QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Il Carroccio rompe in Commissione e minaccia il no sul decreto rifiuti
e di h c a n o cr
Se la Lega comincia a ostacolare i piani di Berlusconi
di Ferdinando Adornato
di Errico Novi on è necessario scomodare le statistiche per accorgersi che l’Italia è sempre più divisa in due. E che il Mezzogiorno si allontana dolcemente dal resto dell’Europa, con i primati che soprattutto Napoli continua a stabilire. Non ci vuole molto dunque a capire che l’Italia in questo momento non può permettersi divisioni, altrimenti la sua parte in affanno scivolerà ancora più in basso e finirà per diventare un peso insostenibile. Eppure si è di fronte al paradosso di un governo pesantemente condizionato da un partito localista come la Lega. Che lavora con inesauribile tenacia per mettere in secondo piano le urgenze del Meridione. L’ultimo sintomatico caso riguarda gli stanziamenti per l’emergenza rifiuti: il Carroccio chiede al resto della maggioranza di considerarli un prestito. Una boccata d’ossigeno da 150 milioni che la Campania dovrebbe impegnarsi a restituire, seppure con tempi comodi. Il problema non è tanto nella penalizzazione finanziaria, ma nel significato che si vuole far passare: Napoli e la sua regione, per i leghisti, non rappresentano un problema italiano ma una questione che deve risolversi da sé. Lo Stato può al massimo concedere una solidarietà temporanea e condizionata. Ognuno cammini sulle proprie gambe e non pretenda che gli altri lo sostengano se è in difficoltà.
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LA VISITA DI BUSH Dopo Napolitano e Berlusconi oggi l’incontro con Ratzinger. Il nuovo feeling tra Usa e Vaticano segna una svolta storica nel rapporto tra fede e politica
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Benedetto presidente alle pagine 2 e 3
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Dopo l’incidente sul lavoro di Mineo
Momento difficile per Veltroni
Intercettazioni, l’intesa che serve
Resa dei conti nel Partito democratico
Limitiamoci soltanto ai reati gravi
di Susanna Turco
di Giuseppe Gargani
di Guglielmo Malagodi
di Vincenzo Bacarani
Più che governo ombra, somiglia ogni giorno di più all’ombra del Pd. Di punti luce, in effetti, nell’opposizione guidata da Walter Veltroni ce ne sono sempre meno.
La nuova disciplina deve prevedere una regolamentazione fatta non in base ai titoli di reati ma per tutti i reati gravi e questo obiettivo sembra raggiunto, con l’intesa trovata ieri nella maggioranza.
Ci sono opinioni diverse sulla partecipazione del governo italiano all’inaugurazione delle Olimpiadi in Cina. Favorevoli e contrari negli schieramenti e nello stesso governo Berlusconi.
Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e il leader di Cgil, Cisl e Uil si sono ritrovati a un tavolo per definire le linee di intervento. Mentre sette persone sono state indagate per l’incidente di Mineo.
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VENERDÌ 13
GIUGNO
Parla il ministro Giorgia Meloni
«Pechino 2008, disertare l’apertura si può, anzi si deve»
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
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NUMERO
110 •
WWW.LIBERAL.IT
Sacconi e sindacati studiano un piano straordinario
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Oggi l’incontro Bush-Ratzinger: il nuovo feeling tra Usa e Vaticano segna una svolta storica nel rapporto tra fede e politica
Il Papa e il Presidente di Michael Novak uando George W. Bush si recò, a tarda notte, a vedere la salma di Giovanni Paolo II, rimase profondamente scosso ma, secondo coloro con cui parlò subito dopo il solenne funerale del giorno dopo, il presidente fu ancora più commosso dall’imponenza dell’atto dell’Eucarestia e – soprattutto - dall’improvviso gesto dei sediari pontifici che, mentre salivano le scale di S. Pietro, si fermarono e sollevarono la parte superiore del feretro per permettere a tutti i presenti di guardare per l’ultima volta le spoglie mortali di uno dei Papi più grandi della storia. In quel momento, come dimostra una sequenza di fotografie, il cielo, che era nuvoloso, è stato squarciato da un raggio di sole che ha illuminato la salma e le ombre, prima quasi impercettibili, dei sediari pontifici. Il presidente Bush è un tipico uomo religioso dell’America occidentale, ruvido e diretto, con l’idealismo e l’informalità dei modi che ricordano un personaggio di Jimmy Stewart, il timido protagonista di Mr. Smith goes to Hollywood. Qualche mese prima della morte, il presidente incontrò Papa Wojtyla nella solenne Sala Clementina conferendogli, in quell’occasione, il più alto riconoscimento civile degli Stati Uniti, la medaglia presidenziale della Libertà.
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Per un metodista texano, il cui vescovo locale probabilmente è vestito in giacca e cravatta come un qualsiasi uomo d’affari, l’introduzione alla bellezza e alla storia del papato ha aperto gli occhi verso nuovi orizzonti e prospettive, producendo in seguito un vivo apprezzamento, lo stesso visibile nell’espressione del presidente quando ha accolto Benedetto XVI alla Casa Bianca lo scorso aprile. C’è qualcosa di puerile nell’entusiasmo presidenziale che non piace a molti americani, mentre altri lo trovano interessante, e il calore che egli prova verso il Santo Padre e – attraverso di lui, per il papato stesso – era evidente quel giorno. Papa Ratzinger ha reagito con altrettanto calore e riconoscenza, e non ha dimenticato, al termine del suo discorso, un sentito «Dio benedica l’America», una frase che dopo l’11 settembre 2001 ha assunto una valenza particolarmente emotiva. Ora il presidente e Benedetto XVI si incontreranno ufficialmente per l’ultima volta, perché tra sette mesi, il 20 gennaio 2009, George W. Bush lascerà il suo incarico. Diversamente dal solito, l’incontro si svolgerà nella Torre S. Giovanni dei giardini vaticani e qui il presidente potrà constatare quanto piccoli siano la città del Vaticano e i
giardini dove il Papa talvolta passeggia in solitudine e tranquillità; Bush infatti possiede un ranch a Crawford, in Texas, molto più grande.
È solo dal 1984 che Washington ha mandato un ambasciatore presidenziale in Vaticano, e che le due istituzioni collaborano su diversi progetti e iniziative in tutto il mondo. Non fu di poco conto, ad esempio, l’aiuto americano, arrivato tramite i sindacati statunitensi, alla Polonia nei giorni di Solidarnosc, e i Papi sono sempre stati pronti a muoversi per l’Europa e per Roma come ai tempi della seconda guerra mondiale. Recentemente, c’è stata una consistente collabo-
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Per un metodista texano, il cui vescovo locale probabilmente è vestito in giacca e cravatta come un qualsiasi uomo d’affari, l’introduzione alla bellezza e alla storia del papato ha aperto gli occhi verso nuovi orizzonti e prospettive
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razione in favore dei poveri dell’Africa, non solo attraverso i grandi sforzi per arginare l’epidemia di Aids e portare aiuto alle vittime, ma anche per sostenere i progetti cruciali di approvvigionamento di acqua potabile in tutto il Continente, senza contare gli aiuti alimentari a lungo termine e i soccorsi per l’e-
mergenza determinata dalle carestie.
Da parte sua, il presidente Bush ha sempre sottolineato che, senza la forte opposizione pubblica del Vaticano all’aborto e gli sforzi in favore della vita (inclusa la difesa del matrimonio che offre un certo tipo di protezione negli anni di crescita dei figli), il compito dei leader desiderosi di preservare il bene comune delle loro nazioni sarebbe stato quasi impossibile. L’appuntamento di Roma segnerà l’incontro simbolico di due grandi tradizioni, una totalmente immersa nella storia e l’altra giovane, talvolta insolente, ma desiderosa di essere di aiuto ovunque la battaglia sia più difficile. Sorprendentemente per un Paese un tempo così anticattolico come gli Stati Uniti, questi incontri tra il Papa e il presidente sono stati accolti molto bene dall’opinione pubblica. Naturalmente ci aspettiamo che i nostri predicatori ci riprendano quando sbagliamo e che ci indichino la strada giusta quando ne abbiamo bisogno e proprio questo, forse, è il motivo per cui tutti gli americani sono stati molto orgogliosi nel 2003 di far parte di una nazione il cui presidente ha avuto la capacità e il coraggio di dare la caccia ai terroristi in Afghanistan e in Iraq, e la maggior parte dei cattolici è stata orgogliosa di avere un Papa che ha dato certezze sul fatto che non si trattava di una guerra di religione, e che ha sempre rifiutato quel tipo di conflitto. Sia il Vaticano che gli Stati Uniti, ora, sembrano concentrati sulle future esigenze del mondo, e pronti a collaborare ovunque la cooperazione si riveli giusta e opportuna.
Tutti gli incontri tra Joseph e George re incontri in tre anni di Pontificato. Con un’amicizia che si è fatta sempre più stretta. È il 9 giugno 2007 quando Benedetto XVI e il presidente americano George Bush si incontrano in Vaticano. L’agenda è fitta: questione israelo-palestinese, Libano, la preoccupante situazione in Iraq e le critiche condizioni in cui si trovano le comunità cristiane. Non mancano le questione morali e religiose: diritti umani, difesa di vita e famiglia tradizionale, tutela del matrimonio e sviluppo sostenibile. Poi è la volta, quasi un anno dopo, di Benedetto XVI che vola in America per un importante viaggio apostolico. È lo stesso Bush ad accoglierlo, il 15 aprile 2008, all’aereoporto di Washington, violando ogni protocollo. Insieme festeggiano gli ottantuno anni di papa Ratzinger. Discutono di lotta all’Aids in Africa, diritti umani e dei principali temi di politica internazionale. E’ una sfida importante per il papa teologo che deve affrontare la spinosa questione dei preti pedofili. Lo stile è diretto, i media Usa ne apprezzano la franchezza. Joseph Ratzinger conquista gli Usa. Infine, l’incontro di oggi, a meno di due mesi dall’ultimo, con tanto di passeggiata scenografica nei giardini vaticani.
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Si allontana la possibilità per l’Italia di entrare a far parte del “5+1” sul nucleare iraniano
Amico Silvio,più amica Angela di Andrea Mancia
ROMA. «Sull’eventuale partecipazione dell’Italia al cosiddetto gruppo dei “5+1” sul nucleare iraniano, il nostro paese ha l’appoggio degli Stati Uniti e cercherà di fare pressioni sulla Germania». Parola del ministro degli Esteri, Franco Frattini, a margine della “Conferenza dei donatori” per l’Afghanistan in programma ieri a Parigi. Traduzione dal “diplomatichese”: non è bastata l’amicizia con Silvio Berlusconi per convincere George W. Bush a scavalcare Angela Merkel. L’Italia, con ogni probabilità, non sarà ammessa nel club del “5+1” (i cinque membri permanenti dell’Onu più la Germania) che ha il compito di negoziare con l’Iran sul “nodo nucleare”. Un’ammissione che avrebbe, senza dubbio, rilanciato il ruolo internazionale del nostro Paese. Ma che - a meno di miracoli geopolitici difficilmente ipotizzabili - il cancelliere tedesco ha escluso, con garbo ma fermezza. E che neppure gli alleati statunitensi hanno potuto (o voluto) sostenere con la forza necessaria.
Alcune tappe della visita del presidente americano a Roma. In alto a destra George Bush e il premier italiano Silvio Berlusconi. In basso il suo incontro con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
Dopo le dichiarazioni di Frattini, a rendere ancora più improbabile l’ingresso dell’Italia nel “5+1” è arrivata la presa di posizione ufficiale di Stephen Hadley, consigliere della Casa Bianca per la sicurezza nazionale, che durante una conferenza stampa ha spiegato che il presidente Bush non ha ancora preso una decisione definitiva. Gli Stati Uniti dice Hadley - sono «in una posizione di ascolto», ma se Roma vuole entrare nel gruppo deve prepararsi a mettere da parte i suoi interessi commerciali e prendere «decisioni dure sul piano della sicurezza nazionale». Una traduzione, anche in questo caso, è d’obbligo. Se l’Italia vuole davvero partecipare al “5+1”, deve mettersi in testa che non può continuare a commerciare con l’Iran come se niente fosse. E deve essere pronta ad affrontare le conseguenze delle proprie scelte, cioè il rischio - concreto di entrare nel mirino del terrorismo islamico. Traduzione della traduzione: non se ne parla proprio. Se, sotto il profilo sostanziale, la visita di Bush a Roma si è conclusa con un nulla di fatto, sotto quello formale si è trattato di un successo. Il colloquio con il presidente Napolitano si svolge in un clima estremamente cordiale. Bush ricevuto con gli onori militari da un reparto di Granatieri di Sardegna e da un drappello di corazzieri in alta uniforme. Rilassato e sorridente, il presidente Usa è accolto da Napolitano nella
Berlusconi: «Grazie agli Usa per averci salvato da comunisti e nazisti». Bush: «Apprezziamo l’impegno degli italiani in Afghanistan» Sala del Bronzino con un amichevole «How are you?» e una calorosa stretta di mano. George W. si dice colpito dalle bellezze del Quirinale e definisce «meravigliose» le due ore trascorse stamani al Colle ospite del presidente italiano, che lo trattiene a colloquio per quaranta minuti e poi a colazione davanti a un raffinato menù italiano (cavatelli alla verdura, lombata di vitella, millefoglie) e a un bicchiere di spumante Ferrari.
Napolitano ringrazia Bush per aver riconosciuto il ruolo della comunità italiana che vive negli Stati Uniti, proclamando il 2 giugno “Italian Independence Day”. Poi gli parla della situazione politica creatasi dopo le elezioni di aprile. Sono convinto, dice a un Bush compiaciuto, che si consoliderà la condivisione degli indirizzi fondamentali della nostra politica estera. Il resto del colloquio, svelano le fonti del Quirinale alle agenzie di stampa, è dedicato a problemi di economia internazionale: materie prime, alimentari, energia. I due presidenti parlano anche del prossimo G8 in programma nel nostro Paese nel 2009 e degli esiti del recente vertice della Fao di Roma. E poi, in rapida successione: le crisi internazionali, il Medio Oriente, la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata. Dopo un breve tour turistico del Quirinale, con Napolitano improvvisato cicerone, il presidente americano si congeda, per dirigersi verso Villa Madama, sede dell’incontro con il presidente del Consiglio. L’incontro con Berlusconi inizia intorno alle 18.30. E dopo circa un’ora i due si presentano alla stampa per la conferenza congiunta. Prima del vertice, le immancabili foto di rito con sipa-
rietto incorporato. Berlusconi che mostra a Bush la spilletta con la doppia bandiera (italiana e americana) che ha sul bavero della giacca. Qualche risata, un paio di baci sulle guance, prima di entrare a braccetto nella villa. I due si accomodano nella sala dei colloqui. Sotto i flash dei fotografi, il presidente del Consiglio mostra il braccio destro, con il tipico gesto di chi vuole sottolineare di avere i muscoli e il presidente americano sta allo scherzo, mormorando un «You are very strong». Nella conferenza stampa, poi, acora abbracci e pacche sulle spalle. Berlusconi ringrazia Bush che «per la sesta volta ci onora della sua presenza» e gli Stati Uniti per averci «salvato dai comunisti e dai nazisti». E l’Iran? Sulla strategia nei confronti di Ahmadinejad, dice il premier, c’è una «sintonia totale, così come nel passato». Il primo accenno al nodo “5+1” è quello di Bush, che conferma come gli Stati Uniti stiano «valutando» la questione. «Noi - aggiunge Berlusconi - abbiamo fatto l’offerta di aggiungerci al “5+1” per dare il nostro contributo. Conosciamo l’Iran dall’interno, molte nostre aziende operano lì. Pensiamo di essere utili per portare avanti la politica del presidente Bush e di Putin. Ma dobbiamo essere sicuri che sia solo un uso pacifico del nucleare». Poi, si vedrà. Intanto il presidente Usa dice di apprezzare l’impegno italiano in Afghanistan e le «nuove istruzioni che il governo ha dato sull’impiego dei soldati per addestrare le forze di polizia». E quando un giornalista Usa gli chiede un parere sulle prossime elezioni presidenziali, Berlusconi ruba la risposta e annuncia il suo singolare endorsement per il candidato repubblicano: «Preferisco McCain, perché è più vecchio di me di un mese e così non sarei il più anziano ai vertici del G8». Infine il commiato, quasi commosso, sempre del premier, che si rivolge a Bush e lo ringrazia «per il ruolo che responsabilmente e coraggiosamente hai assunto e hai saputo mantenere come leader del paese più importante del mondo». Poi tutti a cena, aspettando il concerto di Apicella.
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politica
Viaggio nel Partito democratico. Durissima presa di posizione di Parisi: «O il partito cambia linea o bisogna cambiare leader»
Il Pd alla resa dei conti di Susanna Turco
ROMA. Più che governo ombra, somiglia ogni giorno di più all’ombra del Pd. Di punti luce, in effetti, nell’opposizione guidata da Walter Veltroni ce ne sono sempre meno: sul fondo del pozzo sono adagiati i nodi del dopo elezioni, finora mai affrontati con la dovuta energia («la gestione del risultato e delle sue difficoltà non mi ha con-
«troppo buono» con Berlusconi, spiega infatti il settimanale britannico, durissimo: «Ha un’idea dell’opposizione che non appare assolutamente britannica», è «too nice» con il capo del governo, e si è lasciato sfuggire «una serie di occasioni per metterlo in imbarazzo». Conclusione: Berlusconi ha senz’altro da guadagnare dalla
ARTURO PARISI «Di tutto un partito ha bisogno tranne che della balcanizzazione in correnti accomunate dall’istinto di difesa piuttosto che da una linea politica. È una crisi di unità e di identità»
vinto affatto», dice Marco Follini), mentre a pelo d’acqua galleggiano questioni che sono in gran parte legate a una direzione di marcia non ancora chiarita. È questo paradosso circolare ciò che emerge dai fatti e dalle analisi dei suoi protagonisti. Del resto, gli esempi di questa navigazione difficile si sprecano. Non ultima, la bastonata arri-
politica del dialogo portata avanti da Veltroni, mentre «i benefici per la sinistra sono meno evidenti». Un attacco, questo, che segue soltanto di qualche giorno la dura presa di posizione di Famiglia cristiana, che ha messo in luce il difficile ruolo dei cattolici «traditi», i quali probabilmente non sono sul punto di lasciare il partito, ma sicuramente sono al centro di
PIERLUIGI CASTAGNETTI «Un congresso in questo momento non è opportuno. E chi lo chiede per celebrare il suo aspetto agonistico non fa un buon servizio al dibattito. La crisi è politica, non se ne esce lavorando sugli organigrammi»
proprio ieri vata dall’Economist: «Più che un governo ombra» quella di Veltroni sembra «un’opposizione fantasma». Il leader del Pd è
una delle questioni più scottanti nel Pd.
Del resto, alle critiche della stampa corrispondono diffi-
coltà interne se possibile ancora maggiori. Basti solo pensare a quante volte, negli ultimi giorni, è stato evocato il termine di «balcanizzazione»: un rischio e, in parte, già una realtà se si guardano alle organizzazioni dei dalemiani o al neorisorto rutellismo in convegno a Montecatini. Da ultimo, ne ha parlato Arturo Parisi: «Troppe correnti, sembriamo i Balcani», ha detto senza mezzi termini, l’ex ministro della Difesa: «Di tutto un partito ha bisogno tranne che della balcanizzazione in correnti accomunate dall’istinto di difesa piuttosto che da una linea politica». Ma tutto ciò, prosegue, ha un suo perché: «La crisi di unità e di identità del partito». Perché in effetti, a ben guardare, tutte o quasi le questioni che agitano il partito democratico appaiono degli effetti delle conseguenze di un meccanismo ingolfato: dal ruolo dei cattolici, che come dice la Binetti «vogliono uscire dalla riserva indiana», ma non paiono sul punto di riuscirci; al rebus pressoché irresolubile del collocamento in Europa di un partito finora diviso in due gruppi (Pse e Alde), alla questione del congresso, ipotesi che viene sbandierata dal leader come strumento per rafforzarsi e invece respinta da chi punta a un progressivo logoramento del segretario per acquisire un maggior controllo del partito. Per finire con l’elezione del presidente del Pd: una vicenda con accenti tragicomici, se si pensa che l’ultima ipotesi - stante il diniego di Franco Marini e lo scetticismo del Parisi che a domanda ha risposto «presidente di quale partito?» - è quella di riconfermare il dimissionario Romano Prodi che pure pare fermissimo sulla volontà di lasciare l’incarico.
