Oggi il supplemento
QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
MOBY DICK
Il rapporto con il cibo e con i sapori metafora del senso della vita
SEDICI PAGINE i ed h c DI ARTI a n o cr E CULTURA
Gli agnolotti di Einstein (ovvero come resistere a un digiuno forzato)
di Ferdinando Adornato
di Renzo Foa o cercato di prendere di petto venti giorni di digiuno forzato, senza cadere nell’errore di ricordare costantemente il cibo, di esserne ossessionato, di arrivare alle vecchie ore dei pasti pensando con nostalgia a quel che mettevo sotto ai denti. Mi sono invece rifugiato più direttamente nei sapori. Facile a dirsi: ce ne sono un’infinità. La gamma della scelta è vastissima. Ce ne sono di irraggiungibili. C’è una rincorsa ad essere l’uno migliore dell’altro. Cito a caso. Certamente il sapore dell’uovo di salmone è di gran lunga migliore del semolino, il couscous è più intrigante di un omogeneizzato al formaggio. Ma una spolverata di tartufo su un piatto di fumanti tagliatelle o di uova strapazzate non ha uguali. Essere costretti a non mangiare e pensare ai sapori vecchi, magari ormai introvabili, cercati tante volte e mai recuperati è stato il mio modo di resistere al digiuno, di sopravvivere a questa costrizione che – diciamola tutta è anche una forma di umiliazione. Se è umiliante chiedere del cibo, che in fondo dalle nostre parti è a disposizione di tutti, e sentirselo rifiutare, non c’è invece nulla di offensivo nel non ottenere ciò che è difficilmente ottenibile, soprattutto in un ospedale o in una clinica.
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L’IRLANDA DICE NO AL TRATTATO
C’è ancora l’Europa? dsfasdfsdaf 9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80614
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Dopo aver incassato finanziamenti a pioggia, Dublino boccia il trattato di Lisbona. Parigi e Berlino dicono: andiamo avanti. La verità è che bisogna cominciare daccapo: ridefinendo l’identità e il ruolo dell’Unione alle paginealle 2 e pagine 3 2e3 ARRIVEDERCI A MARTEDÌ Come altri quotidiani anche liberal non esce la domenica e il lunedì. L’appuntamento con i lettori è dunque per martedì 17 giugno
Aumentano tutti i generi alimentari
Inflazione record: la pasta cresce del 20 per cento
Intervista al sottosegretario Eugenia Roccella
Ecco la road map etica del governo
Viaggio tra giornalisti e politici
Intercettazioni: si può colpire la Casta bis?
di Gianfranco Polillo
di Alfonso Piscitelli
di Francesco Rositano
Prezzi in aumento, ma non è una novità. L’ultimo bollettino Istat ha infatti confermato una realtà che i consumatori hanno constatato di persona. Ad aprile l’indice generale, calcolato su base annua, era scattato del 3,6 per cento.
Sull’agenda politica del sottosegretario Eugenia Roccella si riversano le emergenze etiche insorte negli ultimi anni. I problemi della sperimentazione genetica, dell’aborto, del testamento biologico.
E’ giusto colpire con un provvedimento pesante i giornalisti che pubblicano le intercettazioni? le risposte sono molteplici. L’opinione di Polito,Vespa, Guzzanti, Franco e altri giornalisti di spicco.
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s e gu e a p ag in a 2 0
GIUGNO
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
nell’inserto Creato a pagina 12 NUMERO
111 •
WWW.LIBERAL.IT
pagina 4 • CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 14 giugno 2008
prima pagina
Il referendum irlandese rischia di far saltare anche le nomine dei nuovi vertici di Bruxelles
L’Europa s’è disfatta di Enrico Singer
Le incredibili divisioni strategiche della maggioranza
Berlusconi si preoccupa la Lega gioisce: il governo si perde a Dublino di Errico Novi
ROMA. Due premonizioni. Quella entusiastica di Roberto Calderoli, diffusa in prima mattinata, quando dalle agenzie ufficiali ancora non arrivano notizie: «Un grazie al popolo irlandese per il suo voto: tutte le volte in cui i popoli sono stati chiamati a votare hanno bocciato clamorosamente un’Europa che vedono lontana». L’altra intuizione è da giorni sul sito web della Presidenza del Consiglio, ma è fallace: «Con il voto del 23 maggio, la Germania è diventata il quattordicesimo Stato membro ad aver concluso l’iter di ratifica dopo Ungheria, Malta, Slovenia…». Finché nel lungo elenco c’è anche «l’Irlanda». Come no.Va bene essere ottimisti. Ma a volte ci vorrebbe un po’ di prudenza. La verità è che il governo italiano è di fatto costretto a rimuovere il problema. Non c’è stato alcun confronto memorabile nel Consiglio dei ministri di ieri. Solo la «preoccupazione» espressa dal premier, che si interroga su «cosa succederà adesso». E il compiacimento vagamente sadico di Calderoli, reduce dal comunicato premonitore, che suggerisce di «ripensare l’Europa come è stata concepita fino ad ora». Intendiamoci: non è che gli altri protagonisti del blocco continentale possano permettersi un passo più deciso. Ma nessuno come l’Italia, tra i grandi dell’Unione, sembra in così evidente imbarazzo.
Le manifestazioni di giubilo padane (per tutte le altre valga quella memorabile di Roberto Castelli: «Stavolta a dire no è è stato il popolo della celtica e verde Irlanda») convivono con il tono grave di Gianfranco Fini, che parla di Europa «ingovernabile e paralizzata». Paralizzato è anche il governo di Roma. Che di fatto non può permettersi di assumere alcuna particolare iniziativa, in questo momento di drammatica crisi. Al suo interno ha una componente troppo esplicitamente anti europeista come il partito di Bossi. E non si offrirebbe uno spettacolo edificante, se una posizione decisa di Berlusconi venisse smentita il giorno dopo dal Senatùr. D’altronde un’incoerenza del genere non giova alla credibilità del Paese. E nell’opposizione c’è chi affonda il coltello nella piaga. Enrico Letta chiede al premier di smentire Calderoli, Parisi si domanda qual è il governo con cui il Pd dovrebbe discutere sul da farsi. Il futuro incerto della Ue pregiudica il destino del Paese ma la maggioranza di governo è costretta a nascondersi. Pier Ferdinando Casini auspica che si superi l’assetto rigido dei 27, si formi «un ristretto gruppo di Paesi in grado di andare avanti» e soprattutto che «l’Italia batta un colpo in questa direzione». Ed è qui che emerge il limite di un governo diviso: nessuna vera e convincente iniziativa può essere presa in queste condizioni. L’Italia fa sicuramente parte di quella cerchia di Nazioni chiamate a una responsabilità più alta, a una «scelta coraggiosa», come dice anche Giorgio Napolitano. Ma ha una maggioranza che ne offusca l’autorevolezza, ne mortifica qualsiasi slancio. E questo forse è peggio di una bocciatura referendaria.
desso tutti diranno che gli irlandesi sono appena quattro milioni e mezzo sui 493 milioni di cittadini dell’Europa dei Ventisette. Che, in fondo, ha votato “no” poco più della metà degli elettori, il 53,4 per cento. Che l’euroscetticismo in quest’isola è di casa tanto che già nel 2001 fu bocciato per referendum il Trattato di Nizza, approvato poi un anno dopo con una seconda votazione. Che gli irlandesi sono anche un po’ ingrati perché a spingere il boom di quella che oggi è chiamata la “tigre di smeraldo”ha contribuito proprio l’Unione europea con i miliardi dei fondi strutturali che, tra l’altro, in parte furono distolti dalle regioni meridionali dell’Italia. È tutto vero. Come è vero che la Ue non si scioglierà domani. «Si va avanti» è la frase più ripetuta nelle dichiarazioni a caldo degli altri leader. Il problema è come. Perché una cosa è certa: le regole europee prevedono che il nuovo Trattato deve essere approvato da tutti i Paesi membri, altrimenti non può entrare in vigore. Per l’Europa si apre, così, una nuova fase di transizione che porterà con sé altre tensioni e altri compromessi. Anche perché, dopo questo “no”sono in bilico il presidente stabile del Consiglio europeo e il responsabile per la politica estera
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che dovevano essere scelti alla fine dell’anno. Nicolas Sarkozy che tra quindici giorni assumerà la presidenza di turno della Ue - e che sperava di trasformarla in una passerella di successi - sarà costretto a infilarsi in una ragnatela di contatti per trovare, almeno, una “soluzione-ponte”: formula ormai abusata nell’Unione che vive in uno stato di permanente emergenza da quando, nel 2005, un altro voto popolare ha fatto saltare le alchimie che la diplomazia aveva faticosamente raggiunto. Allora furono i referendum in Francia e in Olanda - Paesi fondatori della Ue e di peso ben superiore all’Irlanda - a dire “no” al progetto di Costituzione europea. È da quella bocciatura che è nato il
da parte molte ambizioni pur di evitare l’implosione. Oggi, alla luce del risultato irlandese, l’impressione è che il rischio, più che l’implosione, sia il disfacimento. Un progressivo logoramento che supera gli ideali e confonde gli obiettivi. Una decadenza che sembra un paradosso: ci sono Paesi, come la Turchia o l’Ucraina per sempio, che farebbero carte false pur di entrare nella Ue. Ce ne sono altri - i dieci dell’Europa dell’Est già entrati che si sentono finalmente a casa dopo gli anni del dominio sovietico. Eppure qualcosa di profondo si è rotto. Sono troppe, ormai, le bocciature nei referendum e le continue revisioni dei testi e degli accordi per non rendersi conto che non bastano i rattoppi. Che servirebbe una ridiscussione seria dei traguardi che la Ue vuole raggiungere. Anche a costo di prendere atto che la tanto temuta “Europa a più velocità” è già una realtà non ufficializzata, ma concreta. Non è un caso che ieri, pochi minuti dopo l’annuncio dei risultati definitivi del referndum in Irlanda, Nicolas Sarkozy e Angela Merkel hanno sentito il bisogno di affidare a una dichiarazione congiunta la reazione di Francia e Germania alla nuova tempesta che si è abbattuta sulla Ue. La dichiarazione, per la verità, poco aggiunge ai sentimenti
Il Trattato è stato bocciato col 53,4 percento e la Ue torna nel limbo. Sarkozy e la Merkel provano a rilanciare la locomotiva franco-tedesca Trattato di Lisbona silurato ora dall’Irlanda. Un testo annacquato rispetto all’originaria aspirazione di dare alla Ue una sua Carta fondamentale e non solo un semplice manuale di istruzioni per l’uso della coabitazione tra ventisette Paesi.
Quando a Lisbona, il 13 dicembre del 2007, fu trovato l’accordo sul nuovo testo, in tanti - e tra questi anche il presidente Napolitano dissero che l’Europa aveva messo
prima pagina Parla l’uomo che ha suggerito a Sarkozy di trasformare la Costituzione in Trattato
Almeno due anni per riprenderci colloquio con Alain Lamassoure di Maria Maggiore
BRUXELLES. «Col No irlandese l’Europa non muore, ma rallenta parecchio il suo cammino. Un anno, se non di più. I referendum sono l’arma preferita dai dittatori, non aiutano la democrazia. Ci vorrebbe uno scrutinio europeo, lo stesso giorno. Chi vota No, esce dall’Unione». È drastico Alain Lamassoure, eurodeputato francese dell’Ump, gran consigliere di Sarkozy a cui suggerì l’idea di uscire dalla crisi del No francese del 2005, trasformando la Costituzione in mini-Trattato e evitando così le forche caudine del referendum. Che succede adesso, l’Europa si blocca di nuovo? Questo No ci ritarda un po’. Si dice sei mesi, ma io credo uno o due anni. Bisogna dare agli irlandesi il tempo per digerire questo voto. Come risolvere questa crisi? La soluzione è nelle mani dei dirigenti irlandesi, com’è stato il caso di Sarkozy appena eletto nel 2007. Devono dire loro al resto d’Europa come intendono uscire da questa crisi. D’altronde con questo voto sembra chiaro che le ragioni del No sono esterne al Trattato, paura dell’aborto, fine dell’aliquota fissa al 12,5% per le imprese, paura di un ritorno alla militarizzazione dell’Irlanda. Il trattato di Lisbona non ha niente a che vedere con questi temi. Se ne parlerà sicuramente al Consiglio europeo di Bruxelles, la settimana prossima. Quando la Francia ha votato NO al referendum, la Costituzione europea è morta all’istante. Dobbiamo considerare morto il trattato di Lisbona? No. Le ratifiche negli altri Stati devono continuare. Ma si tratta del No di un popolo sovrano... Sì, ma le ragioni del No sono tutte esterne. È stato detto durante la campagna elettorale che il nuovo Trattato obbligherà i giovani irlandesi al servizio militare. Su questo non c’è niente da cambiare nel Trattato, perchè non se ne parla. Il No francese era invece sul contenuto della Costituzione. Bisognava quindi modificarla nella sostanza. E poi l’Irlanda non è la Francia. Scusi, in che senso? Non prendiamoci in giro. 4 milioni di abitanti non possono contare come 60, per giunta di un Paese fondatore dell’Unione. Con questo No, 490 milioni di cittadini
europei aspetteranno ancora questi 4 milioni d’irlandesi. Il trattato non si tocca. Il resto d’Europa, la maggioranza, non ne vuole sentir parlare. Come uscire dall’impasse? Cosa si fa del No irlandese? Intanto si prende un tempo di riflessione, sei mesi, un anno. In Francia ce ne sono voluti due per aspettare nuove elezioni e un cambio di rotta. Io credo, come è già successo nel 2001, per il No di Dublino al trattato di Nizza, che gli irlandesi abbiano bisogno di rassicurazioni. I famosi opt-out - non partecipare ad alcune politiche comuni - già concessi a Regno Unito e Polonia, potrebbero essere estesi all’Irlanda? Esatto. In una dichiarazione annessa al Trattato che non ne modifichi la sostanza. I progetti della presidenza francese, che tra due settimane prenderà le redini dell’Unione, vanno in fumo. Non sarà Sarkozy a nominare il Presidente stabile dell’Unione, il ministro degli Esteri e di conseguenza, a individuare il futuro presidente della Commissione. Eh già, il primo gennaio 2009 il trattato di Lisbona non entrerà in vigore. Si andrà alle prossime elezioni europee, in giugno, con il vecchio trattato di Nizza. E si continuerà a votare con l’odiosa unanimità su materie sensibili come l’immigrazione. Ma almeno il presidente della Commissione europea sarà l’espressione della maggioranza che vincerà le elezioni di giugno. È già stato così nel 2004 con la nomina di Barroso. Sarà così nel 2009. Non si dovrebbe cominciare a riflettere su come far avanzare l’Europa? Ma i nostri governanti non ne hanno voglia, pensano solo al proprio orticello! Il referendum è l’arma preferita dai dittatori perchè in realtà non è democratica. Inoltre, a livello europeo, pone i cittadini su piani non egalitari, perchè in alcuni Paesi si approva un Trattato per vie parlamentari e in altri per referendum popolare. Come risolvere il problema ? Un solo referendum, lo stesso giorno, in tutti i Paesi europei. Chi vota no esce dall’Europa e permette agli altri di andare avanti.
Ci vorrebbe un referendum Ue, tutti i Paesi lo stesso giorno, chi vota No resta fuori
che gli altri leader europei e il presidente della Commissione europea, Manuel Barroso, hanno espresso: rammarico per la vittoria del “no” e speranza che il processo delle ratifiche continui negli otto Paesi, Italia compresa, che devono ancora approvare - tutti per via parlamentare, però - il Trattato di Lisbona.
Il valore della dichiarazione franco-tedesca va al di là delle inevita-
bili frasi di circostanza. Francia e Germania lanciano un messaggio: si ripropongono come locomotiva della Ue anche se sanno che non tutti i vagoni potranno seguire alla stessa velocità. Proprio l’allargamento dell’Unione - che, tra l’altro, è la ragione dell’aggiornamento del Trattato - ha creato di fatto un’Europa a cerchi concentrici, come dicono a Bruxelles, dove ci sono più nuclei che è difficile mettere d’accordo.Tecnicamente la soluzio-
ne per la convivenza ci sarebbe: si chiama opting out, il diritto di non aderire a certe politiche. L’esempio più eclatante è l’euro che non è la moneta di tutti i Ventisette. Ma l’opting out è possibile anche su altri temi sensibili, come la difesa che, nella neutrale Irlanda, molto ha pesato nella campagna dei sostenitori del “no”. Ma il problema non è soltanto tecnico e la battuta d’arresto politica segnata ieri è davvero pesante.
14 giugno 2008 • pagina 3 Manuel Barroso, presidente Commissione Ue, Hans-Gert Poettering, presidente del Parlamento, Nicolas Sarkozy e Brian Cowen, premier irlandese
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Barroso: il processo va avanti Avanti con le ratifiche del Trattato di Lisbona, siamo quasi alla fine. Poi faremo i conti con il no di Dublino. Il Trattato non è morto, come invece si disse della Costituzione Ue subito dopo la doppia bocciatura franco-olandese di due anni fa. Lo ha spiegato pazientemente, durante la sua conferenza a stampa a Bruxelles, il presidente della Commissione José Manuel Barroso. «Ora 18 Stati membri hanno già ratificato il Trattato: bisogna andare avanti, rispettare i risultati del processo di ratifica. Non possiamo bloccarlo, gli altri Paesi membri ci chiedono di continuarlo».
Napolitano: impensabile ripartire da zero È impensabile che «la decisione di poco più della metà degli elettori di un Paese che rappresenta meno dell’1 per cento della popolazione dell’Unione possa arrestare il processo di riforma». È la presa di posizione molto netta del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sul no irlandese al Trattato di Lisbona. «È l’ora di una scelta coraggiosa, non si può neppure immaginare di ripartire da zero».
Merkel e Sarkozy, ottimismo congiunto Berlino e Parigi hanno deciso di commentare il risultato di Dublino con un comunicato congiunto, firmato dal cancelliere tedesco Angela Merkel e dal presidente francese Nicolas Sarkozy: «Abbiamo accolto la decisione democratica espressa dalle cittadine e dai cittadini irlandesi con rispetto pur essendo molto dispiaciuti. I capi di Stato e di governo dei 27 Stati membri hanno sottoscritto il Trattato e in 18 la sua ratifica è già stata conclusa: noi ci aspettiamo, quindi, che gli altri Stati membri portino avanti il loro processo di ratifica interno».
Il presidente Ceco: progetto finito I leghisti italiani non sono gli unici ad esultare. Un affondo raggelante arriva anche dal presidente ceco Vaclav Klaus, che ha salutato il risultato del referendum in Irlanda affermando che si tratta di «una vittoria della libertà e della ragione su progetti elitari e artificiali e sull’Europa burocratica. I politici», sostiene il Klaus, «hanno permesso ai cittadini di esprimere la loro opinione in un solo Paese in Europa», e la risposta è chiara: il Trattato di Lisbona è finito oggi con il voto degli irlandesi e la sua ratifica non può andare avanti».
Londra: rispettiamo Dublino ma si va avanti La Gran Bretagna andrà avanti con la ratifica del Trattato di Lisbona a dispetto della bocciatura irlandese, assicura il capo del Foreign Office David Miliband. Il no va «rispettato e digerito, il governo irlandese ha messo in chiaro che considera giusto che Paesi come la Gran Bretagna continuino il processo di ratifica. Accettiamo l’offerta irlandese di ulteriori discussioni sui prossimi passi per andare avanti».
Frattini: i Parlamenti diano un segnale «La strada dell’integrazione europea non può fermarsi, a partire dall’azione politica che i Parlamenti nazionali, con le ratifiche, potrebbero simbolicamente esprimere». È il commento del ministro degli Esteri Franco Frattini sulla bocciatura irlandese del Trattato europeo.
Buttiglione: spieghiamo le ragioni dell’Europa «Esprimiamo grande dolore e preoccupazione per questo risultato che spiega anche la crisi dell’idea europea e la difficoltà per i cittadini di riconoscere un profilo ideale forte per il quale valga la pena di impegnarsi», ha detto il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione, «bisogna comunque andare avanti, studiando il modo migliore di ridurre i danni, ma bisogna anche rilanciare una forte campagna europeista per spiegare di nuovo le ragioni e le radici cristiane dell’Europa».
