stato. Si apre una trattativa con Air France quando oramai è troppo tardi. Air
France pone condizioni francamente difficili da accettare. Chiede sostanzialmente di avere Alitalia gratis, e fin qui ha ragione. Si accolla un debito pesante e una situazione aziendale difficilissima. Chiede l’assenso preventivo del sindacato, e questo può essere comprensibile. Ma chiede anche che l’ente gestore dell’aeroporto di Malpensa rinunci a far causa per danni contro Alitalia per rottura degli obblighi contrattuali assunti. In alternativa Air France vuole che lo Stato italiano la sollevi da tali obblighi. Questo, evidentemente, non è possibile. Se il mercato deve valere, deve valere per tutti e Malpensa deve essere messo in grado di giocare le proprie carte in condizioni di parità con chiunque altro.
Nella transizione fra il governo Prodi e il governo Berlusconi la politica italiana produce l’ennesimo mostro: il prestito ponte di 300 milioni di euro ad Alitalia. In occasione del prestito ponte del 2004 ci fu detto con chiarezza: questa è la prima e l’ultima volta. Per di più, allora c’era un acquirente per l’aumento del capitale. Adesso l’acquirente non si vede. È facile prevedere che il prestito ponte non passi. Cosa fa il nuovo governo Berlusconi? Cerca di trasformare il prestito ponte in un aumento di capitale. Aumento di capitale di una società per azioni che avviene per decreto del governo! Questo è il modo con cui si aumenta il fondo di dotazione di una società dello Stato, non di una società per azioni! Se prima la ripulsa della Commissione europea era sicura, adesso sono sicuri anche il dileggio e lo scherno. La violazione della normativa comunitaria è scoperta ed evidente. Il relatore in Aula, l’onorevole Valducci, cerca di rassicurare la Camera dei Deputati dicendo che tanto ci vorranno dieci anni prima che arrivi il giudizio della Corte di Giustizia. In realtà in genere la Corte è assai più rapida, ma soprattutto non si può dimenticare che il Commissario alla Concorrenza dispone di autonomi e pesanti poteri sanzionatori che hanno fatto arretrare finanche colossi come Microsoft che contava sul sostegno dello stesso governo degli Stati Uniti. E bisogna riflettere anche su come sarebbe pesante, alla fine, la sanzione irrogata al nostro paese. Non basta: il provvedimento del governo esenta la vendita di Alitalia da qualunque procedura di evidenza pubblica, di nuovo in evidente violazione della direttiva europea sugli appalti. L’unica soluzione aperta ad Alitalia è l’applicazione della Legge Marzano, cioè il riconoscimento dello stato fallimentare della compagnia aerea. Allora i compratori si faranno vivi per trattare in condizioni realistiche. Come è avvenuto per la Sabena e per Swiss Air. Che sono fallite e sono risorte.
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il caso
I consigli del generale Arpino al governo italiano
L’incontro con Bush «Italia, non essere timida sull’Iran» colloquio con Mario Arpino di Luisa Arezzo ilanciare i rapporti tra Italia e Stati Uniti dopo l’impasse del governo Prodi e puntare a definire la posizione italiana come quella di un interlocutore privilegiato di Washington per Europa, Medio Oriente e Russia. È questo il piano di Berlusconi che oggi alle 16 incontrerà il presidenteamico personale George W. Bush a Villa Madama. Un pacchetto di aspirazioni da “barattare” con richieste precise da parte dell’inquilino della Casa Bianca. Il tutto, come spiega il generale Mario Arpino, già Capo di Stato Maggiore della Difesa e oggi presidente di Vitrociset, «in un cli-
R
Ieri i ministri Frattini e La Russa hanno confermato un parziale ritiro dei nostri uomini dall’Afghanistan. È in linea con la richiesta Usa? Più che altro si tratta di far gravitare sulla zona che ci è stata assegnata i soldati che adesso abbiamo a Kabul quando finirà il nostro mandato nell’area. Economizzando e concentrando gli uomini, certamente una frangia relativa ai servizi può essere rimpatriata. Ribadiremo Il nostro impegno anche in Libano e Kosovo? Penso di si. E per quanto concerne la missione in Libano quest’ultima non potrà variare molto perché ci vorrebbe un’altra risoluzione 1701, che come sa detta regole ben precise sul ruolo dei caschi blu, sollevati dalla responsabilità del disarmo di hezbollah che spetta invece al governo libanese. Bush ci chiederà un maggiore impegno in Iraq? Checché se ne dica l’Iraq in questo incontro è quasi un dettaglio e se ne parlerà poco. In un’intervista rilasciata ieri al Times Bush ha fatto una sorta di mea culpa affermando di essere dispiaciuto di poter passare alla storia come l’uomo
Ci verrà chiesto di tenere posizioni ferme su Afghanistan, il conflitto israelo palestinese e il nucleare di Teheran ma di ritrovata alleanza e di forte apertura al dialogo transatlantico». Generale, cosa aspettarsi da questo nuovo incontro? Richieste. Non credo che Bush venga a portarci qualcosa se non la sua amicizia (quella personale con Berlusconi non è ovviamente tema di baratto) e anche per questa chiederà qualcosa in cambio. Una posizione italiana più ferma per quanto concerne l’Afghanistan, il problema israelo palestinese e il grande problema iraniano dopo che Bush ci ha fatto sapere di favorire la nostra presenza nel gruppo dei 5+1, presenza che è ancora avversata dalla Germania. Il nostro governo cosa potrà realmente offrire? Le richieste sull’Afghanistan sono state già in parte accolte e cominciano ad essere valutate, la barriera invalicabile è stata abbattuta e la nostra missione si potrà adattare alle circostanze. Per quanto riguarda il Medio Oriente, Berlusconi ancora non si è visto a braccetto con Hezbollah e non lo vedremo. Questo non significa assenza di comprensione ai problemi di tutti, ma l’ultima cosa che questo governo vuole vedere è una trattazione “due pesi due misure” del problema israelo palestinese. Per quanto riguarda Teheran il problema è delicato anche per noi, siamo grossi partner commerciali dell’Iran, tanto che se la politica ha snobbato Ahmadinejad durante il vertice Fao, l’industria non lo ha fatto. Qui ci verrà chiesto qualche sacrificio e dovremo farlo.
Il presidente Usa George W. Bush scende dall’Air Force One. Sotto, assieme al cancelliere tedesco Angela Merkel, che ha visto ieri della guerra. È così? Non mi metteri nei panni del consolatore di Bush, ma credo che sia un presidente che passerà alla storia per avere visto giusto quello che avverrà in futuro se non si interverrà in modo radicale. Non ha mentito e fin dall’inizio ha parlato di guerra, lacrime e sangue. Certo, verrà ricordato come l’uomo della war on terror, ma anche come l’uomo della visione. Una visione che oggi gravita sempre più verso l’Iran. Come può l’Italia contribuire al piano e alle richieste di Bush? Credo che il leit motiv di generica adesione alle sanzioni proposte dagli Usa che l’Euro-
L’incontro di Meseberg
Germania: l’intesa ritrovata tra Angela e George di Alessandro Alviani
pa sta mostrando in questi giorni, sarà un ritornello che vedremo suonare anche qui. E questa è la vera croce di Bush. Lui vorrebbe fare qualcosa per fermare Ahmadinejad prima della fine del suo mandato, ma non credo voglia passare alla storia per essere anche l’uomo di una guerra all’Iran. Le sanzioni ci saranno? Alcune senz’altro. Ma bisogna essere cauti, perché è vero che possono essere utili a rafforzare i riformisti e dividere gli ayatollah, ma anche il contrario. Bisogna capire quanto la fazione oltranzista, che gode dell’appoggio dei pasdaran, riesce a prevaricare le forze più moderate e progressiste, cosa che già ha fatto alle elezioni se-
MESEBERG. L’armonia ritrovata va in scena sul prato del castello barocco di Meseberg, un villaggio di 150 anime sprofondato nelle campagne del Brandeburgo. Qui si conclude l’ultimo viaggio in Germania del presidente statunitense George W. Bush. Un appuntamento che dovrebbe servire anche a celebrare la rinnovata amicizia tra Berlino e Washington, dopo le frizioni dell’era Schröder e la paziente opera di riequilibrio dei rapporti avviata da Angela Merkel. E così, davanti ai giornalisti assiepati sull’erba bruciacchiata dal sole delle ultime settimane, la cancelliera e l’inquilino della Casa Bianca provano a spostare l’attenzione sui temi su cui esiste maggiore convergenza. Entrambi esprimono ad esempio la speranza di un rapido accordo nei negoziati di Doha sulla liberalizzazione del commercio mondiale. Il clima di intesa non tarda però a incrinarsi. Basta infatti che il discorso si sposti sul programma nucleare iraniano per far riemergere i differenti toni di Berlino e Washington. Se i due leader si trovano d’accordo sulla necessità di preferire una soluzione diplomatica, Bush si spinge oltre e avverte: «tutte le opzioni restano sul tavolo». Tradotto: l’amministrazione statunitense non ha ab-
il caso
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Olimpiadi: il pasticcio di Frattini e Mantica
Per dieci minuti il governo ci ha fatto sperare di Andrea Mancia segue dalla prima
lezionando i candidati. Le sanzioni sono un’arma a doppio taglio per tutti e a triplo taglio per noi visto gli interessi economici che ci legano al Paese. Non solo: Bush ci chiederà dei sacrifici importanti sul fronte economico e proporrà al governo di seguirlo in un’azione più dura. Ma questo significa anche creare frizioni con la Cina e la Russia. E se la prima è meno importante per noi la seconda no, visto che a livello energetico dipendiamo anche da loro. Ecco perché credo che il nostro governo accetterà di studiare il problema con più efficacia senza arrivare a indicazioni precise sul da farsi. Sul piatto di Villa Madama c’è anche il
desiderio del Cavaliere di proporsi come ”ponte” di dialogo con la Russia, specie in questo momento di relazioni un po’ faticose a causa dei progetti di scudo misilistico.
momento abbiamo l’uomo giusto, che lo sa e lo può fare. Con Bush finisce l’era Bush? No. L’era americana è difficile che finisca. L’America si trasforma, è adattabile e flessibile. Continuerà, magari sotto un altro nome. Ma non credo che né Obama né McCain ragioneranno in maniera diversa da Bush in termini di politica estera o di sicurezza e difesa. George W. Bush ha visto lontano e molte delle sue idee dovranno essere perseguite perché l’alternativa è la sconfitta dell’Occidente.
La mediazione è il vero contributo che il nostro governo può offrire. D’altra parte, chi non ha potere militare, negozia Ma questo è il contributo che noi possiamo offrire. La mediazione. D’altra parte chi non ha potere militare, media. E noi in questo
bandonato l’ipotesi di un attacco militare, se il regime di Mahmoud Ahmadinejad dovesse proseguire sulla strada dell’arricchimento dell’uranio. Più morbida la posizione della Merkel, secondo la quale «non si può escludere una nuova serie di sanzioni» decise dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, se Teheran non accetterà le proposte della comunità internazionale. Ciò non esclude, ha aggiunto la cancelliera, ulteriori misure prese all’interno della Ue, ad esempio nel settore bancario. Ma niente di più. A parte i toni, Merkel e Bush scelgono di porre l’accento su temi diversi. Mentre la Bundeskanzlerin ribadisce la necessità di un nuovo accordo sul clima sotto l’egida delle Nazioni Unite (il presidente statunitense aveva già aperto su questo fronte nel corso della sua visita in Slovenia), Bush torna sulla guerra in Iraq: fu «una decisione giusta» e «non me ne pento affatto», fa sapere. Malgrado le differenti sfumature, Merkel si dà comunque da fare per recuperare il clima di armonia allestito per questo terzo viaggio di Bush in Germania da quando è salita al potere. I rapporti col presidente statunitense? «Amichevoli e costruttivi», spiega. Non c’era da aspettarsi il con-
Frattini, che già il giorno prima (durante il vertice con l’omologo cinese, Yang Jiechi) si era distinto per il suo silenzio di tomba sulla questione dei diritti umani, smentisce seccamente le parole di Mantica. Ai giornalisti che gli chiedono una conferma sulle dichiarazioni del suo sottosegretario, il titolare della Farnesina risponde: «Non è vero, l’Italia si adeguerà agli orientamenti dell’Unione europea: questi orientamenti ancora non ci sono, come io stesso ho detto ieri al ministro degli Esteri cinese Yang». «È evidente - prosegue Frattini - che trattandosi di inviti che fa il Cio e non il governo cinese, la rappresentanza sia a livello di ministri dello Sport, in questo caso del nostro sottosegretario allo Sport. Per alti livelli di partecipazione governativa decideremo, ma non è affatto escluso». Tutto sbagliato, tutto da rifare. Come precisa in seguito lo stesso Mantica, di fatto smentendo se stesso. E come certifica Silvio Berlusconi qualche ora più tardi, nel corso di una conferenza stampa al Palazzo Reale di Napoli, spiegando che «le Olimpiadi sono fatte per favorire l’amicizia e l’integrazione tra i popoli» e «non per dividere». Diritti umani? Boicottaggio della cerimonia d’apertura dei Giochi? Soltanto uno scherzo durato dieci minuti. Dieci minuti in cui l’Italia aveva alzato la testa dalla palude dell’appeasement prodiano. Per poi riabbassarla mestamente, in nome di una realpolitik fuori dal tempo e dalla storia.
trario: sin dai tempi in cui sedeva sui banchi dell’opposizione la leader cristiano-democratica si è impegnata per riallacciare i rapporti con Washington, abbandonandosi anche a mosse azzardate. Come quando, nel 2003, alla vigilia dello scoppio della guerra irachena, firmò un articolo sul Washington Post per chiarire che «Schröder non parla a nome di tutti i tedeschi». Dopo due anni e mezzo di governo e dodici incontri bilaterali, la Bundeskanzlerin si è fatta più accorta. Accanto agli sforzi per migliorare il clima tra le due sponde dell’Atlantico, si è ritagliata anche spazi di critica, ad esempio sull’allargamento della Nato o sulle politiche a difesa dell’ambiente. Fiutata l’impopolarità di cui gode il presidente statunitense non solo tra i cittadini tedeschi, ma anche tra numerosi politici, persino del suo stesso partito, Merkel ha poi preferito organizzare la visita di Bush non a Berlino, ma nell’appartata residenza del governo federale a Meseberg. E intanto ha iniziato a pensare al dopo-Bush. Sembra che, mentre, martedì sera, atterrava a Meseberg l’elicottero con a bordo il presidente statunitense, si sia lasciata andare ad un «adesso inizia un periodo nuovo».
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politica
Altri sei morti in Sicilia. Il ministro Sacconi convoca le parti sociali
Lavoro:stragi e retorica di Riccardo Paradisi n’altra strage di lavoratori. Sono morti in sei stavolta nel depuratore consortile di Mineo, a 35 km da Catania. Sono morti per pulire una vasca che li ha uccisi avvelenandoli con l’esalazione di sostanze tossiche. Quattro delle vittime erano dipendenti comunali, due di un’azienda privata. Un episodio simile si era verificato tre mesi a Molfetta, in Puglia, dove cinque lavoratori della ’Truck center’ erano stati avvelenati dalle esalazioni di acido solfidrico durante le operazioni di lavaggio di un’autocisterna che aveva trasportato zolfo liquido.
U
La meccanica burocratica delle morti sul lavoro è già partita: l’impianto di Mineo è stato sequestro ed è stata immediatamente avviata l’inchiesta della magistratura, soprattutto le agenzie hanno cominciato a
battere i comunicati vibranti sdegno e cordoglio dei politici: ”Una tragedia orribile”, ”Occorre non abbassare la guardia”, ”Servono misure urgenti per la sicurezza sui posti di lavoro”. Una maratona retorica che durerà per ore, trasversale. Sono le stesse parole che per mesi si sono sentite dopo l’incendio alla acciaierie Tyseenkrupp di Torino dove sette operai furono
ria. Vittime di cui non si occuperà nessuno, ascritte di fatto alla fisiologia del lavoro italiano. Un calderone dentro il quale si guarda poco e male. Tradotto: il testo unico sulla sicurezza nel lavoro approvato lo scorso aprile, non viene applicata. Per molti motivi, come denunciano da sempre le associazioni di lavoratori: perchè mancano i controlli – i tecnici della prevenzione delle Asl sono meno di 2 mila in tutta Italia – manca la cultura della sicurezza sul lavoro, manca la formazione e l’informazione ai lavoratori, manca la certezza della pena per chi non rispetta le regole. «Bisogna insistere perchè venga attuato il testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro», ha dichiarato Antonio Boccuzzi ex operaio della Thyssen, superstite al rogo del 6
Inutili le maratone oratorie della politica, occorrono gli ispettori sui posti di lavoro divorati e uccisi dalle fiamme. Intanto ogni giorno in Italia si continua a morire di lavoro. Nella giornata di ieri, assieme ai morti di Mineo, se ne devono ricordare altri: un lavoratore che ha perso la vita in Sardegna e un altro in Liguria, ad Impe-
dicembre scorso commentando l’incidente avvenuto a Mineo.