Per ritrovare il filo di tutta questa selva di problematiche, il Pd che annaspa si aspetta un approdo almeno temporaneo nella Grande Assemblea prevista per la prossima settimana (20 e 21): una riunione dei 2800 delegati eletti con le primarie,
della quale significativamente sfugge un po’ a tutti il programma “formale”. Di fatto, infatti, si tratterà di discutere dell’universo Pd. Una resa dei conti non certo delle più morbide.
composizione avviene per una riproposizione dei gruppi e sottogruppi precedenti, quella sfida si rischia di perderla. Taglieremmo fuori quanto di nuovo il Pd è riuscito ad aggregare».
NICOLA LATORRE «Un congresso ci farebbe tornare a Ds, Dl e 14 mila componenti. Per come è lo Statuto del Pd, sarebbe tutto centrato sulla scelta del leader e la leadership di Veltroni non è in discussione. C’è un consenso altissimo su di lui, in questo momento»
«Sarà l’occasione di confrontarci e dirci come stanno le cose», spiega il ministro ombra della Difesa Roberta Pinotti, veltroniana, ottimista ma comunque «molto preoccupata» per l’andazzo: «Perché la sfida sarebbe fare un partito. Avere diversi gruppi e orientamenti di pensiero è ovvio, se però questa
Anche Pierluigi Castagnetti si aspetta molto dall’Assemblea: «Riconosco che finora la riflessione sul risultato elettorale è stata tutt’altro che composta e ordinata, mi aspetto un approfondimento a tutto campo, serio e rigoroso. Il segretario dovrà indicare una pista di lavoro: la crisi è politica, non se
politica
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Il politologo Gianfranco Pasquino interviene sulla crisi del partito
«Una macchina elettorale senza anima e identità» colloquio con Gianfranco Pasquino di Riccardo Paradisi
ROMA I cattolici a disagio, i prodiani in subbuglio, i dalemiani in movimento: le acque del Partito democratico sono agitate. L’ex ministro della Difesa Arturo Parisi, che aveva messo in discussione il criterio delle primarie, ora propone un congresso per verificare la leadership e la linea politica del Pd, «perché il partito possa trovare quella sicurezza per presentarsi agli elettori con una linea condivisa». Il Partito democratico, sui cui si riaffaccia in queste ore anche l’ipotesi di una presidenza Prodi, è molto giovane ma sta già molto male. La diagnosi di Gianfranco Pasquino, professore di Scienze politiche all’università di Bologna, è che le radici della malattia sono nel manifesto dei valori del Pd. Nel Dna insomma.
Dopo Famiglia cristiana, ieri anche l’Economist ha attaccato il Pd: «Più che un governo ombra» quella di Veltroni sembra «un’opposizione fantasma». Il leader è «troppo buono» con Berlusconi, spiega il settimanale britannico, «ha un’idea dell’opposizione che non appare assolutamente britannica» e si è lasciato sfuggire «una serie di occasioni per metterlo in imbarazzo». Conclusione: il Cavaliere ha senz’altro da guadagnare dalla questa politica del dialogo, mentre «i benefici per la sinistra sono meno evidenti».
ne esce rivedendo gli organigrammi». Proprio per questo, il popolare del Pd resta contrario alla proposta di convocare al più presto un congresso, come fa per esempio Arturo Parisi: «Chiederlo solo per celebrare il suo aspetto agonistico, non mi pare una condizione positiva per un dibattito approfondito e fruttuoso», spiega.
Il no al congresso, per tutt’altri motivi, è una bandiera che sventola anche dalle parti dalemiane. «Ha ragione Veltroni quando ipotizza il congresso, solo se si vuole tornare a Ds e Dl e a 14 mila componenti. Se si mette in discussione il progetto politico del Pd, allora bisogna farlo: ma questa discussione non viene avanti da nessuna parte», spiega il vicepresidente dei senatori del Pd, Nicola Latorre, braccio destro di D’Alema. «Per come è lo Statuto del Pd», continua, « il congresso è tutto centrato sulla scelta del leader e la leadership di Veltroni non è proprio in discussione. Anzi, in questo momento c’è un consenso altissimo su di lui». In questo momento, appunto.
Che sta succedendo nel partito di Veltroni professore? Vengono al pettine due nodi. Il primo: le contraddizioni del manifesto dei valori. Sia i cattolici democratici che i diessini sono convinti di aver fatto un buon manifesto: in realtà non è né carne né pesce. È un manifesto più cattolico che laico, ma di un cattolicesimo compromissorio, annacquato. Non accontenta né gli uni né gli altri. Il secondo nodo è quello sostanziale: Il Pd non è un partito, Veltroni ha costruito solo una macchina per la campagna elettorale. In un saggio di un anno Le istituzioni di Arlecchino (scaricabile su Scriptaweb) avevo previsto una prospettiva di questo genere per il Partito democratico. Non per capacità profetiche ma perchè la politica ha le sue regole e le sue costanti. E gli errori si pagano C’è chi sostiene che deposta la vecchia arma dell’antiberlusconismo la sinistra si è trovata nuda e senza identità sociale. È d’accordo? Se Veltroni in campagna elettorale fosse stato più cattivo nei confronti di Berlusconi non avrebbe preso più voti di quelli che ha portato a casa. Avrebbe avuto un consenso maggiore se avesse proposto una formula politica innovativa, riformista, liberale. Anche l’Economist imputa a Veltroni un eccesso di indulgenza verso Berlusconi: il suo governo ombra, scrive il giornale inglese, potrebbe diventare un’opposizione fantasma. In realtà quello che l’Economist contesta alla sinistra italiana è di non esercitare una critica a Berlusconi da posizioni liberali. In Gran Bretagna è incon-
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cepibile un conflitto di interessi come quello che c’è in Italia, dove il presidente del Consiglio controlla metà del sistema informativo italiano. Torniamo al malessere interno al Pd professore: la critica dei prodiani a Veltroni le appare giustificata? Veltroni subisce i queste settimane molte critiche, sulla sua leadership si scaricano molti nervosismi. Giustificati peraltro, o almeno comprensibili: chi è abituato al governo all’opposizione sta male. Però Parisi ha ragione soprattutto su una cosa, che all’interno del Pd non c’è stata una riflessione vera sui motivi della sconfitta. Quali sono questi motivi? C’è un motivo sopra tutti: quella tra Pd e Margherita è stata una fusione a freddo. E le fusioni a freddo non producono energia. L’energia viene prodotta dal conflitto, dalla dialettica. Veltroni è stato plebiscitato, poi s’è preso Franceschini come vice dicendo, ecco la Margherita. Ma andiamo… Parisi allora ha ragione anche sulla necessità di fare il congresso. Certo. Il congresso andrebbe fatto. C’è un piccolo particolare però. Che il congresso non si può fare. Perchè non si conosce il numero degli iscritti: lo dicevo prima, il partito non esiste. Esiste una segreteria, un segretario che incorona dall’alto i referenti regionali. Il guaio è che i dirigenti del Pd non sanno che cosa sono i partiti contemporanei. Eppure basterebbe prendere ad esempio quello che fanno gli altri. L’esperienza di Mitterand nel 1971 è esemplare. Il partito socialista era morto, Mitterand l’ha ricostruito includendo i cattolici e organizzandolo su base federativa, aprendo una fase nuova della politica francese. Insomma lei vede nero. Il Pd non sta bene di salute. E non starà meglio fino a quando non si convincerà che la somma di alcune correnti non fa un vero movimento politico nè un partito. La baracca sta ancora in piedi perchè le strutture del Pd ancora reggono in alcune regioni – Umbria, Marche, Liguria – ma è una forza inerziale. Potente ma inerziale. Altrove – Veneto, Sicilia, Calabria, Campania – il Pd è debolissimo. In Toscana c’è qualcosa di più serio, c’è effervescenza, dibattito, politica. Ma è un’eccezione. Basta poco perchè il giocattolo si rompa definitivamente.
Il manifesto dei valori del Pd scontenta insieme laici e cattolici. Invece di tentare compromessi Veltroni avrebbe dovuto puntare su una nuova sinistra riformista e liberale
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politica
È doveroso sollecitare l’intervento sulle intercettazioni, anche per responsabilizzare il Csm
Limitiamoci ai reati gravi di Giuseppe Gargani l controllo telefonico nei confronti di un cittadino, ancorché indagato, costituisce un problema molto complesso anche perché è difficile comprendere fino in fondo le implicazioni che determina per ogni persona nella sua sfera di autonomia e di riservatezza. La opinione corrente attribuisce solo ai politici l’interesse a limitare il campo di applicazione della norma e quindi è necessario chiarire bene la questione che è ormai all’ordine del giorno. La norma attualmente consente, in maniera del tutto eccezionale e per reati gravi, di ricorrere alle intercettazioni telefoniche, per ricercare le prove di un reato, ma nella pratica quotidiana l’eccezione è diventata la regola. Le intercettazioni telefoniche e ambientali sono diventate dunque una scorciatoia pigra e comoda per evitare le tradizionali indagini istruttorie più impegnative e più intelligenti, che quasi sempre sono le più efficaci, come ha spiegato il professore Giuliano Vassalli,
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emerito giurista che dovrebbe essere ascoltato da tutti e dovrebbe facilitare la ricerca di una armonia tra maggioranza e opposizione.
In concreto le indagini per ricercare le prove di un reato in tutti i Paesi democratici hanno un metodo consolidato sul quale si misura la professionalità della polizia giudiziaria e la perspicacia del pubblico ministero. Le nuove tecnologie sono utilizzate in maniera più sofisticata per adeguarsi ai tempi, ma con estremo scrupolo e cautela. Quindi controllare il telefono dell’indagato è un mezzo per niente professionale, ma apparentemente più comodo e sbrigativo. Si fa credere, invece, soprattutto da parte dei magistrati che senza le intercettazioni non si può perseguire il reato: bisogna correggere questa cattiva informazione e spiegare agevolmente che si è fatto un uso smodato e abnorme di questo strumento, per cui non solo l’indagato, ma anche l’innocente e “l’estraneo” al
processo vengono messi sullo stesso piano. Basta ricordare che per questo servizio il ministero di Giustizia italiano sostiene un costo di gran lunga superiore degli Stati Uniti. L’accortezza del legislatore dunque sta nel convincere l’opinione pubblica che non si vuol limitare l’azione del magistrato, ma al contrario potenziarla perché le investigazioni, quando sono svolte con la partecipazione attiva della polizia
obiettivo sembra raggiunto, con l’intesa trovata ieri nella maggioranza che fissa la soglia ai reati con almeno dieci anni di pena), con una precisa responsabilità del procuratore della Repubblica che deve essere l’unica figura abilitata a chiederle. In questo modo si responsabilizza l’unico titolare dell’azione penale e si dà la possibilità al Csm di operare una valutazione finale sulle autorizzazioni concesse. In questo modo si può sfuggire alla elencazione dei reati per i quali sono possibili le intercettazioni perché è evidente ad esempio che corruzione o concussione non possono essere considerati reati minori.
All’opinione pubblica va spiegato che bisogna indagare anche con gli strumenti tradizionali giudiziaria e degli altri organi preposti, portano a risultati migliori e più concreti. La nuova disciplina delle intercettazioni che il governo ha il dovere di approvare con urgenza deve prevedere una regolamentazione fatta non in base ai titoli di reati come quelli di mafia ma per tutti i reati gravi (e questo
Nell’ordinamento giudiziario approvato all’epoca del primo governo Berlusconi vi era una norma che attribuiva al solo Procuratore della Repubblica l’esercizio dell’azione penale che poteva poi essere delegata
ai “sostituti procuratori”. Questa norma, poi cancellata, dovrebbe essere ripristinata per attribuire al vero titolare dell’azione penale e solo a lui la facoltà di richiedere il mezzo istruttorio delle intercettazioni telefoniche per poi farle convalidare da un giudice collegiale. In un ordinamento come il nostro che stabilisce l’obbligatorietà dell’azione penale l’unico rimedio è responsabilizzare al massimo il magistrato e sollecitare le funzioni che il Csm ha per dovere costituzionale di “valutare”il lavoro che gli uffici giudiziari svolgono. In definitiva se tutti riconoscono questa delle “facili intercettazioni” come una emergenza nazionale e il grido di allarme del Capo dello Stato conferma, se tutti condannano il metodo utilizzato dagli inquirenti, non è possibile che il Csm stia a guardare senza la possibilità d’intervenire. È giusto dunque sollecitare il governo ad intervenire in maniera equilibrata e razionale a garanzia di quei diritti fondamentali.
Decreto sui rifiuti bocciato dal Carroccio, che vuole imporre alla Campania il rimborso dei fondi
La Lega e i piani di Silvio di Errico Novi segue dalla prima
Il decreto rifiuti fortemente voluto da Berlusconi è passato in commissione senza il sostegno dei deputati di Bossi e da lunedì sarà nell’Aula di Montecitorio
Si tratta in apparenza solo di abile propaganda. Nel caso specifico i deputati di Bossi hanno deciso di non votare in commissione il decreto sui rifiuti, giacché il resto della maggioranza non ha accolto la richiesta di imporre alla Campania la restituzione dei fondi. Da lunedì pomeriggio dunque l’Aula di Montecitorio discuterà su un testo non condiviso da una parte significativa della coalizione di governo. Il Carroccio è intenzionato a riproporre sotto forma di emendamento le proprie richieste. In alcuni casi si tratta anche di variazioni sensate. Dal decreto è infatti scomparso il commissariamento dei comuni che non raggiungono percentuali accettabili nella raccolta differenziata. Giustamente la Lega pretende che ci sia una responsabilizzazione maggiore degli enti locali, finora
impegnati in una squallida ricerca del consenso ad ogni costo. Ma ridurre il sostegno finanziario dello Stato a un prestito è un inutile atto di umiliazione. Serve a Bossi e ai suoi parlamentari
larità: a volte produce effetti politici concreti. Nella sua seconda visita a Napoli, di fronte a una situazione ancora disperata, Silvio Berlusconi aveva detto che la spazzatura campana sarebbe stata trasferita anche in altre regioni del Paese, oltre che in Germania. Non è stato dato nessun particolare seguito alla cosa. Prima e dopo l’intervento del premier i leghisti hanno creato un fuoco di sbarramento preventivo contro qualsiasi ipotesi di condivisione dell’emergenza. Il governatore del Veneto Galan ha assecondato la chiusura incondizionata di Bossi, Formigoni ha inutilmente lasciato intravedere la propria disponibilità. E in effetti Berlusconi non ha potuto più rimettere sul tavolo l’idea di smaltire almeno una piccola parte dei ri-
La rumorosa propaganda di Bossi ha già bloccato l’intesa per lo smaltimento in Lombardia per accreditarsi come spietati censori del Mezzogiorno piagnone e ladro. È lo stesso atteggiamento strumentale mostrato pochi giorni fa a proposito dei rifiuti tossici“scaricati”dalle aziende settentrionali. In quel caso non ci si è fatti scrupolo di fraintendere ad arte le dichiarazioni del presidente della Repubblica. Piccoli giochi che però pagano, e bene. Anche perché la propaganda non assicura solo popo-
fiuti nei pur efficientissimi impianti del Nord. Fa effetto pensare che il decisionismo del premier debba trasformarsi in silenziose marce indietro, quando incontra il rischio di un conflitto aperto con il Carroccio. Il punto è che la Lega sa opporre un linguaggio immediato, può permettersi per sua natura di irrigidirsi in modo anche irrazionale. Non vuol dire che proponga solo assurdità. Alcune delle obiezioni mosse in commissione dal leghista Guido Dussin sono ragionevoli. Ma è l’altro volto del Carroccio a creare problemi a Berlusconi, quello che su alcuni punti rifiuta a prescindere qualsiasi discussione. Si vedrà da lunedì alla Camera se la maggioranza è in grado di difendere il decreto sui rifiuti anche con il dissenso interno di Bossi.Tutto fa credere che non sarà quest’ultimo a dover mediare.
politica
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Il ministro delle Politiche giovanili, Giorgia Meloni. «Dopo che in tutto il mondo si è discusso a lungo di boicottaggio, ritengo che almeno un segnale vada dato, anche per mostrare ai cittadini cinesi l’interesse della comunità internazionale per la loro sorte»
Sulle Olimpiadi in Cina interviene il ministro Meloni
«Disertare l’apertura si può, anzi si deve» colloquio di Guglielmo Malagodi con Giorgia Meloni
ROMA. Ci sono opinioni molto diverse sulla partecipazione del governo italiano alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi in Cina. Favorevoli e contrari si distribuiscono trasversalmente agli schieramenti politici e allo stesso governo di Silvio Berlusconi. Appena due giorni fa, l’orientamento sfavorevole dell’esecutivo rivelato a Montecitorio dal sottosegretario Alfredo Mantica è stato seccamente smentito dal ministro degli Esteri, Franco Frattini. D’altra parte, non è un mistero che tra i membri del governo ci siano diversi sostenitori dell’opportunità di disertare la cerimonia d’apertura dei Giochi, fra questi e fin dalla prima ora c’è il ministro delle Politiche giovanili, Giorgia Meloni. Ministro Meloni, perché l’Italia dovrebbe astenersi dal partecipare all’inaugurazione? Per mandare un messaggio politico. Si tratta di un segnale politicamente rilevante, seppur non decisivo, affinchè il governo di Pechino comprenda che l’Italia e l’Europa non distolgono il loro sguardo dal mancato rispetto dei diritti umani in Cina. I sostenitori della real politik ritengono che non si debba irritare il governo di Pechino per non compromettere le nostre relazioni. Personalmente, ritengo che tra gli impegni in politica estera della nostra nazione ci sia anche quello di promuovere i diritti di libertà nel mondo. Credo che la fratellanza e la pace tra i popoli, l’obiettivo primario della nostra epoca, si diffondano solo in rapporto diretto con la libertà per ogni uomo di non vivere in un regime di oppressione. In questo senso le guerre possono fare ben poco, mentre credo che l’esercizio di una
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pressione politica internazionale possa essere molto utile. Il premier Berlusconi non si è ancora voluto esprimere sulla questione, ma ha rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che le Olmpiadi siano fatte per favorire l’amicizia e lo scambio tra i popoli. Naturalmente sono d’accordo. Credo che il problema sia proprio questo: troppa violenza in Tibet, troppi cittadini cinesi sono stati cacciati dalle loro case per far posto alle strutture che ospiteranno le competizioni e nessuna apertura è stata fatta per consentire loro di godere appieno di quella grande festa dei popoli che deve essere una Olimpiade. Dopo che in tutto il mondo si è discusso a lungo di boicottaggio, ritengo che almeno un segnale vada dato, anche per mostrare ai cittadini cinesi l’interesse sincero della comunità internazionale per la loro sorte. Un’ultima domanda, alcuni governi, forse anche il nostro, si nascondono dietro il paravento dell’Europa per non prendere alcuna posizione. Qual è la sua opinione? Credo sia giusto che i governi degli Stati membri si confrontino per assumere una posizione comune sulla loro presenza istituzionale alla cerimonia inaugurale. E sono certa che sarebbe enorme la rilevanza politica di un gesto forte come l’assenza di tutta l’Europa, senza eccezioni, se questa fosse la decisione assunta. Dico di più: mi piacerebbe che fossimo proprio noi, come governo italiano, ad avviare un’iniziativa in seno all’Unione Europea affinchè prevalga e venga condiviso con gli altri Stati membri il medesimo orientamento. Naturalmente contrario.
Dopo che in tutto il mondo si è discusso a lungo di boicottaggio, credo che almeno un segnale vada dato
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Segnali contradditori dal governo sulla questione dei diritti umani
Ministro, non si nasconda dietro l’Unione europea di Aldo Forbice inalmente un po’ di coraggio da parte del governo italiano. Sembrava così dopo la dichiarazione del sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica. Ma che cosa aveva detto di così “rivoluzionario” l’onorevole Mantica? Sulla partecipazione dell’Italia alla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici a Pechino aveva affermato che «il governo si atterrà alle decisioni dell’Unione europea e che comunque non è orientato a inviare a Pechino rappresentanti di alto livello». Sembrava una soluzione diplomatica intelligente che “scaricava” ogni decisione su Bruxelles. Ma persino questo timido tentativo di prendere le distanze da Pechino è stato subito smentito dal ministro degli Esteri, Franco Frattini. Evidentemente le autorità cinesi avevano sollecitato un impegno più vincolante da parte del governo italiano. Nelle ultime settimane avevano subito da quasi tutta Europa (Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Austria, Polonia, ecc.) le critiche, i “distinguo” i ”mezzi no” o addirittura le dichiarazioni di aperta ostilità di capi di Stato e di governo per la repressione delle popolazioni del Tibet e per il “doppio gioco”di Pechino: aperture verbali alle richieste di maggiore tutela dei diritti umani, a cui nei fatti ha sempre corrisposto una netta chiusura sulla libertà di stampa e di opinione .
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noranze religiose (Falun Gong, cristiani, musulmani e buddhisti tibetani) ed etniche (gli uigurui in modo particolare).
