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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

La sua carta vincente: l’appoggio di cinque Stati-chiave

e di h c a n o cr

Vi spiego perché John McCain sarà il prossimo presidente

di Ferdinando Adornato

di Michael Novak

IL DECISIONISMO TRADITO

L

Prima annunci spot, poi smentite e passi indietro. Su tutto: reato d’immigrazione, Rete 4, intercettazioni, uso dell’esercito. E la confusione aumenta, anche a causa delle norme salva-premier…

Il governo del gambero alle pagine 2 e 3

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ISSN 1827-8817 80617

a competizione per le elezioni presidenziali americane si è dunque ridotta a due contendenti: il giovane e carismatico senatore Barack Hussein Obama, democratico dell’Illinois e l’esperto, piuttosto equilibrato, senatore John McCain, da tempo repubblicano indipendente dell’Arizona. Le primarie sono state lunghe, agguerrite e costose, ma il Paese ha imparato molto dai tre candidati che si sono dati battaglia fino al 7 giugno, quando la grande favorita degli scorsi quattro anni alla nomination democratica - la senatrice di New York Hillary Clinton - ha ammesso pubblicamente di essere stata sconfitta. Obama, infatti, ha raccolto 260 delegati in più, numero assolutamente sufficiente e utile per presentarsi agli elettori (e alla convention) a testa alta. Il senatore del’Illinois, lo abbiamo visto, è arrivato dal nulla; chi avrebbe mai creduto, solo un anno fa, nella sua vittoria? La possibilità non è stata presa seriamente in considerazione finché non ha cominciato a parlare, riunendo sempre grandi folle (a volte 30mila persone, talvolta anche il doppio), e a ricevere una valanga di fondi, soprattutto attraverso internet, anche se va detto che un uomo facoltoso come George Soros ha contribuito in modo determinante soprattutto nei primi tempi, quando era più necessario. Dunque dove abbiamo sbagliato? s eg ue a pa gi na 11

Il grado di apertura del mercato in Italia

Il segretario del Pd alza la voce

La provocazione dello storico Sechi

Veltroni: il dialogo è a rischio

Liberalizzate gli archivi di Stato!

di Riccardo Paradisi

di Salvatore Sechi

di Alfonso Lo Sardo

di Carlo Stagnaro

Il leader del Pd parla di una serie di “strappi inaccettabili” da parte del governo: dall’immigrazione clandestina ai soldati nelle città, dal decreto salva-Rete4 al lodo Schifani. E aggiunge il dialogo è a rischio.

È il momento, per il governo Berlusconi, di mostrare il carattere non innovativo, se non addirittura malthusiano, della legge sulla liberalizzazione degli archivi dei servizi segreti varata nell’agosto dell’anno scorso.

Alle elezioni provinciali che si sono tenute in Sicilia ha vinto il centrodestra che nell’isola può contare, a differenza della situazione nazionale, sull’apporto dell’Udc di Casini.

L’Italia è libera a metà. L’indice delle liberalizzazioni 2008 conferma i risultati raggiunti l’anno passato, e dipinge un Paese che ha iniziato lo sforzo di aprire la sua economia alla concorrenza.

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nell’inserto Nord-Sud a pagina 12

MARTEDÌ 17

GIUGNO

Sicilia: percentuali che vanno dal 60 al 75 per cento

Otto province su otto per il “vecchio” centrodestra

2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

112 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Istituto Bruno Leoni: liberalizzazioni, la riforma infinita

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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prima pagina

Prima l’annuncio poi la frenata: ma così il governo tradisce il decisionismo

Go and stop, la nuova moda di Errico Novi

ROMA. Settanta deputati, quaranta senatori. Un vantaggio da fare venire le vertigini. E infatti viene il dubbio: possibile che la maggioranza si inceppi per una questione di imbarazzo? Ci sono già troppi esempi di retromarcia. È uno stranissimo modo di procedere. Prima si mette sul tavolo un’ipotesi, che si tratti di intercettazioni da circoscrivere, o di eserciti da schie-

re? Rotondi non ritiene che si tratti di un problema: «Gli ostacoli di cui si parla sono relativi, credo. Finora sulle questioni concrete la Lega non si è mai messa di traverso».

tato di far scoppiare un finimondo, sugli emendamenti che sospendono per un anno molti processi e tra gli altri il Berlu-

«C’è un lavoro faticoso da compiere per restare coerenti con il profilo scelto da Berlusconi: un solo alleato, la Lega, e un interlocutore privilegiato di opposizione, il Pd. Bisogna garantire questi rapporti»

Spiega il ministro all’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, che l’epifenomeno «è nel profilo stesso che Berlusconi ha scelto. Da una parte una sola alleanza, quella con la Lega, perché il resto della maggioranza è racchiusa tutta sotto le stesse insegne del Pdl, dall’altra un interlocutore privilegiato che è il Pd. E allora con ogni scelta si deve fare in modo da esaltare al massimo la sintonia con Lega e da non compromettere il dialogo con il maggiore partito di opposizione. Tutto questo naturalmente implica un lavoro molto faticoso». E non c’è modo di rendere il processo più fluido e trovare una formula migliore per tenere insieme alleato e interlocuto-

oppose all’alleggerimento della pressione nelle carceri, ma come fa ad adottarla che l’indulto lo ha votato?». Questo come

sconi-Mills. Si tratta di due modifiche al decreto sicurezza presentate da altrettanti presidenti di commissione targati Pdl, Carlo Vizzini e Filippo Berselli (al vertice rispettivamente di Affari costituzionali e Giustizia). Nella definizione dei ”ruoli d’udienza”, cioè del calendario dei processi, si dà precedenza assoluta ai delitti puniti con l’ergastolo o pena superiore ai dieci anni, e in ogni caso per tutti quelli legati alla criminalità organizzata e ai processi per direttissima. Negli altri casi in cui si è in uno stato compreso tra l’udienza preliminare e il dibattimento di primo grado resta tutto sospeso per un anno, senza che per questo decorrano i termini di prescrizione. Il capogruppo leghista a Palazzo Madama, Federico Bricolo, offre un’interpretazione illuminante, tanto che è positiva: «È l’unico modo per risolvere l’ingolfamento giudiziario provocato dall’indulto». Chiave semantica al limite della genialità: il Carroccio in teoria dovrebbe sentirsi in imbarazzo per l’introduzione di una variante considerata ad personam dall’opposizione. Se obbedisse alla sua natura dovrebbe mettersi contro l’alleato, dissociarsi esattamente come avvenne due anni fa per l’indulto. E invece trova il modo di dirsi ri-

Geniale, appunto. Stavolta il Carroccio non si oppone. Ma non è detto che basti a garantire l’immagine della maggioranza. Dall’altro fronte arriva di tutto. Dalla irrefrenabile rabbia di Antonio Di Pietro («il comportamento del centrodestra è doppiamente criminogeno»), al muro alzato da Pier Ferdinando Casini («c’è qualcosa di nuovo nell’aria, anzi di antico… il governo ritiri gli emendamenti, non si tratta di una priorità»), all’assoluta indisponibilità dell’interlocutore privilegiato Pd. Dal partito di Veltroni oltretutto il senatore e costituzionalista Stefano Ceccanti fa notare che la necessità di riparare i danni provocati dall’indulto «è un’argomentazione che può reggere per la Lega, che due anni fa si

mendamento sulla sospensione dei processi. Si è cercato di spostare l’attenzione per inserire surrettiziamente un provvedi-

PIERO IGNAZI «Le retromarce si spiegano anche con lo sconcerto che certi provvedimenti provocano in alcuni settori dell’opinione pubblica, non rumorosi ma capaci di farsi ascoltare. Ma il nodo più pesante è l’Europa»

Certo, ieri il Carroccio ha evi-

GIANFRANCO ROTONDI:

rare in pattuglia, o di clandestini da arrestare a prescindere. Poi si torna indietro, si corregge, il più delle volte si attenua. Go and stop, una tecnica singolare. Che a al di là dalla velocità legislativa sembra produrre un effetto grave: mina l’immagine decisionista e perciò rassicurante del governo. La goccia scalfisce inesorabilmente un blocco in apparenza solidissimo. E quasi non c’è spiegazione, perché si potrebbe seguire una strada diversa, prendere decisioni in modo più lento ma davvero irrevocabile.

sarcita nelle proprie attese tradite quando, appunto, furono alleggerite le carceri: con la sospensione dei processi si rimedierà ad almeno uno dei guasti prodotti dalla liberazione dei criminali.

premessa. «E in ogni caso io non so se si può parlare di go and stop per la decisione di escludere dal decreto sicurezza l’uso dell’esercito nelle città. Ho la netta sensazione che questa ipotesi così eclatante e rumorosa sia stata messa in campo per occultare proprio l’e-

mento completamente diverso. Spero davvero che la maggioranza faccia un passo indietro, su una scelta così grave».

Ma che succede? Perché il governo oscilla nonostante una maggioranza così ampia? Perché propone interventi come la

I passi indietro del gambero 20 maggio 2008. Il governo annuncia l’articolo 2 del decreto legge sulla sicurezza. Che impone a Procure e Tribunali di dare la precedenza alle indagini e ai processi con imputati detenuti e a quelli riguardanti reati che mettono «in pericolo la sicurezza pubblica» o che «comportato grave allarme sociale». La norma, in un primo momento ritirata, è stata proposta ieri in Senato come emendamento al decreto sicurezza. 22 maggio 2008. È muro contro muro nell’aula di Montecitorio tra maggioranza e opposizione sull’emendamento del Pdl che, secondo Pd e Idv, andrebbe a salvare, ancora un volta, Rete 4. Storia complessa questa del decreto. Il testo, voluto dal governo Prodi, è il cosiddetto salva-infrazioni, cioè una serie di norme per evitare che i 14 rilievi formulati dall’Unione europea contro la legge Gasparri sulla tv diventino multe salatissime e salnzioni definitive. L’emendamento alla fine viene ritirato. 3 giugno 2008.«Penso che non si può perseguire qualcuno per la permanenza non regolare nel nostro Paese condannandolo con una pena, ma questa può essere una aggravante se commette un reato». Parola di Silvio Berlusconi. Che nel corso di una conferenza stampa congiunta ha risposto così a una domanda sulle polemiche per il disegno di legge dell’esecutivo italiano sull’immigrazione clandestina, arretrando di fatto rispetto alla contestata norma sul reato di clandestinità contenuta nel ddl. 15 giugno 2008. Il sottosegretario all’Interno,Alfredo Mantovano, conferma la decisione del governo di utilizzare le Forze armate per fronteggiare le emergenze rifiuti e sicurezza, presentando un emendamento al decreto legge che ieri è stato all’esame del Senato. 11 giugno 2008. Intercettazioni, il governo accelera e annuncia un decreto legge che sarà all’esame del Consiglio dei ministri di venerdì 13 giugno.Ma poi è costretto a una rocambolesca smentita per bocca dello stesso Berlusconi dopo che era stato sfiorato un clamoroso scontro istituzionale con il presidente Napolitano.


prima pagina

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L’editorialista del ”Messaggero” commenta l’operato del governo

«Lodo Schifani: così si rischia l’autogol» colloquio con Paolo Pombeni di Francesco Rositano

ROMA Le retromarce del governo su intercet-

punizione dei clandestini e poi è costretto a fermarsi se non a tornare indietro? Sono domande alle quali il Pd non è troppo preoccupato di rispondere: «Non so quale sia il loro problema, ma vedo il tentativo di aggirare la sentenza con cui la Corte costituzionale ha bocciato il lodo Schifani». E allora offre una chiave il professore di Politica comparata dell’università di Bologna Piero Ignazi: «Certi

fragile la tenuta della coalizione? Ignazi fa notare che ci sono «alcune diversità che possono essere considerate sfumature e altre che invece sono molto pesanti: in particolare le visioni radicalmente opposta che ci sono nel centrodestra a proposito dell’Europa». È un problema in sé, questo. strutturale e, dice il professore bolognese, «assolutamente inedito: all’interno di una maggio-

STEFANO CECCANTI: «L’uso dell’esercito per pattugliare le città è un’ipotesi messa in campo strumentalmente, per creare una cortina fumogena sulla sospensione dei processi, che è una scelta molto grave: spero che l’esecutivo torni indietro»

provvedimenti provocano sconcerto in settori dell’opinione pubblica che non esprimono in maniera visibile ma che evidentemente si fanno ascoltare in qualche modo. E poi capita che dopo aver preparato un testo intervengano esponenti della maggioranza che hanno particolare dimestichezza con la preparazione delle leggi e che sollevano questioni di opportunità». E così rischia di diventare

ranza, in Italia, la posizione sull’Europa non è mai stata così ambivalente. Eppure è un tema chiave, è una questione cruciale, che non può restare in sospeso». Nemmeno il governo può permettersi di farlo. Sull’Europa, di sicuro. E probabilmente anche nella definizione di un metodo sincopato e improduttivo che mette a rischio la presunta virtù principale dell’esecutivo, il decisionismo.

tazioni, ”salvaRete4”, sicurezza e il cosiddetto ”Lodo-Schifani”non colgono di sorpresa Paolo Pombeni, notista politico del Messaggero e docente di storia dell’integrazione europea all’università di Bologna. «Credo - sostiene che esse rispondano ad una vecchia tattica della politica italiana: si pensa che per ottenere dieci bisogna chiedere cento. E questo non è positivo. Inoltre nel nostro paese siamo abituati ai grandi annunci: prima si dice ”faremo intervenire i missili”, poi alla fine si ritratta con uno ”sparemo con un fucile ad acqua”». Professore, cosa sta accadendo? Questi continui annunci e smentite sono la dimostrazione di un fatto: si sta giocando una partita di equilibrio tra i pasdaran e quelli che vogliono una svolta politica reale. Ai pasdaran si dà il contentino del grande annuncio, sapendo che le forze più responsabili riporteranno il dibattito alle condizioni politicamente più accettabili. Comunque, il risultato finale è positivo. Ci si rende conto che non è più tempo di scontri ad arma bianca in Parlamento. E quindi il governo, tutte le volte che è possibile, sceglie la via costituzionalmente più corretta. Certo lo fa anche perché sa di contare su una maggioranza molto ampia che, tuttosommato, gli garantisce lo stesso, di raggiungere gli obiettivi che si propone. In questo modo evita, però, di raggiungerli con un colpo di mano su cui non si discute. Penso che ci sia anche una lezione da parte del passato: i decreti legge sono sempre pericolosi perché, quasi mai, si riesce a ratificarli negli stessi termini in cui sono stati fatti. Poi alla fine bisogna cambiarli di qualche misura e questo crea dei problemi giuridici enormi tra il testo decreto e il testo di conversione in legge. Teniamo anche presente che al momento c’è una Presidenza della Repubblica molto autorevole, la quale, avendo dimostrato la sua neutralità reale, riesce ad esercitare un’azione calmieratrice. Non ha l’impressione che il governo stia facendo troppo leva su annunci ad effetto? Qui c’è un problema di natura più generale: ormai purtroppo la politica è piena di annunci ad effetto. Questo è accaduto anche con il precedente di governo. Magari gli effetti di annuncio erano in qualche modo più contrastati: l’estrema sinistra diceva qualco-

sa, la componente moderata ne diceva un’altra, eccetera. Ma anche allora si cercava di tranquillizzare l’opinione pubblica utilizzando questo sistema. Ma così il governo non rischia di compromettere la propria immagine? Non dimentichiamo che tra meno di un anno avremo una tornata amministrativa molto importante. E quindi per il governo non è un anno qualunque: è un anno molto importante rispetto al quale deve assolutamente portare a casa un effetto di consolidamento nell’opinione pubblica. Ecco perché spinge molto nella politica dell’annuncio. Ha un certo valore secondo me il fatto che, ferma restando la politica dell’annuncio, si cerchi comunque di rinviare ad un dibattito parlamentare nel quale l’azione politica avviene attraverso un dibattito in cui tutti possano dare un contributo costruttivo rispetto alle decisioni che si devono prendere. Insomma bisogna evitare che il dibattito in Parlamento si trasformi in uno show in cui prevalgono solo le prese di posizione ideologiche. Secondo lei, alla fine, come si risolverà la questione del cosiddetto ”lodo Schifani”? Io questa questione, francamente, se fossi il governo, la lascerei cadere. Non mi pare proprio che sia nel suo interesse quello di offrire un argomento in più all’opposizione su un aspetto tanto delicato su cui, alla fine, non si concluderà nulla. Francamente non mi sembra una mostra azzeccata. Infatti proprio Veltroni ha detto che su questa cosa ci si gioca il dialogo con la maggioranza. Ovviamente Veltroni dice una cosa perfettamente comprensibile. Secondo me da una parte e dall’altra quelli che propongono questa cosa lo fanno nell’interesse dei pasdaran dei due gruppi, che non vedono l’ora che si riapra una questione pro o contro Berlusconi. Però questo non va nella direzione di un interesse del Paese. Riproporre questa cosa alla fine diventa un autogol. La maggioranza parlamentare è quella che è, quindi si avrà un arroccamento delle parti una sull’altra. Con questo atteggiamento, sinceramente, non so cosa pensano di poterne cavare. Alla fine, quindi, si fa tanto rumore senza risolvere nulla Certamente non si risolverà nulla. Anzi, alla fine, si farà tornare il Paese indietro di cinque o sei anni. E francamente non mi sembra sia una cosa furbissima.

Riproponendo il ”lodo Schifani” non si risolverà nulla. Anzi si farà tornare il Paese indietro di 5 o 6 anni


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elezioni

Sicilia. Percentuali che vanno dal 60 al 75 per cento. A Palermo vince Avanti, a Catania Castiglione

Otto province su otto: vince il “vecchio” centrodestra di Alfonso Lo Sardo

PALERMO. Quale interpretazione dare della scarsa affluenza alle elezioni amministrative in Sicilia? Si è votato per il rinnovo di otto consigli provinciali ad eccezione di quello di Ragusa e in ben 148 comuni. Iniziamo subito col dire che la “gente” è stanca: basse percentuali di affluenza e fenomeno astensionismo in forte crescita. Ma il fatto politico è che alle elezioni provinciali che si sono tenute in Sicilia ha vinto il centrodestra che nell’isola può contare, a differenza della situazione nazionale, sull’apporto dell’Udc di Casini. Due degli otto candidati del centrodestra, Giovanni Avanti alla provincia di Palermo e Mimmo Turano alla provincia di Trapani, sono i presidenti delle due province e sono infatti dello stesso partito di Totò Cuffaro e di Saverio Romano, strateghi e generali dell’Udc. Ma il centrodestra vince in tutte le otto province, a Enna Giuseppe Monaco ha la meglio su Nino Muratore, a Messina Nanni Ricevuto vince su Paolo Silvestro Siracusano, a Catania Giuseppe Castiglione con il suo 82 per cento si impone su Paolo Castorina ma succede lo stesso ad Agrigento con la vittoria di Eugenio D’Orsi su Giuseppe Arnone, paladino di Legambiente e su Giandomenico Vivacqua dello schieramento del centrosinistra. Nicola Bono è il neopresidente della provincia di Siracusa e persino nella difficile piazza di Caltanissetta a prevalere è stato Pino Federico su Salvatore Messana, sindaco di Caltanissetta. C’è da dire che queste elezioni infatti sono giunte in un momento infelice. Si è votato da poco per le politiche ed in Sicilia anche per il rinnovo del consiglio regionale che ha visto l’elezione del centrodestra e del governatore Raffaele Lombardo. In un contesto di forzata normalizzazione e semplificazione del quadro politico nazionale il malumore e la disaffezione dell’elettorato siciliano nei confronti dell’ente provincia può assumere diversi significati. Tra questi non va certamente sottovalutato il dibattito nazionale circa l’inutilità della pro-

C’è l’incapacità del centrosinistra siciliano a dire qualcosa di nuovo e a scommettere su una classe dirigente che sappia entrare in sintonia con gli umori dei cittadini. Se si perde ovunque, come è successo al centrosinistra in Sicilia, vuol dire che il problema c’è e non può essere sottovalutato. L’altro dato è quello che riguarda la possibilità, a livello territoriale, sia chiaro, di una rinnovata unità del centrodestra che ha saputo, dopo la felice esperienza della elezione di Raffaele Lombardo alla presidenza della Regione, ritrovare le ragioni politiche, e di programma e gli uomini da potere schierare. Cosa succederà adesso? La Sicilia potrebbe tornare ad essere un laboratorio politico, come è sempre stata, e quindi una terra nella quale sperimentare nuove alleanze e sinergie per il centrodestra. Un centrodestra che può contare sul contributo, qui ineliminabile, dell’Udc.