È necessario «insistere, ha proseguito, affinchè vada avanti il testo unito sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, senza prestare il fianco a chi vuole apportare modifiche ad un testo che deve solo inziare l’applicazione: si tratta di mettere in atto quanto è stato ratificato un mese fa sbloccando al più presto le assunzioni degli ispettori Asl». Controllo e prevenzione per ritornare ad essere un paese civile, dove non si muore lavorando. «Non basta fare le leggi, occorre che le norme vengano applicate, aveva detto da parte sua il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano all’indomani della tragedia alla Thyssenkrupp. Conta molto anche l’impegno delle imprese, aveva
continuato, dei sindacati e degli stessi lavoratori che devono essere sufficientemente in grado di difendere se stessi dai rischi sul lavoro». Siamo di nuovo a dover ripetere le stesse cose. Fino alla prossima strage? Il Ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha convocato oggi per le 16,30 una riunione d’urgenza con le parti sociali sul tema della sicurezza sul lavoro. Si spera siano fatti, non parole. Saranno altrimenti profetiche le parole del presidente dell’Associazione nazionale mutilati ed invalidi del lavoro Pietro Mercandelli pronunciate dopo l’incidente di Mineo:«Siamo alla quinta grande tragedia sul lavoro nell’arco di un anno e mezzo, un altro episodio che richiamerà l’attenzione della politica e dei media, ma al quale non faranno seguito azioni concrete».
Liberare Napoli dai rifiuti? «’A Maronna v’accumpagne», dice il cardinale Sepe a Berlusconi
Il decisionismo va in Paradiso di Errico Novi
Silvio Berlusconi è tornato ieri a Napoli per fare il punto sull’emergenza rifiuti e ha incontrato tra gli altri l’arcivescovo Crescenzio Sepe
ROMA. Si sa, il fatalismo di Napoli è contagioso. Adesso ne viene sfiorato anche Silvio Berlusconi alle prese con l’ostacolo più difficile del suo mandato, l’interminabile emergenza rifiuti. Preoccupato di dargli coraggio, l’arcivescovo Crescenzio Sepe lo ha congedato al termine dell’incontro di ieri con la più classica delle invocazioni dialettali: «’A Maronna v’accumpagne». Il cardinale dice tutto. Ricorda quanto sia ardua l’impresa, e anche quanto sia inefficace il decisionismo, di fronte alle montagne di spazzatura. Ci vuole un miracolo davvero. Come ha titolato questo giornale qualche giorno fa, ”Resta solo San Gennaro”. È così, Napoli forse è solo un emblema. Nel suo libro di un paio d’anni fa Giorgio Bocca ha sostenuto che Napoli siamo noi. E cioè che la capitale del Sud è un estremo negativo, da non considerare però irripetibile. Molti dei nodi che soffocano il Paese sono difficilissimi da sciogliere e il pas-
so risoluto di Berlusconi non può bastare a cancellarli.
Rispetto alle gestioni del passato l’approccio del Cavaliere è certo più convincente. Da commissario all’emergenza Antonio Bassolino ha solo sprecato tempo, ha rinunciato a prendere de-
verso, arruola volontari da tutta Italia per diffondere la raccolta differenziata, ma deve fare i conti con distorsioni sedimentate. Ce ne sono di carattere più tecnico, come l’uso improprio degli impianti, che per anni hanno prodotto un falso combustibile da rifiuti e ora sono affidati a ufficiali dell’esercito, per nulla intenzionati a perpetuare le irregolarità. Difficoltà che si sommano a quelle ambientali: per esempio all’intempestività dei magistrati, che si sono decisi a sollevare l’anomalia di questi impianti proprio nel momento in cui sarebbe servita un po’ di tolleranza.
Lo stile molto risoluto del governo si perde nel labirinto della crisi partenopea cisioni. Mentre il presidente del Consiglio incontrava ieri i vertici della magistratura e dell’imprenditoria locale,Walter Veltroni ha riconosciuto con un eufemismo che «la situazione dei rifiuti è complicata dalla difficoltà del centrodestra e del centrosinistra a prendere decisioni». Un modo elegante per ammettere che Bassolino di scelte non ne ha compiute affatto. Berlusconi ha un piglio completamente di-
È così in molti campi. Napoli esaspera il concetto stesso di imprevisto, ma in ogni settore della vita pubblica le soluzioni semplici e in apparenza infallibili fanno i conti con resistenze e inveterati malvezzi. Serve la du-
rezza del decisionismo, di fronte a questi ostacoli? Probabilmente sì, a condizione di far precedere gli annunci da una valutazione compiuta di tutti i dossier. Il discorso vale anche per un caso particolare come quello delle intercettazioni: l’intervento dell’esecutivo era doveroso e l’incoraggiamento iniziale di Napolitano lo dimostra, ma c’è il rischio di scontare un costo in termini di immagine: la via del decreto è impraticabile, il testo definitivo non potrà essere dirompente come le novità annunciate dal premier. Così il governo può perdere credibilità davanti all’opinione pubblica, e non sarebbe un danno da poco: nei momenti difficili la fiducia del Paese è una precondizione indispensabile, un patrimonio che il governo deve aver cura di non sciupare. Ridimensionamenti come quello a cui l’esecutivo è costretto dalla crisi di Napoli possono essere evitati, se la determinazione iniziale viene temperata da un pizzico di realismo.
politica
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Veltroni esorcizza la scissione nel Pd, ma la componente che fa capo a Parisi pensa a una federazione con la sinistra
Prodiani pronti a sbattere la porta d i a r i o
di Marco Palombi
d e l
g i o r n o
ROMA. Scissione? Vade retro. Wal-
La Russa: «Tornado in Afghanistan»
ter Veltroni, a Napoli per una riunione coi parlamentari del Pse, più che smentire tenta di esorcizzare la possibilità che il suo Pd cominci a perdere pezzi. Eppure i democratici restano un albero dai molti rami ma dalle radici debolissime. I teodem nascondono i propri mugugni dietro Famiglia cristiana, Rutelli tenta di intestarsi una nuova fase nella scelta delle alleanze – in direzione Udc – che è però in sostanza condivisa anche dal segretario e, soprattutto, da Massimo D’Alema. I maggiorenti di Ds e Margherita dunque non pensano sul serio di tornare indietro, ma a colpi di minacce sottobanco giocano una battaglia per la collocazione del partito e delle persone nello scenario interno e internazionale (vedi la questione del gruppo a Strasburgo). Basti guardare alla pantomima sul congresso: lo chiedono tutti, ma a turno. In questi giorni è Veltroni che lo agita davanti agli avversari e quelli dicono che non serve, ma la settimana prossima è probabile accada il contrario.
Aerei tornado italiani in Afghanistan. Per il momento è solo un’ipotesi ma, come ha spiegato il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, alle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, in questo senso c’è una richiesta da parte della Gran Bretagna e della Germania che attualmente schierano gli stessi aerei per la protezione dei contingenti militari che operano nell’ambito della missione Isaf. La Russa ha anche spiegato che la missione italiana in Afghanistan prosegue nel segno della continuità e del cambiamento: «Continuità nella sostanza e cambiamento nel maggior prestigio del ruolo dei militari italiani». Parlando della modifica del Caveat (che diminuisce da 72 ore a 6 il tempo di risposta del Governo italiano alla Nato nell’utilizzo dei propri militari) La Russa ha sottolineato come questa modifica rappresenti un allineamento dei militari italiani alle altre forze internazionali che operano in Afghanistan.
La verità è che, nel partito veltroniano, in vera sofferenza - sofferenza politica s’intende - non ci sono che gli ulivisti, cioè Arturo Parisi, cioè l’uomo che il Partito democratico se l’è inventato quando ancora Rutelli era il sindaco verde e D’Alema e Veltroni giocavano con la “Cosa”. Gli uomini che prima facevano capo a Prodi, decimati al mercato delle candidature, oggi vivono confusi e addolorati in un contenitore che a malapena li sopporta, vista la damnatio memoriae a cui è stato condannato l’ex premier. «Ci abbiamo messo dieci anni a costruire una casa nostra e ora la guardiamo e non possiamo non pensare: ma è questa cosa qui che volevamo costruire?», diceva sconsolato Mario Lettieri in Transatlantico qualche giorno fa. Mario Barbi, altro prodiano della prima ora, ha messo la sua perplessità addirittura nero su bianco: «Il Pd si sta trasformando in una confederazione di potentati, correnti e spifferi». Senza un nuovo rompete le righe, scrive Barbi sul sito ulivisti.it, «sarebbe forse meritevole di riflessione un dietro front verso un Pd-federazione di gruppi, aree, componenti, clan e quant’altro». Non sorprenda il tono del discorso, perché tra i seguaci dell’ex ministro della Difesa - e nonostante le parole dure ma accorte usate da quest’ultimo nelle uscite recenti - il dibattito è apertamente quello sulla permanenza nel partito, giudica-
Intercettazioni, Berlusconi: «Sarà ddl»
L’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi è il più critico nei confronti del segretario del Pd Walter Veltroni to più o meno da tutti oramai irriformabile. C’è chi vuole giocarsela al congresso, chi fare l’opposizione interna, chi parla di creazione di un nuovo soggetto federativo coi socialisti, i radicali, i repubblicani e quanti credevano nel vecchio Ulivo ma non riescono a fidarsi del nuovo. Si vedrà: molto dipenderà da quello che faranno i padroni del vapore nelle prossime settimane. Il fatto è che i prodiani non si fida-
«Dividersi sarebbe un suicidio», dice Walter. Gli “ulivisti” ripudiano Rosy Bindi e si radunano domani a Potenza per organizzare il dissenso no più di nessuno dopo essere usciti spennati dal tavolo per le candidature: avevano affidato le loro sorti a Rosy Bindi dopo averla lealmente sostenuta alle primarie, ma la pasionaria ex dc non ci ha pensato due volte a sacrificare gli uomini del Professore a favore dei suoi e queste sono cose che lasciano il segno.Tanto per dire: dopo un fisiologico periodo di compensazione Arturo Parisi e soci da domani a Potenza faranno una sorta di sessione pubblica di psicoanalisi dal titolo “E adesso?”. La Bindi nel
programma non c’è. «Certo che non c’è», dice uno degli organizzatori, «io quella non la voglio vedere né viva né morta».
Ecco spiegato, col pregio della vivacità, lo stato dei rapporti. La ex ministro, oggi assisa sulla poltrona di vicepresidente della Camera, ha tentato di recuperare chiedendo addirittura pubblicamente scusa a Franco Monaco - uno dei trombati di area prodiana - ma non pare sia servito a molto. Lo stesso Parisi, in uno dei suoi rari interventi recenti, è tornato non solo sulla necessità di un congresso, ma sull’urgenza di un congresso vero, aperto a discussioni aliene dalle appartenenze precedenti, «anche di quelle che hanno segnato le primarie», ha specificato Barbi. Tradotto: ciao Rosy. Non potrebbero essere più distanti dal Pd veltroniano, gli ulivisti, anche sul tema delle scelte strategiche. L’orizzonte in cui si muove il professore sardo è quello dell’Ulivo e quindi di un rapporto strutturale con una sinistra chiamata a fare i conti con le proprie responsabilità di governo. Anni luce dalle alleanze di nuovo conio di cui parla Rutelli e dell’autosufficienza veltroniana, entrambe visioni fumose ma che hanno almeno il pregio, rispetto al podismo, di non aver ancora fallito alla prova dei fatti. Certo che la nascita di un movimento-federazione ulivista a sinistra sarebbe la fine per il Pd.
«L’ordine del giorno sul Consiglio dei Ministri di venerdì contiene un errore materiale. Il provvedimento sulle intercettazioni sarà un disegno di legge e non un decreto legge». Lo ha affermato ieri il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi durante la conferenza stampa a Napoli. Le intercettazioni saranno consentite «per pene edittali da 10 anni in su, secondo le regole europee». «E’ un provvedimento atteso da tutti, in questo momento la democrazia non è piu tale se non c’è rispetto della privacy. C’è stata una degenerazione di questo sistema di indagine», ha concluso il premier.
Di Pietro: vogliono bloccare le indagini «Se hanno deciso di fare un decreto legge anziché un disegno di legge una ragione ci sarà. Mi piacerebbe sapere qual è il processo che deve essere bloccato - commenta il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro - E’ anche un modo per impedire che l’opinione pubblica si formi una coscienza. Se poi è vero che il problema della sicurezza in Italia è quello più sentito dai cittadini - conclude il leader dell’Idv mi sembra pazzesco che il primo provvedimento del governo Berlusconi sia quello di bloccare uno strumento di indagine importante come quello delle intercettazioni».
No Expò all’attacco Ieri a Milano si sono verificati dei tafferugli tra la polizia ed un centinaio di attivisti dei centri sociali che protestavano con un «muro» dorato contro «la speculazione edilizia in vista dell’Expò». I manifestanti che si sono definiti ”No Expò” hanno tentato di sfondare il cordone delle forze dell’ordine che li separava dal sindaco Moratti e dal governatore Formigoni.
Politici nello scandalo Santa Rita Spuntano presunte mazzette a politici dalle dichiarazioni messe a verbale da Domenico Lopriore, l’ex contabile della clinica Santa Rita di Milano, la struttura sanitaria finita nella bufera per le accuse di rimborsi gonfiati e omicidi che hanno portato a 14 arresti. Il verbale dell’interrogatorio, depositato tra gli atti delle indagini, parla di «alcune buste preparate dalla segretaria del notaio» Francesco Paolo Pipitone, titolare della clinica e finito agli arresti domiciliari. L’ex contabile ha poi ricordato di aver saputo di una busta che «avrebbe dovuto contenere circa 100 milioni di lire necessari per finanziare Alleanza Nazionale, probabilmente nelle elezioni politiche del 2003». La procura ha chiarito che su questa testimonianza per il momento non è stato aperto alcun fascicolo.
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società
L’Italia delle comunità religiose. Viaggio nelle associazioni cattoliche/8 Le Acli
I sindacalisti di Dio di Francesco Rositano i “tentacoli” ne hanno tanti, ma niente a che vedere con la famigerata Piovra. Le Acli (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani), nate inizialmente come la corrente cattolica del sindacato unitario dei lavoratori, si sono andate sempre più ramificando. E hanno abbracciato più settori: l’assistenza pratica ai lavoratori, la difesa della famiglia tradizionale, la lotta contro l’aborto e l’eutanasia, la tutela degli immigrati, la difesa dell’ambiente, la presenza nel territorio attraverso circoli dopo-lavoro. L’attenzione ai più deboli è scritta nel Dna dell’associazione. Non è un caso che essa nasca proprio nel 1944, nell’Italia messa in ginocchio dalla guerra, per tutelare gli operai, gli artigiani e i manovali, che dovevano ricostruire il Paese. I più deboli, appunto. È per queste persone che furono costituiti servizi quali il Caf (dedicato all’assistenza fiscale dei lavoratori dipendenti e pensionati), o il Patronato (nasce per difendere e promuovere i diritti dei lavoratori e dei cittadini nei confronti dello Stato e degli Istituti di Previdenza). Realtà presenti ancora oggi. Tutto sommato le Acli non sono molto diverse da sessant’anni fa. Naturalmente la loro presenza e la loro articolazione ha seguito l’evoluzione della società. E certamente anche l’evoluzione del mondo del lavoro. L’unica grande differenza con le Acli del ’44 è che hanno dovuto abdicare completamente al ruolo di sindacato, trasformandosi in un’associazione di promozione umana, in un ente non profit impegnato a tutto campo sulle tematiche che riguardano, direttamente o indirettamente, il lavoro. La data fondamentale di questo passaggio fu il 1948: anno in cui il sindacato unitario si sciolse e nacque la Cisl. Con la conseguenza che molti aclisti, militanti e dirigenti, decisero di lasciare l’Associazione per il nuovo sindacato. In questa fase, dove rischiavano di perdere ogni riferimento, fu decisiva l’investitura di Pio XII che invitò le Acli «ad essere un corpo
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rappresentativo di tutti i lavoratori cristiani, guida e orientamento per la loro promozione».