C’è poi da aggiungere che, sul fronte del Tibet, i negoziati ristagnano. Anzi sono stati rinviati a data da destinarsi. «Il rinvio - ha detto Tenzin Takla, portavoce del Dalai Lama - è stato motivato da Pechino con ragioni tecniche collegate al terremoto nel Sichuan. E tutto questo alla vigilia dell’arrivo della torcia olimpica a Lhasa, in una città militarizzata e con i monasteri assediati da migliaia di soldati cinesi. Non si notano più segnali di apertura delle autorità cinesi che continuano a dichiarare che la questione tibetana è “un problema interno”. Anche in occasione della dichiarazione Usa-Ue sul Tibet di due giorni fa il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Quin Gang, ha commentato: «I contatti col Dalai Lama sono una questione interna della Cina». È stata poi espressa una «viva preoccupazione per la dichiarazione Usa ed Ue sulla repressione cinese del Tibet, giudicando legittima la chiusura ai giornalisti stranieri e agli osservatori indipendenti della regione autonoma del Tibet e delle zone a popolazione tibetana di altre tre province cinesi. Ma, mentre tutte le organizzazioni umanitarie (Amnesty International in prima linea) continuano a insistere, non sul boicottaggio dei Giochi olimpici, ma per una più forte pressione sul governo cinese per ottenere qualche apertura sui diritti umani, Pechino risponde con diplomatico cinismo, facendo pesare la grande potenza economica e politica della Cina. Un esempio? Le esilaranti dichiarazioni del ministro degli Esteri,Yang Yechi. Leggere per credere: «Rispettiamo i diritti umani, il popolo cinese gode di tali diritti, della libertà di parola e di culto. Pechino rispetta i diritti umani del singolo e della collettività. Questo giudizio è condiviso ampiamente dalla comunità internazionale». Non si tratta di dichiarazioni tradotte dal quotidiano del partito comunista cinese, ma pronunciate in una conferenza stampa alla Farnesina, qualche giorno fa, alla presenza del ministro Frattini. Nessuno dei presenti ha commentato, ma anche i giornali hanno stranamente glissato.
Per aggiudicarsi i Giochi, Pechino promise che i diritti umani sarebbero stati tutelati
«Di tutte le promesse assunte dalla Cina - afferma Bernardo Cervellera, missionario e giornalista - per ottenere l’assegnazione delle Olimpiadi a Pechino,nessuna è stata rispettata». Nel suo libro, uscito in questi giorni, Il rovescio delle medaglie. La Cina e le Olimpiadi, Cervellera documenta tutte le promesse non rispettate. Nel 2001 Pechino promise che i diritti umani sarebbero stati maggiormente tutelati. Furono in tanti a crederci, a cominciare dal Comitato olimpico internazionale (che ancora oggi non ha mostrato di pentirsi dell’eccessiva apertura di credito), ma anche in queste ultime settimane gli operatori umanitari, i giornalisti stranieri, i navigatori sulla rete vengono controllati rigidamente e spesso arrestati. La stessa persecuzione subiscono sistematicamente tutte le mi-
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società
L’Italia delle comunità religiose. Viaggio nelle associazioni cattoliche/9 Agesci
L’armata di B. P. di Francesco Rositano
i inoltrano nei boschi con lo zaino in spalla e l’essenziale. Niente cocacola, pochi fronzoli. Scavano buche, accendono fuochi, cucinano all’aria aperta, dormono in tenda e si adattano ad ogni situazione. Senza distinzioni tra uomini e donne. E non tanto per una difesa ad oltranza della parità tra i sessi, ma per una scelta di valore: «Uomo e donna Dio li creò», recita la Bibbia e loro hanno deciso di applicare alla lettera questo spirito. Pennellate di vita scout. Di un metodo brevettato cento anni fa da un lord inglese – lord Baden Powell – e valido ancora oggi. Sono quattro i pilastri che lo alimentano: la salute-forza fisica, l’educazione del carattere, la spiritualità, il civismo. Un ideale di vita laico, con un grande slancio verso l’Alto, che ha avuto la forza di resistere per più di un secolo e di affascinare popoli di culture e tradizioni diverse: ebrei, musulmani, atei. Ed è riuscito a creare una maggiore unità tra le confessioni cristiane: cattolici, evangelici, ortodossi, protestanti. Baden Powell, infatti, non ha mai voluto associare lo scoutismo a una confessione religiosa per non creare ostacoli all’universale fraternità. Certamente, da credente, vedeva nella fede uno strumento fondamentale per raggiungere la felicità. Ecco come invitava tutti gli scouts del mondo a vivere ciascuno la propria fede: «Gioca nella squadra di Dio».
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Storie di uomini e donne che, pure a cinquanta anni, hanno l’aspetto da bambini: vestono in pantaloncini, pullover, folourds (chiamato fazzolettone) e cappellini. Ma non sono inge-
nui. Per loro la vita è “un grande gioco”, un’avventura nella quale poter scoprire di più se stessi e gli altri. E nella quale è sempre meglio tendere la mano al proprio vicino anziché fargli lo sgambetto. Fanno parte di questa concezione molti motti e modi di dire: «Butta il cuore oltre l’ostacolo», «dà un calcio all’impossibile». Grandi ideali che vengono raggiunti nelle piccole cose di ogni giorno: imparando a rammendarsi i calzini, ad usare un martello od una sega, ad intagliare il legno, a cucinare. Il primo pilastro dell’educazione scout, non a caso, è quello “dell’imparare facendo”, del rendersi utili agli altri coltivando un buon rapporto con le cose e con la natura. Oppure aiutando i più deboli: i poveri, gli anziani, gli ammalati.
Gli scout intendono la vita come “un cammino”, come un percorso da fare innanzitutto conoscendo se stessi, i propri limiti e cercando di superarli. Da ragazzini imparano a staccarsi dalla famiglia, a vivere autonomamente, a badare a loro stessi. Fanno lunghissime passeggiate
perenne tensione al miglioramento di sé nella quale è fondamentale confrontarsi con gli altri: con i coetanei e gli educatori, quelli che in gergo vengono chiamati “capi”. Certamente i talenti e le competenze che gli scout acquisiscono non rimangono rinchiuse nel recinto dell’individualismo, ma diventano un modo per servire in maniera migliore gli altri. La dedizione al prossimo, non a caso, è un pilastro dell’educazione dello scoutismo a livello mondiale. Fin da bambini vengono educati a questa attenzione, in maniera del tutto originale, in cui anche i gesti più nobili assumono la forma di un gioco: organizzano spettacoli teatrali per raccogliere fondi per ripararsi la tenda o aiutare associazioni di volontariato. Un impegno che cresce e con l’età. Ancora una volta nell’educazione scout il percorso umano e spirituale ha un suo riflesso negli ostacoli da superare concretamente. Quindi, mentre ci si abitua a percorre distanze sempre più lunghe, si impara a dedicarsi al prossimo in maniera più attiva: prestando assistenza agli anziani o ai bambini disabili, servendo alla mensa della Caritas. Oppure rendendosi disponibili
di Baden-Powell senza trascurare gli insegnamenti della Chiesa di Roma è l’Agesci (Associazione Guide e Scouts cattolici italiani), nata nel 1974 dalla fusione delle Associazioni scout cattoliche Asci (maschile) e Agi (femminile). Una realtà in cui la componente cattolica e il legame con la Santa Sede è fondante. I giovani sono affiancati da assistenti spirituali, da sacerdoti, e vengono aiutati a coltivare la propria fede attraverso vari momenti: la preghiera, i “deserti” (momenti di meditazione), mo-
Lo scoutismo è un fenomeno mondiale che coinvolge ragazzi di religioni diverse e si basa sui 4 punti di Baden Powell. L’Agesci abbraccia questi principi e li inserisce nell’alveo cattolico nei boschi, camminano al margine dei precipizi con un pesante zaino in spalla, allestiscono “punti cucina”tra gli alberi. Non è un modo per sfidare e dominare la natura selvaggia, ma per vivere la concretezza della vita, partendo dalla capacità di sapersi adattare alle situazioni. Per loro il cammino fisico, l’educazione del corpo diventa metafora di un percorso di crescita umana e spirituale. Una
in momenti di particolare emergenza per la collettività: alluvioni, frane, terremoti.
Tutto è cominciato cento anni fa in Inghilterra. È il primo agosto 1907 quando lord Baden Powell, sull’isola inglese di Brownsea, apriva il primo campo scout della storia, dando il via alla nascita del movimento che nel corso di questo primo secolo di vita si è diffuso in oltre duecento paesi e conta oggi circa trentotto milioni di membri (180 mila in Italia). In Italia, la più grande associazione che segue i punti
menti di vita comunitaria. In questa associazione, quindi, la strada verso la felicità diventa chiaramente una strada di progressivo avvicinamento a Dio.
L’Associazione conta oggi circa 180.000 aderenti, tra gli 8 e i 21 anni, di cui circa 30.000 educatori, ed è organizzata in circa 2000 gruppi locali suddivisi in unità in base all’età. Ogni fascia corrisponde idealmente ad un gradino da superare, ad una tappa fondamentale nel percorso compiuto da ciascun aderente. Lo Scoutismo si rivolge a ragazzi dai 7-8
anni fino ai 20-21, articolandosi in tre fasce di età (o ”branche”): da 7-8 a 11 anni i bambini e le bambine vivono nel ”branco” o nel ”cerchio” come lupetti o coccinelle; dagli 11-12 ai 16 anni ragazzi e ragazze sono nel ”reparto” come esploratori e guide; dai 16-17 ai 20-21 i giovani, uomini e donne, sono nel ”clan” come rovers e scolte. La proposta scout pur identica per tutti i ragazzi del mondo, può essere vissuta nei diversi contesti culturali e religiosi: i suoi principi ispiratori universali, sono sintetizzati nella Promessa, nella Legge scout e nel Motto. Tre gesti che hanno tutto il sapore di una legge morale, valida per tutti gli uomini. Laici e cattolici, credenti e non credenti. Ecco, ad esempio, cosa recita la Promessa: «Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio: per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio paese; per aiutare gli altri in ogni circostanza; per osservare la Legge scout». Con questo gesto, pronunciato a circa dodici anni il ragazzo non solo «entra a far parte della grande famiglia degli Scouts», ma si impegna di fronte a Dio ed al mondo, forte della fiducia che sente riposta in lui e della libertà con cui aderisce a questo ideale, per giocare un ruolo responsabile nella vita. Un impegno senza termine sintetizzato in due motti: «se piace a
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I leader scout presentano la loro ricetta al ministro Giorgia Meloni
«Abbiamo noi il segreto contro il bullismo» colloquio con Paola Stroppiana e Alberto Fantuzzo di Francesco Rositano
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Dio per sempre», «una volta scout, sempre scout».
Di fronte ad una società che denuncia la peggio gioventù, che rimprovera ai ragazzi di essere scivolati nell’anarchia etica, di non aver punti di riferimento, gli scout continuano a portare avanti una concezione positiva della gioventù. Secondo Baden Powell, infatti, in ogni persona c’è almeno un 5% di buono, un piccolo tesoro che con il tempo si può far fruttare. Traduzione laica della parabola evangelica dei “talenti”. Senz’altro, gli scout hanno compreso che, affinché il “tesoretto” di ogni ragazzo possa fruttare, bisogna piantarlo nel terreno giusto. Ancora una volta la difficile sfida di trovare il 5% di buono diventa un gioco. Un grande gioco in cui tutti sono coinvolti: giovani ed adulti, indifferentemente.
Questa non è un’intervista doppia «stile Iene», ma un confronto aperto tra due persone che condividono lo stesso ruolo di responsabilità nell’Agesci, un’associazione fondata a tutti i livelli sulla diarchia. Paola Stroppiana e Alberto Fantuzzo sono presidenti del Comitato nazionale. Ma per loro l’incarico attuale viene svolto con lo stesso spirito con cui hanno svolto servizo educativo a livello locale”. Forti di una lunga esperienza nel mondo giovanile, analizzano la situazione attuale e danno qualche consiglio al Governo. Il primo arriva dalla dottoressa Stroppiana, 40 anni, neonatologa in un ospedale di Torino: «Da noi il bullismo non esiste e siamo convinti che in ogni ragazzo, anche in quello più problematico, ci sia un seme positivo, da valorizzare e far crescere. Al governo comunque abbiamo già chiesto di convocarci per discutere della situazione e suggerire soluzioni». Alberto Fantuzzo, 45 anni, responsabile dell’area commerciale di Banca Popolare Etica a Padova, denuncia l’attuale situazione che definisce di “dimenticanza educativa”e continua: «In troppi si dimenticano di educare. Dalla famiglia, che è portata a viziare anziché ad educare, alla politica che considera i giovani un bacino elettorale. Alla scuola che non fa più educazione civica, e alla Chiesa che anziché accompagnare è preoccupata di regolamentare. I giovani hanno bisogno di sperimentare e bisogna accompagnarli con grande discrezione e con grande testimonianza. Chiediamo al governo di incontrarci perché pensiamo di poter dire qualcosa su un tema che ci riguarda da vicino. D’altra parte tempo fa abbiamo già incontrato il ministro ”ombra” del Pd». Il punto quindi non è tanto di inculcare ai giovani dei contenuti, ma di aiutarli a scegliere. «I ragazzi – continua la Stroppiana – vanno stimolati a conoscere i propri limiti e le proprie qualità. Essere consapevoli di se stessi, d’altra parte, è l’unico modo per migliorare. Ecco perché proponiamo attività molto concrete: dormire in tenda o sotto le stelle, imparare ad arrangiarsi cucinando all’aperto, raccogliere la legna, usare la manualità . Doti che vengono acquisite non per se stessi, ma per rendersi utili agli altri. La solidarietà è un altro pilastro dell’associazione». Un’associazione in cui, oltre allo slancio umano verso il prossimo, viene accentuata la complementarietà tra uomini e donne, che rifugge ogni ruolizzazione o separazione precostituita. «Da noi – aggiunge Fantuzzo – esiste la diarchia a tutti i livelli perché crediamo che nella complementarietà ci sia una maggiore consapevolezza di sensibilità, di valore, di comprensione, di espressione. Dobbiamo educare i nostri ragazzi ad una
«Con l’aiuto di Dio prometto sul mio onore di fare del mio meglio: per compiere il mio dovere verso Dio e verso il mio paese; per aiutare gli altri in ogni circostanza; per osservare la Legge scout». Con questa «Promessa», i ragazzi entrano negli scout. In alto e a destra alcuni fotogrammi di questo evento. A sinistra un raduno dell’Agesci in piazza San Pietro
corretta identità di genere, testimoniandolo prima di tutti noi capi. D’altra parte siamo una delle poche associazioni scout a livello mondiale che fa vivere maschi e femmine assieme, che sperimentano la dimensione di genere come una possibilità di confronto». Toccata su un tema che la riguarda da vicino, la dottoressa Stroppiana, aggiunge: «Ecco come si esprime questo concetto concretamente: anche le ragazze fanno la vita nei boschi, imparano ad accendere un fuoco, a cucinare sul fuoco. I ragazzi, a loro volta, preparano da mangiare, si rammendano la maglietta. Siamo per una parità dei sessi con l’idea che non bisogna appiattire, che non ci sono delle ruolizzazioni, o separazioni precostituite. Riconoscersi diversi non è un ostacolo, ma un modo per mettere a frutto i propri talenti e rendeli a disposizione degli altri» Il confronto tra uomo e donna, ma anche quello a tutto campo tra aderenti all’associazione è il sale dell’Agesci. Continua la dottoressa Stroppiana: «L’autoeducazione, l’imparare progressivamente, a diventare autonomo e ad essere capace di comprendere quali sono i propri limiti, ad accettarli, a superarli. È il primo pilastro, ma non basta. Ecco perché a questa dimensione più personale proponiamo momenti di vita comunitaria. Il tempo trascorso con i miei coetanei, ma anche con i capi, mi aiuta a vedermi, a ragionare su me stesso, e a migliorare. La proposta dell’Agesci è una proposta globale perché prende in considerazione tutti gli aspetti della persona: sia gli aspetti del miglioramento di sè che quelli della relazione con gli altri. Dimensioni che hanno sempre una grande concretezza. E soprattutto un valore per la società e la collettività. Noi ci battiamo alacremente contro l’egocentrismo e l’individualismo». E non è un caso che l’Agesci sia una delle associazioni più attive nel volontariato: l’aiuto ai più poveri, agli anziani, ai disabili. Ma anche interventi nel caso di calamità naturali, come terremoti, frane. Un volontariato che viene indebolito dall’organizzazione del lavoro. Ecco perché Alberto Fantuzzo invoca una riforma del lavoro, che eviti la perdita di tempo. «Più precari ci sono, meno volontari ci sono. Infatti, chi non ha una vita lavorativa stabile non può dedicarsi agli altri. A questo lego un’altra considerazione: più pendolari ci sono e meno volontari ci saranno perché i tempo che si dedica agli spostamenti la o sottrae al volontariato. Non si tratta di mettere in campo nuove forze, ma di organizzare meglio quelle esistenti. L’unico modo per strappare la società alla morsa dell’egoismo e dell’egocentrismo, sempre in agguato».
Educazione: bisogna riorganizzare le forze in campo per strappare la società all’egoismo
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mondo
Cresce fra i Tory la componente pro life che vuole rivedere il tetto di accesso all’Igv, oggi a 24 settimane
Anche Londra ridiscute l’aborto Uno studio del Civic Exchange fotografa la qualità dell’aria
Smog: 10mila morti a Hong Kong, Macao e Guandong di Matteo Milesi l crescente inquinamento dell’aria è responsabile di circa 10mila morti e 440mila giorni di ospedalizzazione l’anno a Hong Kong, Macao e sud della Cina. La denuncia viene da uno studio condotto dall’istituto Civic Exchange e diffuso nelle università del Paese. Uno degli autori della ricerca, Anthony Hedley, che è docente di medicina ed esperto di ambiente e sanità all’Università di Hong Kong, ritiene che «sono circa 10mila le morti dovuto all’inquinamento», ai quali vanno aggiunti 11 milioni di visite mediche e 440mila giorni di ospedalizzazione. Accanto ai costi umani, la pessima qualità dell’aria ne ha anche di economici, valutabili in 6,7 miliardi di yan (poco più di 600 milioni di euro) per danni sanitari e riduzione della produttività. Anche in quest’ultima prospettiva, la lotta contro l’inquinamento è «questione di vita o di morte» per le zone esaminate nell’inchiesta - Hong Kong, Macao ed il Guangdong – che possono perdere competitività nei confronti di Singapore. Il miglioramento della qualità dell’aria è questione grave nella ex-colonia britannica. Il capo dell’esecutivo, Donald Tsang ha promesso di ottenere significativi cambiamenti entro il 2012, anche grazie all’aiuto delle autorità cinesi, per le quali il problema è non meno grave, anche nella prospettiva delle ormai prossime Olimpiadi. Il cronico inquinamento dell’aria a Hong Kong causa almeno 1.600 morti ogni anno, specie per infarto, polmonite e altre malattie respiratorie.
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L’inquinamento, denuncia lo studio, è del 40 percento maggiore che a Los Angeles, la città con il maggior tasso di smog in America. Nel 2004 a Hong Kong c’erano 62 microgrammi di polveri sottili per metro cubo, rispetto ai 30 di Londra e ai 22 di New York. Per il 45 percento dell’anno c’è «scarsa visibilità» e per più di 50 giorni non è possibile vedere a 8 chilometri di distanza. «L’inquinamento dell’aria - dice Anthony Hedley è la maggiore minaccia alla nostra economia e salute. È una vera emergenza medica», che ogni anno causa 64 mila ricoveri ospedalieri di un giorno, 6,8 milioni di visite del medico di famiglia e perdite economiche per 20 miliardi di dollari di Hong Kong (2,6 miliardi di dollari Usa). L’emergenza è cresciuta negli ultimi anni e dipende non solo dalla città (c’è uno stretto controllo sugli scarichi dei veicoli) ma soprattutto dalla continua crescita urbanistica e industriale della zona della Perla del Delta del Fiume, come è chiamata l’antistante costa della provincia del Guangdong. Negli scorsi anni più volte i governi della città e del Guangdong si sono impegnati a combattere l’inquinamento e nel 2002 (quando si parlava di “solo” 800 morti l’anno e di un danno per 1,7 miliardi di dollari locali) hanno promesso di ridurlo del 55 percento entro il 2010, rispetto ai livelli del 1997. La situazione è invece precipitata.
di Simone Bressan ell’Inghilterra di oggi il posto più pericoloso in cui ti puoi trovare è il grembo di tua madre». Non usa mezzi termini Edward Leigh, deputato conservatore al Parlamento di Sua Maestà, per cercare di convincere i suoi colleghi che la legislazione britannica sull’aborto necessita di una seria revisione.
