QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Il no irlandese non è solo un incidente di percorso
e di h c a n o cr
Un consiglio al Consiglio europeo: non sottovalutate la crisi
di Ferdinando Adornato
di Roberto de Mattei l no dell’Irlanda al Trattato di Lisbona, assume un valore che merita di essere considerato in tutti i suoi aspetti. C’è chi afferma che 4 milioni di irlandesi, meno dell’uno per cento della popolazione del continente, non possono bloccare la volontà di 497 milioni di cittadini europei. La verità è però quella sottolineata dal presidente ceco Vaclav Haus: i politici europei hanno permesso ai cittadini di esprimere la loro opinione in un solo Paese in Europa, e in questo paese sono stati contraddetti. Anziché interpellare direttamente l’opinione pubblica, ventisei Stati membri dell’Unione hanno scelto di approvare il Trattato in Parlamento (diciotto Paesi lo hanno già ratificato). L’Irlanda è l’unico Paese ad avere indetto un referendum, perché a ciò era obbligata da una sua recente legge. Ma il referendum irlandese ha confermato lo iato esistente tra “Europa reale” e “Europa legale”. Ogni qual volta i cittadini europei sono chiamati alle urne per esprimere il loro giudizio sulle istituzioni comunitarie, le rifiutano con decisione. È accaduto con i referendum del maggio-giugno 2005 in Francia e in Olanda, e si è ripetuto il 13 giugno in Irlanda. Ora si tenta in tutti i modi di aggirare l’ostacolo ma, come ha osservato Giuseppe Baiocchi su liberal il 17 giugno, «non è presunzione intellettuale, in regimi che si dicono liberali, pensare che, quando il popolo dice di“No”, sono i gruppi dirigenti che dovrebbero cambiare».
I
Comenegli anni
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80620
PROVOCAZIONI STORICHE Tremonti ha lanciato l’allarme, De Rita l’ha ripreso. L’impoverimento del ceto medio e l’impotenza della politica stanno creando in Italia e in Europa incertezze e paure simili a quelle che favorirono l’avvento del fascismo…
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venti?
se gu e a p ag in a 6
Il direttore di liberal racconta i due personaggi
Irlanda verso un nuovo voto?
Il Senatùr double face
Trattato Ue: Sarkozy vuole il retour-match
Bossi, la spina nel pugno del Cavaliere
di Francesco Rositano
di Guglielmo Malagodi
di Angelina Jolie
di Renzo Foa
Sarkozy arriva a Bruxelles convinto che allo strappo irlandese si possa rimediare. E propone la sua ricetta: «Gli irlandesi rivotino il referendum sull’approvazione del Trattato di Lisbona».
La Lega vota con l’opposizione sulla questione rifiuti e il governo va sotto alla Camera. Nessun incidente imprevisto, ma una volontà feroce del Carroccio nel voler mandare un messaggio perentorio al premier.
Il modo migliore per far superare ai bambini in guerra i propri traumi è quello di concentrare la loro attenzione sul futuro istruirli, e una popolazione istruita è la garanzia migliore per un futuro stabile.
Entrandoci, il palazzo appariva diverso da come lo si era immaginato da fuori. Più che il cuore del potere della seconda potenza del globo, sembrava uno di quegli alberghi né bui né luminosi.
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nell’inserto Carte a pagina 12
VENERDÌ 20
GIUGNO
L’intervento dell’attrice al Council on Foreign Relations
Io, l’ambasciatrice dei più indifesi
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
115 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Gorbaciov e Dubcek visti da vicino
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 20 giugno 2008
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In Europa può davvero innescarsi una fase analoga alla reazione degli anni Venti?
Il panico del ceto medio di Errico Novi ROMA. In Europa ci si guarda con sospetto. Ci si muove con prudenza. Lo fanno le massime autorità politiche e i cittadini qualsiasi. È tanto in crisi la visione unitaria che il presidente del Ppe a Strasburgo Jean-Claude Junker rinvia la discussione sul Trattato a ottobre. Nei singoli Paesi cresce lo scetticismo – e l’Irlanda ne è l’esempio – come la paura, rivolta verso gli immigrati e le minacce della globalizzazione. C’è aria di chiusura nei Palazzi dell’Unione come nelle case del ceto medio europeo. Ed ecco perché sembra legittimo chiedersi se questo clima non rassomigli a quello vissuto nel Continente dopo la Prima guerra mondiale. Giulio Tremonti sostiene apertamente che «l’impoverimento dei ceti medi in Europa può portare al fascismo». E il fantasma serpeggia anche nel senso di colpa della sinistra. Quella di ieri è stata una giornata di
contenuta mestizia, per le istituzioni della Ue. Si è riunito il Consiglio d’Europa, ma anche i rappresentanti delle massime organizzazioni politiche continentali. E all’incontro con i leader del Pse, il presidente della Regione Piemonte Mercedes Bresso ha rilanciato l’allarme in modo capovolto: «I cittadini europei hanno paura della globalizzazione e ciò che sta diventando paradossale, ma che ricorda il periodo nazista e fascista, è che la destra sta diventando protezionista. Noi invece siamo percepiti come quelli che difendono un’entità europea troppo liberale, troppo aperta ai mercati internazionali, mentre dovremmo tutelare i soggetti più deboli».
È dun que la sin istr a ad essersi lasciata sfuggire di mano la situazione? In parte è così, dice Emanuele Macaluso: «In queste fasi indubbiamente la
destra gode di un vantaggio oggettivo. La paura da cui sono attraversato l’Occidente, l’Europa, il nostro Paese, non deriva da ragionamenti, ma da istinti, dalle viscere del corpo sociale: dietro si intravede una forma di chiusura e di egoismo, propri di chi si trova in una condizione di benessere e non vuole perderlo. Una preoccupazione come questa è molto meglio intercettata dalla destra, su questo non c’è dubbio, la quale si pone per sua natura meno scrupoli terzomondisti, ha minori problemi di coscienza nel rispondere a una domanda del genere. Il problema è che la sinistra non riesce a offrire alcun tipo di risposta, mentre dovrebbe darla seppure in forma diversa. Ed è per questo che la destra oggi in Europa è destinata a vincere». E certo per un intellettuale di tradizione schiettamente comunista come Macaluso la paura dei cittadini europei è innanzitutto la reazione del ceto medio, «di chi appunto non vuole perdere nulla della condizione di benessere in cui si trova. Ed è per questo che il clima di oggi è difficile da confrontare con quello degli anni Venti. Allora l’angoscia riguardava la guerra, la paura, la fame, la disperazione di non trovare un figlio o i propri genitori. Si temeva di restare senza nulla. Oggi non è così, evidentemente. Ci sono certo dei fondamenti oggettivi a questa paura, ma c’è anche molto propagandismo, esage-
degli Affari comunitari, «pro- politica torna a diventare supvochino una reazione di pau- plente del conflitto sociale, a ra. È così oggi perché l’Occi- risolvere i problemi». Lo ha dente si è messo in gioco con fatto secondo il presidente del la Cina e l’India, è successa la Censis con una manovra trienstessa cosa in Europa nella nale come quella varata merprima parte del secolo scorso coledì dal governo, così come per l’apertura all’America. il fascismo creava l’Opera per Nell’800 si è vissuta una fase la maternità e l’infanzia. di grande espansione dei mercati, seguita appunto da un pe- D o v r e b b e c o m u n q u e bariodo di chiusura, con un’on- stare l’antidoto del liberismo, data di protezionismo tra le sostiene Francesco Perfetti, due guerre derivata proprio ordinario di Storia contempodalla paura del ceto medio». ranea alla Luiss. «È vero che Bisogna commisurare tutto, oggi in Europa c’è tutta una però: «Allora c’erano fenome- serie di pulsioni anticapitalini inflattivi impressionanti, gli ste, ma sono compensate da operai venivano pagati due un’attenzione è una sensibilità volte al giorno con montagne ai temi del liberismo che nella di banconote che venivano prima parte del Novecento spese subito per evitare l’ulte- non esisteva, se non negli Stariore perdita di valore. Oggi ti Uniti. In quel caso non si svinon assistiamo come allora al luppò un mai un sentimento ceto medio costretto a vendere ostile al capitalismo, nemmei mobili e i tappeti. Nel ’29 c’e- no dopo la crisi del ’29 Le tenra una disoccupazione al 25 sioni in America erano legate per cento, oggi non supera il 5. alla scelta di partecipare alla Eppure dei tratti comuni si ri- guerra, di lasciarsi travolgere conoscono, la globalizzazione dall’Europa in decadenza». E ha scatenato il panico, ed è un allora secondo Perfetti la vera meccanismo che si verifica ragione dell’insicurezza è sempre nei Paesi vecchi che si «nella perdita di identità proaprono a nuovi sistemi». Uno vocata dall’immigrazione. Che dei meccanismi di risposta è la certo è un tema legato al liberiscoperta delle comunità nazionali e regionali, il loro rinchiuderL’allarme è partito da Giulio Tremonti una settimana fa. Alla vigilia del vertisi, che però ce finanziario del G8 di Osaka il miniLa Malfa stro dell’Economia ha parlato della considera speculazione finanziaria e degli squirischioso: libri che essa provoca: «Si genera «La lira o la impoverimento e “rivolte del pane” moneta panei Paesi più poveri e proteste in
Cosa hanno detto Tremonti e De Rita
Macaluso: «C’è l’egoismo di chi difende il benessere». La Malfa: «Vedo analogie, ma non si esageri». Perfetti: «La causa è l’immigrazione» razione strumentale nel rappresentare la realtà. Non corriamo il rischio di un crollo paragonabile a quello del ’29, perché la capacità dello Stato di intervenire e limitare i danni è di gran lunga aumentata rispetto ad allora. Basti pensare a come l’America ha affrontato l’emergenza dei mutui». Alcuni segnali indubbiamente ritornano. È fatale che fasi di grande apertura, dice Giorgio la Malfa che è stato ministro
quelli più sviluppati, dove viene messa alla prova la democrazia. L’impoverimento del ceto medio in Europa ha un solo esito e si chiama fascismo». Sul Corriere della Sera di ieri il presidente del Censis Giuseppe De Rita ha descritto la manovra triennale del governo come espressione di una «politica che torna supplente del conflitto sociale, a risolvere i problemi. Ed eccoci al vero parallelo: il fascismo interpretò bisogni che la società italiana quasi ignorava. Penso all`Opera nazionale maternità e infanzia, all`Ente assistenza degli orfani dei lavoratori...».
dano non reggerebbero gli scossoni della finanza globale. E il piccolo governo, l’istinto di cui parla Cattaneo di «tenere le mani sopra» consente sì di controllare i cittadini di quella piccola regione, non gli avvenimenti». Anche rassicurare i cittadini è un riflesso immediato, e come spiega Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera di ieri, «la
Giulio Tremonti e Giuseppe De Rita hanno messo in relazione il bisogno di protezione della società occidentale di oggi con quello avvertito negli anni Venti e risoltosi in Italia con il fascismo. Nelle due pagine, immagini delle metropoli europee e americane della prima parte del ’900
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Il politologo Alessandro Campi sulla crisi della middle class
Fascismo? No,il rischio vero è la tecnocrazia di Riccardo Paradisi
ROMA. L’indebolimento e la paura dei ceti medi, la diffidenza per l’Europa di Bruxelles, l’antipolitica che monta insieme all’ossessione per la sicurezza. Bastano questi elementi per parlare di una situazione favorevole al ritorno del fascismo? E soprattutto, in un mondo completamente trasformato rispetto a quello degli anni Venti e Trenta, è possibile riproporre un paragone rispetto a quel ciclo storico, che in molte nazioni europee, tra tutte l’Italia, ebbe come sbocco proprio il fascismo? Ne parliamo con Alessandro Campi, storico delle dottrine politiche dell’Università di Perugia. La fine del primo decennio degli anni Duemila come i primi anni Venti: la persuade professore questo parallelo? È un parallelo suggestivo ma non convincente. Anche perchè non c’è nessun nesso automatico tra l’impoverimento dei ceti medi, la loro crisi culturale ed esistenziale e lo sbocco politico delle società in forme politiche autoritarie. Dipende dal grado di stabilità delle tradizioni democratiche dei singoli Paesi: negli anni Venti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti le istituzioni liberali hanno retto a differenza che in Italia e Germania. Ma le istituzioni democratiche dell’Italia di oggi mi sembrano più solide rispetto alla situazione dei primi due decenni del secolo scorso. Eppure, tra gli altri Eugenio Scalfari, c’è chi parla, riferendosi all’Italia, di un progressivo andare verso una nuova dittatura che si fa strada grazie alla debolezza dei contropoteri e alla fragilità delle istituzioni. Francamente mi sembra una lettura superficiale e un po’provinciale. Che muove sempre dall’idea che Berlusconi sia la grande anomalia eliminata la quale tutto sarebbe più normale. In realtà le democrazie si stanno arroccando su se stesse in tutta la sfera euroccidentale. Facciamoci caso: in Francia come negli Stati Uniti, in Grecia come in Argentina, parallelamente a una progressiva perdita di centralità dei parlamenti, si sono create in questi anni delle vere e proprie dinastie famigliari e patrimoniali all’interno del potere democratico, In Italia, dopo decenni di battaglie antipartitocratiche, si è fatta una legge che ha consentito ai leader dei partiti di designare il Parlamento a tavolino. Sono fenomeni che segnano la fine della circolazione delle elite, segnali inequivoci di una minore possibilità di
accesso al potere. Ecco, ma ha qualcosa a che vedere col fascismo questo fenomeno? Io parlerei più propriamente di una deriva oligarchica delle democrazie, di un loro avvitamento tecnocratico. Parlare di fascismo è fuorviante, è un modo per sottrarsi a una discussione seria sulla crisi della democrazia contemporanea. Con il risultato di proiettarci in un realtà di settant’anni fa che non esiste più. Di ciò che esisteva allora oggi non c’è più nulla. Per esempio? Ma insomma oggi si sono esaurite tutte le narrazioni ideologiche del Novecento: la classe, la nazione, dal cui mito frustrato per la vittoria mutilata nasce il fascismo, non esistono più. E così quelle masse disposte a mobilitarsi e a morire per quelle fedi politiche. Oggi esiste una società molecolare composta di individui spaventati ed esistono democrazie, che seppure in crisi, per i motivi che dicevo, non hanno nessun avversario ideologico e politico. È una situazione nuova. Come tutte le situazioni. Che torna ad essere affrontata con gli strumenti dell’intervento pubblico. Perchè c’è un ritorno della domanda di politica e di sicurezza. Una domanda talmente forte che non mi sembra abbia destato nessuno scandalo ideologico la variante di statalismo che propone Tremonti. La politica come supplente del conflitto sociale dice il presidente del Censis Giuseppe de Rita. Io parlerei più semplicemente di un ritorno al realismo in politica. Il liberalismo radicale è una dottrina per i tempi tranquilli della storia. Non mi sembra che questi siano tempi particolarmente tranquilli: le fibrillazioni dell’economia, una globalizzaione che inquieta, lo scenario di scontro armato in cui siamo coinvolti vengono percepiti dalla gente come minacce autentiche. Chi dovrebbe rispondere a questa paura se non la politica, le istituzioni? Perchè ciclicamente in Italia c’è qualcuno che parla di fascismo? Forse perchè il ceto intellettuale italiano nutre una profonda sfiducia nella solidità delle istituzioni democratiche di questo Paese che, fragili negli anni Venti, furono spazzate via dal fascismo. Ma è un pessimismo eccessivo. L’Italia ha resistito a prove straordinarie: la guerra fredda, dieci pesantissimi anni di terrorismo, il terremoto di Tangntopoli. Non mi sembra la nostra una democrazia debole.
«Quella italiana è una democrazia solida che ha superato le prove del fuoco di un terrorismo, durato un decennio, e del sisma di Tangentopoli»
rismo, basta leggere le pagine in cui Antonio Martino sostiene in termini assoluti la libera circolazione. D’altronde il controllo dell’immigrazione presenta ostacoli notevoli, legati alle leggi del Paese da cui si proviene. E il fenomeno è complicato dall’alternativa tra assimilazione e multiculturalismo». in ogni caso non è il capitalismo globale in se per sé a scatenare le angosce nelle società progredite. «Sostenerlo sarebbe una semplificazione,
anche perché il capitalismo e la globalizzazione non sono concetti sovrapponibili». E appunto è solo l’anticapitalismo che potrebbe riprodurre i fenomeni di intolleranza del Novecento. «Casomai dalla globalizzazione può discendere una riscoperta dello spirito di comunità, il fenomeno dei localismi. Che peraltro non è assimilabile ai nazionalismi degli anni Venti e Trenta, che in realtà nascevano da processi aggregativi e non di frammentazione».
politica
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Così abbiamo battezzato ieri il provvedimento del ministro, che in effetti sembra voler piacere a tutti. Intanto fa bene a mettere i soldi da parte...
La coperta del gattopardo di Gianfranco Polillo rotestano Cgil e Governatori delle Regioni. Protesta, anche, il liberale Antonio Martino. Non gli piace la Robin Hood tax che paragona ad un prelievo quasi malavitoso, visto che lo considera simile alle rapine in banca di Jesse James. E naturalmente protesta una parte dell’opposizione, specie per bocca di Pier Luigi Bersani, per la verità mai tenero con il nuovo Governo. Caute, invece, le altre organizzazioni sindacali: quasi un preludio al tema del Governo amico. Che non aleggi il fantasma di San Valentino: la notte in cui Bettino Craxi, modificando il meccanismo della scala mobile, stracciò la convenzione secondo la quale non si poteva andare contro il potere di veto dei comunisti? Vedremo nei prossimi giorni, nel frattempo godiamoci la tregua ed il disorientamento di chi è costretto ad interrogarsi se quel mix di «populismo liberale» e «dirigismo compassionevole» potrà o meno avere successo. Per il resto, invece, è un consenso addirittura imbarazzante. Basti guardare a quanto scrive Alberto Orioli sulle pagine de Il Sole: «Un disegno coerente e ambizioso». Lo stesso Orioli che, nei precedenti mesi, non aveva esitato a criticare duramente ed in modo errato il programma del PdL. Lunga luna di miele, quindi, quella di Giulio Tremonti, che solo in parte compensa le incrinature, prodotte da Silvio Berlusconi, sul fronte giudiziario. Ipotesi che solo fino a qualche anno fa sembrava impensabile. Nella sua prima esperienza di Ministro dell’economia, nel 2001, era visto come il fumo negli occhi. Considerato un demolitore della costituzione finanziaria del Paese, non aveva avuto vita difficile. Osteggiato dai poteri forti, visto con sospetto dagli altri vertici istituzionali, era stato costretto ad una defaticante azione di convinzione il più delle volte non riuscita. Oggi, invece, sembra tutto mutato. Come si spiega? Le cause sono molteplici e complesse. La prima lo riguar-
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da solo indirettamente: la crisi della sinistra. Non solo la crisi elettorale, quanto quella programmatica e culturale. Di fronte ad una forza politica che non sa più leggere i cambiamenti intervenuti nel mondo moderno, il pensiero di Giulio Tremonti rischia di trasformarsi non diciamo in un faro, ma almeno in una fiaccola che illumina il cammino. E’ capitato così che mentre i riformisti del Pd scoprivano la scolastica liberale, Tremonti indicava nel “mercatismo” il nemico da battere.
La seconda è, almeno in parte, conseguenza della prima. L’opposizione non è più la sponda a cui aggrapparsi. Non ha la forza necessaria per impensierire la maggioranza, che
può farsi male solo da sola. Il mutato rapporto spiazza gli antichi equilibri all’interno del sindacato, dando spazio a chi, da troppo tempo, è stato costretto a convivere con l’ingombrate presenza della Cgil.Tanto più che il ministro del welfare resta un interlocutore privilegiato per quelle forze riformiste che, all’interno del sindacato, hanno cercato inutilmente, in tutti questi anni, la via dell’emancipazione. Del resto qual’è potrebbe essere l’alternativa? Nelle proteste del sindacato e di alcuni esponenti del Pd il tema ricorrente è quello dei salari. Sulle pensioni - per la verità - possono dire meno. Il prelievo sui petrolieri servirà, infatti, per finanziare quella specie di “carta annonaria”, seppure in formato elettronico, che dovrebbe
Lunga luna di miele quella di Tremonti, che solo in parte compensa le incrinature prodotte da Berlusconi sul fronte giudiziario. Ipotesi che solo fino a qualche anno fa sembrava impensabile. Vi ricordate i giudizi del 2001?
dare loro una boccata d’ossigeno. Per dipendenti ed operai, invece, c’è ben poco: salvo qualche ristoro sul possibile aumento dei prezzi della benzina, ma solo in quanto consumatori. Si poteva fare qualcosa di più? Dipende dai punti di vista. Il Governo ha indicato la sua linea, coincidente del resto con quanto fatto - la Francia di Sarkozy - in altri paesi: «lavorare di più e meglio, per guadagnare di più».
La sinistra non è d’accordo con questa impostazione. Vorrebbe invece sgravi fiscali generalizzati, a prescindere dal maggior impegno individuale. Misure di redistribuzione sociale, contro quelle rivolte contestualmente alla maggior crescita e sviluppo. Il dissenso è di principio, ma il Governo non può cedere. E non può farlo perché altrimenti verrebbe meno l’intera impalcatura: quella che punta a punire i “fannulloni”, restingere il perimetro dello Stato e così via. Avanti tutta, quindi. Anche perché non è un problema di risorse.