Attualmente le Acli sono grandi protagonisti della vita pubblica. Massiccia e incisiva è stata la partecipazione delle Acli alla grande manifestazione del Family Day nel 2007. Oppure la forte presa di posizione per inserire delle norme di sicurezza più adeguate ed evitare la piaga delle morti bianche. Politicamente non si sono mai schierate da una parte o dall’altra, ma hanno sempre appoggiato quelle forze politiche che hanno manifestato attenzione ai loro ideali. Con il precedente governo di Romano Prodi ad esempio c’è stata una buona intesa sulla riforma del Welfare messa in atto dal ministro Cesare Damiano. Lo scontro, invece, è stato inevitabile su questioni eticamente sensibili come l’introduzione dei Dico, che
sentato dal Governo, allineandosi alla Santa Sede che aveva espresso le sue perplessità sulla decisione di introdurre il reato d’immigrazione clandestina. L’Associazione, non persegue finalità politiche e al suo interno c’è la precisa clausola di incompatibilità, ma questo non le ha impedito di formare personalità che oggi hanno un grande rilievo nella vita politica del Paese: basta pensare a Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl o a Luigi Bobba oggi deputato del Pd. Come dimostra la storia, le Acli in questi sessant’anni di vita si sono spesso dovute adeguare ai tempi. Non hanno, però, mai voluto rinunciare, alla Dottrina sociale della Chiesa, vista come il punto di riferimento valoriale ineludibile.
Nella loro storia hanno vissuto una continua ”luna di miele” con la Chiesa cattolica. Con
ma anche per impedire la deriva comunista all’interno del sindacato unitario. Non è un caso che Pio XII, per evitare che la festa del lavoro fosse patrimonio esclusivo della sinistra, il 1° maggio 1955 istituì la festa di San Giuseppe artigiano. Il timore di uno spostamento a sinistra quindi mise in crisi la Santa Sede e lo stesso Paolo VI, grande sostenitore della realtà fondata da Achille Grandi. Il distacco comunque durò pochi anni. E si
Le Acli nacquero nel 1944 per costituire la corrente cattolica dei lavoratori organizzati. Negli anni si sono evolute profondamente, diventando associazioni di promozione umana a 360° in passato hanno ricevuto anche le critiche della Conferenza episcopale italiana. Per quanto riguarda le questioni di più stretta attualità il presidente nazionale delle Acli, Andrea Olivero, riconfermato per i prossimi due anni nel recente Congresso di maggio, ha preso posizione contro la versione del ”pacchetto sicurezza” pre-
un’unica eccezione: quando cominciarano a guardare a sinistra, negli anni dell’avvicinamento tra Dc e partito socialista. Un atteggiamento che fu visto quasi come un tradimento da parte delle gerarchie vaticane. Fin dall’inizio, infatti, le Acli nacquero con una doppia finalità: offrire un sostegno spirituale e materiale ai lavoratori,
colmò definitivamente con il pontificato di Giovanni Paolo II. Ma come sono organizzate le Acli oggi? La struttura è molto ramificata e va dai circa 4.000 circoli, che fanno capo alle 105 sedi provinciali e 21 regionali e rappresentano la base, il punto di partenza, il contatto diretto con la realtà in cui si opera. Ai servizi e le imprese, quali il Pa-
tronato e il Caf Acli, per l’assistenza previdenziale e fiscale, l’Enaip, l’ente dedicato alla formazione professionale, il Centro di assistenza agricola e il consorzio Solaris per la promozione della cooperazione sociale. Poi ci sono le altre associazioni specifiche come l’Unione sportiva, l’Unasp (Unione nazionale arti e spettacolo), il Centro turistico Acli, Anni verdi, Acli Senza Confini onlus, la Fap (Federazione nazionale anziani e pensionati), l’Ipsia (Istituto pace sviluppo e innovazione Acli) e l’Iref (Istituto di ricerche educative e formative).Tra i soggetti sociali e professionali, vanno ricordati i giovani delle Acli, il Coordinamento donne, Acli terra, Acli colf e l’Unapol (Unione Nazionale delle Associazioni dei produttori Olivicoli. Ed infine le società: l’Istituto Achille Grandi, l’Entour, Aesse comunicazione, mensile dell’associazione completamente rinnovato nella grafica e nei contenuti, e Acli procedure integrate (Api).
Un vero e proprio “sistema”, fatto – come sostengono gli aclisti di due anime: una spirituale e una socio-culturale. Una doppia vita, inoltre, che cerca di rispondere in ogni momento alle tre fedeltà delle Acli: fedeltà ai lavoratori, alla democrazia e al-
società
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Il presidente Olivero racconta obiettivi e strumenti delle Acli
Le vie del Signore passano per il 730 ancia una coalizione mondiale per il lavoro dignitoso. Raccomanda al ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, di mettere mano al più presto mano alla riforma degli ammortizzatori sociali. Ammonisce: «Siamo agli ultimi posti, tra i paesi europei, per tutela dei lavoratori». E rilancia sulla necessità di investire nella «formazione continua del personale», come ricetta per aumentare la competitività dell’Italia a livello internazionale. Andrea Olivero, 38 anni, insegnante di lettere classiche a Cuneo, ha chiesto l’aspettativa di due anni per poter svolgere il suo incarico di presidente delle Acli. Per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa, Olivero ribadisce il suo valore intrinseco sul piano dei principi, anche se a suo avviso, «andrebbe riadattata all’era della globalizzazione». Presidente, qual è l’identità e lo scopo delle Acli? In primo luogo, come associazione cristiana dei lavoratori, il nostro scopo è affermare la centralità dell’uomo e il fatto che il lavoro è uno strumento per collaborare al progetto di Dio e, quindi, possiede una sua intrinseca dignità. Questo lo facciamo attraverso i circoli, ce ne sono 6.000 in Italia, nei servizi che offriamo alle persone, nelle parrocchie, dove cerchiamo di far riflettere sulle tematiche del lavoro. D’altra parte si può testimoniare il Vangelo anche aiutando le persone a fare la dichiarazione dei redditi. Ma ci adoperiamo anche in altri ambiti: accoglienza agli stranieri, lavoro ampio per l’integrazione sociale, attenzione alla povertà materiale e sociale. Come fate a portare avanti tutte queste attività? Sicuramente un grande aiuto ci viene offerto dai volontari. La nostra associazione è, in realtà, un’associazione di promozione sociale e non di volontariato. Ma sono moltissime le persone che ci regalano parte del loro tempo. Certamente, tra i nostri scopi, c’è anche quello di affiancare un’elaborazione culturale al servizio concreto. Negli anni passati, infatti, è mancata la consapevolezza delle sfide reali che abbiamo di fronte. E per questo non siamo riusciti a collocare il nostro impegno in un quadro più ampio. La domanda è come riattualizzare la dottrina sociale della Chiesa. Elemento che non è mai statico: è il Vangelo che si mette al servizio dell’uomo di oggi. Ciò vuol dire che, pur rimanendo saldi i principi, cambiano le soluzioni concrete. La dottrina sociale era nata per un modello fordista. Ora il compito è quello di creare soluzioni concrete in risposta alla globalizzazione. Lo stesso Wojtyla, in un incontro con le Acli, ci aveva lanciato questa sfida: «Globalizzate la solidarietà». Come pensate di raggiungere questo obiettivo? Creando una coalizione mondiale per il lavoro dignitoso. D’altra parte non abbiamo scelta: le sfide del lavoro devono essere affrontate in modo globale. Anche perché se non agiamo a livello globale, la
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la Chiesa. Fu Dino Pennezzato, presidente nazionale dal ’54 al ’60 ad elaborare per la prima volta queste idee. Ecco le sue parole pronunciate in occasione del primo maggio ’55, festa dedicata ai lavoratori cristiani: «Una triplice fedeltà guida e illumina il nostro impegno di oggi e di sempre. Fedeltà alla classe lavoratrice. È una fedeltà che ci è facile, che è naturale, che abbiamo nel sangue, perché noi siamo lavoratori, perché viviamo ed operiamo nelle fabbriche, negli uffici, nei campi. Fedeltà alla democrazia: alla democrazia del nostro Paese, e ancor meglio al nostro Paese, nelle sue tradizioni e nelle sue leggi, nella sua storia e nel suo divenire. Fedeltà alla Chiesa: una fedeltà dolce e forte che segna e accompagna tutta la nostra vita. È la fedeltà gioiosa che libera e promuove, che rende potente anche la pochezza e sicuro il cammino di là da ogni incertezza: la splendida fedeltà nella verità». Tre pilastri che hanno sempre accompagnato l’Associazione, aiutandola a superare anche i confini nazionali. E a resistere alla forza corrosiva del tempo: attualmente infatti è presente in quasi quaranta paesi nel mondo, tra cui i Balani, le ex repubbliche sovietiche, la Grecia, l’America del Sud, il Messico e l’Africa.
Sopra Pio XII mentre benedice la folla in piazza San Pietro, istituendo la festa cristiana di S. Giuseppe artigiano; in alto un corteo di ”aclisti” nel ’55 in via dei Fori imperiali per l’istituzione del 1° maggio cristiano A destra, un primo piano del presidente nazionale Andrea Olivero nell’ultimo congresso. Nella pagina precedente Giovanni Paolo II mentre bacia un neonato con il foulard delle Acli. Le foto provengono dall’archivio Acli
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tutela è impossibile. Se tutelo il lavoro in Italia, può capitare che per sottrarsi alle regole, l’impresa si trasferisca all’estero, magari utilizzando personali italiani. Recentemente ho fatto quest’esperienza con un’impresa italiana in Romania, dove i lavoratori venivano tutelati meno che in Italia. Oppure può capitare che un’impresa rumena utilizzi dei lavoratori cinesi, con la conseguenza che questi siano ancora meno tutelati di quelli rumeni. Che consigli si sentirebbe di dare al ministro del Lavoro? In primo luogo chiederei al ministro di completare la legge 30 elaborata dal professor Marco Biagi, e di completare la riforma degli ammortizzatori sociali. Diciamo sì alla flessibilità, ma non possiamo accettare un’insicurezza perenne. I giovani devono avere assicurata una continuità nel lavoro: insomma a loro deve essere garantita la possibilità di accendere un mutuo o avere una continuità sia dal punto di vista del reddito che da quello dei contributi previdenziali. Siamo agli ultimi posti nelle classifiche europee per tutela del lavoro. Poi suggerirei al ministro Sacconi di agire per assicurare la formazione continua dei lavoratori. Essi sono la risorsa più preziosa del nostro paese, eppure l’Italia è agli ultimi posti nelle graduatorie europee per formazione continua, cioè la formazione che il lavoratore deve ricevere per essere sempre aggiornato anche dopo l’inserimento nel mondo del lavoro. Certo, poi ci sarebbe da potenziare anche la formazione d’ingresso, quasi del tutto inesistente. Qual è il legame dell’Associazione con la Santa Sede? Abbiamo un legame molto stretto con i vescovi. L’Associazione ha un assistente spirituale nominato dalla Conferenza episcopale. In questi anni abbiamo seguito le linee segnate dai pastori. Il lavoro è un luogo di frontiera, dove sono presente credenti e non credenti. E anche nelle Acli accade la stessa cosa: ai nostri servizi accedono anche persone che non hanno la fede. Si fa testimonianza cristiana: è una pastorale legata di più agli aspetti sociali. Nel 2007 avete preso parte attiva al Family day. Che nesso c’è per voi tra la difesa della famiglia e la tutela del lavoro? Non ci si può occupare solo di un aspetto della vita delle persone. Difendere la famiglia, un soggetto, che deve avere visibilità, ed è stato cancellato. D’altra parte c’è un legame forte tra lavoro e famiglia. Negli anni è cambiato il ruolo del lavoro nella società: prima era solo un meccanismo per produrre reddito. Oggi dal lavoro dipendono cose di vitale importanza. Ad esempio, a seconda dal lavoro che si svolge, si riesce o meno a costituirsi una famiglia. E si decide anche la struttura da dare: se avere o meno i figli. Insomma è necessario guardare il lavoro in un contesto più ampio, altrimenti è impossibile tutelarlo. F.R.
Il Vangelo si può testimoniare anche aiutando a compilare la dichiarazione dei redditi
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mondo
Oggi gli irlandesi decidono se ratificare o meno il Trattato di Lisbona
Europa-Irlanda problemi di coppia di Maria Maggiore
BRUXELLES. Se non fosse per i pescatori franco-italiani, furibondi per il caro-petrolio nelle strade di Bruxelles, saremmo tutti avvolti in un generale e, naturalmente finto, «volemose bene», in attesa del referendum irlandese di giovedi. Niente dossier spinosi, silenzio sul libro bianco sulla difesa della prossima presidenza francese, rimandata al 16 giugno l’audizione del neocommissario Tajani all’Europarlamento. L’Europa trattiene il fiato e evita tensioni perchè quello che doveva essere un passaggio di routine, si è trasformato in un delicato test di sopravvivenza dell’Unione. Giovedi quattro milioni e duecento mila abitanti della piccola Irlanda terranno inchiodati fino a notte fonda 495 milioni di europei. Se vincerà il «Si» cominceremo a costruire, a piccoli passi, un’Europa politica a 27, con il voto a maggioranza in quasi tutte le materie, un presidente stabile dell’Europa, uno pseudo-ministro degli esteri e un peso più importante al Parlamento europeo eletto a suffraggio universale. Ma se i «No» avranno la meglio, rivivremo l’incubo del 2005, quando Francia e Olanda bocciarono l’ormai defunta Costituzione mettendo l’Europa in una crisi d’identità senza precedenti. Gli ultimi sondaggi in arrivo da Dublino sono preoccupanti. Il fronte del «No», finora considerato perdente, ha recuperato e, venerdi scorso, secondo il Sunday Times, i «No», al 35%, avevano sorpassato i «Si» al 30%. A Bruxelles la Commissione europea, di solito neutrale, ha invitato gli elettori irlandesi a non disertare le urne. Perchè seppur domenica un nuovo sondaggio ridava i “Si” vincenti, 42 percento contro 39 percento per i «No», esiste un 28% d’indecisi. Ecco perchè nelle ultime ore di campagna, la parola d’ordine è «al voto». Gli irlandesi riceveranno mitragliate di inviti a votare. La prima della classe, l’allieva povera entrata nell’Ue nel ’73, si
è persa per strada? L’isola che ha ricevuto 56 miliardi di euro in fondi europei, di cui 41 solo per l’agricoltura, il Paese modello che investe il 6 percento del Pil in ricerca scientifica e attira ogni anno imprese straniere grazie all’aliquota fissa al 12,5, ha voltato le spalle a mamma Europa?
Eppure i partiti politici sono quasi tutti per il «Si», tranne la sinistra nazionalista del Sinn Fein e l’estrema destra cattolica. Come dice il ministro degli affari europei, Dick Roche, il fronte del «No» – sponsorizzato anche dagli americani, nel tentativo di affossare l’Europa – come in Francia nel 2005, per fare proseliti utilizza menzogne e
Il rischio è che il fronte del No azzeri gli sforzi comunitari, senza nemmeno la valvola di sfogo del ritorno al voto dopo qualche mese
paure collettive. In Irlanda ciò vuol dire la perdita della tradizionale neutralità dell’isola, la rinuncia al divieto dell’aborto e il terrore di perdere la libertà fiscale martellata in queste ore dalla potente lobby degli imprenditori Libertas. Il primo ministro Brian Cohen e la sua coalizione di centro-destra si dicono «tranquilli» che il referendum vincerà e l’Europa avrà il suo Trattato. Ma, si è visto con la Francia e l’Olanda, quando si tratta di Europa, si creano strane alleanze trasversali. E se vince il «No»? Per Bruxelles niente «Piani B». «Le ratifiche negli altri Paesi vanno avanti», si ripete. Ma senza l’Irlanda il Trattato non entrarà in vigore il primo gennaio 2009. La prima conseguenza sarebbe un ritardo di tutto il calendario soprattutto per le nomine d’«oro»: Presidente dell’Unione e ministro degli esteri, andrebbero nel congelatore, con buona pace di Sarkozy, che non potrebbe più attribuirsi il merito delle nomine. Ma che fare poi del «No» irlandese? «Si rimanda il Paese al voto», affermano i diplomatici. Come nel 2001, dopo il «No» al Trattato di Nizza. Mesi dopo un nuovo referendum ribaltò il voto.
Ma ora è diverso. Il precedente francoolandese impedisce di tornare al voto. È altresì sicuro che il Trattato non verrebbe rimaneggiato un’altra volta. Si negozia un nuovo testo da ormai quasi dieci anni. Col no franco-olandese, l’ambiziosa Costituzione europea è stata già ridimensionata in un più modesto Trattato. Ora basta. L’esperienza fa pensare ad aggirare il problema con un tipico marchingegno europeo: concedere, per esempio, tanti opt-out all’Irlanda (la possibilità di non partecipare ad alcune politiche Ue) per evitare il referendum e approvare il trattato per vie parlamentari. Il trionfo dell’Europa alla carta, sempre più in voga di questi tempi.