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Andiamo con ordine e facciamo un passo indietro. E’ il 1990 quando il Parlamento Inglese licenzia il controverso Human Fertilisation and Embryology Bill, la legge con cui viene regolato, tra gli altri, il diritto di una donna ad abortire.Ventiquattro settimane è il limite fissato dal documento e si tratta di un limite altissimo che pone più di qualche problema di coscienza. Qualcosa inizia a muoversi all’interno del movimento conservatore e si giunge fino alla proposta portata in aula pochi giorni fa che prevedeva una seria revisione della legge, con l’abbassamento del tanto discusso termine. «Dodici settimane» è stata la prima proposta di Edward Leigh, animatore del dibattito sul tema. Un dimezzamento che è stato, però, considerato troppo drastico anche dai suoi stessi compagni di partito. I conservatori, anche quelli ostinatamente pro-life, si sono armati di una buona dose di realismo e hanno cercato di ottenere un compromesso che riuscisse quantomeno ad abbassare di due settimane il limite, portandolo a 22. Niente da fare nemmeno così. Tutti gli emendamenti che puntavano ad una riduzione, anche ragionevole, del limite entro cui l’embrione è considerato semplicemente materia (ma ha senso parlare di embrioni dopo 6 mesi di gestazione?) sono stati bocciati da maggioranze più o meno ampie. Il dibattito non si è, comunque, fermato e mentre il ministro per la salute, la laburista Dawn Primarolo, si dice convinta che il limite fissato nel 1990 non vada cambiato perché solo «dopo 24 settimane un bambino inizia ad avere qualche possibilità di vivere autonomamente», il Partito conservatore si interroga su una questione che riporta il dibattito interno sul piano dei valori. Chi si aspettava un centrodestra britannico lanciato verso una forma di iper-modernismo che metteva in secondo piano i temi tradizionali del conservatorismo mondiale è rimasto, senza dubbio, deluso. Non solo il dibattito sul concetto di «vita» è attualissimo ma da un recente sondaggio svolto tra tutti i possibili candidati alle prossime elezioni
David Cameron, leader dei conservatori per il Tory Party emerge che ben 9 su 10, con sfumature diverse, sono favorevoli ad una revisione della legge e ad un abbassamento sensibile del limite. Non solo: quasi il 60% dei futuri parlamentari conservatori ritiene troppo alto anche
Un sondaggio fra i conservatori rivela che ben 9 su 10 sono favorevoli ad una modifica del testo e ad un sensibile abbassamento del limite il limite di 22 settimane su cui si è votato di recente e preferirebbe abbassarlo ulteriormente. In leggera controtendenza rispetto al partito è il leader del movimento, David Cameron. Da sempre sensibile al tema del sostegno alla famiglia, il giovane aspirante primo ministro, ha cercato di mettersi il più possibile al riparo dalle guerre di religione sui temi etici, temendo divisioni insanabili all’interno del suo stesso partito. Cameron deve, però, fare i conti con una realtà dei fatti e con una base che gli sta chiedendo conto, dopo averlo sostenuto sulle sue poco ortodosse proposte economiche e sociali, anche delle sue posi-
zioni sui temi etici. Il giovane David non si è sottratto e alla votazione sull’abbassamento del limite è stato l’unico leader di partito ad esprimersi favorevolmente, mentre Nick Clegg dei Liberal Democratici e il premier Gordon Brown si sono detti fermamente contrari a rivedere la legge sull’aborto.
Altro segnale importante è venuto dall’estrema compattezza con cui ha votato il cosiddetto “governo ombra” dei Tories e dal conseguente rafforzamento della componente pro-life all’interno del partito. Una componente che, guidata dalla deputata Nadine Dorries, è pronta a lanciare un’autentica campagna di informazione e di sensibilizzazione sul tema, tanto che da ambienti vicini all’quartier generale conservatore sussurrano di una proposta di legge già pronta per essere presentata non appena David Cameron si insedierà a Downing Street. Prima, però, bisogna vincere le elezioni. Per farlo, accanto ai tradizionali temi economici e della sicurezza, i conservatori lanciano la loro offensiva sui valori. Dopo i tentennamenti iniziali anche Cameron sembra aver capito che la difesa della vita non può essere un tema a cui sottrarsi: la prossima campagna elettorale si giocherà anche su questo.
mondo
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d i a r i o Il presidente afghano Hamid Karzai assieme al “collega” francese Nicolas Sarkozy, nel loro penultimo incontro al vertice Nato di Bucharest lo scorso aprile
L’Afghanistan chiede 50 mld di dollari ma ne ottiene meno di 20
I donatori deludono le aspettative di Karzai di Antonio Picasso l risultato che porta a casa il presidente dell’Afghanistan Karzai, dalla conferenza dei donatori di Parigi, è minore di quello sperato. D’altra parte era previsto. Kabul aveva chiesto un finanziamento di oltre 50 miliardi di dollari in cinque anni, ne ha ricevuti poco meno di 20. La cifra non è irrisoria, ma risolve ben poco.
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Dal summit quindi tutti i partecipanti – sia Karzai sia i donatori – escono con il medesimo senso di frustrazione con cui erano arrivati. Gli ottanta rappresentanti dei singoli Paesi, le organizzazioni internazionali e il governo afghano hanno trovato solo un accordo di minima. I primi hanno preferito non esporsi eccessivamente, con finanziamenti di cui non sono certi della destinazione. I donatori infatti si sono resi conto di tenere sì i cordoni della borsa. Ma ogni volta che questa viene aperta, si assiste a dispersioni e a sprechi incontrollati di denaro. Non a caso, la Banca Mondiale – che si è impegnata con altri 1,1 miliardi di
dollari per i prossimi cinque anni – ha ribadito l’urgenza, per rendere più efficaci gli aiuti internazionali, di combattere la corruzione e limitare il ricorso ai subappalti. Karzai, a sua volta, sconta il fatto di essere il solo interlocutore affidabile agli occhi della comunità internazionale. Questo, da una parte, gli permette di avere una sorta di «carta di credito» unica al mondo, mediante la quale poter ricevere i finanziamenti necessari. D’altra parte, gli impone di parlare con coloro che i governi occidentali considerano nemici. Non si può dimenticare il fatto che Karzai è un pashtun, come lo è la maggior parte delle tribù di opposizione al suo governo. Una coincidenza – per quanto sottile, visto che si tratta di realtà tradizionalmente nemiche fra loro – che può essere fonte di ambiguità e di indebolimento per l’immagine del presidente afghano. Si aggiunge infine il «nodo Pakistan», le cui precarie condizioni di sicurezza non garantiscono il necessario retroterra di stabilità per le forze impegnate in Afghanistan. Le aree tribali infatti, a
cavallo tra le due frontiere, restano l’epicentro della militanza jihadista anti-Nato. In particolare dopo i tanto criticati accordi di non belligeranza, firmati con Islamabad.
Sulla carta i donatori appaiono i più forti. Lo dimostra la cifra ridotta di denaro stanziato. E lo confermano le decisioni assunte per esempio dall’Italia e dalla Germania, che hanno preferito rivedere al rialzo il loro contributo in termini di contingente militare piuttosto che economico. Come richiesto da Washington e da Londra, il nostro Paese si è detto pronto a modificare i caveat attuali e a inviare un certo numero di carabinieri per addestrare la polizia afghana. Berlino, dal canto suo, intende aumentate il suo contingente di almeno 1.100 uomini, portandolo a 4.400. Ma è anche vero che senza Karzai né l’Onu né la Nato andrebbero da qualche parte. È il solo con cui è possibile il dialogo e che agevola il rapporto con le comunità locali – a livello di Prt – per la ricostruzione. analista Ce.S.I.
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g i o r n o
Cuba tenta una rivoluzione economica Una nuova, piccola, rivoluzione cubana è stata annunciata da un articolo del vice ministro del lavoro, Carlos Mateu, pubblicato sul quotidiano del partito comunista, Granma. Per avvicinarsi a parametri economici più efficienti, Mateu invita a mettere in soffitta la dottrina socialista dell’egualitarismo economico. Il primo passo in questa direzione, dovrà essere l’equiparazione tra salario e prestazione lavorativa. L’articolo riprende il regolamento generale su questa materia pubblicato lo scorso febbraio dal governo, disatteso finora da gran parte delle imprese dell’isola caraibica.
Giappone, Fukuda in bilico Dopo le elezioni parziali della scorsa estate, Tokio si trova nella strana situazione di avere due maggioranze diverse per le due Camere del Paese. I risultati dell’anomalia si stanno vedendo in questi giorni. Dopo la sfiducia di martedì al governo Fukuda da parte dell’organo del legislativo controllato dall’opposizione, l’altro, la più potente Camera bassa, ieri ha dato il suo sostegno al primo ministro. Anche se tale voto non è vincolante, l’annuncio fatto dall’opposizione, boicottare i lavori futuri del parlamento, potrebbe mettere in una posizione delicata il premier. Fukuda ha comunque fatto sapere che non ha intenzione di dimettersi né di andare a elezioni anticipate.
Zimbabwe, arresti per Tsvangirai e Biti Intimidazioni e violenze si moltiplicano nello Zimbabwe con l’avvicinarsi del ballottaggio presidenziale, previsto per il 27 giugno. Ieri, per la terza volta in 10 giorni, è stato fermato il leader dell’opposizione e candidato in vantaggio al voto Morgan Tsvangirai, rilasciato dopo un paio d’ore.Ancora agli arresti con l’accusa di alto tradimento, invece,Tendai Biti, segretario generale del partito. Rischia la condanna a morte.
Il Canada si scusa con i propri indigeni Dopo Canberra è il turno di Ottawa. Mercoledì il capo del governo canadese, Stephen Harper, in una storica dichiarazione, ha presentato le scuse alle popolazioni originarie del Paese. Harper ha detto che soprattutto le separazioni forzate tra figli e genitori, avvenute fino alla metà del Dicianovesimo secolo, rappresentano un triste capitolo nella storia del Canada. Più di 150mila bambini appartenenti a famiglie indigene sono stati strappati alle famiglie e costretti a crescere in collegi statali cristiani. Il governo ha stanziato 5 miliardi di dollari di riparazione.
Sarkozy invita Bachar al-Assad il 14 luglio Dopo la rupture del 2004 la nuova strategia mediorientale di Parigi si arricchisce di un nuovo tassello. Ieri l’Eliseo ha ufficialmente confermato che il presidente siriano sarà alla sfilata sui Campi Elisi. Anche se Bachar non ha ancora confernato al sua presenza, secondo il Quay d’Orsai il leader di Damasco dovrebbe essere a Parigi mercoledì 13 luglio. Dell’apertura verso l’uomo forte del regime alawita, fanno parte anche le visite del consigliere diplomatico di Sarkozy e del segretario generale dell’Eliseo, più il viaggio lampo dello stesso presidente francese a Damasco. Scetticismo di Washington e costernazione di Beirut hanno accompagnato la dichiarazione di Parigi.
Israele, i laburisti pronti alla crisi se il premier non si dimette dopo le accuse di corruzione
Barak a Olmert, nuovo governo o scioglimento Knesset TEL AVIV. Per Ehud Barak la priorità è Gaza e il futuro del governo Olmert. Il partito laburista israeliano è molto preoccupato dei continui attacchi missilistici dalla Striscia e sta seriamente valutando tutte le possibilità di dare all’esercito l’ordine per una operazione su larga scala - evitando il pericolo di un allargamento del conflitto - e quali siano le effettive possibilità che si riesca a riportare la calma a sud di Israele. Lo schieramento politico di Barak «desidera la stabilità» della coalizione di governo con i centristi di Kadima, ma è pronto a presentare una mozione di sfiducia contro Ehud Olmert e a votare favorevolmente per la «dissoluzione» del parlamento entro il 25 giugno se lo stesso Olmert - coinvolto in un’inchiesta di corruzione -
non accetterà di dimettersi. Non solo. Barak e i laburisti da giorni chiedono che Kadima, il partito del premier, dia vita a una tornata di primarie entro i propri ranghi - come auspicano anche i rivali del premier interni al partito, a cominciare dalla ministra degli esteri, Tzipi Livni - per designare un nuovo candidato alla guida del governo. Queste le condizioni per non uscire dalla coalizione di maggioranza. Dietro queste pressioni, Olmert sembra disposto a dare il suo assenso al progetto di elezioni primarie all’interno di Kadima senza, tuttavia, escludere di potersi riproporre fra i candidati in lizza, ritenendo “infondati”i sospetti contro di lui. Dal suo entourage è trapelata la voce che le primarie potrebbero svolgersi non prima di settembre, una scadenza consid-
erata troppo lontana dai partner laburisti. Intanto per il 18 giugno, una mozione di scioglimento della Knesset è stata già annunciata dalla destra nazionalista del Likud, il maggiore partito di opposizione, indicato dai sondaggi quale principale beneficiario di un eventuale voto politico anticipato in tempi brevi. Ci sono state diverse ipotesi sul come salvare la legislatura e dare ad Israele un governo forte, ma nessuna di esse - da un rimpasto con un nuovo primo ministro, all’incarico al leader dell’opposizione per un governo di unità nazionale - si sono rivelate praticabili. Questo sia per l’ostinazione di Olmert sia perché i due grandi partiti, Likud ed Ahavoda, sentono che da nuove elezioni uscirebbero vincenti. (M.S.)
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speciale approfondimenti a vicenda tragica della «madonna dei socialisti rivoluzionari» (Marija Spiridonova, ndr) ci ha portato lontano dal terrorismo del primo decennio del secolo per seguire fino alla sua conclusione un emblematico destino. Torniamo al periodo iniziale con un altro episodio ancor più significativo dal punto di vista storico, poiché riguarda un personaggio chiave della storia russa alla vigilia della rivoluzione, Pëtr Stolypin, bersaglio di un terrorismo più estremo di quello dei socialisti rivoluzionari, di una loro parte, detta «massimalistica», poi diventata autonoma, che teorizzava e praticava un terrorismo non «individuale», cioè diretto contro singoli rappresentanti del potere, ma «di massa», cioè indiscriminato, coinvolgendo nell’attentato un numero illimitato di persone compresenti, e attuava anche ingenti «espropri», cioè rapine per autofinanziarsi. Il clamoroso e disastroso attentato dei «massimalisti» nel 1906 contro Stolypin fallì e anticipò quello finale, anomalo e oscuro, che nel 1911 costò la vita a quest’uomo politico, vent’anni dopo l’altro attentato, quello del 1° marzo 1881, che aveva eliminato Alessandro II. L’attentato del 1906, sensazionale e senza precedenti per la carneficina che provocò, può essere considerato in sé, prescindendo dal significato politico della sua vittima designata e mancata, il ministro degli Interni e presidente del Consiglio dei ministri Pëtr Stolypin, mentre il secondo e definitivo, quello del 1911, mirato e riuscito, è legato strettamente al significato della sua politica e la sua natura resta tuttora enigmatica e controversa. Per l’attentato i terroristi «massimalisti» scelsero la dacia di Stolypin dell’isola Aptekarskij a San Pietroburgo in un giorno di ricevimento, quando lì si trovavano, oltre alla scorta, i visitatori per presentare al ministro le loro richieste. Il 12 agosto 1906, alle tre e un quarto del pomeriggio, quando l’iscrizione del pubblico era
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Carte ANTEPRIMA. Un libro di Vittorio Strada racconta l’origine etica del nuovo terrore
RUSSIA 1906, COSÌ NASCE IL TERRORISMO MODERNO di Vittorio Strada
davanti a sé, dopo di che echeggiò uno scoppio assordante». La scena che si presentò è così descritta dal capo della polizia politica (ochrana) di San Pietroburgo: «Tutta la dacia era circondata da spessi nugoli di fumo. L’intera facciata dell’edificio era distrutta. Intorno c’erano frammenti del balcone e del tetto. Sotto le macerie giacevano la carrozza squarciata e i cavalli feriti in preda a convulsione. Intorno gemiti e lamenti. Dappertutto brandelli di carne umana e sangue». Il bilancio finale fu di una sessantina di feriti e una trentina di morti (compresi i terroristi). Feriti furono anche la figlia quattordicenne e il figlio di quattro anni di Stolypin. Ma Stolypin restò illeso nel suo studio, l’unica stanza che sfuggì all’esplosione. Per completare questo quadro di vita pietroburghese sotto il terrore con un particolare curioso ascoltiamo il ricordo della figlia di Stolypin Marija: «Al momento dello scoppio papà era seduto alla scrivania. Nonostante le due porte chiuse tra lo studio e il luogo dell’esplosione un enorme calamaio di bronzo si sollevò dal tavolo e volò sopra la testa di mio padre, coprendolo di inchiostro. Lo scoppio non provocò altro danno nello studio e, tra le decine di morti e feriti nelle stanze attigue e superiori, papà, grazie a Dio, rimase illeso». Nell’attentato del 1911 la «grazia di Dio» non operò e, invece dell’inchiostro, quasi simbolo dell’attività di riformatore, si versò il sangue di quell’uomo odiato sia dai rivoluzionari che dai reazionari e neppure amato dal sovrano, Nicola II, per il quale lavorava con tanta dedizione e intelligenza.
In quegli anni si sperimentò l’attentato di massa, feroce ed indiscriminato ormai chiusa, all’edificio si avvicinò una carrozza d’affitto con tre persone a bordo: due in divisa da ufficiale dei gendarmi, una in borghese. Ecco la cronaca dell’azione: «Per primo dalla carrozza uscì l’ufficiale che era seduto dietro e, reggendo una borsa nuova di pelle nera, evidentemente pesante, si diresse in fretta verso l’ingresso della dacia. Dopo di che quello in borghese (…) prese il suo posto nella carrozza e passò al secondo ufficiale, sceso a terra, una borsa identica e, afferratane una terza che gli giaceva accanto, balzò fuori dallo sportello destro e corse verso l’ingresso dietro agli ufficiali. «Entrati nell’atrio, dove erano in attesa i visitatori, il primo ufficiale si diresse verso lo spogliatoio con l’intenzione di entrare nell’attigua stanza di ricevimento, ma non fu lasciato passare. Il secondo ufficiale cercò di fermarlo l’agente Kazancev che aveva notato la sua barba posticcia, ma non fece in tempo a mettere in atto il suo proposito e, rivolto al generale Zamjatin, col grido “Attenzione” poté preavvertire dell’imminente pericolo. Ai due ufficiali fermati presso lo spogliatoio si avvicinò di corsa quello in borghese e tutti e tre, esclamando “Viva la libertà! Viva l’anarchia!”, sollevarono in alto le borse e simultaneamente le gettarono
L’attentato dell’isola Aptekarskij fece grande impressione anche tra i socialisti rivoluzionari che, rompendo definitivamente con i compagni «massimalisti», dichiararono di non aver nulla a che fare con quell’atto e di non condividere le sue modalità (il coinvolgimento
del pubblico). Al contrario il leader dei «massimalisti», Michail Sokolov (detto «l’orso») a proposito delle vittime «estranee» fatte nell’attentato commentò: «Sarebbero “vite umane” queste? Una banda di scherani che andavano fatti fuori uno a uno… non si tratta di eliminare (Stolypin), ma di terrificare, loro devono sapere che c’è una forza che li schiaccia. Quello che conta è la vastità dell’azione… Una mole di pietra va fatta saltare con la dinamite, e non presa a colpi di pistola». Questo ramo del terrorismo si differenziava da quello di una Zasuliã o di una Spiridonova, benché sempre disposto al sacrificio suicida, e si avvicinava a quello di massa che si affermerà, ormai a livello statale, dopo l’ottobre 1917. L’attentato del 1911 contro Stolypin non può prescindere dalla personalità della sua vittima, dalla sua politica e dalle reazioni che essa provocò negli ambienti stessi del potere autocratico, che al suo assassinio non furono forse estranei, anche se a compierlo fu un giovane rivoluzionario, Dmitrij Bogrov, figura ambigua quanto l’atto terroristico di cui fu il protagonista. Sia la politica di Stolypin, sia la sua eliminazione costituiscono argomenti assai complessi, sui quali ricca e aperta è la ricerca storica: qui se ne considereranno gli elementi essenziali per la comprensione della fase torbida in cui era entrato il terrorismo russo, contaminato da intrighi e provocazioni della polizia politica russa, oltre che degradato a eccessi estremistici, dopo il periodo «eroico», per quanto pur sempre criminoso, iniziale. Nel terrorismo avveniva una «mutazione» foriera di una sua ulteriore trasformazione in eccidio. Controverso e contrastato ai suoi tempi, Pëtr Stolypin resta oggetto di valutazioni diverse anche negli studi storici, benché ormai il valore della sua figura e della sua politica sia generalmente riconosciuto secondo un più equo ed equilibrato giudizio. La sua lotta contro l’eversione fu dura, come dura, del resto, fu l’azione eversiva e terroristica. Ma la «pacificazione» del paese comportava, per lui, non una restaurazione, bensì un programma di riforme profonde che avrebbero dovuto rimuovere le cause della rivolta: «le riforme al tempo della rivoluzione sono necessarie poiché la rivolu-
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zione è stata generata per lo più da difetti dell’ordinamento interno. Se ci si occupa esclusivamente della lotta contro la rivoluzione, nel migliore dei casi se ne eliminano le conseguenze, ma non la causa: cureremo la piaga, ma il sangue infetto genererà nuove lacerazioni». Il piano di riforme fu espresso con altrettanta chiarezza: «La nostra patria, trasformata per volere del Monarca, deve diventare uno Stato di diritto poiché, finché la legge scritta non determinerà e proteggerà i diritti dei singoli sudditi russi, questi diritti, come i doveri, si troveranno a dipendere dall’interpretazione e dall’arbitrio di singole persone, cioè non saranno saldamente stabiliti». L’idea centrale del programma in cui Stolypin impegnò intelligenza e passione, oltre al talento oratorio che lo imponeva nelle battaglie parlamentari (alla Duma), era una
riforma agraria base e premessa di quella istituzionale, che garantisse al contadino la proprietà individuale della terra, creando il terreno sociale su cui soltanto potevano fiorire le libertà civili, elevando il benessere della popolazione: «Finché il contadino è povero, finché non possiede la proprietà terriera personale, finché si trova forzosamente nella morsa della comune agricola (ob‰ãina), egli resta uno schiavo e nessuna legge scritta gli darà i beni della libertà civile. Per godere di questi beni è necessaria infatti una certa, sia pur minima, dose di indipendenza. Mi vengono in mente, signori, le parole del nostro grande scrittore Dostoevskij, secondo cui “il denaro è la libertà coniata”. Perciò il Governo non poteva non andare incontro, non poteva non dare soddisfazione a questo sentimento, innato in ogni uomo e quindi anche nel nostro contadino, di proprietà personale». Una così aperta difesa della proprietà privata come cellula della libertà civile andava contro l’organizzazione tradizionale della vita contadina russa, sopravvissuta anche alle riforme del 1861, fondata sulla comune agricola, cara agli slavofili, che vi vedevano la prova della superiorità morale del popolo russo sull’Occidente individualista, e ai populisti, che vi vedevano la premessa della futura società socialista.