Il ministro delle Finanze, Giulio Tremonti (sopra) e l’ex ministro Pier Luigi Bersani (sotto)
Fu Tommaso Padoa Schioppa a rifiutare questa prospettiva, quando era ministro dell’economia. Lo fece - gli deve essere riconosciuto - con grande coraggio, nel bel mezzo di una campagna elettorale su cui una misura del genere poteva influire a favore della sua mag-
Tutta la manovra, minuto per minuto di Ferdinando Milicia emplificazione, tagli e sviluppo sono i principi cardine di tutta la manovra. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, spiega la filosofia che ispira la manovra economica triennale da 34,8 miliardi di euro, di cui 13,1 nel 2009 (oltre 9 miliardi di tagli alla spesa e quasi 4 miliardi di entrate), 7,1 nel 2010 e 14,6 miliardi nel 2012. La manovra - afferma il ministro - si svilupperà attraverso due provvedimenti: un decreto legge e un disegno di legge «collegato». Ai quali si aggiunge un ulteriore Ddl delega sulla riforma del pubblico impiego. Il tutto raccordato nel Dpef al quale sono «connesse» tre deleghe «fondamentali»: federalismo fiscale, Roma capitale e Codice delle autonomie. Un’operazione lampo, dunque. Il ministro dell’Economia impiega appena nove minuti e mezzo a illustrare ai colleghi di governo l’intervento correttivo. Davanti ai giornalisti e con tutti i
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ministri di area economica, da Scajola a Matteoli, il ministro spiega capitolo dopo capitolo tutti gli interventi previsti nel documento finanziario e sottolinea che «i primi benefici si potranno vedere già nel 2008». La vera tenuta dei conti «dipende dal positivo andamento dell’economia sostiene - se l’economia va bene, il bilancio va bene e dà una spinta allo sviluppo. Se lo sviluppo funziona e c’è un aumento di ricchezza, questa sarà poi oggetto di una politica di equa distribuzione». Gli fa eco dall’assemblea di Confcommercio, Il premier Silvio Berlusconi, che descrive la manovra varata dal Consiglio dei ministri come «innovativa e straordinaria», perché così il governo riuscirà a evitare di replicare quello che accade tutti gli anni, «vale a dire finanziarie che occupano il Parlamento tutto l’anno, cariche di richieste dei singoli parlamentari e delle lobby». Per il Cavaliere questa idea di documento finan-
ziario «è il meglio che un governo liberale possa fare, e che dà anche attenzione agli italiani meno fortunati». Il premier ha assicurato che il piano triennale di finanza pubblica, varato mercoledì dal governo, sarà approvato dal Parlamento in termini molto brevi. Berlusconi ha confermato l’obiettivo di pareggio di bilancio al 2011. Detto questo, il vero pallino del ministro dell’Economia resta sempre il federalismo fiscale. Un piano economico triennale ha soprattutto questo pregio, «non fa perdere tempo in discussioni che durano mesi ogni anno e lascia tempo e spazio per la vera riforma, il federalismo». Tremonti, durante la conferenza stampa, guarda un affresco della sala che riporta un discorso di Cavour: «Senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costruire». E aggiunge: «Se Roma sarà federale l’Italia si potrà riformare. Questo è il federalismo che abbiamo in mente».
politica
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Tremonti tentato dalle lusinghe di Cgil, Cisl e Uil
Ma chi riforma la casta sindacale? di Carlo Lottieri onquistate - in Sicilia - ben otto province su otto, il centro-destra sente il vento in poppa: e in questa sorta di “luna di miele” con il Paese non manca neppure il sostegno di due dei maggiori sindacati su tre. Mentre la Cgil è costretta a difendere il proprio ruolo di erede di una tradizione che è radicata nelle Camere del lavoro e nella lezione di Giuseppe Di Vittorio, la Cisl di Raffaele Bonanni e la Uil di Luigi Angeletti mostrano più di un’apertura di credito a favore del Cavaliere. Sembra un poco di assistere ad un remake, dato che già nel corso dei precedenti governi Berlusconi (dal 2001 al 2006) questi due sindacati avevano avviato un rapporto tutt’altro che conflittuale con il governo. È quindi solo in parte sorprendente che oggi la Cisl e Uil giudichino positiva la manovra, sottolineando che non vi sono tagli che riguardano il “sociale”. Sarebbe bene, però, che Berlusconi e i suoi non nutrissero soverchie illusioni. Già nella precedente entente con il sindacalismo meno radicale, il centro-destra ha dato molto più di quanto non abbia ricevuto. Soprattutto Roberto Maroni, che allora era alla testa del ministero del Lavoro, è sembrato nutrire a lungo l’illusione che fare concessioni ad Angeletti e a Savino Pezzotta (allora alla guida della Cisl) avrebbe rafforzato le proprie posizioni. Ma così non è stato, come ha dimostrato il fallimento del braccio di ferro sull’articolo 18. La maggioranza non deve quindi cedere alle lusinghe dei sindacati.Tanto più che ad essere elogiate sono le scelte più demagogiche di Tremonti (la Robin Hood tax, in particolare), e non già quelle riforme che intendono modificare in senso strutturale l’economia, soprattutto grazie alle liberalizzazioni e ai tagli della spesa. Bisogna poi essere consapevoli della crisi di credibilità del sindacalismo. Dopo le denunce di Pietro Ichino sui fannulloni del settore pubblico coperti dalle organizzazioni dei lavoratori, è chiaro a tutti quali siano le responsabilità della Triplice. Sta per giunta diventando un best-seller il volume di Stefano Livadiotti (“L’altra casta. Privilegi. Carriere. Misfatti e fatturati da multinazionale. L’inchiesta sul sindacato”, edito da Bompiani). Per il giornalista de “L’Espresso”, solo nel 2006 la Cgil ha incassato più di 300 milioni di euro grazie al-
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gioranza. Perché dovrebbe consentirvi ora Giulio Tremonti? Che cos’è cambiato da allora? Il quadro economico e finanziario è rimasto lo stesso. Dovrebbe essere aggiornato per tener conto del mutato contesto interno ed internazionale, ma la Ragioneria generale se ne guarda bene: lo farà quando lo riterrà necessario. E’ invece diverso il contesto europeo. La spinta dell’inflazione si coniuga con una crescita lenta ed incerta dell’economia che alimenta il timore della stagflation: il flagello degli anni ’70, determinato dalla rincorsa prezzi . salari, che ancora pesa nel ricordo. La Bce guarda con grande preoccupazione al fenomeno e lancia moniti costanti a tutti i Governi, perché non si aumentino i salari. Perché Tremonti, dovrebbe disattenderli?
Fo r te
di
Le maggiori entrate vanno a costituire riserve che saranno utilizzate al momento giusto. Difficile dire quale sarà. Ma gli indizi portano al federalismo lora il problema è quello di avere adeguate risorse finanziarie per contemperare le esigenze del Nord, che reclamano la gestione delle risorse pro-
q ues t o
avallo, il fieno viene, nel frattempo, riposto in cascina. Le maggior entrate accertate vanno a costituire riserve che saranno utilizzate al momento giusto. Difficile dire quale sarà, ma il forte accenno al tema del federalismo è rivelatore. Nessuno pensa che l’operazione potrà essere a costo zero. Non è riuscita nelle ultime legislature, perché dovrebbe avere successo oggi? Ed al-
dotte nei propri territori, con quelle del Sud, che invece richiedono trasferimenti immutati. Una coperta troppo stretta che un possibile “tesoretto” potrebbe, alla fine, rendere più facile da gestire.
le quote degli iscritti, ma anche in virtù di un sistema che porta i futuri pensionati a passare in sede per poter sbrigare le pratiche pensionistiche. Con la conseguenza che si finisce “agganciati” a un meccanismo di contribuzione automatica da cui pochi, in seguito, riescono a sganciarsi. D’altra parte, il fatto che una gran parte dei politici siano sindacalisti “in disarmo”ha reso consapevoli che oggi le sigle dei lavoratori sono essenzialmente formidabili scorciatoie per accedere ai fasti della politica. Dopo aver avuto in qualche ruolo in una confederazione, si può diventare presidenti della Camera, ministri, sindaci di grandi città e via dicendo. Sotto accusa è pure l’incoerenza dei comportamenti. A tale proposito, sono sempre più numerose le lamentele di giovani impiegati e giornalisti che lavorano per questa o quella sigla, ma con un contratto co.co.co.: la medesima formula contrattuale che viene tanto contrastata nelle dichiarazioni ufficiali. Ampiamente delegittimati e quindi debolissimi, oggi i sindacati possono solo cercare di interpretare a modo loro l’azione governativa: come una mosca cocchiera posata sul corno di un bue e che vorrebbe farci credere di contribuire all’aratura del campo. È bene però che chi ha a cuore gli interessi generali non si lasci sfuggire l’occasione per eliminare i mille privilegi di cui gode la “seconda casta”: a partire dall’obbligo per il datore di lavoro e per lo Stato di operare come esattori a loro favore, per poi passare alla questione dei Caaf e alle mille altre fonti di finanziamento e potere (la gestione dell’Inps, ad esempio). Quando la nuova presidente di giovani imprenditori, Federica Guidi, ha prospettato un futuro di contratti individuali - che restituisca al singolo la libertà di gestirsi - i sindacati sono insorti. È ovvio: il loro potere deriva dal controllo che esercitano sui nostri contratti, di fatti “espropriati”. Essi negoziano con Confindustria e le decisioni assunte valgono per tutti (erga omnes): compresi i lavoratori e le imprese che non sono iscritti. Chi si dice liberale deve partire da qui, sapendo che non sarà una battaglia facile, ma anche con la consapevolezza che sono in gioco diritti fondamentali della persona.
Berlusconi non deve quindi cedere a compromessi. Tanto più che ad essere elogiate sono le scelte più demagogiche del governo e non quelle riforme che intendono modificare in senso strutturale l’economia
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europa SEGUE DALLA PRIMA
Un consiglio al Consiglio europeo: non sottovalutate la crisi di Roberto de Mattei
Il presidente francese vuole far rivotare l’Irlanda
Sarkozy vuole il retour-match di Francesco Rositano icolas Sarkozy indossa i panni di Napoleone e arriva a Bruxelles convinto che allo strappo irlandese si possa ancora rimediare. E quindi propone la sua ricetta: «Gli irlandesi rivotino il referendum sull’approvazione del Trattato di Lisbona». Una linea nettamente decisionista anticipata da un’indiscrezione (ancora da verificare) del quotidiano ”Le Figaro”. Il giornale d’Oltralpe spiega che il presidente francese potrebbe far valere la sua linea nel corso del suo semestre alla presidenza di turno dell’Ue, al via dal prossimo primo luglio. La speranza di poter porre fine all’impasse provocata dal voto irlandese, almeno nell’entourage del presidente Sarkozy, è alimentata dal passato di quest’isola: nel 1993 e nel 2001 i suoi cittadini bocciarono rispettivamente i Trattati di Maastricht e Nizza. Ma questo non pose fine al cammino europeo dell’Irlanda, che oggi è a tutti gli effetti uno Stato membro, con tanto di Tradotto: moneta unica. Sarkozy fa bene a riprovarci. E presto il referendum della settimana scorsa potrebbe essere solo un brutto ricordo. Almeno nelle sue intenzioni.
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Ecco perché, ieri sera, nella cena di lavoro successiva alla prima giornata del Consiglio europeo di Bruxelles, il presidente francese ha illustrato le sue intenzioni ai suoi colleghi europei, esplicitando la sua volontà di accelerare in tutti gi Stati il processo di ratifica.
Quasi a dire che una loro risposta positiva potrebbe spingere gli irlandesi a ripensarci. Intanto il presidente della Commissione Europea, José Manuel Durao Barroso, che ieri ha incontrato il premier irlandese Brian Cowen, ha dato più tempo a Dublino per proporre una soluzione e uscire dall’impasse. La scadenza è ottobre, quando si riunirà il prossimo Consiglio europeo. Come ha fatto intendere anche il premier lussemburghese, Jean-Klaude Junker, il processo di unificazione europea non può proseguire senza l’Irlanda. «L’Unione europea
Intanto gli altri leader europei puntano a spostare l’attenzione dalle procedure alla crisi economica è un insieme di ventisette Stati». Quasi a dire che se, gli irlandesi non torneranno sui propri passi, le conseguenze verranno pagate da tutti gli europei. Non è un caso, infatti, che il presidente del Parlamento europeo Hans-Gert Poettering, abbia affermato: «Senza l’adozione del Trattato di Lisbona sarà impossibile continuare sulla via dell’allargamento con la possibile eccezione della Croazia». Affermazioni che dimostrano come, attualmente, la prima preoccupazione dei leader europei è rilanciare un’istituzione che sembra lontana dai cittadini.
Che l’Europa abbia bisogno di una scossa lo ha confermato anche il premier italiano, Silvio Berlusconi, che prima di volare a Bruxelles è intervenuto all’assemblea annuale di Confcommercio, affermando: «L’Europa ha bisogno di un ‘drizzone’ per avere maggiore concretezza. Vado in Europa dopo due anni e la trovo diversa rispetto a quando c’erano persone come Tony Blair, Aznar, Chirac e io stesso. Con il cambio di nomi l’Europa ha perso personalità, protagonismo e ha fatto dei passi indietro». E riferendosi alla recente bocciatura del Trattato di Lisbona da parte dell’Irlanda, ha aggiunto: «Sul Trattato si è verificato ciò che si temeva perché l’Europa non incontra le simpatie dei cittadini, ma l’Europa della burocrazia e non della gente». Comunque il premier ha ribadito la posizione del governo che è «quella di dare indicazione di approvare il trattato dell’Unione Europea da parte di tutti e 26 i Paesi che restano. Il ventisettesimo, l’Irlanda, dovrà dare una sua soluzione». Insomma, un Consiglio all’insegna della preoccupazione per il futuro dell’Europa, in cui lo ”strappo irlandese” ha avuto la priorità. In agenda però non si sono tralasciati altri temi.Tra questi l’urgenza di rispondere al rincaro dei prezzi dei prodotti alimentari e dell’energia. Temi decisivi che, alla luce di una brusca marcia indietro, sembrano quasi cose di poco conto.
La bocciatura irlandese, non è d’altra parte un semplice “incidente di percorso”, ma una brutale battuta d’arresto. Il presidente della Commissione Barroso ha ammesso che non esiste un “piano B” per aggirare il no dell’Irlanda, anche perché il Trattato di Lisbona rappresentava già un “piano B”, rispetto alla Costituzione Europea bocciata dai referendum del maggio 2005. Francia e Germania si ripropongono ora come le “locomotive”di un’Europa a più velocità, ma il cammino appare impervio. La data del 1 gennaio 2009, prevista per l’entrata in vigore del Trattato è irrimediabilmente saltata e non sarà facile approntare nuove soluzioni, almeno a breve termine. Va aggiunto che la principale ragione per cui il nuovo progetto europeo è stato rifiutato è dovuta ai suoi contenuti palesi, e non ai suoi aspetti criptici e farraginosi. Nel nuovo Trattato i termini di Costituzione e di Stato federale sono scomparsi, non si fa più riferimento ai simboli politici dell’Unione (come l’inno, la bandiera, la giornata nazionale, o meglio europea); scompaiono anche parole che rimandano ad una sovranità sopra-nazionale, come “legge” o “Legge-quadro, mentre il “ministro degli Affari Esteri dell’Unione”, previsto dalla precedente Costituzione è sostituito dalla figura, meno pretenziosa, di un “alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza”. La sostanza del nuovo Trattato, più macchinoso e più ambiguo della precedente Costituzione, è però la medesima. Restano le principali innovazioni istituzionali, riguardanti i nuovi rapporti tra Consiglio, Commissione e Parlamento europeo, la medesima estensione delle competenze comunitarie, ma soprattutto resta la Carta dei Diritti di Nizza, che costituisce il cuore della nuova costruzione europea. E’ vero che essa non fa più parte integrante dei Trattati, ma il Trattato di Lisbona, all’articolo 1, punto 8, stabilisce che l’art. 6, par. 1 del vecchio Tue, sia sostituito dal seguente: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007, che ha lo stesso valore giuridico dei Trattati». Ciò significa che la Carta dei Diritti fondamentali varata a Nizza nel
2000 avrà forza giuridica obbligatoria e sarà sovranamente interpretata dalla Corte di Giustizia europea. Nella Carta di Nizza, condannata da Giovanni Paolo II pochi giorni dopo la sua promulgazione, non c’è solo il rinnegamento formale delle radici cristiane dell’Europa. Nell’’articolo 21, per la prima volta in un documento giuridico internazionale, “l’orientamento sessuale”è riconosciuto come fondamento di non-discriminazione, mentre due altri articoli del nuovo Trattato sul funzionamento dell’Ue, il 10 e il 19, ribadiscono lo stesso principio. Questi articoli traducono in termini giuridici la cosiddetta teoria del gender, che distingue il sesso fisico-biologico dalla tendenza sessuale o “identità di genere”. La sessualità, in questo modo, diventa non un dato di natura, ma una scelta “culturale”, puramente soggettiva. L’art. 9 della Carta dei diritti di Nizza dissocia inoltre il concetto di famiglia da quello di matrimonio tra un uomo e una donna, aprendo la porta alle unioni omosessuali e alle adozioni di bambini da parte delle coppie “gay”. La Carta conferisce inoltre ai cittadini la possibilità di ricorrere contro le legislazioni nazionali, con il rischio di creare un meccanismo per cui, attraverso i ricorsi dei cittadini e le sentenze della Corte di Giustizia europea a cui essi adiscono, si arrivi a determinare una giurisprudenza comunitaria che esautori le legislazioni nazionali. I singoli possono tutelare i diritti loro garantiti dal Trattato appellandosi alla Corte di Giustizia, le cui sentenze si applicano direttamente all’interno degli Stati membri. La sovranità degli Stati sarebbe progressivamente liquidata a colpi di sentenze dei Tribunali europei. L’Unione Europea, incapace di svolgere un forte ruolo politico, si sta trasformando in un laboratorio ideologico controllato da organismi giuridici senza controllo. Se il Trattato di Maastricht, con l’introduzione dell’euro, ha voluto dare all’Europa una costituzione economica, con il Trattato di Lisbona, stiamo passando non ad una costituzione politica, ma ad una inquietante costituzione giuridica, fondata sui nuovi diritti postmoderni, diametralmente opposti ai “principi non negoziabili” a cui tanto spesso si è richiamato Benedetto XVI.
politica
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Il Senatùr double face: rassicura Berlusconi sul Trattato europeo ma lo manda sotto due volte alla Camera
Bossi, cioè la spina nel pugno di Guglielmo Malagodi
d i a r i o
d e l
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Vigilanza Rai: fumata nera per la presidenza Si è riunita ieri per la prima volta la commissione di Vigilanza sulla Rai con all’ordine del giorno l’elezione del presidente e il candidato dell’opposizione, Leoluca Orlando, non è stato eletto. Sia nella votazione in mattinata che in quella del pomeriggio, infatti, i 22 (su 40) commissari del Popolo della Libertà hanno infatti deciso (pur restando in aula) di non prendere la scheda ed è stato impossibile per l’esponente dipietrista ottenere i 24 voti su 40 necessari nelle prime due votazioni. Per assenza del numero legale (21 voti su 40), le votazioni non sono state naturalmente valida. Secondo uno degli esponenti del Pd in commissione, Vincenzo Vita, «dopo tante dichiarazioni di apertura è invece prevalsa la più bieca logica di partito volta a una improbabile trattativa che non è istituzionalmente immaginabile». Per l’esponente del Pdl, Paolo Romani, invece, la candidatura di Orlando «è quasi una provocazione e la nostra astensione sulla vigilanza è una proposta di dialogo: il presidente della Vigilanza deve essere una personalità di garanzia come il presidente della Rai».
Giustizia, la Lega «non farà problemi» ROMA. La Lega vota con l’opposizione sulla questione rifiuti e il governo va sotto alla Camera dei Deputati. Nessun incidente imprevisto, ma una volontà feroce del Carroccio nel voler mandare un messaggio perentorio a Silvio Berlusconi. E difatti ieri l’esecutivo è stato battuto non una, ma due volte, con un intervallo tra le votazioni di diverse ore. Nel mezzo c’è la storia di una giornata ad alta tensione sulla direttrice Montecitorio – Palazzo Chigi. Nella tarda mattinata di ieri veniva approvato con il parere contrario di commissione e governo un emendamento dell’Udc sulla legge riguardante il termovalorizzatore di Napoli. Ben 38 deputati della Lega Nord hanno votato a favore dell’emendamento (più uno dell’Mpa), mentre altri undici si sono mantenuti fedeli alle direttive del governo. Quindi i lavori venivano sospesi su richiesta del relatore, Agostino Ghiglia (Pdl), per valutare il testo dopo l’approvazione della modifica che sopprime una parte dell’articolo relativo al deposito dei rifiuti. A quel punto si è verificato un episodio piuttosto singolare. Come l’arbitro di Italia-Romania con il gol di Toni anche Gianfranco Fini ha fischiato l’annullamento del gol segnato dall’opposizione. Ma per essere più precisi lo sbandieramento del fuorigioco era stato effettuato dal comitato dei nove della commissione Ambiente, in quanto l’emendamento era «irriferibile al testo» per quanto riguardava quel punto. Grandi proteste da parte dei partiti all’opposizione, ma la decisione non è stata più invertita. «Il testo su cui incideva quell’emendamento insisteva su una parte del testo già soppressa - ha dichiarato il presidente della Camera Fini - non si
tratta di un ripensamento ma di un errore materiale».
Nel frattempo si è aperto ufficialmente il capitolo dello scontro Pdl – Lega. «Si è trattato di un segnale anche in vista dell’emendamento del Carroccio – ha spiegato il relatore leghista Dussin – in cui si chiede che una parte dei fondi utilizzati per la risoluzione dell’emergenza vengano coperti da Comuni inadempienti nella raccolta dei rifiuti. Ci era stato detto che sarebbe stato dato parere favorevole da parte dell’esecutivo e invece non è stato così». La questione dell’emendamento al termovalorizzatore di Napoli non è stato l’unico terre-
La questione dell’emendamento al termovalorizzatore di Napoli non è stato l’unico terreno di battaglia tra le forze della maggioranza no di battaglia tra le forze della maggioranza. L’adesione al trattato europeo è stato un altro argomento di grande divisione con il ministro leghista Roberto Calderoli a guidare il fronte dei contrari. Un bel problema per Berlusconi, al punto che era stato ancora una volta il generale, Umberto Bossi, a riportare all’ordine i suoi colonnelli. E a rassicurare l’opinione pubblica (oltre a Berlusconi) sulle intenzioni europeiste della Lega. «Noi siamo uniti, dove vado io vanno tutti. Quello che io dico di votare, votano e se dico di votare sì, tutti votano sì.