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il caso
Intercettazioni. Giornalisti e politici discutono le misure del governo. Da Antonio Polito a Massimo Franco, da Sandro Curzi a Bruno Vespa
Si può colpire la casta bis? di Francesco Rositano Ma quanto pesano le leggi dell’audience su meccanismi delicatissimi come quello della pubblicazione delle intercettazioni? Insomma ferme restrando le buone intenzioni, quanto ci si può lasciar traviare? Per Bruno Vespa questo provvedimento potrebbe risolvere tanti problemi: «Credo sia la volta buona affinché le intercettazioni vengano fatte non per aprire un’indagine, ma a compimento di un’indagine. E naturalmente vengano pubblicate solo per la parte BRUNO VESPA Credo sia la volta penalmente rilevante al momento buona affinché le del processo. Quarant’anni fa ho scritto la tesi di laurea sui liintercettazioni miti penali del diritto di crovengano fatte naca. E sin da allora quando non per aprire un’indagine, ma a non si parlava di privacy ma di riservatezza sostenevo compimento di che non bisogna abusare del un’indagine diritto di cronaca. E ne parlo da tempi non sospetti».
ome una stessa medaglia può avere tante facce, anche una stessa domanda può avere tante risposte. Naturalmente dipende dal punto di vista di chi si sente interpellato. Ecco quindi che, di fronte all’interrogativo se sia giusto o meno colpire con un provvedimento pesante
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i giornalisti che pubblicano le iintercettazioni illegali, le risposte sono molteplici. E a volte in contraddizione. C’è ad esempio chi, come Paolo Guzzanti, è rimasto scottato dal «fuoco» delle intercettazioni e vorrebbe che questa storia avesse fiune («naturalmente devono pagare anche i magistrati, perché sono loro che passano le informazioni».
Oppure chi, come Antonio Polito, da direttore di quotidiano, sa che i giornalisti sono l’anello finale di una catena nella quale possono fare poco e nniente. E quindi ripassa la palla agli editori: «Siano loro ad assumersi il rischio economico delle pubblicazioni. I giornalisti sono lavoratori dipendenti che eseguono il mandato di scovare le notizie e portarle al direttore». Non manca, poi, chi, come Massimo Franco, da attento osservatore dei palazzi del potere, richiama la classe politica ad avere le idee chiare «per non creare inevitabili sospetti nell’opinione pubblica». Infine, c’è chi come Sandro Curzi, consigliere d’amministrazione Rai in quota Sinistra Arcobaleno, si domanda «cosa ci sta a fare l’Ordine dei giornalisti se poi non è in grado di disciplinare la categoria. Se dobbiamo farci controllare da gli altri a questo punto l’Ordine possiamo anche scioglierlo»
scono su un brogliaccio è molto difficile impedire che siano pubblicate. Quindi i magistrati devono essere molto più scrupolosi nel chiederle e i giudici molto più attenti nel concederle». I cronisti, perciò, sono esenti da ogni colpa? «I giornalisti - continua Polito - sono dei semplici lavoratori dipendenti che hanno il compito di portare in redazione questo materiale. Tra l’altro chi lavora nei giornali sa benissimo che la concorrenza è spietata e se i cronisti non sono al passo con i loro colleghi, il direttore li può tranquillamente punire impedendo loro di scrivere». E quindi? «Secondo
ANTONIO POLITO Siano gli editori ad assumersi il rischio economico delle pubblicazioni. I giornalisti sono lavoratori dipendenti che eseguono il mandato di scovare le notizie e portarle al direttore
Antonio Polito, direttore de ”Il Riformista”e ex senatore del Pd, è fermante convinto che i giornalisti sono il terminale ultimo di un processo che va bloccato a monte. Quindi il primo soggetto chiamato in causa sono i magistrati. «Quando le intercettazioni fini-
L’autore de ”La Casta” difende la sua categoria
«No,chi tocca i media prepara il fascismo» colloquio con Sergio Rizzo di Francesco Rositano
me bisogna creare un meccanismo di convenienza. Se un editore che vuole pubblicare le interecettazioni perché pensa che questo gli faccia aumentare le vendite e sia un diritto di cronaca, le pubblichi pure. Ma poi deve accollarsi anche il peso di una sazione pecuniaria. Stabilirei una pesante sanzione pecuniaria in funzione delle copie vendute. Insomma devono essere gli editori ad assumersi il rischio economico di alcune scelte. Poi si può anche prevedere una sanzione penale o amministrativa per i giornalisti, ma se uno pensa che si possano mandare i giornalisti in galera, mi sembra abbastanza improbabile»
a privacy gli sta a cuore («è un diritto sacrosanto»), ma la libertà di stampa molto di più. Sergio Rizzo - giornalista del «Corriere della Sera» e autore, insieme a Gian Antonio Stella, del best seller «La Casta» - difende a spada tratta i giornalisti. E afferma: «Su questi temi dobbiamo prendere lezioni dall’Inghilterra e dalla Germania. Finora siamo stati fin troppo accondiscendenti con il potere. E ammonisce: «Quando si cominciano a fare delle leggi che toccano i giornali e i giornalisti bisogna cominciare a preoccuparsi. Non vorrei che alla fine si ritornasse ai tempi del fascismo e del Minculpop». Come mai, proprio lei che ha scritto un libro attaccando il potere della politica, difende i giornalisti? La cosa che non capisco è perché oggi si prende di mira i giornalisti
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quando pubblicano informazioni di pubblico dominio, limitandosi semplicemente a fare il proprio lavoro. Se si trattasse di informazioni coperte dal segreto di Stato potrei anche capire, ma altrimenti mi sembra assurdo colpire chi si limita soltanto a far conoscere all’opinione pubblica informazioni già in circolazione. Purtroppo la mia sensazione è che questo ddl sia un modo per tagliare le unghie alla stampa. Questo è un paese in cui il diritto di cronaca viene esercitato poco e male. Semmai c’è un deficit del diritto di cronaca, e non un abuso di esso. E per quanto riguarda la violazione della privacy? Vorrei affermare che le intercettazioni in cui si è violata la privacy sono marginali. A meno che non consideriamo una violazione anche il caso in cui si portò davanti alla pubblica opinione il fatto di
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Il ministro Alfano: la privacy sarà tutelata «Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge sulle intercettazioni all’unaninimità e in un clima di grandissima concordia». Queste le parole del ministro della Giustizia Angelino Alfano che in conferenza stampa a palazzo Chigi ha sottolineato l’intento del provvedimento teso «a tutelare la privacy dei cittadini e a regolamentare il sistema» Il ddl, ha rilevato il Guardasigilli, «è in linea con i principi costituzionali e con la normativa europea in materia». In particolare, ha ricordato, «la Convenzione europea per la tutela della privacy stabilisce adeguate protezioni, indicando quali sono le categorie delle persone intercettabili, un termine massimo per la durata delle intercettazioni e quali sono gli interlocutori».
Preoccupata l’Associazione dei Magistrati Il ddl sulle intercettazioni varato ieri dal Consiglio dei ministri «non va bene». Questa la posizione della giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati che, al termine di un incontro alla Camera con il presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, lancia un «allarme» sul provvedimento. In particolare, spiegano i vertici dell’Anm, «le preoccupazioni sono date dal fatto che le intercettazioni non potranno essere utilizzate per perseguire reati che creano un vero allarme sociale: dalla rapina semplice al furto in appartamento, al sequestro di persona a scopo non di estorsioni. é il caso ad esempio - dice Anna Canepa, vice segretaria dell’Anm - della zingarella che rapisce un bambino».
Casini, il dialogo adesso può continuare
Anche Massimo Franco - notista politico del ”Corriere della Sera”, e puntuale osservatore dei fatti che interessano i palazzi del potere - afferma: «Sono d’accordo sul fatto che bisogna stare attenti a non pubblicare certe cose, ma la Magistratura deve fare in modo che certe cose non vengano usate in maniera strumentale da certe persone che arrivano prima dei giornali. Poi c’è un problema di responsabilità della classe politica. Infatti, se anche su un provvedimento giusto in via di principio come quello delle intercettazioni, nella stessa classe politica c’è una divergenza (e non solo tra maggioranza e opposizione, ma
Fassino che disse a Consorte: ”Abbiamo la Banca!”. Vogliamo considerare una violazione della privacy pure quella? Anche lì, effettivamente, non c’era nulla di legale perché era una telefonata tra due persone. Il fatto, però, era che in quella telefonata c’era una precisa notizia: i Ds stavano tifando chiaramente affinché ci fosse un certo esito di quella scalata. Se mi attenevo a questo principio ”La Casta” io e Gian Antonio Stella non l’avremmo mai scritta: come è noto ci sono dei chiari riferimenti alla privacy delle persone. E poi non si può aspettare che una sentenza passi in giudicato altrimenti, ad esempio, sulla strage di Piazza Fontana non si sarebbe saputo nulla fino ad oggi. Secondo lei, l’Italia per quanto riguarda la libertà di stampa è indietro rispetto gli altri paesi europei?
nella stessa maggioranza e nella stessa opposizione), beh allora è legittimo che l’opinione pubblica sospetti che cia dell’altro. Non voglio fare dietrologie. Dopodiché io sono convinto che questa materia vada regolamentata per il ben di tutti. Il problema è come. Io non ho ancora capito cosa uscirà in Parlamento. Ho capito soltanto che c’è stato o un errore oppure una forzartura per fare un decreto legge. Poi, per fortuna il Quirinale ha fatto presente che il Parlamento doveva svolgere un ruolo importante e si è passati al disegno di legge. Ora vediamo cosa esce fuori. Spero solo si approvi una buona legge».
Nei paesi europei, penso all’Inghilterra ma anche alla Germania, quello che fa un personaggio pubblico viene messo tranquillamente alla berlina, senza che nessuno si opponga.Vi ricordate o no che la stampa inglese pubblicò l’intercettazione in cui il principe Carlo diceva a Camilla: «Voglio essere il tuo tampax»? Posso capire che rispetto all’Inghilterra, siamo più «bacchettoni», siamo un paese cattolico, ma a certe cose dobbiamo stare attenti. Perché se cominciamo a mettere i paletti al diritto di cronaca appellandoci al fatto che si viola la privacy, guadate che si finisce su una bruttissima strada. Poi fortunatamente in Italia c’è il Codice Penale che punisce le violazioni alla riservatezza. Certo che poi in questo Paese le leggi non vengano rispettate è un’altra storia.
Fra il 2006 e il 2007 le vendite dei quotidiani sono calate, seppur di poco (meno 0,3%), dopo la timida ripresa che era stata registrata nel 2006 rispetto al 2005 (più 1%), ma i dati di lettura Audipress mostrano invece che i lettori crescono sempre di più, con un incremento – significativo - nel 2007, pari al 5,5%.
Quindi, per lei è il diritto di cronaca e non quello alla riservatezza ad essere a rischio? Noi giornalisti italiani siamo stati fin troppo timidi, abbiamo flirtato con il potere, abbiamo avuto l’atteggiamento molto accondiscendente con cose che non erano accettabili. Mi ricordo che quando sui giornali si pubblicavano questi pezzi sui costi della politica sembravano cose divertenti, semplici articoli di colore. Ma insomma! E poi abbiamo visto dove siamo arrivati: questo è un paese allo sfascio, sbriciolato perché abbiamo concesso troppo alla politica. Siamo alla porte di un paradosso: quello di farci dire da quelli che dovremmo controllare ciò che dovremmo scrivere. Io non so se questa è democrazia. Lo vada a chiedere a un giornalista tedesco o inglese. Senta che risposte le danno.
«E’ molto importante che il governo abbia cambiato l’impostazione originaria. Il dialogo in queste condizioni può andare avanti in Parlamento per arrivare a una soluzione». Lo ha detto il leader dell’Udc Pierferdinando Casini, oggi a Palermo. «I reati contro la Pubblica amministrazione - ha aggiunto - non possono essere compresi nei divieti delle intercettazioni, ma nello stesso tempo va rispettata fortemente la privacy dei cittadini».
Pd: così si limita uno strumento di indagine Le norme sulle intercettazioni «sono sbagliate e pericolose», affermano Minniti e Tenaglia, ministri ombra dell’Interno e della Giustizia. «E’ evidente il passo indietro del presidente del Consiglio rispetto ai proclami dei giorni scorsi. Tra i reati che possono essere sottoposti ad intercettazione - spiegano - rientrano infatti anche quelli contro la pubblica amministrazione, ma cio’ non e’ stato sufficiente ad impedire l’inserimento di norme che limitano comunque lo strumento di indagine».
Idv: «Proporremo un referendum» L’Italia dei Valori proporra’ un referendum abrogativo se il decreto sulle intercettazioni sara’ convertito in legge. «Faremo sentire le nostre ragioni dentro e fuori dal Parlamento’ afferma Antonio Di Pietro. «Il governo ha violentato una norma necessaria ai magistrati. Alcune disposizioni sono illogiche, contraddittorie e controproducenti».
Legambiente, modifica ddl con deroga rifiuti Nel disegno di legge sulle intercettazioni approvato oggi dal Consiglio dei ministri sono resi «inascoltabili i trafficanti di rifiuti» e «le ecomafie ringraziano». Ad affermarlo è Legambiente, che si appella all’Aula affinché modifichi il provvedimento. «Con questo disegno di legge - afferma l’associazione - il traffico illecito dei rifiuti diventa ancora più facile. Impedendo l’uso delle intercettazioni, si nega infatti alle indagini un importante strumento contro un reato particolarmente odioso che compromette la salute di intere comunità». Le intercettazioni, ricorda Legambiente, sono infatti consentite solo per reati puniti con pene superiori a 10 anni di reclusione, e con un’unica deroga per i reati contro la Pubblica amministrazione. «Da tempo Legambiente sottolinea come le armi per combattere le ecomafie siano insufficienti a fronteggiare la crescita del fenomeno - prosegue il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza - negli anni passati si sono raggiunti buoni risultati di repressione solo contro la rete di trafficanti di spazzatura di ogni genere, grazie all’introduzione nel Codice dell’Ambiente del delitto di organizzazione di traffico illecito di rifiuti. Abbiamo sottolineato l’importanza di una deroga anche per questo reato, che prevede una pena massima di cinque anni e non rientra quindi tra i ’delitti ascoltabili’. Ci appelliamo ora all’Aula - conclude - affinche’ si modifichi il provvedimento, per non fare passi indietro nella lotta ai killer del territorio».
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politica
Istat: il prezzo della pasta sale del 20%. In crescita anche pane, latte, formaggi, uova, frutta e carne
Spaghetti al pomo d’oro d i a r i o
di Gianfranco Polillo A determinare l’aumento dei prodotti primari concorrono fattori diversi: gli aumenti alla fonte, il costo della logistica, il mark up - ossia il normale ricarico in ogni fase di passaggio dal produttore al consumatore i costi indotti da una distribuzione arcaica e poco efficiente
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g i o r n o
Il cordoglio di Napolitano per le morti bianche di ieri «Contro le morti sul lavoro occorrono fatti concreti». Lo scrive il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato al Prefetto di Milano una volta appresa con profonda tristezza la notizia del tragico incidente in cui, ieri a Settimo Milanese, hanno perso la vita due lavoratori di nazionalità egiziana. «Al di là delle parole si impongono fatti concreti di impegno e di azione per salvaguardare la vita nei luoghi di lavoro», ha scritto il Capo dello Stato, che ha chiesto al Prefetto Gian Valerio Lombardi di rappresentare ai familiari delle due vittime i sentimenti di partecipazione al loro dolore e di rendersi interprete della sua vicinanza al lavoratore rimasto gravemente ferito. Il Presidente della Repubblica ha acnhe espresso, in un messaggio alla famiglia di Domenico Cagnina che oggi ha perso la vita in un altro sinistro sul lavoro in Sicilia, a Termini Imerese, i sentimenti del suo commosso e solidale cordoglio.
Servizi segreti, tempi più lunghi per i decreti delegati rezzi in aumento: non è una novità. L’ultimo bollettino Istat conferma una realtà che i consumatori hanno constatato di persona. Ad aprile l’indice generale, calcolato su base annua, era scattato del 3,6 per cento: un valore quasi tranquillizzante, rispetto al salasso continuo delle famiglie italiane. Una delle tante “astrazioni”della scienza statistica. Per carità, nulla da eccepire su quei calcoli sofisticati che sono la delizia degli economisti. Ma il mondo vero è un’altra cosa. Qui ogni piccola variazione si sente su bilanci già poveri di per sé. Si fosse trattato di un solo aumento, come avvenuto con la nascita dell’euro, poteva anche passare. Ma qui è un continuo stillicidio. Una corsa senza fine con un domani che è sempre peggiore dell’oggi.
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La voce che più ricorre nel bollettino del nostro ufficio di statistica è “ulteriore accelerazione”. I prezzi non solo crescono, ma crescono sempre di più. Questo avviene per i prodotti alimentari (pasta +20,7 per cento, pane +13,3 per cento ma anche cereali, latte, formaggi, uova, frutta e carne bovina). Solo il pollame è in controtendenza. Ed è sempre più difficile andare avanti. Né ci si può spostare facilmente alla ricerca di qualche occasione. Quando la benzina verde, in un anno, aumenta dell’11,1 per cento ed il gasolio addirittura del 26,3 è difficile pensare che possa essere questa la strada “individuale” per combattere il caro vita. Naturalmente non tutto aumenta. Diminuiscono, ad esempio sempre su base annua, i prezzi per le comunicazioni e quelli inerenti le attività ricreativa (-3,5 per cento i primi, -0,2, ma rispetto al mese precedente, i secondi). Ma è una magra
consolazione. Che non compensa certo i sacrifici necessari per mantenere costanti i consumi di prima necessità. Questo è un altro aspetto dell’attuale inflazione. I beni di largo consumo crescono ad una velocità (5,3 per cento su base annua) che è quasi pari al doppio di quella degli altri generi (3,4 per cento). E tutto ciò sta generando cambiamenti significativi nella complessa organizzazione sociale. I consumi calano soprattutto verso la fine del mese, quando le risorse individuali sono ormai esaurite. Basta osservare l’andamento del traffico. Di solito caotico dopo i giorni di paga, diminuisce progressivamente, con il passare del tempo, dando respiro alle città assediate. Fenomeno non solo italiano. Negli Usa, nonostante il livello di red-
I beni di largo consumo crescono ad una velocità doppia rispetto agli altri generi. E questo genera cambiamenti sociali dito pro-capite sia più elevato, capita la stessa cosa. La gente si muove meno, spende meno per i generi non indispensabili - ecco spiegata la flessione nel comparto della cultura - si muove, utilizzando di più i mezzi pubblici. Potrebbe essere, quest’ultima, una soluzione; se il trasporto pubblico di massa, in Italia, fosse degno di un paese civile. Ma non bisogna disperare: a volte sono le situazioni di emergenza che rendono improcrastinabili le grandi riforme. Per il resto, invece, è più difficile in-
tervenire. A determinare l’aumento dei prodotti primari concorrono fattori diversi: gli aumenti alla fonte, il costo della logistica, il mark up - ossia il normale ricarico in ogni fase di passaggio dal produttore al consumatore - i costi indotti da una distribuzione arcaica e poco efficiente. Come farvi fronte? Leviamoci dalla testa che si possa ricorrere a pratiche dirigistiche. Sarebbe come voler imbrigliare le maree o vincere la forza di gravità. I nodi sono strutturali e come tali vanno affrontati. Si tratterà allora di accelerare i processi di liberalizzazione, implementare la concorrenza - si pensi all’energia - colpire, come nel caso dei petrolieri, le posizioni dominanti. Propositi sempre enunciati, ma scarsamente perseguiti. Ma quello che, fino a ieri, era solo una sacrosanta battaglia di principio, oggi può divenire un’esigenza ineludibile, in grado di acquisire forza sulla spinta di un crescente consenso sociale.
Tempi comunque non brevi. E nel frattempo? Si possono aumentare i salari? Se questa fosse la ricetta, tutto sarebbe più semplice. Ma anche inutile e pericoloso. Perché allora si avvierebbe quella spirale - prezzi/salari - che l’Italia ha già conosciuto nel corso degli anni ’70 e dalla quale - si pensi all’ammontare del debito pubblico - non è ancora uscita. Quindi? Occorre, soprattutto, lavorare di più. Lottare per un maggiore salario, ma essendo disponibili a lavorare meglio (aumentando la produttività) e di più (riducendo il tempo libero). Che non si tratti di una prospettiva allettante ne siamo consapevoli. Ma quando si è malati, occorre curarsi. Anche quando le medicine lasciano in bocca il sapore dell’amaro.
Le nomine dei vice direttori dell’Agenzia per la informazone e la sicurezza (Aisi) e del Dipartimento per l’informazione e la sicurezza (Dis), con ogni probabilità, saranno decise al prossimo Comitato interministeriale per l’Informazione e la sicurezza (Cisr) che prevedibilmente si terrà giovedì o venerdì della prossima settimana. Una volta esaurito l’iter interministeriale, i nuovi direttori dell’Aisi, Giorgio Piccirillo, e del Dis, Gianni De Gennaro, potranno concentrasi sul turn over che si prevede abbastanza incisivo (De Gennaro dovrà nominare, per esempio, chi dovrà sostituire il generale dei carabineri Giorgio Tesser, alla guida dell’Ucsi, uno degli organismi più delicati nel quale si decidono i nulla osta di sicurezza ed il segreto di Stato) e che toccherà i rami medio alti delle strutture dei servizi segreti.