Il clamoroso attacco a Stolypin del 1906 fallì, ma anticipò quello finale
Foto centrale, l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Sopra Petr Stolypin, primo ministro della Russia zarista dal 1906 al 1911. Qui sotto, la copertina del libro di Vittorio Strada, Etica del terrore. Edito da Liberal, 18 euro
Monarchico costituzionalista e nazionalista riformatore, Stolypin riusciva inviso agli opposti schieramenti, senza riscuotere particolari simpatie da parte dello zar, di cui egli si sentiva un fedelissimo servitore, e al quale era più vicina una figura come quella di Rasputin che non quella di quel politico che, per la difesa della monarchia, ne riteneva necessario un pur limitato ammodernamento e, contro le pretese della destra estrema, dichiarava irreale una restaurazione del potere autocratico assoluto, un’idea che, a suo dire, era una provocazione a pro di una nuova esplosione rivoluzionaria. Quanto al campo opposto, che andava dall’estrema sinistra (terrorista) alla sinistra moderata (liberale), senza entrare in un’analisi delle varie posizioni, basta il giudizio significativo e tipico del futuro assassino di Stolypin, Bogrov, le cui posizioni oscillavano tra gli anarchici comunisti e i socialisti rivoluzionari.Al padre e al fratello maggiore, critici verso la politica repressiva di Stolypin, ma ben disposti verso la sua azione riformatrice, egli obiettava che proprio per questa ultima ragione egli era il politico più pericoloso per la Russia: «tutte le sue riforme erano giuste e utili in particolare, ma non avrebbero portato a quei profondi cambiamenti, e a quella completa e decisa svolta, se non a un vero e proprio rivolgimento, di cui aveva bisogno la Russia: anzi egli lo avrebbe soltanto frenato». Si tratta di un ragionamento ineccepibile dal punto di vista di un programma rivoluzionario radicale, basato sul «tanto peggio, tanto meglio», un «meglio» che nella Russia di allora era ostacolato e osteggiato dalle forze politiche, sociali, culturali d’opposizione, oltre al fatto che al fatto che imminente era la bufera di una guerra che avrebbe mutato radicalmente la situazione. Stolypin fu una possibilità mancata di sviluppo «normale», l’ultima offerta alla Russia, una possibilità che, indipendentemente dalle sue limitatezze, fu soffocata dagli intrighi in cui venne avvolta alla corte dello zar segue a pagina 14
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speciale approfondimenti
e nella polizia politica, l’ochrana, che con i suoi agenti era entrata nel gioco torbido e sanguinoso del terrorismo per controllarlo e neutralizzarlo, con una simbiosi carica di effetti catastrofici. Lo stesso Bogrov era diventato un collaboratore dell’ochrana, tutt’altro che l’unico tra i socialisti rivoluzionari, come vedremo, e tutt’altro che il più rilevante tra essi. L’attentato del 1911 contro Stolypin maturò in questo ambiente di macchinazioni oscure ed esso stesso resta oscuro, oggetto di diverse congetture. Consideriamo dapprima la torbida dinamica di quell’evento. Il 1° settembre 1911 fu per Kiev una giornata speciale. Al teatro cittadino, la sera, uno spettacolo di gala (l’opera di Nikolaj Rimskij-Korsakov La fiaba del re Saltan) faceva parte del programma di festeggiamenti per l’inaugurazione del monumento ad Alessandro II, il cinquantenario delle cui riforme si celebrava in quell’anno. La presenza dello zar Nicola II con l’accompagnamento del seguito e della maggior parte dei ministri, oltre che dei dignitari e delle autorità, richiedeva un
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va accedere alla sala e un invito Bogrov, in quanto agente fidato, riuscì eccezionalmente ad averlo dal capo dell’ochrana di Kiev. Durante il secondo intervallo Stolypin, appoggiato alla balaustra della fossa dell’orchestra, stava conversando con alcune personalità. In quel momento avanzò verso di lui un giovane in frac che, tratta dalla tasca una browning, gli sparò contro due colpi. Un testimone racconta: Stolypin «sembrò non capire subito quello che era successo. Chinò il capo e guardò la sua bianca casacca che nel lato destro sotto la cassa toracica si stava già inondando di sangue. Con movimenti lenti e sicuri depose sulla balaustra il berretto e i guanti, slacciò la casacca e, vedendo il gilet tutto impregnato di sangue, fece un gesto con la mano quasi a dire: «È tutto finito». Poi si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona e con voce chiara e netta, sentita da tutti quelli che si trovavano poco lontano da lui, disse: «Sono felice di morire per lo zar». Lo zar, dal suo palco, assistette alla scena, senza reagire al gesto di Stolypin che lo invitava ad allontanarsi, e in seguito non lo visitò all’ospedale, né ritenne di dover sospendere le iniziative programmate. Non sapeva di perdere il politico che aveva fatto l’estremo tentativo di salvare lui e la Russia, impresa ormai disperata come apparve chiaro pochi anni dopo con la fine orribile di Nicola II e di tutta la sua famiglia, compresi i figli minorenni, in quel disumano atto terroristico che fu l’eccidio di Ekaterinburgo compiuto dagli eredi del terrore rivoluzionario dell’inizio del secolo. Il 5 settembre Stolypin morì. Nella notte tra il 10 e 11 settembre Bogrov, condannato alla pena capitale dopo un rapido processo, fu impiccato. Sulla morte di Stolypin sono state fatte varie congetture. Ancor oggi si parla di «enigma» del suo assassinio per le possibili implicazioni dell’ochrana. Ma è nella personalità del ventiquattrenne assassino, Dmitrij Bogrov, che si può trovare la soluzione del «giallo». Appartenente a una benestante famiglia ebrea di Kiev, Bogrov aveva seguito le orme del padre negli studi giuridici. A differenza delle posizioni liberali della vecchia generazione, il giovane Bogrov si era nutrito di idee radicali, diventando membro di un gruppo anarco-comunista, anche se le sue tendenze erano piuttosto anarco-individualiste, tanto da dichiarare: «Io per me sono il partito», convinto che un rivoluzionario dovesse agire con assoluta indipendenza da ogni controllo e direttiva. Alla fine del 1906 o all’inizio del 1907 Bogrov divenne un collaboratore dell’ochrana, alla quale fornì informazioni sugli ambienti eversivi. A questa decisione giunse sia perché deluso dei suoi compagni rivoluzionari, sia perché, nonostante il sostentamento famigliare, bisognoso di mezzi supplementari, data la sua passione per il gioco, e i 150 rubli mensili della polizia soddisfacevano ai suoi bisogni. Ma questo non era considerato da Bogrov un tradimento dei suoi ideali, ai quali a suo modo restava fedele, e costituiva piuttosto una forma estrema di gioco d’azzardo, una ricerca di emozioni forti e di situazioni limite, propria del suo tortuoso carattere. Ecco come descrive Bogrov Iuda Grossman-Roãin, un anarchico che lo conobbe bene: «Lo ricordo così: alto, magro, sulle guance un diffuso rossore, ma non faceva l’impressione di un eccesso di salute, era piuttosto un rossore da tubercolotico (…) Un volto immobile. Fisso in un’espressione di perplessità (…) Sembrava che quell’uomo non conoscesse la sem-
Quel giorno al teatro di Kiev, si celebrava il ricordo di Alessandro II particolare servizio di sicurezza, i cui preparativi erano cominciati già molto prima di quella data. La direzione generale delle misure di polizia spettava al ministro degli Interni (allora Stolypin) che, di regola, demandava la loro organizzazione, nel caso di una città diversa dalla capitale, al governatore locale, che, per Kiev, era il generale Dmitrij Trepov (figlio del generale vittima dell’attentato di Vera Zasuliã). Derogando a questa regola, Stolypin, per ragioni ignote, affidò invece tale incarico al suo sostituto al ministero degli Interni, il generale Pavel Kurlov, decisione che suscitò il risentimento di Trepov e che non passò senza conseguenze, rendendo meno efficace il sistema di sicurezza.
Intanto a Bogrov i suoi compagni di partito, che avevano scoperto i suoi legami con la polizia, avevano posto un ultimatum: per riscattare il suo tradimento egli avrebbe dovuto compiere un attentato contro un dirigente della polizia, e la vittima da loro indicata era il capo dell’ochrana di Kiev. Bogrov era troppo ambizioso per impegnarsi in un’azione contro un personaggio di così scarso rilievo e decise di uccidere, invece, colui che egli considerava l’uomo politico più intelligente e quindi più pericoloso per la Russia: Stolypin. I legami con la polizia politica tornarono in questo caso assai utili a Bogrov nella preparazione dell’atto terroristico. Proprio al capo dell’ochrana di Kiev egli comunicò, come se si trattasse di una delazione, che si stava preparando un attentato contro Stolypin, atteso nella capitale ucraina assieme allo zar. Nessuno dubitò dell’informazione dell’«agente» Bogrov, che già altre volte aveva dato prova di preziosa collaborazione, e così il «rivoluzionario» Bogrov poté seguire indisturbato Stolypin al suo arrivo a Kiev, perdendo però alcune occasioni di mettere in atto il suo piano. Finalmente il 1° settembre Bogrov giocò il tutto per tutto. L’ingresso al teatro, la sera della rappresentazione dell’opera di Rimskij-Korsakov, era severissimamente preclusa agli estranei, data la presenza dello zar, oltre che di ministri (tra cui Stolypin) e autorità. Solo per invito si pote-
plice gioia, non conoscesse la “stupida”felicità, non sapesse che cosa fosse l’eccitazione della vita… Nella sua anima c’era l’autunno, qualcosa di tenebroso (…) Lo spirito romantico di Bogrov, ammesso che di esso si possa parlare, consisteva soltanto in una sorta di protesta contro l’uggiosa quotidianità e il mortifero “squallore” che viveva in lui e lo rodeva (…) Con Bogrov mi incontrai a Parigi. Era sempre lo stesso. Interiormente sconsolato, autunnale». Dopo essersi domandato che cosa avesse potuto spingere Bogrov a compiere l’attentato, Grossman-Roãin risponde citando queste righe di una sua lettera: «Non ho alcun interesse nella vita. Non c’è nulla, tranne un infinito numero di bistecche che mi toccherà mangiare finché sarò vivo. A condizione che il mio lavoro lo permetta. Angoscia, noia e soprattutto solitudine». E commenta: «Forse a Dmitrij Bogrov non erano venuti a noia soltanto i vani tentativi di riempire il vuoto interiore… Forse a muoverlo era anche qualcosa d’altro. Bogrov, infatti, ne sono convinto, disprezzava totalmente i padroni della scena politica, non foss’altro che perché ne conosceva perfettamente il prezzo…
Forse Bogrov ha voluto, andandosene, “sbattere la porta”in modo da violare la quiete della banda ebbra e sanguinosa della reazione sghignazzante». Completa il ritratto di Bogrov, e chiarisce meglio il suo gesto estremo, una let-
Nella foto in alto, il teatro dell’Opera di Kiev in cui si consumò l’assassinio di Petr Stolypin l’1 settembre del 1911. Qui a destra, la chiesa del Salvatore sul Sangue Versato. Fu eretta a San Pietroburgo sul luogo dove venne ucciso lo zar Alessandro II di Russia, vittima di un terribile attentato il 13 marzo del 1881.
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le non era «per nulla legato alla vita interiore della società». Non contava il fatto che Bogrov fosse un ebreo, «circostanza casuale», secondo Struve, ma importante era che «la società in questo caso non solo non (aveva) simpatizzato con l’assassinio, ma non lo (aveva) compreso assolutamente». Si è trattato, scrive, di un «atto tecnico», di un «avvenimento enigmatico la cui chiave è inaccessibile alla coscienza sociale. Ecco perché nella società si discute con tanto accanimento se in realtà Bogrov fosse “un agente dell’ochrana” o un “rivoluzionario”». Struve giunge così alla parte centrale della sua riflessione: la società è incapace di capire un «rivoluzionario» come Bogrov, ma resta il fatto che «è nato un nuovo tipo di rivoluzionario. Egli è stato preparato – in modo inavvertito per la società e per ognuno di noi – negli anni prerivoluzionari (anteriori alla rivoluzione del 1905, nda) ed è nato nel 1905-06. Il “massimalismo”ha significato la fusione del “rivoluzionario”col “bandito”, la liberazione della psiche rivoluzionaria da ogni freno morale. Ma il “banditismo”alla fin fine è soltanto un mezzo. Il rivolgimento psichico è andato più in profondo dell’assoluta assenza di scrupoli nella scelta dei mezzi, nella rivoluzione è irrotta una corrente di godimento della vita e di caccia ai piaceri, nutrita da stati d’animo “superomistici” nello stile di un Przybyszewski banalizzato e trivializzato». Per questo nel caso dell’attentato di Kiev la società «non ha sentito nulla di suo»: «qui la “rivoluzione”è svanita come movimento sociale e si è trasformata in un’avventura puramente personale di moderni superuomini».
tera che un suo compagno di università, M. Ljatkovskij, scrisse a un comunista, German Sandomirskij (poi diventato bolscevico e nel 1936 arrestato e finito in un lager siberiano): «Ricordo ancora una sua frase: noi (lui compreso) eravamo “l’ultima ruota del carro”e “per lo più giocavamo alla rivoluzione”, ma non facevamo la cosa principale. Gli domandai che cosa intendesse per “cosa principale”, rispose: quello per cui la gente ci apprezzerebbe e di cui tutti verrebbero a sapere…». Ljatkovskij commenta: «Egli non voleva essere un semplice manovale nella rivoluzione, non voleva essere“l’ultima ruota del carro”: a lui serviva la “cosa principale”. Per questo entrò nell’ochrana, per fare la “cosa principale”, per questo ha sparato, per essere apprezzato e conosciuto da tutti.Voleva la gloria, la notorietà. Non importa se la gloria di un provocatore, di un Erostrato, purché fosse gloria, e non la riabilitazione». E in conclusione: «Per lui quelli che menzionò nella sua deposizione erano “l’ultima ruota del carro”, e la sua morte con glo-
ria per lui era più importante della sofferenza degli altri». A prescindere dal torbido ambiente dell’ochrana e degli intrighi politici e i conseguenti «enigmi» dell’attentato di Kiev, le caratteristiche psicologiche di Bogrov gettano luce su quell’atto fatale e, in particolare, su un nuovo tipo di terrorista, il cui «nichilismo» esistenziale rendeva possibile l’affiliazione alla polizia e insieme la convinzione rivoluzionaria. I commenti più penetranti che allora furono fatti sull’uccisione di Stolypin chiariscono ulteriormente questa nuova fase del terrorismo, giunto a un punto terminale prima di riprendere dopo il 1917 a un livello e in una forma di tutt’altro genere. Si tratta delle riflessioni di Pëtr Struve, pensatore e politico tra i maggiori della Russia del tempo, e di Aleksandr (Aron) Izgoev, pubblicista e intellettuale tra i più acuti, entrambi liberali (costituzional-democratici). truve nota che «pur con tutta la apatia di larghi strati di opinione pubblica e pur con tutta l’assenza di simpatia della predominante maggioranza di tendenza liberale verso la politica del governo e del suo capo (Stolypin, nda), l’impressione prodotta dallo sparo del 1° settembre non lascia adito ad alcuna ambiguità. La si può caratterizzare come un senso di insopprimibile repulsione naturale». La ragione di questa «repulsione» sta nel «colpevole dell’assassinio e non nella sua vittima», nel fatto cioè che quell’atto esecrabi-
Izgoev, nella sua ampia analisi della oscura collusione tra rivoluzione e ochrana, che rende il caso di Bogrov tutt’altro che unico, parla anche lui del nuovo tipo di terrorista che chiama «lo sportivo del terrore»: «È un avventuriero, uno sportivo che intraprende una strada dalla quale non c’è ritorno e a sangue freddo, con un totale disprezzo per la propria come per l’altrui vita finisce la sua esistenza, oppure un suicida mascherato che per una determinata ragione sacrifica la sua vita in uno slancio di eucaristica disperazione o alla caccia di una gloria da Erostrato». È un terrorista nutrito di cultura «decadente» o animato da impulsi suicidi non meno che omicidi, il cui nichilismo esistenziale è diverso da quello ideale dei primi terroristi russi e si manifesta in psicologie contorte e convulse che ricordano certi «demoni» dostoevskiani. L’uso che la polizia politica russa cominciò a fare di agenti infiltrati nelle organizzazioni terroristiche per combattere dall’interno attraverso lo spionaggio e la prevenzione, secondo una prassi diffusa in tutte le polizie, ma in Russia in dimensioni quantitative proporzionate al carattere di massa del terrorismo locale e con metodi specularmene affini a quelli dei terroristi (l’assassinio), tutto questo creava una nuova situazione anche per il terrorismo rivoluzionario, degradato spesso a pura e semplice criminalità. Era in corso una guerra tra due poteri, lo Stato e l’antiStato, con migliaia di vittime dall’una e dall’altra parte: lo Stato autocratico troppo lentamente evolveva verso una riforma che lo trasformasse in uno Stato di diritto e l’antiStato rivoluzionario faceva valere i suoi diritti ostacolando tale evoluzione tanto quanto facevano i suoi nemici reazionari interni allo Stato. Alla fine l’antiStato era destinato a vincere, creando uno Stato ancora più autocratico, totalitario, contrariamente agli ideali del terrorismo rivoluzionario.