Con Silvio non ci sono attriti». Tradotto: anche Roberto Calderoli, voterà la ratifica del trattato europeo siglato a Lisbona. Una notizia che aveva fatto scendere la temperatura del clima politico, dopo le affermazioni del Ministro per la semplificazione legislativa, Calderoli, che aveva parlato di un «Trattato ormai morto». E scatenato le furie dell’opposizione, che per bocca di Piero Fassino, ministro degli Esteri ombra del Pd, aveva affermato: «È sconcertante che un partito con responsabilità di governo promuova una campagna anti-europea contraria agli interessi del Paese. Per questo ci attendiamo dal presidente del Consiglio una presa di distanza netta e immediata dalle provocazioni della Lega, a tutela prima di tutto della credibilità europea dell’Italia». Insomma, nel tardo pomeriggio sembrava essere tornata la pace tra i banchi della maggioranza, ma una nuova sorpresa leghista era in attesa dietro l’angolo di Montecitorio. Riprendono le votazioni e il governo va di nuovo sotto. Questa volta è accaduto su un emendamento (dell’Idv) riguardante la stabilizzazione dei precari al 31 dicembre 2009 e l’introduzione dell’obbligo del concorso pubblico per le assunzioni a tempo determinato nella Protezione civile relative all’emergenza rifiuti. Anche in questo caso la Lega ha votato con l’opposizione. A questo punto la maggioranza ha chiesto di sospendere le votazioni e rimandare a venerdì, mentre l’opposizione intendeva proseguire ad oltranza. Ovviamente, per la maggioranza questa giornata terribile meritava una rapida conclusione. Chiusi i lavori, il Parlamento si è aggiornato a questa mattina. Ed oggi è un altro giorno. Forse.
«La Lega non farà problemi»: esternando a Montecitorio, Umberto Bossi lancia un messaggio rassicurante al premier e al resto della maggioranza sull’atteggiamento del Carroccio rispetto alla questione giustizia. E in particolare in merito all’inserimento delle controverse norme sui processi nel decreto sicurezza. «La base leghista - dice il ministro delle Riforme e leader del Carroccio - si fida di me, e sa che non li porto nei pasticci. E poi Berlusconi non voglio dire che abbia ragione su tutto, ma questa volta - dice Bossi in relazione al processo Mills - non c’entra niente, anche il testimone che l’accusa vorrebbe usare dice che Berlusconi non c’entra niente».
Alemanno: «Commissariamento per definire il piano di rientro» La gestione commissariale in materia di bilancio del Comune di Roma «non è di carattere pervasivo ma serve ad accertare la situazione complessiva del bilancio e a stilare un piano di risanamento». A chiarire la natura del commissariamento è stato il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, nel corso della conferenza stampa congiunta con il ministro dell’Economa Giulio Tremonti, tenutasi ieri pomeriggio nella sala dell’Arazzo in Campidoglio. Il piano di risanamento, che sarà presentato da Alemanno in qualità di commissario straordinario per il piano di rientro, «sarà approvato dal governo - ha chiarito il sindaco - ma prima faremo un passaggio in consiglio comunale. La gestione commissariale - ha concluso - serve per prendere tempo, per predisporre una riforma di regime che non prevedera’ altri commissariamenti». Secondo il sindaco di Roma, «il debito del Comune è di nove miliardi 762 milioni di euro, una cifra insopportabile per un ente comunale come quello di Roma».
Stefania Craxi: «Mio padre formò una grande classe dirigente» Commentando la carriera politica di molti ex socialisti come Tremonti, Brunetta, Sacconi, Frattini, Stefania Craxi spiega a Klaus Davi: «Mio padre aveva la fissazione di creare una vera classe dirigente politica, era una delle cose a cui teneva tantissimo. Questa cultura craxiana, liberale e socialista, rivive oggi nel centrodestra. Tutti i socialisti che hanno fatto una scelta diversa sono invece andati a casa».
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il caso
L’intervento dell’attrice, rappresentante dell’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, a una tavola rotonda del Council on Foreign Relations
Io, l’ambasciatrice di Angelina Jolie
Angelina Jolie, notoriamente impegnata nel sociale e particolarmente sensibile alla situazione dei bambini nei Paesi poveri, è rappresentante dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e da pochi anni membro del Council on Foreign Relations, che ha recentemente promosso una tavola rotonda sul dramma della mancata scolarizzazione di milioni di bambini nei Paesi teatro di guerre e conflitti, cui l’attrice ha partecipato. Ecco un lungo estratto del suo pensiero. un dato di fatto che il modo migliore per far superare ai bambini in guerra i propri traumi sia quello di concentrare la loro attenzione sul futuro e di dar loro un’istruzione, ed è un dato di fatto che una popolazione istruita sia la garanzia migliore per un futuro stabile e prospero. Quello che dico non è una novità per nessuno, è senso comune, eppure l’istruzione non è ancora una priorità per la comunità internazionale. Siamo qui per parlare dei bambini dell’Iraq, ma prima vorrei dire qualcosa in generale sui bambini in guerra, su chi siano. Si tratta di bambini che vivono in campi di rifugio dove la media di permanenza, prima di tornare a casa, è di 17 anni, oppure bambini che sono rifugiati ma non vivono in campi attrezzati, come in Siria e in Giordania. Stiamo parlando anche di bambini che sono dispersi all’interno dei propri Paesi, come in Colombia e in Darfur, bambini che continuano a vivere in aree di conflitto come in Congo e in Iraq, di bambini che stanno rimpatriando e di quelli che stanno tornando nelle zone bombardate o minate, com’è stata la Colombia e com’è l’Afghanistan oggi.
È
bili, e ho incontrato bambini che si prostituiscono e che si danno ai traffici illegali. E’ una situazione terribile.
Il punto è che ogni bambino ha diritto all’istruzione, e la guerra non è una scusa per ignorare tale diritto, piuttosto il momento in cui ne hanno maggiore necessità perché li aiuta a provare un senso di normalità, perché sostiene la loro salute fisica e mentale. Sappiamo che la mortalità infantile diminuisce quando le madri sono ben istruite; sappiamo che una diciassettenne che frequenta la scuola ha sei volte meno la possibilità di contrarre il virus dell’Hiv e dell’Aids rispetto alle sue compagne che non hanno tale opportunità. L’istruzione dà loro speranza, fiducia nel futuro, soprattutto la sensazione di averlo un futuro. Questi bambini sono capaci di sedersi sotto un albero, scrivere nella terra perché non hanno penne e matite e resistere sotto
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Il modo migliore per far superare ai bambini in guerra i propri traumi è concentrare la loro attenzione sul futuro e la scuola
Ci sono decine di milioni di bambini in queste condizioni, e io ho avuto il privilegio di incontrarne molti; sono motivati e forti, e so cosa potrebbero fare con una buona istruzione. Ho visto cos’è la loro vita, ho incontrato bambini che hanno visto uccidere i propri parenti e amici, che hanno perso le loro case e non possono fare altro che starsene in un campo a fissare il vuoto. Ho incontrato anche bambini che vivono per strada, li ho visti rovistare nella spazzatura tutto il giorno per guadagnare pochi centesimi per il riciclaggio; la maggior parte di loro ha il volto segnato dalle cicatrici perché nell’immondizia vivono insetti orri-
una temperatura di 100 gradi solo per sentire la parola di una maestra. Sono in assoluto gli studenti più impegnati del mondo, sono il futuro del loro Paese, e dunque il miglior investimento che possiamo fare. Questo è certamente vero per l’Iraq, dove più di 4 milioni di persone sono state disperse dal conflitto e i bambini sono circa il 50 percento di queste, mentre quelli che ancora vivono all’interno della zona di hanno guerra poca o nessuna assistenza, poco o niente accesso all’istruzione. L’Iraq ha una storia di alto livello qualitativo del sistema scolastico, quindi tanti genitori e tanti gruppi sono consapevoli di ciò che hanno
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Qui a fianco Angelina Jolie con il marito Brad Pitt insieme agli sfollati dell’uragano Katrina. Nella foto piccola a destra, l’attrice insieme a due dei suoi figli adottivi
perso. Quando ho visitato i rifugiati in Siria e le famiglie disperse in Iraq, la prima domanda che ho sempre fatto è stata cosa li preoccupasse di più, e - giuro che quel che dico è vero - la prima famiglia che ho incontrato era composta da 13 persone che vivevano in una minuscola camera.
Uno di loro aveva un lavoro, faceva caldo, erano affamati, sporchi, stanchi. Era una situazione orribile, ma mi hanno detto che avrebbero voluto mandare i propri figli a scuola, e una madre ha aggiunto che sopravvivere è niente se non puoi essere nessuno o fare qualcosa della tua vita, quindi questa popolazione in difficoltà di cui stiamo parlando è il futuro dell’Iraq. Raggiungerli, aiutarli ad affrontare i loro traumi e riportare la loro mente su un possibile futuro deve assolutamente essere una delle nostre priorità. Abbiamo bisogno di tutti i bambini di cui stiamo discutendo oggi. Noi, la comunità internazionale, abbiamo bisogno che crescano e diventino dottori, avvocati, ingegneri e professori perché abbiamo bisogno che ricostruiscano i loro Paesi, che li stabilizzino e che un giorno, magari, li governino. Per questo vi chiedo di non pensare a loro come a decine di milioni di bambini in difficoltà, ma come ad una grande forza che, col giusto sostegno, farà cose straordinarie. Non siamo qui con una soluzione in mano, perché non ce ne sono, ma siamo qui per discutere la complessità della situazione e vedere se possia-
il caso
mo trovare soluzioni migliori. Avvicinare l’istruzione ai bambini in guerra è molto, molto difficile; sono rimasta sconvolta quando ho imparato a conoscere tutti questi ostacoli perché all’inizio avevo pensato che sarebbe stato facile, mentre, ad esempio, i bambini di cui stiamo parlando - molti di loro - sono in aree dove maestri e scuole sono un bersaglio. In Liberia l’80 percento delle scuole è stato distrutto durante la guerra, e quei bambini sono ancora traumatizzati; un bambino iracheno ogni cinque registrati in Siria è stato vittima di tortura o di estrema violenza, e secondo uno studio i cui risultati non sorprendono, il 92 percento dei bambini iracheni ha avuto difficoltà di apprendimento a causa del clima di paura. Le scuole sono sovraffollate e alcune sono usate per viverci, e tanti bambini sono irraggiungibili perché mentre siamo qui ci sono bombe e pallottole che volano sopra la loro testa. Dunque che possiamo fare? Tante cose. Ci sono persone qui dalle quali sentirete quanto siano coraggiose e impegnate, e ci sono tanti che svolgono un grande lavoro in loco, ma, nonostante i loro sforzi, si tratta ancora di una goccia nell’oceano.
Per questo siamo qui oggi; io guardo oltre la nostra discussione per trovare soluzioni migliori e lavorare insieme per salvare questi bambini. Ho imparato molto viaggiando nei campi dei rifugiati per più di sette anni, e certamente ho avuto molte esperienze diverse. Ricordo la notte trascorsa in un campo birmano al confine con la Thailandia, e tutti quegli adolescenti che cercavano di entrare nella mia stanza (non proprio nella mia stanza, stavo con una famiglia, era una specie di rifugio di bamboo). Bussavano ma era pericoloso per loro uscire perché c’erano i capi del campo e la polizia. Non sapevo esattamente cosa mi volessero chiedere, pensai si trattasse di domande da adolescenti, inve-
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ce sono entrati, hanno scritto il numero della stanza del campo nella quale vivevano, e hanno chiesto se potevamo fargli avere libri di grammatica, dizionari, penne ed altro materiale. Questo volevano. Dopo sono tornati nelle loro stanze chiedendoci di non dire che erano venuti perché temevano di passare dei guai. Ho vissuto questa esperienza e tante altre in praticamente tutti i posti dove sono andata, e penso sia lo stesso per la maggior parte delle persone qui presenti, per chiunque abbia visitato questo tipo di luoghi, dove capita di sederti a scrivere sul tuo giornale o il tuo blocco e i bambini cominciano a pregarti per un pezzo di carta. Ho fatto l’errore di staccare un mucchio di penne bic da distribuire e si è creata una bolgia di bambini che si spingevano e si colpivano a vicenda solo per avere una stupida, piccola penna. E’stato orribile. Sono davvero disperati per l’istruzione, e non è solo per aver sentito i loro genitori dirgli quanto sia importante, ma quando sono tornata nei campi che ho visitato ho visto anche altre cose. Ho conosciuto una ragazza, in particolare, che aveva assistito all’uccisione della sua famiglia ed era sopravvissuta con una sorella; dondolava fissando il vuoto tutto il giorno. Non voleva parlare, solo dondolare. Ho tentato ma si rifiutava, e non ho potuto aiutarla, però sono tornata. Non ricordo quanto tempo dopo, forse sei mesi, e lei era a scuola e parlava. La maestra disse che all’inizio disegnava di tutto, ma alla fine aveva fatto qualche amicizia e i nuovi amici cercavano di coinvolgerla in qualche gioco. Certo è un processo lento, ma è ciò che fa la differenza tra una ragazza traumatizzata che non ha voce e qualcuno che parlerà e migliorerà la sua condizione. Quindi sì, oltre il confine c’è quello che tutti vogliono; quello che i genitori desiderano per i loro figli e senz’altro quello in cui sperano disperatamente i bambini.
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quante case fossero state bruciate e quante persone vivessero in casa d’altri.Vedere questi posti è necessario per poter effettivamente aiutare i rifugiati a tornare, o anche solo conoscere gli strumenti legali necessari al ritorno, ma ci sono stati progressi e l’Unhcr ha aggiunto cinque membri al suo staff circa un mese fa. Penso alle tante persone che hanno lavorato lì anche quando era impossibile esserci portando aiuto e assistenza, e penso che anche Petraeus sarebbe d’accordo che per essere utile questo lavoro non ha solo bisogno di una diminuzione della violenza. Gli aiuti umanitari devono aumentare e i cambiamenti essere possibili, dunque penso lui sappia – e presumo il governo americano sia consapevole – che questo è il momento di fare grandi cambiamenti e grandi passi in avanti per tutti. Per quel che riguarda i rifugiati ammessi in America, c’è stato un incremento negli ultimi cinque mesi. Per l’esattezza a febbraio sono stati 444, a gennaio 375 e lo scorso mese 751. Questa crescita è un bene ed è un buon segno, ma implica anche che rimangono circa sei mesi per ammettere più di novemila rifugiati perché il numero totale era dodicimila, un obiettivo ritenuto da molti di noi raggiungibile, ma allo stesso tempo siamo felici che il numero stia almeno crescendo e speriamo che continui a salire e a dare speranza a quante più famiglie possibile nei prossimi sei mesi. Ritengo che la cosa principale che dovremo essere in grado di offrire ai rifugiati quando torneranno nei loro Paesi d’origine sia un eguale o migliore sistema scolastico. Per questo dobbiamo rendere sicure le scuole lì; non possiamo parlare di ritorno a Baghdad finché non sapremo che quelle scuole sono di nuovo attive, curate e sicure. Questo è l’obiettivo per il quale dovremmo lavorare, non limitarci ad aiutare le persone mentre sono disperse; è il ritorno lo scopo sul quale dobbiamo concentrarci nel lungo termine. C’è poi il problema degli orfani. In molti Paesi, soprattutto arabi, il loro numero è incerto, e talvolta, anche quando un bambino perde solo un genitore, è considerato ugualmente orfano. E’ una cosa da tenere in considerazione e da capire, perché la nostra concezione della situazione di questi bambini non è necessariamente la stessa in quelle parti del mondo. Un ultimo accenno vorrei farlo per parlare dei bambini in guerra considerati autistici. So che ci sono molti programmi artistici pensati per loro e in grado di coinvolgerli ad ogni età, ma di alcuni di questi bambini con quale certezza possiamo dire che sono autistici? Non sappiamo cosa gli sia successo e spesso si scopre che non c’è niente che non va in loro, semplicemente hanno sofferto i bombardamenti e magari hanno passato tre giorni a scappare terrorizzati. E’ normale che quando vengono ritrovati siano in qualche modo diversi.
Ho imparato molto viaggiando nei campi dei rifugiati per più di sette anni, e certamente ho avuto molte esperienze diverse
Vorrei ora parlare dei rifugiati ammessi negli Stati Uniti e della mia trasferta in Iraq anche in qualità di rappresentante dell’Unhcr; sapevo che lo staff voleva essere dislocato all’interno dell’Iraq ma era complicato per ragioni di sicurezza, e ho assistito alla discussione tra l’Unhcr e il generale Petraeus riguardo la possibilità o meno di muoversi in determinate aree per valutare
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La denuncia di “Save the Children”
Istruzione negata per 37 milioni di bambini di Valentina Meliadò ussemburgo-Burundi 12mila a 17. Per un anno di scuola elementare, un Paese industrializzato spende fino a 700 volte di più rispetto al costo di un ciclo completo di lezioni per un bimbo di un Paese povero o appena uscito da un conflitto. La denuncia arriva da un rapporto di Save the Children che sottolinea come, ad esempio, il governo del Lussemburgo sborsi 12.000 dollari all’anno per garantire l’istruzione elementare a ogni bambino nato sul suo territorio, mentre la spesa pro-capite per la scuola primaria in Burundi ammonta a 17 dollari annui. E il discorso si può allargare a Svizzera, Danimarca, Svezia e anche Italia da una parte (rispettivamente con 10.534, 10.299, 9.995 e 6.796 dollari) e Laos, Madagascar, Ciad e Uganda (con 12, 16, 18 e 19 dollari annui) dall’altra. Una disparità di trattamento che va contro gli impegni presi dai Paesi industrializzati e che, secondo l’organizzazione, rischia di escludere dall’istruzione, e quindi dall’emancipazione sociale e culturale, 37 milioni di bambini che vivono in Paesi lacerati da conflitti o in situazioni post-belliche. I dati, Paese per Paese, sono contenuti nel Rapporto ’Scuola, ultima della lista’, che fa parte della più vasta Campagna internazionale di Save the Children “Riscriviamo il Futuro”, lanciata nel 2006 per assicurare istruzione di qualità a 8 milioni di minori in 20 nazioni in guerra o post conflitto. «Allora i Paesi donatori si impegnarono a versare 5 miliardi di dollari per l’istruzione primaria entro il 2015», hanno ricordato dall’organizzazione.“Se vogliamo raggiungere l’Obiettivo Onu del Millennio sull’istruzione primaria universale per tutti i bambini», ha avvertito Valerio Neri, direttore generale di Save the Children Italia, «le nazioni avanzate e più ricche, compresa l’Italia, devono aumentare sensibilmente i finanziamenti all’istruzione, destinandone una quota rilevante alle nazioni in conflitto». Secondo l’organizzazione, oggi 19 Paesi ricchi su 22 non hanno destinato la porzione di finanziamenti necessaria, la cosiddetta ’quota equa’, per raggiungere l’obiettivo dell’istruzione universale fissato dalle Nazioni Unite. In particolare, l’Italia occupa il terzultimo posto della classifica stilata da Save the Children, avendo contribuito per appena il 7 per cento alla “quota equa”. Dopo di lei, ci sono solo Austria e Grecia. Per questo, l’organizzazione chiede al governo italiano di raggiungere entro il 2015 lo 0,7 per cento del rapporto tra Pil e Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), e di includere l’istruzione negli interventi umanitari d’emergenza. «Le risorse destinate all’Aps», ha concluso Neri, «restano ancora insufficienti e finché non saranno incrementate, il nostro contributo all’istruzione nei Paesi in guerra resterà minimo, cioè dell’ordine di 0,03 dollari per un anno di scuola di un bambino».
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mondo
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Comincia il congresso dei Popolari spagnoli: per ora non c’è alternativa a Rajoy
L’ombra di José Maria di Benedetta Buttiglione Salazar el XVI congresso del Partito popolare spagnolo, che si apre oggi a Valencia, la rielezione di Mariano Rajoy a presidente sembra scontata. Rajoy si presenta infatti come unico candidato a guidare il partito verso le prossime elezioni del 2012 e c’è già chi giura che sarà anche il prossimo candidato premier. Tra i notabili del partito, i baroni come li chiamano gli spagnoli, i deputati ed i vari politici si respira un’aria di ostentata serenità e sicurezza che, vista da fuori, sembra però alquanto forzata. Non è facile estirpare qualche commento, a sentire loro la situazione è più che normale, ovvia addirittura e si stupiscono tutti davanti alla domanda che sorge spontanea: «ma scusate, dopo aver perso ben due elezioni politiche, l’ultima proprio tre mesi fa, siete proprio tutti sicuri che rivoterete in blocco colui che ha perso e vi ha fatto perdere?» Ebbene sì, loro sono tutti concordi nel sostenere Rajoy presidente del partito, non c’è nessun altro candidato. Nessuno però dice che non c’è nessun altro leader, cioè nessuno definisce Rajoy un leader, semplicemente un candidato. Forse perché un leader Mariano Rajoy non lo è, ma diciamo pure che dopo Aznar non sarebbe stato facile per nessuno. Rajoy è senza dubbio una bravissima persona, è riuscito a tenere testa all’Eta, mantenendo una posizione ferma là dove Zapatero è stato più blando.
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Purtroppo però manca un po’di carisma, di quel po’ di aggressività e sicurezza di sè, forse addirittura di sfrontatezza, che in politica non fa mai male. Rajoy è l’uomo del dialogo, con il governo, con i nazionalisti, ma forse lo si sarebbe voluto un po’più deciso, per esempio sul terreno dei valori. E dall’interno è questo che gli criticano coloro che hanno provato a presentarsi contro di lui come candidati al posto di presidente del partito. Il sindaco di Madrid, Gallardón ed Esperanza Aguirre, presidente della regione di Madrid, hanno entrambi sottolineato la mancanza di una leadership forte nel partito. Jaime Mayor Oreja, vice-pre-
sidente del gruppo del Partito popolare europeo, gli rimprovera di non essere abbastanza fermo nella difesa dei valori cristiani, il suo non pronunciarsi chiaramente a favore solo della famiglia tradizionale. C’è anche
ha ottenuto, nella sua scalata verso la poltrona di presidente, l’appoggio di Aznar e perciò alla fine sono tutti rientrati nelle fila e si sono ricompattati dietro l’unico candidato, l’unicoche finora sia stato esplicitamente indi-
anni di buon governo. Probabilmente ha anche indovinato bene i tempi, ricordiamoci il malaugurato 11 marzo del 2004, gli attentati ai treni spagnoli che, secondo alcuni, determinarono la vittoria di Zapatero. In quell’occa-
Poco carisma e nessuna concorrenza. Il vecchio presidente succederà a se stesso chi dice che Rodrigo de Rato, vice-presidente del governo e ministro dell’economia durante gli otto anni di Aznar, poi numero uno del Fondo monetario internazionale, sarebbe stato un candidato migliore. Nessuno però
cato da Aznar, che se non è più al comando, da dietro le quinte osserva e, forse, muove ancora qualche filo. Aznar, infatti, è l’uomo che non è mai stato battuto, ma che si è ritirato spontaneamente dalla scena dopo 8
sione il voto fu influenzato dalla paura e dal disorientamento, ma sta di fatto che nel 2004 i socialisti conquistarono il potere ed ancora non lo hanno mollato. Anche le elezioni del 2008 sono state particolari, sempre secon-
Per il partito la prova del fuoco saranno le elezioni europee del 2009
«Ma il peggio è passato» colloquio con Alejo Vidal Quadras È scontato che Mariano Rajoy verrà rieletto presidente del Partito Popolare nel congresso che si apre oggi a Valencia: davvero il partito lo rieleggerà dopo due sconfitte? Rajoy non ha un vero rivale all’interno del partito. È l’unico candidato. Ma la decisione non è stata facile. C’è stato chi si è fatto avanti, ma alla fine ha ritirato la propria candidatura, lasciando Rajoy da solo. In realtà il Partito Popolare ha affrontato negli ultimi anni una grave crisi, da cui ne sta uscendo solo ora. Le due sconfitte elettorali sono state molto pesanti e la scelta del partito è stata quella di ricompattarsi dietro il presidente Rajoy che, non dimentichiamolo, fu indicato dallo stesso Aznar come suo successore. Oggi però i rapporti tra i due sono piuttosto freddini… Diciamo che si sono un po’allontanati. Era inevitabile. Direi quasi fisiologico: Mariano Rajoy è il presidente del partito e come tale prende le proprie decisioni in maniera autonoma. Aznar, dal canto suo, è molto rispettoso, non vuole interferire e forse proprio questo suo riserbo ha causato l’allontanamento. Il País ha pubblicato un articolo in cui dà per certo che Rajoy sarà di nuovo il candidato del Pp nelle elezioni spagnole del 2012: non le sembra un po’presto, e anche politicamente pericoloso,“scoprire”il candidato 4 anni prima? Senza dubbio lo è, ma io non sono d’accordo con il País. Prima del 2012 abbiamo davanti tre appuntamenti elettorali molto importanti: le elezioni nei paesi baschi spagnoli, quelle in Galizia e le elezioni europee del 2009. Rajoy si giocherà la sua candidatura alle politiche soprattutto nelle prossime elezioni europee.