Prodi all’Unesco? Sircana: Comunque non accetterebbe Silvio Sircana scrive al Velino: «Leggo il pezzo di Remo Urbino che si dice “in grado di svelare” l’intenzione di Romano Prodi di candidarsi alla Presidenza dell’Unesco. Per parte mia “sono in grado di svelare” che Prodi non sta facendo nulla per ottenere tale incarico e che anzi non avrebbe, ove per strani casi della vita gli venisse offerto, alcun interesse ad accettarlo. Tempo fa qualcuno, più per celia che sul serio, gli aveva indicato la Presidenza dell’Unesco come uno dei possibili incarichi internazionali cui ambire e già allora Prodi aveva manifestato il suo disinteresse. E’ probabile che Urbino abbia raccolto le indiscrezioni alla base del suo pezzo tra quanti avevano a suo tempo caldeggiato questa ipotesi. Sono comunque certo di quanto affermo, confortato nella mia certezza da un colloquio telefonico con Prodi svoltosi pochi minuti fa».
Consulenze: la Lega contro Veltroni «E meno male che queste cose erano solo di destra...!”. Lo ha detto la vicepresidente dei deputati della Lega Nord, Manuela Dal Lago, dopo la pubblicazione da parte del “Corriere della Sera” delle consulenze di Palazzo Chigi e dei soldi spesi dal Comune di Roma, con Veltroni sindaco, «per un itinerario di presepi alla modica cifra di 51 milioni di euro». La deputata critica come «scandalose e vergognose le consulenze inutili pagate a peso d’oro come anche i soldi buttati, veramente buttati, dal Comune di Roma e che ora si dovranno ripianare, ma non si creda con i soldi del Nord, che per troppo tempo hanno ripianato della mala amministrazione dei sindaci e dei presidenti di provincia e delle regioni del sud».
politica
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I proclami del titolare della Funzione pubblica hanno permesso avvenimenti fino a qualche tempo fa impensabili come quello di Milano, dove il neo presidente dell’Atm, Elio Catania, ha licenziato in tronco nove dipendenti nullafacenti (tra questi, uno costruiva cucce per cani, l’altro si ubriacava in un bar in orario di lavoro). A sinistra Renato Brunetta. Sotto, Claudio Scajola
La strategia bicefala del ministro: annunci di fuoco, provvedimenti da dr. Jeckyll
Il Dottor Brunetta e Mr.Hyde di Enrico Cisnetto enato Brunetta è, insieme a Maurizio Sacconi e Claudio Scajola, una delle sorprese più positive di questo governo. Non si sa se sia un piano di comunicazione perfettamente congegnato o se sia un fenomeno casuale, ma è evidente che su questa strategia delle “tre punte” si concentra l’azione dei primi mesi di governo. Strategia caratterizzata da una ventata di decisionismo che piace molto, anche a chi questa maggioranza non l’ha votata (come dimostra un recente sondaggio di Repubblica, un giornale non certo amico).
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In p a r t i c o l a r e B r u n e t t a , negli ultimi tempi, è diventato la creatura preferita dei media. Forse per la sua strategia da “dottor Jeckyll e Mr. Hyde”. Da una parte, infatti, assistiamo ad una politica “delle cannoniere”, con annunci di inusitata forza contro un mondo cristallizzato come quello della pubblica amministrazione («via i fannulloni», «in galera gli assenteisti»). Annunci che hanno creato un clima nuovo nel Paese, e che hanno permesso avvenimenti fino a qualche tempo fa impensabili come quello di Milano, dove il neo presidente dell’Atm, Elio Catania, ha licenziato in tronco nove dipendenti nullafacenti (tra questi, uno costruiva cucce per cani, l’altro si
ubriacava in un bar in orario di lavoro: sic). D’altra parte, però, il Brunetta degli annunci pubblici cede il posto, quando si tratta di andare ai fatti, a un Brunetta molto più soft: con aperture non indifferenti al mondo sindacale (come la rassicurazione di un impegno a trovare le risorse per il rinnovo contrattuale), con la volontà di dialogo con l’opposizione (invitata ad affrontare insieme la riforma del pubblico impiego); soprattutto con la decisione di congelare il “blitz”, quello che prevedeva di
zato da alcune misure ad effetto (licenziamento facile, reato di truffa aggravata per i certificati medici fasulli) non ha quel carattere di urgenza che ne amplificava la violenza. Insomma, una strategia bicefala quella di Brunetta, che sembra funzionare. Da una parte c’è la pars destruens: di cui fa parte il colpo di clava della pubblicazione online delle consulenze d’oro (che scandalo!), e il ricorso al concetto di pazzia – tanto caro al Cavaliere – alla Erasmo da Rotterdam: «O riesco nel mio intento o me ne va-
pubbliche (assenteismo, falsi certificati, eccetera), mentre è chiaro che il problema della corruzione e dell’assenteismo è solo la punta dell’iceberg: la pesantezza e l’elefantiasi del carrozzone pubblico derivano semmai dai problemi fisiologici, in particolare le duplicazioni infinite delle strutture e del personale, derivate in gran parte dalle mostruosità delle modifiche al titolo V della Costituzione, che hanno portato alla mol-
Sin da subito, il ministro è diventato la creatura preferita dei media: da un lato mena colpi di clava e indugia sul concetto di pazzia, dall’altra dialoga morbidamente con sindacati e opposizione anticipare le misure più sanguinose sulla PA in un decreto legge. Il provvedimento d’urgenza, infatti, è stato messo nel cassetto, e la strada scelta è stata quella della riforma graduale. Brunetta ha deciso quindi di lasciare spazio ad un confronto costruttivo col sindacato, che dovrebbe tradursi in un’agenda di incontri e step progressivi, per riformare in più fasi la pubblica amministrazione. Tutto questo scegliendo lo strumento iniziale di un provvedimento “morbido”, ossia un disegno di legge delega, che, seppur caratteriz-
do entro l’anno»; «voglio introdurre l’idea un po’ matta della class action nel settore pubblico»; «non posso dire, perché sono ministro, che la Pubblica Amministrazione in Italia fa schifo, ma lo penso».
Poi la pars construens dei provvedimenti reali, molto più calibrati nella sostanza di quanto la fama di Brunetta potesse far sperare (con l’apertura ai sindacati e all’opposizione). Resta però il dubbio che la politica brunettiana finisca per essere più diretta a falcidiare la parte “patologica”delle storture
tiplicazione dei diritti di veto e dei piani di “in-decisione”.
Ma questo, Brunetta sembra averlo compreso: è stato lui stesso a ricordare che quello della burocrazia è un peso insostenibile. E a prendere atto che se l’Italia avesse la stessa efficienza della Pubblica Amministrazione di alcuni paesi del Nord Europa la crescita del Pil potrebbe aumentare del 30 per cento. Così, la sua road map va
avanti di conseguenza: nel «piano industriale», il ministro prevede infatti l’introduzione di nuove regole per la contrattazione collettiva, la regolamentazione dell’organizzazione del lavoro, del sistema di valutazione del personale, e di tutto il regime della responsabilità saranno demandati alla disciplina legislativa. Un decreto legislativo disciplinerà inoltre il sistema di valutazione delle strutture e del personale: ogni amministrazione predisporrà ogni anno un sistema di indicatori di produttività e di misuratori del rendimento e agli organi di controllo avranno piena autonomia nella valutazione, che si estenderà a tutto il personale dipendente. Un ulteriore decreto introdurrà incentivi alla produttività e alla qualità delle prestazioni. Un piano ben congegnato, insomma, che punta sulla lunga distanza; che corre parallelo a quello dei tagli di spesa previsti dal governo nei prossimi tre anni (che a loro volta rispondono ai rimproveri della Ue arrivati negli ultimi giorni). Staremo a vedere. Certo, anche se gli annunci versione Mr. Hide sono più eccitanti delle misure reali del dr. Jeckyll, bisogna dare atto al ministro bicefalo Brunetta di avere del coraggio. Per addentrarsi nelle acque melmose della pubblica amministrazione italiana bisogna avere davvero una sana dose di follia. (www.enricocisnetto.it)
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pensieri
Ecco da dove nasce la sorprendente intesa tra le massime cariche del mondo
Gelasio tra Ratzinger e Bush di Angela Pellicciari na passeggiata per i giardini vaticani fra il Papa ed il presidente degli Usa è normale? No. È un evento d’eccezione. E non solo perché mai il Papa accoglie i propri ospiti in un luogo così familiare ed intimo come i giardini. Ma anche perché, fino al 1984, fra gli Usa e la Santa Sede non esistevano relazioni diplomatiche. Perché fino agli ultimissimi tempi gli Stati Uniti hanno fatto propria un’ideologia protestante e massonica anni luce distante, ed anzi violentemente contrapposta, a quella cattolica. Gli ultimi tre decenni hanno invertito un percorso consolidato in più di due secoli. La stima reciproca e la collaborazione che si stabiliscono fra Reagan e Wojtyla per contrastare il comunismo, creano le condizioni per un’inversione di tendenza
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impensata solo qualche anno prima. Il genio di Giovanni Paolo II che, col suo carisma, la sua fede e la sua sofferenza, fa tornare la Chiesa protagonista a livello mondiale, trova continuazione nel Papa tedesco che difende con estrema autorevolezza la storia, l’identità e l’anima dell’Occidente dal nichilismo e dal relativismo.
politica hanno recepito le tradizioni delle chiese libere, nel senso che proprio una Chiesa non confusa con lo Stato garantisce meglio le fondamenta morali del tutto, cosicché la promozione dell’ideale democratico appare come un dovere morale profondamente conforme alla fede. In una posizione
È solo da 25 anni che Pontefice e presidente Usa hanno buoni rapporti cordiali. Fino al 1984 non c’erano relazioni diplomatiche È in questo contesto che, fin dal 2004, intervenendo al Senato, Ratzinger loda come modello di rapporto fra lo Stato e la Chiesa proprio quello incarnato dalle «chiese libere» d’America. Ratzinger pensa che i cattolici americani, «a riguardo del rapporto tra chiesa e
simile si può vedere a buon diritto una prosecuzione, adeguata ai tempi, del modello di Papa Gelasio». Papa Gelasio è colui che, alla fine del quinto secolo, teorizza il modello ottimale e non con-
flittuale di collaborazione fra Papa e imperatore. Un rapporto che garantisce a ciascuna istituzione la propria necessaria autonomia. Divenuto Papa, Ratzinger mette in pratica ciò di cui è convinto. E Bush risponde. Prosegue sulla scia di Reagan e stabilisce col Papa una relazione che, nella semplicità ed informalità della vita quotisottolinea diana, l’eccezionalità del rapporto fra le massime cariche mondiali. E così va all’aereoporto ad accogliere Benedetto XVI, e mai un presidente americano si era abbassato ad un simile gesto di deferente rispetto. L’ospite che arrivava viaggiava però su un aereo dal nome speciale: Shephard One. Dove ogni riferimento all’Air Force One era semplicemente obbligato. Papa Ratzinger dal canto suo fa in
PAPA GELASIO Alla fine del V secolo teorizzò il modello ottimale di collaborazione tra Pontefice e imperatore modo che la sua presenza alla Casa Bianca coincida col proprio compleanno e con l’anniversario della propria elezione sul soglio di Pietro. E Bush organizza in suo onore la più straordinaria festa che si ricordi con tanto di happy birthday e sfilata militare. Il 13 giugno, a Roma, è la volta del Papa: colloquio privato nella torre di San Giovanni, a spasso nei giardini di casa, ad ascoltare il coro di voci bianche della cappella Sistina. Ratzinger e Bush incarnano al meglio, nei loro rispettivi ruoli, le caratteristiche positive del potere temporale e spirituale. Nel rispetto delle reciproche autonomie, nella comune fede cristiana, e nel condiviso rispetto della legge naturale. Nell’alveo della migliore tradizione occidentale.
Luci e ombre di un programma (e di un ministro) dal quale ci si poteva aspettare di più
D’accordo Gelmini, ma cosa propone? di Luisa Santolini l ministro Gelmini è venuta in commissione Cultura alla Camera e ha riferito il suo programma di Governo per quanto riguarda la scuola.Trovo giusto che abbia deciso di non fare «la lista della spesa» dei singoli aspetti tecnici – e problematici - del mondo scolastico, preferendo parlare «di principi e metodi di un piano di legislatura». Diciamo subito alcune cose che hanno convinto: il riconoscimento realistico e impietoso della situazione difficile in cui versa la scuola, il superamento della logica centralista con il rafforzamento della autonomia scolastica, il richiamo al principio di sussidiarietà, le necessità di lottare contro la dispersione scolastica, la necessità di trovare soluzioni condivise con le opposizioni, la promessa di non voler fare un’altra riforma, il ripristino del merito e della serietà, l’urgenza di riconoscere la professionalità do-
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cente anche con un adeguamento degli stipendi dei professori, un sistema di valutazione che certifichi i risultati, il richiamo alla parità scolastica, la negazione dello spezzettamento dei saperi e dei «progettifici», il recupero della formazione professionale, il richiamo ai disabili, la partnership tra scuola e fami-
alla «lista della spesa», ritengo che quello stesso discorso poteva essere fatto da intellettuali, storici, docenti, sociologi o pedagogisti. O semplicemente da insegnanti desiderosi di riscattare la scuola. Molti si sono espressi in questi termini negli ultimi anni ed è per questo che da un ministro, che ha la responsabilità di governare i processi e dettare le regole, ci si poteva aspettare di più. Eravamo in sede parlamentare e il Parlamento deve fare le leggi. Ed è su questo che si deve misurare e si deve confrontare con il governo e con i suoi ministri. Se è impensabile che quanto elencato dal ministro Gelmini possa essere attuato in breve tempo e contemporaneamente, quali sono le priorità del ministro? Come intende muoversi con i sindacati, interlocutori indispensabili, ma spesso “resistenti” ai cambiamenti? Se è impensabile realizzare anche la minima par-
Quali sono le sue priorità? Come pensa di recuperare le risorse necessarie per il riscatto della scuola? glia, la ricerca di soluzioni per i figli degli extracomunitari. Insomma una vera «alleanza per la scuola». Un elenco dettagliato delle criticità e delle esigenze, che non si può non condividere. Non si può non essere d’accordo quando si parla di merito, di eccellenza, di parità scolastica, di autonomia scolastica. Ma… c’è un “ma” e non piccolo: se il primo discorso di un ministro al Parlamento non si può ridurre
te del programma del ministro a costo zero, come intende reperire i soldi per attuare il suo programma? La riforma Moratti non è stata mai ufficialmente abrogata dal ministro Fioroni, ma in realtà è stata fatta una controriforma strisciante senza mai passare dal Parlamento. Come intende muoversi il ministro? La riserva di fondo non è sulle cose dette, ma sul come realizzarle. Come intende recuperare la professionalità docente? L’impegno degli studenti? La partecipazione delle famiglie? Le risorse necessarie per il riscatto della scuola sono ingenti e su questo non è stata detta una parola, neanche sulla possibilità che già dal prossimo Dpef il Governo stanzi dei fondi adeguati, almeno per cominciare. E che dire delle risorse necessarie per garantire la libertà di scelta educativa delle famiglie? Siamo in attesa di risposte. I prossimi mesi scioglieranno alcune interrogativi e speriamo che il futuro della scuola cominci ad essere più roseo e più promettente.
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Parigi vuol battere Londra a suon di obbligazioni islamiche
La grandeur di Allah nella finanza di Pierre Chiartano arigi vuol battere Londra a suon di sukuk, le obbligazioni islamiche. È cominciata la corsa di Nicolas Sarkozy per superare i cittadini britannici in un settore in cui sono sempre stati campioni: gestire il proprio e l’altrui denaro. La Ville Lumière vuol diventare la nuova capitale finanziaria d’Europa, grazie alle banche musulmane. Pochi giorni fa Christine Lagarde, ministro delle Finanze transalpino, ha introdotto alcune misure per rendere il Paese un catalizzatore di fondi a livello globale. Gli oltre sei milioni d’islamici che popolano la Francia, rispetto ai “soli” tre milioni del Regno Unito, sembrano dare una sponda migliore per mettere le basi di un nuovo baricentro finanziario mondiale. Così si potrà fare conto sui soldi raccolti e utilizzati secondo le leggi di Allah. Dovremo abituarci alle regole del riba – il divieto del tasso d’interesse o usura – del gharar – il divieto sull’incertezza negli affari – del maysir – il divieto della speculazione – e di tutte quelle distinzioni fra haram (vietato) e halal (permesso)? Non possiamo ancora dirlo, ma sarà bene prepararsi, visto che con i prezzi attuali del greggio alla cassa ci sono loro. Noi siamo in fila per pagare. Che impatto potrà avere una scelta del genere, visto anche il ruolo che Parigi vuol giocare nei nuovi equilibri continentali? Potrebbe essere un cavallo di Troia e la fase finale del grande progetto d’Eurabia ben descritto nel libro di BatYe’Or, oppure una sana iniezione di principi etici in un sistema finanziario malato e senza regole? C’è chi considera le banche islamiche un grande bluff e che la proibizione degli interessi sia in realtà limitata al solo divieto d’usura. Proibita dal Corano, ma anche dalla tradizione cristiana. In effetti nel periodo della tazimat, la riorganizzazione, tra il 1836 e il 1876, si importarono nell’Impero ottomano le istituzioni bancarie di stampo occidentale nel tentativo di puntellare il gigante con i piedi d’argilla.
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Nel 1856 furono autorizzate ad operare le istituzioni bancarie a capitale straniero, legalizzando così il tasso d’interesse. Un divieto spesso eluso anche nel Medioevo. Le strutture, cui Sarkozy sta spalancando le porte, sono invece nate cinquant’anni fa. I due fondatori “spirituali”si chiamavano Abul A’la Mawdudi, che mosse i primi passi nell’India britannica degli anni Quaranta e Sayyed Qutb, un ideologo dei Fratelli musulmani, morto nelle carceri egiziane. Non essendo pratici di questioni economiche e di fattori come l’inflazione, avevano costruito un sistema che produceva solo perdite. Poi la svolta e la nascita del concetto di
Secondo i precetti, le banche islamiche dovrebbero attenersi a principi quali il divieto di applicare tassi di interesse (riba), di incertezza negli affari (gharar) e di speculazione (maysir) condo la versione ufficiale, un mero calcolo economico. Il fondatore, nel 2004, di Isla Invest, la prima società di consulenza del settore in Francia, Zoubair Ben Terdyet è convinto che ha spingere Parigi verso gli islamic bond siano le grandi prospettive di guadagno. Insomma tutti alla ricerca del profitto moralmente corretto, Mashallah. Nella speranza che rimanga qualcosa dell’Europa, oltre la semplice carta moneta, se Dio vuole.
compartecipazione. Nelle banche islamiche creditore e debitore dovrebbero rischiare e guadagnare insieme nella condivisione. Musica per le nostre orecchie, intasate da scandali e soprusi d’ogni genere e alla ricerca di un etica che non sia solo enunciata. Però pare che ci sia il trucco e tassi d’interesse comunque si paghino. Anche scandali e truffe non sono mancati, specialmente in Egitto, dove l’Arabia Saudita ha dovuto spesso metter mano al portafoglio per chiudere voragini e salvare il concetto di banca islamica. La prima iniziativa con rilievo funzionale viene attribuita all’economista Ahmad al-Najjar che nel 1963 fondò la
po, anche in vista dell’eventuale entrata della Turchia nel club di Strasburgo. Un primo appuntamento di lavoro si è visto lo scorso gennaio a Firenze, dove fra gli altri si sono incontrati esponenti dell’Abi e della United arab banks (Uab) ed esperti di università inglesi e americane. Nel settembre 2007 proprio Abi e Uab avevano firmato un memorandum di cooperazione. Ma torniamo sulle sponde della Senna per dare i numeri di quello che, semplificando, potremmo chiamare progetto Lagarde. Attualmente due colossi come Bnp Paribas e Societé Générale offrono un servizio ampio, ma non completo, di prodotti finanziari islamici.