L’isola potrebbe tornare ad essere un laboratorio politico nel quale sperimentare nuove alleanze e sinergie con il contributo dell’Udc vincia se vi è stato chi, e tra questi autorevoli esponenti e analisti politici, che ha pontificato sulla scarsa efficacia delle province, incapaci di incidere nella vita dei cittadini.

Già i rilevamenti effettuati nella giornata di domenica 15 giugno hanno segnalato il trend negativo che ha fatto registrare un dato siciliano in negativo del 10 per cento e nella provincia di Palermo questa percentuale ha raggiunto quota ventidue. Diverse le scuole

di pensiero sul sex appeal delle amministrative. Tra questi ha diritto di cittadinanza la tesi per la quale il centrosinistra siciliano è ai minimi storici, di gran lunga sotto la soglia di sopravvivenza del centrosinistra nazionale. La prevedibilità del dato elettorale con un centrodestra con le vele spiegate al vento sia a livello regionale sia a Roma e dintorni avrà sicuramente indotto molti a non dare la benché minima considerazione alle elezioni amministrative. Ci vuole ben altro per in-

durre i bagnanti delle già affollate spiagge siciliane ad indossare abiti cittadini per recarsi alle urne. A giugno in Sicilia è già agosto e il risultato scontato da una parte, il disinteresse per un ente che non suscita emozioni, la paura per il carovita, l’insicurezza sociale, sono fattori che sicuramente hanno determinato un astensionismo senza precedenti. E pensare che le percentuali delle provinciali del 2003 avevano toccato quota 60 per cento. Due vincitori quindi in questa tornata elettorale delle amministrative in Sicilia, l’astensionismo e il centrodestra e sarà facile dire che questo è l’effetto dell’onda lunga della vittoria di Berlusconi. C’è di più.

Per il partito democratico e per le forze che ad esso si richiamano si prospetta la possibilità di rivedere i programmi, le persone, le strategie. Di sicuro c’è che le responsabilità del centrodestra aumentano, insieme agli onori anche molti oneri. Il governo della cosa pubblica in Sicilia è nelle mani del centrodestra, alla regione, nelle province, in moltissimi comuni. E di lavoro da fare ve ne è tantissimo. Dalle politiche legate alla infrastrutturazione, al sistema dei servizi, alla disoccupazione, al settore dei rifiuti, al piano energetico e ad altro ancora. Inizia una nuova fase e a livello nazionale si può contare sull’appoggio del governo Berlusconi che dovrà però dimostrare con i fatti e non solo a parole di avere a cuore le sorti del Sud e del Mezzogiorno, magari trovando i fondi per la realizzazione delle infrastrutture senza le quali ogni ipotesi di sviluppo sembra essere una chimera. Due i vincitori di queste elezioni: il centrodestra e l’astensionismo. Per quest’ultimo si cercano rimedi. Si facciano avanti i volenterosi.


politica

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A lato il leader del Pd Walter Veltroni con il suo vice Dario Franceschini. Nella foto sotto l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi

Stretto tra le leggi ad personam e il dissenso interno il segretario del Pd alza la voce

Veltroni: il dialogo è a rischio di Riccardo Paradisi

ROMA. Walter Veltroni stavolta è a un guado sostanziale: deve decidere se mettere il Pd nella rotta di una politica riformista e liberale di fatto collaborativa con il governo in un momento di emergenza per il Paese oppure scegliere il congelamento del dialogo per seguire la linea di un opposizione dura. Che magari torni a denunciare nel berlusconismo ”il corto circuito dei processi democratici” come Eugenio Scalfari ha scritto nel suo fondo domenicale su Repubblica che anche Arturo Parisi sembra sottoscrivere: «Il dialogo tra Veltroni e Berlusconi offre al Pd una rendita di posizione ma certo non aumenta le probabilità di rappresentare un’alternativa agli occhi degli elettori e alimenta invece l’lllusione che la forza dell’opposizione venga dal riconoscimento da parte della maggioranza».

Pressioni significative che si aggiungono al lavoro ai fianchi che Di Pietro sta ormai conducendo da settimane cavalcando in ogni occasione un antiberlusconismo di cui l’ex magistrato vorrebbe evidentemente l’esclusiva. Pressioni che Veltroni non ha tardato a registrare e a cui ha dovuto rispondere con una mossa ancora interlocutoria ma certo non neutra. Il leader

del Pd ha così parlato di una serie di ”strappi inaccettabili” da parte del governo: dall’immigrazione clandestina ai soldati nelle città, dal decreto salva-Rete4 al lodo Schifani per finire con le posizioni di Calderoli sull’Europa. «Vediamo se questa settimana», ha poi dichiarato Veltroni, «questi passaggi saranno affrontati con un altro spirito, altrimenti all’assemblea costituente trarremo le conseguenze: perché il dialogo c’é se a volerlo sono tutte e due le parti». Più che un attacco un avvertimento con ultimatum: che tradotto potrebbe suonare così: o il dialogo procede per ritmi e passaggi concordati, senza che la leadership veltroniana venga messa nella condizione di essere insidiata da sinistra oppure si rompe e il clima costruttivo e collaborativo tra governo e opposizione finisce qui. Di fronte a questa ipotesi Antonio Di Pietro non ha perso un minuto nel farsi individuare come il sostenitore coerente della linea dura. «Ci fa piacere che il Pd e il suo segretario oggi riscontrino la protervia del governo. Adesso ogni dialogo va bloccato, non si lavora con chi tutela solo i propri interessi e non opera per il bene del Paese». Ma a Veltroni ancora non conviene bruciare i ponti che lo

collegano a Berlusconi, vuole capire se l’intesa che fin qui ha bene o male retto possa essere rinegoziata nel segno di un maggior rispetto delle esigenze del Pd, per cui il leader del Pd dà ancora un margine alla maggioranza: «In questi giorni si decide il futuro di questa legislatura: se il comportamento rimane come quello delle ultime settimane il clima non potrà che cambiare». Una parziale metamorfosi indubbiamente e del resto come poteva il capo del Pd presentarsi all’imminente congresso del partito con una

Prodiani, Repubblica, Di Pietro e bindiani premono sul leader democratico per chiudere la stagione del confronto costruttivo con il Cavaliere strategia attendista, una linea ondivaga, un’identità indefinita e con la retorica della lunga durata mentre si gli attacchi che gli piovono addosso si appuntano proprio su questo tentennare? Famiglia Cristiana è già tornata ad attaccare Veltroni con

un’intervista a Bartolomeo Sorge che sferza «la fretta con la quale è stata varata la nuova formazione politica, che nelle intenzioni doveva fare sintesi tra riformismo cattolico, socialista e laico». Fretta che non ha giovato alla chiarezza della sua identità: «Il vero Pd non è ancora nato: è rimasto la somma degli ex Ds e degli ex Margherita. Non c’è stato il salto di qualità necessario è una minicoalizione che, come esprime un Governo ombra, così rischia di essere l’ombra di un partito». E sul fatto che la Costituente del 20 e 21 giugno dovrebbe sciogliere il nodo del progetto politico, Sorge dice che sarà possibile solo «facendo capire e che il progetto politico del Partito democratico non è un fac-simile di quello del Pdl, come molti sono portati a pensare, di fronte a quella che si direbbe un’opposizione ombra». Rosi Bindi è ancora più chiara: il Pd deve prendere atto che c’è un abisso culturale con il Pdl, «rispetto al quale non possiamo non mostrare la nostra alternatività». Ma la critica che più ha colpito Veltroni è stata quella dell’Economist della scorsa settimana: quando il giornale inglese sosteneva che il governo ombra del Pd assomigliava, per la sua incapacità di mordere sulle contraddizioni

del governo, a un opposizione fantasma.

Si sa come Veltroni sia sensibile alle opinioni della stampa anglofona se non altro perchè con la sinistra ha speso almeno un quindicennio della sua vita politica a far leva sulle sue punture per delegittimare politicamente l’Italia di Berlusconi. Ma non è tutto. Anzi tutto questo non è niente rispetto al pericolo che il segretario del Pd percepisce nel suo principale antagonista Massimo D’Alema. Che con la pazienza del ragno porta avanti indomito la sua strategia di logoramento della leadership veltroniana. Oggi D’Alema dovrà incontrarsi con il leader dell’Udc Pierferdinando Casini. Scopo dell’incontro definire una proposta di legge elettorale di tipo tedesco da presentare alla Camera e da portare al congresso del Pd. Ma anche immaginare un modo per liberare il centrosinsitra dalla ingombrante presenza di Di Pietro. Inviso per il suo antigarantismo militante sia a D’Alema che a Casini (nell’ipotesi remota ma non impossibile di un suo approdo al centrosinistra). Dopo aver formulato il suo ultimatum al governo forse in queste ore Veltroni sta pensando che il rischio che corre è proprio quello di perdere, con Silvio Berlusconi, il suo migliore alleato.


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politica

Pronto il piano energetico del ministro: sgravi per le nuove centrali e liberalizzazione degli impianti

Nucleare e benzina, le regole di Scajola di Giuseppe Latour

d i a r i o

d e l

g i o r n o

Probabile rinvio della class action No al rinvio della legge sulla class action. I consumatori insorgono di fronte all’ipotesi che la misura venga modificata come chiesto più volte da Confindustria. A mettere sul piede di guerra le associazioni per i diritti dei cittadini, una dichiarazione del ministro Scajola, che ha definito la legge sulla class action, così come è stata formulata, «impraticabile». Per Adiconsum la misura varata dal Parlamento «non è delle più efficaci», ma, proprio per questo, l’associazione sostiene che verrà usata «cautela» nell’avviare pratiche di azione collettiva. Dunque, sono «del tutto infondate e strumentali» le informazioni secondo le quali, alla vigilia dell’entrata in vigore della class action, sarebbe in arrivo una valanga di azioni collettive.

Casini incontra Nencini (Ps). È dialogo? Incontro ieri, a Firenze, fra il leader dell Udc, Pier Ferdinando Casini, e Riccardo Nencini, candidato alla segreteria del Partito socialista al prossimo congresso di Montecatini. Lo rende noto un comunicato diffuso dall’ufficio stampa dello stesso Nencini. Al centro del colloquio, spiega la nota, la situazione politica generale, il ruolo delle opposizioni nei confronti del governo, il panorama europeo e la legge elettorale per l’appuntamento del 2009, i temi che saranno al centro del dibattito congressuale dei socialisti.

ROMA. Il dossier energia arriva sul tavolo del Consiglio dei ministri. Mancano poche ore: già domani il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, porterà all’attenzione del governo il suo “Piano triennnale di sviluppo”. Tre i cardini del progretto: ritorno al nucleare, liberalizzazione dei carburanti e taglio delle accise. Al pacchetto si aggiungerà anche la Robin Hood Tax di Tremonti per ridefinire i rapporti tra l’esecutivo e i grandi player dell’energia italiana. Difficile dire se basterà: non a caso Giorgio Squinzi, presidente di Federchimica ha chiesto di non pensare solo alla programmazione di lungo periodo, dedicandosi a soluzioni immediate: «Rimuovere le limitazioni alla Borsa elettrica, ridurre gli oneri impropri e rivedere la distribuzione degli oneri tra fiscalità generale ed energetica e chiarire gli aspetti normativi relativi alla distribuzione di energia nei poli industriali». La prima misura sarà il rilancio dell’atomo. E la definizione dei regolamenti attuativi, ostacolo principale per ritornare a realizzare centrali. E al quadro normativo dovrebbe seguire una delega al governo per fissare i criteri per l’individuazione dei siti, poi scelti da esperti indipendenti. L’obiettivo è creare le prime centrali (forse di terza generazione) entro il 2013. E per farlo non mancheranno misure anti sindrome Nimby: sgravi sulle bollette elettriche per chi ospita le nuove centrali e deducibilità per le aziende che le costruiscono.

Il secondo capitolo di interventi riguarderà misure contro il caro-carburante. Con la tanto attesa liberalizzazione della rete dei distributori. Ma il braccio di ferro con i petrolieri si annuncia infuocato.

Il presidente dell’Unione petrolifera, Pasquale De Vita, aveva già espresso in modo preciso la sua idea qualche mese fa: «L’eliminazione delle sole distanze di per sé non risolve il problema senza intervenire sulle altre rigidità del sistema». Anzi, creerebbe il rischio di una proliferazione dei piccoli im-

Dubbi dai petrolieri sugli interventi contro il caro benzina. In dirittura d’arrivo anche la Robin Hood tax di Tremonti: nel mirino i maxiutili dell’Eni pianti senza servizi con un conseguente aumento dei prezzi. La perdita di garanzie a livello distributivo, sostengono poi i petrolieri porterebbe delle incertezze e tagli sul lato degli investimenti. Danneggiando tutto il sistema nel suo complesso. Un sistema che, dicono gli operatori, non ha un numero di distributori più basso degli altri Paesi. Una terza misura riguarderà interventi a favore delle categorie «i cui costi più incidono sui prezzi finali dei prodotti di larga diffusione». In

questo senso muoverà il taglio delle accise, diventato realizzabile, dopo che l’Unione europea ha dato il via libera all’Italia. Su questa misura non ci sono particolari pregiudiziali dei produttori, che comunque preferirebbero un’azione sull’Iva. Il provvedimento metterà una pezza sul fronte degli autotrasportatori. Lì la situazione è vicina al collasso e il governo vorrebbe evitare una crisi simile allo sciopero dei padroncini che aveva messo in ginocchio l’Italia solo pochi mesi fa. Ai Tir, quindi, Scajola garantirebbe risorse attraverso minori tasse. L’ultimo atto riguarderà gli extraprofitti delle compagnie petrolifere: la Robin Tax di Giulio Tremonti. Al Tesoro c’è massimo riserbo su questo intervento, che potrebbe recuperare non oltre i 400 milioni di euro. Se colpire la produzione e la lavorazione interne non porterebbe i risultati sperati, l’obiettivo è le plusvalenze realizzate sull’upstream all’estero. In particolare, la gallina dalle uova d’oro si chiama Eni, unico player italiano, insieme a Edison, attivo nella produzione. Ed è proprio nelle attività di estrazione che si concentra il grosso dei guadagni. Tremonti non ha ancora chiarito come muoversi, ma sono in molti a scommettere che via XX Settembre tenterà di riportare in Italia qualche fetta dei loro giganteschi bilanci. Intanto due tendenze si starebbero già registrando: uno spostamento all’estero delle società e un trasferimento degli oneri a valle sui consumatori.

Scuola, la Cisl incalza il ministro Gelmini «Reiteriamo al ministro Gelmini, la proposta di procedere immediatamente, senza indugi o ripensamenti, all’immissione in ruolo dei docenti e del personale Ata di cui la scuola ha urgente bisogno per la copertura dei posti scoperti».A sostenerlo è Francesco Scrima, segretario della Cisl scuola, secondo cui si tratta di quanto «impone la legge, il cui rispetto è dovuto da parte di tutti e non può essere invocato solo quando si parla di «tagli».Ad analogo rispetto- prosegue il sindacalista - hanno diritto i «precari», che non sono fastidiosi clandestini da rottamare, come sostiene qualche editorialista, bensì insegnanti che oltre ad aver superato selezioni durissime attraverso regolari procedure concorsuali, hanno maturato significative esperienze professionali e garantito il funzionamento della scuola.

Maroni, nuovo patto sicurezza per Milano Il Patto per la sicurezza sarà attuato. Lo ha assicurato il ministro dell’interno Roberto Maroni, che oggi ha partecipato al tavolo per la sicurezza in Prefettura a Milano. «Di quel patto - ha ricordato Maroni - abbiamo già attuato l’articolo due, cioè la nomina del prefetto, quale commissario straordinario per i campi nomadi. Ci sono altre parti, come quella che riguarda l’invio di nuovi uomini delle forze dell’ordine che intendo attuare immediatamente». «Il mio impegno - ha aggiunto - è quello di dare attuazione al patto sulla sicurezza di Milano del precedente governo», anche per la parte che attiene all’invio di 500 nuovi agenti di pubblica sicurezza.

Socialisti in fermento Chiedono il ritorno del garofono rosso. Nel segno della vecchia tradizione socialista. Archiviati gli anni della diaspora, i socialisti fanno sentire la loro voce. Se al governo sono ben rappresentati ai massimi livelli con Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi e Renato Brunetta, c’è chi punta a rinverdire lo storico marchio di fabbrica, facendo riemergere le mai sopite polemiche tra le varie anime della galassia riformista sul copyright del partito che fu di Bettino Craxi.


polemiche l giubilo forzato della Lega per il “No”del popolo irlandese nel referendum sul Trattato di Lisbona appare, al di là di tutto, come un infernale gioco delle parti. La Lega, come è nella sua natura, ci marcia nel dare scandalo in chiave anti-europeista: e tuttavia diventa, con il suo sostanziale consenso, il comodissimo alibi con il quale tutti gli altri si stracciano le vesti, gridando al sacrilegio, e così trovando la legittima scusa per non affrontare la sostanza del problema che il voto popolare di Dublino apre alla coscienza collettiva delle classi dirigenti. Eppure il messaggio che viene dalla sovranità popolare (l’ennesimo “No”, dopo quello della Danimarca nel 1993, e quelli clamorosi di Francia e Olanda nel 2005 sulla pretenziosa Costituzione europea) qualche domanda dovrebbe porla: come mai, ogni volta che viene lasciata la libertà di scegliere al popolo (che in democrazia, fino a prova contraria, è l’unico, autentico “sovrano”) il rifiuto del progetto ammannito con tutte le infiorettature mediatiche è esplicito, chiarissimo e inequivocabile? Nei regimi comunisti, come insegnava Bertolt Brecht, se il popolo non è d’accordo, «bisogna cambiare il popolo»… E invece non è presunzione intellettuale, in regimi che si dicono liberali, pensare che, quando il popolo dice di “No”, sono i gruppi dirigenti che dovrebbero cambiare. A cominciare dalla sterminata e irresponsabile tecno-burocrazia europea che, attraverso questi tentativi di sovrapposizione giuridica, intende imporre un “pensiero unico”, una prigione “politically correct” che uccide la naturale e benedetta diversità dei popoli europei, vera ricchezza dell’intero Continente. Ne sa qualcosa l’on. Buttiglione, bocciato come commissario europeo, perché si permise di non rinchiudere nel puro privato i suoi valori di riferimento (quelli cristiani, peraltro condivisi dalla larga maggioranza delle popolazioni del Vecchio Continente).

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I

Chi ha avuto la sfortuna, per dovere d’ufficio o per pura perversione di intellettuale, leggere le 445 pagine della Costituzione ingloriosaeuropea, mente abortita per il voto negativo dei cittadini francesi e olandesi, non può non aver colto la spaventosa distorsione culturale che, in nome di presunti diritti e antidiscriminazioni, poi impone un “pensiero unico” di rara rigidità, che appare più

Civile lamento dopo il “no” dell’Irlanda al trattato di Lisbona

La Lega ci marcia, ma l’Europa è marcia di Giuseppe Baiocchi una camicia di forza che un riconoscimento largo e libero della variegata anima europea. D’altronde la bulimia normativa europea già da anni ha preso la via di intervenire su tutti gli ambiti dell’agire umano: secondo l’antico adagio che le buoni intenzioni di uguaglianza e di correttezza lastricano nel procedere inesorabile della burocrazie le strade per un inferno

parità di concorrenza tra le case automobilistiche, che le autopubbliche, pena fortissime sanzioni, dovessero essere per forza tutte di colore bianco.