E come vede lei le prossime elezioni del 2012? Purtroppo la Spagna sta attraversando una profonda crisi economica, di fronte alla quale il governo rimane passivo, inattivo, indifferente. Nelle strade cresce l’irritazione, la gente comincia a manifestare contro l’aumento dei prezzi. Gli scioperi sono iniziati. Prima i pescatori, poi gli auto-trasportatori che non riescono a far fronte al prezzo del petrolio arrivato ormai alle stelle. Di fronte a tutto ciò Zapatero sembra inerte ed ovviamente questo ci favorisce. Posso dire perciò che siamo piuttosto ottimisti sul futuro del nostro partito e sull’esito delle elezioni del 2012, quanto però a chi sarà il candidato….questo è ancora tutto da vedere. Torniamo al congresso: nella relazione politica ufficiale si definiscono le politiche in favore della famiglia come fattore di coesione e integrazione sociale. Si aggiunge però che devono essere adattate alla realtà della società e alle nuove forme di convivenza: cos’è, una non tanto velata forma di riconoscimento dei pacs? Guardi, la verità è che non è stato affatto facile giungere ad un accordo sul testo di questa relazione, ed infatti ancora non lo abbiamo raggiunto. Io stesso insieme ad altri ho proposto un emendamento che dovrà essere discusso in cui definisco la famiglia che nasce dall’unione di un uomo e di una donna, come unico fondamento della nostra società. [b.b.s.]
do esponenti del Partito popolare. Alla domanda sul perché Rajoy avesse perso anche queste, i popolari spagnoli ti raccontano orgogliosamente che in realtà prese più voti di quanti mai il Partito popolare avesse mai preso, superando la soglia dei 10 milioni. “E allora perché non siete al governo?” Perché quel furbo di Zapatero si è alleato con tutti quelli che gli capitarono a tiro, specifico nello con i comunisti ed i nazionalisti, mettendo a rischio l’unità nazionale e racimolando un milione di voti in più, il milione della vittoria.
Adesso però a Zapatero non va più tanto bene. Nei primi anni del suo governo ha goduto della favorevole congiuntura economica innescata dalle accorte politiche di Aznar, ma ora il vento è cambiato ed la Spagna sta attraversando una pesante crisi economica. Il settore della speculazione edilizia legato a quello turistico è ormai saturo, la gente non compra più, i prezzi delle case scendono ed i costruttori se la vedono proprio male. Le cifre della disoccupazione aumentano. Quando Aznar arrivò al governo trovò un tasso di disoccupazione del 25% ed è riuscito a portarlo al 10% : adesso dopo tanti anni sta risalendo nuovamente e nel Paese cresce la paura. Non è difficile credere che questa situazione stia favorendo il Partito popolare. Più il governo si trova in difficoltà, inerte di fronte agli scioperi legati agli aumenti dei prezzi, incapace di ribaltare la crescita negativa, più i popolari si leccano i baffi. E sono tutti - più o meno allegramente – compatti dietro il loro presidente. Quanto a Rajoy candidato premier del 2012…beh qui la compattezza viene meno, il gruppo si sfalda e sono in molti a sussurrare che questo si vedrà col tempo, che quattro anni sono tanti,che forse potrebbe anche sorgere un nuovo leader, uno giovane, di un’altra generazione.
mondo
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La guerriglia talebana, una mina che sta destabilizzando Pakistan e Afghanistan
Come finisce un’alleanza di Vincenzo Faccioli Pintozzi
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Iraq, resa dei conti ad Amara In Iraq inizia l’operazione «Messaggero di pace». L’offensiva, americana e irachena, contro milizie sciite e bande di criminali ha preso il via ad Amara con la dichiarazione del coprifuoco in questa cittadina a quattrocento chilometri a sud di Bagdad. Secondo il primo ministro iracheno, Nuri al Maliki, l’offensiva militare non punta a colpire i simpatizzanti del predicatore sciita Muktada al-Sadr, contro cui le truppe governative nei mesi scorsi hanno ingaggiato feroci scontri a Bagdad e in diverse cittadine del sud.
Egitto avanti nella legislazione secolare
onti fatti saltare in aria con il plastico, villaggi minati e ronde di ricognizione effettuate con elicotteri Apache, magari datati ma ancora perfettamente funzionanti. Quello che sembra l’operato di un esercito è invece il bilancio dell’offensiva talebana lanciata ieri nel sud dell’Afghanistan contro le forze Nato e quelle nazionali afghane, a pochi giorni dalla spettacolare evasione di centinaia di guerriglieri islamici dal carcere di massima sicurezza di Kandahar, degna di un film d’azione statunitense.
P
Per il momento le milizie musulmane controllano Arghandab, da cui – dicono fonti dell’intelligence di Kabul – stanno pianificando l’attacco per il controllo di Kandahar, loro patria spirituale. La Nato sostiene che i talebani sono ben lontani dal controllare l’area, ma rimane il fatto che è stato emanato l’allarme in tutta la zona, e la popolazione civile è invitata a non lasciare le proprie abitazioni per nessun motivo. La risposta del governo Karzai a questa escalation di violenza è stata accusare il Pakistan di connivenza, quanto meno omertosa, con gli studenti coranici. Ieri Musharraf ed i responsabili del ministero dell’Interno si sono incontrati per discutere l’aumento della potenza militare talebana, la crescente paura della popolazione pakistana costretta a subire le imposizioni dei fondamentalisti e l’apparente impotenza del governo a mettere un freno agli attacchi indiscriminati nel nord del Paese. Il colloquio si è chiuso con un nulla di fatto, ed è stato invitato in Pakistan un esponente del governo afghano per discutere della situazione. Infatti, dopo le “illazioni”del presidente afghano, non accenna a diminuire la tensione fra Kabul ed Islamabad, impegnate ad accusarsi reciprocamente sulla questione del fondamentalismo islamico nei due Paesi. Secondo Karzai, l’esecutivo guidato dalla Lega musulmana e dal Partito popolare sta dando un rifugio sicuro alle milizie islamiche; per il Pakistan, è colpa del corrotto governo afghano se i confini«sono ridotti a dei colabrodo da cui far passare armi e guerriglieri». Tuttavia, per spezzare una lancia a favore di Kabul, va ricordata l’enorme concessione siglata dal governo guidato da Zardari e Sharif, i leader della coalizione di governo di Islamabad, che ha ceduto ai talebani una fetta del territorio settentrionale – il Talebanistan - in cambio della
fine degli attacchi suicidi. Decisione quanto meno impopolare: da giorni, infatti, la popolazione pakistana chiede maggior sicurezza al governo e punta il dito contro presunte «amicizie altolocate» degli studenti coranici, che proprio ieri hanno minacciato le donne di Kohat, una cittadina a pochi chilometri dalla capitale, di «gravi ripercussioni se si ostineranno a non portare il velo ed a frequentare le scuole non islamiche».
A questo scenario di instabilità vanno sommati i disordini interni dovuti alla «lunga marcia della legalità», ovvero le diverse manifestazioni di avvocati e magistrati in tutto il Pakistan, che chiedono al governo il reintegro dei giudici epurati da Musharraf prima delle ultime elezioni. La questione dei giudici rimane una spina nel fianco dell’esecutivo che aveva fatto del loro reintegro il proprio cavallo di battaglia in campagna elettorale. Attualmente, però, il Partito popolare e la Lega musulmana non riescono a trovare un accordo per mettere in atto questo proposito. Secondo alcuni analisti, alla base del mancato accordo vi sarebbe l’ostruzionismo di Asif Ali Zardari, leader dei Popolari, che teme le accuse di corruzione che potrebbero essergli mosse da una magistratura indipendente. Tuttavia, sotto banco vi sarebbe anche l’opposizione di Sharif, che non ha gradito le diverse sentenze non islamiche firmate dall’ex presidente della Corte Suprema, il giudice Chaudry, che oggi guida la rivolta dei magistrati. Infine, entrambi ne temono l’enorme seguito popolare, che potrebbe condurre ad un rovesciamento del già precario equilibrio politico del Paese. Se a questo scenario si aggiunge l’affaire Musharraf il quadro è completo. L’ex generale, ancora rimpianto dalle forze armate, è in perenne stato di accusa da parte del governo che ne chiede l’allontanamento per il colpo di Stato pacifico dello scorso novembre. Eppure, a qualche mese dalla deblacle elettorale del suo partito, il Paese sembra rivalutare le sue trategie politiche. La popolazione del sud chiede il suo intervento «non subire la stessa sorte del Talebanistan». A lui gli Stati Uniti si sarebbero rivolti per capire come fermare l’avanzata degli estremisti nel sud dell’Asia. Non sarà mai un «democratico specchiato», e forse sarà sempre il male minore. Ma al momento sembra proprio Musharraf la soluzione alla crisi del Pakistan.
La tensione tra Islamabad e Kabul potrà diminuire solo con la stabilizzazione delle frontiere che i due Paesi hanno in comune
Dopo l’invito a pregare meno durante le ore lavorative, il Cairo compie un altro passo aventi verso la modernizzazione. Questa volta è il parlamento a mettere il suo sigillo su un progetto di legge sulla protezione dei minori. Con un passo che alcuni ritengono una violazione delle tradizioni del Paese, mentre per altri è solo l’inevitabile adeguamento ai tempi, i legislatori hanno vietato l’infibulazione delle bambine innalzando l’età minima per il loro matrimonio da 16 a 18 anni. Per il ministero degli esteri del Cairo, la revisione legislativa era indispensabile per restare al passo con i cambiamenti della società.
Polonia, Walesa era anche Bolek? All’accusa di essere stato un agente dei servizi segreti comunisti, Walesa dovrebbe aver fatto il callo. Quanto accade in questi giorni a Varsavia mette però in allarme l’ex presidente polacco. Walesa è sotto pressione a causa dalla prossima uscita di un libro e dall’azione concentrica dell’attuale capo dello Stato, Lech Kaczynski con quella dell’altro gemello Kaczynski, l’ex primo ministro di Varsavia. In Polonia l’uscita del libro, «I servizi segreti e Lech Walesa, Contributo alla sua biografia» è stata finora sempre rinviata. La nuova data pubblicazione è fissata per lunedì, ma in pochi credono che le 800 pagine del volume, quel giorno saranno veramente in libreria. Secondo dei brani pubblicati sul quotidiano conservatore Rzeczpospolita, Walesa, dal 1970 al 1976, avrebbe collaborato con gli organi comunisti. Nome in codice Bolek.
Dimostrazioni e arresti in Birmania Dopo l’annuncio di manifestazioni, a causa del 63simo compleanno del premio Nobel per la pace birmano, Aung San Suu Kyi, giovedì a Rangoon sono stati effettuati diversi arresti. Secondo informazioni fatte circolare dal partito di opposizione, la Lega nazionale della democrazia, nella capitale delle persone che per festeggiare simbolicamente l’anniversario dell’attitivista dei diritti umani volevano liberare in volo 63 colombe, sono state fermate dalle forze dell’ordine. La polizia è intervenuta quando dalla folla sarebbero partiti appelli alla libertà.
Svezia, approvata legge sulle intercettazioni Il parlamento di Stoccolma, ha approvato una legge che ha sollevato molte controversie in tutto il Paese scandinavo. Con le nuove norme aumentano sensibilmente i casi in cui servizi segreti e autorità investigative svedesi, possono intercettare e controllare conversazioni telefoniche e mail elettroniche. Dopo un rovente dibattito, la legge è stata approvata a stretta maggioranza, 143 contro 138, ed entrerà in vigore nel gennaio del prossimo anno.
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speciale approfondimenti CREMLINO, 18 MAGGIO DEL 1987. Entrandoci, il palazzo appariva diverso da come lo si era immaginato da fuori. Più che il cuore del potere della seconda potenza del globo, sembrava uno di quegli alberghi nè bui nè luminosi, nè moderni nè antichi, nè lucidi nè polverosi, non allegri ma neppure tristi. Solo la fitta presenza delle guardie - tutte più alte della media, tutte giovani, tutte impeccabili - segnalava che i lunghi corridoi foderati di tappeti sui quali si camminava senza far rumore e le infinite porte da attraversare conducevano nell’ufficio di Mikhail Gorbaciov. Qualche minuto di attesa, insieme a un gruppo di fotografi e di operatori, benevolmente sorvegliati da uno degli uomini del cerimoniale e poi, preannunciato dal rumore di una porta che si apriva, il segretario generale del Pcus ci era venuto incontro, con la mano tesa, con il suo grande sorriso ormai noto in tutto il mondo e parlando in russo, senza quasi lasciare all’interprete il tempo di tradurre. Da vicino era proprio come appariva da lontano, cioè un uomo simpatico, estroverso, pronto alla battuta. Stringendomi la mano e guardando la mia barba, mi aveva chiesto se per caso non fossi un rivoluzionario; non avevo trovato una battuta per rispondergli - in certe occasioni vengono sempre dopo - e lui, dopo un attimo di silenzio e vedendo la mia perplessità, aveva rilanciato: «Sì, un rivoluzionario, come Fidel Castro». E tutti ci eravamo messi a ridere. Quei tappeti fino a pochi anni prima erano stati calpestati da Leonid Breznev. Il pesante Breznev che era stato il simbolo della sacralità del potere, ma soprattutto di un lungo periodo di ristagno anzi, ad essere più precisi, di regressione. Aveva preso il comando scalzando dal Cremlino Nikita Krusciov nel 1964, non aveva restaurato lo stalinismo ma più semplicemente aveva cancellato quel poco che restava della destalinizzazione ed era stato il simbolo non di una «competizione pacifica» fra Est ed Ovest, come si era sperato negli anni 60, bensì di un’infinita rincorsa agli armamenti ed era diventato co-
Carte Gorbaciov e Dubcek, protagonista della Primavera di Praga, raccontati dal direttore di liberal che li intervistò nei giorni che precedettero e seguirono la caduta del comunismo
MIKHAIL di Renzo Foa piace molto lo stile con cui voi italiani ponete le domande. Prima occupate mezza pagina per ricordarmi quello che io stesso ho detto e solo a quel punto fate la domanda. Uno stile simpatico». Poi aveva allungato il malloppo a Gerardo Chiaromonte, il direttore dell’Unità che era seduto davanti a lui e che aveva guardato subito se il testo fosse già stato tradotto in italiano e capire se la conversazione si sarebbe svolta al buio o se invece si sarebbe potuto insistere su qualche argomento. Il lungo dattiloscritto era, naturalmente, in caratteri cirillici. Per essere alla mano, il segretario del Pcus lo era davvero. Aveva rotto rapidamente il ghiaccio, non si era presentato nei panni del capo di una delle due massime potenze planetarie, ma molto più semplicemente come il protagonista, anche un po’ stupito, di un tentativo che in quei mesi veniva definito con due parole-chiave: la perestrojka - letteralmente la ristrutturazione, in realtà il rinnovamento- e la glasnost, cioè la trasparenza. Tre erano state le domande più importanti di quella conversazione. La prima gli era stata fatta da Chiaromonte e riguardava le origini dell’idea e le ragioni per cui era iniziato quello che sarebbe stato l’ultimo tentativo di riformare il comunismo. Gli aveva chiesto: «Se ripensa al passato, al suo lavoro di dirigente del partito, quando è maturata in lei la coscienza della necessità della perestrjoka?». Il segretario generale del Pcus aveva risposto prendendola un po’ alla lontana. Aveva detto che «il partito già alcuni anni fa aveva la percezione della necessità di trasformazioni e rinnovamento. La consapevolezza di questa necessità aveva perfino trovato espressione nei documenti e nelle risoluzioni del Pcus, ivi inclusi i suoi congressi. Ma il guaio era che molte, importantissime conclusioni e decisioni politiche, legate allo sviluppo del socialismo, alla fin fine rimanevano solo buone intenzioni. Esse non venivano corroborate da azioni concrete, dall’attività pratica del partito. I problemi irrisolti continuavano ad accumularsi, la società ne sentiva il peso su di sé e tutto ciò finiva col ripercuotersi sullo stesso partito. E invece i problemi vanno risolti e i mali vanno curati. Se il male viene ricacciato dentro non può che aggravarsi. E non è un caso se, per caratterizzare la situazione
Stringendomi la mano e guardando la barba, mi chiese se per caso fossi un rivoluzionario sì il maggiore protagonista della trasformazione di un blocco politico-ideologico in un vero e proprio impero, di cui venivano lentamente allargati i confini. Anche nell’aspetto fisico era il ritratto del grande burocrate: vestiva senza eleganza, ostentava le decorazioni ma in pubblico non aveva mai pronunciato una sola parola che non fosse inclusa nel dizionario del gergo comunista, non si ricordava una sua battuta nè una frase originale o significativa. Lentamente aveva anche fatto costruire attorno a sé un piccolo culto della persona a cui, però, non corrispondevano nè popolarità nè simpatie, ma solo un potere personale e del suo gruppo. Alla fine della sua esistenza aveva incarnato la decadenza del regime: era pieno di acciacchi, una malattia o più malattie gli impedivano quasi di muoversi e gli rendevano difficile perfino parlare.