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ROMA. «Un impianto così piccolo – in un comune di soli 5mila abitanti – per una tragedia così grande. Davanti alla vasca del depuratore di Mineo mi è venuta in mente questa contraddizione. Ed è una considerazione che rende ancora più agghiacciante quanto accaduto». Pasquale Viespoli, sottosegretario al Lavoro, è volato a Mineo per rappresentare il governo poche ore dopo la morte dei sei operai, che hanno perso la vita mentre sistemavano un depuratore. Ieri il ministro Sacconi ha rilanciato davanti ai sindacati quegli enti bilaterali già sperimentati nell’edilizia. Il ministro punta semplicemente alla creazione di quella cultura della responsabilità e della sicurezza che oggi manca. E si partirà da parole chiave come filiera virtuosa, informazione, investimenti in formazione, coordinamento nelle attività di controllo. Filiera virtuosa? Per filiera virtuosa intendiamo l’impegno a coinvolgere tutti gli attori, dal governo alle parti sociali in un clima di coesione istituzionale. Non soltanto il governo centrale ha i suoi doveri. Ci sono impegni che vanno assunti da tutti gli enti. Sa qual è il problema di cui non si parla mai? Quale? Si dimentica che la sicurezza è materia concorrente, il Titolo V della Costituzione dà molte competenze anche gli enti locali. La mia è una posizione personale, ma credo che si creino pericolosi confusioni a livello istituzionale. Sta dicendo che le Regioni dovrebbero fare di più? Sto dicendo – ma ripeto è una mia opinione – che si dovrebbero riportare tutte le competen-
economia Il luogo dove sono morti mercoledì a Mineo i sei operai. Nella foto piccola, Pasquale Viespoli, sottosegretario al Lavoro
Il sottosegretario: chiarire le competenze nella sicurezza del lavoro
Viespoli: «Rivedere il ruolo delle Regioni» colloquio con Pasquale Viespoli di Francesco Pacifico ze sulla sicurezza del lavoro a livello dello Stato centrale. Incontrandoli a Mineo, che cosa le hanno chiesto i parenti delle vittime? È stato chiesto al governo di accertare le responsabilità e di farlo con determinazione. Ho incontrato i parenti dopo essere andato sul luogo della tragedia. Ho portato ad alcuni di loro, a quelli che ho potuto incontrare, il cordoglio del governo. Ma quello che vorrei eviden-
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Oggi manca la cultura della sicurezza. Ognuno deve fare la sua parte. Ma sarebbe meglio riportare in capo allo Stato tutti i poteri che il Titolo V delega agli enti locali
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ziare è l’aver trovato un rigore straordinario, una compostezza nel dolore esemplare. La regione Sicilia ha posto il problema dei fondi per la formazione e per la prevenzione. Non abbiamo parlato soltanto di questo. Intanto abbiamo tutti ribadito il dovere morale di stare vicino alle famiglie delle vittime: molte erano giovani e non vorrei che nella tragedia si aprisse un altro dramma. Ma
poi è arrivata una testimonianza che mi ha sorpreso, perché di solito sono le aziende a sottolineare il problema. Quale problema? Gli enti pubblici hanno auspicato un alleggerimento della burocrazia nella battaglia per la sicurezza. Una critica al testo unico dell’ex ministro Damiano? Che cosa centra. In questa vicenda ci sono elementi che la fanno risultare paradigmatica: i quattro dipendenti pubblici, che lavorano per uno Stato che dovrebbe difendere meglio degli altri i suoi lavoratori, un incidente che è avvenuto in un’operazione di routine… sa qual è la verita? Che non si può legare un’episodio a questa o quell’altra legge se non si fa prevenzione. Resta il fatto che per l’attuale governo la legge Damiano va cambiata. Ci sono alcuni pezzi sui quali dobbiamo riflettere. E lo faremo, a tempo debito, attraverso un meccanismo di condivisione con le parti. Perché l’eccesso di burocratizzazione non vuol dire maggiore tutela del lavoro. Allora? Si deve passare dalla retorica a una mobilitazione continua. Sottosegretario, intanto ci sono sette indagati per omicidio colposo. Ma l’azienda di manutenzione declina ogni sua responsabilità spiegando che nessuno degli operai doveva essere nella vasca. Si farà mai giustizia? Una ricostruzione della dinamica dei fatti la farà la magistratura e prima di allora è bene, è doveroso, non esprimersi. Ripenso però a quello che mi ha detto il sindaco di Mineo: era un’operazione di manutenzione ordinaria.
Il ministro vuole coinvolgere di più le parti e promette più formazione e sicurezza. Nessun ritocco, per ora, al Testo unico Damiano
Morti bianche, Sacconi e sindacati studiano un piano straordinario di Vincenzo Bacarani
ROMA. Un piano straordinario contro le morti bianche. Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, e il leader di Cgil, Cisl e Uil Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti sono d’accordo che la situazione sia giunta ormai a livelli di emergenza. Ieri pomeriggio ministro e sindacati si sono ritrovati a un tavolo per definire le linee di intervento. Un incontro che ha visto comunanza di idee. Soddisfatto il segretario generale Cisl, Raffaele Bonanni che ha detto che il ministro «chiede un avviso comune tra le parti» sulla sicurezza e «noi siamo soddisfatti perchè c’è un segnale di collaborazione, saremo ancora più soddisfatti quando passeremo dalle parole ai fatti». Secondo Bonanni, non è in discussione il testo unico sulla sicurezza e le norme sulle sanzioni più stringenti. «Il ministro non ne ha parlato», ha affermato il segretario, «e questo significa che non ha intenzione di farlo». La Cisl, inoltre, chiede di utilizzare i fondi
Inail per la sicurezza: «Ritengo - dice Bonanni - che non sia compatibile la distrazione di 12 miliardi di euro cartolarizzati perchè 12 miliardi sono tanti, sono stati pagati per la sicurezza e devono tornare alla base». Nell’incontro si è anche parlato di un impegno per una maggiore formazione degli addetti alla sicurezza degli impianti e di una maggiore responsabilizzazione delle Regioni. Ma già in mattinata tutti si erano espressi all’unisono solo con alcuni distinguo per quanto riguarda la metodologia. Per Sacconi, «le regole da sole non bastano, ma devono essere sostituite da un più forte capacità ispettiva, soprattutto, tranne che nell’edilizia, delle Regioni attraverso le Asl». Dal canto suo, l’ex ministro Cesare Damiano ha chiesto di applicare e non modificare il testo unico sulla sicurezza.Testo che però finora non è mai stato applicato del tutto. Secondo il segretario generale
della Cgil, Epifani «bisogna pretendere da imprese, amministrazioni e lavoratori che vengano rispettate le norme della sicurezza”». Sul fronte delle indagini, sono sette le persone indagate per la morte dei sei operai avvenuta a Mineo, la piccola cittadina vicina a Catania. La loro iscrizione è stata eseguita dal Procuratore capo della Repubblica Onofrio Lo Re: «Un atto dovuto per il legale svolgimento dell’inchiesta». Il reato ipotizzato è concorso in omicidio plurimo colposo. Gli indagati sono il sindaco di Mineo, Giuseppe Castania, il responsabile dell’ufficio tecnico comunale Marcello Zampino, quattro assessori: Antonino Catalano, Giuseppe Mirata, Giovanni Amato e Giuseppe Virzì e il legale rappresentante della ditta, Sebastiano Carfì. L’azienda ha tenuto a precisare che i suoi lavoratori erano regolari. Uno di loro, Salvatore Smecca, era stato appena assunto.
economia
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A Chicago i futures sul cereale svettano a 7 dollari al bushel. E già si prevedono rincari per i consumatori
Grano, una filiera di speculazioni d i a r i o
di Alessandro D’Amato
ROMA. Siamo ufficialmente entrati nell’era degli alimentari a peso d’oro. Ieri i futures sul granoturco – ovvero i contratti a termine su strumenti finanziari con cui le parti si obbligano a scambiarsi quantitativi di merci ad un prezzo stabilito – alla Chicago Board of Trade, che rappresenta la borsa di riferimento per il mercato dei prodotti agricoli, hanno infranto, per la prima volta nella storia, i 7 dollari a bushel (unità di misura che corrisponde a circa 25 chili). E si sono attestandosi a 7,0325 dollari (ovvero 17 cent di euro al kilo). Rispetto allo scorso anno, le quotazioni sono raddoppiate. Se non bastasse la Bce ha lanciato l’allarme per i prezzi alimentari: la previsione dei suoi esperti è di aumenti del 44 per cento nel 2008 e del 6,1 nel 2009, per il petrolio (già costosissimo) si prevedono ulteriori incrementi. «Il trend è questo, è inutile negarlo», fanno sapere dalla Coldiretti, «tutti gli analisti dicono che strutturalmente bisogna aspettarsi per il cibo una tendenza in continuo aumento». E il problema non è solo il pane: «L’alimentazione incide per quasi un terzo nei costi di allevamento degli animali destinati alla produzione di latte e carne, e i rincari record fatti registrare sui mercati rischiano di provocare la chiusura di migliaia di allevamenti se non verrà garantito un giusto compenso agli allevatori». E infatti, «i prezzi di mangimi e gasolio sono alle stelle, con rincari che hanno superato complessivamente il 30 per cento in poco meno di tre mesi», ricorda la Confederazione italiana agricoltori. Sempre ieri, l’Assolatte ha proposto un prezzo alla produzione di 0,40 euro/litro, che porterebbe a un rincaro di circa il 15 per cento per il consumatore. Nel settembre scorso l’annuncio da parte dei panificatori dell’aumento di 50 centesimi del prezzo del pane aveva portato all’apertura di un’indagine dell’Antitrust. Oggi, nota la Cia, dopo che in 24 aumenti i rincari dei prezzi al consumo sono stati del 20 per cento, ci si aspettano aumenti di 5/10 cent al chilo. Oltre, sarebbe più corretto parlare di speculazione. «Per la ciriola o la rosetta siamo arrivati a toccare i 3 euro: una situazione ormai insostenibile». E infatti c’è anche chi, tra aziende e produttori, sottolinea che le responsabilità maggiori degli aumenti dei prezzi non sono delle materie prime. «Certo, c’è anche quel problema», fanno sapere dalla Federazione italiana panificatori, «ma bisogna anche ricordare che il
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g i o r n o
Spesa, nel Cdm del 19 il piano sui tagli Si terrà giovedì 19 giugno il Consiglio dei ministri che varerà il piano triennale di tagli alla spesa. Si tratta di un intervento complessivo di 36 mld: 12 mld per il 2009, 12 miliardi per il 2010 e 12 mld per il 2011. Oltre ai tagli per il prossimo triennio, sono confermate nuove entrate garantite dalla stretta fiscale sulle banche e assicurazioni e compagnie petrolifere. Un «corposo» capitolo verrà dedicato alle liberalizzazioni (a partire dall’acqua potabile e professioni). Il ricco il menù sui tagli prevede una stretta sulla pubblica amministrazione a interventi sulla sanità. Altre operazioni riguarderanno il mercato del lavoro, come la possibilità di cumulare i redditi da lavoro con quelli da pensione.
La Bce lancia l’allarme Italia La Banca centrale europea lancia l’allarme Italia. Nel suo bollettino mensile la Bce avverte che l’Italia è tra i Paesi per i quali è «particolarmente urgente» accelerare gli sforzi di risanamento dei conti pubblici perché dispone di un margine di manovra «scarso o nullo», essendo già vicina al valore di riferimento del 3 per cento del Pil. Il rapporto della Bce rileva inoltre che l’inflazione dell’area euro rimarrà ampiamente sopra il 3 per cento per tutto il 2008. E aggiunge: «Nell’orizzonte di medio periodo la stabilità dei prezzi resta soggetta a rischi di rialzo».
Petrolio: cala il consumo di benzina I consumi petroliferi italiani nel mese di maggio 2008 sono ammontati a circa 6,8 milioni di tonnellate, evidenziando un calo del 3,8 per cento (-269.000 tonnellate) rispetto allo stesso mese del 2007. Sono i dati comunicati dall’Unione Petrolifera da cui emerge che i prodotti da autotrazione, ossia la benzina ha mostrato un calo del 9,1 per cento (-95.000 tonnellate); mentre il gasolio ha evidenziato un decremento del 3,5 per cento. La domanda totale di carburanti (benzina + gasolio) nel mese di maggio è risultata pari a circa 3,2 milioni di tonnellate, evidenziando un decremento del 5,2 per cento rispetto allo stesso mese del 2007.
Assolatte annuncia aumenti del 15 per cento, panificatori e pastai tra i 5 e i 10 cent al chilo. Il peso della distribuzione
la Coldiretti, «dove il governo ha invitato i produttori a raccogliere subito tutto il riso e il grano già pronti, prima dell’arrivo delle piogge torrenziali che dovrebbero interessare il paese per almeno dieci giorni. Problema opposto per l’Australia, ormai da due anni nella morsa della siccità».
costo della farina incide per il 5-7 per cento sul prezzo totale del pane. Le voci più onerose sono manodopera ed energia». E poi c’è la questione marketing per i prodotti come la pasta: la grande distribuzione chiede una certa quantità di prodotto gratis per esporre la merce negli ipermercati. Tutte situazioni che spingono al rialzo i prezzi, e che a oggi non sembrano avere soluzioni nel breve periodo a portata di mano.
Ma sono anche altre le cause, quelle legate alla specificità del mondo finanziario: «Ci sono circa 300 miliardi di euro investiti oggi in titoli con i quali si negoziano cereali in genere: in una situazione del genere la speculazione nei mercati finanziari è all’ordine del giorno», fa sapere un analista, «Le navi che trasportano cereali, prima ancora di arrivare in porto hanno venduto il carico a 10-20-30 operatori diversi. Il prezzo non può che salire». Non mancano motivazioni strutturali: a fronte di un calo dell’offerta, la domanda di granoturco non cessa si aumentare, anche per la forte richiesta di etanolo. Sotto accusa sono i biocarburanti: se gli agricoltori decidono di piantare mais, in funzione del fatto che governi come gli Stati Uniti e l’Unione europea sovvenzionano la produzione dei biocarburanti e questo viene pagato meglio sul mercato, il grano sarà sempre di meno.
Non a caso, spiegano gli esperti che «il balzo degli ultimi tempi delle quotazioni è legato alle inondazioni nella regione agricola del Midwest, che ha distrutto le coltivazioni esistenti e impedito agli agricoltori di riseminare. Tanto che il dipartimento dell’Agricoltura Usa è stato costretto a ribassare le stime per la produzione agricola 2008-2009 a 2 milioni di tonnellate. «Situazione analoga in Cina», dice
Tajani: «Controllo rigoroso su aiuti di Stato» «Assicurerò un controllo rigoroso del rispetto delle regole in materie di aiuti di Stato nel settore dei trasporti». È questa la prima indicazione programmatica del neocommissario europeo ai trasporti Antonio Tajani espressa nelle risposte scritte al questionario dell’Europarlamento.Tajani si è riferito al settore in generale senza citare il caso Alitalia. Lunedì si presenterà alla commissione trasporti a Strasburgo. Il neocommissario ai trasporti assicura l’Europarlamento che «raddoppierà gli sforzi affinché il diritto comunitario sia applicato ancora meglio».
Energia: E.On e Gdf sotto tiro dell’Ue I gruppi tedesco E.On e francese Gaz de France sono sotto il tiro dell’Antitrust europeo per sospetto accordo o pratica concertata sulla ripartizione dei mercati del gas nei due paesi. Lo ha confermato la Commissione Ue. L’infrazione presunta si fonda sul sospetto che le due aziende si sono impegnate ad astenersi dal vendere gas in quantità significativa sul mercato nazionale dell’altra. E.On e Gdf sono i principali fornitori di gas naturale in Germania e Francia.
Finmeccanica, accordo da 1 mld con i sauditi È un progetto che prevede investimenti complessivi per un miliardo di dollari fino al 2020 quello che lega con un accordo di collaborazione il gruppo italiano Finmeccanica e l’Arabia Saudita. Il progetto si inscrive nel quadro della King Abdullah Economic City, la città che nascerà sul Mar Rosso, cento chilometri a nord di Gedda. Ad essere coinvolta nel progetto è in particolare la Selex Communication, azienda del gruppo guidato da Pier Francesco Guarguaglini. La partecipazione di Finmeccanica è «importantissima», spiegano le fonti, perché «può spianare la strada alla collaborazione con altre imprese italiane».
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cultura
Nel libro ”Vita, arte e rivoluzione” il ritratto della Modotti, pasionaria italiana che militò nel Soccorso rosso e ispirò Pablo Neruda
Amore e politica: io Tina, tu Edward di Massimo Tosti isse sempre in prima linea, esponendosi personalmente. E la sua morte fu accompagnata da polemiche e sospetti. Pablo Neruda le dedicò pochi versi, molto forti: «...sul gioiello del tuo corpo addormentato/ancora protende la penna e l’anima insanguinata/come se tu potessi, sorella, risollevarti/e sorridere sopra il fango». Contro gli sciacalli che s’erano avventati sul corpo senza vita di Tina, stroncata da un infarto. Parole dure, parole importanti per una donna che aveva vissuto di parole e di immagini. Era il 5 gennaio 1942. Assunta Adelaide Luigia Modotti, detta Tina, non aveva ancora compiuto 46 anni. Nata a Udine, era diventata presto cittadina del mondo, prima come emi-
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Messico (insieme con uno dei figli di lui), dove frequentarono i pittori moralisti David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e Clemente Orozco, fondatori del giornale El Machete, portavoce della nuova cultura e, in un secondo tempo, organo ufficiale del Partito Comunista Messicano. Di quella cerchia faceva parte anche Frida Kahlo (che di lì a poco avrebbe sposato Diego Rivera). Nel 1926 la relazione con Weston si concluse (anche se i due rimasero in rapporti di e amicizia continuarono a mantenere una fitta corrispondenza. Tina –
stinis (Carte d’artisti, 236 pagine, 24 euro). Il carteggio copre gli anni dal 1922 al 1931, lasciando quindi in ombra gli ultimi dieci anni di vita della Modotti. Ma ce n’è abbastanza per indagare i suoi sentimenti e comprendere le sue scelte.
sono i momenti di maggiore lucidità) ma forse il giorno dopo il sole splende e gli uccellini cantano, e il panorama cambia come per magia!». «Le lettere a Weston», scrive Valentina Agostinis nel saggio che completa il libro, restitui-
scono a Tina «una dimensione fatta di emozioni, dubbi, sentimenti, passioni e ingenuità che la retorica era riuscita a toglierle». Nella sua biografia spicca un vuoto: che è quello fotografico, imposto o subito quando
Non tutte condivisibili, ma tutte animate da uno slancio di sincera passione, umana e civile. Dalle prime, intrise di sentimento («Edward: conti-
Grande fotografa, accanita militante comunista e rivoluzionaria, partecipò alla guerra di Spagna, strinse rapporti con Frida Kahlo e lavorò per il movimento sandinista nel Comitato “Manos fuera de Nicaragua” grante, poi come girovaga, per seguire le passioni e le idee. Grande fotografa, militante comunista e rivoluzionaria, Tina Modotti fu un personaggio di assoluto rilievo nel periodo fra le due guerre. Una protagonista del giro intellettuale che ruotava intorno a San Francisco, al Messico, e che poi si spostò in Europa per partecipare alla guerra di Spagna.
Lei, Tina, fu prima la compagna del poeta e pittore Roubaix del’Abrie Richey, dagli amici chiamato Robo, con con il quale si trasferì a Los Angeles. Poi, rimasta vedova, si legò sentimentalmente a Edward Weston, entrando in rapporto con il mondo della fotografia (che aveva frequentato da ragazza nello studio dello zio Pietro). Weston era allora un mago dell’obiettivo: le sue immagini erano esposte nelle gallerie d’arte. Guidata da lui, Tina scoprì che quella era la sua vera vocazione, dopo aver calcato le scene e aver recitato anche in alcuni film. Nel 1923 Weston e la Modotti fecero un lungo viaggio in
che era ormai una fotografa affermata – strinse un rapporto con il pittore Xavier Guerrero (che ben presto andrà a Mosca alla scuola Lenin), aderì al Partito Comunista, lavorò per il movimento sandinista nel Comitato “Manos fuera de Nicaragua” e prese parte alle manifestazioni in favore di Sacco e Vanzetti durante le quali conobbe Vittorio Vidali, allora dirigente del del Komintern, che fu un altro uomo importantissimo nella sua vita: lo raggiunse a Mosca, dove allestì l’ultima esposizione delle sue fotografie, per poi dedicarsi totalmente alla politica, ottenendo la cittadinanza e la tessera del partito comunista, e militò nel Soccorso rosso internazionale. Nel 1936, quando scoppiò la guerra civile spagnola, decise che il suo posto era lì, accanto a Vidali che (con il nome di battaglia di Carlo Contreras) comandava il Quinto reggimento delle forze repubblicane. Una biografia densa e significativa quella di Tina, raccontata anche dal carteggio con Weston, pubblicato oggi con il titolo Vita, arte e rivoluzione a cura di Valentina Ago-
Fresca di stampa per la casa editrice Carte d’artisti la biografia densa e significativa della fotografa del Pci Tina Modotti ”Vita, arte e rivoluzione” (in basso la copertina del libro), raccontata anche attraverso il carteggio che ebbe con il suo compagno Edward Weston (con Tina nella foto a destra) nuo a ripetere il tuo nome con tenerezza – così da sentirti più vicino a me stanotte mentre siedo qui da sola e ricordo») alle ultime (scritte da Berlino) dove appare incerta e dubbiosa sul proprio ruolo, anche professionale: «Non preoccuparti per me; lotterò per trovare la mia strada e non è ancora detta l’ultima parola. E tutte queste prove porteranno qualche frutto, sono sicura; in altre parole, ho abbastanza fiducia in me stessa e mi rendo conto che non devo sottovalutare le mie capacità. Solo che ci sono dei momenti, e chi non li ha?, quando tutto sembra nero (forse sono neri e quelli
finì per dedicarsi tempo pieno alla politica. E che non poteva non pesarle: consapevole – forse – che alle fotografie sarebbe rimasta legata la sua memoria, più che alla militanza politica.