E così è avvenuto. Un altro esempio: nell’estate del 2005, nell’angoscia collettiva provocata dai sanguinosi attentati islamici nel metro di Londra, le istituzioni europee si sono rifiutate di prendere al riguardo qualsiasi posizione. Erano occupate in due interventi fondamentali: il primo, aprire una procedura di gravissima sanzione nei

te dal Parlamento italiano intorno al 24 dicembre: quando cioè, conclusa la battaglia parlamentare sulla Finanziaria, tutti i deputati e senatori, con la valigia in mano per le vacanze di Natale, hanno per anni approvato a passo di carica montagne di direttive da esaurire entro fine d’anno per obblighi comunitari. Con quale cognizione di causa è facile immaginare. Ed è davvero un dolore assistere allo sfarinarsi di una nobile idea, come l’Europa, in un coacervo giuridico alla lunga incomprensibile. Ci sono molte cose buone, come ad esempio l’alta educazione ela ricondivisa cerca con il progetto Erasmus. E basterebbe applicare di fatto il principio di sussidiarietà, affidando per davvero all’Unione Europea i grandi compiti sovranazionali (come la moneta, la difesa e la diplomazia) e poco di più. E forse basterebbe ascoltare davvero la ripetuta e istintiva saggezza popolare che sembra accorgersi che le stanno costruendo addosso un prigione, travestita da presunta libertà. Forse la sapienza popolare non vuol alla lunga dare ragione all’eterna mitologia greca, per la quale Europa era una splendida fanciulla dai facili costumi che, facendosi ingravidare da un bianco toro, ebbe a partorire soltanto mostri.

È doloroso assistere allo sfarinarsi di una nobile idea, come l’Europa, in un coacervo giuridico alla lunga incomprensibile. Basterebbe applicare di fatto il principio di sussidiarietà annunciato. Un piccolo esempio: i taxi e la loro normativa dipendono da sempre e dovunque dai regolamenti comunali: eppure una corposa e minuta direttiva europea ha imposto, per la tutela della

confronti dell’Ungheria, perché non aveva adeguato agli standard europei la sua legislazione sui porti marittimi (poi fermata in extremis perché un oscuro funzionario si è accorto che l’Ungheria non è bagnata dal mare); il secondo, definire la misura minima del diametro delle pesche (5 centimetri in inverno, 5,5 in estate) perché questo frutto avesse “dignità europea”. Ma le colpe non stanno solo a Bruxelles o a Strasburgo: se si incontra un parlamentare italiano appena appena sincero, rivelerà che tutte le direttive europee (e sono ormai 80 mila pagine di norme vincolanti) sono state valida-


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pensieri

Il ministro contestato per la sua “evocazione” di un possibile ritorno del fascismo

Tremonti ha ragione.Troppa di Pier Mario Fasanotti ica sempre le dispute sono astratte. Anche se non percepite nei bar-sport, riflettono il pulsare della storia quotidiana. Prima di addentrarci nella diatriba numero uno, poniamo un quesito: qual è il gruppo intellettuale più permaloso? Quello degli storici. Per la precisione: degli accademici. Se uno si azzarda a esprimere un parere che “invade” il campo di questa casta così prevenuta verso gli “intrusi”, scatta una reazione stizzita. A volte rischiosamente approssimativa, ma fa niente visto che l’obiettivo è quello di stroncare. L’ultima vittima è Giulio Tremonti, ministro dell’economia. Nel suo libro (“La paura e la speranza”, Mondadori) ma anche in altre occasioni, Tremonti ha detto che «l’impoverimento del ceto medio europeo ha un solo esito: il fascismo… e noi

M

siamo di fronte a fenomeni drammatici di questo tipo». Apriti cielo: il battaglione degli storici patentati si è subito schierato (contro). Alcuni ridacchiando e facendo ironie di scarso spessore, altri con diagnosi francamente più “perentorie”delle stesse parole del ministro. Emilio Gentile, storico del fascismo ed ex allievo di Renzo De

quello che De Felice scrisse. Questo, per esempio: «Sul piano economico il dopoguerra fu caratterizzato da una grave crisi determinata soprattutto dalla dura prova che l’economia italiana aveva dovuto affrontare… da qui un periodo di gravi difficoltà economiche che ebbero rovinose conseguenze, specialmente per alcuni grandi complessi industriali e per alcune banche». Insomma, non ci fu “la ripresa”. Tremonti, col termine “fascismo” ovviamente non intende una fotocopia del regime (camicie nere, Impero sui colli fatali di Roma, colonie marine in Romagna, bonifica del basso Lazio, ecc.), bensì un autoritarismo in agguato. Anche per il clima di scollamento tra la cosiddetta “gente”e le istituzioni. L’incauto

Gli storici lo attaccano ingiustamente. Ma i segni di una “deriva autoritaria” non sono già in questo governo? Felice, risponde piccato: «Il fascismo non ebbe fortuna per una caduta sociale del ceto medio. Anzi, in quel momento l’economia era in ripresa». Alt. Bisognerebbe ricordare bene

I ministri Giulio Tremonti (a destra) e Roberto Calderoli (nella foto in basso) Tremonti ha evocato il fantasma più terribile della storia patria, il fascismo. Forse ricordando le riflessioni di De Felice sulla «scissione tra paese legale e paese reale, fenomeno che ebbe via via conseguenze più drammatiche». Torna in mente una legge della fisica: chi studia un fenomeno inevitabilmente altera il fenomeno. Ora ci si chiede: l’intento di Berlusconi di risolvere i mali italiani, in primis il vuoto di sicurezza, con l’utilizzo dei militari va letto come deriva autoritaria o, come ha detto Bertinotti, come «regime leggero» (ossimoro che racchiude imbarazzo ideologico)? Insomma: il governo cui fa parte Tremonti riflette sulla voglia di legalità o invece utilizza la parola emergenza fornendo immediatamente una

risposta “armata”? Ricordate i famosi vigili di quartiere promessi da Berlusconi? Quanti ne avete visti, davvero? I militari indubbiamente impressionano. Chiamparino, sindaco (Pd) di Torino, dice che «non siamo in Colombia». Anna Finocchiaro (Pd) ironizza sul prossimo impiego di sacchetti di sabbia. Il sindaco veneziano Cacciari (Pd) filosoficamente dichiara: «Se il governo valuta di non avere altri mezzi, ci mandi pure l’esercito». Il fascismo rispose all’emergenza con le divise, i pattugliamenti e il controllo: in nome della sicurezza portò ordine ma imbavagliò il dissenso e falciò le regole della democrazia. Quello di Tremonti è timore, una diagnosi o l’ammettere che non ci sono altre soluzioni oltre gli stivali?

Piu che l’istituzione di un ministero della semplificazione sarebbe stato meglio un accorpamento con la Funzione pubblica e l’Innovazione tecnologica

Ma il vero Calderoli non è Brunetta? di Fabio G. Angelini e Flavio Felice no dei sintomi più evidenti del rapporto patologico tra stato e società civile è l’eccessivo e spesso ingiustificato numero di leggi, regolamenti, procedure e adempimenti burocratici previsti dall’ordinamento al fine di controllare e di indirizzare la vita economica e sociale del Paese. Da questo punto di vista, l’Italia è senza dubbio un caso di scuola. In tempi di “paure e di speranze”, la semplificazione e la deregolamentazione potrebbero essere i temi centrali della prossima agenda di governo. Immaginare la ripresa dell’economia italiana ed europea senza aver preliminarmente affrontato e risolto il tema dei “fallimenti della regolazione” risulta illusorio, considerato che quel groviglio normativo e burocratico in cui le imprese nazionali ed europee si trovano ad operare e a competere sui mercati internazionali rappresenta uno svantaggio competitivo di non poco conto. Intervenuto per prevenire i cosiddetti fallimenti del merca-

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to, lo stato ha a sua volta fallito per le stesse ragioni: ignoranza e fallibilità, dunque, per elementi di ordine epistemologico, come gli economisti austriaci ci hanno ben insegnato. Il problema è di capire quali caratteri debbano possedere le leggi per permetterci di vivere liberi. Abbiamo bisogno innanzitutto di regole (poche) e non di semplici norme ed è necessario che tali regole siano certe, tali da consentire ai cittadini di agire responsabilmente, sulla base della realistica previsione di parte delle conseguenze dei

sistema economico ed in particolare al settore degli investimenti. Un ordinamento privo del carattere della certezza disincentiva gli investimenti degli operatori sia interni sia stranieri. È il nuovo “ordine del mercato”che richiede regole di massima semplicità e di elevata razionalità: in questo senso, il mercato ha bisogno di regole non per essere orientato, ma affinché il “principio di libera concorrenza” orienti le scelte degli operatori economici. Inoltre, sotto il profilo comportamentale, la semplificazione, la qualità delle regolazioni, la certezza del diritto possono contribuire a rafforzare l’eticità dei singoli che compongono il sistema Paese. A parte il paradosso dell’istituzione di un Ministero per la delegificazione e la farraginosa proposta di legge per la semplificazione e la qualità della regolazione presentata dal Pd durante la campagna elettorale, tali iniziative rappresentano importanti segnali di attenzione delle principali forze politiche che vanno valutati positivamente e che lasciano ben sperare. Quanto all’istituzione di un ministero ad hoc per la semplificazione, avremmo preferito l’accorpamento con il Ministero della funzione pubblica e dell’innovazione tecnologica. Quanto alle proposte

Abbiamo bisogno di regole (poche) ed è necessario che queste regole siano certe comportaloro menti. In un ordinamento giuridico come il nostro, l’ipertrofia normativa determina, da un lato, incoerenza logica e sistematica, dall’altro, problemi interpretativi e applicativi. Si pensi al

avanzate dall’opposizione in campagna elettorale, muoviamo due critiche. Non ci convince né la pretesa di affrontare il problema fissando a monte un numero massimo di leggi né l’attribuzione al governo del potere di intervenire in sostituzione delle Regioni qualora queste non adempiano agli obblighi di semplificazione imposti dal decreto. Una procedura dal sapore centralista e “monopolista”. È auspicabile che il governo Berlusconi e la maggioranza parlamentare che lo sostiene riflettano sull’opportunità di far proprie le proposte avanzate dall’opposizione in tema di analisi della regolazione e di valutazione di impatto della regolamentazione, inserendole, tuttavia, all’interno di una più ampia azione di “intervento conforme” ad una libera economia di mercato, non solo di natura legislativa, ma capace, in primo luogo, di responsabilizzare tutti i livelli di governo; in secondo luogo, di valorizzare e di rendere efficienti gli strumenti di cooperazione istituzionale esistenti; ed infine, di avviare un radicale ripensamento del ruolo dello stato, ancor oggi tendenzialmente “monopolista”, in un sistema che, seppur con grandi difficoltà, ambisce a divenire compiutamente “cooperativo” e federale. (Centro Studi Tocqueville-Acton)


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parole

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La proposta-denuncia di uno storico: cambiare la “riforma” Prodi il momento, per il governo Berlusconi, di mostrare il carattere non innovativo, se non addirittura malthusiano, della legge sulla liberalizzazione degli archivi dei servizi segreti varata nell’agosto dell’anno scorso dall’esecutivo, ormai esalante l’ultimo respiro, di Romano Prodi. Si tratta di consentire agli studiosi e a qualunque cittadino di avere accesso ai documenti di trent’anni fa (al massimo) a lungo secretati e quindi inconsultabili. Questa liberalizzazione, buttando finalmente all’aria sigle come “segreto”, “riservato”, “segretissimo” ecc., dovrebbe estendersi anche alle carte del Ministero della Difesa, a quelle (per troppo tempo inaccessibili) dell’Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Nato, dell’intelligence di ministeri e altri uffici riservati. Le levate di scudi contro il segreto di Stato in Italia sono state particolarmente virulente soprattutto nei casi in cui esso non risulta sia mai stato opposto. È il caso della strage del 2 agosto 1980 a Bologna. Poche sono state, invece, le proteste di fronte ad atti di resistenza o di incredibile liberalità. Nel primo caso mi riferisco ad un episodio di una decina di anni fa. Al giudice delle indagini preliminari che si occupava sul golpe Borghese il Quirinale (che era un obiettivo della banda neofascista) si rifiutò di fornire un documento importante per scoprire gli eventuali responsabili del tentativo eversivo: cioè il registro contenente la lista dei visitatori del palazzo presidenziale. È un mistero capire come si potesse pensare di preservare il segreto di stato di fronte a minacce contro il sistema democratico, per di più disattendendo una precisa norma del codice di procedura penale.

È

Il secondo caso è di carattere semplicemente opposto. Mi riferisco alla quasi pubblicazione (cioè la consegna alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi), nel 1997, da parte del magistrato veneziano Carlo Mastelloni della lista degli informatori (per la verità non più operativi) dell’Ufficio Affari Riservati che aveva provveduto a sequestrare presso la segreteria del capo della Direzione centrale di prevenzione del Ministero dell’Interno. Dopo Togliatti, allora Ministro Guardasigilli (stimato, in tale incarico, solo dal suo erede Diliberto, l’ultimo inconsolabile sovietico che pascolava in

Liberalizzate gli archivi di Stato! di Salvatore Sechi

Parlamento), nessuno aveva mai osato tanto. Si possono certamente fare dei buoni libri di storia (come quelli di Franzinelli e Canali) con gli elenchi dei confidenti della polizia. Forte, però, è anche il dubbio che dopo avere dato in pasto alla gente tali liste di “spioni” il loro reclutamento possa risultare facilitato. Ciò malgrado, dai palazzi dei servizi non si levarono richieste di interdizione e di scandalo. Veniva, dunque, dato disco verde all’uso pubblico delle loro carte riservate. A meno di non imitare la legislazione varata da Clinton e da Bush negli Stati Uniti, più liberali di così non si poteva essere. L’argomento è stato oggetto di un convegno a Sesto Fiorentino a cura dell’Istituto per la Storia Contemporanea fondato da Gianni Cervetti. Con la legge del 3 agosto 2007, n. 124 (”Sistema di informazio-

Siamo l’unico Paese europeo in cui la storia contemporanea viene ricostruita quasi esclusivamente con le carte della Polizia ne per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto”) il ministro Micheli ha illuso il mondo dei ricercatori che dopo 30 anni al massimo si potessero stivare nei caveaux dell’Archivio Centrale dello Stato faldoni e fascicoli del Sifar, Sid, Sismi ecc. La lettura del dispositivo purtroppo gela ogni entusiasmo. Infatti la liberalizzazione del materiale accumulato in mezzo secolo dalla nostra intelligence vale per il futuro, e non per il presente. In secondo luogo, in mancanza

del regolamento di attuazione e di norme transitorie (pudicamente omesse), l’accesso viene affidato alla creazione di un Ufficio Centrale degli Archivi. Un regolamento (cfr. l’art. 10) dovrebbe curare «l’attuazione delle disposizioni che disciplinano il funzionamento e l’accesso agli archivi dei servizi di informazione per la sicurezza». Esso dovrebbe disciplinare anche «le procedure di informatizzazione dei documenti e degli archivi cartacei, nonché le modalità di conservazione e di accesso e i criteri per l’invio di documentazione all’Archivio centrale dello Stato».

Sono scaduti da oltre due mesi i 180 giorni in cui tale guida avrebbe dovuto essere emanato. Spetta al nuovo governo mettere mano in questa matassa, facendo collaborare, insieme al Ministero della Difesa La

Russa, quelli dell’Interno Maroni e dei Beni artistici, Sandro Bondi. La prima considerazione da cui partire è la seguente: siamo l’unico paese europeo in cui la storia contemporanea viene ricostruita quasi esclusivamente attraverso le carte di polizia. Il Ministero dell’Interno le versa (male, in ritardo e con una selezione rigorosamente “poliziesca”) agli archivi provinciali, e a quello centrale, dello Stato.

È quanto finora ha passato il convento, ma sarebbe opportuno rendersi conto che gli storici hanno bisogno, come dell’aria per respirare, di lavorare su una più estesa batteria di fonti e non su una soltanto. Non sfugge a nessuno come quella del Ministero dell’Interno sia altamente sospetta perché troppo legata al potere politico, e alla persona del ministro in carica. Ai tre ministri spetta di frenare il passo del gambero che la legge Micheli ha impresso all’ampliamento delle fonti da consultare. Anzi si dovrebbe fare un salto in avanti. Dove non hanno osato i ministri Amato, Parisi e Rutelli, devono farlo i loro successori Bondi, La Russa e Maroni, estendendo l’obbligo del trasferimento delle carte anzitutto all’Arma dei Carabinieri. La Benemerita è presente in ogni comune italiano, mentre la polizia opera solo nei capoluoghi di provincia. Inoltre svolge attività di intelligence, oltreché di polizia, sin dal lontano 1814. Purtroppo i suoi archivi, a parte l’esibizione di cimeli e la valorizzazione dei successi dei suoi uomini, sono stati, e restano in gran parte ancora ingiustificatamente chiusi. È una situazione che non può durare senza finire nello scandalo. Se si vuole consentire la riscrittura, finalmente documentata e non solo ideologica, della storia politica ed economica dell’Italia, l’altra documentazione che mi pare indispensabile trasferire agli archivi dello Stato è quella dell’Ufficio I del Comando generale della Guardia di Finanza e quello dell’Ufficio Affari Riservati della polizia di Stato. Questi enti non dispongono di archivi propri (come per esempio il ministero degli Esteri) e per di più non sono tenuti ad alimentare, con il passaggio delle consegne delle loro carte, gli armadi dell’Eur. Al convegno di Sesto San Giovanni, Aldo Giannuli ha offerto un quadro molto più ampio delle operazioni di cessione da effettuare.


mondo

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Per la prima volta gli iscritti cristiano democratici si avviano a superare i social democratici

Germania, storico sorpasso La Cdu davanti alla Spd di Alessandro Alviani

BERLINO. Potrebbe essere questione di settimane, forse di giorni. Poi quello che sarebbe parso impensabile a Willy Brandt o Helmut Schmidt diventerà realtà: per la prima volta i cristiano-democratici della Cdu si avviano a superare i socialdemocratici per numero di iscritti. La Spd sta così per perdere lo scettro di “più grande partito popolare tedesco” che si porta dietro sin dalla sua fondazione, oltre 140 anni fa. Oppure l’ha già perso e lo storico sorpasso attende solo di essere tradotto, a fine giugno, nel freddo linguaggio delle statistiche ufficiali. Stando ai numeri, al 31 maggio la Spd poteva contare su 531.737 iscritti; la Cdu del cancelliere Angela Merkel su 531.299. A dividere i due maggiori partiti tedeschi sono ormai 438 militanti. Una distanza che si assottiglia in modo inarrestabile: ad aprile lo scarto era di 496 persone, a marzo di 1.625. Non che i cristiano-democratici siano immuni dalla fuga di iscritti che flagella i socialdemocratici. Anzi: da anni lo stesso partito di Frau Merkel perde per strada migliaia di aderenti, nonostante i sondaggi facciano pensare il contrario. Tale emorragia si verifica però a ritmi molto più lenti rispetto al fronte avverso. Basta gettare lo sguardo un po’ più indietro, al 1990, per scoprire che, dalla riunificazione ad oggi, 412mila militanti Spd hanno riconsegnato la loro tessera, contro i 127mila della Cdu. Numeri che lasciano ormai intravedere un sorpasso, tanto più sorprendente se si pensa ai primordi del partito cristiano-democratico, a Konrad Adenauer e a quel Kanzlerwahlverein (associazione per l’elezione del cancelliere) onnipresente nelle posizioni di vertice della Repubblica federale, ma latitante sul territorio. O ancora, se si torna con la mente agli anni Settanta, al 1976, ad esempio, quando il socialdemocratico Helmut Schmidt guidava il governo della Germania dell’ovest e gli iscritti alla Spd salivano fino a un milione e 22mila, record mai più superato. Il presente parla invece di un declino che potrebbe persino accelerare. Un terzo degli iscritti ha pensato di recente di consegnare la tessera, ha svelato la scorsa settimana un sondaggio. Senza considerare che, ad oggi, quasi la metà dei militanti ha oltre sessant’anni.

nazionale Kurt Beck non riesce a dare a un partito slegato, confuso, incerto. Giunto in modo inaspettato a ricoprire l’incarico che fu di Franz Müntefering e Gerhard Schröder, Beck sembra navigare a vista, ondeggiando tra varie rotte. Esemplare, in que-

socialdemocratica al più alto incarico nazionale. Non è un caso che, stando a un sondaggio della tv pubblica Ard, tra i cittadini federali Beck sia oggi persino meno amato di Lafontaine. Tanto che, ormai, l’ipotesi di schierarlo come candidato cancelliere contro la corazzataMerkel nel 2009 sembra allontanarsi ogni giorno di più. Sarebbe affrettato attribuire tutte le colpe del crollo degli iscritti al presidente della Spd. Il calo del numero di militanti ha subito infatti un’accelerazione dal 2003, da quando, cioè, l’allora cancelliere Schröder annunciò un ampio pacchetto di riforme e tagli sociali (l’“Agenda 2010”), che non è mai stato accettato del tutto dalla base. E poi c’è l’ingombrante concorrenza, a sinistra, della Linke, diventata in pochi mesi la terza forza nazionale, grazie a una retorica che fa leva su insicurezze sociali ed economiche. Al momento, comunque, non sembra esserci un travaso di massa di iscritti dalla Spd all’ex Pds. Nel 2007 i socialdemocratici hanno perso 20mila militanti; la Linke, al contrario, ne ha guadagnati circa 2mila.