Ci troveremo a maneggiare soldi raccolti e utilizzati secondo le regole del Corano. Potrebbe essere la fase finale del grande progetto d’Eurabia, oppure una sana iniezione di principi etici in un sistema malato cassa di risparmio di Mitt Ghamr. Però il progetto di sbarco sul Continente dei broker del risparmio secondo Corano prosegue da tempo e non mancano iniziative di rilievo, come quella del Robert Schuman center for advanced studies, che sondano il fenomeno. Studiando lo stato dell’arte e le prospettive future della finanza e delle attività bancarie, secondo le regole della sharia. Con previsioni sull’appeal dei servizi di questo ti-
Ciò che preoccupa è che il Senato francese stia mettendo insieme politici, banchieri e giureconsulti musulmani per discutere come supportare questo nuovo modello di gestione del denaro. Un passo decisivo verso un cambiamento del quadro legislativo e fiscale dello Stato, come sottolineato sul Financial Times del 13 maggio scorso. Una scelta quasi obbligata di un Paese ostaggio della propria comunità musulmana oppure, se-
La crescita della banche islamiche, che sono solo una parte della finanza araba, è stato del 20 per cento all’anno dal Duemila. Le attività consolidate secondo le leggi d’Allah ammonterebbero a circa 500 miliardi di dollari secondo le stime di Moody. Anche in Inghilterra si è cercato di adeguare la legislazione per favorirne la crescita. Ad esempio la Islamic bank of Britain continua a svilupparsi nonostante la crisi delle concorrenti “laiche” terremotate dai ninja loan o subprime e prodotti collaterali e derivati. Con sede a Birmingham ha visto i suoi clienti crescere del 38 per cento nel 2007. I depositi si sono incrementati del 61 per cento in valore, fino ad un ammontare di 135 milioni di sterline, circa 169 milioni di euro. Numeri ancora modesti rispetto ai colossi del denaro, ma che sembrerebbero immuni dalle perdite che stanno dissanguando altri protagonisti del settore. Un fenomeno che non riguarderebbe solo la finanza islamica, ma più in generale le banche degli Stati del Golfo. Nella classifica dei cosiddetti writedowns – le perdite legate ai subprime – solo la Gulf international bank raggiungerebbe quota un miliardo di dollari, seguita molto da lontano dal gruppo formato dalla Gulf investment corporation e dalla Arab banking corporation con poco più di 200 milioni di dollari, poi scemando verso perdite sempre minori fino alla Saudi investment bank con solo poche decine di milioni di buco. Una tendenza che farebbe pensare più a oculate scelte strategiche che all’obbedienza teologica.
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mondo Il recente summit della Lega araba che si è tenuto a Damasco è stato segnato da tensioni interarabe. Nella foto il presidente siriano Bashar Assad, mentre riceve il presidente del Sudan Omar Hassan al Bashir
L’estromissione del capo dei servizi segreti indebolisce l’asse con Teheran
Cambio della guardia tra gli 007 di Damasco di Francesco Cannatà er Joschka Fischer, «occorre lavorare molto sulla Siria». Nell’intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera, l’ex ministro degli Esteri di Berlino ha ripreso una sua idea: la chiave dei conflitti mediorientali sta a Damasco. Dello stesso avviso sono anche l’attuale esecutivo tedesco e il governo francese. «Diplomazia della riconciliazione», così presidente e ministro degli Esteri del più importante asse intergovernativo continentale chiamano il tentativo di guadagnare il capo di Stato siriano, Bashar Assad alla politica mediorientale dei due Paesi.
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Ma non è solo “Framania”a corteggiare Damasco. Washington, ha sfruttato la conferenza di Annapolis per il Medioriente, quella che il Washington Post ha chiamato «l’occasione di parlare con la Siria», per invitare Damasco al tavolo delle trattative. E se Gerusalemme, appoggiandosi ad Ankara, cerca di capire cosa succede nel Paese degli alawiti, Mosca, inviando Primakov a Damasco, fa tutto il poco che può. Insomma l’opinione di Fischer sembra condivisa. Non si può certo parlare di un ritorno in forze della Siria sulla scena internazionale, ma è innegabile che l’attività diplomatica dispiegata in direzione di Damasco mostri l’importanza del Paese. Riserve petrolifere quasi nulle, economia a livelli da terzo mondo, per Peter Harling dell’ufficio di ricerche dell’International crisis group nella capitale siriana, la sola carta in mano a Damasco è la «capacità di crearsi un ruolo strategico nei conflitti che scuotono gli Stati vicini». Frontiera con l’Iraq in mano agli americani, perdita del controllo del Libano, Giordania tradizionalmente filo occidentale,Turchia al-
leata con Israele. A parte l’Iran, la Siria può uscire dall’isolamento solo partecipando alla pacificazione regionale. Uno scenario di distensione inimmaginabile però senza una perestrojka siriana. Difficile dire se quanto stia avvenendo in queste settimane a Damasco vada in questa direzione. Distribuendo nella più grande discrezione il potere dentro quel direttorio famigliare che governa con pugno di ferro la Siria, Bashar Assad ha inviato un segnale. Soprattutto la messa in secondo piano del cognato, il capo dei servizi segreti Assaf Chawkat, sospettato del coinvolgimento dell’assassinio del primo ministro libanese Rafic Hariri, rivela che qualcosa è in moto in Siria. Nel Duemila Bashar aveva fatto capire di voler riformare il Paese senza interromperne
con chi vuole incoraggiare il jiahd sunnita in Iraq e saldare i due rami dell’Islam contro Usa e Israele. È la strada delle forze più radicali del regime iraniano che pur di abbattere l’embrione di democrazia irachena, sono indifferenti ad ogni solidarietà sciita. Chawkat era a favore di questa ipotesi. Una strategia che con la caduta del capo dei servizi segreti di Damasco, perde un pedone importante. Shawkat paga due errori. Il bombardamento, fatto dagli israeliani il 6 settembre, del sito nucleare vicino a Deir Ez-Zor nel nordest del Paese, e l’assassinio dell’alto responsabile Hezbollah, Imad Moughnienh, avvenuto lo scorso 12 febbraio nel centro di Damasco. Se questo omicidio sia avvenuto con complicità siriane, e a quali livelli esse fossero, rappresenta uno dei grandi misteri del Medio Oriente. Ora il regime di Damasco sfrutta l’evizione di Shawkat. A livello internazionale tenterà di sfuggire ai provvedimenti del Tribunale che indaga sull’omicidio Hariri e di avvicinarsi a Francia e Usa che avevano già congelato i beni dell’uomo. A livello interno Bashar è invece già passato all’incasso. I servizi segreti militari, regolarmente accusati dall’occidente di alimentare l’instabilità in Iraq e Libano, sono stati marginalizzati. Senza la sponda dei duri di Damasco la formazione di una maggioranza pragmatica in Iran che spinga alla moderazione Hezbollah potrebbe diventare più di una potenzialità. Il capo dello Stato siriano cercherà di rifarsi una verginità scaricando tutte le responsabilità della strategia della tensione in Libano sulle spalle dell’ingombrante cognato. Punto d’arrivo di una lunga crisi interna, il cambio della guardia a Damasco potrebbe trasformare la politica mediorientale. Altri attori dovranno ora giocare bene le proprie carte.
Non è solo Fischer a credere che le soluzioni dei conflitti mediorientali passano per Damasco.Anche Francia, Usa e Israele stanno rivalutando il ruolo siriano la continuità di governo. Un progetto cui ha dovuto rinunciare proprio per l’opposizione presente innanzitutto nella sua famiglia. Ora, dopo l’intervento americano in Iraq, i problemi sono altri. La minoranza alawita, una galassia sciita che dal 1970 governa il Paese, sa che prima o poi dovrà cedere, o condividere il potere, alla maggioranza sunnita, il 74 percento della popolazione siriana.
Se ben guidata dall’esterno, la transizione siriana potrebbe far parte della pacificazione tra i vicini mediorientali e, accompagnata dalla riconciliazione tra le diverse minoranze statali presenti nella regione, potrebbe svolgersi nella calma. Un altro scenario è però possibile. Per evitare la perdita del potere l’estremismo alawita potrebbe schierarsi
Dialogo impossibile fra Silvio e John
Caro McCain, ecco cosa abbiamo in comune di Gianluca Ansanelli Mccain: ho saputo che fai il tifo per me Berlusconi: ma certo, amico mc cain Mccain: dimmi la verità, è solo perché sono più vecchio di te? Berlusconi: certo che no! Mi consenta amico John, io e lei abbiamo tante cose in comune McCain: davvero? Berlusconi: ma scusa, pensaci un attimo: tu per cinque anni prigioniero dei vietcong, io per una vita prigioniero dei comunisti!! McCain: anche tu sei stato torturato? Berlusconi: di più! credimi amico Mc , le toghe rosse sono peggio dei vietnamiti! McCain: ma cosa dici? Quando ero prigioniero se solo parlavo quelli mi davano dieci frustate! Berlusconi: e io? Se durante tangentopoli al processo non parlavo, quelli mi davano dieci anni!! McCain: parliamo della vita privata: io mi sono sposato due volte! Berlusconi: anche io! McCain: con la mia seconda moglie abbiamo adottato una bambina del Bangladesh Berlusconi: con il mio secondo governo abbiamo rimandato a casa tutti quelli del Bangladesh McCain: io sono nato a Coco Solo e sono molto legato al Canale di Panama Berlusconi: Io sono nato a Milano e sono molto legato a Canale 5 McCain: io dopo aver terminato l’accademia navale, mi sono trapiantato in Florida Berlusconi: io dopo aver terminato quelli che mi aveva dato la natura, mi sono trapiantato i capelli McCain: io sono favorevole al conflitto in Iraq Berlusconi: io sono favorevole al conflitto di interessi McCain: incredibile! Non pensavo che avessimo tanto in comune! Allora puoi darmi qualche buon consiglio per battere Obama! Sono preoccupato, lui è tanto giovane! Berlusconi: anche Veltroni lo era. Adesso guardalo: è invecchiato di 15 anni! McCain: ma non è nero! Berlusconi: adesso. Dovevi vederlo quando ha perso le elezioni! McCain: cosa dovrei fare per batterlo? Berlusconi: il segreto è negli slogan McCain: il suo è «Yes I can» Berlusconi: fammi pensare…lui dice «Yes I Ken?» Tu potresti rispondere : «Yes, e io sono il nonno di Barbie!» che è molto più figa di Ken! McCain: ok my friend! Mi hai convinto! Allora ci vediamo al prossimo G8? Berlusconi: mi raccomando. non mancare! Con te presente di sicuro non sarò il più vecchio e se convinco Brunetta a venire con me, non sarò neppure il più basso!
mondo
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Il 27 giugno nuova sfida fra Mugabe e Tsvangirai con le milizie armate e schierate ai seggi
Zimbabwe alle urne sempre meno libere d i a r i o
di Luisa Arezzo ano a mano che si avvicina la data delle nuove elezioni presidenziali e la moneta locale raggiunge una svalutazione che al cambio vede un dollaro Usa “fruttare” ben 1 miliardo e mezzo di dollari zimbabwani, le speculazioni sul corso della politica di Harare si sprecano. Molti diplomatici occidentali sottolineano come una sorta di “colpo di stato” abbia rimesso in mano ai militari tutto il Paese. E d’altronde i continui arresti del leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai - ben 3 in meno di 10 giorni - nonché quello di Tendai Biti, segretario generale del partito che rischia la condanna a morte, lo avvalorano. Gole profonde dello staff di Mugabe fanno trapelare che il dittatore, recentemente accolto a Roma e alloggiato in una suite di Via Veneto, benché ancora saldo in sella, sia pronto a mollare i cordoni del comando e ad uscire di scena l’anno prossimo. Secondo i media africani, soprattutto quelli sotto la cinta dell’equatore, lo Zanu-Pf (partito di Mugabe) e il Mdc (il Movimento per il cambiamento democratico guidato da Tsvangirai), dovrebbero accordarsi per un governo di unità nazionale. Ma nonostante le divergenze, su un punto tutti convergono: la campagna di violenza e intimidazione esplosa in Zimbabwe potrebbe precludere la consultazione di voto il prossimo 27 giugno. Un pericolo arginabile soltanto da un negoziatore africano, fino ad oggi da tutti indicato nel Sadc (Comunità per lo sviluppo dell’Africa del Sud).
ne regionale cresciuta al di fuori delle battaglie anticoloniali degli anni Sessanta e Settanta, è sempre stata riluttante a prendere posizioni nette o censurare Mugabe. Guidata dal presidente sudafricano Thabo Mbeki, l’organizzazione si è ripiegata in una placida diplomazia nemmeno troppo cerchiobottista. Assolutamente incapace di arginare la deriva pericolosa presa dal regime di Mugabe, l’ha di fatto assecondata fino al fallimentare risultato post elettorale del 29 marzo, con la vittoria di Tsvangirai contestata, affossata e negata da parte di Mugabe, la conta farsa delle schede e la nuova tenzone convocata per la prossima settimana. Un girotondo incapace di produrre nient’altro che una richiesta ufficiale di divulgazione dei risultati elettorali, senza mai, e dicasi mai, tirare in ballo il ruolo del dittatore. Ci sono comunque segnali di frattura fra i 14 membri, soprattutto fra Botswana,Tanzania e Zambia. Un recente rapporto dell’International Crisis Group ha rivelato che la frangia dei 3 spinge fortemente per un’uscita di scena di Mugabe e un governo di transizione, da ottenersi con la mediazione
g i o r n o
Bush, in M.O. accordo possibile
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Tanto per chiarire: Il Sadc, istituzio-
d e l
«Credo fermamente che, con leadership e coraggio, un accordo di pace sia possibile quest’anno». Lo ha detto George Bush nel discorso pronunciato ieri in sede Ocse a Parigi, sottolineando che americani ed europei «devono stare al fianco di israeliani, palestinesi e tutti gli altri che sono in favore della soluzione dei due Stati».
Pam lancia piano 80-80-80 Per contrastare la crisi alimentare mondiale provocata dall’aumento dei prezzi, il consiglio esecutivo del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) ha approvato un piano strategico quadriennale d’emergenza: “soluzione 80-80-80”. Il direttore esecutivo dell’agenzia, Josette Sheeran, lo ha spiegato così: «L’80 per cento dei nostri fondi per gli aiuti umanitari sono spesi nei Paesi in via di sviluppo; l’80 per cento dei nostri mezzi di trasporto su terra sono comprati e affittati nei Paesi in via di sviluppo; l’80 per cento del nostro staff è impiegato localmente nei Paesi in via di sviluppo».
Macedonia al ri-voto
Robert Mugabe, dittatore dello Zimbabwe del governo sudafricano. Posizione sostenuta sottobanco da altri Paesi, benché più restii ad uscire allo scoperto. Come l’Angola e la Namibia, che a metà aprile hanno negato il passaggio della nave cinese carica di armi e munizioni in rotta verso lo Zimbabwe. (Peccato che - come raccontato dal bravo Joshua Hammer sul New York
Alcuni osservatori dell’Onu controlleranno le elezioni (il prezzo pagato da Mugabe per partecipare al vertice Fao?) ma forse non avranno mano libera Reviews of Books - il carico abbia raggiunto Mugabe attraverso la Repubblica Democratica del Congo «altro esempio di come la cinta di solidarietà del Sadc - di cui il Congo fa parte - si tenga ben stretto il più abusivo di tutti i regimi del mondo». James D. McGee, ambasciatore Usa ad Harare, fermato, rapito, rilasciato senza nemmeno tante scuse pochi giorni fa dai militari del regime mentre, assieme ad alcuni diplomatici inglesi andava ad assistere ad un comizio elettorale, ha detto ai giornalisti che Botswana, Tanzania, Zambia «e in qualche misura anche l’Angola» sono stati gli unici Paesi a chie-
dere una maggiore presa di posizione da parte del Sadc contro Mugabe, e che il resto dell’organizzazione sembra essere silente mentre l’interferenza dei Paesi occidentali nella politica interna del Paese è praticamente nulla e, se manifestata, avversata e spinta al silenzio dal regime.
Diciamolo: l’unica voce in grado di mediare la drammatica deriva dello Zimbabwe rimane il Sudafrica del criticatissimo (in casa e fuori) Thabo Mbeki, alle prese con una feroce crisi interna dopo gli attacchi xenofobici che hanno provocato oltre 60 vittime nelle scorse settimane vicino Soweto. Knox Chitiyo, direttore del programma Africa al Royal United Service Institute di Londra, sostiene che«nessuno sta facendo nulla a Johannesburg, tantomeno studiare l’ipotesi di un minimo accordo comune». Un accordo che è alla base di ogni speranza di uscita dal tunnel per lo Zimbabwe e l’unico in grado di garantire un minimo controllo sui militari. Che, non dimentichiamolo, stanno sostenendo a spron battuto la rielezione di Mugabe e che presidieranno tutte le urne durante la conta dei voti, certamente non in modo imparziale. Alcuni osservatori dell’Onu sono stati ammessi a monitorare le elezioni (il prezzo pagato da Mugabe per partecipare al consesso della Fao?) ma nessuno si illude che gli venga concessa libertà di azione.
Domenica in Macedonia si rivota nelle 197 circoscrizioni nel nordovest del Paese dove si sono registrate violenze e brogli il primo giugno scorso, giorno delle elezioni politiche. 170mila le persone interessate: il 10% circa dell’elettorato totale. In pratica, vista la distribuzione geografica dei seggi, è la metà della comunità albanese ad essere chiamata a una prova di maturità democratica fondamentale per le aspirazioni euro-atlantiche di Skopje. La Macedonia non può permettersi un’altra bocciatura da parte della comunità internazionale se non vuole rischiare di perdere il treno che porta alla membership Nato e Ue. La ripetizione si trasforma in una sorta di ballottaggio tra i due partiti di riferimento schipetari: il Dui di Ali Ahmeti e il Dpa di Menduh Thaci, che hanno ottenuto rispettivamente il 10,7% e il 9,9%.
Iraq, nuovo gruppo Moqtada Sadr contro Usa Mentre ad Amman il premier iracheno Nuri al Maliki annunciava che le trattative in corso per un’intesa di sicurezza a lungo termine con gli Stati Uniti sono bloccate, in Iraq Moqtada Sadr ha annunciato che il suo esercito si dividerà in due parti, una delle quali dedicata esclusivamente alla resistenza contro l’occupante, cioé contro le forze Usa e straniere.
Cina e Taiwan di nuovo “in volo” Cina e Taiwan hanno firmato ieri un accordo di importanza storica che istituisce collegamenti aerei diretti per la prima volta dal 1949 e apre l’ isola al turismo dalla Cina.
Brown vuole 1000 centrali nucleari Gordon Brown vuole che la Gran Bretagna svolga un ruolo-traino nella corsa alla costruzione di mille nuove centrali nucleari nel mondo, l’unica strada per porre fine alla «dipendenza globale da greggio». Il primo ministro britannico, che la prossima settimana si recherà in Arabia saudita per un summit d’emergenza sulla crisi petrolifera, sostiene che l’Africa, nonostante il rischio terrorismo, debba costruire centrali nucleari per andare incontro alla crescente domanda di energia.
Shuttle avvista Ufo? Forse non sarà proprio un Ufo, ma gli astronauti dello Shuttle hanno notato un oggetto non identificato sulla scia del traghetto spaziale e stanno indagando sulla sua natura. Lo ha annunciato la Nasa.
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speciale bioetica ull’agenda politica del sottosegretario Eugenia Roccella si riversano le emergenze etiche insorte negli ultimi anni. I problemi della sperimentazione genetica, dell’aborto, del testamento biologico, le rivendicazioni delle “famiglie alternative”, ma anche le esigenze delle famiglie normali si addensano sulla sua delega, che unisce funzioni dei vecchi ministeri della sanità e del welfare. In un ginepraio così irto polemiche ideologiche, lecito chiedersi le priorità di una dei volti nuovi della politica, transitata in pochi mesi dalla organizzazione del Family Day alla partecipazione al Berlusconi III.
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Quali saranno le sue prime iniziative in agenda? Sono moltissime le urgenze, ma voglio occuparmi anzitutto di maternità. Ho letto tanti documenti politici che riguardano il lavoro femminile, la salute femminile, però non è mai indicata la parola chiave “maternità”: è davvero significativo questo vuoto. L’emergenza fondamentale oggi in Italia è la denatalità: il governo dovrà affrontarle ovviamente con aiuti economici, ma partendo anche da un “pensiero della maternità”. La famiglia e la maternità sono state ignorate per anni dalla politica, forse proprio perché in Italia erano realtà forti che “tenevano”. Fino a poco tempo la famiglia sorreggeva la società e ne ammortizzava le carenze, ora è la società politica ad essere chiamata a far fronte alle debolezze delle famiglie… Io sono convinta che esista ancora l’“anomalia”italiana, basta considerare i dati statistici che ci differenziano dagli altri paesi. In Italia non c’è un alto tasso di uso di contraccettivi, però gli aborti continuano a diminuire, e nello stesso tempo non si fanno figli.Altrove ci sono politiche di diffusione dei contraccettivi, come strumento fondamentale di prevenzione degli aborti.