Un uomo simpatico. Ma con Gorbaciov quella mattina, seduti ad un lungo tavolo, non si pensava affatto al passato. Il bello di quella stagione era l’idea che, nel mondo, si cominciasse ad afferrare il presente per cambiarlo. Ed uno dei «grandi rinnovatori» era proprio lui, l’uomo con la mega fragola sulla fronte che -per qualche misteriosa ragione- era sfuggito al criterio di selezione alla rovescia, grazie al quale per un ventennio a Mosca era stato tutto congelato. Così, tenendo fra le mani trenta cartelle dattiloscritte, Gorbaciov aveva lasciato cadere in surplesse la notizia che su qualche argomento non aveva risposto. «Ho ricevuto le vostre domande scritte per l’intervista e ho lavorato a lungo sulle risposte. A proposito, di domande ne avete fatte un bel po’. Ho risposto praticamente a tutte. Però ho lasciato qualcosa per la prossima intervista». Era scoppiato a ridere e aveva aggiunto: «Debbo dire che mi
venutasi a creare nel nostro paese a cavallo degli anni Settanta-Ottanta, utilizziamo addirittura il termine “fenomeni pre-crisi”».In questa risposta c’era una stranezza perché veniva rivendicata la continuità di una politica e, nello stesso tempo, veniva sottolineato il suo effetto di rottura con il passato, un passato descritto oltretutto con parole dure. Ma questa stranezza si dissolveva quando ti ricordavi
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che la liturgia del «comunismo reale» fino a quel momento non aveva contemplato l’ammissione della fallibilità del sistema. Era quello un periodo in cui Gorbaciov si mostrava in pubblico dando di sè l’immagine di padroneggiare davvero il cambiamento. Così un’altra domanda, fattagli da Giulietto Chiesa, riguardava i suoi tanti viaggi attraverso l’Unione Sovietica: «Che impressioni trae da questi viaggi? La perestrojka suscita problemi?». Il segretario del Pcus aveva risposto dicendo che «l’appoggio dei lavoratori alla politica del partito, alla sua linea di rinnovamento è oggi la cosa più importante. Se esso venisse a mancare, la nostra politica non varrebbe nulla. In due anni noi abbiamo visto, e ce ne siamo convinti, che la nostra scelta per il rinnovamento, per la perestrojka è giusta. Ma ci sono anche problemi, tattiche, questioni che si sciolgono solo con il tempo. Noi non sappiamo tutto, ma sappiamo l’essenziale. Che si tratta di un processo. E questo processo è necessario riesaminarlo continuamente sia nel partito che nella società. Dappertutto ci sentiamo dire dai lavoratori: noi siamo per la perestrojka, ci crediamo e vi chiediamo di non fermarvi. Come vedete, c’è una certa preoccupazione: quella di non fermarsi. E’ evidente che per questa preoccupazione ci sono delle ragioni. Difatti anche nel passato ci furono dei tentativi, ma non furono portati a termine. La gente ce lo ricorda». Anche in questa risposta c’era una stranezza: già allora Gorbaciov era in realtà più popolare all’estero che in patria. Anzi, ascoltando i racconti sulla vita quotidiana che si svolgeva a Mosca, si capiva che c’era un’atmosfera di inquietudine, che dominava un senso di incertezza: il grande impero si era rimesso in movimento, traballando e scricchiolando, ma nessuno era in grado di dire come sarebbe andata a finire. Era soprattutto la sorprendente personalità del nuovo leader sovietico a richiamare l’attenzione di tutti. Anche quella mattina, ascoltando le sue parole, eravamo attratti dalle sfumature e dal suo stile, cercavamo di capire se e quanto la sua logica fosse diversa da quella dei suoi predecessori. Il suo comportamento, anche fra quattro mura, sembrava quello che aveva mostrato nelle sue apparizioni pubbliche, all’insegna della prontezza e dell’immediatezza. C’era stato un solo momento di imbarazzo. Era successo quando era toccato a me porgli la terza delle domande chiave, che riguardava la sua vita privata, le sue letture, il suo tempo libero, i suoi rapporti con la moglie Raissa, che in Occidente facevano parte della sua immagine pubblica. Prima di Gorbaciov aveva risposto l’uomo che era se-
duto accanto a lui, ufficialmente il suo segretario, in realtà la sua ombra. Cernjajev - si chiamava così - mi aveva interrotto: «Come vuole che abbia una vita privata che lavora sedici ore al giorno, a volte diciotto e anche la domenica?». Ma il numero uno del Cremlino non sembrava aver bisogno di questo intervento protettivo. Aveva premesso che lì non si usava parlare pubblicamente del privato, ma evitando soltanto di citare Raissa, aveva dato una risposta, raccontando in prima persona i suoi interessi culturali ed era la prima volta che lo faceva un uomo che era al vertice del potere sovietici. Era stato un altro segnale di prontezza di riflessi, con poche frasi aveva tolto un altro pezzo di ingessatura attorno al segretario generale. La conversazione era durata più del previsto e alla fine c’era stato solo il tempo per una stretta di mano, nella stanza accanto aspettava il leader vietnamita Nguyen Van Linh per un incontro ufficiale. Eravamo usciti dal Cremlino, soddisfatti e molto colpiti dal colloquio, ma senza aver ancora letto il testo delle risposte scritte. Quelle che ci premevano di più riguardavano le domande sulla democrazia e sulla Cecoslovacchia. Nella prima c’era in realtà il problema centrale della perestrojka. Fino a dove si spingerà? Quali sono le idee? Avevamo ricordato l’affermazione di Enrico Berlinguer sulla democrazia come «valore universale». Nella seconda c’era invece un simbolo con un forte legame con l’attualità: il «nuovo corso» del 1968 si fondava su ipotesi di democratizzazione e di apertura del sistema che negli ultimi mesi molti avevano posto in parallelo con la perestrojka. Nel testo scritto, l’argomento democrazia era sparso in molti passaggi: «Senza democrazia non c’è iniziativa, non c’è giustizia sociale...», cioè l’esatto contrario di quanto avevamo sentito per anni. «La democratizzazione non può nuocere al socialismo...», un concetto nuovo rivolto alla discussione aperta in Urss. «La democrazia è
to natura, sostanza e forma. Da qualche anno, i comunisti italiani amavano ripetere di essere “una forza della sinistra europea” e, soprattutto quando andavano a Mosca, lo ripetevano con una certa insistenza. Dall’altro lato del tavolo, anche la leadership sovietica con il passar del tempo affinava il suo linguaggio, si liberava delle liturgie, sembrava affrettare il passo in una corsa contro il tempo, che in realtà era già persa nonostante che pochi se ne rendessero conto fino in fondo. Così, chiuse le porte e allontanati i giornalisti e i fotografi, Gorbaciov aveva cominciato a parlare e non si fermava più. Usciva da giorni difficili. In periferia, nel Caucaso i pogrom - già la parola faceva tremare - erano i primi sanguinosi segnali della disgregazione dell’impero e lì a Mosca si era appena consumata la rottura con Boris Eltsin, brutto presagio di uno scollamento politico nella squadra della perestrojka. Aveva voglia che si sapesse fin nei minimi particolari quello che era successo, forse aveva dei dubbi e quindi bisogno di un incoraggiamento o di qualche riscontro o più semplicemente gli piaceva raccontare. Aveva cominciato dicendo che la parola «riforme» non era forse la più adeguata perché ormai era in corso un rivoluzionamento vero e proprio. Un esempio? All’ordine del giorno c’erano ormai la distinzione tra lo Stato e il partito (cioè, in altre parole, allora non usate, la fine del totalitarismo) e il ruolo del partito unico o meglio come il partito unico avrebbe potuto aprire una fase di dialettica. Un altro esempio? La costruzione dello stato di diritto nelle strutture economiche e sociali del paese. Che era poi un modo diretto per dire che il passato andava rimosso e che bisognava fare in fretta. Alessandro Natta - allora segretario del Pci era uscito da quel lungo incontro molto colpito dall’aver avvertito che la riflessione storico-politica dei suoi interlocutori non riguardava solo il periodo del “ristagno brezneviano”, ma di tutto il corso della loro storia,“un’eredità di cui bisogna liberarsi”. Aveva sentito qualche battuta particolarmente polemica, come questa:“A chi ci chiede se così non si rovini il socialismo, rispondo che sì, così si rovina un socialismo fatto di dogmi e di schemi”. Ma, raccontando quelle sei ore di incontro, aveva insistito su un particolare: «Gorbaciov ci ha detto: nel 1985 non avevamo la dimensione dei problemi da affrontare, non conoscevamo bene neanche la nostra società. E’ una cosa enorme... E ci ha detto che via via si sono resi conto che occorreva una nuova fase in un quadro politico, sociale e nazionale bloccato da decenni». Non era più neppure un tabù il regime del partito unico, fino ad allora teorizzato come un fattore di superiorità politica. Insomma, tutto era sempre più in discussione anche se alla fine spuntavano i“se”e i“ma”, soprattutto quando l’argomento cadeva sulla storia passata. Così bisognava riprendere lo sforzo seguito al 20mo congresso del Pcus - quello della denuncia dei crimini staliniani - per capire perché erano stati possibili grandi delitti contro il popolo, ma anche grandi successi del popolo. Così bisognava ritrovare una coscienza critica, ma non cancellare il passato. Insomma non si doveva tracciare un segno sull’Ottobre solo perché poi c’era stato Stalin. L’idea e la speranza erano sempre quelle di tenere insieme la tradizione, o anche solo una sua parte, con il rinnovamento, e di considerare il “socialismo reale” come la deviazione da un giusto progetto o, meglio, come la degenerazione di un’impresa sana. Non so perché, forse perché Gorbaciov si mostrava sempre così sicuro di sè, forse perché in quel tentativo c’era l’ultima giustificazione del ramo italiano della famiglia formatasi nel 1917, ma partimmo da Mosca ancora abbastanza fiduciosi nelle possibilità che il cambiamento riuscisse. Eppure l’Unione Sovietica viveva già nel pomeriggio della perestrojka, le aperture non erano sufficienti a rinvigorire i pezzi di un sistema ormai fatiscente, la glasnost, cioè la trasparenza, cominciava a mostrare con crudezza quale fosse la condizione materiale ed umana dell’impero. Forse era solo già tardi, forse era davvero impossibile ogni riforma. Di sicuro l’ultimo leader sovietico non era riuscito nè a spiegare nè a realizzare il “suo”comunismo.
Per il segretario del Pcus il “socialismo reale” era solo la degenerazione di un’impresa sana un valore in se...», un giudizio che sembrava la traduzione in russo di quello di Berlinguer. Nella risposta alla domanda sul 1968 di Praga, invece, veniva evitata la sostanza del problema. Poche righe, forse dettate da ragioni diplomatiche, ma il cui senso era chiaro: è un affare interno cecoslovacco. Poche righe, per sfuggire al discorso su un nodo storico, politico, ideale, e anche morale che era ancora lì, tutto aggrovigliato. Poche righe, che suonavano come un esorcismo.
Il pomeriggio della perestrojka. L’appuntamento non era al Cremlino, ma nell’altro ufficio di Mikhail Gorbaciov, nel palazzo nè antico nè moderno del centro di Mosca, sul cui portone una targa, neanche troppo vistosa, indicava la sede centrale del Partito comunista. Ovvero quella che poteva essere considerata la vera “stanza dei bottoni”, protetta dai servizi di sicurezza e schermata al punto da far saltare, fra la sorpesa di tutti, i flashes dei fotografi. L’occasione era un incontro tra il segretario del Pcus e il segretario del Pci di quelli che una volta venivano chiamati tra “partiti fratelli” e che, con la grande tempesta degli anni 80, avevano cambia-
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speciale approfondimenti
Carte
Breve ritratto del protagonista più noto della rivolta di Praga
E ALEKSANDER IL 19 DICEMBRE DEL 1987. Ci eravamo visti a Piazza Venceslao, nel centro di Praga, all’uscita della stazione della metropolitana. Dalle foto e dalle immagini televisive di vent’anni prima mi aspettavo di incontrare un uomo dall’aspetto schivo. Invece mi era venuto incontro una persona dall’aria decisa. Aveva da poco compiuto sessantasei anni ed era ovviamente invecchiato rispetto al 1968, il tempo in cui la sua persona ci era diventata famigliare. Un berretto di pelliccia non copriva del tutto i capelli diventati ormai grigi, indossava un cappotto pesante, non portava nè la giacca nè la cravatta, ma un maglione chiaro a girocollo. Rivedevo gli stessi occhi pungenti che mi erano rimasti impressi nella memoria, mentre il suo timido sorriso di una volta a tu per tu sembrava diretto, schietto. Alexander Dubcek era riapparso così, come se rispuntasse fuori dal passato. La città era coperta da una cappa di nubi e smog e - di sabato mattina, per di più abbastanza presto - dava un’idea di lentezza, In giro non c’era molta gente ma, mentre camminavamo, succedeva che qualcuno lo notasse, lo fissasse e poi rallentasse il passo. Mi sembrava di leggere stupore negli occhi dei passanti con cui incrociavamo lo sguardo: vedevano all’improvviso materializzarsi un volto famigliare, il volto di un uomo che non era stato un leader carismatico, forse solo perché non aveva
strojka di Gorbaciov, un po’ perché - lo aveva ammesso apertamente una voce legata al governo - serpeggiava «una certa dose di impazienza nella società», un po’perché alla fine il peso del passato stava diventando davvero insopportabile, anche se si faceva finta di negarlo. E, come sempre accadeva in casi di questo genere, si tenevano scommesse sul possibile successore di Gustav Husak, l’uomo che nel corso della sua lunga militanza politica era stato prima vittima della repressione staliniana, poi era stato riabilitato ed era divenuto uno dei nomi più importanti del «nuovo corso» del 1968 e che infine - forse per opportunismo, forse solo per la paura di rivivere le persecuzioni di cui aveva già sofferto - si era ridotto a svolgere per conto dei sovietici il compito di «normalizzatore» («normalizzazione» era stata infatti chiamata quella vasta operazione con la quale la «primavera» venne cancellata dalla vita dei cecoslovacchi e centinaia di migliaia di dirigenti politici e intellettuali vennero messi ai margini della società). La scommessa era stata vinta da chi aveva puntato su Milos Jakes. Attorno all’elezione di Jakes si erano verificati due episodi che in qualche modo avevano attirato l’attenzione di una popolazione distratta dal clima natalizio che avvolgeva la città, ma desiderosa di cogliere ogni possibile segnale di apertura: nei dispacci dell’agenzia ufficiale di informazioni, la Ctk, dedicati alla seduta del Comitato centrale era contenuto un passaggio del discorso di insediamento del nuovo segretario in cui si assicurava la garanzia delle libertà e dei diritti civili; ma all’indomani sui giornali non c’era traccia di questo passaggio. L’omissione era stata piccola, ma significativa. Così Vaclav Slavik, un altro firmatario di Charta 77, aveva detto che quello «è il primo cambiamento dopo tanto tempo», che «la gente ne sente il bisogno, come sente il bisogno di cambiamenti ulteriori«, ma che «per ora occorre aspettare i fatti».
Il suo nome era sparito dai giornali e dalla televisione cecoslovacca già nell’aprile del 1969 avuto il tempo di diventarlo, ma che era diventato molto popolare grazie al fatto di aver saputo esprimere con chiarezza e semplicità le aspirazioni della gente normale. E che - se è possibile parlare così di una persona - era stato letteralmente cancellato dalla storia d’Europa. Il suo nome e le sue sembianze erano sparite dai giornali e dalla Tv cecoslovacca nell’aprile del 1969 quando era stato rimosso, su pressante richiesta dei sovietici, dalla carica di segretario del Partito comunista; era stato poi fotografato qualche volta ad Ankara, quando era stato spedito in Turchia come ambasciatore, magari con la speranza che fuggisse all’estero, che chiedesse asilo politico in Occidente; forse qualche trafiletto ufficiale - poche righe - era ancora apparso nel giugno del 1970, quando per dimostrare che della «primavera» non doveva restare alcuna traccia era stato richiamato in patria e gli era stata comunicata l’espulsione dal Pcc, una decisione che equivaleva ad un vero e proprio esilio interno. Dopo di allora c’era stato solo silenzio, un lungo silenzio, rotto da qualche rara lettera che aveva inviato all’estero. Nessuno lo aveva avvicinato, nessuno gli aveva parlato, nessuno lo aveva fotografato. Così sembrava quasi l’inizio di una rivincita il fatto che qualcuno - dopo averlo guardato bene in faccia - si fosse fermato, avesse sorriso, avesse lanciato qualche cenno di saluto a distanza, un gesto del capo, un sorriso o, come si usava una volta, il cappello alzato e riabbassato. Due giorni prima (e questo era un altro segno dell’inizio della rivincita) c’era stato un cambio della guardia al vertice del potere. Dell’avvicendamento si parlava da tempo, un po’ per lo stimolo esterno che veniva dalla pere-
Slavik camminava claudicando. Nel ‘68 era nella segretaria del Pc e con la «normalizzazione» era stato mandato a lavorare come manovale in un cantiere della metropolitana. Un incidente gli aveva pregiudicato l’uso di una gamba ma di quel periodo parlava quasi con rimpianto: «A differenza di altri amici che hanno passato lunghi anni di isolamento, io potevo parlare con i miei compagni di lavoro, discutevo a lungo con loro, insomma ero rimasto parte di questa società». Quella mattina, era stato proprio Slavik a telefonare: «Ci vediamo fra mezz’ora alla stazione della metropolitana di piazza Venceslao. Stiamo arrivando». Non aveva pronunciato il nome di Dubcek.Voleva evitare che anche solo una piccola imprudenza contribuisse a far saltare un appuntamento per il quale si lavorava da mesi. Sapeva che i telefoni potevano essere controllati, sapeva di essere sorvegliato e qualche giorno prima, camminando per strada, si era accorto di essere seguito e, aspettando il verde di un semaforo, si era girato all’improvviso e aveva gridato qualcosa in faccia all’agente in borghese, che non era riuscito a reagire, bloccato dalla sorpresa e dall’imbarazzo, mentre gli altri passanti si erano fermati a guardare e ad ascoltare. Dopo vent’anni di silenzio. La stretta di mano fu energica. E mentre guardavo gli occhi di quell’uomo, che era stato allontanato dal mondo quando aveva i capelli neri
e vi rientrava con i capelli grigi, mi erano venuti in mente gli altri volti della «primavera», a cominciare da quello di Josef Smrkovsky, il presidente del Parlamento, che fu l’altro grande protagonista di quei mesi e che poi, anch’egli messo a tacere, era stato ucciso da un cancro che gli aveva però lasciato il tempo di dettare una testimonianza minuta e avvincente sul «nuovo corso» visto dal suo interno e sui giorni dell’intervento sovietico. Mi erano venute in mente anche alcune immagini. Me ne era rimasta impressa soprattutto una, un po’triste: ricordavo Dubcek che camminava in una strada di Praga, alla fine di agosto, al ritorno da Mosca dove aveva accettato un diktat con l’illusione di poterlo poi svuotare di significato o aggirare; camminava e parlava con i passanti, sembrava che i passanti vedessero in lui il superstite di una tragedia e che egli, a sua volta, vedesse in loro l’unico sostegno che gli era rimasto. Poi c’era l’altra immagine, drammatica, quella dei funerali di Jan Palach, lo studente di filosofia dell’università Carlo che si era bruciato, nel gennaio del ‘69, per protestare contro l’occupazione sovietica che stava vincendo, nel silenzio del mondo. Quel suicidio -seguito da altri gesti analoghi che non ebbero però altrettanta risonanza- fu il segnale più amaro della sconfitta. Nonostante che fossero passati quasi vent’anni, era proprio difficile non sentire il peso del debito contratto con «la primavera». Dopo tanto silenzio, Dubcek aveva riempito una cinquantina di pagine per rispondere alle domande che gli erano state mandate. Le avevo scritte dopo aver sentito quel giudizio di Gorbaciov, che mi era sembrato nel migliore dei casi un esorcismo e, nel peggiore, un eccesso di prudenza. Era stato un lavoro di qualche mese, le parole erano state scelte con grande cura e i toni molto soppesati. Quella mattina, camminando per Piazza Venceslao, c’era poco da aggiungere o da correggere, dell’elezione di Jakes non aveva voluto parlare, ma voleva mostrarsi al tempo stesso ottimista e cauto. Cauto perché, forse proprio come contrappeso alla perestrojka sovietica, nelle sedi ufficiali cecoslovacche veniva ripetuta fino alla noia la tesi che «non era da modificare il giudizio sul 1968« (cioè la condanna del «nuovo corso»); ancora qualche giorno prima lo aveva fatto Vasil Bilak, uno dei suoi grandi nemici. Dubcek non voleva
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correre il rischio di provocare uno scontro e, magari, di ricevere una smentita proprio da Mosca. E ottimista perché sapeva che, anche se non avrebbe ricevuto alcuna risposta pubblica, prima o poi la politica di Gorbaciov avrebbe provocato dei cambiamenti, benché non immaginasse nè il quando nè il come. Forse sperava, come del resto tanti altri, che quei cambiamenti sarebbero stati la sua rivincita, sarebbe stato il grande risarcimento ottenuto dal «comunismo riformatore». E così alla domanda su cosa pensasse della perestrojka aveva risposto con queste parole: «Vi trovo una profonda connessione con quanto si presentò a noi vent’anni fa. Penso che si sia perso tempo, penso a ciò che si sarebbe potuto realizzare in questi anni con il «nuovo corso», ai vantaggi che ci sarebbero stati per il nostro paese, per il socialismo». Seconda domanda: era possibile fare un raffronto? E seconda risposta: «Un raffronto meccanico non si può fare. Ma il tempo ha detto che qua e là ci sono somiglianze tra le fonti ispiratrici fondamentali. Non identità, ma una notevole somiglianza ne unisce le idee e i concetti originali». Non si trattava di nostalgia e, a pensarci bene, sarebbe stata giustificata se ce ne fosse stata. Il continuo richiamo al ‘68 e il parallelo ripetuto fra il «nuovo corso» e la perestrojka davano visibilità ad un’impressione che stava lentamente prendendo forma. L’impressione che la pesante sconfitta subita potesse diventare, con il passar del tempo, una vittoria e che lo diventasse anche grazie
«no, non ho nulla di sostanziale da rimproverarmi. in piena coscienza, ricordando il ‘68, posso affermare che la nostra politica vinse nel popolo cecoslovacco». Quello con Dubcek era stato un lungo dialogo, che aveva occupato ben quattro pagine di giornale. Le risposte, ma anche le domande, avevano seguito un unico filo, quello di raccontare «la primavera» come un’occasione persa, di descrivere il lungo periodo trascorso da allora come una fase di pericoloso ristagno, di arretramento, di involuzione e di affidare il testimone che era ancora rimasto nelle mani dei protagonisti del «nuovo corso» alla perestrojka di Gorbaciov. Insomma, era l’idea che fosse possibile un comunismo diverso, un comunismo non stalinista, quello che si chiamava «comunismo riformatore», per il quale le virgolette erano necessarie perché si trattava di un’astrazione. Che questa fosse un’idea sbagliata lo si capì appieno solo dopo. Allora il ritorno di Alexander Dubcek scosse l’Europa, provocò un’emozione, dette l’idea che la storia alla fine era capace di riconoscere torti e ragioni. Sembrava ancora che dal socialismo - così come era stato nella realtà - potesse venire qualcosa di nuovo, sembrava che l’arrivo di Gorbaciov potesse chiudere un pezzo della sua storia e di salvarne un altro.