A dividere i due maggiori partiti tedeschi sono solo 438 militanti. Una distanza che si assottiglia in modo inarrestabile: a marzo lo scarto era di 1.625 persone, ad aprile di 496. A giorni i prossimi dati

Sulla crisi pesano numerose cause, a cominciare, inevitabilmente, dal gruppo dirigente. «La Spd è diventata grande perché è riuscita a guadagnarsi la fiducia direttamente sul campo», ha spiegato qualche tempo fa Manfred Güllner, presidente di Forsa, l’istituto di sondaggi che ogni settimana registra il tracollo dei socialdemocratici: 28, poi 25, infine 20 percento delle preferenze. Già, “fiducia”. La stessa che il presidente

sto, la sua posizione nei confronti della Linke di Oskar Lafontaine: prima il no a ogni forma di collaborazione, poi l’improvvisa apertura, «ma solo a livello regionale» (una puntualizzazione a cui molti tedeschi faticano ora a credere).

Lo stesso ribaltamento di vedute è andato in scena poche settimane fa: prima il velato sostegno a una rielezione di Horst Köhler (Cdu) a presidente federale, poi la retromarcia, imposta dalla sinistra interna e la nomina di Gesine Schwan a candidata

Oggi il presidente presenta il Libro Bianco

La difesa di Sarkozy di Matteo Milesi

PARIGI. Ritorno della Francia nel comando militare Nato, più spazio all’intelligence, riorganizzazione della presenza militare e revisione degli accordi di cooperazione con i Paesi africani, creazione di una base ad Abu Dhabi, rafforzamento della presenza francese in Afghanistan e nello spazio, riorganizzazione delle basi militari in Francia e riduzione del personale. Sono queste le grandi linee del Libro bianco sulla Difesa e la sicurezza nazionaleche Nicolas Sarkozy presenterà stamattina a Parigi e che indicherà le priorità della politica di difesa francese per i prossimi quindici anni. Il Libro bianco suggerisce un aumento di bilancio della Difesa, portandolo a 377 miliardi di euro entro il 2020, pari al 2% del Pil. Il rientro nel comando integrato Nato, dal quale il generale De Gaulle l’aveva fatta uscire nel 1962, costituisce la principale priorità per Sarkozy, che vuole segnare così il riavvicinamento con Washington. A giocare la parte del leone (anche in termini economici) i servizi di intelligence, che entrano a far parte delle “funzioni strategiche”della difesa: la “conoscenza e l’anticipazione” vanno ad aggiungersi alle quattro funzioni tradizionali (dissuazione, prevenzione, protezione, intervento). L’obiettivo è mettere i servizi francesi al livello di quelli tedeschi e britannici. Gli altri sforzi finanziari riguarderanno in particolare il settore aerospaziale, con un incremento delle capacità di intercettazione e di allarme (satelliti), dei radar e dei droni. Secondo il Libro, infatti, le minacce che pesano sulla Francia sono soprattutto ciberpirateria, terrorismo, pandemie, crisi sanitarie e catastrofi climatiche. Prevista anche la creazione di un coordinatore nazionale dell’intelligence presso il capo dello Stato (affidato a Bernard Bajolet, attuale ambasciatore ad Algeri ed ex ambasciatore a Bagdad), di un Consiglio nazionale dell’intelligence e di un Consiglio di difesa e di sicurezza nazionale. Infine, il centro di gravità francese nel mondo si sposterà dall’Africa, dove chiuderanno alcune basi, ad Abu Dhabi. Forte anche la riduzione del numero dei militari da 271mila a 224mila.


mondo

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5 Stati chiave per il repubblicano: Ohio, Virginia, Michigan, Missouri, North Carolina (più Pennsylvania e Florida)

Parola mia, a vincere sarà McCain di Michael Novak

Cina e Giappone si accordano sul gas Tokio e Pechino hanno trovato una soluzione allo scontro sulle frontiere delle acque territoriali. La questione deve la sua importanza al fatto che nel Mar cinese orientale si trovano giganteschi giacimenti di gas. I due Paesi hanno accettato lo sfruttamento in comune delle riserve e la proporzionale divisione dei guadagni. Il sorprendente annuncio è arrivato lunedì dall’agenzia di stampa giapponese Kyodo che ha fatto riferimento ad «ambienti bene informati». La conferma ufficiale potrebbe arrivare in settimana.

Merkel in Polonia

Barack otterrà il favore popolare, ma John può contare sugli Stati piccoli e medi per superare il magico traguardo di 270 voti

sondaggi pubblici tendono ad esagerare la portata del voto democratico; è vero che è ben radicato nelle grandi città e negli elettori comuni, ma non rappresenta il resto del Paese, non tutti gli adulti che sono considerati dai sondaggisti sono attualmente registrati per votare, e non tutti quelli registrati voteranno. Diversi gruppi che i democratici hanno sempre conteggiato ad agosto o settembre, storicamente, non hanno poi votato a novembre nella dimensione che ci si aspettava, come ad esempio i neri e i giovani. Questi elettori promettono bene e hanno grandi aspettative sul voto, ma spesso mancano l’appuntamento con le urne, ma sono proprio questi due i gruppi che Obama ha entusiasmato di più; dunque, quest’anno, chi può dire come andrà? Per tradizione, la mappa elettorale dovrebbe mostrare i demo-

g i o r n o

Le trattative di pace tra Gerusalemme e Damasco non dipendono solo dalla mediazione turca. Domenica il presidente israeliano Simon Peres, ricordando la visita di Sadat in Israele nel novembre 1977, si è rivolto alla Siria invitandola a contatti diretti. Se la radio dell’esercito israeliano ha reso noto che gli incontri di Ankara sarebbero terminati ieri sera, il primo ministro israeliano Olmert in un colloquio con il governatore del New Mexico, ha dichiarato che la strada dell’accordo è ancora lunga. Le trattative sono necessarie, ha detto Olmert, ma questo non vuol dire che Israele sia pronto «a cedere tutto». Il primo ministro si riferiva alle alture del Golan, conquistate con la guerra del 1967 e annesse nel 1981.

SUBITO DOPO la prima settimana di giugno, una me-

C’è poi un ulteriore elemento. Molti – ma non tutti – i

d e l

Tra Israele e Siria prosegue il dialogo

segue dalla prima

dia quotidiana di tutti i sondaggi nazionali di vari istituti hanno mostrato che Obama è in vantaggio su McCain di tre (a volte anche più) punti percentuali (48 a 45 in linea di massima), ma il suo margine dovrebbe essere superiore, perché il 2008 è stato decisamente l’anno dei democratici per l’entusiasmo del partito, il record di elettori alle primarie e l’immenso successo della raccolta fondi, il tutto sommato all’impopolarità dei repubblicani in generale e del presidente Bush in particolare. Dal 1980, i repubblicani hanno vinto cinque volte e i democratici solo due con Bill Clinton; esiste dunque un fattore di stanchezza non solo tra gli elettori, ma anche tra i dirigenti repubblicani, eppure io non credo che i democratici vinceranno le elezioni quest’anno, anche se tutto porterebbe a pensarlo. Certo, sarebbe sciocco stupirsi se Obama risultasse un buon candidato per le presidenziali - così come è stato uno straordinario contendente per la nomination democratica - e molti pensano davvero che vincerà, ma ci sono delle ragioni per le quali io non lo credo. La Costituzione americana è concepita in modo che la vittoria elettorale sia data dalla somma dei voti dei singoli Stati, non dal voto popolare nazionale; la ragione di questo è che se fosse solo il voto popolare a determinare il risultato, un candidato potrebbe vincere conquistando un’ampia maggioranza nelle aree urbane densamente popolate di molti degli Stati più grandi. In altre parole, i tanti elettori delle piccole città, delle aree rurali e degli Stati più piccoli sarebbero tagliati fuori, e infatti tali Stati rifiutarono di firmare la bozza della Costituzione finché queste disuguaglianze non furono rimosse. Il numero di voti che sono assegnati a ciascuno Stato corrisponde al numero trasmesso al Congresso degli Stati Uniti, basato principalmente sul numero di abitanti di ogni Stato. Per questo la California, che ha un’alta densità abitativa, ha 55 voti, mentre un piccolo Stato come il Delaware solo 3. Questo sistema permette ad un’ampia concentrazione di piccoli Stati, con l’aiuto di pochi più grandi, di ottenere - seppure con difficoltà - una eventuale vittoria sui californiani, i newyorkesi, i pennsylvani e sulle altre grandi popolazioni urbane. Per questo, guardando alle elezioni del 2008, non bisogna considerare il voto popolare della nazione come un insieme, ma gli Stati medi e grandi che talvolta votano per un partito, talvolta per l’altro, perché la loro combinazione sarà decisiva.

d i a r i o

cratici in rosso (il colore “progressista”), e i repubblicani in blu (il colore “conservatore”), ma per alcune ragioni accidentali i colori sono stati invertiti fin dalle presidenziali del 2000. Per questo, oggi, una rapida occhiata alla mappa mostra sia la upper che la left coast colorate di blu per i democratici, mentre la maggior parte del resto del Paese, con qualche eccezione come le aree urbane e le città universitarie, suggeriscono un’altra alba rossa per i repubblicani.

Gli Stati chiave cui guardare in ottobre e ai primi di novembre saranno quelli attualmente indecisi dell’Ohio (20 voti), della Virginia (13), del Michigan (17), del Missouri (10), del North Carolina (15) e forse della Pennsylvania (21), e della Florida (27). Complessivamente, questi Stati contano 134 voti. È altamente probabile che il senatore Obama otterrà il favore popolare, ma non pochi analisti credono che McCain sia in grado di mettere insieme quasi tutti gli Stati piccoli e medi – oltre a qualcuno abbastanza grande – per superare il magico traguardo di 270 voti. Le idee economiche di Obama, riassumibili in tre concetti fondamentali come punire i ricchi, allargare l’indigenza e l’invadenza statale, e la sua politica pacifista simile a quella di George McGovern del 1972, appaiono a molti cittadini comuni retrograde e pericolose. Questo è un motivo importante per cui il Senatore McCain potrebbe davvero ribaltare la situazione in questo straordinario anno di incredibili eventi, e un’altra ragione è che questo ex prigioniero dell’infame “Hotel Hanoi”, le cui torture lo hanno reso inabile ad alzare le braccia all’altezza delle spalle, è spinto da una serena, pacata, granitica determinazione. Nei vecchi film americani, il virtuoso, diretto uomo dell’Ovest solitamente la spuntava sull’oratore molto istruito delle università dell’Est. È sempre stato saggio non scommettere contro di lui.

Il cancelliere Angela Merkel, è arrivata ieri pomeriggio a Danzica nel nord della Polonia, per incontrare il primo ministro polacco Donald Tusk, in una visita che rischia di essere dominata dalla crisi Ue. Il consigliere di Tusk per gli affari internazionali, Krysztof Miszczak, ha dichiarato che «abbiamo aggiunto all’ordine del giorno dell’incontro di oggi il no irlandese al trattato di Lisbona. La visita, che avviene nella città natale di Tusk, tedesca fino al 1945, doveva essere dedicata alle relazioni tra i due vicini.

Immigrati, naufragio al largo della Libia Almeno quaranta immigrati sono morti e circa cento risultano dispersi dopo il naufragio dell’imbarcazione sulla quale viaggiavano al largo della Libia. I clandestini erano diretti in Italia. Lo si apprende da fonti di di sicurezza egiziane. L’imbarcazione è affondata il 7 giugno, poco dopo aver mollato gli ormeggi al largo di Zuwarah, vicino al confine con la Tunisia. A bordo vi erano 150 persone: soltanto uno di loro è stato tratto in salvo. Le autorità libiche hanno recuperato soltanto 21 cadaveri. Secondo un portavoce, il ministero dell’Interno del Cairo è stato informato della tragedia il 13 giugno, perché Tripoli riteneva che a bordo del barcone vi fossero 12 egiziani. Le condizioni dei corpi non hanno reso possibile alcun riconoscimento.

Macedonia, spaccatura tra i partiti albanesi La ripetizione delle elezioni parlamentari in parte della Macedonia, ha provocato uno spostamento dei rapporti di forza tra i partiti albanesi. L’Unione per l’integrazione democratica ha raggiunto 18 mandati, i rivali del Partito della minoranza albanese 11, dei 120 seggi del parlamento di Skopje. Il risultato non ha nessuna influenza per il governo conservatore del premier Nikola Gruevski che ha 63 seggi, la maggioranza assoluta.

Afghanistan, talebani occupano villaggi Centinaia di guerriglieri talebani hanno preso il controllo di diversi villaggi a nord di Kandahar, la principale città dell’Afghanistan meridionale ed ex roccaforte talebana. Le autorità hanno riferito che è in atto un ridispiegamento nell’area dei soldati Nato e dell’esercito afgano.


pagina 12 • 17 giugno 2008

speciale

economia

NordSud

Tra resistenze corporative e rigidità normative: l’Istituto Bruno Leoni calcola il grado di apertura del mercato in Italia e denuncia una preoccupante paralisi

LIBERALIZZAZIONI, LA RIFORMA INFINITA di Carlo Stagnaro Pubblichiamo brani tratti dall’Indice delle liberalizzazioni 2008, curato dall’Istituto Bruno Leoni. L’intero testo può essere scaricato dal sito www.brunoleoni.it Italia è libera a metà. L’Indice delle liberalizzazioni 2008 conferma, nella sostanza, i risultati raggiunti l’anno passato, e dipinge un Paese che ha iniziato ma non ha saputo portare a termine lo sforzo di aprire la sua economia alla concorrenza. Il grado di liberalizzazione, infatti, risulta pari al 47 per cento, contro il 48 per cento raggiunto l’anno scorso. La riduzione di appena un punto percentuale, vista la natu-

L’

ti percentuali, che invece viene ritenuto altamente indicativo. In entrambi i casi, responsabile del declino è il governo guidato da Romano Prodi. Nel settore delle Tlc sono intervenuti vari provvedimenti che o hanno ridotto la libertà di manovra degli operatori (abolizione del costo di ricarica per i telefonini) oppure hanno creato incertezza (il mobbing contro la cordata tex-mex perché non acquisisse il pacchetto di controllo su Telecom Italia).

Gli insormontabi ostacoli di una burocrazia inefficiente e invasiva ra qualitativa del lavoro, non è considerata significativa. Quello che invece è significativo è entrare nel dettaglio, cercando di capire da cosa questa stabilità derivi.

Essa dipende da due trend contrastanti. Da un lato vi è stato un piccolo miglioramento inerziale di alcuni settori che già erano considerati abbastanza liberalizzati (come elettricità e trasporto aereo) oppure che si trovavano nella situazione opposta, di un tasso di liberalizzazione molto basso (trasporto pubblico locale e poste). Questo indica non tanto un miglioramento nella regolazione o nelle norme, ma piuttosto suggerisce che la stabilità del quadro normativo è un bene in sé: la relativa certezza rispetto agli effettivi spazi di azione sul mercato agisce da incentivo, per le imprese, a mettersi in gioco. Viceversa, in alcuni settori – e in particolare telecomunicazioni e soprattutto mercato del lavoro – si è osservato un drammatico calo, rispettivamente di 5 e 15 pun-

Per di più, il tiramolla sulla separazione funzionale della rete telefonica fissa, che si è risolto in un nonnulla, ha tenuto per mesi una tensione molto alta che ha agito da deterrente all’ingresso sul mercato. Per quel che riguarda il lavoro, invece, si è assistito a un’autenti-

ca guerriglia interpretativa volta a contenere gli effetti liberalizzatori della legge Biagi. Inoltre sono stati introdotte diverse complicazioni burocratiche che, senza generare alcun reale beneficio per i lavoratori, hanno prodotto complessità e rigidità inutili. Questo dimostra, tra le altre cose, che le liberalizzazioni non possono mai essere considerate come acquisite: vanno costantemente difese e, se possibile, portate avanti.

Il quadro generale, comunque, parla di un Paese che fatica a metabolizzare la cultura della libertà. Sono due settori (elettricità e trasporto aereo) ottengono un punteggio sufficientemente alto da far parlare di effettiva libertà d’azione. Al contrario, il numero di settori dell’economia italiana che restano o entrano nel gruppo della liberalizzazione gravemente assente cresce da tre a cinque. Col 40 per cento dei settori censiti, questa categoria è quella di maggioranza relativa, e ciò fa suonare un importante campanello d’allarme. Rispetto al 2007, sono state introdotte alcune novità, la principale

delle quali consiste nell’esame di quattro nuovi settori (servizi idrici, trasporto pubblico locale, fisco e pubblica amministrazione). Naturalmente, per essi è stato calcolato anche il valore relativo all’anno scorso, in modo da non alterare il confronto. L’effetto complessivo è stato quello di abbassare la valutazione generale, a testimonianza che la necessità di intervenire con provvedimenti forti di liberalizzazione non è limitata a poche, grandi eccezioni, ma ha un valore sistemico. Senza contare che il raggio d’interesse dell’Indice delle liberalizzazioni è ancora piuttosto limitato, e prende in esame

Un passo in avanti e tre indietro SETTORE

GRADO

DI LIBERALIZZAZIONI DEL

2008

GRADO

DI LIBERALIZZAZIONI DEL

2007

DIFFERENZA

Elettricità Gas Telecomunicazioni Servizi idrici Trasporto ferroviario Trasporto aereo Trasporto pubblico Poste Professioni intellettuali Lavoro Fisco Pubblica amministrazione

74 per cento 56 per cento 35 per cento 27 per cento 49 per cento 70 per cento 46 per cento 39 per cento 46 per cento 35 per cento 52 per cento 39 per cento

72 per cento 58 per cento 40 per cento 27 per cento 49 per cento 66 per cento 45 per cento 38 per cento 46 per cento 50 per cento 51 per cento 39 per cento

2 per cento -2 per cento -5 per cento = = +4 per cento +1 per cento +1 per cento = -15 per cento +1 per cento =

INDICE DELLE LIBERALIZZAZIONI

47 (50) per cento

48 (52) per cento

-1 (-2) per cento

Nota: Tra parentesi viene riportato il valore dell’indice delle liberalizzazioni sulla base dei soli settori censiti nel 2007 Fonte: Indice delle liberalizzazioni – Istituto Bruno Leoni

solo settori economicamente molto rilevanti, trascurando cioè tutti quei casi in cui l’assenza di libertà economica è evidente, ma coinvolgono mercati relativamente marginali (per esempio, tassisti e farmacie).

Uno sguardo particolare meritano i tre settori che sono stati definiti speciali, nel senso che non si tratta di settori economici in senso stretto: il mercato del lavoro (il cui grado di liberalizzazione è sceso dal 50 al 35 per cento), il fisco (salito dal 51 al 52 per cento) e la pubblica amministrazione (stabile al 39 per cento). Essi sono interessanti perché determinano la cornice comune a tutte le attività economiche. L’esistenza di un mercato del lavoro ingessato, di un sistema tributario esoso e distorsivo, di una pubblica amministrazione inefficiente costituiscono altrettante barriere all’ingresso implicite in qualunque campo. Accanto all’adozione di politiche di liberalizzazione specifiche per i vari settori, allora, è essenziale avere uno sguardo organico sul paese nel suo complesso. Attraverso una definizione del concetto di liberalizzazione come assenza di ostacoli all’avvio di un’iniziativa imprenditoriale, si giunge alla richiesta di un impegno politico nella semplificazione del paese, a tutti i livelli.