Conferenza per l’Afghanistan
Tutti con Karzai di Antonio Picasso a conferenza sull’Afghanistan di Parigi, è un appuntamento importante: per il Presidente afghano Karzai, per gli ottanta donatori impegnati nella difficile opera di normalizzazione del Paese. La condizione che si percepisce è di frustrazione. Frustrazione degli occidentali – soprattutto degli Usa – che non riescono a trovare il bandolo della matassa contro i talebani e troppo vincolati a un governo nazionale ambiguo e debole. Ma frustrazione anche dell’esecutivo di Kabul. L’ottimismo delle «alte sfere» – il comandante delle truppe britanniche in Afghanistan, generale Carleton-Smith, ha detto che i talebani sono in rotta – stride con l’aumentare delle vittime. Proprio gli inglesi hanno toccato la quota di cento morti tra i loro soldati. Nemmeno la buona volontà – tra cui quella italiana di rivedere i «caveat» – appare risolutiva. Altri problemi, poi, pesano sulle spalle di Karzai. L’Fmi ha rivisto al ribasso le stime del Pil afghano, dal 7,5% al 7%, per il 2006-07 e 2007-08. L’Afghanistan continua a essere il primo produttore mondiale di oppio. Il mercato mondiale del narcotraffico si regge al 93% sull’eroina afghana. Ieri i giornali inglesi sono tornati ad accusare il fratello di Karzai, Wali, di implicazioni con i «signori della droga». Karzai chiederà oggi a Parigi un nuovo sostegno di 50 miliardi di dollari, per la conversione dell’agricoltura e il rilancio dell’economia. Difficile il nulla osta.Tuttavia si può fare diversamente? A ben guardare però qualcosa di buono forse c’è. Nel contesto delle operazioni di peacekeeping – oltre all’impegno dei nostri soldati – il compito di ricostruzione è sicuramente produttivo. La ricostruzione di strade, ponti, scuole e il tentato ripristino di un sistema giudiziario risultano in controtendenza con le difficoltà insolute. Tuttavia il mancato coordinamento tra i Prt di ciascun Paese è fonte di squilibri e crea spazi di azione per le forze talebane. Cominciare dalla loro armonizzazione potrebbe essere già un passo avanti.
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Analista Ce.S.I. Centro Studi Internazionali
mondo
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William Hague traccia il bilancio di un mese formidabile per i conservatori
Grazie Blair ma ora tocca a noi colloquio con William Hague di Duncan Carrie eduto nella hall dell’hotel Le Parker Meridien di Manhattan, William Hague spiega la posizione del partito Conservatore britannico in tema di Ue. «Vogliamo stare in Europa, ma non essere gestiti dall’Europa» afferma, ripetendo uno slogan del suo partito all’epoca in cui ne era il leader. Hague, 47, è ora ministro degli Esteri del governo ombra conservatore. Tradizionalmente l’Europa è sempre stata una questione delicata per i Tories e gli euroscettici del Regno Unito. «Siamo contrari ad una maggiore integrazione politica in Europa» sottolinea Hague.
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Perché? Potrebbe portare ad una politica estera comune dell’Unione europea, il che complicherebbe le relazioni dei singoli Paesi membri
David Cameron e William Hague con gli Usa. Sgombriamo il campo da ogni equivoco, afferma: i Tories sono favorevoli al mercato unico europeo e preferiscono che vi sia un’impostazione europea improntata all’unità nei confronti della Russia. «Ci consideriamo europeisti», afferma. In realtà i Tories sono fermi oppositori del Trattato di Lisbona e non sosterranno «mai» l’adozione dell’euro. In ogni discussione sull’Unione si finisce immancabilmente per parlare dell’allargamento. «In Gran Bretagna, si registra un consenso a favore dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea», afferma. Ciò è dovuto principalmente a motivazioni geopolitiche. Hague sostiene che la prospettiva di entrare a far parte della Ue incoraggerebbe ulteriori
riforme nazionali in Turchia ed avrebbe un impatto positivo sulla diplomazia turca. A livello nazionale, il suo partito ha avuto un formidabile mese di maggio; è stato l’unico mese positivo per i Tories da quando hanno perso il controllo del Parlamento nel 1997. Il primo maggio hanno ottenuto ottimi risultati alle elezioni locali ed hanno trionfato nella sfida per il sindaco di Londra. Successivamente, il 22 maggio, hanno anche vinto le elezioni suppletive nella circoscrizione parlamentare di Crewe e Nantwich, indette dopo la morte del parlamentare laburista Gwyneth Dunwoody. Vi è «un’enorme insoddisfazione da parte dell’opinione pubblica» nei confronti del governo laburista del primo Ministro Gordon Brown, so-
Contro la maggiore integrazione del continente europeo i Tories sono fermi oppositori del Trattato di Lisbona e non sosterranno ”mai” l’adozione dell’euro stiene Hague. Egli ritiene che molti elettori delusi dai laburisti stiano ora passando all’altra sponda. Ma Hague afferma altresì che al leader del Partito conservatore, David Cameron, va riconosciuto il merito di avere definito un’agenda politica riformista. «Tutto ciò che stiamo facendo è applicare i principi conservatori ai problemi di oggi», sostiene Hague. Negli anni ottanta del secolo scorso, la Thatcher dovette af-
frontare problemi quali la guerra fredda, il gran potere dei sindacati e le industrie nazionalizzate. Oggi Cameron si sta concentrando sulla famiglia, sulla crisi sociale, sull’istruzione e sulla riforma della previdenza sociale. Ha anche abbracciato le tematiche dell’ambientalismo. Su questa questione la leadership del Partito conservatore è in sintonia con la posizione relativamente ambientalista di John McCain, della Conferenza annuale del Partito conservatore nel 2006.
Dopo aver parlato dei travagli del Partito laburista chiedo ad Hague di dirmi cosa pensa dei risultati conseguiti da Tony Blair. Hague ricorda l’accordo di pace raggiunto con l’Irlanda del Nord, noto come Good Friday Agreement, firmato nel 1998. A Blair «andrebbe riconosciuto questo grande merito» afferma Hague, che si sorprende della trasformazione che si è verificata in Irlanda del Nord. Sottolinea che l’accordo di pace «è vero — e gli americani lo devono sapere. E ciò è fonte di grande gioia». Per quanto riguarda, in termini più generali, il New Labour, Hague afferma che «si è rivelato un contenitore piuttosto vuoto». Blair non è riuscito a conseguire cambiamenti stabili e sostanziali nel settore dei servizi pubblici ed a trasformare il Partito. Hague ritiene che i Laburisti stiano ora andando alla deriva tornando ai loro «vecchi istinti». Naturalmente l’eredità di Blair è legata alla guerra in Iraq. Hague era— e resta— un fautore di quella guerra, ma riconosce il fatto che l’opinione pubblica britannica si è rivoltata contro quella guerra e sarà ora «inevitabilmente più scettica» verso altre richieste di intervento. Per quanto riguarda l’Iran, Hague si duole del fatto che, almeno politicamente, l’U.S. Nie, della fine del 2007, abbia fatto venire meno l’urgenza del problema nucleare. È stato «alquanto negativo» afferma, in quanto il problema non è venuto meno e l’Occidente deve essere unito nell’opporsi a Teheran. È del tutto a favore dell’impostazione «bastone e carota», ma insiste sul fatto che il «bastone» debba avere più chance della carota.
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Serbia, preso Zupljanin Il comandante delle forze di sicurezza serbo-bosniache nella guerra nei Balcani, Stojan Zupljanin, uno dei criminali di guerra più ricercati, è stato arrestato ieri a Belgrado da unità speciali della polizia e dei servizi segreti. L’ordine di cattura era stato emesso dal Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Il 56enne è accusato di aver commesso, tra il 19921995, diversi crimini contro l’umanità, soprattutto quelli connessi alla pulizia etnica.
Cina-Taiwan, prosegue il disgelo Rappresentanti di Taipei sono giunti a Pechino per una visita che si annuncia storica. Ufficialmente si tratta di un invito da parte dell?Unione per le relazioni per gli stretti del mare di Taiwan. In realtà oggi riparte il dialogo con i vertici cinesi, interrotto nove anni fa.Venerdì dovrebbero riprendere i voli diretti tra le due parti della Cina e iniziare le facilitazioni per i turisti dei due Paesi. La delegazione, 19 membri, è guidata da Chiang Pin-kung, presidente della commissione taiwanese per gli scambi.
Ucraina, crisi di governo Kiev rivede lo scenario che si è ripetuto diverse volte dal 2004. Due deputati della coalizione governativa, Igor Rybakov e Juri But, hanno lasciato la maggioranza. I due comunque non hanno intenzione di dimettersi da deputati, permettendo cosi elezioni supplettive. La coalizione governo formata da partiti vicini al presidente Yuschenko (nella foto), Nostra Ucraina e il blocco Bjut, con 225 seggi su 450 mandati parlamentari, ha ora perso la maggioranza assoluta. La crisi potrebbe avere ripercussione sulle elezioni presidenziali che, al più tardi, dovrebbero svolgersi nel 2010.
Londra, più dura la legislazione anti-terrore Il nuovo voto sulla nuova legge antiterrorismo, rappresenta l’ennesima prova del fuoco per il primo ministro britannico Gordon Brown. Una delle norme più a rischio di bocciatura è il periodo di detenzione preventiva che passa dagli attuali 24 giorni a 42. Se il provvedimento verrà approvato, ciò avverrà con una maggioranza risicata. Diversi deputati del partito laburista hanno dichiarato che voteranno contro la nuova norma. Già con la norma precedente la Gran Bretagna era il Paese che aveva il più lungo periodo di carcerazione preventiva.
Israele, Livni potrebbe guidare Kadima Il primo ministro israeliano, sotto pressione a causa di un affare di corruzione, intende farsi sostituire alla guida del partito Kadima. Mercoledì il capo del governo dello Stato ebraico ha dichiarato che presto si terranno elezioni interne per scegliere il nuovo leader. I candidati più probabili alla successione sono il ministro degli interni Livni e quello ai trasporti Mofaz. La sostituzione alla guida del partito potrebbe segnare la fine della carriera politica di Olmert.
Il sogno dell’energia solare del Sahara Alimentare il bisogno energetico europeo con l’energia termica ricavata dal sole del deserto africano. Tecnicamente è fattibile ma sarà mai realtà? Sei ore di calore della regione più desertica del mondo sarebbero sufficienti a coprire il fabbisogno energetico mondiale. Da anni è questo il sogno degli scienziati: far vivere l’Europa di questa fonte. La realtà sembra ora smentire le previsioni. Un centro di ricerca tedesco ha reso noto che entro il 2050 serviranno circa 400 miliardi di dollari per coprire il 15 per cento dei bisogni europei.
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speciale educazione
Socrate
Il ministro dell’Istruzione annuncia aumenti retributivi per la classe docente, ma si tratta di una misura utile se inquadrata in un piano di interventi strutturali
LIBERTÀ DI SCELTA E AUTONOMIA: MISSIONE POSSIBILE di Luisa Santolini
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n questi giorni il Parlamento italiano è molto impegnato a discutere su questioni che hanno tenuto banco nella campagna elettorale, temi certamente importanti sui quali il Governo gioca una partita decisiva. Tuttavia ci sono altre emergenze ed altre priorità che sembrano dimenticate e di cui nessuno parla. Una di queste è il sistema scolastico del nostro Paese, e in particolare il riconoscimento della libertà di scelta educativa delle famiglie. Una questione che implica in primo luogo la sopravvivenza delle scuole non statali, e il futuro della scuola italiana in generale. La legge sulla parità scolastica n. 62 del 10.3.2000 – allora era al Governo il centro sinistra fissa i diritti e gli obblighi delle scuole non statali (private e degli enti locali) che chiedono la parità; intende, con la sua disciplina, assicurare alle scuole paritarie piena libertà, ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole statali.
La stessa legge avvia un minimo di normativa sul diritto allo studio ed all’istruzione, dando, sotto questo profilo, attuazione anche all’art. 31 Cost. in ordine alle agevolazioni da assicurare alle famiglie per l’adempimento dei compiti relativi all’istruzione rispetto ai quali i genitori hanno il dovere ed il diritto di provvedere (art. 30 Cost.); infatti, nel comma 9 dell’art. 1 della legge, è previsto un piano straordinario di finanziamenti alle regioni «da utilizzare a sostegno della spesa sostenuta e documentata dalle fa-
miglie» per l’istruzione. Al tempo stesso, la legge si conforma a quanto richiesto dal nuovo testo del Titolo V nell’art. 118, ultimo comma, in tema di sussidiarietà. Si adegua, infine, ai principi di libera concorrenza, di libero mercato e di mobilità nelle prestazioni dei servizi stabiliti nei trattati dell’Unione Europea, assicurando l’istituzione di un sistema nazionale di istruzione che permetta l’espansione dell’offerta formativa (comma 2), aprendosi alla partecipazione di tutti i soggetti operativi qualificati, non solo italiani, ma anche di provenienza europea, che intendano concorrere alla realizzazione delle finalità che la legge stabilisce. A tal fine la legge disegna un sistema di prestazione dei servizi articolato, pluralistico e concorrenziale e individua le famiglie come soggetti operativi nella scelta.
È bene chiarire che la Costituzione, checché ne dicano i nemici della parità scolastica, in virtù del combinato disposto degli Articoli 2, 3, 30, 31, 33, 34, garantisce che il sistema scolastico è un sistema giuridico misto i cui soggetti sono in posizione paritaria, che tutti i suoi fruitori accedano al bene pubblico dell’istruzione senza discriminazioni in ordine alle scelte scolastico-educative, che i cittadini italiani possano affidare allo Stato-Persona il compito di provvedere alla copertura finanziaria dell’offerta del Servizio Pubblico Integrato dell’Istruzione da parte degli istituti non statali e statali. I destinatari diretti di tale impegno finanziario
sono i genitori degli alunni o chi ne fa le veci; i soggetti avvantaggiati da tale copertura finanziaria sono gli alunni. Infine in relazione al diritto di scelta educativo-scolastica ed alla libertà di accesso agli istituti scolastici non statali o statali (diritti sociali costituzionali) viene imposto alla Repubblica Italiana, in tutte le sue articolazioni politico-territoriali e/o amministrative di esigere una sola volta dai genitori (o da chi ne fa le veci) il pagamento del Servizio Pubblico (statale o non statale) dell’istruzione. Infine dalla riforma del Titolo V della carta Costituzionale emerge ancora più chiaramente la tutela della libertà di scelta educativa delle famiglie quale obiettivo fondamentale di uno Stato democratico, ma è evidente che tale scelta non potrà mai essere garantita se comporta penalizzazioni economiche per le famiglie. È diventato perciò urgente l’obiettivo di rendere il ”sistema scuola”più rispondente alla attuale domanda formativa, adeguandola ai modelli istituzionali degli altri Paesi europei che da tempo riconoscono lo stesso valore al servizio scolastico pubblico, svolto sia da enti statali che non statali. La questione è resa ancora più urgente dalla situazione drammatica del sistema scolastico italiano. Il nostro è un sistema che, per un certo tempo, è riuscito a fornire un sufficiente livello di istruzione ad una larga fascia di giovani. Ma oggi, e purtroppo da tempo, la scuola italiana è sempre più dequalificata, con il risultato che, pur essendo di massa è diventata para-
Più poteri di gestione agli istituti, entro un quadro definito a livello nazionale dossalmente elitaria: solo chi può pagare può accedere a valide alternative. Con il risultato brillante che i ricchi si possono permettere di scegliere la scuola che preferiscono per i loro figli, mentre le famiglie meno abbienti sono condannate a far frequentare ai loro figli una scuola che possono non gradire solo perché non si possono permettere scelte diverse. È necessario favorire un pluralismo dell’offerta formativa, una vera libertà di iniziativa e di scelta educativa che possa promuovere e sviluppare progetti educativi forti, coerenti
e condivisi. È necessario lasciare una larga autonomia di definizione e gestione delle istituzioni scolastiche, entro un quadro definito e condiviso di linee-guida a livello nazionale e regionale. Troppo spesso si tiene conto esclusivamente del modello statale, anche solo per cercare di correggerne i limiti, con effetti paradossali.
La libertà, la maggiore partecipazione, la democrazia, non si attuano tanto nell’applicazione estensiva di un unico sistema di governo delle scuole, an-
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Merito, pedagogia leggera e curricula flessibili sono prioritari
Bene gli stipendi, ora la riforma di Giuseppe Lisciani l ministro Gelmini, nella audizione alla Commissione cultura della Camera, ha detto, fra l’altro, un paio di cose strutturali, fondate entrambe sul criterio del merito: aumentare gli stipendi agli insegnanti e prendere iniziative per promuovere l’autonomia. In effetti, il discorso del ministro rischia di fare tanto rumore senza promettere nulla, poiché non ha indicato nessun percorso praticabile per così ambiziosi obiettivi. Personalmente, trovo più intrigante e più adatto all’argomento di cui si parla, cioè la scuola, pronunciare obiettivi e ipotizzare percorsi partendo dalla “expertise” dell’insegnante, cioè pedagogia e didattica. Mi piacerebbe oggi proclamare la «libertà di scuola», con la stessa carica di carisma e civiltà con cui, a suo tempo, è stata proclamata e difesa la libertà di stampa: in una democrazia degna di questo nome, la libertà di stampa non è una concessione ma un diritto, e così dicasi per la libertà di scuola. Ma come stanno le cose nel democratico nostro Paese? Non al meglio. In primo luogo, la libertà di scuola non esiste, c’è in campo il suo surrogato nobile, l’«autonomia». Con una rapidissima divagazione di natura semantica, si potrebbe appunto osservare che la libertà è di diritto, mentre l’autonomia è in concessione.