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Il sottosegretario al Welfare Eugenia Roccella illustra l’agenda dell’esecutivo: famiglia e maternità le cose più urgenti
ECCO LA ROAD MAP ETICA DEL GOVERNO colloquio di Alfonso Piscitelli con Eugenia Roccella che contempla senza troppe difficoltà la possibilità della pratica abortiva. Ad ogni modo quello che ha tenuto in Italia è la famiglia. Il motivo per cui in Italia gli aborti sono scesi è proprio perché regge la coesione sociale incentrata sulla famiglia. Però rimane un grave problema di denatalità. Perché il tessuto affettivo e sociale della famiglia ancora regge, ma non regge più il tessuto economi-
La denatalità si spiega anche con un progresssivo impoverimento Questa di solito è l’obiezione rivolta alla chiesa cattolica: vietando i preservativi si vieta uno degli strumenti fondamentali per prevenire gli aborti. Ma nella realtà accade che nei paesi europei dove la diffusione dei preservativi è capillare anche la situazione degli aborti è peggiorata. Perché evidentemente la mentalità che spinge all’uso del preservativo è la stessa
Un momento del Familiy Day. In basso il sottosegretario Eugenia Roccella. Nella pagina a fianco la Ru-486
co. È un problema di impoverimento, perciò bisogna aiutare economicamente le famiglie. Per certi aspetti un figlio è diventato un lusso. Il problema della fine del mese… Ma anche il problema della casa, della tutela del lavoro. L’anomalia italiana (pochi divorzi rispetto alla media internazionale) va preservata, prevedendo però aiuti concreti, politiche di appoggio. Il demografo Dumont ha
mostrato come paesi demograficamente “freddi”, tipo la Svezia, grazie agli aiuti alle famiglie siano riusciti a risalire la china della denatalità. In Svezia le nascite sono risalite ma ci sono moltissime madri single, per cui ci sono molte più spese da parte del Welfare. Noi vorremmo invertire la tendenza alla denatalità, conservando però la centralità della famiglia nel tessuto sociale italiano. Poi ci sono le aspirazioni delle famiglie alternative. All’ultimo gay pride di Roma si è polemizzato contro il governo attuale che ha chiuso ogni porta ai “Pacs”o ai “Dico”. Peraltro alcuni manifestanti si sono anche esibiti in imitazioni del ministro Carfagna. Credo non tanto valide rispetto all’originale… …impresa difficile! Quale sarà il suo atteggiamento rispetto ad aspirazioni del genere. Quando abbiamo fatto il Family Day noi non volevamo contrapporci ai gay, ma difendere la famiglia come è definita nella costituzione italiana. Noi siamo aperti al riconoscimento dei diritti individuali delle persone omosessuali: se ci sono discriminazioni vanno eliminate, ma non si possono fare
imitazioni di matrimoni. E neppure di Mara Carfagna! In concomitanza del diffondersi di legislazioni tipo i Pacs in altri paesi c’è stata peraltro una impennata delle coppie di fatto; si è diffusa l’idea di un matrimonio a tempo, che finisce col danneggiare la parte più debole della coppia, spesso la donna. Nei Dico italiani proposti dal centrosinistra addirittura non era previsto alcun pagamento di alimenti se il legame si fosse sciolto prima dei tre anni. Ma la forte presenza di immigrati in vari paesi d’Europa pone anche un’altra insidia al modello europeo di famiglia: la poligamia degli islamici… E proprio per questo più di un’associazione di donne immigrate ha aderito al Family Day, approvando il modello culturale della famiglia di tipo occidentale. Passiamo all’altro versante della vita: quale sarà la sua posizione di fronte a richieste di leggi che consentano l’eutanasia o il testamento biologico? Non credo ci sia bisogno di nuove leggi per autodeterminare la morte, quanto piuttosto di aiuti ai sofferenti e alle loro famiglie. Prendiamo un caso concreto: Welby. Non ritiene che la
sua sofferenza sia stata strumentalizzata per richiedere l’ eutanasia, mentre invece si poteva risolvere il dilemma facendo appello al rifiuto dell’accanimento terapeutico o al semplice rifiuto delle cure, previsto dalla costituzione? Sì, in effetti la nostra costituzione garantisce libertà di terapia, e anche la libertà di rifiutare le cure. La via d’uscita c’era ma i radicali hanno strumentalizzato la situazione, trasformandola in provocazione. Il medico che in precedenza curava di Welby, il dottor Casale, aveva proposto di staccarlo dalla macchina, accompagnandolo in un percorso di abbandono graduale (ovviamente con antidolorifici) delle cure. Qualcosa di diverso da una soppressione a freddo. Questo percorso è stato rifiutato. Ma ha rifiutato Welby o ha rifiutato Pannella per lui? L’ambiente politico di cui i coniugi Welby erano parte integrante ha gestito quel dramma umano al-
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Non è più possibile rimuovere i temi della vita e della morte
Biopolitica necessaria di Assuntina Morresi cosiddetti “temi eticamente sensibili” non spariranno mai dall’agenda politica, e tantomeno dal dibattito pubblico, e sono proprio i fatti di questi ultimi mesi a dimostrarlo. I due maggiori partiti politici – Popolo delle Libertà e Partito Democratico – hanno tentato di tenere fuori dalla campagna elettorale le questioni relative alle problematiche legate all’inizio vita – aborto, procreazione assistita – e fine vita – testamento biologico. Il PdL, in particolare, si è attestato sulla posizione di un sostanziale mantenimento dello status quo, dichiarando di non voler modificare né la legge 194 e tantomeno la 40, e di non avere proposte per il testamento biologico, e anche il Pd, che rimane molto critico nei confronti della legge 40 e che ha in agenda il testamento biologico, non ne ha fatto certo dei cavalli di battaglia. Di regolarizzazione delle famiglie di fatto, poi, non se ne è sentito neppure più parlare: Pacs, Dico, Cus - o comunque si vogliano chiamare le varie forme di riconoscimento di diritti alle convivenze - sono spariti dai media, definitivamente spazzati via dal popolo del Family Day, che nessuna forza politica può permettersi di avere contro, almeno per ora.
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Nonostante ciò, non passa settimana senza che i media trattino questi argomenti: ultimamente si è parlato di pillola del giorno dopo, del piccolo David nato senza reni, della signora di Vicenza che ha rifiutato – legittimamente – le cure, si riaccendono periodicamente le polemiche sull’aborto e sul modo di applicare la 194, e tutto questo solo per citare notizie tutte italiane delle ultime settimane. Dall’estero, poi, arriva di tutto e di più: embrioni misti uomo/animale, figli progettati senza padre, diagnosi preimpianto per individuare embrioni con probabilità di sviluppare tumori una volta adulti, e poi eutanasia, ricerca scientifica sugli embrioni umani. Si illude quindi chi crede che basta la volontà politica per tenere fuori dal dibattito queste tematiche: è lo sviluppo della tecnica e della scienza, insieme al cambiamento della mentalità e dei costumi, a dettare il calendario, che inevitabilmente sarà sempre più caratterizzato da fatti ed avvenimenti rilevanti dal punto di vista bioetico e biopolitico, i quali coinvolgeranno l’opinione pubblica in modo imprevedibile. Uno scenario in cui secolarizzazione e risveglio religioso si fronteggiano fa da sfondo a queste nuove problematiche; e mentre negli anni ’90 il dibattito bioetico rimaneva comunque all’interno di una cerchia più o meno ampia di “addetti ai lavori”, in questi ultimi anni si è esteso in qualche modo alla società tutta: basti pensare l’impatto della vicenda di Piergiorgio Welby, che ha catturato l’attenzione dell’opinione pubblica per mesi, oppure alla recente campagna sull’aborto proposta da Giuliano Ferrara, o alla proposta dei Dico. Tre anni fa, in questi giorni, si registrava la tornata referendaria più fallimentare della storia
Fecondazione e testamento biologico saranno questioni sempre più stringenti
l’insegna di una presunta necessità assoluta della eutanasia. Una curiosità personale per concludere: lei è partita dal movimento per la liberazione delle donne ed è giunta al governo Berlusconi…mi sono perso qualche passaggio intermedio? Non ho mai abbandonato la mia matrice, mi sento ancora una femminista, impegnata nella piena valorizzazione delle donne. Oggi è difficile parlare di femminismo dal momento che il movimento si è frammentato, ha subito strumentalizzazioni, ma è anche vittima di luoghi comuni che girano sul suo conto, anche riguardo al rapporto tra femministe e aborto. Lei ha fatto riferimento a una frammentazione che ha colpito il movimento delle donne. Il movimento femminista si è diviso in due grandi filoni: uno è quello emancipizionista, basato sull’idea di eguaglianza assoluta con
l’uomo. Paradossalmente questa volontà di omologazione portava ad affermare che il modello di riferimento era ancora quello maschile. Dall’altra parte si è sviluppato il filone della differenza, con l’idea che la vera parità (la pari opportunità) consista nella valorizzazione della differenza femminile, dunque anche della maternità, dell’etica della cura e dell’accoglienza. Ma questa valorizzazione della differenza era il discorso che faceva Karol Woitjla negli anni Ottanta-Novanta... Esatto. Mentre le donne che facevano politica erano di solito attestate sul filone dell’emancipazionismo, paradossalmente le istanze della differenza e della valorizzazione del femminile trovavano spazio nella chiesa cattolica anche per effetto di motivi squisitamente tradizionali, come la devozione mariana e l’impulso solidaristico.
della repubblica: con un’astensione del 75 per cento circa, gli italiani dichiararono di non voler stravolgere il testo della legge 40, licenziato in parlamento l’anno precedente. Quella battaglia referendaria, in cui l’indicazione della Cei di astenersi dal voto si sarebbe potuta trasformare in indifferenza e disimpegno da parte dei cattolici, è stata invece l’occasione perché l’opinione pubblica – e la componente cattolica in particolare – diventasse consapevole dell’esistenza di problematiche pesanti e impensabili dovute all’irrompere della tecnoscienza.
E il gran parlare sull’embrione umano nel corso della campagna referendaria di tre anni fa ha sicuramente contribuito a nuove riflessioni e ripensamenti sul tema della vita nascente, che sembravano definitivamente accantonati dopo il referendum sulla legge 194 sull’aborto. Il grande interesse e coinvolgimento dell’opinione pubblica e dei media nelle tematiche bioetiche e biopolitiche spesso però non corrisponde alla circolazione di un’adeguata informazione di tipo scientifico, troppo spesso viziata da interpretazioni ideologiche, quando non addirittura volutamente manipolata. Sicuramente quello della correttezza delle informazioni è il primo problema etico del secolo che stiamo percorrendo, e molte delle battaglie culturali che dovremo affrontare saranno decise proprio dalle modalità con cui l’informazione sarà gestita.
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speciale bioetica
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L’ex ministro Livia Turco ha agito contro le sentenze del Tar e la volontà popolare
Quelle linee guida inutili e scorrette di Ernesto Capocci
C ome se avvertisse una sorta di presentimento sulla sorte non favorevole delle elezioni Livia Turco, cinque giorni prima del voto, l’11 aprile scorso, ha emanato il testo sulle linee guida sulla legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita.
Un atto formalmente legittimo, ma politicamente scorretto, assai discutibile nei contenuti – almeno per quel che riguarda il punto più controverso, la diagnosi preimpianto, già sottoposto a referendum - e che, come vedremo, potrà rilevarsi anche inutile. Perché politicamente scorretto? Per due ragioni. Da un lato, perché il testo - sottoposto ad“embargo”fin dopo l’esito
niche, si vorrebbe consentire l’applicazione della diagnosi preimpianto, che viene effettuata su embrioni fecondati in vitro e che rappresenta una vera e propria misura eugenetica. In alcuni paesi in cui queste tecniche si applicano, sono state, inoltre, individuate alcune indicazioni“sociali”al ricorso alla diagnosi preimpianto, quali ad esempio - la selezione degli embrioni in base al sesso anche al di fuori dell’ipotesi di malattie legate al cromosoma X e la selezione di embrioni a scopi“terapeutici”a beneficio di terzi. È il caso degli embrioni selezionati al fine di creare un pool di donatori - solitamente di cellule staminali - compatibili con il ricevente. In assenza di adeguate terapie a favore dell’embrio-
La Corte costituzionale stabilirà il numero di embrioni per l’impianto del ballottaggio per l’elezione del Sindaco di Roma - è rimasto nascosto al giudizio degli elettori, che solo tre anni or sono, al 75 per cento, avevano ritenuto di non andare neppure a votare sui quattro quesiti sottoposti al referendum. Dall’altro, perché si è inteso eludere la via parlamentare, modificando la legge attraverso l’emanazione delle linee guida. Perché discutibile? Per tutte le coppie che hanno il rischio di avere figli affetti da serie malattie a causa di alterazioni cromosomiche o ge-
ne con anomalie genetiche, l’unico utilizzo del responso della diagnosi genetica preimpianto è di fatto la selezione degli embrioni sani e degli embrioni malati. Ora, al danno della selezione, è da aggiungere anche quello insito alle stesse tecniche di diagnosi genetica preimpianto, altamente invasive. La prassi prevede, infatti, il prelievo bioptico di una o due cellule da un embrione di 8, con possibile compromissione del successivo sviluppo. Non è da trascurare, inoltre, l’ele-
vata possibilità di errore, con l’eliminazione anche di embrioni sani o apparentemente malati. Che le tecniche di diagnosi genetica preimpianto possano essere di per sé causa di danno all’embrione è testimoniato da diversi studi, alcuni dei quali indicano che il numero dei nati rispetto agli embrioni trasferiti e sottoposti prima a biopsia è circa la metà del numero dei nati rispetto agli embrioni trasferiti ma non sottoposti a biopsia. Come ha di recente affermato Maria Luisa Di Pietro, co-Presidente di Scienza e Vita, «La selezione degli embrioni malati è di per sé ‘eugenetica’, perché l’eugenismo comporta proprio l’eliminazione di quelle caratteristiche genetiche che sono ritenute dannose nell’ambito della popolazione. E, allora, non sono i grandi numeri che fanno ‘eugenetica’, ma è già sufficiente la discriminazione di un solo embrione; non è rilevante chi decide di mettere in atto la selezione (lo Stato, il medico, i genitori), ma è l’intenzione che fa ‘eugenismo». A sostegno delle sue linee guida, Livia Turco ha affermato che nella legge 40/2004 non vi sarebbe il divieto della diagnosi genetica preimpianto, che in realtà si evince in modo chiaro e in equivoco dall’art. 1, comma 1, che dice: «Al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito». Questo comporta la tutela almeno dei
diritti fondamentali del concepito, ovvero il diritto alla vita, alla tutela della salute e alla non discriminazione: di conseguenza gli unici interventi possibili sull’embrione sono quelli finalizzati al suo esclusivo benessere. Per tale ragione viene vietata la produzione di un numero di embrioni superiore a tre («Le tecniche di produzione degli embrioni, tenuto conto dell’evoluzione tecnico-scientifica e di quanto previsto dall’articolo 7, comma 3, non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre», art. 14, comma 2), mentre l’art. 13 vieta «ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni”e l’art. 14 vieta la distruzione degli embrioni.
Un tale dettato normativo non solo rende inutile la diagnosi genetica preimpianto (a quale scopo, d’altra parte, eseguirla, dal momento che è vietata la selezione e la distruzione degli embrioni?), ma anche impossibile eseguirla dal momento che il numero massimo di embrioni da produrre è tre, troppo pochi per poter eseguire la diagnosi genetica preimpianto: gli embrioni provenienti da coppie portatrici di malattie genetiche, infatti, sono per la maggior parte anch’essi portatori delle stesse malattie, e quindi bisogna produrne un certo numero (intorno alla decina) per avere qualche probabilità di individuarne qualcuno sano. Infatti il Tar del Lazio ha interpellato con la Sentenza del 2008 la Corte Costituzionale proprio su
questo punto, ovvero il numero degli embrioni da generare e trasferire. Un altro argomento usato dall’ex Ministro della Salute non corrisponde al vero. È quello relativo alla cosiddetta “evoluzione dell’ordinamento”, in relazione alla fattibilità della diagnosi pre-impianto, che sarebbe stata determinata da alcune sentenze. Livia Turco ha omesso di prendere in considerazione le sentenze che hanno escluso il ricorso alla diagnosi genetica preimpianto: che hanno consentito la non applicazione delle linee guida in quanto considerate contrarie alla legge. Soprattutto, l’ex Ministro della Salute non ha considerato che la sentenza del 21.1.’08 del TAR del Lazio, che non è passata ancora in giudicato, respingendo tutti i motivi di ricorso tranne l’annullamento del limite della diagnosi preimpianto, ha rimesso alla Corte Costituzionale la norma sul limite massimo di tre embrioni da generare e trasferire. Questo pronunciamento, qualunque sarà il suo esito, avrà ricadute sulle linee guida, che dovranno comunque essere riconsiderate: il testo licenziato dalla Turco si potrebbe dover comunque rivedere. Resta anche la considerazione che con la sua iniziativa il precedente Governo ha inteso procedere in modo illiberale contro quel 75 per cento degli elettori che nel 2005 – astenendosi – espressero il proprio no alla modifiche di una legge, di cui la stessa relazione dell’ex Ministro sui dati di attuazione relativi al 2007, depositata in Parlamento nel maggio scorso, documenta l’efficacia.
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lla nascita il bambino abbandona la placenta, un grosso ammasso di vene e capillari a forma di disco, del peso di circa mezzo chilo… che resta piena del suo sangue. Attraverso il cordone ombelicale - ora tagliato - che la collegava al bambino, si può prendere questo sangue e immagazzinarlo. Perché? Perché è ricco di cellule staminali “adulte”(sembra un paradosso!) con cui si curano già tante malattie. Come si dona all’Avis il proprio sangue perché gli ospedali lo usino per chi è anemico, così si può donare il sangue della placenta (erroneamente detto “del cordone ombelicale” ma che qui così chiameremo, abbreviando in “SdCO”) perché gli ospedali lo usino per chi ha una leucemia o altro. Il problema nasce dalla domanda: «E se lo tenessi per me, invece di metterlo a disposizione di tutti?». A questa domanda, che riguarda la cosiddetta “conservazione autologa” del SdCO, hanno risposto in molti, talora sconsigliandolo, talaltra creando vere e proprie banche per la conservazione. Più che trarre nostre considerazioni, ci piace riportare le risposte di varie società scientifiche, cioè il parere degli esperti: per poter scegliere liberamente sia a titolo personale, sia per quanto riguarda le decisioni politiche. Leggiamole, dunque.
A
L’American College of Obstetricians and Gynecologists, pur non prendendo parte né pro né contro la conservazione personale, riporta nel proprio sito web le parole di Anthony Gregg, coordinatore del comitato di genetica dell’Associazione stessa: «I pazienti devono sapere che le possibilità che le cellule staminali prese da un bimbo servano a curare lo stesso bimbo – o un altro membro della famiglia - sono remote» dice, e nel sito dell’associazione si spiega che il sangue non può essere di norma usato a questo scopo perché le sue cellule possono essere alterate dalla stessa mutazione che ha provocato la malattia. Questo concetto è ribadito da una pubblicazione della stessa Società Scientifica, nel febbraio 2008, in cui le possibilità di usare il proprio sangue vengono calcolate approssimativamente in 1 caso su 2.700. Dal canto suo, l’American Medical Association spiega che «L’utilità è maggiore quando si dona a una banca pubblica che a una privata. Perciò i medici dovrebbero incoraggiare le donne che vogliono donare il SdCO a farlo ad una banca pubblica. Così si avrebbe una maggiore disponibilità di cellule staminali per pazienti appartenenti a minoranze. Il ricorso a banche private dovrebbe essere riservato alle inusuali circostanze in cui c’è una predisposizione a una malattia in cui l’uso di cellule staminali è indicato». La Società Americana per il trapianto di Midollo Osseo , alla domanda “posso conservare il SdCO per me?”pubblicata nel suo sito web risponde «Certo, ma la possibilità di usare il proprio SdCO è molto bassa. Molti pazienti che necessitano trapianto di SdCO hanno bisogno di cellule da un donatore, non le proprie che possono contenere le stesse cellule che hanno prodotto la malattia. Spesso i fratelli e le sorelle sono i migliori donatori. D’altronde nei registri pubblici si
Da quest’organo si possono estrarre staminali adulte ma c’è chi lo vuole tenere per sè
Le virtù nascoste del cordone ombelicale
di Carlo Bellieni possono trovare donatori compatibili». E alla domanda: «Il sangue del mio bimbo può aiutare un familiare o un amico?» risponde che «conservarlo per un familiare colpito da una malattia che trae giovamento dal trapianto di cellule staminali ha un senso e può essere raccomandato dal medico». Nel marzo 2008 questa Società scientifica dava le seguenti tre semplici indicazioni: La donazione pubblica di SdCO deve essere incoraggiata; la probabilità di usare il proprio SdCO è molto piccola – difficile da quantificare ma probabilmente tra lo 0.04% (1:2500) e lo 0.0005% (1:200,000)
retta ad uso personale o familiare per la possibilità che nel sangue stesso ci siano cellule che causano la patologia che si vuole curare». «La donazione al pubblico deve essere incoraggiata” e al momento «la conservazione privata come assicurazione biologica deve essere scoraggiata».