17 giugno 2008 • pagina 13

La crisi delle Ferrovie e dell’Alitalia causano disservizi e alti costi in campo ferroviario e aereo

Trasporti,il Belpaese rallentato dai monopolisti di Andrea Giuricin TRASPORTO FERROVIARIO L’Unione Europea nel corso del 2007 ha attuato un’importante passo verso la liberalizzazione del mercato del trasporto ferroviario. L’approvazione del terzo pacchetto ferroviario ha quindi il fine di favorire l’apertura dei servizi ferroviari internazionali di trasporto passeggeri. L’apertura del mercato ferroviario merci internazionale è già realtà nell’Unione Europea. L’Italia, pur recependo queste direttive, nel suo complesso non ha sostanzialmente migliorato il suo grado di liberalizzazione.

La normativa italiana del settore non è particolarmente arretrata rispetto alla normativa dei due paesi benchmark, Gran Bretagna e Svezia. A fine del 2007 è nata l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, esterna ed indipendente da Rete Ferroviaria Italiana, ma sempre sotto il controllo del mini-

stero dei Trasporti. Il mercato passeggeri italiano si è contratto negli ultimi tre anni, a causa della debolezza dell’ex monopolista Trenitalia, che continua a operare in forte perdita. Nuovi operatori non sono ancora riusciti ad entrare sul mercato passeggeri anche se si prevede che a fine del 2009, quando sarà terminato l’asse TorinoMilano-Napoli ad alta velocità, essi faranno la loro comparsa. In Italia, negli ultimi anni si evidenzia una certa ripresa del settore merci, soprattutto grazie all’entrata di nuovi player diversi da Trenitalia. Un minimo di concorrenza inizia a farsi spazio nel mercato italiano, anche se permangono delle forti barriere all’ingresso. Il mercato ferroviario italiano è ancora dominato dall’ex monopolista che detiene quote di mercato superiori al 90 per cento. Il mercato italiano soffre della mancanza di una reale

concorrenza, dovuta in gran parte alla mancata separazione effettiva tra Trenitalia, il principale operatore ferroviario, e Rete Ferroviaria Italiana, il gestore della rete. Ferrovie dello Stato, che detiene la totalità delle azioni di Trenitalia e Rete ferroviaria italiana, continua ad operare in forte perdita nonostante grandi contributi da parte dello Stato italiano.Trenitalia nel 2006 ha perso circa 1,9 miliardi di euro, mentre nel 2007 la perdita si è ridotta a circa 400 milioni di euro. Dai dati risulta evidente nel settore ferroviario italiano, come in tutta Europa, una forte presenza di contributi pubblici. I mercati liberalizzati sono quelli che necessitano meno dei contributi pubblici. TRASPORTO AEREO Il trasporto aereo europeo nel 2007 ha compiuto il decimo anno di liberalizzazione dei voli

intracomunitari e nazionali. La completa liberalizzazione del mercato è tuttavia non ancora attuata in quanto rimangono importanti barriere all’ingresso e non esiste ancora una liberalizzazione completa dei voli intercontinentali. Le principali barriere all’ingresso sono rinvenibili nel sistema di oneri di servizio pubblico, che limitano la concorrenza per talune rotte comunitarie o nazionali e la mancanza di un sistema di prezzo per gli slot. A livello italiano nel 2007 sono stati compiuti importanti passi in avanti. La decisione del 23 aprile 2007 da parte della Commissione Europea riguardo l’imposizione di oneri di pubblico servizio su talune rotte da e verso la Sardegna ha di fatto eliminato le restrizioni normative che impedivano una completa liberalizzazione del mercato italiano. La decisione della Commissione Europea prevede infatti che lo Stato italiano possa continuare ad applicare oneri di servizio pubblico ma solamente nel rispetto di certe condizioni tra le quali: i vettori non sono vincolati ad una continuità dei servizi, nel quadro Osp, superiore ad un anno; i vettori aerei non hanno l’obbligo di offrire tariffe agevolate ai nati in Sardegna; le autorità si impegnano a non subordinare il diritto di prestare servizi su una rotta tra due città all’obbligo di operare un’altra rotta tra due città.

Questa decisione ha avuto effetti immediati sul mercato del trasporto aereo italiano, non solo per quanto riguarda la parte normativa; infatti diversi operatori low cost hanno cominciato ad offrire servizi di trasporto aereo per quelle rotte prima non aperte alla concorrenza. Il secondo punto di miglioramento è individuabile nell’accordo avvenuto tra Stati Uniti ed Unione Europea per la liberalizzazione delle rotte atlantiche. Tale accordo è stato siglato il 30 aprile 2007 ed è pienamente operativo a partire dal 30 marzo 2008. Il mercato italiano è caratterizzato dalla debolezza permanente della compagnia di bandiera, la quale ha iniziato nel 2007 un processo di privatizzazione che però alla fine dello scorso anno non si era ancora concluso. Alitalia è un attore sempre meno importante nel mercato italiano: infatti se nel 1997, anno della liberalizzazione europea, aveva una quota di mercato vicina al 50 per cento, nel 2007 la quota di mercato è scesa al 23 per cento. La quota di mercato detenuta da Alitalia è al 17 per cento per i voli internazionali e al 40 per cento per le tratte nazionali. Il mercato liberalizzato è aumentato in Italia non in maniera

consistente, in quanto il mercato da e per la Sardegna non è rilevante. TRASPORTO PUBBLICO LOCALE Un mercato poco concorrenziale quello italiano. Per molti anni ha continuato a contrarsi; solo in seguito alla riforma introdotta dal decreto Burlando si è stabilizzato.

L’analisi dei costi e dei ricavi in Italia nel Tpl evidenzia la debolezza del settore. I dati evidenziano un costo operativo per vettura chilometro superiore ai 4 euro nel 2005, in crescita di circa 9 punti percentuali rispetto al 2002. I ricavi da traffico sono invece pari a 1,25 euro per vettura chilometro, cioè meno di un terzo dei costi operativi. I costi sono aumentati maggiormente rispetto ai ricavi, ma soprattutto i costi del Tpl italiano sono tre volte superiori a quelli britannici esclusa Londra; anche includendo Londra il Tpl britannico costa il 60 per cento in meno rispetto a quello italiano. L’introduzione delle gare per l’affidamento, potrebbe in parte introdurre un minimo di efficienza nel settore. La liberalizzazione del Tpl è sempre più necessaria in un settore dove gli operatori storici continuano a produrre a dei costi molto elevati. L’obbligo della procedura di gara, prevista dal decreto Burlando per il 2003, ma di fatto largamente inattuata a causa dei continui cambiamenti legislativi, potrebbe portare dei cambiamenti, se realmente fosse introdotta una competizione tra gli attori del Tpl. In Italia le poche gare effettuate hanno avuto un esito molto deludente. Nel 2005 infatti un’analisi di Carlo Cambini ha dimostrato che la quasi totalità dell’affidamento tramite gara si conclude con l’affidamento all’incumbent. Solamente nel trasporto extra-urbano in Lombardia, una gara sulle 22 effettuate ha avuto un esito diverso. Inoltre non solo le gare sono vinte dall’incumbent, ma il ribasso medio è quasi inesistente. La procedura delle gare nel 2005 era totalmente inefficiente in quanto non causava una diminuzione dei costi operativi e non apriva il mercato alla concorrenza di nuovi player entranti. L’Italia contribuisce al trasporto pubblico locale principalmente tramite le regioni. Nel 2006 i finanziamenti regionali hanno superato i 3,2 miliardi di euro. Essi non coprono l’intera differenza tra i costi operativi e la tariffa in quanto altri finanziatori intervengono in questo settore. Solamente un terzo dei costi è coperto dalle tariffe, mentre il 50 per cento viene finanziato tramite i fondi regionali.


pagina 14 • 17 giugno 2008

NordSud Lavoro, una rigida flessibilità speciale

economia

Stretta dei call center e assenso sindacale nei contratti a tempo: c’è sempre la Biagi nel mirino

di Michele Tiraboschi el campo del lavoro a progetto, se si prescinde dal “condono” sulle collaborazioni illegittime con possibilità di regolarizzazione e dall’innalzamento degli oneri contributivi – cui si è fatto ora cenno – non si rileva nessun rilevante intervento legislativo nel 2007. Eppure, quello delle Co.co.pro. è stato un terreno di aspre polemiche, passaggio fondamentale di quella riforma Biagi che parte della scorsa coalizione di governo aveva preannunciato di voler abrogare.

N

Anzi, proprio facendo uso della legge Biagi che il ministro Damiano è intervenuto sull’utilizzo delle collaborazioni a progetto nel settore dei call center, emanando la circolare n. 17 del 14 giugno 2006, che il precedente ministero Maroni aveva preparato senza mai pubblicare5. Una circolare importante, perché ha chiarito le modalità pratiche ed i limiti entro i quali è possibile utilizzare il lavoro a progetto in questo settore, che continua tuttavia a essere terreno di forti contrasti. Circolare alla quale però, si deve ricordare, è stata affiancata una campagna ispettiva d’assalto che, intervenendo in tackle in situazioni nelle quali erano in corso trattative sindacali volte alla regolarizzazione, ha paralizzato l’attività di alcuni fra i più importanti call center; lo stesso Tar del Lazio ha dichiarato inopportuni questi provvedimenti ispettivi. Con la circolare n. 4/2008, poi, il ministero ha indicato una serie di categorie di lavoratori che non si adatterebbero in natura alla fattispecie delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto introdotta dalla legge Biagi e sulle quali – come chiaramente enunciato – sarà di conseguenza concentrata l’azione degli organi ispettivi. L’elenco è peraltro meramente esemplificativo, come lo stesso ministero lascia intendere citando espressamente – dopo avere rinviato ad un successivo approfondimento – anche il settore dell’insegnamento nelle strutture private. La circolare ha destato parecchi dubbi. È senza dubbio vero che le attività indicate siano alcune fra quelle nelle quali la compatibilità con il lavoro autonomo (nel cui alveo rientrano le collaborazioni a progetto), in ragione delle tipi-

che e abituali modalità di esecuzione della prestazione, è particolarmente controversa. Ciò è dimostrato d’altra parte dalla stessa frequenza con la quale la magistratura del lavoro è stata chiamata a pronunciarsi, proprio con riferimento a dette figure, sulla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato ovvero autonomo, anche in forma coordinata e continuativa. Ma la stessa giurisprudenza è anche ferma nel ribadire – come ricorda, peraltro solo in via incidentale, anche la circolare – che ogni attività umana suscettibile di valutazione economica è di per sé riconducibile ad una prestazione lavorativa svolta in forma autonoma o subordinata. Solleva dunque non poche perplessità il ragionamento sviluppato dal ministero del Lavoro, in particolare là dove si argomenta nel senso di una surrettizia presunzione di subordinazione, con onere della prova della autonomia in capo all’imprenditore, a prescindere da una attenta valutazione delle modalità concrete di esecuzione della prestazione dedotta in contratto. Tutt’altra è infatti la presunzio-

ne di cui alla legge Biagi, che impone invece alle parti di esplicitare in anticipo – ai fini della prova – il progetto, programma di lavoro o fase cui è riconducibile la collaborazione, le modalità di coordinamento, il termine e il corrispettivo.

In secondo luogo, laddove la riforma delle collaborazioni coordinate e continuative introdotta dalla Legge Biagi ha un chiaro e manifesto intento di riduzione del contenzioso (operato appunto tramite l’imposizione di precisi oneri di forma facilmente riscontrabili e con una presunzione relativa di subordinazione in caso di inosservanza degli stessi), viceversa una presunzione di subordinazione basata tout court sul tipo di attività rischierebbe di vedere notevolmente aumentata la mole di cause avanti i giudici del lavoro, in opposizione avverso i verbali ispettivi in tema di qualificazione del rapporto. Riguardo al tema del mercato del lavoro, la legge 24 dicembre 2007, n. 247 sembra “muoversi e realmente deragliare sulle montagne russe parlamentari, con interventi

solo parzialmente condivisibili e comunque non dotati di un ‘senso unico’ razionale”. Esempio lampante quello della abrogazione del cosiddetto staff leasing, del quale molti non hanno avuto difficoltà a ravvisare una ratio di mera concessione politica: si osservi, peraltro, che nel protocollo non era prevista originariamente l’abolizione della somministrazione a tempo indeterminato, bensì si rimandava ad un tavolo di confronto con le parti sociali. Le norme relative al contratto a termine da un lato confermano, quali elementi necessari e sufficienti per l’apposizione del termine le ragioni tecniche, produttive, organizzative e sostitutive; dall’altro impongono, in caso di proroghe ovvero rinnovi di un contratto a termine, un limite temporale massimo complessivo di 36 mesi di durata del rapporto, con la possibilità di un ulteriore (e uno solo) contratto a tempo determinato tra gli stessi soggetti «stipulato [...] presso la Direzione provinciale del lavoro competente per territorio e con l’assistenza di un rappresentante dell’organizzazione sindacale cui il lavoratore sia iscritto o conferisca mandato». Con riferimento al contratto di lavoro a tempo parziale l’intento è quello, evidente, di eliminare alcune flessibilità con riguardo alla competenza dell’autonomia individuale, e in particolare a sostituire quest’ultima con l’autonomia collettiva. Ciò avviene mediante la previsione per cui eventuali modifiche della collocazione temporale della prestazione lavorativa potranno essere stabilite solo da accordi collettivi con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e non più dalle (singole) parti del contratto stesso; e allo stesso modo la variazione in aumento della durata della prestazione, così come della citata modificazione della collocazione temporale della stessa, previste e prevedibili oramai solo in ambito collettivo, necessiterà comunque di un preavviso di almeno 5 giorni. Dunque il lavoro a tempo parziale viene in un colpo solo privato della sua pur recente caratterizzazione, nel senso del crescente ruolo per l’autonomia individuale, e nel contempo irrigidito mediante un rinvio ineludibile alla contrattazione collettiva.

i convegni MILANO Martedì 17 giugno 2008 Università Bocconi L’ateneo milanese presenta la ricerca VoIP Impact 2008. Innovazione nelle reti di tlc e nel sistema produttivo del Paese, sull’uso della comunicazione voce via internet in Italia. Ne discutono Salvatore Sardo (corporate director di Eni), Stefano Venturi (Ad di Cisco Systems Italia) e Giorgio Bertolina (Ad di Italtel). ROMA Mercoledì 18 giugno 2008 Palazzo della Cancelleria Si riunisce l’assemblea annuale dell’Unione petrolifera. Con il presidente Pasquale De Vita discuteranno del settore Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo, Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente, ed Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. ROMA Giovedì 19 giugno 2008 Auditorium Conciliazione È in programma l’assemblea generale di Confcommercio. Il presidente Carlo Sangalli farà il punto sulla crisi del comparto e della domanda interna. Previsto l’intervento del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. RIVA DEL GARDA Venerdì 20 giugno 2008 Palazzo dei Congressi Al via la IV Conferenza Italiana per il Turismo. Partecipano il sottosegretario Michela Vittoria Brambilla, il presidente del Cnel, Antonio Marzano, e quello di Unioncamere, Andrea Mondello. LEVICO Venerdì 20 giugno 2008 Parco delle Terme Inizia oggi la Festa nazionale della Cisl. Con il segretario generale Raffaele Bonanni discuteranno Corrado Passera, Ad di IntesaSanpaolo, il ministro degli Interni, Roberto Maroni, quello del Lavoro, Maurizio Sacconi, il responsabile dell’Economia, Giulio Tremonti, la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, e i leader di Cgil e Uil, Guglielmo Epifani e Luigi Angeletti.


17 giugno 2008 • pagina 15

Senza rigassificatori e altre infrastrutture non scenderanno le bollette

Gas, l’imbuto delle pipeline di Massimo Beccarello e Andrea Villa

MERCATO GLOBALE

Petrolio, i fronti della speculazione Gianfranco Polillo

el segmento della produzione nazionale l’operatore dominate mantiene stabile la sua quota di mercato, la quale è rimasta superiore all’80 per cento per tutto il periodo 2000-2006. Date le condizioni strutturali che caratterizzano il sempre minore peso della produzione nazionale riteniamo difficile che da questa attività possano nascere degli stimoli al processo di liberalizzazione. La riduzione dei quantitativi di gas naturale estratto in territorio italiano ha portato all’utilizzo sempre più consistente della seconda modalità di approvvigionamento: le importazioni, le quali hanno ormai raggiunto i 72,6 miliardi di metri cubi (Gmc) annui. Infatti, anche se nel 2006 la domanda italiana di gas si è leggermente contratta, le importazioni sono cresciute del 5,4 per cento e a oggi rappresentano l’87,5 per cento del gas naturale utilizzato in Italia.

N

Quindi il gas consumato in Italia proviene per la gran parte da Paesi che distano migliaia di chilometri dall’Italia come ad esempio i giacimenti russi della penisola di Yamal. Date le elevate distanze il mezzo di trasporto utilizzato è il gasdotto, che permette la migliore performance in termini di costo. I gasdotti che collegano l’Italia ai giacimenti esteri sono stati costruiti quando il mercato del gas naturale non era stato ancora liberalizzato. Infatti, in quegli anni, importatori ed esportatori erano imprese monopoliste integrate verticalmente di natura pubblica. Siccome poi la costruzione di gasdotti richiede un esborso finanziario molto elevato e dà vita a problematiche di lock in, la vendita internazionale di gas è sempre avvenuta tramite la stipula di contratti a lungo termine con clausola di indicizzazione dei prezzi e con clausola di take or pay. L’unione di questi due strumenti rende possibile un’efficiente distribuzione del rischio. Infatti, con la clausola take or pay il rischio quantità viene sopportato interamente dall’acquirente mentre, con la clausola di indicizzazione dei prezzi, il venditore si assume interamente il rischio di prezzo visto che esso viene indicizzato al prezzo dei prodotti energetici sostitutivi del gas naturale. Grazie a questa complessa metodologia contrattuale è stato possibile ottimizzare l’investimento in gasdotti visto che essi hanno sempre opera-

to con quantitativi vicini alla piena saturazione. Quindi, ancora oggi, le importazioni italiane non avvengono grazie a transazioni spot ma grazie a contratti pluriennali con clausola take or pay. Il perdurare di questa situazione porta così a una limitazione della competizione nel campo dell’importazione. La grande quantità di contratti take or pay in essere fa sì che nei punti di ingresso non vi siano grandi possibilità per i nuovi operatori di importare un maggiore quantitativo di gas visto che la capacità conferita è pari al 92,1 per cento della capacità disponibile. Aggiungendo che la produzione nazionale è in continuo declino, il mercato del gas italiano necessita di maggiori investimenti nel campo delle infrastrutture affinché si dispieghi una vera e propria competizione. I nuovi concorrenti, non potendo stipulare nuovi contratti, sono costretti ad acquistare i quantitativi necessari dall’ex monopolista (Eni) attraverso compravendite prima della frontiera italiana. Nella fase downstream troviamo principalmente due attività: distribuzione e vendita. Come si può ben capire l’attività di distribuzione si trova in una situazione di monopolio naturale dato che la duplicazione delle reti è anti-economica. Per tale ragione il decreto Letta ha imposto una separazione netta tra vendita e distribuzione, la quale deve essere concessa con gara d’appalto per un periodo massimo di 12 anni. La fase di vendita invece non si trova in una situazione di monopolio naturale, e quindi è possibile e auspicabile la creazione di una vera competizione tra i diversi operatori.

Per facilitare la competizione in questo importante segmento di mercato il decreto Letta ha inserito un cap alle vendite per singolo operatore, le quali, infatti, non devono superare il 61 per cento della quota di mercato. Grazie a questo tetto antitrust negli ultimi anni abbiamo assistito a una riduzione di diversi punti degli indici di concentrazione dei grossisti. La riduzione del numero di venditori nell’ultimo anno è stata pari al 12,06 per cento. La riduzione del numero di distributori ha permesso di conseguenza l’incremento del volume unitario medio pari a 10,31 per cento anche se i volumi venduti si sono ridotti dell’1,63 per cento. Quindi la fase di downstream è la fase della filiera dove la competizione ha avuto gli effetti maggiori.

iuniti al capezzale dell’economia internazionale, i grandi non hanno trovato la “quadra”. Al G8 di Osaka la discussione è stata ampia. Qualche chiarimento importante è avvenuto sulla diagnosi della crisi: Mario Draghi ha relazionato sull’evoluzione di quella finanziaria, ottenendo un’unanimità di consensi – salvo Giulio Tremonti – alle sue tesi. E visto dal Giappone il futuro della finanza internazionale fa meno paura.