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che se autonome, peraltro scarsamente efficace per non dire fallimentare, quanto piuttosto nel consentire, incentivare e promuovere la libertà educativa nella definizione del progetto, nella possibilità di scelta delle famiglie e, infine, nella libertà di intraprendere. La sfida e la soluzione dei tanti problemi che affliggono la scuola italiana è nel garantire alle famiglie, senza distinzione di censo e di classe sociale, la libertà di scegliere la scuola che ritengono più opportuna per i loro figli. E il nuovo compito della scuola deve essere quello di affiancarle nel loro difficile e spesso solitario compito di crescere ed educare i figli. Si aprirà presto nel Paese un dibattito serio e non ideologico su questo tema? E’ quanto mi auguro per il bene di tutti e soprattutto dei nostri figli.
In secondo luogo, e a tal proposito, consultate la legge 15 marzo 1997, n. 59, cioè l’attuale legge di riferimento sull’autonomia del sistema educativo: nell’Art. 21 si legge che l’«autonomia delle istituzioni scolastiche» si dovrà realizzare, sì, ma «fermi restando [...] gli elementi comuni all’intero sistema scolastico pubblico in materia di gestione e programmazione definiti dallo Stato». Il che non è precisamente in linea con la «libertà di scuola», che prevede Istituti scolastici, o reti o filiere di Istituti, come libere imprese impegnate ad essere efficienti e produttive in regime di concorrenza. Una cosa, comunque, è il concetto in base al quale si progettano nuove libertà, altra cosa sono i ritmi e le strategie da adottare nella realizzazione dei progetti. La pratica dell’autonomia (e della libertà di scuola) mette in evidenza due componenti interattive, la organizzazione-amministrazione e la pedagogia: si pone, così, il problema da che parte cominciare; e si pone anche la volontà di procedere per gradi, ricorrendo ad una sorta di“astuzia della riforma”, per evitare irruzioni traumatiche in una scuola, quale è quella italiana, già fortemente provata da improvvisazioni gestionali e capricciosità politica. Risponderò a entrambe le questioni affermando il «primato della pedagogia»: se non altro, perché essa è – o dovrebbe essere – la “professionalità operante”di tutti gli insegnanti (anche se, a dire il vero, lo è soprattutto nella scuola primaria). La pedagogia a cui faccio riferimento non è quella che io chiamo «pedagogia pesante», ricca di convincimenti prestabiliti che distribuisce alle nuove generazioni in linguaggio non operativo, spesso autoreferenziale, quasi sempre nido di di-
scorsi e dibattiti senza fine. Io mi riferisco, invece, a quella che, di contrappeso, chiamo «pedagogia leggera». Questa pedagogia procede secondo il «linguaggio operativo» che Hubert M. Blalock jr reclama come condizione irrinunciabile per dare un senso a qualsiasi ipotesi che abbia aspirazioni scientifiche (cfr. Satistica per la ricerca sociale, 1960, trad. it. Bologna 1969). Ridotto all’osso, si potrebbe descrivere in questi termini il comportamento della «pedagogia leggera»: 1. Il responsabile del «curricolo» formula gli obiettivi di apprendimento come ipotesi di risultato.
giovedì scorso su «liberal», «il “curricolo“ è padre e madre di ogni riforma».
2. Stabilisce, quindi, i mezzi, i tempi e le azioni che consentono di raggiungere l’obiettivo (confermando così l’ipotesi). 3. Infine, verifica se l’obiettivo è stato raggiunto o no e, possibilmente, in quale misura. 4. Le fasi debbono essere descritte e protocollate nel «linguaggio operativo» (potremmo anche dire «in termini di comportamento visibile e rilevabile»).
didattica ed epistemologica nelle diverse discipline, ivi compresa la tecnica dell’insegnare. Non c’è molto altro da fare. Il cambiamento, poi, si può realizzare con gradualità, come ragionevolmente esige la attuale traballante situazione italiana. Magari cominciando dalla scuola primaria, che ha maggiore dimestichezza con la pedagogia rispetto agli altri ordini di scuola (e promuovendo anche altrove tale “dimestichezza”). Lo Stato, nel frattempo, dichiarerà la propria rinuncia a produrre ulteriori programmi o indicazioni sui contenuti dell’insegnamento. Poi, quando finalmente molte scuole saranno in grado di esibire, in regime di concorrenza, i propri successi per accaparrarsi i migliori insegnanti e il maggior numero di studenti, beh, allora potremo dire che stiamo coltivando, nel nostro Paese, non solo la libertà di stampa ma anche la libertà di scuola. Con straordinari vantaggi economici, se è corretto lo studio dell’Agesc secondo il quale, grazie alle scuole private esistenti, nell’anno scolastico 2005-2006 lo Stato ha risparmiato oltre sei miliardi di euro.
Questo modo di procedere è abbastanza duttile e consente di progettare e governare il «curricolo». Il quale, detto in estrema sintesi, altro non è che la scelta delle discipline con i relativi obiettivi, la scelta dei mezzi e dei tempi, la progettazione delle verifiche. Chi ha la responsabilità del «curricolo» ha, di fatto, la responsabilità del successo o dell’insuccesso di un istituto scolastico. Se gli insegnanti avranno la responsabilità assoluta del «curricolo» (cioè assoluta autonomia nella concezione, redazione e applicazione), avremo compiuto un passo decisivo verso la «libertà di scuola» o, almeno, verso l’autonomia del sistema educativo. Poiché, come già scrivevo
Se la politica vuole dare il via all’operazione, basta che lo dica, con chiarezza e pacatezza. E basta un gesto semplice e senza spesa: abrogare o mettere in qualche modo a tacere i programmi (o indicazioni che dir si voglia) dello Stato: sarà enormemente più serio e confortevole attivare, in sostituzione, uno o più centri nazionali – o centri regionali – di informazione, in continuo aggiornamento, dove le scuole possano attingere, anche per via telematica, i dati più recenti della ricerca
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speciale educazione
Socrate
Lo stato dell’arte visto dagli occhi di un insegnante che ne vive ogni giorno pregi e difetti
Sopra la panca la maestra canta di Alfonso Piscitelli entre il Bossi ancora cerca il suo federalismo, ondeggiando tra diplomazia parlamentare e appelli a mitologici fucili, la scuola ormai da anni ha la sua “autonomia”organizzativa. Qualcosa in più che non un semplice decentramento di funzioni. Andiamo a vedere come funziona, cosa ha prodotto, cosa ha lasciato sulla carta. Va premesso che il modello della autonomia scolastica – pur avendo alla sua origine l’impostazione data da Bassanini nella sua riforma della pubblica amministrazione – ha attraversato in forma inalterata nella sua sostanza gli anni dei governi D’Alema e Amato, il primo quinquennio berlusconiano, il biennio finale di Prodi ed ora che Berlusconi è tornato al timone non sembra che si profilino all’orizzonte cambiamenti significativi del sistema. Dunque lo si può considerare un dato acquisito per la scuola italiana degli anni Duemila. Ma prima di esprimere un giudizio sulla effettiva funzionalità del modello cerchiamo di capire come si declina l’autonomia nei suoi vari aspetti.
L’autonomia organizzativa consente alle scuole di articolare le ore di lezione e di impiegare i docenti secondo criteri che rispondano a esigenze proprie; di arricchire il percorso di studi di un istituto con discipline e attività facoltative o anche di creare reti tra le scuole per la realizzazione di un progetto educativo. L’autonomia finanziaria consente di gestire dal basso i finanziamenti dello Stato, le entrate proprie o anche i proventi delle sponsorizzazioni da parte dei privati. Ovviamente, da un lato viene concessa alle scuole una più ampia libertà d’azione, dall’altra si stabilisce una puntigliosa rete di paletti, di standard per evitare che l’autonomia sfoci in italica anarchia. Quando si tratta dei capitoli spese in verità il controllo è
Autonomia didattica vuol dire che il famoso programma ministeriale – che tanto angosciava i professori della generazione precedente al ’68 – se ne va in soffitta. Rimangono indicazioni nazionali per tutte le discipline ma si amplia notevolmente la flessibilità nella scelta degli argomenti da insegnare, dei metodi per farli capire.
abbastanza severo e i dirigenti scolastici stanno sempre molto attenti a non fare scelte che in seguito rischierebbero di pagare di tasca propria; a loro volta i direttori amministrativi controllano che in ogni progetto presentato dai docenti siano rigorosamente rispettate le voci di spesa prima di concedere i fondi.
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La discrezionalità attuale si limita a liberare la vena lirico-teatrale dei docenti Sul versante della didattica i controlli si fanno invece più ballerini. Da quando è stata data ai docenti la possibilità di elaborare – al di fuori dell’orario canonico di lezione – progetti (ovvero attività didattiche svolte per una serie di ore pomeridiane secondo un programma ideato per l’occasione) si è scatenata la vena artistico-musicale-
teatrale oppure quella solidaristapacifista dei nostri prof. In un Paese in cui il logaritmo oppure il ruolo storico di Badoglio sono oggetti volanti non identificati per una larga fetta di studenti, tutto un profluvio di progetti-musical o di progetti di fittizia “educazione alla pace” si è riversata sulle scuole italiane. E inoltre, ci dice l’ispettrice Annamaria Schiano, «manca ancora la capacità di progettare attività didattiche tali da rendere l’alunno consapevole del fatto che le conoscenze esistono non solo nei libri di testo, ma anche nell’ambiente circostante». Insomma manca ancora il giusto metodo per realizzare il collegamento tra libri e vita.
LETTERA DA UN PROFESSORE
TEMPO PIENO, O MEGLIO TEMPO PERSO di Giancristiano Desiderio a scuola è finita, ma subito riapre per i corsi di recupero estivi. C’è la scuola del mattino e la scuola del pomeriggio. La scuola del tempo prolungato. La scuola del tempo pieno. La scuola del tempo allargato. La scuola che apre lo sportello aiuto per chi è rimasto indietro. La scuola non conosce più limiti di tempo. Il tempo scolastico è cresciuto così tanto da confondersi con il tempo della vita. Un grave errore, perché per quanto non ci sia scuola senza vita, la scuola non è tutta la vita. Si assiste a uno strano paradosso: una eccessiva scolarizzazione dell’esistenza che registra anche il fenomeno della dispersione scolastica. Forse perché il “tempo
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pieno” in fondo è solo “tempo vuoto”? La scuola che non finisce più è una scuola che viene meno a quello che vorrebbe essere il suo fine: la preparazione. Ma in questa strana filosofia scolastica della preparazione si è perso di vista l’essenziale: non c’è un tempo in cui ci si prepara e un tempo in cui si mette a frutto la preparazione, perché la vita è una perenne preparazione e prima si “urta” con le esigenze della vita e meglio è. L’eccessiva scolarizzazione, invece, tende non solo a rimandare nel tempo il momento dei conti con la vita, ma anche a immunizzare la vita scolastica dal “resto della vita”. La scuola dei tempi lunghi è un parcheggio sociale. «Almeno così i professori
fanno qualcosa» è anche il pregiudizio che c’è dietro a queste scelte. Ed è un pregiudizio che ha qualcosa di vero e qualcosa di falso. I professori effettivamente fanno poco (in realtà facevano poco, ora fanno tante cose inutili: consigli, collegi, incontri, aggiornamenti, sportelli). Il qualcosa di falso è questo: per far lavorare i professori allunghiamo i tempi della scuola. Che è una autentica fesseria: perché non è ingrandendo una cattiva scuola che si avrà una buona scuola. La scuola non va riempita. La scuola va pensata. Per riprendere la bella distinzione di Bergson si può dire che non è un problema di “orologio” o di “calendario” ma di “durata”e di “coscienza”.
In effetti, negli anni di rodaggio dell’autonomia molte risorse sono state spese per la formazione dei presidi e per la loro trasformazione in manager dell’istruzione pubblica, ma uno dei nodi della malascuola italiana, lo scarso livello formativo della classe docente, attende ancora di essere sciolto. I progetti dovrebbero contribuire a consolidare il metodo di studio, l’amore per la cultura, la conoscenza del mondo nei più giovani; spesso invece si presentano come iniziative estemporanee, che nella loro irrilevanza didattica finiscono anche col far perdere ore pomeridiane che magari potevano essere impiegate nello studio individuale. Le cose non cambiano quando si considera l’impiego delle cosiddette “ore di committenza locale”: accanto alle materie canoniche (Italiano, Matematica, Storia…) una piccola quota dell’orario settimanale viene lasciata alla scelta degli istituti.Vi sono istituti che scelgono di insegnare la storia locale, altri che ritengono più opportuno aumentare il numero di ore destinato alle materie scientifiche. Ma vi sono anche scuole nelle quali si inventano discipline strane o quanto meno evanescenti.
In definitiva il modello scolastico dell’autonomia appare come un sistema necessario alle esigenze moderne della istruzione, un modello sofisticato che proprio per questo richiede un elevato livello di formazione in coloro che lo gesticono: dirigenti, personale amministrativo, soprattutto docenti. Insomma una macchina velocissima che dovrebbe essere guidata da piloti esperti. Alcune delle sbavature che il paradigma organizzativo dell’autonomia ha messo in mostra in questi anni si riconducono facilmente ad uno dei problemi più spinosi della nostra scuola: lo scarso livello qualitativo (e a monte: l’inefficiente criterio di selezione) di coloro che della scuola rappresentano il nerbo, il corpo docente. Altre questioni irrisolte si riconducono invece al divario che esiste in Italia tra Nord e Sud: facile parlare di sponsorizzazioni da parte delle imprese ai progetti di formazione, di intese con i privati nelle province di Bergamo e Varese, più difficile mettere in atto questo obiettivo nelle regioni del Sud; e non solo per un disinteresse da parte delle realtà produttive, ma anche per resistenze di tipo ideologico che continuano a sussistere all’interno della scuola stessa.
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e una medicina funziona si vede subito: la si prende di sera e al mattino si sta già un po’ meglio. Se invece, dopo diversi giorni di tentativi, non si hanno benefici né sollievo, anzi le cose continuano a peggiorare, inutile insistere o aumentare la dose. Una semplice regola che non sembra valere però per la scuola. L’autonomia scolastica viene puntualmente annoverata tra le conquiste intangibili e acquisite, le ricette invocate per affrontare la crisi del sistema scolastico italiano ne richiedono quasi sempre il potenziamento. Un’autonomia, peraltro, invocata soprattutto in chiave retorica, ma alla prova dei fatti lasciata spesso nel vago. L’ossessione ricorrente sembra tuttora quella di destrutturare un sistema già del tutto sgangherato, senza però indicare come e dove ricostruire. E se avessimo semplicemente imboccato la via sbagliata? L’autonomia scolastica, abbinata alla dirigenza dei capi d’Istituto, porta inevitabilmente ad una scuola sempre più vicina ai modelli privatistici e aziendalistici, una scuola-servizio dove la committenza spetta all’utenzaclientela. Per questa ragione la sinistra, sensibile a vari condizionamenti (sindacati, interessi di categoria, riflessi ideologici), dopo aver introdotto il principio generale dell’autonomia, lasciò in piedi un insieme di vincoli che la imbrigliava.
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La frizione fra modello centralistico e privatistico indebolisce il sistema attuale
Ma non è un Paese per manager di Paolo Francini
La frammentazione renderebbe difficile la certificazione e la stima delle competenze Ne deriva che abbiamo scuole “autonome” che però non hanno voce in capitolo né sulla determinazione numerica e funzionale dell’organico, né nella scelta o sulla valutazione dei docenti. E abbiamo scuole “pubbliche”, istituite e finanziate dallo Stato, dove nessuno risponde dei risultati ottenuti e del servizio fornito, dove nessuno controlla la qualità dell’organizzazione, la validità dell’insegnamento ed i livelli di preparazione degli alunni. Viene perciò a mancare quell’opera costante di verifica, di supporto all’azione didattica e all’organizzazione scolastica che, in regime di autonomia, si rivelerebbe quanto mai preziosa per evitare l’isolamento e la deriva autoreferenziale. Altra questione irrisolta, che stride nel quadro dell’autonomia, è che non solo le scuole non hanno facoltà di premiare
gli insegnanti più meritevoli, ma accade che ogni anno vengano loro assegnati docenti attinti da una graduatoria non troppo dissimile da quella degli uffici di collocamento, senza poter influire sulla scelta. Altro scoglio critico è quello della fisionomia complessiva dei programmi di insegnamento. Secondo un’ottica più centralista, una certa quota “fondante” dei contenuti, e delle loro scansioni, dovrebbe conformarsi a quanto fissato a livello nazionale, in modo da garantire standard minimi comuni e facilitare i passaggi da un istituto all’altro o da un docente all’altro. Ai docenti è lasciata la possibilità di modulare (ed eventualmente individuare) le tematiche della disciplina di natura complementare rispetto ai concetti cardine. In questo caso la libertà di insegnamento, costituzionalmente garanti-
ta, si concretizzerebbe soprattutto come libertà nei metodi di insegnamento. Secondo questo indirizzo, rimarrebbero in piedi veri e propri “programmi nazionali”, in base ai quali sono approntate le prove degli Esami di Stato e delle eventuali rilevazioni di sistema, le quali assicurano una complessiva unitarietà del sistema di istruzione e della cultura da esso condivisa. L’altra posizione, più autonomistica, sostiene invece una svolta in un senso, almeno a prima vista, liberalizzante. Lo Stato dovrebbe limitarsi a fissare degli obiettivi o delle indicazioni generali (più o meno specifici), mentre l’elaborazione dei curricoli veri e propri spetta interamente agli Istituti scolastici e ai docenti, che dispongono ampi margini per adattare i curricoli alla situazione di partenza degli studenti e ad eventuali specificità del territorio. Questa ottica è compatibile con la potenziale personalizzazione dei curricoli e, se spinta all’estremo, conduce a un tipo di valutazione basata non più sul raggiungimento di soglie di “sufficienza”, ma sulla descrizione e certificazione delle competenze acquisite da
ciascuno studente. Se si adotta un simile indirizzo è dunque importante che siano previsti dei qualificati organismi dediti alla progressiva revisione curricolare.