Come fotografa fu grandissima, contribuendo anche alla propaganda della parte politica alla quale apparteneva: certe immagini valgono più degli slogan dei grandi manipolatori. Come militante fu vittima di un grande equivoco al quale si sacrificarono molti intellettuali nel periodo fra le due guerre: e quelli più longevi fino a un paio di decenni fa.
cultura
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Quando il ritratto era un’arte superiore alla poesia ’arte del ritratto ovvero il potere evocativo delle immagini, questo in sintesi il significato della curatissima mostra The Renaissence Portrait aperta dal 3 giugno al 7 settembre al Museo Nacional del Prado. In un ampio spazio al piano terreno del museo madrileno sono state riunite centoventisette opere antiche e moderne includenti dipinti, disegni, stampe, sculture e monete, per lo più famosi capolavori della ritrattistica rinascimentale, ma anche opere meno note, tutte corredate da didascalie la cui lettura è d’obbligo. Poiché, ad esempio, del commovente Ritratto di vecchio con nipote del Ghirlandaio, proveniente dal Museo del Louvre, non tutti sanno che si tratta di un ritratto post mortem realizzato su commissione del defunto per tramandare la propria memoria, come dimostra anche il tenero sguardo dal nonno al nipotino, un vero e proprio passaggio di consegne. Analogamente, del noto Ritratto di sarto di Giovan Battista Moroni, capolavoro del Cinquecento lombardo, viene spiegato come il colore nero dell’abito che l’elegante sarto sta tagliando indichi trattarsi dell’abito di un aristocratico, come dettava la moda del tempo. Mille occhi ci scrutano, e ci seducono in un gioco di sguardi in cui percepiamo una sorta di sfida tra noi e loro, tra la memoria e l’oblio.
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Mentre esiste una vasta bibliografia sulla ritrattistica rinascimentale, non era ancora stata organizzata una specifica esposizione per il grande pubblico, e questa di Madrid è la prima, che si sposterà dal 15 ottobre al 18 gennaio 2009 alla National Gallery di Londra. Curata da Miguel Falomir, direttore del Dipartimento della Pittura Italiana del Rinascimento del Prado, è divisa in nove sezioni nelle quali viene analizzata la storia del ritratto rinascimentale. La mostra inizia con la dimostrazione dei diversi fattori che hanno contribuito alla nascita della ritrattistica moderna: da una parte la tradizione medioevale, con immagini devozionali e dinastiche, dall’altra la riscoperta dell’antico, ossia della scultura e soprattutto delle medaglie romane, che sono all’origine dei primi ritratti di profilo del Quattrocento italiano, come lo splendido Sigismondo Pandolfo Malatesta di Piero della Francesca, proveniente dal Louvre. Si apprende così che sebbene già lo stesso Giotto avesse realizzato ritratti indipendenti, os-
Il potere evocativo del Rinascimento di Olga Melasecchi
In mostra dal 3 giugno al 7 settembre al Museo Nacional del Prado (Madrid), opere antiche e moderne includenti dipinti, disegni, stampe, sculture e monete, per lo più famosi capolavori della ritrattistica rinascimentale. In alto: Brigida Spinola Doria di Pedro Pablo Rubens; subito sotto, Micer Marsilio y su esposa di Lorenzo Lotto e Dama con una ardilla y un estornino di Hans Holbein; sopra, Baco y Ariadna di Tullio Lomardo e Retrato de busto de un joven di Círculo di Donatello
sia non subordinati alla storia in cui sono inseriti, la pratica ritrattistica ricevette un impulso decisivo presso la corte francese dei Valois tra il 1360 e il 1380, e gli esemplari più antichi ancora esistenti risalgono a quel periodo. Le opere scelte per la
prima sezione della mostra datano agli inizi del Quattrocento e illustrano le differenze tipologiche e concettuali tra i due centri principali della ritrattistica europea, l’Italia e l’Olanda, e la progressiva influenza dei modelli fiamminghi sulla coeva
produzione italiana, ed ecco così opere di anonimi olandesi e spagnoli paragonate a quelle di Antonello da Messina, Pisanello, Donatello. Nella seconda sezione, sugli affetti, la famiglia e la memoria, con capolavori di Raffaello, Parmigianino, Lorenzo Lotto, Durer o Piero di Cosimo, sono evidenziate le qualità empatiche dei ritratti, ossia la loro capacità di annullare l’assenza e di suscitare nell’osservatore forti sentimenti.
Leon Battista Alberti nel 1453 scriveva che la pittura contiene una forza divina che non solo rende presenti le persone assenti, ma in più fa sembrare quasi vivi i morti. Funzione primaria del ritratto è dunque soprattutto quella di conservare la memoria oltre la morte, come i ritratti dei defunti scolpiti sui sarcofagi romani insegnavano. Leonardo nel suo Trattato riconosce al ritratto una valenza superiore persino alla poesia, laddove asserisce che se il poeta può infiammare
l’anima innamorata, che è il fine di tutte le specie animali, il pittore può far di più rendendo presente e viva l’effigie dell’amato, da poter baciare o con cui poter parlare. Potere quasi divino del ritratto già attribuito nella prima metà del Trecento da Francesco Petrarca, il poeta più amato dagli artisti rinascimentali, al perduto Ritratto di Laura dipinto dall’amico Simone Martini. Altri nobili sentimenti, come l’amicizia, tema della quarta sezione, vengono coltivati grazie alla possibilità di possedere l’effigie dell’amico, mentre un ulteriore aspetto, quello del riconoscimento sociale dell’effigiato o del suo spessore morale viene esaminato nella quinta sezione. Ecco quindi ritratti di virtuose dame in veste di caste Lucrezie o circondate da simboli di pudicizia, e di umanisti accanto a reperti antichi.
Nelle sezioni successive rientrano ulteriori tipologie, dagli autoritratti, veicolo di autoconoscenza o di affermazione dello status sociale del pittore, che mai si raffigura con in mano gli strumenti del lavoro - come invece sarà normale nella ritrattistica barocca – ben rappresentato dal noto Autoritratto di Durer, alle immagini che illustrano il processo creativo racchiuso nella realizzazione del ritratto. In questa sezione rientrano opere che mostrano il rapporto tra il ritrattista e l’effigiato, le condizioni di luce al momento della seduta, persino l’atteggiamento psicologico del ritrattato e il procedimento usato dall’artista per riprodurre i suoi lineamenti. La mostra prosegue con la scelta di opere che rappresentano il difficile ed incerto campo dei limiti della ritrattistica, in cui rientrano i ritratti di persone deformi o folli, che contrastavano con il gusto estetico rinascimentale, e quelli in cui l’accentuata spiritualità dell’effigiato non era obbiettivamente possibile rappresentare, come dimostrano, per citare i maggiori, i dipinti di Pantoja de la Cruz, El Greco, Durer, Antonio Moro, Agostino Carracci. Le ultime sezioni sono dedicate infine alla diffusione dei ritratti, e quindi al gran numero di copie coeve, e soprattutto alle riproduzioni in stampa, con opere dei maggiori incisori del Cinquecento, e, dulcis in fundo, ai grandi e spettacolari ritratti di corte con i magnifici Ritratti degli Asburgo di Tiziano e di Antonio Moro, l’Andrea Doria come Nettuno del Bronzino, le sculture di Leone e Pompeo Leoni, e il superbo Ritratto di Brigida Spinola Doria di Rubens.
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tendenze
Pirateria, masterizzatori, file sharing e prezzi troppo alti allontanano sempre di più il pubblico dall’acquisto dei compact disc
Il cd già non c’è più di Alfonso Francia el 1997 l’album più venduto negli Stati Uniti fu Come on over di Shania Twain, che totalizzò venti milioni di copie. Dieci anni più tardi, alla colonna sonora di High school musical sono bastati appena due milioni di pezzi per diventare il best seller del 2007. A quali fattori può essere riferito questo tracollo?
N
A partire dal 1999, le vendite di cd in Italia e nel mondo hanno cominciato a calare in maniera sempre più evidente, gettando nel panico le quattro major del disco. Sony-Bmg, Emi, Universal e Warner si sono facilmente accordate negli anni per praticare prezzi alti e lontani da quelli che si sarebbero determinati in un regime concorrenziale. Queste etichette quattro hanno individuato nel file sharing (la condivisione di file all’interno di una rete comune) la causa unica della crisi, ma non hanno saputo impostare una efficace strategia reattiva. Inizialmente hanno combattuto una guerra legale a quei siti che permettevano agli utenti di scambiarsi velocemente file musicali, costringendoli a chiudere; altri e numerosi siti del genere sono però subentrati al loro posto. Una volta compreso che le battaglie non avrebbero funzionato, hanno cercato di sviluppare nuovi modelli di business che sfruttassero proprio la pratica del file sharing. È notizia recente che alla Emi hanno trovato un accordo per rilasciare, a costi relativamente bassi, tutto il catalogo di canzoni e video musicali sul portale iTunes senza le protezioni software che ne impediscono la copia. Ma questa innovazione non basta a recuperare i livelli del passato, perché i profitti della vendita di musica digitale non so-
no in grado di rimarginare le pesanti perdite della vendita dei cd. Si è deciso allora di rivitalizzare il prodotto adottando due strategie parallele: da una parte con politiche di prezzo differenziate, dall’altra rinnovando e arricchendo un prodotto, il cd, ormai basato su una tecnologia vecchia. Finché le vendite sono rimaste stabili su livelli elevati, i cd sono stati venduti a un prezzo quasi fisso: 20 dollari sia per le novità che per il catalogo, pochi titoli a un livello mid-price e ancora meno a livello budget price, pari a circa la metà del prezzo pieno. Le quattro major hanno cambiato le loro politiche di
abbiamo assistito a una terza ondata di stampe con i cosiddetti enhanced cd, compact arricchiti con tracce video e bonus track quando non di dvd che raccontano nelle immagini di un documentario la genesi del disco. Si è voluto così allettare un pubblico più vasto, ma si è anche prodotta l’esasperazione degli appassionati, che nel giro di una quindicina d’anni hanno ricomprato tre o quattro volte lo stesso disco. Questa strategia riguarda principalmente i cd di catalogo ma le major preferiscono sostenere le novità, che vengono vendute a prezzo pieno. Un altro grave problema è costituito dai punti vendita. I cosiddetti megastore non riservano grandi spazi di esposizione all’offerta dei dischi, progressivamente soppiantati da prodotti più redditizi come i dvd e i videogiochi. Così il numero dei titoli disponibili diminuisce e, simmetricamente, aumenta il rischio che l’acquirente non trovi il titolo che stava cercando. Le carenze distributive e l’assenza di richiami commerciali riducono poi la possibilità degli acquisti “d’impeto”, non programmati. La situazione è - se possibile ancora peggiore per i negozianti indipendenti, che conta-
Dal 1999 le vendite in Italia e nel mondo hanno cominciato a calare in modo esponenziale, gettando nel panico le quattro major del disco: Sony-Bmg, Emi, Universal e Warner prezzo solo in tempi recenti e, secondo alcuni, è ormai tardi perché le giovani generazioni si sono abituate ad ascoltare musica semplicemente accendendo il computer. Il secondo filone strategico si basa sull’arricchimento del prodotto. Quando invasero il mercato, negli anni ’80, i primi cd erano prodotti poveri, malamente confezionati e con una resa sonora addirittura peggiore del vecchio vinile; in un secondo tempo, gli stessi titoli vennero riproposti con un packaging migliore e una resa sonora di elevata qualità. Successivamente, in questi anni,
no su una clientela limitata ma selezionata e matura, quindi più disposta a spendere. Offrono una scelta molto più ricca rispetto ai megastore, ma per l’elevata entità dei costi fissi rispetto al fatturato spesso devono praticare prezzi più alti rispetto ai grandi negozi, perdendo gradualmente clienti.
Inoltre questi negozi devono fronteggiare due attacchi da Internet, sia per quanto riguarda il file sharing sia per la vendita diretta di cd a prezzi molto più bassi rispetto alla distribuzione tradizionale. Molte etichette di piccola e media
Sony-Bmg, Emi, Universal e Warner si sono facilmente accordate negli anni per praticare prezzi alti e lontani da quelli che si sarebbero determinati in un regime concorrenziale. Le etichette hanno individuato nel file sharing la causa unica della crisi, ma non hanno saputo impostare una efficace strategia reattiva
grandezza preferiscono vendere via Internet, dove nascono veri e propri megastore online, con la disponibilità di decine di migliaia di titoli. Insomma, tutte le tecniche adottate dalle grandi case per rafforzare le vendite hanno delle controindicazioni pesanti. Non essendo riuscite a frenare più di tanto l’erosione delle vendite, le big del panorama discografico mondiale hanno anche cercato in vari modi di ridurre i costi. L’esempio più eclatante di questa strategia viene dalla Emi, la terza delle quattro “grandi sorelle”. Il piano di ristrutturazione prevede il licenziamento di un terzo dei dipendenti, 2.000 persone su un totale di 6.000, e un piano di tagli agli investimenti nel settore della recorded music. Il piano si scontra però con i malumori degli artisti sotto contratto, alcuni dei quali hanno deciso di firmare per una delle altre major (compresi nomi storici come Rolling Stones e Paul McCartney dei Beatles), oppure hanno minacciato di non concludere le registrazioni dei loro nuovi album, come Verve,
Coldplay e Robbie Williams. Il programma di ristrutturazione Emi si è quindi rivelato un disastro in termini di immagine. Il quadro evidenzia che il mondo della discografia è visto come un dinosauro tecnologico. Il suo prodotto principale, il compact disc, è un dispositivo in grado di immagazzinare appena 800 megabyte di dati, contro gli 80 gigabyte e oltre di un lettore mp3.
Nuove strategie devono far leva sul fascino dell’oggetto, cercare di ricreare le emozioni attrattive esercitate ancora oggi dai vecchi vinili, amati ancora dagli appassionati proprio per il loro essere fuori dal tempo e, quindi, senza tempo. Il rischio è che nel giro di qualche anno il mercato discografico sarà tenuto in piedi solo dagli appassionati di una certa età, che non sono mai stati trattati molto bene dalle case discografiche. Ma se veramente si va verso la completa volatilità della musica, che potrà fare a meno del supporto fisico, viene da chiedersi se le etichette discografiche potranno essere i player migliori per questo in-
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probabilmente preferito non investire più una somma di denaro ingente su un prodotto che sarebbe invecchiato prestissimo. Se questa ipotesi è giusta, per l’industria discografica la situazione è più difficile del previsto, perché sarebbe necessario restituire dignità a un prodotto svilito dalla iper-commercializzazione.
Un ulteriore e grave errore delle major è stato quello di approfittare troppo delle condizioni di oligopolio nelle quali si sono trovate operare. Negli anni ’80, all’apparire del formato cd, Warner e le altre imposero prezzi molto maggiori rispetto a quelli praticati con i vecchi vinili, spiegando che la scelta era necessaria a causa dei maggiori costi di produzione del nuovo supporto, ma che i prezzi sarebbero scesi non appena la produzione dei cd fosse entrata in pieno regime. Ma i prezzi, negli anni successivi, non solo non scesero, ma continuarono a salire ininterrottamente fino al 2000. La musica registrata cominciò così a essere avvertita come un bene di lusso, sostituibile con copie pirata. E in Italia? In generale, il mercato della discografia tradizionale ha perso il 18,1%, facendo registrare un valore assoluto di 607 milioni di euro con la vendita di 28 milioni di cd. Secondo l’annuale rapporto sulla Economia della musica in Italia redatto dalla Bocconi di Milano, alla crisi continua del novativo mercato e se non dovranno trasformare profondamente il loro business. L’industria del disco ha visto nella rete l’unica responsabile della crisi di vendite di questo decennio, ma a leggere i dati si possono fare delle scoperte interessanti. Il calo di vendite è cominciato nel 1999, quando il file sharing era una pratica riservata a pochi e le connessioni ad alta velocità erano presenti quasi esclusivamente negli Stati Uniti. Inoltre l’industria del disco ha dovuto difendersi dal rischio pirateria fin dagli anni ’70.
Esiste quindi la possibilità che la crisi sia dovuta anche alla bassa qualità dell’offerta musicale. Ignorando artisti che avrebbero potuto garantire un certo numero di buoni album nell’arco di qualche anno, si è preferito puntare tutto su gruppi usa-e-getta, in grado di durare lo spazio di un album e subito sostituiti dall’ultima novità. In questa maniera il bene musicale è diventato man mano ad altissima deperibilità. Il cd ha perso il suo valore di bene duraturo, e il pubblico ha
supporto fisico non corrisponde una crescita incoraggiante del settore digitale, che si incrementa appena dell’1,5%. Quest’ultimo somma il fatturato della mobile music (suonerie e canzoni scaricate a pagamento dai cellulari) a quello del downloading via Internet, in crescita del 116% ma ancora attestato su valori assoluti bassi. Eppure è su questo mercato che molti professionisti del settore vedono il futuro. Insomma, nel nostro Paese i problemi del mercato discografico si presentano in maniera non molto differente dal re-
sto del mondo, ma emergono fattori di crisi aggiuntivi. A differenza del resto d’Europa, il mercato dei cd pirata è sempre stato enorme, con un giro d’affari stimato in 120 milioni di euro (un cd su quattro è un falso). Inoltre i prezzi sono mediamente più alti rispetto agli altri Paesi europei, e meno soggetti a variazioni. A ciò si aggiunge la situazione di generale difficoltà economica dell’Italia, con il settore dell’editoria musicale maggiormente esposto alla crisi. Se il problema della domanda non può essere facilmente risolto, nel nostro Paese si potrebbe tentare di delineare un nuovo sistema dell’offerta. Secondo lo studio di Antonella Ardizzone e Giovanni B. Ramello per il Decimo rapporto Iem sull’Industria della comunicazione, il comparto delle etichette indipendenti in Italia potrebbe avere delle potenzialità di sviluppo in buona parte inespresse. Per ora le “indie” sono riuscite a raggrupparsi in associazioni come l’Audiocoop, che ha raggiunto recentemente degli accordi con la Siae e contribuisce all’organizzazione del MEI (Meeting delle etichette indipendenti), un incontro durante il quale le etichette possono presentare al pubblico i loro prodotti e vengono premiati gli artisti emergenti più meritevoli.
Le piccole etichette hanno poi dimostrato di saper utilizzare social networks come MySpace, web radio, web tv e
Solo le etichette indipendenti sembrano pronte a raccogliere la sfida, attraverso web radio, web tv e canali satellitari di nicchia per far conoscere la loro musica
anche alcuni canali satellitari di nicchia per far conoscere la loro musica. Se è vero che le indie rappresentano una realtà residuale in termini di volumi, bisogna riconoscere che sfruttano il mondo dei new media molto meglio delle quattro “grandi sorelle”. In un mondo che potrebbe fare a meno dei compact disc, le etichette indipendenti sembrano essere pronte a raccogliere la sfida.
opinioni commenti lettere proteste giudizi proposte suggerimenti blog IMMAGINI DAL MONDO
LA DOMANDA DEL GIORNO
Quale sarà il futuro del Partito democratico? È PROBABILE CHE QUALCHE DEFEZIONE SI VERIFICHI SOPRATTUTTO DA PARTE DI ALCUNI CATTOLICI
LA SCISSIONE DEL PD NON È AUSPICABILE, IL PAESE ORMAI HA SCELTO IL BIPARTITISMO
Forse assisteremo a un ennesimo rimescolamento delle carte nello schieramento di sinistra.Tra spinte e controspinte - da una parte i cattolici, dall’altra D’Alema - il povero Veltroni dovrà prendere una posizione precisa. Per quanto riguarda l’appartenenza nell’Europarlamento facilmente sarà decisivo l’aiuto forse insperato di Rutelli per la creazione di uno schieramento tutto da inventare dei Riformisti, con buona pace del filosocialista D’Alema. Ma anche nella politica italiana il Pd dovrà subire qualche cambiamento. Insomma è probabile che qualche defezione si verifichi, soprattutto da parte dei cattolici che sotto la pressione del Vaticano dichiarano di sentirsi una minoranza emarginata. In questa situazione l’Udc potrebbe effettivamente interpretare un ruolo importante. Se defezioni ci saranno, il Polo di Centro potrebbe effettivamente nascere, magari anche con quel che rimane dell’Udeur. Ma anche a sinistra l’improvviso movimentismo dei Dalemiani potrebbe portare il Pd a riallacciare rapporti con la sinistra radicale che, cacciata dagli elettori dal Parlamento, cercherà di rientrare nel gioco della politica.