R

Le perdite finora subite dalle grandi banche, ma soltanto in parte evidenziate a bilancio, lasciano ben sperare. Resta l’incognita di quel castello di carta che caratterizza i mercati non regolamentati – hedge fund in testa – ma si può tirare un sospiro di sollevio: specie se si considera il pessimismo dei mesi precedenti. Nulla è ovviamente scontato, ma il sistema finanziario sembra più solido di quanto, a prima vista, potesse sembrare. Diagnosi giusta? Vedremo nei prossimi mesi. Nel frattempo prendiamo per buone le dichiarazioni di Domenique Strauss-Kahn, direttore generale del Fmi: non ci sarà un crollo (ma chi l’aveva mai teorizzato?) ma un lento declino, che si spera temporaneo. Se questo è il dato positivo della riunione, ben più deludenti sono stati gli impegni non presi per scongiurare la tenaglia che blocca l’economia mondiale: una ripresa dell’inflazione da un lato, una crescita comunque più lenta dall’altra. Questo è lo scenario con cui dovranno fare i conti tutti i governi, compreso quello italiano alle prese con una situazione ancora più difficile rispetto agli altri. Alla base di tutte le preoccupazioni è stato, soprattutto, il caro petrolio. I cui prezzi crescono a ritmo vertiginoso sotto la spinta di un aumen-

to dei consumi e di fenomeni di carattere speculativo. Capitolo, quest’ultimo, che ha incontrato, tuttavia, orecchi da mercati. Stati Uniti e Inghilterra ne hanno negato l’esistenza. Il mercato dei futures – hanno detto – non è una roulette russa, ma uno strumento che consente di segnalare l’esistenza di un fenomeno reale. Vale a dire lo squilibrio tra domanda e offerta, riflettendosi sui prezzi. La tesi è singolare. E non spiega come da un costo di produzione massima di 60 dollari al barile si possa raggiungere i 140 dollari attuali. Del problema si riparlerà nei prossimi mesi, quando Fmi e Agenzia internazionale per l’energia avranno avuto il tempo di studiare il fenomeno e predisporre un ponderoso rapporto. Nel frattempo il dollaro continuerà a essere sottovalutato rispetto all’euro. E gli inglesi a godere della rendita di posizione – l’alto prezzo del petrolio – per i loro giacimenti del Mar del Nord. Perché questa è la reale natura del conflitto in atto.

Tra le tante cause che hanno determinato l’impennata del greggio, una non secondaria è il corso del dollaro. Se esso scende, i Paesi produttori aumentano i prezzi nella speranza di recuperare lo “sconto”, cui sono costretti. Un gioco complesso di equilibri. Al quale partecipano tutti gli operatori. L’Arabia Saudita, al termine del vertice di Osaka, ha deciso di aumentare la produzione per calmierare il mercato. Una scelta responsabile? Meglio: un rischio calcolato. Il “nucleare” sta tornando in auge, sulla spinta proprio del caropetrolio. Meglio quindi contenere gli eccessi e sperare che questa mossa possa almeno ritardare la costruzioni di quelle centrali, che rappresenterebbero per i Paesi produttori la rottura del loro monopolio.


economia

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Il carogreggio ha peggiorato la situazione dell’Austrian Airlines, che soltanto nel primo trimestre 2008 ha registrato perdite per 60 milioni di euro. E che potrebbero salire a 90 milioni senza lanciare un piano straordinario o una procedura di fallimento pilotato sul modello di Swissair

La compagnia di bandiera finisce nel mirino di Lufthansa, che punta ai suoi collegamenti con l’Est Europa

Perdite record e ricerca di un compratore: i travagli dell’Aua,l’Alitalia dell’Austria di Alessandro Alviani

BERLINO. Lufthansa o “grounding”. È questa l’alternativa cui rischiano di trovarsi di fronte i politici austriaci, costretti a individuare una via d’uscita alla crisi nella quale versa la loro Austrian Airlines (Aua). E a farlo il prima possibile perché le perdite della compagnia di bandiera si accumulano ogni giorno di più e il titolo in Borsa è ormai in caduta libera. Obiettivo prioritario resta quello di non ripetere il grounding sperimentato dai cugini elvetici il 2 ottobre del 2001: quel giorno gli aerei di Swissair restarono clamorosamente a terra, ultimo capitolo di un’agonia che si trascinava da tempo e primo passo verso la rinascita sotto le insegne di Swiss e l’ala protettrice di Lufthansa. Proprio i tedeschi potrebbero ora giungere in soccorso di Austrian e bissare l’operazione-salvataggio. A Vienna si va infatti sgretolando il muro contro cui si era scontrato nelle scorse settimane l’iniziale interesse della compagnia di Francoforte. «Aua deve assolutamente restare austriaca», aveva detto appena un mese fa il ministro dei Trasporti, il socialdemocratico Werner Faymann, spal-

leggiato dal cancelliere e compagno di partito Alfred Gusenbauer. Ora l’improvvisa svolta: «considero improbabile una soluzione stand-alone, mentre è più probabile una partnership strategica», ha ammesso il ministro delle Finanze, il popolare Wilhelm Molterer. Tra le due dichiarazioni si nasconde il declino economico della compagnia, controllata dallo Stato austriaco, che detiene una quota del 42,75 per cento attraverso la holding pubblica Öiag. A pesare sui conti e sulle pro-

greggio, che ha costretto la scorsa settimana i vertici di Aua a un profit warning: nel primo trimestre Austrian ha perso circa 60 milioni, che potrebbero diventare 90 entro la fine dell’anno.

Le previsioni per il 2009 non lasciano ben sperare, dopo un 2007 in cui era stato centrato il primo utile dal 2004. A tutto ciò si aggiungono problemi che ricordano da vicino quelli di Alitalia: una flotta invecchiata e troppo eterogenea, pesanti debiti e costi alle stelle.

I paralleli con il vettore italiano si sprecano: conti in rosso, una flotta obsoleta e la politica locale che fa quadrato contro partner stranieri. Ma la privatizzazione è indispensabile per evitare un fallimento pilotato come quello della Swissair spettive di crescita sono stati prima l’improvvisa uscita di scena dello sceicco saudita Mohammed Bin Issa Al Jaber, il quale ha rinunciato ad acquisire – come inizialmente annunciato – una partecipazione del 20 per cento, perché “raggirato” sulla reale situazione dei conti. Poi il caro-

Di fronte a un quadro simile Molterer non ha escluso, per la prima volta, una privatizzazione della compagnia. Tanto che ormai Austrian Airlines è ufficialmente alla ricerca di un partner e ha affidato alla società di consulenza Boston Consulting Group il compito di analizzare i possibili scenari.

Intanto il presidente di Air France-Klm, Jean-Cyril Spinetta, ha smentito di avere nessun interesse alla compagnia. Così la cerchia dei pretendenti sembra essersi ristretta a due: Aeroflot e Lufthansa, con i russi che hanno più volte fatto capire di essere pronti ad aprire le trattative e di aspettare soltanto le proposte del governo austriaco. L’alleato più probabile sembra allora Lufthansa. Il numero uno Wolfgang Mayrhuber, austriaco di nascita, ha mostrato il suo interesse. Aua, pur rappresentando un pesce piccolo nel processo di consolidamento del settore, gestisce un’ampia rete di collegamenti con l’Europa dell’Est che sembra far gola ai tedeschi. Ma per il momento, e in attesa che a Vienna si decida il da farsi, non sono state ancora aperte le trattative. A favore di Lufthansa gioca sia l’esperienza dimostrata nel risanamento di Swiss sia il fatto di militare, così come Aua, in Star Alliance (mentre Aeroflot fa parte, come Air FranceKlm, di Sky Team). Un dettaglio, questo, non irrilevante: un eventuale cambio di alleanza costerebbe agli austriaci, secondo alcune stime, circa 100 milioni di euro.

A frenare Mayrhuber potrebbe essere invece una preoccupazione che accomuna diversi politici austriaci: la perdita di importanza dell’hub di Vienna. Non pochi temono che Lufthansa possa concentrare i voli verso l’Est Europa sull’aeroporto di Monaco di Baviera; a farne le spese sarebbe lo scalo viennese, legato a doppio filo ad Aua: il 52,6 per cento del totale dei passeggeri qui transitati nel 2007 viaggiava su un aereo Austrian.

Un aspetto non secondario è poi la quota eventualmente messa in vendita. Per ora in discussione c’è, tra l’altro, una riduzione della partecipazione statale in Aua al 25 per cento. Ma stando ad alcuni analisti, ai tedeschi una semplice partecipazione di minoranza potrebbe non bastare, in quanto non assicurerebbe sufficienti sinergie: Swiss, del resto, è controllata da loro al 100 per cento. I segnali decisivi per il futuro di Austrian sono attesi nelle prossime settimane. Entro fine luglio Boston Consulting depositerà i risultati del suo studio. Al più tardi in autunno il governo austriaco, diviso sulla questione, ha intenzione di prendere una decisione su un eventuale partner.


economia

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Cresce l’export del Belpaese: affari soprattutto a Mosca dove si guadagna fino al 200 per cento in più

Russia, un eldorado per il made in Italy d i a r i o

di Alessandro D’Amato

d e l

g i o r n o

Mutui, l’Isvap attacca le assicurazioni L’Isvap, l’autorità di vigilanza sulle assicurazioni, ha lanciato duri strali contro le compagnie. Sulla portabilità dei mutui immobiliari il presidente Giancarlo Giannini ha denunciato che, nonostante il trasferimento dei prestiti da una banca all’altra sia ormai previsto dalla legge a costo zero, questa facoltà «è ancora ostacolata dalla rigidità» dei costi e delle pratiche di risoluzione dei contratti assicurativi. Il garante ha anche auspicato un calo del 5 per cento nelle polizze dopo le liberazzazioni volute da Bersani.

Marcegaglia: all’asta i servizi pubblici Emma Marcegaglia rilancia la battaglia di Luca Cordero di Montezemolo sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali. «Dal nostro punto di vista», ha chiesto la presidente di Confindustria al ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, «sono ancora un elemento di insufficienza e di aumento delle tariffe sulle imprese e i cittadini». Quindi la proposta di viale dell’Astronomia: «Chiederemo che tutto ciò che viene gestito in house venga assegnato attraverso aste». Nel mirino delle imprese soprattutto la gestione dell’acqua, dei rifiuti, degli sfalci e dell’energia.

Balzo di Parmalat a piazza Affari

ROMA. «È uno dei mercati dove l’Italia ha fatto meglio; questo è dovuto a fattori esterni e interni.Tra i primi l’accumulazione di ricchezza dovuta all’aumento dei prezzi delle materie prime, di cui il Paese è ricco. Poi c’è la scelta di destinare le zone OEZ agli investitori stranieri, che ne ha incentivato l’arrivo. Ma soprattutto c’è la grande azione di supporto dell’Ice di Mosca e la qualità nostrana, che ha fatto della merce italiana in breve uno status symbol». Il Paese in questione è la Russia e a parlare è Stefano Manzocchi, ordinario di Commercio internazionale della Luiss e curatore, insieme con Beniamino Quintieri della ricerca Nell’occhio del ciclone: strategie per costruire il futuro del made in Italy, presentata ieri in Campidoglio dal Comitato Leonardo. Aggiunge Manzocchi: «La sperequazione del reddito porta ai russi ampie possibilità di acquisto nel lusso, ma anche nei prodotti per la persona (l’oreficeria), nell’abbigliamento e nell’arredo: settori che, insieme con l’automazione, costituiscono le quattro aree d’eccellenza della nostra produzione». Senza dimenticare che «l’Italia è ben radicata nella zona: la Indesit, per esempio, ha stabilimenti nel Paese ormai da anni, e questo non può che aiutarci. E c’è da ricordare il grandissimo lavoro svolto da Confindustria, Simest e le altre associazioni. La Russia è un Paese-modello, che il nostro export dovrebbe prendere a esempio». E infatti su questo mercato i prezzi praticati

Le nostre imprese conquistano mercato anche in Asia e in Brasile. Quintieri: «Intercettare meglio le piazze più ricche» dagli esportatori risultano essere dal 30 al 200 per cento superiori rispetto alla media. Perché la qualità si paga e, all’estero ancora di più: è proprio la ricerca a rivelare che sette imprenditori italiani su dieci praticano, all’export, prezzi più alti di quelli stabiliti per il mercato interno. I mercati in cui le imprese medio-grandi praticano i prezzi più alti sono quello dell’Europa a 15 (33 per cento), quello asiatico (24) e quello russo (16). Sconti invece praticati sul mercato americano, a causa probabilmente del dollaro debole.

Apprezzabile, invece, il risultato dei beni esportati nell’Estremo oriente (Giappone, Corea del Sud), negli Stati Uniti, in Russia appunto e in alcuni importanti mercati emergenti come quello cinese e quello brasiliano. Ma c’è di più: l’evidenza indica un marcato aumento dei valori medi unitari, che approssimano i prezzi medi, delle esportazioni italiane. Questo fenomeno è particolarmente consistente proprio nei settori tradizionali nei quali risulta maggiore la concorrenza di Paesi come Cina, India e Vietnam; a testimo-

nianza del fatto che le imprese hanno un potere di mercato in virtù della qualità dei prodotti. Un export, quello italiano, che dopo i segnali di crisi ha finalmente invertito il trend e rialzato la testa. Il Belpaese sta combattendo la sfida della qualità e il gotha dell’imprenditoria riunito attorno al Comitato Leonardo ha capito benissimo quali sono i mercati sui quali si deve puntare. Il professor Beniamino Quintieri, curatore della ricerca, sottolinea: «In 11 anni il Pil del mondo è salito del 42 per cento, anche se gli Usa hanno rallentato: il contributo dell’Asia al prodotto mondiale ormai tocca il 50, mentre l’Europa non arriva al 30. Ecco perché il continente è un’opportunità per l’Italia: è necessario che impariamo sempre di più a intercettare la domanda dei Paesi più dinamici come quelli del Bric (Brasile, Russia, India e Cina) dove cominciano ad arrivare livelli di reddito per i quali possono permettersi il nostro prodotto». E soprattutto: continueranno a crescere anche nei prossimi anni, a dispetto del rallentamento americano. «L’affermazione diffusa di “nuovi ricchi” amanti del design e dei brand italiani rappresenta una grande opportunità per le nostre imprese” dice Laura Biagiotti, presidente del Comitato. Ma le aziende devono essere capaci di crearsi nel tempo una “Guanxi”, come dicono in Cina, ovvero un sistema di relazioni che gli consenta di fare lobbying. Per il bene dell’export, e quindi anche dell’Italia.

Giornata da ricordare ieri a Piazza Affari per il gruppo Parmalat: il titolo, sospeso anche per eccesso rialzo, ha chiuso in crescita dell’8,58 per cento a 1,77 euro. Il mercato ha premiato soprattutto i due accordi extragiudiziali con Credit Suisse e con Ubs, per un valore rispettivamente di 172 milioni e di 184 milioni di euro, annunciati venerdì scorso a mercati chiusi. Intanto l’amministratore delegato Enrico Bondi, dopo aver incontrato a Palazzo Chigi il sottosegretario Gianni Letta, ha smentito il suo trasferimento alla guida di Alitalia. «Non è affar mio», ha detto alla stampa.

Mps: 10 miliardi il costo di AntonVeneta Nel processo per concludere l’operazione si è dimostrato per Mps più oneroso il costo per l’acquisizione di AntonVeneta. Dai 9 miliardi di euro annunciati al momento del deal si è passati alla cifra di 10,137 miliardi. Il dato emerge dal documento informativo redatto a consuntivo dell’operazione. Alla cifra inziale vanno infatti aggiunti 894 milioni per la cessione di Interbanca, 230 milioni di oneri finanziari e 13 milioni di oneri accessori. Dal documento spunta anche il rilascio di linee di credito per 5 miliardi dal Santander a Banca Mps: nei giorni scorsi il presidente di Siena, Giuseppe Mussari, e il suo omologo spagnolo, Emilio Botin, avevano confermato le ipotesi di un’alleanza commerciale.

Ue, inflazione record (+ 3,7 per cento) A maggio l’inflazione in Eurolandia tocca il suo record storico: la corsa dei prezzi arriva infatti a quota 3,7 per cento. Un’impennata che supera il livello previsto nelle stime preliminari di Eurostat, che alla fine del mese scorso indicava il 3,6. Netto il peggioramento rispetto ad aprile, quando l’indice dei prezzi nell’area euro era sceso al 3,3 per cento. Gli alimentari sono rincarati del 6,4, l’energia del 13,7. Tra gli imputati petrolio e materie prime.


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cultura Nella foto a sinistra, lo scrittore ungherese Sándor Márai. A destra, l’immagine di copertina dell’edizione italiana del libro “Szabudalás”, edito da Adelphi con il titolo “Liberazione”

ello scantinato di un grande palazzo di Budapest, una ragazza di venticinque anni e un anziano professore parlano della vicina Liberazione, del significato della parola “libertà“, di quel che voglia dire tornare a essere “liberi”. Szabudalás, il romanzo che Sándor Márai scrisse in meno di tre mesi nell’estate del 1945 e che è ora in libreria per i tipi dell’Adelphi (Liberazione, traduzione di Laura Sgarioto, 162 pagine, 16,50 euro), ha il suo centro focale in questa attesa che si rivelerà un’illusione. Ma ecco tempi, luoghi,“scenari”. È il gennaio del 1945 e fuori dal rifugio dove si intrecciano pene e speranze c’è l’inferno. La città stretta d’assedio dall’Armata Rossa, le bombe scatenate in una pioggia continua, i colpi di cannone che squarciano l’aria, il fuoco, le fiamme, i vortici di fumo, i tedeschi impegnati a resistere agli attacchi con l’ostinazione di chi, sapendo che tutto è perduto, vuol comunque giocare la carta dell’ultima sfida, i loro alleati, le Croci Frecciate del governo filo-nazista di Szálasi, furiosamente imperversanti in quel caos, alla ricerca di ebrei e di nemici politici da abbattere sul posto, non appena catturati, con una sventagliata di mitra. Stando ai documenti, la giovane si chiama Erzsébet Sós ed è un’infermiera ospedaliera. Il nome è vero, il cognome no. E nemmeno l’attività professionale.

N

Erzsébet è una studentessa universitaria e a crearle problemi è il cognome del padre, un illustre uomo di scienza, ben noto non solo in ogni parte del paese, ma ben oltre i suoi confini. In molti lo ammirano: molti altri, però, lo detestano, e

In libreria per Adelphi, l’ultimo romanzo di Sándor Márai

Szabudalás, il silenzio e la libertà di Mario Bernardi Guardi da dieci mesi, dacché le Croci Frecciate hanno preso il potere, lo attaccano con violenza sui giornali e durante le riunioni politiche. Perché? È vero, non è un uomo di sinistra: ma il suo stile di vita appartato, il suo lavoro scientifico così lontano da ogni utilità pratica quotidiana, il fatto che non abbia mai voluto schierarsi, lo hanno come marchiato a fuoco. E sono scattate accuse che

spiegare perché alle Furie dell’ideologia non è caro l’ascolto pacato, ma l’attacco cieco.