Anche un recente articolo del «Comitato di Medicina materno-fetale dei Ginecologi Canadesi» riporta che “«la donazione altruistica di sangue di cordone ombelicale per un uso pubblico deve essere incoraggiata» ma «la conservazione per donazione autologa non è raccomandata date le limitate indicazioni e mancanza di evidenza scientifica per supportare detta pratica»; e l’Academie Nazionale de Medicine francese, nel 2002 consigliava al massimo «per non essere privati di un materiale eventualmente interessante, una soluzione sarebbe di riservare la crioconseervazione di SdCO a fini autologhi a popolazioni mirate (affezioni endemiche ereditarie, o tratti genetici predittivi)». Il commento, infine, del Groupe européen d’éthique des sciences et des nouvelles technologies, una specie di
Attive banche per la conservazione. Tentazioni di commercio nei primi 20 anni di vita - e perciò la conservazione di SdCO per uso personale non è raccomandata; la raccolta per un membro della famiglia è raccomandata quando ci sia un fratello con una malattia che può essere trattata con successo con trapianto allogenico. Non ultima, l’American Academy of Pediatrics spiega: «La donazione di SdCO dovrebbe essere scoraggiata quando di-
Comitato di Bioetica della Unione Europea conclude che «Bisogna interrogarsi sulla legittimità delle banche commerciali del SdCO a uso autologo, dato che offrono un servizio che, ad oggi, non presenta alcuna utilità reale in termini di possibilità terapeutiche». Il documento caldeggia inoltre che la pubblicità delle stesse banche debba chiaramente offrire informazioni sulle scarse possibilità per motivi clinici di usufruire del sangue conservato. È un documento che merita, almeno nelle sue conclusioni, di essere letto integralmente. Dunque sembra che non ci siano particolari motivi che consiglino una conservazione “per se stessi” (“autologa”) del SdCO, mentre ce ne sono molti in favore della sua donazione pubblica. In tanti ameremmo che si desse davvero grande pubblicità a questa possibilità di donare solidaristicamente il SdCO, a vantaggio dei malati: una forma di “altruismo del neonato” che, lungi dal fargli perdere qualcosa che gli può servire (abbiamo visto che le possibilità di giovarsi del proprio sangue sono bassissime), permetterà anche a lui di trovare un donatore semmai ne avrà bisogno. Ma c’è di più: ricordare che l’inizio della propria vita è stato segnato da un gesto di solidarietà per gli altri, può essere il primo regalo che facciamo al nostro bambino; più duraturo di una banca.
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lcune caratteristiche del sistema pensionistico italiano tengono lontana dal lavoro una quota troppo ampia della popolazione. Solo il 19 per cento degli italiani tra i 60 e i 64 anni svolge un’attività lavorativa, contro il 33 per cento degli spagnoli e dei tedeschi, il 45 dei britannici, il 60 degli svedesi. È ora di rimuovere i vincoli e i disincentivi al proseguimento dell’attività lavorativa per coloro che sono nel regime retributivo; ampliare i margini di scelta dell’età di pensionamento per coloro che sono nel regime contributivo; cancellare gli ultimi impedimenti al cumulo tra lavoro e pensione». Nelle sue Considerazioni finali Mario Draghi ha riaperto la questione delle pensioni, ricordando alla classe politica che il problema non è ancora risolto. Del tutto d’accordo con le osservazioni del Governatore, chi scrive pensa di doversi avvalere del mandato conferitogli dall’elettorato per passare dall’altra parte: dopo aver trascorso decenni a tediare gli italiani come esperto – largamente sopravvalutato – di pensioni, è venuto il momento di provare l’ebbrezza del legislatore. Ecco perché nei prossimi giorni presenterò un progetto di legge che affronterà alcuni nodi ancora aperti o a mio avviso non risolti adeguatamente in materia pensionistica.
economia crementi delle aliquote con effetti punitivi e devastanti per l’occupazione. La via da seguire potrebbe essere quella di allineare – per i nuovi assunti in tutte le tipologie lavorative – l’aliquota contributiva intorno al 24-25 per cento istituendo nel contempo una pensione di base, finanziata dalla fiscalità generale. Si tenga conto che, nel 2008, lo Stato eroga almeno 34 miliardi di euro in qualità di «soccorso» assistenziale alla spesa pensionistica.Tali risorse, invece di inserirsi «a pettine» nel sistema, a tutela di varie e differenti situazioni, potrebbero più razionalmente essere utilizzate per divenire la base di un modello contributivo obbligatorio, divenuto meno oneroso per i lavoratori e le imprese.
«A
Età pensionabile È giusto e opportuno non rimettere in discussione la soluzione trovata nel protocollo del luglio 2007 a proposito del cosiddetto scalone (corretto da un modello, oneroso per i conti pubblici, di gradini più quote). Ma altre cose si devono fare. Nel sistema contributivo è venuta a mancare, in conseguenza dei riordini più recenti, quella flessibilità istituita nell’impianto prefigurato dalla legge Dini del 1995. La riforma Maroni del 2004 ha cancellato il pensionamento di vecchiaia, unico e flessibile, compreso in un range tra 57 e 65 anni, a cui corrispondevano i coefficienti di trasformazione come strumenti di incentivazione/disincentivazione ragguagliati all’età scelta per la quiescenza. In pratica, la legge 243/2004 ha finito per trasferire nel contributivo le regole anchilosate del retributivo. La recente legge del governo Prodi (la 247/2007) ha riconfermato l’impostazione del 2004, mantenendo la frantumazione delle regole del pensionamento. A regime, anche nel sistema
Gli interventi per alleggerire il peso della spesa previdenziale
Pensioni,una necessaria opera di manutenzione di Giuliano Cazzola contributivo, i lavoratori potranno andare in quiescenza facendo valere i requisiti della vecchiaia (65/60 anni di età e cinque anni di contribuzione effettiva a condizione di percepire un trattamento pari a 1,2 volte l’importo dell’assegno so-
re, per uomini e donne, una fascia di opzioni compresa tra 62 e 67 anni collegati a un’adeguata griglia di coefficienti di trasformazione con revisione triennale. Logicamente, tale impostazione richiede di aumentare gra-
dualmente di due anni (da 60 a 62) l’età di vecchiaia delle lavoratrici, anche nel sistema retributivo.
Pensione di base Rebus sic stantibus, nel modello contributivo sarà possibile consegui-
L’età di ritiro dal lavoro va alzata fino a 62 anni (per le donne) e a 67 (per gli uomini). Bisogna riattivare i coefficienti di trasformazione introdotti dalla Dini e garantire assegni adeguati per autonomi e liberi professionisti ciale), con 40 anni di versamenti a qualunque età oppure a 61/62 anni se dipendenti e a 62/63 anni se autonomi con 35 anni di anzianità (inclusa ovviamente la regola delle quote età+anzianità). Per tornare – come ha suggerito Draghi – all’impianto della legge 335/1995, occorrerebbe tener conto delle modifiche apportate all’istituto dell’età pensionabile. La nuova prestazione unificata, a partire dal 2014 (anno in cui terminerà la fase transitoria), dovrebbe prevede-
Il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi
re un trattamento appena sufficiente soltanto versando un’aliquota contributiva insostenibile (al 33 per cento come quella per il lavoro dipendente). Un tale obiettivo – che crea enormi problemi al costo del lavoro subordinato e incentiva il sommerso – è improponibile per il lavoro autonomo, libero-professionale e atipico. In questi settori saranno erogate pensioni pubbliche assolutamente inadeguate a meno di non intraprendere (come nel caso dei parasubordinati) in-
Secondo pilastro per il lavoro parasubordinato. Per consentire agli atipici in via esclusiva il ricorso alla previdenza complementare, andrebbe riconosciuto loro il diritto all’opting out, consentendo di stornare, se lo riterranno, una parte dell’aliquota obbligatoria (fino a 6 punti a regime: un ammontare equipollente rispetto al tfr) per costituire e finanziare, in una forma privata di loro scelta, una posizione individuale a capitalizzazione. Un sistema integrato per la previdenza dei liberi professionisti: le casse privatizzate hanno, alcune, evidenti problemi di sostenibilità (in generale quelle di cui al dlgs 509/1994); altre (quelle di cui al dlgs 103/1996) problemi di adeguatezza dei trattamenti. Chi scrive non pensa a un accorpamento in un unico ente (una specie di Inps delle libere professioni), ma all’istituzione di un organismo rappresentativo di coordinamento in grado non solo di indicare dei criteri generali uniformi per quanto riguarda la riforma degli ordinamenti previdenziali obbligatori, ma anche di attuare forme forti di sinergia nella previdenza complementare e nella politica degli investimenti. Un polo unificato nella tutela della sicurezza del lavoro. Un ente gestore dell’assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali (in sostanza l’Inail dovrebbe incorporare le istituzioni che si occupano di sicurezza), al quale siano attribuiti anche poteri, compiti e strutture di prevenzione, cura e riabilitazione ora di competenza del Servizio sanitario nazionale, essendo ormai evidente l’inadeguatezza delle Asl a svolgere tali funzioni.
economia
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No dei sindacati al numero uno di Finmeccanica, Guarguaglini, che studia per la controllata un’Ipo o l’ingresso di soci
Ansaldo,muro della Fiom contro la Borsa d i a r i o
di Giuseppe Latour In basso, l’amministratore delegato e presidente di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini
d e l
g i o r n o
Scioperi, una norma per ridurli In Italia si fanno troppi scioperi, bisogna trovare una norma per ridurli.A parlare è il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi in un convegno organizzato dalla Cisl. Il ministro ha annunciato che sta studiando una normativa che riduca gli scioperi, trasformando l’Autorità di garanzia degli scioperi in una sorta di «autorità per il lavoro». Serve, spiega, «una convocazione più responsabile dello sciopero» perchè «in Italia occorre ridurre questa propensione».
Mercoledì Cdm vara Robin Hood Tax Il Cdm approverà mercoledì 18 giugno il piano triennale sull’economia che contiene anche la Robin Hood Tax. Lo ha annunciato il ministero dell’Economia, Giulio Tremonti. La misura economica, nei giorni scorsi, aveva provocato la levata di scudi di tutti i petrolieri italiani e dell’Ad dell’Eni, Paolo Scaroni. Nel frattempo, il ministro dell’Economia ha anticipato che il G8 chiederà al Fondo monetario internazionale di analizzare i motivi del rialzo del greggio e delle materie prime.
Il petrolio comincia a scendere ROMA. Ansaldo Breda a un bivio. Da un parte la strada della collocazione in Borsa, dopo il periodo di risanamento già avviato da Finmeccanica. Dall’altra quella della vendita, in tutto o in parte. Le dichiarazioni del presidente e amministratore delegato del gruppo, Pier Francesco Guarguaglini, da poco riconfermato in sella, hanno già scatenato un putiferio. Soprattutto nel sindacato, sull’agguerrito fronte delle Fiom-Cgil, che teme in entrambi i casi il pagamento di un conto molto salato da parte dei lavoratori. E che vede l’operazione come un modo di recuperare risorse dopo l’onerosa acquisizione dell’americana Drs.
La strada da seguire sarebbe, nella prima ipotesi, quella già tracciata da Ansaldo Energia, la cui quota di maggioranza, circa il 60 per cento, sarà fatta oggetto di un’Ipo. Se consideriamo che lo stesso era già avvenuto con Ansaldo Sts, questa è, allo stato attuale, l’ipotesi assolutamente più probabile. Anche se i tempi non sono ancora maturi. Perché la società si trova in acque non completamente tranquille e solo quest’anno, con ogni probabilità, arriverà al pareggio operativo. Non è, quindi, ancora abbastanza valorizzata da poter sopportare la difficile prova del mercato. Alessandro Pansa, condirettore di Finmeccanica, a margine dell’ultima assemblea degli azionisti ha detto, riferendosi all’Ipo: «Per ora non è nelle nostre intenzioni». Il manager ha precisato che in Europa sono rari i casi di società di trasporti quotate in Borsa e per il momento bisogna attendere che Ansaldo Breda ritorni a produrre utili. E bisogna attendere che dal ministero dello Sviluppo economi-
co arrivino segnali finalmente univoci nella partita del nucleare. Se dovesse essere confermata la linea di Claudio Scajola verso un ritorno dell’Italia all’atomo, Ansaldo potrebbe diventare una pedina chiave nel gioco di Finmeccanica su questo fronte. Da valorizzare al di là dell’attuale passivo. Meno elusivo Pier Francesco Guarguaglini, che nella sua relazione sul bilancio 2007 ha scandito così i tempi: «Raggiungeremo il breakeven entro la fine del 2008. Quindi, dobbiamo trovare come valorizzarla: o portandola sul mercato o trovando altri partner». In primo luogo c’è il risanamento dei poli produttivi (Pistoia e Napoli) per la costruzione di veicoli ferroviari, che passa da «una risoluzione delle re-
Piazza Monte Grappa vuole valorizzare le attività ferroviarie del gruppo, ma per la Cgil è soltanto un modo per recuperare fondi dopo l’acquisto di Drs
bocche sono cucite e restano in campo solo ipotesi. Parlano solo i sindacalisti, che leggono l’attuale situazione in modo piuttosto diverso da Guarguaglini. «Non solo la quotazione in borsa di Ansaldo Energia, ma anche quella di Ansaldo Breda: questa è la ricetta che il presidente di Finmeccanica prospetta per contenere l’indebitamento prodotto dall’acquisizione di una delle maggiori aziende dell’elettronica della difesa americane, la Drs», denuncia Massimo Masat, coordinatore nazionale Fiom-Cgil del gruppo Finmeccanica. Il suo timore è che i debiti incamerati con il recente acquisto americano stonino con gli ottimi conti di Finmeccanica. E per sopportarne l’entità si debba tagliare qualche ramo meno pregiato. «Ansaldo Breda», continua, «non ha i requisiti per la quotazione a causa di una situazione finanziaria dovuta a una gestione industriale dissennata che ha messo a rischio la sopravvivenza dell’azienda. Il sindacato è quindi impegnato in un’operazione di riorganizzazione e messa in sicurezza della società».
sidue situazioni di criticità tramite ristrutturazioni ed alleanze industriali». Quindi, è più di un’impressione l’idea che la strategia sia già esattamente delineata e sotto le ceneri covi un progetto preciso: anche perché i tempi in cui dare una collocazione all’ingombrante controllata sono già delineati e non andranno oltre il prossimo triennio. Il compito è già stato affidato a Salvatore Bianconi, nuovo amministratore delegato della società. Ma per il momento, quando si domanda quale strada si seguirà, tutte le
La Fiom farebbe la guerra in caso di vendita diretta, contraria all’ipotesi di mettersi nuovi ospiti in casa. Ma, a quanto pare, anche la collocazione in borsa con una Ipo sul modello di Ansaldo Energia non sarebbe molto ben vista. «Basta pensare a quel che sta succedendo in questo momento sui mercati azionari di tutto il mondo, per capire che sarebbe perlomeno un azzardo portare a quotazione qualsiasi tipo di azienda per l’esposizione speculativa che rischierebbe». Ma Guarguaglini pensarla diversamente.
Dopo giorni di grandi rialzi, ieri il greggio ha segnato uno stop. Notizia positiva, dopo l’allarme di tutte le organizzazioni economico-finanziarie mondiali. All’inizio della giornata di contrattazioni a New York, i futures sul petrolio con scadenza a luglio sono stati scambiati a 134,80 dollari al barile, in calo di 1,94 dollari rispetto all’ultima rilevazione di giovedì. La notizia del calo è dovuta anche alla possibile decisione dei sauditi che dovrebbero varare il prossimo 22 giugno, nel corso del vertice di Jeddah, l’aumento della produzione a 10 milioni di barili al giorno dagli attuali 9,45 milioni di barili. L’indiscrezione ha provocato un il calo generale dei prezzi del greggio. Anche il Brent ha ceduto 2 dollari a 134,09 dollari al barile.
Alitalia: riparte la gara per Volare Il ministero dello Sviluppo economico, dopo la sentenza del Consiglio di Stato che ha accolto il ricorso dell’AirOne di Carlo Toto contro l’assegnazione ad Alitalia, riapre la gara per Volare. Il ministero, si apprende dalla relazione al bilancio 2007 di Alitalia, ha inviato due giorni fa una lettera ai soggetti che avevano preso parte all’iniziale procedura con la quale si invita a presentare un’offerta vincolante entro le ore 2 del 14 luglio.
Tar “lascia libero” il 144 Il Tar del Lazio ha sospeso la delibera dell’Autorità per le tlc che prevedeva, a partire dal prossimo 1 luglio, il blocco automatico delle chiamate ai numeri a sovrapprezzo, vale a dire i 144 e affini. Con questa ordinanza il Tar ha così accolto le richieste di alcuni operatori di servizi, decidendo di procedere alla sospensiva, ritenendo per la questione sia necessario un approfondimento direttamente nel merito e quindi, fissando al 13 novembre la prossima udienza. «Quella del Tar è un’infausta decisione, serviva uno stop netto e definitivo alle bollette telefoniche gonfiate da servizi non richiesti», commenta Paolo Martinello, presidente dell’associazione indipendente di consumatori Altroconsumo.
Mittel: impegno a investire nella Equinox La Mittel, finanziaria che fa capo a Giovanni Bazoli e Romain Zaleski, ha sottoscritto un impegno ad investire, sino a 5 milioni di euro, nella Equinox Two, società di investimenti di diritto lussemburghese che fa capo a Salvatore e Giorgio Mancuso. L’impegno, a quanto risulta, è stato sottoscritto da Mittel lo scorso 12 maggio. Fra i sottoscrittori di Equinox risultano anche Silvano Toti e Pirelli Finance.
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archeologia
Un team di archeologi italiani ha scoperto che il confine è sopra Assuan
La Nubia invade l’Egitto di Rossella Fabiani alle sabbie del deserto egiziano è emerso un intero sito inedito. Si tratta di Nag el-Qarmila. Mentre a nord di Assuan, a Sheik Mohammed è stato ritrovato un inedito cimitero Pan-Grave (popolazioni del deserto insediatesi nell’Alto Egitto e nella Bassa Nubia nel tardo Medio regno e durante il secondo Periodo intermedio 17971543 avanti Cristo).
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A fare questa importante scoperta è stato il team guidato dalla dottoressa Maria Carmela Gatto che insieme alla nubiologa Serena Giuliani, direttore del progetto Middle Nubian e al professore Mauro Cremaschi dell’Università di Milano hanno voluto dimostrare con ritrovamenti archeologici e iscrizioni rupestri che il confine tra Egitto e Sudan non va collocato ad Aswan sulla prima cataratta – come da sempre viene considerato – ma che al contrario la presenza nubiana arriva molto più a Nord e influenza anche la cultura egiziana. Secondo i loro studi la prima cataratta sarebbe già Nubia. Il team è composto da una quarantina di persone che ogni anno si alternano tra di loro. Sono collaboratori che provengono da diverse università: esperti antropologi, paleobotanici, paleozoologici e altri. Fissi sono invece, oltre a Maria Carmela Gatto e a Serena Giuliani, la restauratrice Valeria Lorizzo, l’archeologa preistorica Sara Roma, la specialista in ceramica egiziana Carla Gallarini dell’università di Birmingham e lo specialista in ceramica neolitica, Stan Handrix. La concessione di scavo della missione è ad Assuan sulla riva occidentale del fiume: Gharb Assuan. Fondamentale per ottenere la concessione è stato l’appoggio del direttore delle Antichità di Assuan. Il materiale emerso è stato il più vario possibile: dai siti del paleolitico fino all’epoca islamica. Si tratta di insediamenti, cimiteri e iscrizioni rupestri.Tutto a testimoniare che le presenze, in varie epoche, sono presenze nubiane e che l’intera area egiziana era, in realtà occupata dai nubiani. Ci sono tracce di blemmi (gente nubiana) anche in epoca romana. Lo scavo al sito Nag el-Qarmila, che si trova in un’ampia vallata, ha portato alla luce due cimiteri e un insedimento predinastico e un cimitero Pan-Grave inediti. Nel 2007 la dottoressa Giuliani ha scoperto un altro cimitero Pan-Graves inedito a Sheik Mohammed, a nord di Assuan. L’avventura è iniziata nel 2004-2005,
La mappa dell’Egitto e del Sudan, l’antica Nubia, a fianco. Sotto il dettaglio della regione di Kom Ombo e due delle archeologhe italiane: Maria Carmela Gatto e Serana Giuliani. In basso un vaso dei ”Gruppi C” e una donna nubiana col suo bambino
Finora si pensava che la frontiera fosse all’altezza della prima cataratta del Nilo. In realtà la presenza di gente nubiana è stata trovata più a Nord in territorio egiziano quando il British Museum e l’università di Roma La Sapienza, inizialmente l’Università degli Studi di Milano, hanno lanciato il “Progetto Assuan Kom-Om-
bo”, sotto la direzione della dottoressa Gatto. Nell’area erano in passato già state individuate tracce di popolazioni dei Gruppi C e durante il survey fatto dal team italo-inglese è stato anche ricollocato, con il sistema Gps, il grande cimitero dei Gruppi C del Medio regno, scoperto da H. Junker all’inizio del XX secolo nella zona dello wadi Kubbaniya. Le dimensioni della necropoli fanno pensare alla presenza permanente in zona di
una grande comunità. Questo comporta anche la presenza di un insediamento dei Gruppi G e trovarlo sarà uno degli obiettivi delle indagini future. Nel corso della ricognizione è stato ricollocato anche un gruppo di iscrizioni rupestri faraoniche. Uno dei più interessanti si trova su un grande e visibile sperone sulla riva occidentale del fiume, vicino al moderno ponte a sud di wadi Kubbaniya. Iscrizioni faraoniche del Medio e Nuovo Regno, alcune anche di epoche successive, sono ancora visibili insieme a molte rappresentazioni di arte rupestre. Le incisioni rappresentano bovini, giraffe, barche e figure umane. La maggior parte si riferiscono alla tradizione Medio nubiana, come l’arciere con una ciotola in mano e il toro con le corna a forma di lira, probabilmente un simbolo di fertilità e potere. La figura del toro non è presente soltanto nell’area nubiana, ma è conosciuto anche dalla religione egiziana che lo chiama toro “ngn”. Il toro nubiano è presente nel credo egizio in relazione al dio Min, la divinità del deserto orientale e della Nubia. E ancora. Testi religiosi egizi parlano di genti nubiane che hanno un compito preciso durante i rituali. La posizione del cimitero dei Gruppi C alla foce dello wadi Kubbaniya è inoltre emblematica perché suggerisce un forte legame con lo wadi stesso che è una delle rotte nel deserto di questa regione. Questo conferma l’ipotesi che le popolazioni dei Gruppi C sono state socialmente ed economicamente più legate al deserto, anche se, come gli Egiziani, sono vissuti lungo il fiume.