Il 18 aprile del 1990. La grande vetrata, all’ultimo piano del nuovo edificio del Parlamento non lontano da Piazza Venceslao, offriva un bel panorama del centro della città e il Castello, dove sedeva Vaclav Havel, sembrava quasi a portata di mano. Il protagonista della“rivoluzione di velluto” e il protagonista della Primavera di Praga occupavano da meno di quattro mesi le due più alte cariche istituzionali nella Cecoslovacchia che si era liberata del comunismo, durante il quale si erano trovati, ciascuno, in un particolare “esilio”. Il primo, dal 1970 in poi, era stato l’animatore e il simbolo del dissenso, più volte incarcerato e più volte rilasciato; la vita dell’altro -così l’aveva raccontata, rispondendo ad une delle domande che gli avevo posto due anni prima- era stata «come quella di un carcerato a passeggio controllato in un’area limitata. Sì, leggere ho potuto, certo, ma non tutto ad alta voce». Poi era tutto cambiato nel giro di poche settimane, quando Piazza Venceslao - come era già successo nel ‘68, come era accaduto ancora dopo il suicido di Jan Palach - era tornata a riempirsi per diventare l’amplificatore di una
Il suo ritorno dette l’idea che la storia alla fine era capace di riconoscere torti e ragioni al fatto che aveva cambiato idea proprio chi aveva deciso di usare i carri armati per liquidare l’eresia. «Oggi aveva poi detto Dubcek rispondendo alla domanda se sarebbe stato possibile evitare l’intervento del 21 agostosappiamo che non lo sarebbe stato, che non era nel potere di noi cecoslovacchi... In tutta franchezza, per render più chiara la mia risposta, posso dire che se il Pcus avesse avuto allora la direzione che ha oggi, l’intervento sarebbe stato impensabile». Poi, quando gli avevo chiesto se avesse qualcosa di cui rimproverarsi, aveva detto che
voce e di una volontà collettive. E per ricominciare, per riempire il vuoto lasciato dal crollo dei regimi comunisti, c’era stato bisogno dell’uno e dell’altro. Proprio il vuoto - come riempirlo? chi ci sarebbe riuscito? in quanto tempo? - era stato l’argomento di un’altra conversazione con Dubcek. Questa volta il mio interlocutore non era più il sopravvissuto di un’altra epoca, il“comunista riformatore” rimasto prigioniero del comunismo reale. Era il presidente di un Parlamento uscito dalla rivoluzione del 1989, alle prese non più con l’utopia dell’utopia (cioè democratizzare il socialismo), ma con la riscoperta della politica e con la ricerca delle soluzioni, queste sì molto concrete, per un passaggio fino ad allora inedito, da un sistema rigidamente statalista e centralizzato al mercato. Il tutto in un duello, corretto ma faticoso, con la nuova destra appena nata e già molto forte. Così, dopo una giornata di incontri e riunioni, per poter parlare un’oretta con calma aveva dovuto chiudere la porta del suo ufficio e staccare il telefono. Poi aveva cominciato a rispondere alle domande e, ascoltandolo, mi era sembrato che fossero passati ben più di due anni e pochi mesi dal nostro primo incontro. «Non c’è alcun dubbio - aveva subito detto che la sinistra stia attraversando una fase di crisi.Vorrei dire subito che la crisi è dei partiti comunisti e del comunismo prima ancora che della sinistra. Il mondo è andato per una strada che non è certo quella prevista dai classici del marxismo-leninismo. Ma mentre il capitalismo si è riformato, è cambiato in meglio, il movimento «socialista» (debbo usare le virgolette) è gradualmente degenerato qui nell’Europa orientale, dove si sono affermati regimi militaristici, non democratici, cioè il sistema politico dello stalinismo e del neostalinismo brezneviano. Quello che ci veniva presentato non era certo socialismo e tanto meno comunismo. Anzi, si è rimasti tanto lontani da quelli che erano i suoi orizzonti che oggi non ha più davvero senso discuterne. Direi che il problema non sia neanche quello del nome...». Ed era stato ancora più esplicito quando gli avevo chiesto se davvero nell’“indimenticabile 1989” avesse vinto il capitalismo. «Parli di vittoria del capitalismo, ma io mi chiedo: vittoria di quale capitalismo? Quello delle origini, quello che abbiamo conosciuto anche qui in Cecoslovacchia tra le due guerre, non ha certo retto alla storia. No, non c’è più quel capitalismo. I sistemi democratici di questa epoca ci dicono quanto sia stata profonda la sua riforma. E’ nato, anzi sono nati anche grazie alla democrazia e alla pressione della sinistra - nuovi sistemi politici. E’successo quello che i classici del marxismo non avevano previsto». Lo sentivo parlare e mi accorgevo che non restava traccia neanche del “suo”comunismo, che non c’era uno sbocco neanche di quel pezzo di storia, così strano, i cui protagonisti erano stati tutti doppiamente sconfitti, sia dal comunismo che dall’anticomunismo. E che in fondo Alexander Dubcek era lì, nel suo ufficio all’ultimo piano dell’Assemblea nazionale, a rappresentare una stagione che aveva segnato il mondo perché probabilmente aveva rappresentato il più importante tentativo di cambiare il“socialismo reale”, ma soprattutto perché tutti la ricordavano come un simbolo universale, che poteva appartenere a tutti: di libertà rivendicata e di ingiustizia subita. E mi accorgevo anche che aveva perso ogni senso pensare a quei personaggi - da Nicolaj Bucharin a Imre Nagy - che per tanto tempo avevamo visto come un’alternativa allo stalinismo, come un altro ramo della famiglia che, se avesse prevalso, avrebbe cambiato tutto. Il crollo aveva coinvolto anche loro.Tutto, proprio tutto era stato spazzato via. Così a un certo punto, un po’ per prendere una boccata d’aria e un po’ per ricordare la passeggiata dell’inverno di due anni prima, scendemmo a camminare sui marciapiedi di Piazza Venceslao, fra la gente che lo fermava per porgli una domanda, per discutere con lui o anche semplicemente per salutarlo.
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economia Per Joseph Lieberman, che presiede la commissione di sicurezza del Senato americano, l’aumento senza limiti dei prezzi fa nascere la preoccupazione che la domanda speculativa, separata dal mercato, stia conducendo all’inflazione sui prodotti alimentari e sull’energia
Un’ondata speculativa sui mercati americani sta alzando i prezzi di tutti i beni primari. Il governo Usa resta a guardare
Mangiare costerà più dell’oro di Pierre Chiartano l summit G8 di Osaka si è lanciato l’allarme sulla crescita senza controllo dei prezzi, «ma non si è andati oltre le sollecitazioni verso il governo americano, che ha semplicemente studiato il caso», afferma l’economista Paolo Leon a Liberal. I prezzi delle materie prime si fanno sul mercato dei future, i prodotti derivati che si contrattano principalmente alla borsa di Chicago e al Nimex di New York. Petrolio, oro, semi oleosi, grano e altro ancora vengono prenotati con contratti a scadenza. O sono le aziende di trasformazione, cui serve il prodotto “reale”, oppure sono, in gran parte, gli speculatori ad investire sui future. Leon si domanda come mai solo nel mercato mobiliare ci siano le sospensioni dei titoli azionari per eccesso di rialzo e ribasso. «Solo la Security exchange commission (Sec) potrebbe, con una forzatura, intervenire. Mancano però le leggi. La Commodity future trade commission (è la Consob delle merci Usa, ndr) non ha poteri», continua Leon.
A
zione che la domanda speculativa, separata dal mercato, stia conducendo all’inflazione dei prezzi su prodotti alimentari e sull’energia», è l’opinione di Joseph Lieberman che presiede la commissione del Senato. «Pochi dubbi che il recente aumento dei prezzi delle merci vada in parallelo con l’interesse degli investitori», sostiene l’economista, Benn Steil del Council on foreign relations. «Non ho sottomano uno studio, ma possiamo valutare che l’intervento dei fondi speculativi possa aver inciso per circa il 50 per cento sugli aumenti del greggio dell’ultimo periodo», chiosa Leon.
Il segretario al Tesoro americano, Henry Paulson ha un’idea diversa: «non penso che gli investitori finanziari siano responsabili, in alcun modo, del movimento dei prezzi del petrolio», affermava qualche giorno fa alla Cnn. In
mi 400 anni». E proprio la debolezza del dollaro avrebbe scatenato la ricerca di fonti più redditizie per il capitale, che avrebbe cominciato a fluire verso le cosiddette commodity. Le merci, e fra queste l’oro giallo e quello nero fanno la parte da protagonista, oltre i prodotti agricoli e alcune materie prime. Qui entrano in scena i derivati. Nel 2007 la finanza sintetica sulle merci è cresciuta del 26,5 per cento in corrispondenza dei picchi raggiunti dall’oro e dal greggio (fonte Bloomberg). Il capo economista della Cftc, Jeffrey Harris è convinto che siano molti i fattori a concorrere, far cui la forte domanda delle economie emergenti, le tensioni geopolitiche, la riduzione delle riserve, i problemi climatici e l’aumento della produzione di etanolo.
E John Felton direttore della Sorveglianza sul mercato delle merci sottolinea la necessità di una regolamentazione del settore. Jp Morgan Chase & Co entreranno per fine anno nel mercato del greggio e dei prodotti di raffinazione. La terza banca americana ha raggiunto un gruppo che già opera nel settore, dove ci sono Goldman Sachs e Barclays capital. Che la presenza di questi giganti della finanza derivata non possa influire sui prezzi è difficile da credere. Intanto il Ctfc vuole più informazioni sulle transazioni e per farlo può mettere sotto controllo i telefoni dei broker. La sola idea che possa esserci una stretta sulla vigilanza potrebbe far scappare gli investimenti. E qualche segnale lo si è già avuto nei giorni scorsi. Una fuga toglierebbe li-
Tra le cause di questa crisi ci sarebbe la debolezza del dollaro che ha scatenato la ricerca di fonti più redditizie per il capitale. Fra queste, oltre al petrolio, i prodotti agricoli e alcune materie prime sono diventate merce preziosa
Nel caso del caroprezzi di molti prodotti di largo consumo ad essere colpiti sono vaste aree indifese di popolazione, perché non s’interviene con regole e controlli? Ha incominciato a chiederselo anche il Senato americano da qualche anno. Ma negli Usa chi decide è il governo. A la commissione fine maggio, dell’Homeland security and Governamental affairs ha chiamato a testimoniare alcuni esperti. «Questa crescita senza limiti fa nascere la preoccupa-
precedenza, durante un viaggio nei Paesi del Golfo, era stato ancora più chiaro. «C’è uno sbilanciamento fra domanda e offerta petrolifera e servono più investimenti per aumentare la produzione». Almeno questa è la versione ufficiale. Il mercato racconta però un’altra storia. Secondo Leon «se le riserve di petrolio vanno esaurendosi, quelle di gas sono dieci volte superiori. Potrebbero soddisfare la domanda mondiale per i prossi-
quidità al mercato, rendendolo soggetto alle speculazioni di pochi, afferma chi non vorrebbe nuovi controlli. In più c’è l’incognita del mercato nero del greggio, che ha un ruolo determinante nella sua quotazione. Ma Paulson è convinto e cerca di spiegare perché: «la speculazione finanziaria non ha toccato alcune materie prime, il cui prezzo è comunque cresciuto». Le difficoltà del segretario al Tesoro riflettono i grandi cambiamenti nell’economia globale. È sempre più difficile, anche per il gigante statunitense, controllare la propria economia. Soggetta a nuove dinamiche e pressioni esterne che con i vecchi strumenti di politica economica si fa fatica a governare. Tenendo conto che Washington si muove strategicamente sulla scena mondiale, è comprensibile che Paulson promuova un’azione diplomatica che non spaventi i potenziali partner internazionali pur promuovendo alcune riforme.
Ma qui entriamo in un terreno scivoloso, soprattutto per la cultura fortemente liberale che caratterizza gli Usa e che ne ha contraddistinto la politica, anche ai tempi del new deal roosveltiano. E che la metterà in rotta di collisione con l’ingessata Europa, che già vorrebbe mettere le briglie al mercato dei future. Parliamo di una massa di denaro formata da 596 mila miliardi di dollari (stima Bank of international settlements) che nel 2007 è cresciuta del 40 per cento. Il 35 per cento sono i derivati sui tassi di sconto, il resto, quasi il 60 per cento, serve a garantire i debiti corporate, cds, equity e un’altra serie d’invenzioni finanziarie. Cosa possano fare, in queste condizioni, le istituzioni centrali di controllo in Europa come negli Usa, sarà interessante scoprirlo.
economia
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L’Italia è entrata nel mirino dell’Unione per la sospensione della pesca. Dura l’opposizione di Zaia
L’Ue scatena la guerra del tonno rosso di Giuseppe Latour
d i a r i o on bastavano il caro gasolio e il braccio di ferro sugli aiuti di Stato. L’agitazione del mondo della pesca sembra destinato a diventare perenne. Se la crisi del business delle imbarcazioni, grazie agli scioperi, veri e minacciati, è entrata nell’agenda del governo, che ha messo in finanziaria alcuni sconti fiscali sui carburanti, la guerra del tonno rosso ha riaperto la ferita, portando la conflittualità tra Ue, ministero dell’Agricoltura e mondo della pesca ancora una volta ben oltre il livello di guardia.
N
ne è «gravissima». E, a questo punto, lo scontro arriverà direttamente sui tavoli del prossimo consiglio dei ministri della Pesca, in programma per il 23 giugno. Dal commissario europeo alla Pesca, Joe Borg, Zaia non si aspetta nulla: «La situazione è gravissima anche perché ha manifestato la sua indisponibilità a rivedere il blocco». Fino ad ora, infatti, da Bruxelles non è arrivato altro che silenzio e rifiuti a fare concessioni al mondo della pesca. Soprattutto italiano. Gli elementi per un muro contro muro,
delegazione di pescatori italiani e francesi, che raggiungerà Bruxelles dopo aver messo in atto una dura manifestazione di protesta sull’isola di Malta.
Al netto delle decisioni dei prossimi giorni, però, resteranno delle pesanti incognite sullo stato dell’industria della pesca. Per rispondere alle quali è già in preparazione un decreto che dovrà portare una ristrutturazione e una modernizzazione del comparto. L’idea guida del provvedimento sarà il ripensa-
d e l
g i o r n o
Alitalia, al Senato passa il prestito ponte Il decreto legge che prevede un prestito ponte da 300 milioni di euro a favore di Alitalia (varato dal governo Prodi), la sua trasformazione in patrimonio e le nuove regole per la privatizzazione della compagnia (varate dal successivo governo Berlusconi) è stato approvato definitivamente dall’assemblea del Senato. I senatori hanno approvato il provvedimento con 154 voti favorevoli, 119 contrari e 7 astenuti.
Brunetta, in estate tavolo sui contratti «Partirà prima dell’estate il tavolo per il rinnovo del contratto del pubblico impiego». Lo ha riferito il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, nella conferenza stampa sulla manovra finanziaria. Tornando agli effetti delle varie misure contenute nella finanziaria presentata mercoledì dal governo, il dicastero guidato da Brunetta, ha fatto notare che in riferimento alla spesa corrente, dove si annida la parte maggiore della «cattiva» spesa pubblica, è possibile ottenere nel triennio 20092011 miglioramenti quantificabili in un risparmio di circa un punto percentuale l’anno. Poiché l’importo della spesa corrente è attualmente pari a circa 680 miliardi di euro, un risparmio di 3 punti equivale a più di 20 miliardi di euro.
Istat, cresce la disoccupazione Torna a crescere, dopo una lunga fase di discesa, la disoccupazione in Italia. Lo rileva l’Istat, annunciando che nel primo trimestre il tasso di disoccupazione è tornato sopra al 7 per cento, al 7,1 per cento, contro il 6,4 per cento dello stesso periodo dello scorso anno. Si tratta del livello più elevato degli ultimi due anni. Anche l’occupazione, secondo i dati Istat, cresce: nel primo trimestre, su base annua, il numero di occupati è risultato pari a 23.170.000 unità, con un aumento su base annua dell’1,4 per cento ( 324mila unità).
L’importanza della partita è tutta in un numero: 40 milioni di euro. Tanto potrebbe costare all’Italia la decisione di Bruxelles di chiudere in anticipo, al 16 giugno anzichè al 30 giugno, la campagna di pesca del tonno rosso. A calcolare il danno economico è Federcoopesca-Confcooperative. E insieme all’Italia sono entrate nel mirino dell’Unione anche Francia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro. A loro viene contestato di aver già raggiunto le quantità di pescato consentite: una prosecuzione della stagione porterebbe pericoli per la fauna del Mediterraneo. I burocrati di Bruxelles sono certi del raggiungimento delle quote in particolare per l’Italia, dove 8 tonniere avrebbero superato le catture consentite dal 100 al 240%, utilizzando illegalmente 8 aerei da ricognizione.
Ma i conti dell’Unione europea non tornano per il ministro delle Politiche agricole, Luca Zaia: «I nostri pescatori hanno diritto a pescare - osserva - non hanno raggiunto la quota e alcuni pescherecci non sono neanche riusciti a scendere in mare». Il danno calcolato da Federcoopesca conferma che la situazio-
Enel: l’Ue dà il via libera su Viesgo
40 milioni di euro. Tanto potrebbe costare all’Italia la decisione di Bruxelles di chiudere in anticipo, al 16 giugno anziché al 30 giugno, la cattura del pesce quindi, sono già tutti serviti. Anche perché la decisione di Bruxelles potrebbe essere percepita come un accanimento nei confronti della categoria. Lo sottolinea il presidente di Lega Pesca, Ettore Ianì: «Siamo di fronte ad un settore al centro della crisi per il caro gasolio, che subisce limitazioni non sempre rispondenti ad obiettivi di tutela: il rischio è che a fronte di tali decisioni non motivate, gli operatori possano percepire, se non subire, la perdita dello stato di diritto». Dal prossimo Consiglio dei ministri, allora, le associazioni di categoria si aspettano qualcosa di diverso dal silenzio degli ultimi giorni. Anche perché prima dell’incontro dei ministri, il Commissario riceverà una
Via libera dalla Commissione europea all’acquisizione, da parte della tedesca E.on dell’impresa spagnola Viesgo, attualmente controllata dall’Enel, e di parti dell’impresa spagnola Endesa, anch’essa controllata dalla società italiana guidata da Fulvio Conti insieme alla spagnola Acciona. E.on acquisirebbe, in particolare, afferma una nota dell’Ue, il controllo di Viesgo, di Endesa Europa, che controlla le attività di Endesa in Francia, Polonia, Italia e Turchia, e di alcune attività minori di Endesa in Spagna. mento della filiera, che sarà soprattutto accorciata, grazie al ricorso massiccio a prodotti locali e al conseguente taglio sulle spese di trasporto. In questo senso, il ministro annuncia anche di pensare a una campagna di sensibilizzazione verso il consumatore, per orientarlo maggiormente a scelte consapevoli in favore del risparmio e, insieme, della stagionalità e della sicurezza alimentare. I problemi, comunque, non sono finiti. Alle proteste dei pescatori, infatti, si stanno aggiungendo quelle di altri settori nell’occhio del ciclone in questi giorni. Su tutti, gli agricoltori e gli autotrasportatori. Anche a loro l’Unione europea, prima o poi, dovrà dare qualche risposta.
Petrolio, confermato aumento produzione L’Arabia Saudita ha ufficializzato un aumento della produzione del petrolio di 200.000 barili al giorno. La conferma dell’intervento annunciato domenica dal segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon è arrivata attraverso un comunicato pubblicato sul sito internet dell’ambasciata di Riyad a Londra, nel quale si precisa che il prezzo del greggio è calato rispetto ai livelli record di 140 dollari al barile.
Nucleare: entro dicembre la scelta dei siti Il ministro dello Sviluppo Economico, Claudio Scajola, nel corso della conferenza stampa al ministero dell’Economia ha spiegato quelli che considera i «titoli più importanti» riguardanti il suo ministero sulla manovra. Il ministro ha scandito le tappe per far rientrare l’Italia nel club nucleare: «Con un decreto legge e un disegno di legge delega entro dicembre arriveranno i criteri per la scelta dei siti che ospiteranno gli impianti».
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cultura Due libri in uscita per raccontare i due estremi del desiderio
e non è ovunque, di certo è molto più presente di quanto si creda. «Nel corso del tempo e in ogni parte del mondo la castità è stata un elemento chiave dell’esistenza umana». Talmente importante, da sconfinare dall’iconografia cristiana, divenendo quasi un elemento metastorico e, se vogliamo, anche metaforico. Ecco perché Elizabeth Abbott, decana presso il Trinity College dell’Università di Toronto, proprio alla castità ha potuto dedicare poco più di cinquecento pagine (“Storia della castità”, traduzione di Carmen Covito, Mondadori, pp. 518, euro 25). «Ovunque girassi lo sguardo scrive la storica - era lì. Incombente. Risuonava negli acuti melliflui dei castrati dell’opera italiana, negli urli di dolore delle bambine rese tutte casa e purezza dalle tortura dei piedi fasciati e dai maschietti resi più utili dalla castrazione. Esalava dagli harem polverosi come dai templi degli Incas baciati dal sole. Permeava tutta la storia antica, dagli addetti votati al celibato che si alternavano presso l’oracolo di Delfi e dal virgineo terzetto Atena-Artemide-Estia, le più grandi dee del mondo greco, fino alla maestosità delle vergini vestali a Roma. Echeggiava nel grido di Amleto, ”Va in convento!”, con cui Ofelia è incalzata ad accettare il destino di tante altre donne non volute, chiuse in un chiostro contro la loro volontà».
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Ma la castità è anche storia e persona: quella di Giovanna D’Arco, ad esempio, che rinuncia ad ogni aspetto della femminilità in cambio di una vita da guerriero. Oppure quella del Mahatma Gandhi e dei suoi “brahmacharya”, come le notti trascorse con donne nubili per mettere alla prova la propria integrità. A volte colorandosi di paura (è il caso di Leonardo da Vinci, ossessionato dal timore di essere nuovamente accusato di comportamenti sessuali sconvenienti), a volte da profondi traumi («Lewis Carrol guardava ma non osava toccare tutta una processione di giovanissime Alici nel paese delle meraviglie»), giù giù fino ad arrivare ai giorni nostri, quando “Magic Johnson”, dopo avere scoperto di essere sieropositivo, dichiarò pubblicamente che «il sesso più sicuro è quello che non si fa». Epperò «l’esser casto» può anche colorarsi di accezioni insolite e, per così dire, punitive: «la castità spesso viene imposta a uomini e donne che non
Castità e lussuria, storie allo specchio di Filippo Maria Battaglia
l’hanno scelta: carcerati; maestri di scuola del XIX secolo in Russia e nel Canada; milioni di cinesi internati nei campi di lavoro nei momenti peggiori del regime di Mao; donne arabe non amate e costrette a sopportare matrimoni affollati, con un marito che ama una nuova favorita e se la porta a letto; milioni di scapoli cinesi condannati a una vita single perché la politica statale del “non più di un figlio a famiglia”
I saggi di Abbott e Scaraffia ricostruiscono con sincerità e precisione le vicende speculari di vergini e cortigiane nella storia
ha provocato una distruzione di massa di figlie femmine non volute, con aborti e infanticidi, e ha creato il massiccio squilibrio demografico che si registra oggi tra i due generi».
Speculare, e quindi opposta, è invece la storia che racconta Giuseppe Scaraffia, docente di letteratura francese all’Università di Roma, da sempre studioso e cultore attento del dandysmo e dei suoi riti. “Cor-
tigiane. Sedici donne fatali dell’Ottocento” (Mondadori, pp. 224, euro 18,50) è una sorta di scanzonato ritratto di un interno, tutto composto dalle «agenti di Borsa con il seno». Un intreccio di trame innervata di audacia, bellezza e intelligenza, e restituita da oggetti strani e solo apparentemente secondari. «I grandi specchi dei più antichi ristoranti di Parigi scrive ad esempio Scaraffia - ospitano ancora i graffiti di un popolo celebre e misconosciuto: nel XIX secolo le cortigiane verificavano l’autenticità dei diamanti appena ricevuti usandoli per incidere i propri nomi o disegni piccanti sulle specchiere dei locali alla moda». Un caleidoscopio ammiccante, che sembra anticipare certi refrain del giorno d’oggi: «anziché sforzarsi i cancellare il loro spesso compromettente passato nelle case chiuse o sul marciapiede, lo ostentavano nelle loro memorie. Il che le rende fra l’altro le prime donne del XIX secolo ad avere una propria storia. Per prime avevano scoperto l’importanza dei giornali e sapevano usarli come cassa di risonanza e quindi strumento di seduzione. Come le star di Hollywood non esitavano a reinventare, se necessario, una biografia romanzesca adatta alla stampa. E come le dive moderne non esitavano a farsi fotografare, scolpire o dipingere nude».