In fuga, dunque, dall’appartamento messo a soqquadro da perquisizioni e ruberie, e violato nella sua intimità! Finché, nel novembre del ’44, l’ennesimo bombardamento ha inferto il colpo di grazia all’intero palazzo. Non è rimasto più nulla, a parte pochi manoscritti e

sale spesso alle stelle, non ci si può fidare di nessuno perché tutti sono pronti a denunciarti, a tradirti, a venderti, eppure… Eppure, in mezzo a quella così disumana umanità, da cui ti puoi aspettare di tutto e di più, e quasi mai nel segno del bene e della solidarietà, Erzsébet ha costruito una sua nicchia di “attesa”. La situazione dovrà, prima o poi, cambiare, ormai i russi sono in città, e presto lei po-

La città stretta d’assedio dall’Armata Rossa, le bombe scatenate in una pioggia continua, i colpi di cannone che squarciano l’aria, il fuoco, le fiamme, i vortici di fumo, i tedeschi impegnati a resistere agli attacchi valgono come un verdetto di colpevolezza: è amico degli ebrei, è amico degli inglesi, lo pagano, ha tradito l’Ungheria, ha venduto la patria e la scienza… A nulla è valso ribattere che quell’astronomo, quel matematico di grande e riconosciuto valore, da anni si interessa con passione e profondità più ai segreti del cielo e dei numeri che agli eventi terreni, e che tutt’al più, se proprio si cerca una definizione politica, se ne potrebbe parlare come di un liberal-conservatore ancorato ai «paesaggi» e allo stile della vecchia Ungheria… A nulla valgono i tentativi di

qualche libro, che mani amiche hanno salvato dalla polizia, dai ladri, dalle bombe. La casa non c’è più e bisogna cercare un rifugio. Per sé, la ragazza - «protetta», in qualche modo, dai documenti falsi - lo trova in un grande edificio nel cuore della città. Lo scantinato, pieno di materassi e roba di ogni genere, è abitato dall’umanità più varia - notabili, gente ricca e istruita, piccoli borghesi, un sarto, un vigile del fuoco, un professore universitario, una strana, giovane donna travestita da teppista di periferia - l’aria è irrespirabile, la promiscuità intollerabile, la tensione

trà lasciare quel covo che assomiglia a un porcile e raggiungere, a qualsiasi costo, l’edificio di fronte. Perché lì, quattro settimane prima, in una cantina grande quanto una dispensa, è stato murato suo padre, insieme ad altre cinque persone. Si sarà salvato? In ogni caso, sta per succedere “qualcosa”. La ragazza lo “sente”, e ne parla col vecchio professore, un ebreo paralizzato che è stato portato lì da alcuni sconosciuti su una barella. L’uomo è un interlocutore attento e amabile, che sa suggerire e anche confortare. Ma la sua è una saggezza amara. No, non crede

nella “liberazione”. Non si attende, al contrario di lei, un mondo migliore. E non spera. Anzi. «Nessuno impara mai niente», dice. «Tutti vogliono riprendere da dove hanno interrotto. È una legge. Chi non la conosce è un bambino». Forse, Erzsébet è proprio una bambina che vorrebbe far «festa», ora che Budapest sta per essere «liberata». Eccola, dunque, pronta ad accogliere come un amico, la notte fra il 18 e il 19 gennaio, il primo soldato russo che entra nella cantina, «piegato in due, più strisciando che camminando (…), tutto concentrato su quella torsione (…), con l’incedere furtivo di un animale selvatico».

È la Liberazione? Il “grande borghese” Sándor Márai - un “europeo”col cuore nei paesaggi e nella cultura dell’“Austria Felix” distrutta dalla Grande Guerra - da sempre ci ha abituato a situazioni estreme: drammi interiori, tensioni allo spasimo, incontri/scontri drammatici, esperienze traumatiche. E il nodo dell’attesa/liberazione che tutto stringe. Come in questo romanzo. Difficile scioglierlo, il nodo della imprevedibilità - o della troppo prevedibilità? - umana. Comunque, Márai, a suo modo lo fece. «Liberandosi» dalla vita. Come un vecchio saggio che decide qual è il momento giusto per andarsene. Lui era fuggito dall’Ungheria comunista nel 1948 e aveva girovagato a lungo per l’Europa. Approdando, infine, a San Diego, in California. Nel 1989, a novant’anni, mentre su tutto l’Est europeo soffiava il vento della libertà e il «socialismo reale» crollava sotto il peso di errori e orrori, si sentiva troppo vecchio per festeggiare la liberazione “storica”. E scelse quella “stoica”: il rigore del gesto e del silenzio.


il caso

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Immensa la perdita economica per la Fgci se l’undici di Donadoni non centrasse la fase finale di Euro2008

Italia-Francia, in gioco 87 milioni di euro di Francesco Daverio

Italia è a un passo dall’eliminazione da Euro 2008. E l’esclusione dalla fase finale, oltre a svilire il nostro orgoglio sportivo, potrebbe costare tanto in termini più prosaicamente economici. Sponsor e tv rimarrebbero così a bocca asciutta vedendo diminuire introiti e ascolti televisivi. Perché le entrate della nazionale italiana in caso di vittoria potrebbero raggiungere 87,8 milioni di euro, inclusi 38,5 milioni da diritti tv, 27,3 milioni di euro da sponsor incluse sponsorizzazioni future e 22 milioni di euro dal premio Uefa. Quest’ultima voce in caso di uscita, oggi dopo il match con la Francia, sarebbe la prima a venire a mancare.

L’

Si ridimensionerebbero anche le sponsorizzazioni e i relativi premi a vincere. E soprattutto gli sponsor che hanno investito su una squadra campione del mondo rivedrebbero al ribasso le proprie stime per la prossima stagione. Anche la Rai che ha investito 105 milioni sull’evento – mantenendo l’intera esclusiva a differenza degli scorsi mondiali dove i diritti erano stati rivenduti ad altre piattaforme – sarebbe penalizzata. Finora i dati d’ascolto la stanno premiando, come dimostra una concorrenza a dir poco sbaragliata. Non a caso la stessa sconfitta con l’Olanda ha visto 18 milioni gli spettatori (share del 60 per cento) davanti alla tv. Dati positivi anche dalle altre partite, con una media di 3 milioni per la gara delle 18 e 6 milioni per quella delle 20 (share del 25 per cento). Così, se Donadoni e i suoi arrancano, finora il tricolore è tenuto in alto soltanto dalla Rai. Ma con un’Italia a un passo dal fallimento gli scenari che si prospettano non sono positivi. Basta guardare i numeri di inizio settimana con le partite in contemporanea per capire che già tira una brutta aria: in prime time su Rai1 gli ascolti sono calati a 5 milioni con uno share sceso al 20 per cento. Insomma con l’Italia in gioco si vince facile, con la squadra di Donadoni fuori da Euro 2008 comincia un’altra partita. Soprattutto per gli sponsor che hanno pianificato una campagna pubblicitaria mirata a un certo numero di ascolti e che improvvisamente si vedono forte-

mente ridimensionato il dato. Numeri che diventano importanti per le aziende che si sono legati alla manifestazione e al nome della nazionale. Perché mettendo a confronto le principali Federazioni calcistiche presenti agli Europei, la Figc è terza per ricavi da sponsor dopo la francese Fff, in testa con 37,5 milioni di euro, e la tedesca Dfb , con 24,5 milioni. Anche se Gianni Petrucci ha siglato il maggior numero di accordi sponsorizzativi rispetto ai suoi colleghi: ben 20. Questo dimostra come gli sponsor hanno creduto e scommesso sulla squadra detentrice della Coppa del Mondo e favorita di diritto a questo torneo. Ma questi investimenti potrebbero evaporare in soli 90 minuti. Il meccanismo di come una competizione di questo livello possa essere un boomerang ce lo spiega

Mauro Mottini, direttore marketing di Infront Italy, operatore leader in Europa nella gestione e acquisizione di diritti tv. Un progetto di caratura internazionale «non subisce condizionamenti dal successo o dall’insuccesso di una singola nazione». Tuttavia esiste un vantaggio se all’interno di una nazione partecipante «emerge un campione che possa trascinare e ad aumentare ascolti e sponsorizzazioni». Ancora meglio se la nazione di riferimento è di importan-

za maggiore, come Francia, Germania o la stessa Italia: questo avvantaggia gli investitori. Ma un’organizzazione come Euro 2008 non subisce sostanzialmente contraccolpi da un’uscita prematura di una particolare squadra. Chi ci perde è il Paese del team sconfitto, che vede ridimensionato sul proprio territorio il valore economico del proprio investimento. Da una ricerca commissionata da MasterCard, sponsor ufficiale dei Campionati Europei dal 1992, si scopre che gli Europei di calcio generano una spinta da 1,4 miliardi di euro per l’intera economia europea. Lo studio, condotto dal professor Simon Chadwick, uno dei maggiori esperti europei di economia sportiva, dimostra il positivo impatto economico generato a livello locale, nazionale e internazionale e include il giro d’affari legato alla vendita dei biglietti, viaggi, cibi e bevande, merchandising, ricavi per gli sponsor, pubblicità e uso di servizi legati a telecomunicazioni e nuovi media.

All’interno della ricerca si sottolinea

Premi, diritti Tv e sponsorizzazioni: la nazionale di calcio è una macchina da utili. Se vince La disperazione di Luca Toni dopo essersi visto annullare un gol regolare durante Italia-Romania. In alto, da sinistra, scene di delusione che hanno accompagnato dall’inizio dell’Europeo sia i tifosi al seguito degli azzurri sia quelli davanti ai maxischermi

che ogni partita giocata potrebbe generare ricadute per 42 milioni di euro. Risorse che si divideranno tra le economie nazionali delle due parti coinvolte, le nazioni ospitanti di Austria e Svizzera e avrà un effetto a catena sull’intera crescita europea. Le partite più redditizie genereranno potenzialmente dai 49 ai 56 milioni di Euro. Le squadre con le maggiori ricadute saranno secondo questo studio l’Italia, la Francia e l’Olanda, tutte del Gruppo C, che da sole potrebbero valere per l’economia europea circa 168 milioni di euro. Ma stando ai risultati di questi giorni soltanto l’Olanda sembra aver approfittato di questa previsione. A questo punto non ci resta che aspettare il risultato della sfida con i cugini francesi e sperare sulla correttezza degli olandesi. Tv, sponsor e addetti ai lavori tiferanno e incroceranno le dita più di ogni altro appassionato di calcio del nostro Paese. Azzurri in campo non solo per l’onore e l’orgoglio di una nazione ma anche per un pugno di euro in più.Vinca il migliore.


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memorie

Cinquant’anni fa veniva assassinato Imre Nagy, il leader della rivoluzione del ‘56: un’occasione per ricordare tutti coloro che pagarono con la vita il dissenso verso l’Urss

Imre e i suoi fratelli di Federigo Argentieri

ontrariamente a quanto si è pensato finora, Imre Nagy - il leader della rivoluzione ungherese giustiziato cinquant’anni fa, il 16 giugno 1958 - non fu il primo comunista della storia a nutrire l’illusione che il sistema sovietico e il cosiddetto «socialismo dal volto umano» fossero compatibili. Prima di lui, non solo il bolscevico russo Nicolaj Bucharin (da cui Nagy trasse molti insegnamenti), ma anche il capo dei comunisti ucraini, Mykola Skrypnyk, percorse la medesima strada, tra la fine degli anni Venti e il 1933, data del suo suicidio - guarda caso esattamente un quarto di secolo prima della sentenza di Budapest. L’Ucraina fin dal 1921-22 era stata riassorbita nella neonata Urss, ma per i sei-sette anni successivi poté beneficiare della Nep, ossia della ritirata strategica dei bolscevichi dal controllo dell’economia. Sotto la guida di Skrypnyk, la repubblica promosse una grande fioritura intellettuale, applicò una politica di incentivi e di cooperazione verso il mondo contadino, mettendo in pratica le teorie di Bucharin nel momento stesso in cui venivano formulate. L’emarginazione e poi la cacciata dall’Uuss di Trotsky, che propugnava invece l’assalto alle campagne, accentuarono l’illusione che per l’Ucraina fosse finalmente arrivato il momento del riscatto nazionale, mentre invece si profilava l’eccidio senza precedenti del 1932-33: dopo aver eliminato il suo rivale, Stalin - pienamente coadiuvato dai suoi sgherri Kaganoviˇc e Molotov ne realizzò la strategia, spezzando contemporaneamente, attraverso la carestia organizzata, sia la resistenza dei contadini alla collettivizzazione che l’autonomia nazionale dell’Ucraina. Di fronte a una tragedia simile, al povero Skrypnyk non rimase altra

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scelta che porre fine ai suoi giorni, prima che ci pensasse la Nkvd che si incaricò di eliminare anche tutti i principali esponenti della cultura e dell’identità ucraina. Venticinque anni erano anche la differenza di età tra Imre Nagy, nato nel 1896, e il suo legittimo successore politico, Alexander Dubˇcek, nato in Slo-

vacchia nel 1921 e principale protagonista della Primavera di Praga. Per quanto nati in due paesi sempre fortemente ostili tra loro, i due avevano diversi aspetti in comune, tra cui le comuni radici protestanti. Ottimi conoscitori dell’Urss, avendovi trascorso diversi anni con le rispettive famiglie, dopo la morte di Stalin ritennero, non del tut-

che in Cecoslovacchia, che però sarebbero giunti a maturazione soltanto un decennio più tardi, quando Krusciov era ormai fuori gioco.

A proposito di quest’ultimo, nell’analizzare il suo agire all’epoca della rivoluzione ungherese bisogna a mio avviso tenere maggiormente conto del suo principale obbiettivo, che divenne quasi un’ossessione: quello riportare la Iugoslavia nell’ambito di un’alleanza con l’Urss. Il «viaggio a Canossa» (ovvero a Belgrado) del maggio 1955 era visto come la prima tappa di un percorso che doveva portare Tito a entrare nel neonato patto di Varsavia. Per raggiungere il suo scopo, Khrusciov non lasciò nulla di intentato: se ad aprile aveva dovuto sacrificare il primo governo Nagy per far passare gli accordi con Austria e Iugoslavia, nel luglio riuscì a cacciare Molotov dal ministero degli Esteri. La bomba a orologeria del «rapporto segreto» fu molto ben accolta a Belgrado, e Tito accettò di restituire la visita, recandosi in Urss nel maggiogiugno 1956. Qui l’equivoco continuò: Krusciov continuò ad ascoltare richieste che si affrettò a soddisfare, convinto - a torto - che alla fine avrebbe ottenuto il suo obbiettivo, mentre la Iugoslavia voleva solo raddrizzare i torti del passato per fare pace, ma senza nessuna intenzione di stringere un’alleanza. Fu così che si decise, tra l’altro, di togliere di mezzo lo stalinista ungherese Rákosi, principale avversario di Nagy, che infatti cadde a luglio ma fu sostituito da Gerö, che però era ugualmente stalinista: ciononostante, da lui Tito chiese e ottenne la piena riabilitazione di Rajk, condannato nel 1949 al termine di una farsa processuale con l’accusa di «titoismo». Da ciò si desume una grave sottovalutazione collettiva dell’effetto dirompente che ciò poteva avere per

Per quanto illusori e sconfitti, questi tentativi vanno riconosciuti come il miglior contributo dell’Europa orientale alla storia della civiltà: fari di luce nel panorama buio del XX secolo to a torto, che il margine di manovra per condurre riforme fosse stavolta ampio, visto che a Mosca si denunciava Stalin come un criminale, si liberavano i prigionieri dal Gulag, si faceva pace con Tito e si ritiravano le truppe dalla vicina Austria. Non sempre la rabbia accumulata dalle popolazioni poteva però essere incanalata in una soluzione moderata, accettabile a Krusciov e ai suoi, come dimostrarono nel giugno1953 i moti operai di Berlino est, che paradossalmente - dopo essere stati schiacciati dai blindati sovietici causarono il rafforzamento al potere dello stalinista Ulbricht e l’indebolimento di Nagy, appena nominato primo ministro a Budapest con l’incarico di fare le riforme necessarie. Sempre nel 1953 si registrarono fermenti an-

la già traballante legittimità del regime comunista a Budapest: non a caso a Praga, qualche anno dopo, l’annuncio che Slánsky era innocente fu emesso in modo molto più cauto, anche grazie ai suggerimenti di Togliatti che - giustamente, dal suo punto di vista -


memorie

17 giugno 2008 • pagina 21

nev e compagni e mandato a fare la guardia forestale, mentre il più gradito Husák ne prendeva il posto. I documenti ci dicono che, rifugiato nell’ambasciata iugoslava di Budapest circondata dai carri armati (che uccisero anche un diplomatico sparando a una finestra), Nagy per un attimo vacillò e cominciò a scrivere la lettera di dimissioni retrodatata che gli veniva richiesta, ma cambiò subito idea e tenne duro, trasformandosi in pesante ingombro per Tito, che da un lato voleva tener fede ai suoi principi di non ingerenza e dall’altro liberarsi dagli ospiti appena possibile. Il suo tradimento verso gli uni e gli altri fu denunciato in un formidabile articolo da Gilas, che dagli arresti domiciliari passò al carcere. Da allora in poi, come scritto all’epoca da Fejtö e pienamente confermato dai documenti, le sorti di Nagy seguirono in tutto e per tutto l’altalena dei rapporti Mosca-BelgradoPechino, con Krusciov che inseguiva Tito ed era a sua volta inseguito da Mao Zedong: cose del tutto incomprensibili oggi, se non come testimonianze storiche di una realtà assurda.

Imre Nagy, nato nel 1896 e giustiziato il 16 giugno del 1958. Sotto e a destra, tre immagini della rivoluzione ungherese del 1956. In basso, la statua di Nagy a Budapest. Nella pagina a fianco, un busto del leader che tentò di far convivere il sistema sovietico col “socialismo dal volto umano” e un momento di una cerimonia di commemorazione

aveva definito «una follia» i funerali pubblici di Rajk e che nel 1963 scrisse al segretario comunista cecoslovacco Novotny per raccomandargli prudenza.

Nagy fu rimesso al potere proprio in coincidenza col primo intervento sovietico a Budapest, il 24 ottobre: non poteva andargli peggio. Il fatto che ben ottanta pagine della sua autobiografia, scritta nell’esilio post-rivoluzionario di Snagov, in Romania, siano scomparse la dice lunga su quelli che furono i suoi negoziati coi sovietici: è quasi certo, infatti che il Pcus acconsentì al ripristino del pluripartitismo, avvenuto il 30 ottobre, salvo poi ri-

credersi il giorno dopo anche grazie alla memorabile lavata di capo di Togliatti, che tacciò l’intero gruppo dirigente moscovita da incompetente e bollò Nagy come «reazionario». Anche per Tito il limite del partito unico era invalicabile: egli si rendeva probabilmente conto che era l’unico modo per cercare di recuperare il consenso popolare, ma temeva per le ripercussioni in Iugoslavia,

dove Gilas da tempo lo criticava anche dagli arresti domiciliari. Quando Krusciov e Malenkov arrivarono a Brioni, al largo dell’Istria, per avere il consenso allo schiacciamento della rivoluzione ungherese - in cui Nagy aveva finalmente ottenuto il pieno consenso del popolo insorto - Tito fu subito d’accordo, e si impegnò anche a convincere Nagy che si era spinto troppo oltre e che doveva fare marcia indietro, riconoscendo il nuovo governo-fantoccio capeggiato da Kádár. conosceva Tito Nagy dai tempi dell’Urss e non dubitava del fatto che avrebbe compiuto agevolmente una tipica giravolta bolscevica, rinnegando tutto e tutti emettendosi a disposizione, ma sbagliava. Allo stesso modo, una dozzina di anni dopo, Dubˇcek fu definito inaffidabile da Brez-

È opportuno, in conclusione, spiegare in che cosa esattamente consistesse il «socialismo dal volto umano», utopia che suscitò speranze ed entusiasmi dentro e fuori i paesi interessati e per il quale i tre personaggi citati - l’ucraino Skrypnyk, l’ungherese Nagy, lo slovacco Dubˇcek - pagarono con la vita o con la carriera: esso era proprio quel «cedimento socialdemocratico», paventato come il pericolo maggiore dai bolscevichi. Ogni tentativo di riforma dei regimi comunisti, almeno fino agli anni Sessanta, consistette in una rivincita più o meno grande, più o meno visibile, più o meno riconosciuta di Bernstein, Kautsky e Martov su Lenin e Stalin. Il fatto che i sostenitori di questi ultimi abbiano sempre avuto la forza sufficiente per prevalere sugli avversari e annientare le loro riforme ha certamente compromesso in modo forse definitivo la parola «socialismo», ma non ha cancellato la memoria degli eventi, che anzi si arricchisce sempre più e attrae non solo i ricercatori, ma anche i politici: forse un domani anche i giovani. Il «socialismo dal volto umano», per quanto illusorio e sconfitto, va riconosciuto come il miglior contributo dell’Europa orientale alla storia della civiltà e resta uno dei pochi fari di luce nel panorama complessivamente assai buio del Ventesimo secolo.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Intercettazioni, giusto il carcere a chi le pubblica? I GIORNALISTI FANNO SOLO IL LORO LAVORO, UNA VERA INGIUSTIZIA PUNIRLI CON IL CARCERE

TRE ANNI PROBABILMENTE SONO TROPPI, MA FORSE IN QUESTO MODO CI SARÀ PIÙ RISPETTO

Non solo non trovo giusto il carcere per tutti quei giornalisti che semplicemente fanno il loro mestiere (cioè scrivere o comunque riportare fedelmente le notizie di attualità, anche quelle più scomode o sensazionalistiche). Ma io proprio trovo insopportabile questo clima, tutto italiano, da spystory che giorno per giorno respiriamo costantemente in Italia. Non dico di abolire le intercettazioni in modo drastico e radicale, sarebbe pura follia ovviamente, ma in tutta onestà sapere di essere il Paese più ”intercettato” d’Europa mi sembra ridicolo se non proprio offensivo. Mi rendo conto che la Magistratura ha bisogno di ”spiare” per poter portare avanti indagini delicate, ma per piacere, oramai tutta questa situazione ha davvero del grottesco. E poi perché andare a colpire i media? Domandiamoci piuttosto chi e perché passa le notizie, anche quelle che dovrebbero rimanere segrete, alla stampa e alle tivù. Ma come, questo non si sa? Strano... avrebbero dovuto scoprirlo grazie... alle intercettazioni effettuate! Cordialità.