Viceversa, la disgregazione dei programmi di insegnamento e l’adozione del modello di certificazione di crediti o competenze è spesso solo a prima vista più dinamica. Si crea infatti maggiore frammentazione tra le scuole, tra i corsi dei vari insegnanti, tra gli stessi curricoli dei singoli studenti, il che rende difficoltosi i trasferimenti e gli interfacciamenti. Inoltra risulta fatalmente illusoria proprio l’ambizione centrale che è alla base del sistema certificativo: poter descrivere in maniera minuta e fedele le competenze acquisite e permetterne il trasferimento, quasi fossero le tessere di un mosaico. Va inoltre osservato che un sistema curricolare più centralistico è in grado di rispondere in maniera tendenzialmente più stabile nel caso di insegnanti di mediocre qualità, grazie al supporto di tradizioni educative più robuste e più condivise. Eventuali inadeguatezze a li-
vello di progettazione curricolare o di descrizione delle competenze, risultano particolarmente devastanti in un quadro di spiccata autonomia professionale. Il dinamismo promesso dall’idea di una minuziosa certificazione delle competenze tende quindi a risolversi in un miraggio.
Del resto, se volessimo abbracciare un’ottica aziendalistica, saremmo poi costretti a constatare come un gran numero (la maggioranza?) delle realtà economiche più forti e più diffuse consistono di sistemi fortemente unitari, da McDonald a Ikea fino a Benetton. Un’ultima considerazione deve riguardare i Dirigenti Scolastici. A tuttora, non esistono meccanismi di valutazione del loro operato, che li incentivino verso comportamenti sempre più virtuosi. Tutto è rimesso alla laboriosità dei singoli. Gli unici in grado di esercitare decise pressioni “esterne”nei confronti delle scuole sono studenti e famiglie: coloro che, in un’ottica di autonomia, assumono i ruoli di “committenti”del servizio scolastico. Tuttavia questa dialettica non sembra da sola sufficiente ad incamminare le scuole lungo sentieri di autentica crescita culturale, o anche solo di qualità del servizio erogato. Tali soggetti sono infatti portatori di interessi troppo immediati e troppo particolari rispetto alle finalità complessive del sistema di istruzione. Ad esempio, da parte di alunni e famiglie potranno venire pressioni nel senso di una facilitazione spicciola dei percorsi, anche a discapito dei livelli di preparazione raggiunti e della ricchezza dei contenuti dell’insegnamento. Aggiungere gli enti locali alla committenza, riservando loro la designazione di una porzione degli organi di governo delle scuole autonome (che è quanto viene proposto da più parti), appare un’idea problematica, che si presta a incognite: si rischia che elementi di ulteriore opacità vengano introdotti nella gestione delle scuole, senza d’altronde un chiaro ritorno in termini di apporto formativo. Siamo davvero sicuri di volere, nella migliore delle ipotesi, una scuola interamente circoscritta nella sfera del servizio o dell’impresa sociale, abbandonando gli intenti “elevati” di trasmissione e arricchimento della conoscenza umana in quanto tale? Se vogliamo evitare di accogliere, insieme all’autonomia scolastica, anche i suoi fantasmi poco desiderabili, e vogliamo invece un sistema scolastico efficace, responsabile, consapevole, allora l’autonomia va per lo meno ripensata con lucidità e col giusto senso critico.
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cultura
Un libro per raccontare la nuova scoperta dell’America
La patria della libertà di Tiziano Buzzacchera l bello degli Stati Uniti è che non lasciano indifferenti. Dalla battuta più semplice alla diatriba impegnata, parlare di quel mondo impigliato fra due oceani costituisce una miccia in grado di scatenare un incendio, perlomeno verbale. Oggi va di moda la politica estera, quindi gli Stati Uniti sono buoni o cattivi a seconda dell’interlocutore, che esso si riconosca nella bandiera del pacifismo o nel volto più muscolare della realpolitik governativa. Il rischio implicito in questo dualismo, però, è di perdere di vista le sfumature, di depennare vie alternative, rinvenibili invece, ad esempio, nel passato. Cosa rappresentavano gli Stati Uniti qualche tempo fa? Cosa hanno perso o guadagnato oggi rispetto ad allora? Sono questi i quesiti che trovano un comodo rifugio in America. Un liberale guarda alla terra della libertà (Liberilibri, 15 euro), ultimo libro di Paolo Bernardini, docente di Storia presso la Boston University e fellow del Mises Institute. (Per intenderci, la trincea più agguerrita dell’estremismo liberista americano).
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America, per l’appunto, e non Stati Uniti. Il prima e non il dopo. Bernardini guarda alla «città rilucente sulla collina» dei Founding Fathers, al Jefferson de «il miglior governo è quello che governa meno» come premesse per un discorso sul presente. America ripropone, nel suo liberalismo cristallino, quel duello fra mano invisibile del mercato e mano impicciona dello Stato (così ce la descriveva l’economista Frédéric Bastiat) che interseca da qualche secolo la storia umana. Oltreoceano sembrava aver trionfato la prima; oggigiorno, non è più così chiaro. Un esempio di questa ambiguità: Bernardini narra dell’esperienza della University of Missouri, istituto educativo di stato eppure inserito in un contesto molto meno soffocante e più concorrenziale rispetto a quello del sistema universitario di casa nostra. Qui è stata istituita nel 2000 una cattedra dedicata a Friedrich von Hayek, grande economista austriaco del secolo appena trascorso. Poco lontano, si presenta la Saint Louis University gestita dai gesuiti. La libertà dell’istruzione, in America, è qualcosa di più di uno slogan programmatico, anche se non riesce a liberarsi completamente dall’abbraccio ingombrante dello Stato.
primario di interesse dell’università americana – evidenzia Bernardini – è lo studente, inteso come individuo, ma anche come membro, per i quattro anni che dura la formazione undergraduate, di una comunità con le proprie regole». Un’altra qualità di questo sistema sta nel fatto che «gli studenti americano esercitano, in una situazione di mercato aperto, la loro scelta, tra oltre duemila fra college e università vere e proprie». La sovranità del consumatore, ecco la ricetta vincente in due parole. In America, c’è anche spazio per altro. Anzitutto, per delle intelligenti riletture del pensiero libertario, partendo da Ayn Rand, autrice de ”La virtù dell’egoismo” e maitre à penser dell’oggettivismo, di cui Bernardini mette in luce pregi e difetti, sottolineando in particolare i pericolosi esiti teoretici derivanti dall’ostilità nei confronti dell’altruismo.
Da salvare, invece, perchè valida e rilevante anche oggi, la polemica randiana nei confronti del socialismo e di ogni collettivismo nemico della libertà individuale.
Un viaggio nel mondo delle università a stelle e strisce. E tra i pensatori Usa liberali e libertari
Il problema dell’istruzione ritorna con il saggio che chiude il volume, ”Il sistema accademico americano. Note su un modello vincente”, viaggio utilissimo e specialistico nel mondo delle università a stelle e strisce. Una delle qualità che distinguono il sistema americano da quello europeo è l’enfasi non solo sulla ricerca, ma anche sull’insegnamento. «L’oggetto
Poche pagine dopo, è il racconto del ”pensiero aristocratico” di Albert Jay Nock (uno dei maggiori teorici del pensiero libertarian) e Henry Haskins (uomo d’affari profondamente affascinato dalla metafisica) a coinvolgere personalità diverse, accomunate da una profonda ammirazione nei confronti dell’America del XIX secolo. Nella galleria dei pensatori analizzati da Bernardini, emerge infine Thomas Woods, esponente di spicco di quel cattolicesimo liberale che negli ultimi anni ha conquistato palcoscenici editoriali ed accademici di prestigio, merito di una coerenza teorica spesso impeccabile, e che continua la sua opera nel solco tracciato da Tocqueville e dall’esempio dell’America descritta dal francese. Quello di Bernardini è, in sintesi, un libro piacevole, un diario di esperienze personali e intellettuali, un mosaico la cui chiave interpretativa è la ricerca delle libertà dell’America delle origini. Con l’auspicio che siano ancora, in tempi difficili come quelli odierni, la stella polare della politica americana.
La statua della libertà a New York ed un quadro con George Washington che dichiara l’indipendenza
cultura
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La storia dell’uomo che combattendo l’imperatore francese divenne un grande eroe popolare
Il brigante che sfidò Napoleone di Filippo Maria Battaglia ona impervia, quella piemontese, ad inizio Ottocento. Lì, «nella Frascheta, a cominciare da Marengo e dalla Spinetta, seminando fagioli nascevano ladri, e nei cimiteri c’erano solo donne e bambini perché gli uomini morivano tutti in galera o sulla forca». Facile capire quindi perché in quegli anni il brigantaggio, proprio nella lingua di terra che separa i fiumi Tanaro e Bormida, facesse così tanti proseliti, tutti noti per le loro razzie e crudeltà. Tutti tranne uno, tale Maìno della Spinetta, vero e proprio eroe di terra piemontese, la cui storia è ora raccontata in una biografia romanzata a firma di Elio Gioanola (Jaca Book, pp. 233, euro 16). Il suo mito nasce subito dopo la sua morte. Il «motivo del suo bando è invece da ricercare, senza possibilità di dubbio, nelle vicende successive alla battaglia di Marengo, con l’imporsi della dominazione francese e l’affermarsi del mito napoleonico».
è stato uno degli uomini più notevoli di questo secolo: si faceva chiamare “Imperatore delle Alpi” e con questo titolo firmava i proclami che faceva affiggere lungo le strade. Nelle giornate di rappresentanza, compariva con uniformi e decorazioni tolte a generali e alti funzionari francesi».
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Corre l’anno 1800, Napoleone e l’armata d’Italia si trovano a fronteggiare le truppe comandate dal generale Melas. Lo stratega corso (che è ancora solo Primo Console) ha da poco valicato il Gran San Bernardo e punta dritto su Milano. Nei pressi di Alessandria, si scontra col nemico austriaco, riuscendo a sovvertire le sorti di una battaglia che non era affatto iniziata. Grazie a quello scontro, i francesi tornano di nuovo ad essere i padroni dell’Italia settentrionale, diventando nemici odiatissimi in quel del “mandrogno”. «Libertè egalitè fraternitè, i franseis en carrossa e noi a pè» scrive la popolazione sui muri, a testimonianza di un odio acerrimo e diffuso in modo capillare. Da quei giorni – come scrive Gioanola – lo sparuto «ragazzo di Spinetta ha cominciato a considerare Napoleone come l’avversario personale suo e della sua gente, oltre che il termine di contrasto per un’operazione paradossale di rispecchiamento». Maìno e Napoleone, con tutta l’enorme sproporzione tra loro esistenti, sono dunque «personaggi speculari». Ed il brigante, dalla sua parte, ha la complicità di quasi tutta la popolazione, clero compreso: «i Francesi erano sentiti
Jacques-Louis David, “Napoleone al passo di San Bernardo”
come i portatori dell’irreligiosità rivoluzionaria e Napoleone era colui che aveva fatto chiudere chiese e conventi e provveduto alla confisca di molti beni ecclesiastici. Per questo, Maìno aveva dalla sua anche il
subito dopo la sua morte, ci pensa un viaggiatore francese, Alexis Delisle che scrive della località “La Spinetta” nota per essere «la residenza di Maìno, uno dei più grandi briganti che siano mai esistiti».«Non senza
stre che aveva cercato di consegnarlo alla forza pubblica. Dopo averlo sgozzato,aveva messo sulla sua testa questa scritta: E’così che Maìno punisce chi lo tradisce». Un eroe spietato, ma pur
Maìno e Bonaparte, con tutta l’enorme sproporzione tra loro esistente, erano due «personaggi speculari». Il brigante, dalla sua parte, aveva la complicità di tutta la popolazione, compreso il clero religioso clero locale, disposto a chiudere un occhio su certe poco commendevoli imprese nel nome del suo più o meno esplicito sanfedismo».
La fama del brigante è talmente diffusa da fargli superare le Alpi. A renderlo celebre,
una certa paura – prosegue lo scrittore d’Oltralpe – vidi la casa dove fu ucciso un anno e mezzo fa. Quest’uomo aveva un coraggio eroico e non aveva ammazzato nessuno se non costretto dalle circostanze. Vidi anche l’albero al quale aveva impiccato una guardia campe-
sempre un eroe, ed insieme un Robin Hood de’noantri. Talmente acclamato che ben presto la sua leggenda finisce con l’essere ricordata perfino da Stendhal, giunto in Italia appena diciassettenne proprio con l’Armata di Napoleone: «Maìno di Alessandria
Battaglie all’ultimo sangue e diverse scorrerie di astuzia e di rapina, a cui si aggiunge, come triste epilogo, una morte altrettanto eroica sui cui Gioanola, nel romanzo, si sofferma con un serrato piglio narrativo. Di quella fine, comunque, anche Stendhal darà conto, neanche stando troppo attento a nascondere la propria simpatia: «Alla fine, tradito da una donna, la casa in cui si trovava nel villaggio della Spinetta, suo luogo di nascita, fu improvvisamente circondata da agenti di polizia e due brigate della gendarmeria; fra un uomo solo e una truppa di uomini armati fino ai denti s’ingaggiò un’accanita battaglia. L’eroe delle strade si difese come un leone, uccise parecchi dei suoi avversari e non abbandonò il suo rifugio se non quando gli fu dato fuoco. Allora si dà alla fuga, scala un muro, riceve una fucilata che gli rompe una coscia e finisce con l’essere ucciso in quello stesso posto mentre si dibatte tra i gendarmi». «Maìno – conclude l’autore della Certosa di Parma - aveva solo venticinque anni. Un uomo del genere soccomberà sotto i ripetuti attacchi di una polizia militare molto bene organizzata; riceverà sul patibolo il premio dei suoi delitti e del suo intrepido coraggio; ma l’opinione pubblica gli attribuirà maggiore genialità e sangue freddo che non a molti generali che hanno lasciata fama di sè». E tanto basterà a renderlo invincibile e immortale.
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musica
Sempre più in voga in Italia riarrangiare canzoni attraverso un accompagnamento di ”musica ritmata”
Parlami di jazz Mariù di Adriano Mazzoletti ergio Cammariere, Gino Paoli, Lucio Dalla, Paolo Conte, Sergio Caputo per i più fanno ormai parte del mondo del jazz. Infatti sempre più spesso leggiamo i loro nomi nei cartelloni dei maggiori Festival. Ma cosa hanno a che fare questi eccellenti cantanti di musica popolare o leggera che dir si voglia con i Pieranunzi, i Fresu oppure Boltro o Pietro Tonolo? Nulla, potrebbe rispondere qualche purista del jazz. C’è invece chi sostiene a spada tratta che è sufficiente creare un adeguato accompagnamento, perché le voci e le canzoni di Dalla o Paoli, possano entrare a far parte di diritto del mondo del jazz. Teoria questa che viene da lontano. Allora, parliamo degli anni fra il Venti e il Trenta, la “canzone ritmica” di derivazione americana giunse anche in Italia. Proveniva dagli Stati Uniti, dove aveva fatto la sua apparizione con Rudy Vallee, sassofonista e cantante, ma anche Ruth Etting ed Annette Hanshaw, i cui accompagnatori erano spesso Joe Venuti ed Eddie Lang, e i gruppi vocali dei Rhythm Boys, la cui vedette era Bing Crosby o le Boswell Sisters, tre sorelle di New Orleans, le più imitate dai complessi vocali femminili di tutto il mondo.