La tesi che il team vuole dimostrare è che le popolazioni dei Gruppi C hanno fatto parte della popolazione che viveva in Egitto e non erano, invece, una presenza sporadica. La campagna di scavo del 2009 prevede il proseguimento degli scavi al cimitero predinastico e lo scavo al nuovo cimitero Pan-Graves rinvenuto a nord di Assuan, a Sheik Mohammed. Fatto interessante è che tutti questi cimiteri gravitano intorno allo wadi Kubbanya dove le genti nubiane passavano per attraversare il deserto e recarsi nel sud, in Sudan. La missione ha il patrocinio dell’Unesco, grazie all’interessamento della dottoressa Maria Costanza De Simone che si occupa per conto l’Unicef, del progetto “Bridge on the Nile”: una cooperazione culturale tra Egitto e Nubia sul recupero delle culture dei popoli locali.
musica rollano uno dopo l’altro i grandi santuari della musica registrata, i negozi di dischi storici che turisti e residenti delle principali città del mondo si erano abituati a considerare parte integrante del panorama urbano. Entro il marzo del 2009, notizia di questi giorni, chiuderà bottega anche lo sfavillante Virgin Megastore di Times Square, ombelico di New York e del mondo occidentale. Il motivo è sempre lo stesso: si vende sempre meno (cd, dvd e libri musicali) mentre spese di esercizio e canoni di affitto dei locali salgono alle stelle. Così anche la celebre insegna creata da Richard Branson è costretta a ridimensionare drasticamente la sua presenza negli States, in attesa magari di chiudere del tutto.
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C
Lui, il Sir inglese, in realtà se l’era data a gambe per tempo. Svelto a fiutare l’aria che tirava, ha venduto negozi musicali ed etichette discografiche per dirottare i suoi investimenti su treni e linee aeree, palestre e telefonini. Dopo essersi ritirato da Germania e Olanda, da Belgio e Portogallo, dopo avere liquidato le sue attività in Francia (lì il marchio Virgin per ora resiste, ma sotto diversa proprietà) ultimamente ha alzato bandiera bianca anche in Inghilterra, cedendo i punti vendita al vecchio management che li ha ribattezzati Zavvi. In Italia le cose non sono andate meglio, anzi: da noi l’avventura dei Virgin Megastores, quattro punti vendita a Milano (in Piazza del Duomo), Bergamo, Padova e Bologna, è durata tredici anni, 1991-2004, con poca gloria e molti travagli. Fino alla dichiarazione di fallimento sotto una montagna di debiti e di bilanci in rosso, quando al timone del vascello in tempesta era subentrata un’imprenditrice romagnola del settore, Lauretta Alessi. Non è andata meglio a Tower Records, il marchio giallo e rosso che tutti i viaggiatori appassionati di musica conoscevano. Filosofia opposta a Virgin – attenzione al sodo e nessuna concessione al glamour, negozi che sembravano depositi o magazzini – identico risultato, anche se a conclusione di una storia importante: inaugurata nel 1960, quando il fondatore Russ Solomon aprì un minuscolo punto vendita nel retrobotte-
Crollano uno dopo l’altro i grandi santuari di musica e dvd
La Waterloo dei Megastore di Alfredo Marziano ga della drogheria gestita dal padre nella città californiana di Sacramento, due anni fa la catena americana ha abbassato la saracinesca anche nel suo negozio simbolo sul Sunset Strip di Los Angeles, elemento irrinunciabile dell’iconografia locale (qualche tempo prima aveva dovuto battere mestamente la ritirata anche da Londra, dove un tempo presidiava un lato di Piccadilly Circus). «Un giorno molto triste per l’industria discografica», commentò allo-
ra il dirigente della Universal Jim Urie, aggiungendo che Tower sarebbe probabilmente rimasto «il più importante marchio di tutti i tempi nella storia del commercio discografico».
Creditori e immobiliaristi, però, del blasone e della storia se ne fregano: e così lo store losangelino, in attività dal fatidico 1969, verrà presto abbattuto per far posto a un complesso edilizio con tanto di uffici, negozi e centro benessere, in barba a chi avrebbe voluto tra-
sformarlo in un museo permanente del rock&roll. E’ un’epidemia senza soste, quella dei negozi di dischi, che colpisce indiscriminatamente grandi e piccoli, la catena Fopp in Gran Bretagna (chi ricorda i suoi bei negozi londinesi a Covent Garden e Camden Town?) e le piccole botteghe indipendenti a gestione familiare. In Italia quelli censiti da AC Nielsen sono calati da 1.430 a 900 in dieci anni, e nel frattempo sono scomparse insegne storiche come Maschio a Torino e Messag-
Dalla catena Virgin alla Tower Records, battenti chiusi quasi in tutto il mondo. Il motivo? Si vende sempre meno mentre spese di esercizio e canoni di affitto dei locali salgono alle stelle
Anche la Virgin, celebre insegna creata da Richard Branson (a sinistra) costretta a ridimensionare drasticamente la sua presenza negli States
gerie Musicali (della famiglia Sugar) a Milano, sostituite dai “mediastore” Fnac, Mondadori e Feltrinelli che per resistere al sopravanzare del commercio elettronico puntano sul multiprodotto e su assortimenti per tutti i gusti. Per salvare i pochi negozi di dischi sopravvissuti, il 19 aprile scorso in America e in Inghilterra si sono mobilitati musicisti come Bruce Springsteen e i Metallica, Peter Gabriel e sir Paul McCartney, imitati in Italia (con scarsa eco, bisogna aggiungere) da associazioni di etichette indipendenti come Audiocoop e festival come il Mei di Faenza; mentre nel Regno Unito i gallesi Manic Street Preachers sono scesi in prima linea per salvare Spillers di Cardiff, «il più vecchio negozio di dischi del mondo» in attività addirittura dal 1894.
Una battaglia persa in partenza, in epoca di download e di file sharing, di laptop e telefonini con lettore musicale incorporato, di grandi magazzini non specializzati come Wal-Mart e Tesco che fanno il bello e cattivo tempo sulle due sponde dell’Atlantico, «infilando qualche cd tra il burro e la marmellata, il pane e i piselli» (così Branson, sprezzante, qualche anno fa)? Forse, anche se qualche scialuppa resiste ancora alla burrasca. In California ha fatto fortuna Amoeba, tre punti vendita a Los Angeles, Berkeley e San Francisco (nel cuore di Haight Ashbury, il vecchio quartiere hippy), puntando su una ricetta d’altri tempi: prezzi ragionevoli, assortimento sterminato (anche di dischi usati), staff competente. E a Londra è rinata Rough Trade, che ha inaugurato di recente un grande punto vendita nella zona del mercatino di Brick Lane con l’ambizione di farne un luogo di incontro e di piacevole sosta (c’è persino una nursery per parcheggiare i bambini), una delicatessen per appassionati di musica. «Sapete che vi dico? Ne nasceranno parecchi altri, di qui a qualche anno, di negozi di questo tipo» sostiene il gestore Spencer Hickman, decisamente controconfidando corrente, nell’appeal del servizio ad personam contro lo shopping massificato. Ci auguriamo che abbia ragione: che tristezza sarebbe perdere anche gli ultimi esemplari di quei negozietti polverosi così mirabilmente descritti da Nick Hornby nel romanzo Alta fedeltà. Sennò, dove andranno a parare quei giovani uomini (oggi sicuramente più attempati) «con gli occhiali alla John Lennon, la giacca di cuoio e le braccia piene di buste di carta quadrate?».
cultura
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Il rapporto con il cibo e con i sapori metafora del senso della vita
Gli agnolotti di Einstein di Renzo Foa segue dalla prima osì ho facilmente trasformato in un terminale di ricordi l’idea del sapore: un semplice alito sul palato, al posto della fisicità del cibo, la soddisfazione al posto del nutrimento diretto che, a volte, può tracimare nella volgarità. Una di queste mattine di digiuno ho provato a parlarne con mia sorella Anna - e poi me lo ha confermato anche mia sorella Bettina. C’era un sapore che anche loro inseguivano invano da decenni, con grande nostalgia. Sembra buffo ricordarlo, perché si tratta di un banalissimo yogurt. Ormai di yogurt ce ne sono tantissimi, ovunque. Lontani sono i tempi di quei piccoli vasetti di vetro, con il vuoto a rendere, quando esistevano ancora le latterie, con l’offerta di un monogusto. Ormai c’è una liberalizzazione che ha investito il mercato dello yogurt: senza grassi, con grassi, con la frutta, con le fibre, con il riso, greco a peso, greco già confezionato. E così via. Ciascuno con il suo bravo sapore. Ma quello che il mio palato ricordava apparteneva ad una piccola tradizione, che non si può neanche definire culinaria. Lo preparava ogni tanto di sera mia nonna materna. Si chiamava Clara, era stata una delle prime donne laureate in chimica, quando la Sapienza era ancora accanto a Palazzo Madama e forse anche i suoi studi l’avevano aiutata a conservare con gli anni un’antica ricetta sarda. Ricetta per il latte di pecora, secondo mia sorella Anna. Armeggiava la sera con latte, ovviamente vaccino, dosava fermenti e quantità in tazze che avvolgeva in copertine di lana, e poi collocava il tutto su un termosifone – nelle notti d’inverno a Torino il riscaldamento restava acceso. La mattina era un gioco. Si andava subito a guardare cosa fosse successo: in qualche tazza c’era affettivamente lo yogurt, denso, un po’grumoso, direi prezioso perché unico. In qualche altra tazza c’era del latte dal colore un po’ strano, ma ugualmente buono. Apparirà bizzarro il fatto che un sapore così povero e lontano, proveniente dalla povera Sardegna delle capre di un secolo e passa fa, sia stata la mia prima arma di resistenza contro un digiuno forzato che non auguro a nessuno, neanche al peggior nemico. Eppure spesso la semplicità ha una carica infinita-
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Quando andavo in Val d’Aosta, compravo la fontina al momento della partenza per Roma e poi giù una gran corsa in macchina per mangiarla già la sera stessa, prima che smettesse di essere fontina mente maggiore delle più complicate elaborazioni.
In una di quelle notti di dormiveglia, in cui la veglia prevale di gran lunga sul sonno, mi sono ricordato di un altro sapore povero e smarrito. Mentre il mio stomaco era disoccupato e il mio intestino inerte, ho sentito all’improvviso l’amarognolo dei cetrioli che si gustava prima che senza troppi clamori venissero modificati. I cetrioli allora – parlo di almeno vent’anni fa - erano bitorzoluti e bruttissimi. Non a caso si diceva:“Hai il naso a cetriolo”. Nell’orto, a ben cercare, c’era anche qualche cetriolo accettabile allo sguardo, un po’ affusolato, ma era in minoranza. La maggioranza era composta dagli stortignacoli. Ma la loro caratteristica più rilevante non era questa. Era un’altra. Per mangiarli biso-
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gnava tagliarne le punte estreme e strofirnarle un po’ per eliminare una bavetta bianca e amarognola. Per non parlare delle scorze che solo i più ardimentosi mangiavano. I più raffinati, di quella bavetta bianca, un lattice, lasciavano qualche goccia: un retrogusto amarognolo che oggi non c’è più e che allora era gradito nell’insalata mista, costituita da radicchi poco teneri e bisognosi di aceto. Mi rendo conto che la mia memoria mi ha restituito due sapori estremamente poveri, direi miserabili. Mi sono chiesto perché in questi venti giorni di accanita resistenza al digiuno, non mi siano stati utili sapori più ricchi, depositati nella memoria del palato. Perché, ad esempio, non mi sia servita un’aragosta comprata a Ponza qualche anno fa. Confesso: era viva e vegeta, quanto mai polposa e saporita. Il
meglio che ti possa proporre il Mediterraneo. Eppure, quella costosa soddisfazione del palato cedeva il passo ai cetrioli, allo yogurt, ai radicchi. Sono stati i sapori poveri quelli che in questi giorni mi hanno“riempito”di più. Chissà perché. Quello che so è che mi hanno fatto compagnia, con la loro semplicità, e mi hanno tolto ogni ansia. E mi hanno salvato da quella malattia aggiuntiva che è la fame. Il bello è che tanto più erano semplici quanto meglio funzionavano.
Mi sono ricordato anche della mela di Dubrovnik. L’acquistai per fare merenda arrivando sull’isolotto di Lukum, dove ormai impazzita Carlotta consumò i suoi giorni aspettando il ritorno di Massimiliano D’Asburgo che aveva commesso l’errore di “fidarsi” e aveva lasciato il castello di Miramare per finir fucilato in Messico. Arrivai lì nel pomeriggio e, sceso dalla barchetta che funzionava da traghetto, m’imbattei in un venditore di mele. Non di quelle tipo Melinda, rotonde e tutte uguali, ma melacce bitorzolute, di quelle dall’aspetto duro, tosto, che il contadino forse non era riuscito a vendere al mercato tanto erano brutte. Ne presi una sola e cominciai a masticarla come quando da ragazzo salivo
sugli alberi, per addentare quelle acerbe e succhiarne il succo dissetante, sputando la polpa. L’ultima mela dal sapore di mela che ho assaporato. Non era cibo, era gusto puro. Si sparse sul palato una sensazione di grande freschezza: svolgeva il suo compito storico della mela, quello di essere aspra. La pera aspra non è commestibile, è immangiabile. Così come il caco, che non va giù, che allappa. Ma la mela aspra è un unico ormai introvabile, sostituita da un concentrato di zuccheri, più aperto alla domanda prevalente del mercato. Così il ricordo di quella di Dubrovnik è stato un altro sapore che ha sostituito il cibo. E siccome venti giorni sono tanti, ne ho parlato con quelli che mi venivano a trovare. Mi sono allora accorto che i miei interlocutori erano imbarazzati perché per loro – quando uscivano dall’ospedale – quei sapori si trasformavano in cibi, in roba da mettere sotto i denti, mentre io restavo lì da solo a ricordare ciò che era andato perduto, allo spreco avvenuto non solo per il cambiamento dei gusti, ma anche per le leggi sbagliate che si sono fatte.
Per associazione di idee mi ha raggiunto anche la fontina. C’era una leggenda sulla fontina – di
cultura
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In un archivio c’è ora un biglietto di Einstein al professor Fubini che si conclude con poche significative parole: “Mi ringrazi poi molto la sua signora per la meravigliosa cena che mi ha offerto, in particolare per gli agnolotti piemontesi che non avevo mai mangiato”. Se erano rimasti sul palato di Einstein, figurarsi sul mio
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momento di piacere del palato. Ho resistito così, nelle notti e nei giorni del mio lungo digiuno, facendo rientrare nella mia vita alcuni sapori. Adesso faccio il gradasso, sto qui a decantare il cetriolo quando era amaro, scrivo di gusti e retrogusti, ma so bene che il cibo è una cosa importante, che in qualche occasione anche riuscire a mangiare un insipido semolino può fare molto bene. Non sputo sulla fame nel mondo. Ma ho contuinato lo stesso ad inseguire ricordi irraggiungibili. Così, risalendo nel tempo, ho ritrovato anche sapori più complessi, non solo a quelli poveri.
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A Dubrovnik acquistai una mela per fare merenda arrivando sull’isolotto di Lukum. L’ultima mela dal sapore di mela che ho assaporato. Non era cibo, era gusto puro quelle leggende però che sono certezze: mai portarla aldisotto dei 1.500 metri di quota perché il suo sapore, in meno di 24 ore, svanisce. Quando andavo in Val d’Aosta, la compravo al momento della partenza per Roma e poi giù una gran corsa in macchina per mangiarla già la sera stessa, prima che smettesse di essere fontina. Ma
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questa è una vecchia storia. La modernizzazione della Vallèe con la costruzione di strade sterrate in quota, chiuse al traffico privato e aperte solo alle cisterne autorizzate a raggiungere gli alpeggi, ha fatto sì che in estate la fontina non venisse più prodotta oltre i 2000 metri. Una volta le mandrie delle mucche lasciavano le stalle dei
paesi al disgelo e alla fioritura dei pascoli. C’era la fioritura delle genziane? Ecco che le mucche regalavano fontina che sapeva di genziana. E così via. L’estate era un susseguirsi di gradazioni, intonazioni, gusti. I pastori mungevano e subito dopo iniziava la confezione del formaggio. Sentii parlarne con emozione. Ora il latte viene portato quotidianamente a grandi caseifici che stanno molto più in basso, anche sotto i mille metri. Viene mescolato, privato delle sue sfumature, delle sue preziose diversità. Un formaggio come un altro. O quasi. Non è più un prezioso
La mia famiglia paterna non aveva grandi tradizioni culinarie, ma c’erano almeno due o tre cose che si tramandavano. Nel ramo ebraico piemontese, poi trapiantatasi in Liguria, aveva solide radici la mitologia dell’agnolotto, quello ripieno di carne, di brasato, e presentato in tavola con burro fuso e parmigiano. L’agnolotto era un elemento rituale, rappresentava la ricchezza, la festività, la gioia. Ricordo però che se l’agnolotto era il signore, la vera “signora” della tavola dei miei nonni era la salsa di pomodoro. Non so perché, ma non mancava mai in un bellissimo bricchetto di porcellana bianco e blu, piazzato proprio davanti al posto del capofamiglia. Non serviva per condire la pasta, ma la si metteva su tutto: dalle melanzane fritte alle cotolette impanate. Ricordo ancora la voce di mio nonno, ormai quasi completamente senza vista, che chiedeva rivolgendosi a mia nonna: “Dov’ il toumàt?”. Non era la salsa, era il “toumàt”, direttamente il pomodoro in piemontese. Il bricchetto di porcellana bianco e blu veniva invece riempito di una soffica maionese appena fatta quando a tavola appariva il nasello, un altro caposaldo di quella tradizione gastronomica famigliare. Riconosco che non è un gran pesce il nasello, è
comunque leggerissimo, ha filetti bianchi e teneri. Un vecchio pescatore ne trovava di grandi trascinandosi lentamente nell’acqua proprio davanti agli scogli, oltre l’Aurelia, su cui si affacciava la nostra casa. Spesso lo guardavo e pensavo che prima di sera sarebbe suonato il campanello, che mio nonno avrebbe annusato il pescione ancora agonizzante, che mia nonna lo avrebbe pagato contrattando sul prezzo e che poi non sarebbe mancata un’ordinazione successiva per un’altra occasione da lì a qualche giorno. Solo ora mi sono accorto che il nasello è poco più di un merluzzo, ma sul mio palato è rimasto il gusto di quella leggerezza ligure che inizia dall’olio e pervade tutto il resto.