Forse tre anni di carcere a chi pubblica le intercettazioni della Magistratura mi sembrano esagerati. Però non trovo il provvedimento del tutto squinternato. Già in passato è capitato di leggere sui giornali o di ascoltare alla tivù stralci di telefonate che, decontestualizzate (forse volutamente?) dalla stampa hanno letteralmente rovinato reputazioni e vite a chi, poi magari, è stato completamente scagionato dalle relative accuse. Probabilmente adesso si griderà allo scandalo e al pericolo ”fascista” di censura, di bavaglio ai giornalisti. Ma se questo può fare in modo che finalmente la categoria dei giornalisti rispetti maggiormente la altrui privacy e lo giusto svolgimento delle indagini in corso, beh, allora ben vengano anche i tre anni di carcere a tutti quelli che decideranno di infrangere la nuova legge. E sicuramente ci sarà da aspettarselo. Chissà quali e quanti quotidiani e telegiornali opteranno per i quindici minuti di gloria docuti alla pubblicazione ”illegale” delle future intercettazioni su cui comunque arriveranno a mettere le mani.

Luca Barbagallo Caltanissetta

Francesca Bellisario - Asti

QUELL’ETERNO BAMBINO CHE È IL PAESE ITALIA UN GIORNO NON NECESSITERÀ PIÙ DI SIMILI LEGGI

LA DOMANDA DI DOMANI

È OPPORTUNO UTILIZZARE L’ESERCITO PER L’EMERGENZA RIFIUTI? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

Non è semplice dare un giudizio chiaro, unico, netto su una questione tanto delicata quanto quella delle intercettazioni in Italia. Certamente proprio perché siamo in Italia, dunque in un Paese dove ormai tutti si interessano a tutto (e a tutti) e dove lo sport preferito sembra essere proprio quello del ”farsi gli affari altrui e quando possibile spiattellarli sulle cronache nazionali”, allora è bene trovare il modo di regolamentare certe ”cosette”. Ogni sport del resto ha le proprie regole. Certo, forse la galera a chi le infrange può apparire un provvedimento troppo duro. E magari lo è. Ma più che soffermarci su questo, iniziamo a chiederci come mai si è arrivati a tanto. Prima o poi, probabilmente, il ”bebèItalia” crecerà e riuscirà da solo a darsi regole e dirittura morale.

NON VOGLIO MICA LA LUNA! Pasquino ha rilevato che il Pd non è un partito, ma uno strumento elettorale privo di un’anima, e come contenuti il frutto di un mal riuscito compromesso di idee tra cattolici ed ex comunisti con prevalenza delle prime. Che non sia un partito è noto. Ma ci sono ancora i partiti in Italia? Un partito politico è un’associazione tra persone accomunate da una medesima finalità e comune visione politica su questioni fondamentali dello gestione dello Stato e della società.Tuttavia in un sistema democratico, i partiti dovrebbero essere democratici. Primo. Ad oggi non esiste in Italia una legge che garantisca la democrazia interna ai partiti. Il potere dei vertici deve essere forte, ma che non vi sia un minimo di garanzie per gli iscritti è troppo. Qual è stato l’ultimo congresso nazionale di partito che, attraverso un processo di rappresentanza e di deleghe, passa attraverso i congressi provinciali e/o regionali, ha espresso una élite di vertici effettivamente eletti? Eppure se domani si commissionasse un sondaggio, la maggioranza dei cittadini esprimerebbe l’opinione

IL TORERO MATATO

Il matador spagnolo José Tomas incornato da un toro durante una corrida alla Plaza de Toros di Las Ventas, a Madrid, la scorsa domenica 15 giugno. Tomas è uno dei toreri più acclamati dell’ultima generazione.

STRANE ANOMALIE POPOLANO L’ITALIA Il conflitto d’interessi di Berlusconi è un’anomalia solo italiana: questo ci dicono le menti di certe aree politiche! Basta guardare in Europa, negli Usa, in tutti i paesi occidentali: l’Italia è l’unico caso del genere. Sarà, ma mi chiedo se le anomalie italiane siano solo queste: c’è anche il caso di uno sconosciuto magistrato, non ricco, anzi, che prima prende notorietà per il suo lavoro contro i potenti ed i politici, poi lascia la Magistratura, e sull’onda dei suoi successi professionali (e non si tratta di una professione qualsiasi, dove non solo Cesare ma anche la moglie ecc), fonda un partito e diventa ricco in pochi anni. Chiedo se in altri Paesi occidentali si riscontrino esempi simili e se sia giusto che la mia interpre-

dai circoli liberal Greta Gatti - Milano

che la responsabilità dell’attuale situazione è della partitocrazia! Ma come? Se da 20 anni i partiti non esistono più! Sarebbe quindi segno di responsabilità da parte dei professionisti dell’opinione porsi questo problema e non solo per il Pd. Secondo. Sul tema della democrazia interna nel Pd, apparentemente si sfiora il grottesco. Infatti si sta parlando del Partito democratico, cioè di un partito che all’interno della propria denominazione esprime l’obbiettivo della democrazia. Solo apparentemente però, perché negli anni fondamentali per lo sviluppo del Paese, al massimo concepiva il “centralismo democratico”. Non il governo “del”Popolo ma solo “per” il Popolo. Di fatto quindi il ricambio delle leadership è sempre stato nell’ambito di un processo di cooptazione tra un gruppo ristretto. Terzo. Sotto il profilo ideale, il male oscuro del Pd è che la visione comune non si fonda su una spietata autocritica ideologica. Fosse veramente cosi, oggi si dichiarerebbe di ispirazione socialdemocratica. La scelta della denominazione in Pd è frutto di un non voler fare i conti con la storia, perché altrimenti si parlerebbe di Partito So-

tazione dei fatti scaturisca da un’esigenza di etica morale, piuttosto che dal rispetto del codice civile e penale. Ciò che è lecito o illecito non sempre coincide con quello che è legale o illegale! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

Paolino Di Licheppo Roseto degli Abruzzi (Te)

BENE IL MINISTRO GELMINI, LA SCUOLA SI RISOLLEVERÀ Vorrei esprimere un personale apprezzamento al ministro Mariastella Gelmini per quel che sta facendo per la scuola italiana. Avanti così: esami di riparazione a settembre e più remunerazione alla classe docente. Poi tocca a noi genitori completare l’opera di formazione dei giovani di oggi. Il prossimo futuro tutto italiano.

Amelia Giuliani - Potenza

cialista Democratico, contro lo stato evolutivo della massa da rappresentare. E’ come quando si facevano gli impianti petrolchimici negli anni Sessanta nel Sud, in zone la cui principale attività era la pastorizia. Basterebbe una sinistra modernamente socialista, liberaldemocratica, europea come Spagna, Francia o Germania. Non la luna, simillaburista inglese o democratico-americana. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE

APPUNTAMENTI TODI - 10 LUGLIO 2008 Ore 12.00, Hotel Bramante Prossima riunione nazionale dei coordinatori regionali e dei presidenti dei Circoli liberal


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Cara Cat, ti scrivo da un universo e una stella Mia cara cara cara Caitlin amor mio ti amo; persino scrivendo da un universo e una stella e diecimila miglia di distanza, il nome, il tuo nome, Caitlin, mi fa semplicemente amarti, non di più, perché è impossibile, tesoro, ti ho sempre amato ogni giorno di più da quando ti ho visto la prima volta col tuo aspetto sciocco e dorato e troppo buono per sempre per me, in quel luogo orrendo di Londra-peggio-di-Belsen, no, non di più, ma più profondamente, o amica mia ti amo e amami cara Cat, perché siamo la stessa cosa, l’unica cosa, la cosa costante, o cara cara Cat. Cercherò di tornare mercoledì o giovedì ma forse dovrò rimandare alla fine della settimana. Ora devo cercare di dormire percé posso solo dire ”ti amo”, mio tesoro, mia piccola Caitlin, mia moglie e amore per l’eternità. Dylan Thomas a Caitlin MacNamara

LEZIONI DI PATRIOTTISMO? SOLO E SOLTANTO DALLA LEGA Sull’Unità il direttore Padellano porta un attacco diretto alla Lega Nord, accusandola di anti questo ed anti quello, insomma di essere contro la nazione Italia! L’Unità dimentica o fa finta di non capire che in democrazia la maggioranza (compresa la Lega Nord) governa: questo hanno voluto gli italiani, non i ”sinistri”, che invece non hanno avuto nemmeno i numeri per andare in Parlamento. Vorrei ricordare poi all’Unità che la stessa testata, anni or sono, chiedeva per il Pci il governo, ma non perché rispettosi dell’Italia, bensì per annettere la nostra nazione all’Urss. Lezioni di patriottismo... cento volte dalla Lega, molto più italiani di ”cotanta”intellighentia ancora troppo rossa per i gusti di molti! Grazie per l’attenzione e buon lavoro.

L. C. Guerrieri - Teramo

LA SINISTRA HA AFFOSSATO L’ECONOMIA DELLA CAPITALE Nella capitale, la sventatezza del centrosinistra delle passate Giunte nel creare debiti senza le dovute coperture finanziarie, rischia di mettere in ginocchio l’e-

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

17 giugno 384 a.C. (e.v.) Nasce Aristotele, filosofo greco 1882 Nasce Igor Stravinskij, compositore russo 1885 La Statua della libertà arriva a New York 1903 Roald Amundsen comincia la prima traversata da est a ovest del passaggio a nordovest 1905 Il primo dirigibile italiano, l’Aeronave Italia, si alza in volo da Schio (Vicenza) 1944 L’Islanda diventa indipendente dalla Danimarca e forma una Repubblica 1967 La Cina sperimenta la sua prima bomba all’idrogeno 1974 Due militanti del Movimento Sociale Italiano, Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, vengono uccisi nella sede dell’MSI a Padova. Sono i primi omicidi compiuti dalle Brigate Rosse. 1983 Il presentatore televisivo Enzo Tortora viene arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico 2007 Muore Gianfranco Ferré, stilista italiano

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

conomia cittadina: migliaia di posti di lavoro sono infatti a serio rischio. Sono migliaia le imprese, iscritte alla cassa edile solo nel comparto lavori pubblici, che, se il Comune di Roma protrarrà lo stato di insolvenza per oltre 2 mesi, rischiano il fallimento e il licenziamento di migliaia di operai difficilmente ricollocabili. Inoltre, in alcuni casi il Comune, la più importante stazione appaltante nella regione Lazio se non in tutta Italia, rischia il blocco di molti lavori in esecuzione se non vengono corrisposti gli stati di avanzamento dei lavori. E il problema riguarda anche le piccole e medie imprese o aziende che non si occupano solo di lavori pubblici, ma anche di servizi e forniture, poiché non possono permettersi di aspettare settimane o addirittura mesi, ma devono necessariamente pagare gli stipendi e i contributi previdenziali ai loro numerosi dipendenti. Il centrosinistra ha veramente messo in ginocchio Roma. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità sulle pagine del vostro quotidiano (che leggo assiduamente). Distinti saluti e a presto.

Pierluigi Tomassetti - Roma

PUNTURE A Napoli scoppia lo scandalodei “telefonini d’oro”. Un consigliere in un giorno ha speso 7.500 euro. Organizzava la raccolta differenziata porta a porta

Giancristiano Desiderio

Ogni desiderio mi ha arricchito più che il possesso, sempre falso, dell’oggetto stesso del mio desiderio ANDRÉ GIDE

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di GLI USA NEL 2013 Sul sito di John McCain è comparso il report di un discorso tenuto dal senatore dell’Arizona il 15 maggio,in cui il candidato repubblicano cerca d’immaginare come potrebbero essere gli USA al termine del suo mandato. Certo, molta è pura speranza,ma vi sono degli aspetti che vanno sottolineati. In campo economico, McCain sottolinea come la sua opposizione all’aumento fiscale ed anzi la sua riuscita battaglia per la un sistema moto simile ad una flat tax abbia riportato in sesto l’economia delle famiglie americane. Il che ci deve far ben sperare sulla volontà del senatore ex prigioniero dei vietcong di non appesantire la macchina statale federale. Il suo ribadito sostegno alle organizzazioni pro-life e la lunga parte dedicata alla scuola, suggerisce che molte energie e risorse saranno dedicate al recupero del valore di un’educazione tradizionale,certo adeguata alla realtà del XXI secolo, e dell’importanza della cultura, come strumento principale per i giovani per conseguire una duratura affermazione personale. Ma quello che più colpisce di quest’intervento di McCain è il riferimento ad una “Lega delle Democrazie” che riuscirebbe a conseguire quei risultati (Darfur,Medio Oriente, Cina, etc…) che l’Onu persegue senza successo da anni: il discorso non è eccessivamente approfondito sul punto e quindi speriamo ci sia modo di scavare meglio il concetto nel prossimo futuro. McCain prende atto dell’irreformabilità dell’Onu e decide quindi di dare il via ad una nuova aggregazione di Nazioni, legate dal

sistema democratico,che progressivamente sostituisca l’Onu o punta più semplicemente a bypassare il Consiglio di sicurezza col suo diritto di veto vecchio di 60 anni? Come già detto, moltissimi sono gli argomenti toccati da McCain in questo suo discorso e probabilmente dedicheremo più spazio ad esso, ma per chi, come noi cerca di capire come il futuro degli Usa influirà su noi italiani, beh si può dire che questa “Lega delle Democrazie” può essere una svolta pesante per la politica estera globale e merita di essere maggiormente sviscerata.

Il Falco falcodestro.altervista.org

IT’S A LONG WAY TO TIPPERARY Qualsiasi cosa si pensi del Trattato di Lisbona e dell’Unione Europea, bisogna ammettere che gli irlandesi ci hanno offerto un esempio di democrazia. E non fa una bella impressione sentire il nostro Presidente della repubblica proporre una sorta di ritorsione contro i ”dissidenti”. Evidentemente il lupo comunista perde il pelo, ma non il vizio... Ma si rende conto Napolitano, che sta parlando di un paese che sta nell’Ue da 35 anni? Tornando al problema dell’UE, bisogna dire che i burocrati di Bruxelles non sembrano voler imparare dalle lezioni delle precedenti bocciature (Danimarca, ancora Irlanda, Francia, Olanda). Ogni volta che i cittadini europei possono esprimere la propria opinione su come è stata costruita l’unità europea, o bocciano il progetto, o si dimostrano decisamente disinteressati alla faccenda.

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PAGINAVENTIQUATTRO Debutta oggi il primo musical sulla Madonna targato Santa Sede

Adesso è Maria la

SUPERSTAR di Francesco Rositano una prima in tutto e per tutto. Stasera nell’Aula Paolo VI in Vaticano debutta il musical «Maria di Nazareth. Una storia che continua». Uno spettacolo che racconta la vita della Madonna e, attraverso di lei, duemila anni del cristianesmo. Ma è una prima anche perché, fino ad oggi, la Santa Sede non aveva mai patrocinato un musical. Nemmeno quello di monsignor Marco Frisina sulla «Divina Commedia» di Dante, che ha avuto un grande successo e registrato un grande successo di pubblico: 300mila spettatori. Un placet che è arrivato direttamente dal segreterio di Stato Vaticano, il cardinale Tarcisio Bertone. Ed è stato rafforzato da quello del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Comunicazioni Sociali.

È

Come ha spiegato monsignor Claudio Maria Celli, presidente del dicastero vaticano delle Comunicazioni, la figura di Maria continua ad essere un baluardo dei valori. E’ una figura terrena - madre e moglie -, una donna come le

della perenne lotta tra il bene e il male. Una lotta che, dal punto di vista scenografico, è stata rappresentata attraverso i mestieri dei protagonisti . «Certamente - spiega - ci siamo presi delle licenze poetiche. Ma abbiamo rispettato il significato biblico dei personaggi. Maria è la prescelta; Giuseppe è il giusto; Barabba è l’assassino risparmiato. Quando si è trattato di rappresentare artisticamente questi concetti ci siamo affidati ai loro mestieri. E abbiamo giocato di fantasia. Barabba è un fabbro: affila le spade che poi sarebbero servite per la strage degli innocenti orchestrata da Erode. Ecco che emerge la figura dell’assassino, del lato oscuro dell’umanità. Giuseppe è il falegname, il cui legno fiorisce ed è vivo: il dolce legno delle culle e delle bare. E’ il giusto. Maria è la fornaia di Nazareth: prepara il pane che poi sarà Eucaristia per il mondo». Per il maestro, Stelvio Cipriani, famoso per aver composto musiche per film western e horror, è stata una grande sfida raccontare in musica un dogma come quello dell’Annunciazione. «Il western - spiega - lo si fa con il sorriso sulle labbra, ci si diverte. Questo invece è uno spettacolo in cui bisogna immedesimarsi: ci vuole fede, spiritualità. Fin dall’inizio, leggendo la sceneggiatura, ho percepito che in ballo c’era l’elevazione spirituale di un compositore. Pensi al momento dell’Annunciazione, quando l’Arcangelo Gabriele comunica a Maria che avrà un figlio. È la chiave della storia di tutto il cristianesimo. Come lo si traduce musicalmente un momento così? Ci ho pensato molto. Alla fine, ho deciso di affidarlo ad un violino. Il suo compito è quello di introdurci nel tema. Poi è il turno dell’orchestra, che in un crescendo di archi, ci conduce verso il Sublime».

Monsignor Celli: «Nella società di oggi in cui certi valori si sono persi ma, allo stesso tempo, se ne sente la nostalgia, vale la pena valorizzare la figura di Maria, che rimanda ad un amore che si esprime nella cura di una madre verso il suo bambino» altre che però ha saputo dire di sì al divino. Ecco le parole del presule in occasione della Conferenza stampa di presentazione dello spettacolo: «Nella società di oggi in cui certi valori si sono persi ma, allo stesso tempo, se ne sente la nostalgia, vale la pena valorizzare la figura di Maria». I valori a cui la figura della Vergine rimanda, secondo mons. Celli, sono quelli «dell’amore che si esprime nei gesti quotidiani, nella semplicità, nella cura di una madre verso il suo bambino». Un amore senza tempo, poiché la figura di Maria «ancora oggi comunica agli uomini il Verbo di Dio fattosi carne». Alla stesura del libretto, realizzato a quattro mani dalla regista dello spettacolo, Maria Pia Lotta e da Adele Dorothy Campa, ha collaborato anche il mariologo, padre Stefano De Fiores. La regista Maria Pia Lotta - direttore artistico del Teatro Francesco Cilea di Reggio Calabria, ma anche compositrice e danzatrice presenta lo spettacolo come la messa in scena

Alma Manera - soprano ma anche danzatrice, e protagonista in questo spettacolo - afferma: «Per me è stata una grande responsabilità

interpretare il personaggio di Maria, questa donna silente, discreta, riservata, intimista. E’ una donna che con poche battute ha cambiato il mondo».


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