Credo che il leader del Pd Walter Veltroni stia davvero passando un periodo bruttino. Non è semplice immaginare il futuro del suo Partito democratico, ma quel che è certo è che penso sarebbe sbagliato in questo momento la sterzata a un congresso scissionista. Il ritorno ai Ds e alla Margherita non farebbe certo bene al Paese, che sembrerebbe (al di là degli esiti delle ultime elezioni politiche) aver premiato la tendenza al bipartitismo. Staremo a vedere.
Francesco Tomassi - Roma
LA DOMANDA DI DOMANI
Basteranno gli aumenti di stipendio agli insegnanti per risollevare la scuola italiana? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Amelia Giuliani - Potenza
”MALA TEMPORA CURRUNT” PER VELTRONI, ”ATQUE PEIORA PREMUNT” AGGIUNGE QUALCUNO Mala tempora currunt per il Pd di Veltroni. Atque peiora premunt potrebbe aggiungere qualcuno, alludendo alle quotidiane insidie apportate dall’infido e onnipresente alleato (sic!) Di Pietro. Veltroni, dopo la sconfitta, è attaccato da destra e da sinistra, all’interno del suo stesso partito. Da una parte dai prodiani che non gli perdonano il coatto silenzio a cui sono stati assoggettati durante lo svolgimento della campagna elettorale, dall’altro da D’Alema e i suoi sodali che non riescono a rassegnarsi ad un ruolo che, se non è proprio marginale, è certamente di seconda linea. Non credo tuttavia che Veltroni sia il responsabile principale della sconfitta di aprile, anzi penso che che se non si è verificata una vera disfatta, lo si deve proprio alla sua iniziativa del ”voto utile” con il quale è riuscito a ”succhiare” alla sinistra radicale un 7-8% di voti che ha fatto raggiungere al Pd un rachidico, ma tutto sommato onesto 33% di suffragi. Quale sarà il futuro del Pd? Secondo me Veltroni insisterà nella strada intrapresa e alla fine riuscirà ad avere il controllo del partito. A destra non conviene a nessuno continuare a minacciare abbandoni e a sinistra il battagliero, ma ”sempreperdente” D’Alema finirà per capire che una guerra a Veltroni potrebbe significare la sconfitta definitiva del Riformismo. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità. Distinti saluti.
ENTI LOCALI: TRA SPESA CORRENTE E AZIONI DI INVESTIMENTO Si discute spesso del ruolo della pubblica amministrazione nella gestione degli interessi diffusi, senza venire mai ad una soluzione concreta. Tra i maggiori enti locali che offrono servizi virtuosi, sono proprio quelle municipalità che meglio contemperano la riduzione della spesa corrente con mirate azioni di investimento. Eppure, si continua in molte realtà locali a vivere l’azione della Pa come un mero atto di continuità con le azioni poste in essere dagli amministratori precedenti. Sono poche, se non pochissime, le azioni mirate adottate da chi, assumendo un ruolo di governo, ha attuato nuove e più sane politiche economiche. Per costruire enti locali funzionali è necessario limitare la spesa corrente e aumentare nei limiti del bilancio comunale le risorse di investimento nello stesso comune o area di interesse, che può essere una provincia o una regione. Costruire nuove politiche di bilancio sociale è una delle priorità nei nostri enti locali. Sempre più spesso, le voci di bilancio rimangono immutate nel tem-
PELLICCIA DI VOLPE
Il nome ufficiale di questa nebulosa è NGC 2264, ma tra gli esperti è nota come ”Pelliccia di volpe” per la sua «colorazione fulva, dovuta all’drogeno ionizzato mischiato alle polveri cosmiche delle stelle vicine. La foto è stata scattata dal Canada France Hawaii Telescope
SORPRENDENTI ESTERNAZIONI CONTRO LA SICUREZZA
BASTA CON LE MALIZIE, VELTRONI È CON DI PIETRO
Con esternazioni sorprendenti, autorità - anche religiose - si opposero all’istituzione del poliziotto di quartiere, dicendo di non voler vedere la «città militarizzata». Criticano ora le telecamere – collocate su pubbliche strade – considerate strumenti di controllo limitativi della libertà. In questo modo rischiano di porsi contro la sicurezza e tutelare il colpevole, di fatto a danno della vittima. I poliziotti e le telecamere sono a mio avviso dei deterrenti, delle risorse per prevenire e contrastare i reati: sono temuti dai delinquenti e dai trasgressori, non certo dagli onesti e dai deboli, che – anzi – li chiedono e invocano a gran voce. A presto e buon lavoro.
L’argomento senz’altro è spinoso, è dunque bene fare chiarezza. Siamo a giugno, inizia l’estate. Sotto il sole, per nostra fortuna, non «il sole dell’avvenire», sembra non esserci posto per alcuna diatriba. Il grande Walter Veltroni e il grande Antonio Di Pietro ancora stanno lì, ancora si odorano, ancora si guardano e si piacciono. Il loro rapporto, non c’è dubbio, è molto, ma molto meglio di come lo si vuole fare apparire. Basta malizie. Il Veltroni non saprebbe cosa fare e dove andare senza il piacevole, fresco, robusto, generoso e facondo, del Di Pietro, conversare. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
dai circoli liberal Claudio De Angelis - Lecce
Gianfranco Nìbale - Padova
po quasi fossero scritte nella pietra e fiumi di danaro continuano inutilmente a esser spesi senza che vi sia un reale ritorno in opere o servizi da parte della Pa. È dunque necessario costruire nuove e più salde politiche di bilancio legate alle priorità che un ente locale si dà, legate a un puntuale progetto di riduzione della spesa corrente, fatte in molti casi di voci e sottovoci inutili e dannose. Costruire al sud delle Municipalità che escano fuori da una mentalità Borbonica è la priorità delle priorità, sono politiche di investimento le politiche occupazionali che mirano a incentivare la produttività di un territorio, le politiche che mirano a migliorare realmente le infrastrutture, fa politiche di investimento chi costruisce una pubblica amministrazione digitalizzata. Sono politiche di investimento incentivare le eccellenze e le professionalità dei propri dipendenti; queste sono alcune delle priorità che un ente pubblico dovrebbe perseguire. Serve una nuova rivoluzione copernicana per tutti quei soggetti che muovono quotidianamente la macchina della pubblica amministrazione, per costruire un nuovo per-
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
corso culturale tale da ridare slancio e credibilità a una Pa in affanno e spesso non attenta alle istanze dei cittadini amministrati. È necessario che la politica costruisca maggiori e reali politiche incentivanti per tutti quei dipendenti e dirigenti che raggiungano realmente l’obiettivo che l’ente si è prefisso. Sarebbe l’inizio di una vera azione di meritocrazia legata a risultati concreti e non a un mero corporativismo inconcludente. Luigi Ruberto CIRCOLO LIBERAL MONTI DAUNI
APPUNTAMENTI TODI - 10 LUGLIO 2008 Ore 12.00, Hotel Bramante Prossima riunione nazionale dei coordinatori regionali e dei presidenti dei Circoli liberal
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Mia gioia, non ti posso più soffrire Mia bellezza, mio caro cui nessun re somiglia, sono piena di affetto e tenerezza per te e avrai la mia protezione finché vivrò. Devi essere, credo, ancora più bello dopo il bagno. Ma, cosa strana, non ti amo affatto. Credimi, mia gioia, non ti posso più soffrire. E possibile? Di’ a Michail Potëmkin che sei caduto in disgrazia. Non annunciarglielo all’improvviso: morrebbe dal dispiacere. Beckoj oggi mi ha fatto una promessa. Non ti offendere, non ti dirò quale. Il barone Freederichs per quanto sia malizioso non dirà nulla a tuo cognato. Non riesco a immaginare come entrerà nell’ex sala da biliardo. Delle due l’una: o morirò dal ridere o diventerò rossa come un gambero. Ascolta mia bellezza di marmo, mi sono svegliata molto allegra e non provo alcuna tenerezza per te; cuor mio, lo stile deve variare e per questo dico che non ho tenerezza. Mi capisci? Addio, mia gioia. Caterina II a Grigorij Potemkim
IL RITORNO AL NUCLEARE? PROPRIO NON MI CONVINCE E’ un’opzione che non mi convince. E per vari motivi. Leggo sulla stampa che l’uranio si sta esaurendo e sarà finito del tutto tra una cinquantina d’anni, e che occorrono dieci-venti anni per mettere a regime le nuove centrali. Che senso ha sostituire il petrolio con un altro minerale in via d’esaurimento? Non sarebbe meglio investire su tutte quelle energie, dette alternative, o rinnovabili, da la geotermia all’eolico, dal solare all’idroelettrico, ecc? Ho anche letto sulla stampa (per la precisione sul quotidiano di Vittorio Feltri Libero) che un ingegnere italiano ha già allestito in Canada e Australia impianti che trasformano i rifiuti (l’80 per cento è cellulosa) in benzine e che possiede brevetti analoghi per la trasformazione dei copertoni usati. Poi in Italia c’è già stato un referendum e l’opzione nucleare ha perso: se ne facessero un altro non credo che vi sarebbero variazioni sul responso. Si cerca inoltre di spostare la questione del nucleare in politica: chi è di destra è favorevole, chi è di sinistra, contrario. Non è vero! Io sono di destra eppure sono contrario. Mi
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
13 giugno
ricordo, inoltre, che un nutrito e combattivo gruppo di aderenti all’allora Partito comunista italiano, al tempo del referendum era favorevolissimo al nucleare. Il nucleare è un’opzione perdente perché va troppo in là nel tempo, perché militarizza il territorio, perché si basa su un minerale in esaurimento, perché il nostro è un paese sismico... E le scorie? non siamo stati buoni a smaltire gli Rsu, figuriamoci le scorie nucleari: certo la camorra saprebbe come gestire le scorie e come guadagnarci su alla grande, col rischio che queste (le scorie) finiscano negli arsenali del terrorismo islamico sotto forma di ”atomiche sporche”. Un ultimo dubbio, la Westinghouse, non avrà mica qualche reattore da svendere? Rimasto sul groppone per il fatto che negli Stati Uniti d’America non sono previsti nuovi insediamenti nucleari. E visto che non può certo venderli all’Iran (McCain li condannerebbe tutti a morte, ma anche Obama!) l’Italia potrebbe risultare un mercato appetibile.
Vittorio Baccelli
1774 Il Rhode Island è la prima delle 13 colonie americane a mettere fuori legge l’importazione di schiavi 1888 Nasce Fernando Pessoa, poeta e scrittore portoghese 1944 Seconda guerra mondiale: la Germania lancia un attacco sull’Inghilterra con le bombe volanti V1. 1944 Nasce Ban Ki-moon, politico sudcoreano e segretario generale dell’Onu 1948 Usa: i New York Yankees ritirano il numero 3 di Babe Ruth 1970 The Long and Winding Road diventa l’ultima numero 1 in classifica dei the Beatles 1971 Guerra del Vietnam: Il New York Times inizia a pubblicare i Pentagon Papers 1973 Guerra del Vietnam: Henry Kissinger e Le Duc Tho firmano un accordo di pace 1979 Muore Demetrio Stratos, cantante italiano
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei,
PUNTURE Il governo annuncia il decreto legge sulle intercettazioni. Poi si corregge e prepara un disegno di legge. Il testo è stato intercettato dal Quirinale.
Giancristiano Desiderio
“
Tutti gli uomini sono pazzi, e chi non vuole vederli deve restare in camera sua e rompere lo specchio ALPHONSE DE SADE
”
Giancristiano Desiderio, Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di BENVENUTO BUSH, LA STORIA TI DARÀ RAGIONE Bisogna aspettare e prendere appunti: 11 giugno 2008. Scattate le fotografie e conservatele: questo è l’ultimo viaggio di un presidente che dovrà essere giudicato con calma, che sarà catalogato dal futuro, che sarà valutato quando sarà un pensionato con lo Stetson in testa. A Roma lo hanno fischiato. Quello che non è stato fatto con Ahmadinejad è stato fatto con George W. Bush, perché buoni e cattivi spesso vengono confusi, perché la diplomazia a volte inverte ruoli, perché l’antiamericanismo è uno dei mali degli ultimi decenni. L’Air Force One atterra a Roma e scende un uomo che ha cambiato il mondo. Sì l’ha cambiato: ha ereditato gli anni Novanta, ha gestito il post undici settembre, ha cominciato la guerra più difficile della storia degli Stati Uniti, quella al terrorismo globale. George W. Bush, il criticato, l’odiato George W. Bush s’è trovato a gestire i disastri della sicurezza nazionale americana dell’era Clinton, ha visto il suo Paese subire l’attentato terroristico più grave, ha visto le lacrime e la paura della gente. Bisogna aspettare, perché la storia non finisce e si trascina: la politica internazionale americana, l’esportazione della democrazia in Medio Oriente non possono essere giudicate adesso. Ci vuole tempo, ci vuole pazienza. Harry Truman fu il presidente delle bombe H su Hiroshima e Nagasaki, della violenza inaudita per l’umanità: la storia l’ha riabilitato ampiamente, la campagna elettorale americana 2008 l’ha addirittura santificato. Roma ospita un potente che ha subito la più enorme campagna mediatica “anti” dell’ultimo
secolo. La campagna militare in Iraq contestata come un affare personale, la caduta di Saddam Hussein presa come una specie di insulto all’umanità, la guerra ai Talebani che proteggevano Al Qaeda considerata quasi una azione contro un governo legittimo e democratico. Quando l’Iraq sarà definitivamente pacificato e l’Afghanistan anche, il mondo scoprirà che il poliziotto Bush sarà servito e avrà reso un favore all’umanità. L’Europa l’ha detestato per la gran parte del suo doppio mandato: al crepuscolo della sua esperienza alla Casa Bianca ritrova un amico come Silvio Berlusconi e una nuova alleata come Angela Merkel. E’ il paradosso. Bush abbandona ora che il contesto internazionale gli può rendere giustizia. Per sette anni ha avuto tutti contro: l’opinione pubblica internazionale condizionata dalle inchieste e dalle pseudoinchieste della stampa liberal americana, le diplomazie internazionali, le Nazioni Unite. L’America di Bush è più forte dell’America di Clinton, ma adesso deve affrontare la crisi economica che è l’ultimo strascico della crisi internazionale cominciata per le lacune delle amministrazioni che l’hanno preceduta. Eppure a Washington, Bush Junior non s’è mai lamentato: gli hanno disegnato addosso l’abito dell’affarista e del presidente di un gruppo di “oligarchi” delle corporation: eppure nel 2004 l’America ha avuto la possibilità di cacciarlo e non l’ha fatto. Vuol dire che qualcosa di buono questo presidente poco amato e molto oltraggiato l’avrà fatta. Qualcuno lo riconoscerà, prima o poi.
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PAGINAVENTIQUATTRO Filosofica difesa d’ufficio prima del match decisivo contro la Romania
Elogio scaramantico del signor di Giancristiano Desiderio Zurigo oggi si scende in campo per Italia-Romania, ma in testa c’è ancora Italia-Olanda «che nel pensier rinova la paura!». Il Dona - dicono le cronache elvetiche - farà ciò che gli è stato suggerito: via il bloccato “blocco Milan”e dentro Grosso, De Rossi, Del Piero e magari anche quel mattacchione di Cassano, un po’ svitato ma con i piedi ben avvitati. Il Dona, allora, scende a patti con le critiche di quelli che Italo Cucci chiamò e ha richiamato su questa pagina «criticonzi»? Credo di no, perché ogni partita, proprio come nella vita, è una storia a sé. Conviene fare, allora, un elogio di Donadoni e dire la verità sulla serata di Berna.
A
La verità su Italia-Olanda è morale prima e calcistica poi. Siamo un Paese che non sa perdere. La guerra l’ha persa Mussolini, noi ci siamo seduti al tavolo dei vincitori. Nel 1970 in Messico ha perso Valcareggi perché noi avremmo fatto giocare l’Abatino e avremmo vinto. A noi la Storia così com’è non piace, a noi piace la Storia rivista e corretta secondo i nostri desideri. Non ci riconosciamo nelle sconfitte e così non sappiamo neanche riconoscere il vero valore della Vittoria che i Greci, giustamen-
DONADONI l’Acropoli e, in verità, aveva un buon tocco di palla anche se zoppo (come Garrincha), causa terremoto di Casamicciola, il buon Croce diceva che la Storia non si fa con i se e con i ma. Il che non significa che ciò che accaduto non poteva non accadere, ma solo che ciò che è accaduto è la sola cosa conoscibile perché ricostruibile, mentre ciò che non è accaduto non lo possiamo conoscere perché non c’è. Nel cosiddetto dopo-partita accade il contrario: si analizza una partita di calcio non in base ai fatti, bensì in base a ciò che non c’è ma che sarebbe potuto essere. E’ il festival dei se e dei ma. «Se Donadoni avesse fatto giocare De Rossi avremmo visto tutta un’altra partita», che è una banalità da vergognarsi. «Se avesse schierato Del Piero e Cassano dall’inizio avremmo impensierito la difesa olandese», che è la scoperta dell’acqua riscaldata. Al cospetto di questi giudizi, Donadoni è Platone o, per essere più giusti, è semplicemente intellettualmente onesto (che è l’unico modo, come sapeva Aristotele, che gli uomini hanno per essere onesti: riconoscere gli errori).
Il ct della Nazionale, dicono le cronache elvetiche, farà ciò che gli è stato suggerito: fuori il “blocco Milan” e dentro Grosso, De Rossi, Del Piero e magari anche quel mattacchione di Cassano, che sarà un po’ svitato ma ha dei piedi ben avvitati te, vedevano con le ali ai piedi. Quando la Nazionale vince «abbiamo vinto» e «i campioni del mondo siamo noi», quando si perde «l’Italia ha perso» e, nel caso in esame, «è tutta colpa di Donadoni». Peccato che un minuto prima si era tutti con il Dona e nessuno muoveva critiche al ct della Nazionale al quale bisogna fare tanto di cappello per il solo fatto di aver accettato di prendere il posto di San Marcello Lippi. Una partita persa in partenza, giù il cappello. Altro che «pagina più nera del calcio italiano»: Roberto Donadoni rappresenta una delle pagine più alte del calcio italiano perché ha accettato la panchina più scomoda del mondo. Il buon Croce, che secondo lo scrittore Antonio Pennacchi in gioventù fece l’osservatore per
Dice infatti Donadoni: «Abbiamo perso male, ma la partita va analizzata nel suo insieme. Dite che ho sbagliato la formazione? Se valutate il 3-0 allora tutto è sbagliato. Ma non c’è controprova. Chi ha detto che se avessi scelto un modulo diverso dal 4-3-3 il risultato sarebbe stato un altro? In Scozia, quando abbiamo centrato la qualificazione, il 4-3-3 andava bene». Signori, giù il cappello. «Ma allora - si ode la voce dei “criticonzi” - che dobbiamo fare:
non si devono muovere critiche?». Sì che si devono muovere, ma quando si vince, non solo quando si perde. Sennonché, quando si vince nessuno osa fiatare e anche la Nazionale più brutta di sempre - quella del sullodato San Marcello Lippi - diventa una squadra di supereroi. Il Bearzot che non capiva niente nel girone di qualificazione in Spagna ’82 è lo stesso Bearzot che tutti acclamano per essere un genio del calcio perché, in sostanza, Falcao, Zico e gli altri verdeoro giocarono fino in fondo a fare i brasiliani invece di lanciare un po’ il pallone in tribuna e gridare “viva il parroco”.
La verità è che non solo non sappiamo perdere, ma non sappiamo neanche vincere. Abbiamo semplicemente un cattivo rapporto con i fatti. Se a Berna la Nazionale di Donadoni avesse vinto, avremmo letto e sentito le lodi di un’Italia brutta ma concreta in omaggio al principio (anti) nazionale: chi vince ha sempre ragione. Non è vero. Come non è vero che chi perde ha sempre torto. La verità è che cerchiamo sempre e comunque di cambiare le carte in tavola e i gol in campo. Sul gol di Van Nistelrooy l’unica cosa da dire non siamo in grado di dirla: l’errore è parte del gioco. Ma a noi gli errori piacciono solo quando ci avvantaggiano. Le nazioni serie sono divise nelle vittorie e unite nelle sconfitte, mentre noi utilizziamo il criterio inverso. Le vittorie sono di tutti, le sconfitte di uno solo. Le sconfitte sono criticabili per partito preso: e così confondiamo volutamente realtà e immaginazione, fatti e desideri e alimentiamo decenni di equivoci e complotti. Buffon ha chiesto scusa agli italiani. Farebbe bene a chiedere scusa anche a Roberto Donadoni, l’unico italiano che ha mostrato di saper perdere perché sa giocare.