Non basta: le affinità non finiscono qui. Ad apprezzare più di chiunque altro le cortigiane «e ad avere con loro un rapporto paritario erano i grandi artisti dell’epoca, spesso loro amanti e poi amici, da Balzac a Baudelaire, da Manet a Mallàrme. Per non parlare dei giornalisti e dei politici eminenti, che le ascoltavano e usavano il loro ascendente per mettere in atto audaci manovre al di là degli schieramenti». Resta la sagacia e l’arguzia di certe donne, che porteranno Edmond De Goncourt a immaginare così un dialogo tra un aristocratico e una etera: «Mi hanno detto che il vostro amore dava le vertigini» farà dire lo scrittore francese al principe d’Orange. «E a me, Monsignore, che il vostro amore dava dei diamanti» risponderà di rimando la cortigiana.
eventi
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Joaquin Cortés, lo spagnolo di sangue gitano nato per ballare che ha saputo rielaborare con coraggio e determinazione l’eredità del grandissimo Antonio Gades inventando il suo proprio modo di fare flamenco e restituendolo a platee entusiaste ben più vaste di quelle dei soli appassionati
Il nuovo spettacolo di Joaquin Cortés al Teatro Sistina di Roma il 25 e 25 giugno
Il ritorno del bailaor gitano di Enrica Rosso veva annunciato, raggelando migliaia di fans in tutto il mondo, che raggiunti i 33 anni di età si sarebbe ritirato. Ora, alla soglia dei 40, continua a registrare il tutto esaurito ovunque vada, e lo fa con uno spettacolo per lui assolutamente atipico che lo vede in scena solo, come nella più pura tradizione del ballo flamenco, per quasi due ore, circondato dalla magica atmosfera creata dalla musica e dai canti eseguiti dal vivo da sedici musicisti. Joaquin Cortés, lo spagnolo di sangue gitano nato per ballare che ha saputo rielaborare con coraggio e determinazione l’eredità del grandissimo Antonio Gades inventando il suo proprio modo di fare flamenco e restituendolo a platee entusiaste ben più vaste di quelle dei soli appassionati, è in procinto di esibirsi a Roma. Il bailaor che ha ammaliato personaggi del calibro di Bernardo Bertolucci che gli ha dedicato un’ode, piuttosto che il premio Oscar Emma Thompson, gente insomma che in quanto a talento se ne intende, presenterà infatti la sua ultima
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creazione al Teatro Sistina il 24 e il 25 giugno.
Difficile descrivere cosa ci cattura nelle esibizioni di questo straordinario interprete. Forse il senso di mistero e al tempo stesso l’animalità. La grazia e la cura maniacale con cui ogni minimo movimento viene cesellato nello spazio per essere immediatamente dopo cancellato. Il senso di imprevedibilità, che ricorda quello dei felini: i repentini cambiamenti di ritmo, le spezzature, l’energia che ne scaturisce e ci contagia. Lo sguardo, carico come un temporale in estate. Il senso di condivisione, la te-
giovanissimo di fronte a platee importanti come quelle della Cosmopolitan Opera House di New York o del Palazzo del Cremlino di Mosca, partecipando a numerosi festival di danza. Ventitreenne ha fondato il “Joaquin Cortés Ballet Flamenco”col quale ha affrontato il primo tour mondiale. Nel 2006 ha ricevuto il premio “Riccio d’Argento” per la musica internazionale. Non sazio ha partecipato ad alcuni film: “Il fiore del mio segreto” di Pedro Almodovar e “Vaniglia cioccolato”di Ciro Ippolito. Ha collaborato musicalmente con artisti del calibro di Jennifer Lopez, Alicia Keyes, Robbie Williams.
Con la sete d’innovazione e il gusto per la sfida che da sempre lo contraddistinguono, ha fuso musica cubana, jazz e classica per far capo al flamenco stardaggine e la fierezza al di là della fatica, l’esibizione di un talento bellissimo nutrito con amore e impegno costante per migliorare, sempre, i risultati raggiunti. Ha danzato al fianco di stelle assolute come Maya Plisetskaya, Julio Bocca, Sylvie Guillem, Marie-Claude Pietragalla, bruciando le tappe di una carriera che lo vede a 15 anni primo ballerino dello Spanish National Ballet di Madrid di cui era entrato a far parte appena dodicenne. Si è esibito,
Sentendosi un privilegiato, ha trovato il tempo e l’energia per fondare un’associazione che gli sta particolarmente a cuore, al momento impegnata a sviluppare, con l’ausilio del Parlamento Europeo, un progetto dedicato all’educazione dei piccoli rom. Dice di sé (riferendosi alla sua dieta sregolata e ricchissima di patatine fritte) «sono un bambino indisciplinato», ma ci risulta difficile crederlo vedendolo ballare, quando dopo averci sedotto con movenze dolcissime s’imbizzarrisce e cavalca la scena in punta di tacco - desplantes - o quando contrappone alle mani bellissime, dita lunghe e nervose, quasi esili, la formidabile potenza e precisione delle gambe pronte a in-
chiodarsi sul pavimento dopo avergli inferto infiniti colpi - zapateados. E che dire di quel vibrato dell’anima che si trasmette al corpo intero e lo possiede - escobillas? Insomma l’artista in sé è pieno di risorse. Lo spettacolo che presenterà a Roma ha debuttato all’Auditorium di Città del Messico nel maggio 2005 e Cortés ne è coautore delle musiche originali con Josè e Antonio Carbonell. Con la sete d’innovazione e il gusto per la sfida che da sempre lo contraddistinguono, ha fuso musica cubana, jazz e classica per far capo al flamenco. I testi sono a opera di Antonio e Arturo Josè Carbonell.
Lo stilista Jean-Paul Gautier ne firma i costumi. “Mi soledad” - La mia solitudine, il titolo della rappresentazione ha un carattere ben più sobrio e intimistico dei precedenti lavori dell’incantatore di Cordoba. Lo spettacolo senza interruzioni, vive comunque di due anime ben differenti: la prima più austera è una personale riflessione sull’esistenza in cui il ballerino si lascia ispirare dalla solitudine per entrare in contatto con le radici più profonde dell’io, per approdare nella seconda parte alla festa gitana. Sembrerebbe questo un momento di introspezione importante per la vita del principe del flamenco e non possiamo che augurarci che ne tragga il massimo vantaggio creativo dedicandogli, se per caso gli sono sfuggiti, i versi splendidi di Salvatore Quasimodo: «Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera».
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memorie
Uno storico australiano racconta il suo rapporto epistolare con la moglie di Oswald Mosley, leader dei fascisti inglesi
Diana e il Führer di Philip Ayres
gli inizi della primavera del 1990, sono partito dalla Virginia alla volta del castello di Chatsworth nel Derbyshire. Chatsworth è la residenza dei duchi di Devonshire, è aperta al pubblico per parecchi giorni l’anno, e vi ho trascorso qualche settimana per portare a termine la prima analisi descrittiva della biblioteca del Diciottesimo secolo di Lord Burlington, il Conte architetto neo-palladiano. Questo lavoro, noto come La biblioteca di Burlington a Chiswick, fu pubblicato nel 1992 dalla rivista leader nel campo, Studies in Bibliography, la quale, successivamente, inserì una parte del mio lavoro sul classicismo e la cultura inglese del Diciottesimo secolo in un libro pubblicato dalla Cambridge University nel 1997. Una generazione dopo la morte di Burlington, la biblioteca fu trasferita dalla residenza di Londra, la villa di Chiswick, a Chatsworth in conseguenza del matrimonio che unì le due famiglie, e da allora lì è rimasta. Dopo aver noleggiato una macchina a Heathrow, ho guidato direttamente fino a Bakewell, a un paio di miglia da Chatsworth, ho pagato per una permanenza di tre settimane in un accogliente bed and breakfast che ho prenotato dall’America, appeso i miei abiti nel guardaroba e guidato attraverso la collina, tra la foschia e la pioggerella, giù fino alla residenza. Faceva molto freddo, c’erano appena una o due macchine nel parcheggio, e nessuno in giro. Per compiere ricerche lì è necessario registrarsi, poi si viene portati in una stanza nel seminterrato. I libri e i manoscritti che si spera di consultare vengono portati lì perché nessuno può lavorare da solo nella biblioteca, che si trova al secondo piano e fa parte del giro turistico della casa (i turisti comunque possono solo guardarla, non entrarci). Per iniziare mi dettero il catalogo stilato da Burlington nel 1743, e partendo da questo chiesi di vedere qualche libro presente nella lista, ma era quasi impossibile studiare la biblioteca dal seminterrato. Il secondo giorno la Duchessa di Devonshire venne con un assistente per fare qualche fotocopia, e parlammo. Mi chiese su cosa
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stavo lavorando e da dove venivo; le risposi e lei mi disse, molto gentilmente: «Bene, dovete stare con noi, allora». Spiegai che avevo pagato un acconto e mi ero impegnato a stare in città. Lei dispose che io lavorassi nella biblioteca invece che nel seminterrato, e il curatore mi disse che era la prima volta da anni che a un visitatore veniva concesso tale permesso. La biblioteca è bella, di gusto barocco, con raffinate scaffalature e scrivanie, inclusa quella di Burlington, dove ho lavorato circon-
questo ero curioso di saperne di più, così, durante il periodo di ricerca, iniziai a leggere dei Mosley e dei loro rapporti con il nazismo. Diana, come Unity, era spesso in Germania, e Hitler fu il suo testimone di nozze, ma come lo conobbe? Lessi che era amica anche dei Goering e dei Goebbels, e pensavo a questo mentre fotografavo le rilegature di Burlington, che era uomo di gusto impeccabile e raffinato in ogni dettaglio della sua vita e del suo lavoro... Tornando a Diana Mosley, appresi di capivo perfettamente i motivi per cui era stata rinchiusa - le condizioni di prigionia da lei descritte avrebbero fatto desiderare a molti veri uomini di salvarla, soprattutto avendola vista. Io, quantomeno, ho potuto sognarla una donna così. Fondamentalmente, io volevo solo parlare con la donna delle fotografie di un periodo spaventoso, turbolento, e magari saperne qualcosa di più. Come dice Mr. M’Choakumchild nel libro di
Considerata la donna “più bella del mondo”, negli anni Trenta frequentò i vertici del Terzo Reich. Nei suoi giudizi traspare l’ingannevole fascino esercitato da Hitler... dato dai libri della biblioteca di Chiswick. È stato un lavoro piacevole. Pranzavo comprando panini e mangiandoli in giardino, mentre esploravo il viale dei rododendri, il labirinto di alberi, l’argine del fiume e il parco dei cervi. Andai anche in libreria e trovai molti scritti sulle sorelle Mitford. Una di queste era Deborah, Duchessa di Devonshire e signora di Chatsworth che avevo incontrato, mentre ho saputo qualcosa su un paio delle altre dalle loro autobiografie o dai libri a loro dedicati, come quello di David Pryce-Jones su Unity Mitford, anche detta «La ragazza di Hitler», ma non riuscivo a scoprire molto su quella la cui fotografia mi aveva colpito di più, Diana Mitford, successivamente Diana Guinness e in seguito Diana Mosley, moglie di Sir Oswald Mosley, leader dell’Unione dei Fascisti Inglesi negli anni Trenta. Era descritta come «la donna più bella del mondo», e per
come, allo scoppio della guerra, questa bella donna fu rinchiusa in una topaia dove le guardiane la trattarono con un sadismo - immagino - esacerbato dall’invidia. Non la legarono, ma basta vedere la fotografia. Dopo molti mesi di maltrattamenti, la lasciarono andare perché non era più percepita come un nemico pubblico, anche se era stata punita proprio per questo e non per aver commesso qualche reato, ma non intaccarono il suo spirito e le sue opinioni. Molti anni dopo lei e suo marito andarono a vivere in Francia, in una casa costruita per uno dei generali di Napoleone chiamata «Il Tempio della Gloria».
Un giorno ero nel seminterrato a fare fotocopie del catalogo di Lord Burlington, quando incontrai la segretaria della Duchessa, e le domandai della vita di Lady Mosley. «Vive in Francia, e viene a trovarci di tanto in tanto», disse.
Chiesi se potessi scriverle e avere il suo indirizzo, e lo ottenni, ma non ci feci nulla per un mese o due dopo il mio ritorno a Melbourne. Alla fine le scrissi. Le raccontai di come avevo avuto l’indirizzo, dell’autobiografia che avevo letto, le dissi che avrei voluto farle qualche domanda tramite posta, senza troppa presunzione, su questioni che non aveva affrontato nella sua autobiografia con i dettagli che avrei voluto sapere. Che tipo di questioni? Niente di intimo, perché su quelle vicende pensai di aver già ricevuto delle risposte, né di politico, ma semplici domande formulate in modo cortese. Era stata una bella donna. Per ottenere la sua fiducia dovevo ovviamente mostrare comprensione per lei e il marito; non avrei ottenuto nulla scrivendole con un tono ostile, e dopotutto non provavo questo sentimento per lei. Avevo letto il suo racconto della vita in prigione, e - mentre
Dickens Tempi duri, «I fatti sono ciò che cerchiamo, fatti nuovi, inediti, ricerche, ciò che è stato fatto e pensato». Questo volevo, e un contatto con lei. Lei accettò di cooperare, e - tramite una fitta una corrispondenza - conobbi fatti nuovi, fatti che ho riferito per i piccoli cambiamenti di cui sono portatori. Non pretendo che fossero importanti, anzi, erano per lo più insignificanti perché tali erano le mie domande, ma ho pubblicato le risposte senza commento. Avrei potuto fare della morale, ma mi è stato insegnato che uno scrittore deve limitarsi a mostrare, quindi ho semplicemente posto le mie domande e l’ultima first lady del fascismo ha parlato per se stessa, sarà poi il lettore a giudicare. Lei è morta pochi anni fa. Le lettere, ancora in mio possesso, vanno dal 1990 al 1993. Nella prima che scrissi chiesi a Diana Mosley di commentare gli anni della Depressione e l’atmosfera
memorie Da sinistra in senso orario: Diana Mitford Mosley con il fratello Tom; Oswald Mosley, leader dell’Unione dei Fascisti inglesi; Unity Mitford, sorella di Diana, soprannominata “la ragazza di Hitler” e morta suicida; Diana e Oswald, negli ultimi anni di vita, trascorsi in Francia; Diana e Unity; Diana e Hitler
generale del periodo in Inghilterra, dicendo che stavo pensando di scrivere qualcosa a riguardo. Lei rispose, facendo un paragone con la Germania: «Dovrei scrivere risme di carta per rispondere adeguatamente. Negli anni Trenta l’Inghilterra era amministrata così male; quella che veniva chiamata povertà nell’abbondanza riguardava milioni di persone che soffrivano la fame e vivevano in catapecchie fatiscenti, e i politici sembravano piuttosto inadeguati ad affrontare la situazione. L’Inghilterra è stata a un passo dal “possedere” un quarto di globo con inimmaginabili ricchezze di ogni tipo, eppure era così che molte persone vivevano. Mio marito pose allora una domanda valida ancora oggi, perché penso che adesso sia di dominio pubblico che avesse ragione. Anche in Germania c’erano povertà e sofferenza, e sei milioni di disoccupati; poi Hitler prese il potere e nell’arco di due o tre anni l’intero Paese fu trasformato. Non aveva “grandi”ricchezze, ma per Hitler il vero tesoro di un Paese sono le persone, e - come dimostrato da quanto accaduto dopo la riduzione della Germania a un cumulo di macerie nel 1945 - aveva perfettamente ragione. Negli anni Trenta ci fu una rapida, straordinaria crescita in tutti i campi, soprattutto edilizia e infrastrutture; sembrò un Paese davvero ricco e felice, dopo essere stato miseramente povero».
Poi aggiunse: «Hitler è responsabile del conflitto insieme ai nostri estimatori della guerra guidati da Churcill, ed è anche responsabile di terribili omicidi e orrori, per questo tutti hanno dimentica-
to il suo genio politico precedente il 1939». Le chiesi delle influenze filosofiche sul marito, Oswald Mosley, e lei raccontò: «Era molto colpito da Nietzsche. Dopo aver imparato il tedesco poté valutare con il cuore i suoi scritti, e amò la sua poesia, ma era influenzato anche da Spengler (che non può essere considerato un filosofo a tutto tondo). Pensò che la realtà della scienza e il suo grande cammino avrebbero permesso all’Occidente di smentire le conclusioni pessimistiche di Spengler, ma più di tutti, oltre a Platone, il filosofo che influenzò il suo pensiero fu Goethe.Vedeva la Natura come un disegno per l’umanità da seguire e ritenne profondamente interessante la teoria goethiana dell’influenza stimolante del male nel mondo. Gli piaceva l’idea di un Pflanzschule, e non smise mai di credere in una vita dopo la morte, ma non era un cristiano, credo fosse un panteista». La lettera conteneva altre osservazioni, ma queste erano le più interessanti; pensai, però, che non era abbastanza. Hitler e gli altri nazisti che conobbe furono qualcosa di più del loro profilo storico, più interessanti, sebbene anche suo marito fosse stato un fenomeno politico. Pensai che lei sapeva cose non scritte su persone estremamente importanti, e tramite lei io ero a un passo da loro. Aveva ottant’anni, il tempo della sostanza, e io avevo bisogno di cogliere il punto. Le
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dissi che sapevo che Magda Goebbles era una sua amica; che cosa pensava lei del gesto dei coniugi Goebbles di uccidere i loro figli prima che potessero scegliere? Nella sua autobiografia sembrava quasi giustificarlo, ma non in modo chiaro. Che cosa pensava veramente? Che i Goebbles si preoccupassero che i figli potessero essere rapiti o uccisi dai russi? Pensava ai figli dello Zar? Come poteva giustificarlo? «Io non difendo propriamente il gesto della signora Goebbles - mi confidò dico solo che lo capisco. Molto probabilmente i russi avrebbero ucciso i bambini, o anche peggio, avrebbero potuto disperderli e maltrattarli. Gli Alleati (non è sicuro chi) sono stati ignobili con la moglie e la figlia di Goering». Poi andò avanti: «Volevo bene a Magda, una donna molto leale, dolce e una madre amorevole».
Le chiesi com’era la compagnia di Hitler, avendo capito, da quello che avevo letto, che era stata talvolta da sola con lui nella Cancelleria del Reich nel 1939. Mi disse: «Hitler era un affascinatore, come sostenuto da molte persone; parte del fascino era dovuta all’estrema naturalezza e mancanza di finzione». Le chiesi di commentare la
visione di Hitler della Cecoslovacchia e di Monaco, e stavo giusto scrivendo della divisione in due Stati della Cecoslovacchia a seguito dell’implosione dell’Unione Sovietica e della fine dei regimi comunisti nell’Europa orientale, quando arrivò la sua risposta: «Riteneva la Cecoslovacchia un Paese creato a Versailles, destinato, presto o tardi, a dividersi in varie parti. Non pensava che Monaco fosse particolarmente importante e riteneva che l’Inghilterra usasse l’intera crisi come pretesto per attaccare la Germania. La sua previsione sul destino della Cecoslovacchia si è avverata». Le chiesi di cos’altro discutessero duran-
te le sue visite alla Cancelleria del Reich alla fine degli anni Trenta, ma lei replicò: «Non posso dirti molto. È passato tanto tempo. Solitamente parlavamo di politica, dei fatti del giorno, o dei politici che avevo conosciuto. Una volta, quando andai a trovarlo di ritorno da Parigi, mi disse quanto avrebbe amato visitare la capitale francese (era ovviamente troppo conosciuto per una visita privata) e disse, piuttosto triste: Cafés, Variétés, und ich gehe so gern ins Theater! - “Caffè, varietà… ma io vado molto volentieri a teatro”. Fu felice di vedere Roma, impressionato dall’architettura di Michelangelo, diceva che aveva raccomandato a Speer di fare cornici e modanature più imponenti di quelle viste in Campidoglio e a San Pietro». Le chiesi come la trattava. «Fu premuroso quando ero incinta, e fu molto sollecito con Unity quando ebbe la polmonite, mandandola dal suo medico personale. Lo fu anche, ovviamente, quando lei si sparò». Disse che era molto colpita dal fatto che «i suoi modi erano molto formali, ma questa è una caratteristica tedesca». Le chiesi se avessero mai visto film o ascoltato musica insieme, e lei rispose: «Sì, rideva e commentava i film, ma non ascoltammo mai il grammofono, perché lui amava la conversazione. Parlava spesso dell’Inghilterra in modo elogiativo; ricordo che disse che era un Paese fortunato ad avere la principessa Elisabetta, che aveva allora circa otto anni. Chiese una volta: Wie baut man jetzt in England? - “Ma come si sta costruendo adesso in Inghilterra”- e la risposta ovviamente fu che avevano costruito solo ville e case popolari. All’epoca era certamente la persona più interessante della terra con cui parlare, e così tante cose dipendevano da lui. Sentivi che era un uomo del destino, era una cosa evidente». Le chiesi cosa pensasse dell’attentato del 20 luglio 1944, e lei: «Pensai che fu un complotto spregevole. Stauffenberg, come ufficiale in servizio, aveva una pistola, era nel bunker, poteva sparare a Hitler da vicino; invece, ha collocato una bomba a orologeria ed è corso a Berlino sperando di guidare
un nuovo governo. Sparare a Hitler gli sarebbe costata la vita, e lui scelse di comportarsi come l’Ira. Hitler non fu ucciso, ma morirono molti colleghi di Stauffenberg, e molti altri rimasero menomati orribilmente (come per esempio il generale Bodenschatz, come lessi dopo la guerra. Lo avevo conosciuto sommariamente)». Domandai se, nel caso il complotto avesse avuto successo, la guerra sarebbe finita prima: «Penso che gli Alleati - rispose - sarebbero andati avanti fino alla fine. La Russia li avrebbe obbligati a farlo». Le chiesi cosa pensava dei nuovi nazionalismi regionali nella ex Jugoslavia, nei Paesi Baschi, e lei mi disse che il marito «aveva sempre sperato che i regionalismi interni all’Europa prosperassero, e che questo avrebbe, per esempio, risolto il problema irlandese».Trovai interessante che mi rispondesse riferendosi al pensiero del marito; era ovviamente ancora innamorata di lui, ma ragionava anche con la sua testa: «Dopo la disgregazione della Jugoslavia, questa idea è risultata troppo ottimista. Sfortunatamente molte persone amano troppo combattere». Le chiesi il suo punto di vista sulle correnti di estrema destra in Europa, mi disse: «Molte parti dell’estrema destra sono riconducibili al nazionalismo, che Oswald Mosley ha dichiarato completamente fuori dalla storia». Mi disse, il più chiaramente possibile: «Ritengo ancora la guerra un crimine terribile contro l’Europa e biasimo Hitler per averla provocata», e poi andò avanti dicendo che non si era pentita di aver continuato a opporsi alla guerra dopo il 3 settembre 1939: «Abbiamo lottato per la pace durante la “guerra fittizia”. Io sono grata, nonostante gli orrori del carcere inglese, di questo. Nessuna delle atrocità della guerra sarebbe accaduta in pace, e una soluzione civile ai problemi minori era perfettamente possibile».