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Qualche anno dopo in Italia Vittorio Belleli, lanciato da Gorni Kramer, il Trio delle sorelle Lescano, Alberto Rabagliati, Romero Alvaro divennero i principali esponenti di quella “canzone ritmica”che possiamo identificare come l’antesignana della “canzone jazzata” di oggi. Dunque, Dalla come Rabagliati? Forse. Quando nel 1939 Rabagliati incise con l’orchestra di Pippo Barzizza Serenata a Daina, versione italiana della celebre canzone americana, dopo la parte cantata era possibile ascoltare un assolo della tromba di Gaetano Gimelli, considerato all’epoca uno dei migliori jazzisti italiani. La stessa “formula” utilizzata oggi, quando il clarinettista Luca Velotti o il trombonista Rudy Migliardi
“escono” in assolo dopo il canto di Paolo Conte. La “canzone ritmica” italiana dagli anni Trenta in poi è ricca di esempi. Un disco uscito di recente, Jazz and Hot Singers in the 30’s (Riviera Jazz Records) comprende un buon numero di quelle incisioni. Tipico esempio è quello dell’orchestra diretta dal sassofonista
venne autore e protagonista di molte trasmissioni radiofoniche e televisive, ma anche Vittorio De Sica, che riuscì a rinunciare per un attimo alla sua personalità di cantante romantico e sentimentale per uniformarsi con discrezione allo “swing”che scaturiva dal duo pianistico Ezio Levi e Oscar De Mejo.
In Lisetta va alla moda italiana, una delle quattro canzoni ritmiche incise da De Sica nel corso della sua carriera, il grande attore e regista riesce a far dimenticare l’interprete di Parlami d’amore Mariù. Non solo per la presenza di quello straordinario musicista di jazz che fu Ezio Levi, costretto dalle terribili leggi razziali a fuggire dall’Italia per evitare arresto e deportazione, ma anche per l’accompagnamento del chitarErnesto Marchi, che si esprimeva nel linguaggio delle hot dance bands americane. Il cantante, un misconosciuto Renzo Mori, narrava le gesta di un suonatore di banjo che si chiamava William, ma era la tromba milanese Alfredo Marzaroli che impreziosiva l’incisione con le sue uscite “alla Red Nichols”. Alla canzone ritmica approdarono in molti in quel periodo. Marcello Marchesi, che in seguito di-
Allo ”swing” approdò anche Vittorio De Sica, che rinunciò per un attimo alla sua personalità di cantante romantico per uniformarsi a quello che scaturiva dal duo pianistico Levi-De Mejo rista Armando Camera. La sua ammirazione per Eddie Lang risultava assai evidente nelle sedici battute di assolo. Quel mezzo ritornello, sembrava incredibilmente uscito da un disco dello stesso Lang. Le maggiori rappresentanti della canzone ritmica anni Trenta furono però tre ragazze olandesi Giuditta, Sandra e Caterinetta Leschan che in Italia si fecero chiamare Lescano.
La storia di queste tre sorelle è nota. Giunte a Torino come ballerine con una compagnia di rivista, fecero un provino all’Eiar come cantanti, ma vennero rifiutate. Successivamente, su suggerimento del pianista Carlo Prato che le aveva ascoltate, furono chiamate dalla Cetra. Incisero i loro primi dischi prima con Tito Petralia e in seguito con Pippo Barzizza ed Angelini. Il successo fu immediato. Per il pub-
musica
12 giugno 2008 • pagina 21
Piero Rizza con parole di Giancarlo Testoni: «Quando va per il thè con il cagnolin guarda in giù, guarda in su con un occhialin la marchesa Sinforosa sembra in voga tutto il dì nel guardar, nel parlar fa venire il mal di mar. Dice poi, sai com’è non si può mangiar il caviale non c’è più non si può ballar che fatica senza whisky senza whisky nei caffè sai com’è, sai com’è, sai com’è!». Dopo il ritornello cantato seguivano assolo, spesso assai riusciti, di Franco Mojoli, del chitarrista Cosimo Di Ceglie e del violinista Sergio Almangano. Malgrado la guerra, il successo di Pippo Starnazza e del Quintetto del Delirio venne determinato dal pubblico. Dei loro dischi ne furono venduti molte decine di migliaia di copie. Nel dopoguerra il Quintetto del Delirio continuò ad incidere. I testi delle canzoni erano cambiati. Se durante la guerra Starnazza cantava «il caviale non c’è più, non si può ballar, che fatica senza whisky, senza whisky nei caffè», nel dopoguerra era la volta di «così com’è la mia ragazza piace a me con quel musino di monella americana, un po’ strana che parla sempre a tempo di fox trot». Pippo Starnazza fu la voce degli anni di guerra, fu una voce che molti italiani preferirono fortunatamente a quella del Duce. Era più simpatica e aveva più swing!
Che cosa hanno in comune Lucio Dalla, Gino Paoli, Sergio Cammariere, Paolo Conte e Sergio Caputo con i grandi nomi del jazz come Natalino Otto, Alberto Rabagliati, Gorni Kramer, Pieranunzi, Fresu, oppure Boltro o Pietro Tonolo? Nulla, potrebbe rispondere qualche purista del jazz. C’è invece chi sostiene a spada tratta che è sufficiente creare un adeguato accompagnamento, perché le voci e le canzoni di Dalla o Paoli, possano entrare a far parte di diritto del mondo del jazz. Teoria questa che viene da lontano. Una tradizione che affonda le radici negli anni Venti e Trenta italiani
blico italiano di allora queste tre sorelle rappresentarono qualcosa di nuovo. Il loro sottile senso dello swing, il modo di dividere la melodia così diverso da quello degli altri cantanti italiani, le voci quasi infantili ma accattivanti, l’accento mitteleuropeo che risentiva dell’influenza americana, le fecero amare da un pubblico a cui piaceva la musica Swing. I loro dischi non mancavano in nessuna casa italiana. Quelle incisioni hanno accompagnato l’infanzia e la giovinezza di quella che si può definire la “generazione della guerra” dalla quale sono venuti molti appassionati di jazz dei decenni successivi.
Uno dei loro dischi, St. Louis Blues, venne pubblicato all’inizio del 1940, con il titolo originale, quando era già in atto il divieto di utilizzare lingue straniere, tedesco escluso naturalmente! Tipico esempio di come in Italia non si sia mai, fortunatamente, data soverchia importanza a certi stupidi divieti ministeriali. Negli anni terribili dopo l’8 settembre 1943, furono perseguitate e costrette a nascondersi. La madre era ebrea. Qualcuno per interesse le denunciò. Anche loro per salvarsi furono costrette a fuggire.
Nella prima parte degli anni Quaranta i due maggiori rappresentanti della canzone ritmica furono due ex batteristi: Luigi Redaelli, passato alla storia come Pippo Starnazza, e Natalino Otto. Assai diversi l’uno dall’altro. Milanese il primo, genovese il secondo, debbono a Gorni Kramer parte del loro successo. Il primo fu dal 1935 il batterista del quintetto di Kramer, il secondo quattro anni dopo iniziò proprio con Kramer la carriera di cantante. Se Radaelli fu
Quintetto del Delirio. Ne facevano parte i migliori solisti italiani dell’epoca, Enzo Ceragioli e Cosimo di Ceglie, e le canzoni venivano scritte dagli stessi musicisti. Altre, da giovani che stavano affacciandosi al mondo della musica come il batterista Marcello Valci e il pianista Lelio Luttazzi. Due motivi scritti da questi ultimi ebbero un immediato successo. Ho un sassolino
giche. Furono i testi di quelle canzoni a suggerire il nome al complesso. Per l’epoca erano deliranti, raccontavano storie spassose e con un totale nonsense, come Se mi vien la mosca al naso oppure Come ti chiami e Il pappagallo muto, oppure O Ciucci perché mi fai gli occhioni.
il primo a cantare scat, Natalino Otto fu la personalità che contraddistinse la canzone italiana di derivazione americana per tutti gli anni Quaranta.
nella scarpa e Il giovanotto matto erano motivi assai semplici, orecchiabili, costruiti sul solito schema AABA. Incisioni del periodo di guerra, quasi sempre a tempo veloce con testi divertenti e senza pretese, che fornivano il loro piccolo contributo a far dimenticare cose tra-
«Lo sai che mi emozioni se mi guardi tu e allora non ci vedo più, mi girano i bottoni», cantava Carlastella. Con ogni probabilità i puristi del jazz avranno storto il naso all’ascolto di Pippo Starnazza che cantava, in piena guerra, con la sua voce divertente un motivo scritto da
Starnazza cantava con uno strano complesso che in pieno conflitto era stato battezzato
Il dopoguerra fu caratterizzato dall’influenza che su tutti i cantanti italiani ebbero i crooner americani i cui dischi erano finalmente giunti anche sul mercato italiano. Soprattutto quelli di Frank Sinatra, giovane cantante dell’orchestra di Tommy Dorsey, e quelli dei Modernaires, gruppo vocale scoperto e lanciato da Glenn Miller. Tutti i cantanti italiani cercavano di imitare i loro colleghi americani. Nelle orchestre radiofoniche di Beppe Mojetta, Francesco Ferrari, Carlo Zeme, Pippo Barzizza, Piero Piccioni agivano cantanti che avevano assimilato, assai bene, lo stile dei crooner americani di quel periodo. Poi con il Festival di Sanremo, la canzone ritmica lentamente scomparve. Riapparve grazie a cantanti di talento come Flo Sandon’s e più tardi Jula De Palma,Vittorio Paltrinieri, Johnny Dorelli, Nicola Arigliano, che spesso collaboravano con i musicisti jazz Oscar Valdambrini, Gianni Basso, Franco Cerri e Renato Sellani. Non ci deve perciò troppo meravigliare se oggi Dalla o Paoli, Cammariere o Caputo con Flavio Boltro, Gianluca Petrella, Amedeo Ariano e Stefano Bollani, suonano nelle stesse manifestazioni che ospitano Sonny Rollins, Gary Burton o Bobby Hutcherson.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Italia-Romania, quali azzurri schierereste? BISOGNEREBBE ANDARE PER ESCLUSIONE: ”PENSIONIAMO” GATTUSO, AMBROSINI E PIRLO
DIAMO INDIETRO DONADONI, RIPRENDIAMO LIPPI E PER PIACERE, FACCIAMO GIOCARE DE ROSSI
Si potrebbe procedere per esclusione in realtà. Perché se non è poi così semplice dare la rosa dei titolari della nostra nazionale di calcio, senz’altro è più praticabile la strada dei silurati. Esempio? Facile: Gattuso, Ambrosini, Pirlo. C’è una qualche valida (ma per piacere, che sia davvero credibile) motivazione per la quale questi tre signori continuano a giocare con la maglia azzurra? Ma non esiste un meccanismo di pensionamento per chi palesemente ”nun gliela fa più”? Perché insomma, spiace proprio tanto vedere la nostra difesa e parte del centrocampo fare acqua da tutte le parti. Possibile sul serio che, infortunato Cannavaro, l’Italia intera deve essere messa a rischio infarto del miocardio durante l’esordio dei ”migliori” contro l’Olanda? L’unico momento di ripresa dell’umore è scattato a fine partita, quando davanti alle telecamere Rai, Gigi Buffon ha trovato il coraggio di sussurrare qualcosa come: «Dobbiamo guardarci in faccia e chiedere scusa a tutti i tifosi italiani». Il modo migliore? Gattuso, Ambrosini e Pirlo vedessero la Romania dalla panchina.
Prima di tutto bisognerebbe cacciare a pedate Donadoni e implorare Lippi di tornare. E pure alla svelta. Non piace a nessuno (probabilmente giocatori inclusi), sbaglia anche le cose più elementari e riesce a innervosire chiunque anche dopo la figuraccia incassata lunedì scorso contro la Romania. Ma insomma, quanto ci voleva a capire che Daniele De Rossi avrebbe dovuto giocare quella partita già dai primissimi minuti di gioco? D’accordo, il nostro ct ha bisogno di calma per ragionare. Ma nessuno glielo ha suggerito alla fine del primo tempo? Per il resto, questa nazionale alla fine mi piace. Del Piero mi sembra in forma, così come Cassano, Grosso e Toni. Insomma, centrocampo e attacco (ma con De Rossi vi prego) sembrano in ottima salute. Farei un qualche ritocco alla difesa. E cercherei di far riposare parecchio Buffon prima della gara contro la Romania. Metterlo in porta va bene, ma che rimanga concentrato per tutti i novanta minuti di gioco però. Mai sottovalutare nessun avversario.
Marco Valensise - Milano
LA DOMANDA DI DOMANI
Quale sarà il futuro del Partito democratico? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Gaia Miani - Roma
BERTOLASO IN PORTA, TREMONTI TERZINO, ROTONDI RACCATTAPALLE E BRUNETTA MASCOTTE La formazione è indubbiamente scarna a centro campo, ma molto folta sia a sinistra che a destra e priva di un centravanti puro goleador. Il modulo è 5-4-1, detto anche “catenaccio”, con variante di gioco improvvisa di tattica del fuorigioco “degli altri”. Formazione: Portiere (Bertolaso) - centrocampista unico (Scajola) - libero (Fitto). Fasce: a sinistra: terzino (Tremonti), mediano (Frattini), ala pura (Maroni), ala di ritorno (Sacconi). A destra: terzino (Ronchi), mediano (Matteoli), ala di ritorno (Alemanno), ala pura (La Russa). Il team: Allenatore: Berlusconi, Vice: Veltroni. Riserve: Galan, Castelli, Giovanardi, Pizza e Micchichè. Medico sportivo: Formigoni. Racattapalle: Rotondi. Coach Cheerleading Team: Calderoli. Mascotte: Brunetta. Arbitro: Napolitano (si spera). Guardalinee: Fini e Schifani. Quarto uomo: Montezemolo.
SIAMO NELLA TERZA REPUBBLICA? Silvio Berlusconi ha formato la sua squadra di governo e così, per la quarta volta, può riprendere ad affrontare temi ampiamente dibattuti in campagna elettorale. Ci sono in questa legislatura alcune peculiarità che la caratterizzano e che meritano di essere sottolineate per le quali, oggi, alcuni giornalisti parlano di “Terza Repubblica”. In primis va detto che il numero dei partiti in Parlamento ha subito una diminuzione senza precedenti e vi è stata anche una trasformazione di alcuni partiti politici importanti nello scacchiere italiano che hanno dato un volto nuovo alla realtà politica nazionale. Per esempio il Partito guidato da Gianfranco Fini ha concluso un percorso, sfociando quest’anno nel Pdl, che era iniziato già nel 1995 quando il partito di An, nello storico congresso di Fiuggi, aveva preso le distanze dal regime fascista e rotto quel legame di continuità con il passato. Questo atteggiamento ha costituito una svolta premiata dall’elettorato poiché An, oggi, esprime la terza carica dello Stato, quattro ministri e diversi ammi-
COCCO DI CASA
Alcuni abitanti dello stato indiano del Kerala, in India, vivono nelle acque dei fiumi interni, in vere e proprie case galleggianti chiamate Kettuvallam (“barche con nodi”). Tutti i pezzi sono infatti tenuti insieme da resistente fibra di cocco, annodata dagli artigiani locali
PER TRAVAGLIO, LA VERITÀ SI TROVA SOLO SUI GIORNALI Dice su l’Unità Marco Travaglio che i dati sulle intercettazioni, comunicati dal Ministro della Giustizia sono stati sbugiardati da Luigi Ferrarella e Carlo Bonini sulle prime pagine del Corriere e di Repubblica. Aggiunge: ”O Alfano è un incompetente, e allora se ne deve andare; o mente, e allora se ne deve andare a maggior ragione”. Praticamente, per Travaglio le fonti di verità sono solo i giornali, ciò che dice un Ministro non conta nulla! Ha torto e basta, o zuppa o pan bagnato. Aggiungiamoci una bella manipolazione tv, un programma, lascio immaginare quale e oplà il gioco è fatto: si deve dimettere il ministro o deve cadere il Governo! Ma va, dov’è la novità? Trullallero e
dai circoli liberal Lettera firmata
nistratori locali fra i quali spicca il nome di Gianni Alemanno. I tempi per questo cambiamento epocale erano ormai maturi: nel mondo e, in particolare in Europa, si erano registrati avvenimenti di portata eccezionale come ad esempio la caduta del muro di Berlino. Questi stessi accadimenti hanno sortito effetti diversi nello schieramento politico italiano del centrosinistra. In effetti si può dire che i partiti comunisti hanno cominciato ad analizzare i dati concreti della storia così come emergevano dai Paesi del Patto di Varsavia e a preoccuparsi del loro ruolo politico con tempi forse troppo lunghi e senza unanimità di consensi al loro interno. Gli elettori li hanno penalizzati e ciò è accaduto per diversi motivi, ma alla base c’è che il Pci ha realizzato con ritardo che i regimi comunisti erano dittature, che in quei Paesi si erano verificati numerosissimi assassini e che, tuttora, in Paesi come Cuba, Vietnam, Cina vengono negati i fondamentali diritti civili. Ma queste trasformazioni, unite alla drastica diminuzione delle forze politiche in Parlamento, possono determinare l’inizio di una nuova
trullallà, che travaglio che vi ha! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.