Mi faccio da solo l’obiezione. So che è stata una resistanza facile al digiuno forzato. Non avevo altri strumenti. Il più stupido sarebbe stato quello di rimpiangere il cibo vietato. O di pensare un po’ a quel che ormai pensano tutti, sulla gastronomia trasformata in arte, in super-consumo, con l’invenzione di nuovi sapori, con l’attenzione al “mangiare lento”. Per riempire i miei giorni e le mie notti di digiuno mi sono invece lasciato trascinare indietro, anche con il piccolo vantaggio di ritrovare luoghi, momenti e persone. Ecco, allora, che a proposito di agnolotti a casa di una mia zia – si chiamava Anna Fubini Ghiron – era appeso alla parete della sala da pranzo un enorme e prezioso piatto di ceramica.“Nel dicembre del 1938 avevamo deciso di riempirlo di agnolotti, e di mangiarli tutti, se non fosse scoppiata la guerra”, mi venne raccontato una sera con un po’ di rimpianto. Ovvio che quel piatto rimase sempre appeso alla parete. Meno ovvia è una storia che apppresi molto più tardi. Zia Anna Fubini Ghiron era una signora ricca che passava metà dell’anno in America e metà in Italia. Aveva sposato un grande matematico, il professor Guido Fubini, e nel ’39 erano riusciti a rifugiarsi negli Stati Uniti. Lui era stato chiamato ad insegnare a Princeton e cominciò a frequentare Albert Einstein, con cui comiciò a scambiare opinioni e ricerche. In un archivio c’è ora un biglietto di Einstein a Fubini, una pagina di appunti a conclusione di una discussione iniziata qualche giorno prima, biglietto che si conclude con poche significative parole: “Mi ringrazi poi molto la sua signora per la meravigliosa cena che mi ha offerto, in particolare per gli agnolotti piemontesi che non avevo mai mangiato”. Se erano rimasti sul palato di Einstein, figurarsi sul mio. Questo episodio, quando mi è tornato in mente, ha cancellato d’un tratto la depressione e – diciamolo francamente – anche l’umiliazione di dover aspettare l’infermiera giusta per potere ottenere almeno qualche povera e insapore scaglia di ghiaccio da tenere sotto la lingua.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
”Malascuola”, basteranno gli aumenti di stipendio? LO SPIRITO DI COLLABORAZIONE TRA FAMIGLIA E DOCENTI CONSENTIREBBE IL SALTO DI QUALITÀ E’ davvero impensabile crdere che la crisi della scuola possa risolversi soltanto aumentando gli stipendi ai professori. La crisi è talmente profonda, deriva da tante di quelle cause che ci vorranno anni, e non pochi, perché possano essere avvertiti i segni di risanamento, se risanamento ci sarà. Dobbiamo comprendere che il degrado della scuola è esso stesso causa, una delle cause, del degrado della nostra società. Certo l’aumento dello stipendio è importante, se non altro perché costituisce un segnale che chi governa è sensibile ai problemi della scuola, ma è soprattutto il recupero dell’autorità dell’insegnante che va realizzato. E qui le istituzioni possono fare poco. E’ l’insegnante stesso che deve provvedere, e ancor prima la famiglia. E’ certamente lo spirito di collaborazione tra famiglia e classe insegnante che potrà consentire alla scuola il salto di qualità. Se non insegnamo già in famiglia che la scuola è importante, che le promozioni vanno guadagnate sul campo, che l’insegnante va rispettato, non si va da nessuna parte. Quando leggiamo che un genitore picchia l’insegnante che ha osato bocciare il suo ragazzo, lo sconforto è davve-
LA DOMANDA DI DOMANI
ro grande. Ecco perché azzardo una proposta: signor direttore, molto, ma molto mi creda, può fare la stampa. Cominciate voi giornalisti a dire chiaramente come stanno le cose, quali sono le origini di questa ”malascuola”.
Nicola Giacometti - Bologna
I PROFESSORI DEVONO PRETENDERE RISPETTO, AMARE E FAR AMARE LA MATERIA CHE INSEGNANO Da ex insegnante su questo argomento potrei scrivere un trattato. Poiche però quando ancora ero in servizio, venivo preso a maleparole dagli stessi miei colleghi se affermavo che la causa prima della crisi della scuola originava dalla ignoranza e dall’indifferenza della classe insegnante, approfitto della domanda che ci rivolge liberal per dire la mia. Io, prima di fuggire da questa scuola, insegnavo matematica in un liceo classico. La matematica, si sa, non è molto amata dai giovani, se non altro perché di soggettivo ha molto poco e quindi non è facile per gli studenti accusare l’insegnante di non sapere. Però possono certamente dire: «Non sa insegnare, non ce la fa capire!». Ecco il punto. L’insegnante deve far comprendere. Deve però amare il suo mestiere, deve far amare la disciplina che insegna. Allora guadagnerà la stima e il rispetto degli studenti. Non sarà l’aumento di qualche euro a motivare l’insegnante.
Fabio Salmini - Venezia
PRIMA L’EDUCAZIONE ALL’ISTRUZIONE, POI LA RICONOSCENZA VERSO GLI INSEGNANTI
Intercettazioni, giusti tre anni di carcere a chi le pubblica? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Bastasse davvero l’aumento di stipendio agli insegnanti a risollevare le sorti di una moribonda italiana come è la scuola. Senza dubbio può essere un inizio, oramai la categoria è demotivata. Anche il ritorno degli esami di riparazione può aiutare i ragazzi a prendere la scuola di nuovo sul serio, proprio come era un tempo. Ma ciò che continua a mancare è una vera e propria educazione all’istruzione. Ci vuole prima di tutto il rispetto verso il sapere. Poi quello verso gli insegnanti. Quindi verso la famiglia. Che spende soldi per lo studio.
FATTA LA COSTITUENTE… ORA BISOGNA FARE I COSTITUENTI Il primo vero “scoglio” di un processo costituente rimane pur sempre il personalismo e la legittima aspettativa dei più (o meno titolati). Questo fortunatamente non sembra essere il grande problema della neonata Costituente popolare di Centro, almeno a livello nazionale e delle sue relative leadership. Casini e Cesa per l’Udc, Adornato e Sanza per liberal, Pezzotta e Tabacci per la Rosa Bianca e De Mita per i Popolari Democratici (della Campania) sono oggi Uomini, storie, idee, valori e consenso “parallelo” che converge verso un nuovo soggetto politico, moderno, cristiano, liberale per il bene comune del nostro Paese. Un patrimonio comune per far nascere il nuovo grande soggetto di centro, moderno e alternativo al sistema “VeltruSconiano” in linea con la storia e la tradizione della maggioranza del popolo dei mode-
L’ACQUA È POCA ...
L’artista indiano Sudarsan Pattnaik innaffia la sua scultura chiamata ”Riscaldamento globale”, al festival internazionale della scultura di sabbia a Berlino. Assieme al suo allievo Jitendra Kishore Jagadev, Pattnaik s’è aggiudicato il primo posto
BASTA CON GLI EX DC NELLE FILA DEL GOVERNO Ne basta un pizzico ma non deve mai mancare. Cosa? Il sale? Macché, il politico ex democristiano al governo. Ma siamo sicuri che un esecutivo privo di gente con la patente da ex democristiani sia proprio un male? Al solo pensiero di alcuni ex democristiani di nostra conoscenza, tutti pompa, forma e servilismo, ci viene la nostalgia per i buoni, i capaci e gli intelligenti presenti anche tra le fila degli atei, degli agnostici e persino dei comunisti.
Pierpaolo Vezzani
SARTORI, ECO E LE NUOVE IDEE SU SILVIO BERLUSCONI Chi legge Sartori e Eco è abituato al disprezzo e alle offese delle idee e delle persone non di sinistra. Ma dopo la vittoria del cen-
dai circoli liberal Gaia Miani - Roma
rati Italiani e del Partito popolare Europeo. Se un problema c’è questo lo vedo a livello locale. Si sa, il territorio ha le sue regole, i suoi usi e costumi ma, soprattutto le sue liturgie con la forma che sovrasta i contenuti. Aristotele diceva: «Io senza le regole non sono nessuno», bene bisogna fare subito le regole… e stabilire i principi. Partecipare da protagonisti, ad ogni livello di governo, al processo costituente deve essere un dovere ma anche un diritto per tutti. Il principio si chiama “inclusione” e “pari dignità” di rappresentanza alle varie componenti che oggi formano la Costituente di Centro, certamente in modo proporzionale, ma comunque chiaro e condiviso da tutti. Liberal da sempre lavora contro i “pennacchi” e forse per questo non tutti ci amano... essere conta per noi ancora più dell’apparire.
trodestra, i Nostri hanno superato le aspettative e le idee nuove che hanno espresso su Silvio Berlusconi, ci hanno davvero imbarazzato.Tanto che è difficile, per noi, decidere se continuare a meravigliarci per come si comportano i docenti e i sapienti che ricevono calorosi applausi dalla sinistra o doverci rassegnare al fatto che essi, al giorno d’oggi, per professione, paiono imitare gli stupidi.
Lettera firmata
EQUIPARARE LE BANCHE COOP AGLI ALTRI ISTITUTI DI CREDITO Sarebbe opportuno che il nuovo governo mettesse le banche di credito cooperativo sullo stesso livello di tutte le altre banche, mettendole su un piano di normale concorrenza con gli altri istituti di credito.
Gianna Incardona - Roma
Ma, non di solo pane vive l’uomo e così, credo sia giunto il tempo che il merito vinca sul metodo e la Costituente di Centro sia anche terreno fertile per premiare “i migliori”, con ruoli e compiti di grandi responsabilità e valore politico, sociale e culturale. Vincenzo Inverso
SEGRETARIO ORGANIZZATIVO CIRCOLI LIBERAL
APPUNTAMENTI TODI - 10 LUGLIO 2008 Ore 12.00, Hotel Bramante Prossima riunione nazionale dei coordinatori regionali e dei presidenti dei Circoli liberal
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Un cuore innamorato non teme i pericoli Mi chiedi solo un semplice «sì»? Una parola così piccola, ma così importante. Come potrebbe un cuore colmo di amore ineffabile quale è il mio non dire questa piccola parola con tutte le sue forze? La dice e la mia anima più segreta non fa che bisbigliarti. Potessi descriverti le pene del mio cuore, le molte lacrime, oh no! Forse il destino vorrà che ci rivediamo presto e allora... le tue proposte mi paiono rischiose, ma un cuore innamorato non tiene conto dei pericoli. Ancora una volta ti dico «sì», che Iddio voglia trasformare il mio diciottesimo compleanno in un giorno di afflizione? Oh no! Sarebbe troppo orribile. Inoltre da tempo sento che «deve essere così», nulla al mondo mi persuaderà ad allontanarmi da ciò che ritengo giusto e dimostrerò a mio padre che un cuore giovanissimo può anche essere risoluto nei suoi propositi. Clara Wieck a Robert Schumann
LA NASCITA A FREDDO DEL PD FU UN COMPROMESSO STORICO Si è cominciato a discutere sul futuro del Pd, nei giorni scorsi, dopo la dichiarazione di Pierluigi Castagnetti (ex Ppi) sul quotidiano Europa dove ha detto che gli ex Dl mai e poi mai sarebbero entrati nel Pse, seguito pedissequamente dai vari Parisi, Rutelli, Marini, Fiorono eccetera (Dario Franceschini non ha profferito verbo). Gli ex comunisti Pds, Ds e ora padroni assoluti del Pd - Veltroni, Fassino, D’Alema, Latorre, Finocchiaro eccetera - hanno sostenuto la fattibilità e probabilità di entrare nel Pse, come Pd-Pse. E ancora oggi le due parti dello schieramento politico di sinistra si stanno affannosamente e duramente scontrando sul tema (che però mi sembra un pretesto che nasconde delle verità ancora più grandi). La verità vera che qui mi preme sottolineare non è tanto la (prossima) fine del Pd, quanto il suo inizio: la famosa data di nascita del 14 ottobre 2007, quando la nascita del nuovo partito ha riguardato esclusivamente le nomenklature dei Ds e della Margherita, senza coinvolgere le rispettive basi popolari e tutte le
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
14 giugno 1777 Il congresso orientale di Filadelfia adotta la bandiera a Stelle e Strisce come vessillo nazionale americano 1837 Muore il poeta Giacomo Leopardi. Avrebbe compiuto 39 anni tra 15 giorni 1928 Nasce Ernesto ”Che”Guevara, rivoluzionario argentino 1940 Le truppe tedesche entrano a Parigi. Contemporaneamente occupano la Polonia 1941 Deportazioni di massa ordinate dalle autorità dell’Unione Sovietica si svolgono in Estonia, Lettonia e Lituania 1962 Viene fondata l’Esro, organizzazione europea di ricerca spaziale 1968 Muore Salvatore Quasimodo, poeta italiano 1973 A Torino la nazionale italiana di calcio batte l’Inghilterra per 2-0. Le reti sono di Anastasi e Fabio Capello 1977 Inizia il processo contro la colonna milanese delle Br 1982 Nella guerra per il possesso delle isole Malvinas, l’esercito argentino si arrende alle truppe inglesi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
altre e diverse forze della sinistra democratica e riformista. Secondo questa ipotesi, il Pd è nato dalla fusione a freddo, senza il calore della partecipazione emotiva dei militanti e degli elettori, tra i massimi vertici dei due partiti. Il precedente dell’unificazione socialista tra Psi e Psdi del 1966 è fin troppo illuminante (nel ’69 ognuno riprese la propria strada). Nel Pd succederà quel che avvenne allora, perché la fusione - che poi è la moderna realizzazione dell’antica formula del compromesso storico del 1978 - è avvenuta tra due gruppi dirigenti di partiti che sono entrati nel nuovo contenitore senza un dibattito politico e culturale chiarificatore delle due diverse posizioni ideali e programmatiche, creando così i presupposti del rapido e inevitabile sfacelo del mastice che ha saldato l’affrettata costituzione del cosiddetto Partito unico dei democratici italiani. C’era una volta la Margherita, e io credo che molto presto tornerà a fiorire sulle ceneri della scatola vuota degli ex Pci e degli ex Dc-Ppi.
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
PUNTURE Gino Agnese, presidente della Quadriennale d’Arte di Roma, si rivolge al pubblico per avere uno slogan. Ecco il mio: “Come diceva Longanesi, non comprate quadri d’arte contemporanea, fateveli in casa”.
Giancristiano Desiderio
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Lo schiavo ha un solo padrone; l’ambizioso ne ha tanti quante sono le persone utili alla sua fortuna JEAN DE LA BRUYÈRE
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Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di CINQUE PIÙ DUE? Se sul fronte interno il governo Berlusconi aveva dato più che un segnale, su vari fronti: economia, assetto istituzionale, sulla sicurezza. Dal punto di vista della politica estera poco, sin qui, si era visto. Mancavano, per così dire, quelle occasioni degne di essere commentate. La prima mossa la si è vista durante la visita del Presidente iraniano a Roma durante il vertice della Fao. In quella sede il governo ha mantenuto una linea di condotta intransigente nei suoi confronti, negando ogni contatto. La cosa non deve essere sfuggita sia agli americani sia agli israeliani che, in un certo senso, si sono compiaciuti di quanto manifestato. Da un lato gli americani hanno notato come il comportamento italiano del centrodestra non sia così difforme da quello assunto nel quinquennio 2001-2006, dall’altro gli israeliani hanno avuto modo di osservare come l’equidistanza D’Alemiana del governo delle sinistre tra Israele e Palestina sia ormai un ricordo lontano. I fronti su cui il nostro governo è chiamato ad esercitarsi in politica estera sono sostanzialmente due. L’ammissione al gruppo dei “5più1” relativamente alla questione del nucleare iraniano e quello dei caveat in Afghanistan. L’uno complementare all’altro. L’Italia ha già fatto intendere di essere ben disposta a mutare le regole di ingaggio in quel paese ricevendone, come “contropartita”, l’ingresso nel gruppo che conta sulle trattative a base di uranio dell’Iran. La situazione non è però così semplice come sembra. Ci sono, come sempre, le solite fazioni. Se vogliamo quelle storiche. Dal un lato l’America sarebbe favorevole, come in passato, all’ingresso dell’Italia nel gruppo, ben cono-
scendo l’aiuto in termini militari che il cambiamento delle regole d’ingaggio sortirebbe in Afghnistan. Dall’altro c’è il solito rapporto conflittuale con la Germania della Merkel che, come in passato, si oppone alla ribalta italiana. Allo stato sembra prevalere la linea di condotta teutonica, anche perché gli americani non hanno alzato la voce più di tanto, tuttavia appare chiaro, sul fronte interno, che il solo Frattini è il vero interessato a mettere la sua firma sul contrastato ingresso nei “5più1”. Del resto c’è da capirlo. Il ministro degli esteri italiano, come già successo in passato, vive di ombre riflesse. È costantemente appannato dalla figura ingombrante del Prtemier che ha sempre mantenuto rapporti con i capi di altri paesi che vanno ben oltre la diplomazia. In alcuni casi si può infatti parlare, piaccia o meno, di vera amicizia. Proprio questo aspetto infatti è quello che non determina preoccupazione in Berlusconi. Egli, se ne venisse data la opportunità, sarebbe ben lieto di poter dare il suo contributo in una veste istituzionale all’interno del gruppo, ma parimenti sa benissimo che anche dall’esterno il suo apporto potrebbe essere determinante. Non a caso il concetto è stato ribadito durante il commiato statunitense a Roma. Tra i consueti sorrisi e le battute di Berlusconi si è perlato proprio di questo. Il Presidente americano conosce infatti i buoni rapporti tra Roma e Teheran ed è intenzionato a sfruttarli comunque anche se l’Italia non dovesse far parte del gruppo che conta. C’è dunque da notare come, da ogni parte si guardi la moneta, Berlusconi abbia compiuto, in attesa di un bel “sei” pieno, un buon lavoro.
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PAGINAVENTIQUATTRO Dopo il pareggio tra Italia e Romania agli Europei di calcio
Ora grazie ai Rom rischiamo noi di essere espulsi DALL’EUROPA di Gualtiero Malagodi l pacchetto sicurezza affidato a Del Piero e Toni. Dalla legge Bossi-Fini a quella Donadoni-Buffon. Il ct romeno Piturca aveva concordato che ogni gol italiano dovesse valere doppio per non dispiacere il governo Berlusconi. L’umore del milione di romeni residenti in Italia era vario. I tifosi si sono ritrovati e invece delle fantozziane birre e frittatone hanno preparato molotov, bastoni e catene. Pronti a entrare in azione, zitti zitti al primo gol di Mutu. I campi rom avevano già predisposto le misure antincendio per respingere gli attacchi delle ronde azzurre. Le badanti, dopo aver messo a nanna i nonnetti, si sono radunate davanti alla tv per esultare ai
I
sta. Ma le ronde italiane respingono l’assalto e il nerazzurro Chivu, ricordandosi gli agi milanesi, ci regala una rimessa laterale. Alessandro Del Piero, capitano dell squadriglia, cerca di organizzare i suoi. Camoranesi lo lancia, lui cerca di colpire di testa da tre metri, ma il colpo è fuori. I romeni scendono in massa e invadono il centrocampo italiano con tutti i mezzi: autobus, furgoni e macchine di fortuna. Scende Mutu e tira forte. La porta la chiude Buffon. I romeni attaccano a testa bassa. Il legno li ferma e negli incidenti successivi Radoi e Rat perdono la testa. Il primo è costretto a uscire, l’altro sanguinante continua la battaglia. Dopo un po’ il commissario Piturca cambia Radoi e urla: «Dicaaaa».
Una battaglia infinita, che dal pacchetto sicurezza approda ai campi da gioco. E si conclude con un nulla di fatto. Con buona pace di badanti, muratori, operai, nonnetti, imprenditori edili e padroncini dribbling di Nicolita e Cocis. Ma la paura della vendetta del vecchietto italico le ha bloccate e fatto sperare fino alla fine che quell’oriundo di Camoranesi segnasse. Alla fine, invece, grazie alla magnanimità di Mutu (che infatti si è mangiato il rigore decisivo) tutto si è risolto con un nulla di fatto. Evitando crisi diplomatiche, invasioni pacifiche di campo (nomade) e definitivo tramonto dell’Unione europea (a quello ci hanno pensato gli irlandesi). Uno a uno e palla al centro.
Che si sareb be trattato di una battaglia si è capito dalle prime battute. Non solo per superare la prima fase dei campionati europei di calcio. Ma soprattutto per una sorte di supremazia - si può dire razziale? - tra due popoli destinati, quasi costretti, a convivere in un fazzoletto di terra. Le Armate Gialle della Romania, senza alcun accenno di sudditanza psicologica, partono forte. Già al primo minuto Mutu è pericolo di te-
Verso la fine del primo tempo Toni tenta lo sfondamento al centro, ma la Romania difende le posizioni e riesce a sventare la minaccia. La morsa si stringe e Toni mette nella rete. Ma l’arbitro annulla e manda tutti al riposo. Quando ricomincia la schermaglia, dopo dieci minuti Mutu, grazie a una zampata di Zambrotta, mette tutti a tacere. La reazione della brigata donadoniana è immediata. Incursione e pedata di Panucci. L’equilibrio tra italiani e romeni è presto ristabilito. Con buona pace di badanti, muratori, operai, nonnetti, imprenditori edili e padroncini. Per dialogare con uno slang più comprensibile arriva Cassano che mette subito in subbuglio la zona romena. L’asse meridionale viene rafforzato dall’ingresso di Quagliarella. Ma l’arbitro Tom Henning fa un bel regalo ai gialli. Rigore per la Romania. I bastoni cominciano a roteare, le molotov sono quasi pronte, ma il piede di Buffon fa il miracolo. Si continua ad attaccare e a difendersi senza che succeda nulla. Fino alla fine. Nessuno festeggia, non ci sono feriti e anche oggi i vecchietti potranno avere chi li porterà a fare la passeggiata al parco. E ora, grazie ai rom possiamo essere noi espulsi dall’Europa.