L. C. Guerrieri - Teramo
LA ROBIN TAX DI TREMONTI E IL DESSERT ”RIALZATI ITALIA” Poco tempo fa era impensabile solo immaginarla in Italia. E’ originaria dei boschi di Sheerwood. Ne esistono più varietà, dolci e buone per alcuni, decisamente amare per altri. Dipende dai punti di vista. Si trova tutto l’anno. Per lo Stato è un eccellente fonte di grassi. E’ la Robin tax. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, la vuole utilizzare nella preparazione del dessert ”Rialzati Italia”. Siamo certi che ai petrolieri piacerà. Il dessert, che avete capito, non la tax. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
era politica? E questa nuova stagione politica, all’indomani dei grandi scandali degli anni Novanta, che hanno consentito un parziale ricambio del personale politico amministrativo, nuove leggi elettorali per il Parlamento, per i Comuni e per le Regioni e soprattutto un sistema bipolare che permette agli Italiani di scegliere il Premier, può essere chiamata “Terza Repubblica”? In realtà appare esclusivamente un’invenzione giornalistica; come è evidente che non si può parlare, a ragione, neanche di “Seconda Repubblica”, poiché la Costituzione non è stata modificata in maniera tale da determinare un effettivo nuovo assetto tra i poteri dello Stato. E allora auguriamoci che questa definitiva “conclusione” della Prima Repubblica sia “costituente”, verso un’organizzazione innovativa dello Stato per renderlo più moderno. Ma al tempo auguriamoci che la “casa comune” sappia essere di tutti: maggioranze e minoranze. In questa direzione lavoreremo con i nostri Circoli sul territorio. Francesco Facchini CIRCOLO LIBERAL LEVANTE BARI
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Victor Hugo non poteva fare a meno di voi Mio caro amico, rieccomi tornato a Parigi già da un po’ di tempo. Ho pagato il mio tributo all’epidemia imperante: fortunatamente i miei stanno bene. E’ da molto che non mi date vostre notizie. Ho tentato diverse volte di vedere Lemer, ma è impossibile raggiungerlo. C’è qualcosa di nuovo su questo fronte? Ho saputo con piacere che Victor Hugo non poteva più fare a meno di voi, il che non mi stupisce: deve trovare più piacevole la compagnia di un uomo come voi che quella dei fanatici che lo circondano di solito. Non potrebbe farvi trattare con i suoi editori? Non dubito che desideriate tornare a Parigi il prima possibile. Spero non cominciate l’anno 1866 a Bruxelles. A presto, dunque, mio caro amico. Vi stringo la mano. Vostro. Edouard Manet a Charles Baudelaire
TEMPO DI FEDERALISMO, TEMPO DI CHIAREZZA Se è vero che in questo momento il Fedralismo è diventato l’argomento del giorno è pur vero che questo nuovo ordine statale prevede un drastico colpo al potere politico. Un frazionamento e una nuova ridistribuzione di risorse che inevitabilmente tende a colpire un certo “potere politico” ridimensionandone il peso nell’intermediazione degli affari in campo economico. Così nel tentare di controllare la nascita e la diffusione del pensiero federalista italiano è in atto un’autentica campagna di disinformazione diffusa. Si cerca in tutti i modi di diffondere una sorta di federalismo Soft,“solidale”o altro, ma gli esperti del settore sanno benissimo che tutte le “distorsioni federaliste” sono assolutamente nocive per il sistema Italia. Un recente servizio dal titolo “In Austria fanno gol anche le imprese” firmato da Sara Bianchi sul Sole 24Ore del 26 Maggio scorso, ha messo in chiara evidenza il fortissimo incremento di aziende italiane che si sono insediate con successo sul territorio oltre confine. Emerge che anche l’Austria è un paese federalista con 33mila
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
11 giugno 1442 Alfonso V di Aragona vie-
euro di Pil pro capite in crescita del 2,5% per quest’anno con inflazione al 2,3%. L’argomento da affrontare dunque è quello relativo alle problematiche legate al transito dello “stato moderno” in una struttura a carattere federaslista. «In questo senso io insisto sempre a chiedere un vero Federalismo - affermava Gianfranco Miglio nel 1999 – l’alternativa federale non è il disordine, ma una diversa forma di ordine; non è il disfacimento dell’ordinamento istituzionale e giuridico, ma una trasformazione dello “stato moderno”, e del suo jus publicum». Il punto di forza di ogni vero sistema federale, sta nella stabile ripartizione delle competenze di Governo, fra una pluralità di comunità politiche territoriali, da una parte, e un’autorità federale dall’altra. Un sistema, quello federale, che se espresso al meglio deve far scaturire le regole della libera concorrenza anche tra i servizi offerti dalle singole regioni. Responsabilità, concorrenza e libertà vanno a pari passo in questo contesto federale.
Alberto Moioli - Lissone (Mi)
ne incoronato re di Napoli
1519 Nasce Cosimo I de’Medici 1812 Napoleone inizia l’invasione della Russia 1897 Karl Elsener brevetta il Coltello dell’ufficiale. L’oggetto diventerà in seguito noto come coltellino svizzero 1901 Cuba accetta di diventare un protettorato statunitense accettando il Primo Emendamento 1944 Il leader comunista cinese Mao Tse-tung annuncia che appoggerà il capo del Kuomintang, Chiang Kai-shek, nella guerra contro l’Impero giapponese 1963 Prima mondiale di Cleopatra con Elizabeth Taylor, Rex Harrison e Richard Burton, al Rivoli Theatre di New York 1987 Il Presidente americano Ronald Reagan sfida pubblicamente Mikhail Gorbachev ad abbattere il Muro di Berlino. 1991 I russi eleggono BorisYeltsin come presidente della repubblica
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
PUNTURE Il caso della clinica milanese ci dà la giusta dimensione del nostro mondo: i malati sono sani e la medicina è malata.
“
Giancristiano Desiderio
”
Il potere non corrompe gli uomini; e tuttavia se arrivano al potere gli sciocchi, corrompono il potere GEORGE BERNARD SHAW
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
Liberiamoci al Centro di Ignazio Lagrotta niziano a evaporare gli effetti di una campagna elettorale che sotto certi aspetti può definirsi epocale. Mi riferisco brevemente a due dati, tra l’altro già sottolineati dagli analisti politici, particolarmente significativi e, cioè, la mancata rappresentanza in Parlamento della Sinistra c.d. “radicale” e la straripante affermazione della Lega Nord. La scelta coraggiosa dell’Udc e di Casini non ha sortito gli effetti sperati e, purtuttavia, non bisogna sottovalutare il dato elettorale emerso dalla urne. I consensi raccolti dall’Unione di Centro rappresentano, a dispetto del voto oramai “evanescente”(nel senso di volubile), raccolto in parte sia dalla coalizione del Pd-Idv che del Pdl- Lega Nord-Mpa, uno “zoccolo duro”. Nel senso che si tratta di un voto, poco “emotivo”, ragionato. Un voto esercitato da chi era consapevole di non poter andare al governo e che, nonostante ciò, ha resistito alla “sirene” di ambedue le aree politiche di riferimento più grandi per testimoniare la necessità, per il bene del Paese, di una politica diversa. E’ un voto, pertanto, frutto sicuramente di un lavoro dei candidati sul territorio “porta a porta”, ma anche generato da una visione prospettica della cose e, quindi, proiettato verso il futuro. Poiché, però, l‘attività politica non la si può relegare all’esclusivo ruolo di “testimonianza”, almeno da parte di chi vuole esercitare un ruolo politico attivo, è necessario ripartire da subito con il grande progetto di centro. Intendiamoci il problema non è quello di creare un terzo polo, atteso che in tal senso comandano le leggi elettorali, le soglie di sbarramento ed i premi di maggioranza. L’obiettivo è quello di creare un’area politica di riferimento per l’elettorato moderato, un’area d’incontro tra liberali e cattolici, alla cui costruzione la Fondazione liberal di Ferdinando Adornato sin
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dal 1995 non ha mai rinunciato, un luogo di confronto e di elezione per la crescita democratica del nostro Paese. Per utilizzare un’espressione felice, per la sua intuizione, bisogna andare oltre l’Udc e aprire le porte alle forze vive del Paese in parte “tradite”dal sogno di Fi, che, dopo uno spumeggiante inizio in termini di impatto novativo sulla vita politica del Paese, si è rinchiuso su se stesso e nella sua oligarchia interna. Allo stesso modo si può creare un luogo appetibile anche da parte di tutti coloro i quali nel Pd vedono “mortificate” le ispirazioni della Dottrina sociale della Chiesa. La Costituente di Centro deve ripartire subito e con vigore aprendosi alle realtà presenti sul territorio, operando a rete in maniera orizzontale non verticistica. La sensazione dovrà essere quella di lavorare alla creazione di una “casa ideale comune”nella quale i problemi da affrontare e risolvere sono quelli di tutti. Il metodo potrà essere quello dei coordinamenti cittadini, provinciali e regionali differenziati per competenze e non vincolati gerarchicamente. Il minimo comune denominatore dovranno essere serietà, competenza e meritocrazia. Bisognerà, in altri termini, risvegliare quel sentimento “sopito” di libertà, spazzare via quella cappa che sovrasta le nostre teste e che non fa sentire la politica, la partecipazione alla vita del Paese, come una cosa nostra, centrale, appassionante, ineliminabile. Per poter sfondare è necessario avvertire e far avvertire che si sta costruendo qualcosa di nuovo, una cosa seria, che non sappia di vuoto, di chiuso. Per far ciò bisogna rischiare, mettere in gioco le gerarchie, le rendite di posizione, fare in modo che la vita vi pulsi dentro. Liberiamoci al centro, appunto, dalla sensazione e non solo, sempre più forte, di una deriva democratica. (Coordinatore Regione Puglia Circoli Liberal)
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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
PAGINAVENTIQUATTRO – e rozzamente – di farsi da parte in quanto allenatore della sporca Juve moggesca. Poi vinse – e come vinse – e il carro si riempì di avventurosi commentatori, uniti, al solito, a onorevoli volpini guidati da presidenti vari e dalla fascinosa ministra Melandri. In quell’occasione, la Grande Stampa suonò triccheballacche, poi accettò le addoloraste dimissioni di Lippi e la forzata nomina di Donadoni, imposto dal mitico commissario Guido Rossi su consiglio di Albertini, oggi silenziosi. Il merito – se si può dire – di Giachetti, è di farsi portavoce di un disagio tattico: quel malandato centrocampo del Milan l’ho visto anch’io, e l’ho sconsigliato a Donadoni per l’impegno con i rumeni affamati di gloria e di riscatto (li guidano non solo Mutu e Chivu, italianizzati al massimo a suon di euromilioni, ma anche un ruspante allievo di Walter Zenga, il gagliardo Nicoleta, il primo rom “nazionalizzato”, che immagino incazzoso).
Addirittura un’interrogazione parlamentare: la squadra è di Berlusconi o di Donadoni?
Politici e giornalisti ALL’ATTACCO di Italo Cucci Interrogazione Azzurra è un classico italico. Quando l’Italia perde – per fortuna raramente – qualche onorevole sfaccendato s’attacca alle prerogative parlamentari, spesso rendendole grottesche. E interroga, o interpella, secondo cerimoniale. Il Fenomeno del giorno è Roberto Giachetti, deputato Pd. Infastidito dagli esiti del veltrusconismo, ha voluto portare il suo attacco (attacchino) al PluriSilvio, interrogandolo «per sapere se sia stato lui a telefonare a Donadoni suggerendogli qualche pedina da
L’
glio, Giachetti, a destinare il suo tempo a inziative più serie e, in ogni caso, a non svilire gli strumenti parlamentari, mi sovvengono precedenti che rendono l’intervento del Pd uno scherzo e niente più.
Gli onorevoli interroganti sono spesso accompagnati da giornalisti arroganti che nell’Ottantadue definii – con scandalo dell’Espresso – “criticonzi”, e si capiva cosa volessi dire. A questi ieri s’è dedicato Mario Sconcerti, sul Corriere, sollevando l’ira dei colleghi: «È abbastanza triste – ha scritto – vedere come un’intera categoria, un intero Paese, cambi idea in un momento e scenda rapido dal carro degli sconfitti...». Per mia fortuna, son sceso rapido dai carri in gioventù, scrivendo sempre quel che mi girava, nel bene e nel male, facendomi (autobiografia) “Un nemico al giorno”. Con abilità, invece, mi sono sottratto alla categoria da quando Curzi e Ceschia l’hanno consegnata agli editori, negli anni Settanta, e più tardi dalla corporazione sportiva, proprio in occasione dei Mondiali dell’82. Quando, sullo stesso Corriere in cui oggi Sconcerti modera, qualcuno scriveva che Enzo Bearzot aveva «le meningi bollite». Dovevate sentirli, ieri, in una radio privata, gli stizziti bacchettati da Sconcerti: invece di richiamarsi al diritto/dovere di critica s’azzuffavano fra di loro, rinfacciandosi meschinità presenti e passate. Già: mi piacerebbe ripubblicare le affettuose dediche di alcuni maestri di penna a Marcello Lippi prima del Mondiale 2006. Gli chiedevano semplicemente
Mi piacerebbe ripubblicare le dediche di alcuni maestri di penna a Lippi prima del Mondiale 2006. Gli chiedevano di farsi da parte. Poi vinse e il carro si riempì di commentatori e onorevoli guidati da presidenti vari e dalla fascinosa ministra Melandri schierare». Accolto da pernacchie, Giachetti s’è affrettato a correggere il tiro nel suo blog: «...mi sto ancora domandando come si fa a schierare un centrocampo bollito come quello del Milan avendo giocatori nettamente più in forma e che sarebbero titolari in qualsiasi squadra.
Devo dire che l’opinione non era e non è solo la mia, anzi. E così ho pensato ad una iniziativa spiritosa, una provocazione (chiaramente) ed ho presentato un’interrogazione al detentore della delega allo Sport, al presidente del Consiglio...». Mentre io e molti lettori ci stiamo ancora chiedendo se non farebbe me-
Dirò di più: senza farne oggetto di interrogazioni o scandalo, penso davvero che Berlusconi e Donadoni abbiano chiacchierato di formazione, di tattica: perché loro due s’intendono, sul 4-3-3, o almeno sul 4-4-2, mentre al multipresidente non va giù quel 4-3-2-1 di Ancelotti che, ribattezzato “albero di Natale”, non gli ha portato doni. Ma l’idea – immagino tramontata – di arruolare Donadoni al posto di Carletto. Va d’altra parte dato merito ai rappresentanti del governo – sottosegretario Crimi compreso – di avere evitato vistosi approcci con l’Armata Azzurra; atteggiamento ch’io confermerei anche se, come mi auguro, dovessimo battere Romania, Francia e andare avanti. Forse nella fase finale un atto di presenza, niente di più, e un colpo di pettinino. Ho letto sul Foglio una strigliata al Cav in stile Irene Brin perchè il 2 giugno, alla parata militare, s’è passato fra i capelli (?) un pettinino di plastica. Miodio che caduta di stile! E invece a me è venuto in mente il professore di storia patria e presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che, in visita alla Nazionale di Bearzot alla vigilia di Italia-Polonia, nell’82, esibì un pettinino di plastica usandolo più volte e consacrandolo portafortuna. Poi dovette lasciare Barcellona per lasciare il proscenio madrileno a Pertini. Il merito di Giachetti è comunque quello di essersi salvato (in corner) con una botta d’ironia. Proprio in quegli anni di gloria molti suoi colleghi esibivano ancora le tre narici guareschiane, scatenandosi con interrogazioni e interpellanze nell’arena sportiva. Indimenticabile il comunista Ignazio Pirastu, allora responsabile della Commissione Sport della Direzione del Pci: egli tentò, in due riprese, di sottrarci l’unica Coppa Davis e il secondo mondiale calcistico pretendendo il ritiro delle Nazionali dal Cile e dalla Spagna. Furono Aldo Tortorella e Enrico Berlinguer, nell’autunno del ’76, a imporgli il ritiro del niet anche perché i comunisti cileni erano preoccupati dell’esito negativo del boicottaggio. Pietrangeli e Panatta conquistarono l’Insalatiera. Nell’82, invece, fu il popolo italiano a mandare a quel paese Pirastu e il democristiano Publio Fiori, improvvidamente associatosi alla richiesta di richiamare in patria l’indegna Nazionale che aveva fatto una figuraccia in una partitella premondiale. E’ anche per evitare certi rigurgiti di demagogia che m’auguro di veder l’Italia battere Romania e Francia. In caso contrario, come avrebbe detto Craxi: tutti al mare.