Essendo Diana Mosley quasi sorda, queste interviste sono state realizzate per posta, ma il vantaggio è possedere delle lettere scritte a mano, piuttosto che una registrazione cancellabile. Quello che ha fatto di questo lavoro un’autentica esperienza per me non sta tanto nelle informazioni raccolte, per lo più poco importanti anche se originali (le questioni rilevanti sono state d’altronde poste ed esaminate molte volte); l’interesse per me è stato nel percorso in sé, nel modo in cui mi sono avvicinato a questa bella signora, sfogliando un libro con le fotografie della sua giovinezza e guardando ritratti nella casa della sorella - che è stata gentile e disponibile durante tutto il periodo del mio lavoro a Burlington - respirando l’aria di una fredda primavera e immergendomi nella solitaria atmosfera del posto.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
È possibile riformare la giustizia in Italia? PRIMO, SEPARARE LE CARRIERE Egregio direttore, come ex avvocato in pensione, rispondo molto volentieri alla domanda che ha posto sulla riforma della Giustizia in Italia. Non è certo da oggi né da ieri che la Giustizia civile, penale, amministrativa e contabile è diventata un’emergenza nazionale. Non è un’emergenza improvvisa ed inaspettata, perché il dicastero si accresce e alimenta da anni e anni, ma ormai siamo arrivati oltre il punto di rottura e ci incamminiamo ad uscire per davvero dal novero dei Paesi civili, liberali e democratici. La colpa di tutto ciò, certamente, è delle corporazioni che hanno occupata e piegata la Giustizia ai propri interessi di casta; che hanno fermato i pochi tentativi di serie riforme; che hanno impedito l’approccio coerente e serio al sistema accusatorio scelto dal legislatore, il quale inevitabilmente comporta la separazione delle carriere fra giudici e magistrati del pubblico ministero, come avviene in ogni parte del mondo civile e avanzato. Ma non è solo delle corporazioni magistratuali la responsabilità più pesante, che grava invece a sua volta sulle spalle di una politica irresponsabile e - finora - pronta a cedere, incapace di ragionare ed operare per il bene dell’Italia, ma sempre pronta - come accade an-
LA DOMANDA DI DOMANI
QUALE È IL VOSTRO GIUDIZIO SULLA MANOVRA?
cora oggi - ad utilizzare l’opera delle toghe più asservite per colpire gli avversari che non riesce o riusciva a battere elettoralmente, ovvero nell’unico modo democraticamente valido ed accettabile. Non vanno dimenticati i misfatti giudiziari-politici-mediatici degli anni 1992-1994. Questa è la prima riforma da fare al processo penale: la separazione delle carriere. In secondo luogo, va detto anche che i pubblici ministeri - come del resto prevede lo stesso codice di procedura penale - dovrebbero innanzitutto cercare la verità e non solo la colpevolezza, con lealtà e scrupolo. In terzo luogo, debbo osservare il fatto che la tecnologia avanzata non abbia avuto accesso nei palazzi di Giustizia. Non ci sia ancora informatizzazione se non a macchia di leopardo e si viaggi con dei milioni di pagine di carta. E ciò faciliterebbe anche lo svolgimento dei processi civili. Senza queste riforme io credo sia impossibile che la Giustizia diventi una macchina più veloce e produttiva. Anche se esisterà sempre una verità processuale diversa da quella storica. Ma qualcosa si può fare. Mi accontenterei di una Giustizia normale, che possa adempiere civilmente e velocemente ai propri compiti e doveri verso i cittadini che ad essa si rivolgono.
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
NON SERVONO GUARENTIGIE, MA REGOLE CERTE Che i magistrati fossero un’altra casta già lo si sapeva. Quindi non penso che il punto sia smantellare o ridimensionare una categoria super-tutelata: sarebbe un’operazione inevitabilmente ideologica e quindi destinata a fallire. Secondo me, invece, bisognerebbe cambiare in profondità una mentalità che, tuttosommato, gioisce ed ha tutti gli interessi che questi privilegi non vengano intaccati. E far passare un’idea che è diffusa a livello europeo: la giustizia per funzionare non ha bisogno di guarentigie feudali, ma di regole certe. E spero che, prima o poi, lo capiremo smettendola di fare solo rumore. Ritrovandoci incastrati nei soliti-vecchi problemi.
Rispondete con una email a lettere@liberal.it
UNA COSTITUENTE “VERA” ALL’INSEGNA DEL BENE COMUNE Il Consiglio Nazionale dell’Udc ha dato avvio al processo costituente dell’area moderata, nella convinzione che la spinta alla semplificazione bipartitica e leaderistica cui tendono Pd e Pdl, non sia effettivamente rappresentativa della realtà politica e sociale italiana. Il percorso che ha portato alla nascita del Pd è stato molto lungo, nei fatti è nato quasi dieci anni or sono con la caduta del Governo D’Alema I e la nascita del D’Alema II, e molto complesso, come era prevedibile per un processo di avvicinamento, incontro e poi fusione tra culture e tradizioni diverse ed in alcuni casi storicamente antitetiche, quali quella comunista, quella socialista post comunista, e quella discendente da una costola della sinistra democratica cristiana. Nonostante tutto, però, sono ancora molteplici le questioni aperte all’interno del movimento di Veltroni; su tutte il ruolo che al suo interno avrà la componente cattolica, che sembra essere sempre più marginale, ma anche i rapporti con la si-
Riccardo Fai Foligno (Pe)
PIEDINO DI FATA
Un piede gigante nel distretto finanziario di Singapore. La scultura è stata esposta dal ministero della Sanità nel corso di una campagna tesa ad educare i cittadini, che spendono gran parte della giornata in ufficio, ad avere uno stile di vita più salutare. TUTTI (O QUASI) AL MARE Gentile Direttore, l’estate è arrivata e come tutti gli anni iniziano le campagne educative che ci ricordano l’importanza dei nostri amici a 4 zampe. Se li lasci in autostrada sei un assassino, perché metti a repentaglio la vita del tuo cane e quella degli automobilisti. Io non ho mai visto cani in un autostrada, o per lo meno a quattro zampe. Di cani ne ho incontrati tanti, soprattutto in auto. Non so quale sia la motivazione che spinga un vacanziere ad abbandonare cane e suocera allo scoccare del ferragosto, ma pare sia la moda estiva del XXI secolo. In una società come la nostra, nella quale gli anziani sono lo zoccolo duro della popolazione e la badante uno dei mestieri più redditizzi, è possibile focalizzare
dai circoli liberal
nistra radicale con la quale il Pd continua a governare in molte amministrazioni locali. Dall’altra parte il Centrodestra ha seguito un percorso inverso, scegliendo di schierare il cartello elettorale del Pdl alle elezioni e posticipando rispetto ad esse la costituzione del nuovo soggetto politico che nascerà dalla fusione di Forza Italia e An. L’assenza di un profondo dibattito sulle ragioni del nuovo partito ha anche in questo caso lasciato delle questioni aperte. In primo luogo la questione dell’anarchia dei valori di cui ha parlato il Presidente Berlusconi a proposito del Pdl. Per questi motivi crediamo ci sia nel Paese uno spazio politico per una riaggregazione delle forze moderate, e auspichiamo che il processo che caratterizzerà la “Costituente Popolare” sia un processo vero, di ampio respiro, finalizzato a mettere in relazione le migliori personalità e capacità del nostro Paese, nell’interesse del Paese. Aspiriamo, quindi, ad un grande partito moderato, che sappia porre la persona, nella sua assoluta dignità, al centro della propria prassi politica, che na-
l’attenzione sugli animali d’appartamento? Con tutto il rispetto per Pluto, Rex e Lessie, mi domando quante famiglie in Italia sarebbero disposte a sacrificare le proprie ferie per una petulante e canuta suocera in carrozzella o per un nonno logorroico ex combattente al fronte. Portarli con sé, guai a pensarci. I villaggi vacanza offrono un ottimo servizio di babysittering, ma solamente ai villeggianti under 14. Gli anziani non sono ammessi: palla al piede fuori e dentro le mura domestiche. Allora meglio lasciarli a casa, in città, con i 40 gradi dell’agosto assassino, un’abbondante provvista di acqua minerale in frigo e il cellulare a portata di mano, solo per ricevere la chiamata della sera, guai a disturbare i vacanzieri!
sca dal basso, che sappia selezionare la propria classe dirigente in funzione del merito e delle capacità individuali. Un partito aperto, in grado di dialogare attivamente con la società civile; un partito rappresentativo e non autoreferenziale, un partito dei cittadini ancor prima che dei dirigenti. Un partito che sappia proporre i propri programmi per la società italiana, e sappia confrontarsi in Parlamento su quelle grandi riforme, economiche, sociali, istituzionali, ormai imprescindibili per il nostro Paese. Mario Angiolillo LIBERAL GIOVANI
APPUNTAMENTI TODI - 10 LUGLIO 2008 Ore 12.00, Hotel Bramante Prossima riunione nazionale dei coordinatori regionali e dei presidenti dei Circoli liberal
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog La tua lettera è un globo alato Mary, Mary amatissima sono stato in centro, tra i miei connazionali, tutto il giorno, lavorando intensamente, e pensando ancora più intensamente. È piuttosto tardi e sono stanco, ma non potevo andare a letto senza darti la buonanotte. Sei stata così vicina… così tanto vicina, oggi e ieri. La tua ultima lettera è una fiamma, un globo alato, un’onda di Quell’Isola di straordinaria musica. Questi giorni, cara Mary, sono pieni di immagini e voci e ombre… C’è fuoco nel mio cuore… c’è fuoco nelle mie mani… e ovunque io vada vedo cose misteriose. Sai cosa significhi ardere e ardere, e sapere, mentre ardi, che ti stai liberando di tutto ciò che ti circonda? Oh, non c’è gioia più grande della gioia del Fuoco! E adesso, con tutte le voci che ho in me, lasciami gridare che ti amo. Kahlil Kahlil Gibran a Mary Haskell
Poco importa che ci abbiano cresciuto, che abbiano cresciuto i nostri figli e che la loro alterosclerosi sia stata spesso motivo di ilarità. Le preoccupazioni gli italiani durante le vacanze preferiscono lasciarle a casa. Costume, pareo, abito da sera e via. La vacanza inizia. Ma non per tutti.
Giulio Alfieri Cesena
AI MONDIALI... SIAMO TUTTI ITALIANI Ho 25 anni, romano e romanista tutta la vita, a luglio tifo Italia. Da settembre a giugno, durante il campionato, seguo la mia squadra con gli amici più stretti, esaltato allo stadio e concentrato a casa, sulla poltrona, portacenere alla mano. Siamo noi, io e i miei amici, tutti rigorosamente uomini, con un’unica grande fede e un grande cuore giallo rosso. Gli altri lo sanno, la domenica pomeriggio non c’è storia e la domenica sera l’argomento principe è il fuori gioco, l’infortunio di Totti, i numeri di Cassano. Le ragazze parlano di altro, di libri, viaggi e lavoro, programmano aperitivi, sedute estetiche e tour per spacci. Le ragazze sbuffano, si addormentano davanti alla televisione
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
20 giugno 1214 L’Università di Oxford riceve il suo statuto
1789 I deputati del terzo stato francese effettuano il Giuramento della Sala della Pallacorda 1837 La regina Vittoria del Regno Unito sale sul trono britannico 1866 L’Italia si allea alla Prussia contro l’Austria iniziando di fatto la Terza guerra di indipendenza italiana 1819 Nasce Jacques Offenbach, compositore e violoncellista tedesco 1939 La Song School di Benny Goodman termina la sua serie radiofonica 1960 Indipendenza del Mali e del Senegal 1963 Viene stabilita la ”linea rossa” tra Unione Sovietica e Stati Uniti 1978 L’Italia aderisce alla Convenzione di Berna 1980 Negli Stati Uniti esce il film Blues Brothers 1990 Il parlamento tedesco decide di spostare la capitale da Bonn a Berlino
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
o chiamano i loro amici in grado di ascoltarle per il caffè della domenica. Ma a luglio tutto cambia. Agli europei il calcio diventa una passione, una ragione di vita, esperti e meno esperti, uomini e donne, sportivi e non. L’Italia rischia l’eliminazione, l’ansia è padrona di tutti gli italiani in quel martedì sera. Il mio salone si riempie: i fedelissimi amici della domenica in prima fila, scongiuri pre-partita, partita e commenti notturni, siamo noi, quelli che il calcio lo masticano. Ma non siamo soli. Il brusio si avverte, sale, la confusione è tanta, sono loro: le ragazze, le amiche e gli amici che non sanno neanche che Donadoni è il nostro nuovo padre spirituale. Sono i tifosi dell’Italia. Anche loro, come noi, urlano, applaudiscono, fremono e si esaltano, ma non vedono il buon gioco, non si concentrano sui passi. Mi trovo a giustificare l’assenza di Totti, la panchina di Cannavaro e la presenza di Di Natale. I cellulari squillano, la sala è caotica, noi, non riusciamo a trovare la concentrazione. L’Italia vince, l’Italia batte la Francia 2 a 0. Ci siamo salvati: la felicità è tanta, l’orgoglio è italiano. Siamo i campioni del mondo e l’abbiamo dimostrato ancora una volta. Adesso possono urlare quanto vogliono, abbiamo vinto tutti, noi e loro. Mi ritrovo ad esultare con il mio amico, proprio lui che mi chiedeva di Totti e con la mia amica che sperava nella convocazione di Tacchinardi. Loro adesso, sono più tifosi del buon gioco ed io, ho scoperto che esiste il modo per curare anche le più ostili impurità della pelle: Cassano ne è l’esempio. Io non me ne ero mai accorto.
Pier Francesco Cuccia Roma
“
È difficile combattere con il desiderio del proprio cuore. Tutto ciò che desidera lo compera al prezzo dell’anima ERÀCLITO
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di PD E VELTRONI PRIGIONIERI DELLA VECCHIA STAGIONE Una opposizione si oppone, ma evita di trattare il governo in carica come un criminale che attenta alla costituzione e vuole instaurare un regime, per dimostrare che con esso è «impossibile instaurare un rapporto fisiologico». Perché, a lungo andare, se ciò non corrisponde alla realtà, perde la faccia davanti al Paese e perde elezioni a ripetizione. Nella demonizzazione o meno dell’avversario sta la differenza, osservava Ostellino ieri sul Corriere, tra un’opposizione e una forza di pura «agitazione». (...) Sul tema della giustizia, com’era prevedibile con lo spazio politico concesso a Di Pietro, il Pd e Veltroni rischiano di essere risucchiati nel passato. Si dichiara «chiuso» il dialogo con il governo in un modo così precipitoso da far pensare che Veltroni non sperasse altro, per superare i suoi problemi interni, che giungesse un pretesto per tornare alla vecchia musica dell’anti-berlusconismo, geloso di un ruolo che Di Pietro fino a questo momento stava monopolizzando. Così, se prima delle elezioni doveva essere l’Italia dei Valori a confluire nel Partito democratico, in queste ore sembra che il Partito democratico stia confluendo nel movimento di Di Pietro. Ma la storia, e la politica, non fanno sconti. Prima o poi gli errori del passato occorre essere disposti a pagarli, altrimenti si rimane a fare i lavapiatti. Il Pd e chiunque ne sarà alla guida non riusciranno a inaugurare alcuna «nuova stagione», se prima non avranno le idee definitivamente chiare sulla vecchia stagione. Per comprende-
re in pieno la vecchia stagione, e gli errori commessi, è fondamentale afferrare il cuore del problema nei rapporti di questi 15 anni tra politica e magistratura: è Berlusconi, o sono i magistrati? Dal 1994 Berlusconi è stato processato decine di volte, per una serie disparata di reati che vanno dalla corruzione alla mafia, e mai condannato. Le sue aziende sono state rovistate fin negli angoli più remoti senza trovare nulla di illegale. Sono davvero poche le personalità dell’economia e della politica che uscirebbero indenni da una simile radiografia. Il paradosso di questi 15 anni è che volendo dimostrare quanto Berlusconi fosse disonesto, e quindi indegno di ricoprire il ruolo di primo ministro, di fronte agli italiani la magistratura è riuscita a dimostrare esattamente il contrario. E’ il personaggio più sotto controllo d’Italia. Quante cosche si sarebbero potute sgominare se nei loro confronti fosse stata adoperata la stessa solerzia utilizzata nei confronti del cittadino Berlusconi? (...) Per cambiare davvero «stagione» il Pd deve riconoscere che l’anomalia, l’”emergenza democratica”, è nella magistratura, non in Berlusconi. Finché non si convincerà sinceramente di questo, finché non ci sarà una lettura condivisa dei turbolenti rapporti tra politica e magistratura negli ultimi 15 anni, e finché non ci sarà la volontà reale, oltre la retorica, di riportare la magistratura all’interno dei suoi confini, Veltroni potrà annunciare tutte le «nuove stagioni» che vuole, ma rimarrà prigioniero della vecchia.
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PAGINAVENTIQUATTRO A poche ore dal passaggio della fiaccola in Tibet, il governo di Pechino è riuscito ad imporre la sua legge, nel silenzio del mondo
La Cina ha già vinto l’Olimpiade della
BRUTALITÀ a fiaccola olimpica arriverà sabato prossimo a Lhasa, capitale del Tibet, in una città fortemente militarizzata, con un esercito cinese che ha circondato tutti i monasteri, impedendo l’ingresso e l’uscita di monaci e monache. Nella città assediata gli arresti continuano notte e giorno nel silenzio assoluto dei media (cinesi ed esteri). Amnesty International ha sollecitato il governo di Pechino a fornire informazioni su oltre mille arrestati del marzo scorso, rinnovando la richiesta di aprire il Tibet agli osservatori indipendenti. L’organizzazione umanitaria ha ricordato che le richieste di aiuto, che provengono dalla popolazione, sono ormai sempre più numerose. «Le informazioni sono scarse, ma sulla base di quelle che abbiamo riscontrato, possiamo affermare che siamo di fronte a un quadro agghiacciante di detenzioni arbitrarie e di abusi nei confronti dei prigionieri», ha dichiarato Sam Zarifi, direttore del programma AsiaPacifico di Amnesty. Le autorità cinesi hanno fornito informazioni sui processi celebrati in modo sommario e senza alcun riconoscimento dei diritti della difesa per un piccolo gruppo di manifestanti tibeta-
L
di Aldo Forbice na di origine della regione. Com’è ormai noto, nello Xinjiang la situazione è molto simile a quella tibetana.Vi sono circa nove milioni di uiguri, di origine turkmena, di religione islamica e con una propria lingua e cultura, dominata dall’etnia cinese Han. Da decenni Pechino attua una politica di colonizzazione della regione, cercando di cancellare lingua, cultura e religione, controllando le moschee e le scuole, cercando di giustificare la politica di repressione con la lotta al terrorismo. Ma ora la vera preoccupazione del governo cinese è rappresentata dalla tappa tibetana (una sola, invece delle quattro programmate). In previsione di questo appuntamento sono stati arrestati in India circa 50 partecipanti alla “marcia del ritorno in Tibet”. La polizia attendeva il gruppo dei marciatori a Dharchula, ultima città indiana
gnazione dei Giochi olimpici a Pechino. Non solo il Tibet è considerato off limits, ma anche lo Xinjiang e altre regioni, dove vi è una forte presenza tibetana. La repressione delle autorità nelle ultime settimane si è fatta ancora più pesante e colpisce non solo i giornalisti stranieri ma persino gli studenti e coloro che si sono offerti come“volontari”per assistere gli atleti durante le Olimpiadi. Dei 100mila volontari, che dovevano essere in gran parte stranieri, solo pochissimi hanno potuto essere ammessi. Denuncia un’aspirante volontaria, Sara Diani: «I potenziali volontari si sono scontrati con un’autentica muraglia cinese. Non solo è richiesta la conoscenza del cinese, ma si è data la priorità a studenti e lavoratori cinesi che risiedono
La repressione delle autorità nelle ultime settimane si è fatta ancora più pesante e colpisce non solo i giornalisti stranieri ma persino gli studenti e coloro che si sono offerti come “volontari” per assistere gli atleti ni (con condanne molto pesanti,da tre anni di carcere sino all’ergastolo). Il Tibet rimane rigidamente chiuso ai giornalisti e agli operatori umanitari. Le uniche notizie sono quelle filtrate attraverso amici e parenti dei detenuti. Secondo queste fonti, la polizia e i soldati cinesi hanno effettuato centinaia di irruzioni in monasteri, conventi e abitazioni private, requisendo telefoni cellulari,computer e altre apparecchiature per impedire ogni forma di comunicazione con l’estero. L’ondata di arresti non ha colpito solo monaci, monache e tibetani che avevano partecipato alle manifestazioni pacifiche di marzo, ma anche intellettuali e artisti impegnati nella conservazione del patrimonio di cultura tibetano. Anche la nota cantante e presentatrice televisiva Jamyang Kyi è stata arrestata il 1° aprile scorso nella redazione dell’emittente tv Qinghai: è stata tenuta in isolamento per un mese e poi trasferita agli arresti domiciliari dopo aver pagato una multa salatissima. Nel frattempo la torcia olimpica ha proseguito il suo percorso nella regione autonoma uigura dello Xinjiang, dove i controlli della polizia sono stati severissimi,con percorsi blindati. Nella cerimonia che si è svolta a Urumqi, fra controlli della polizia e metal detector, vi hanno potuto assistere solo tremila cinesi e pochissimi uiguri, la popolazione musulma-
prima del confine con il Tibet. Secondo B.Tsering, presidente dell’Associazione delle donne tibetane, «i poliziotti ci hanno arrestato col pretesto che stavamo entrando in un’area protetta, il cui ingresso non è consentito neppure ai cittadini indiani. Oltretutto abbiamo dovuto fronteggiare anche le proteste dei mercanti della zona, che non possono utilizzare la “via del commercio” per trasportare i loro prodotti: la strada è stata infatti chiusa dalle autorità indiane per motivi di sicurezza e non si sa quando sarà riaperta». Ovviamente, tutti sanno che si è trattata di una “cortesia”del governo indiano a quello di Pechino. Non sono certo mancate le proteste del governo tibetano in esilio a Dhramsala,dello stesso Dalai Lama, di Amnesty e delle altre organizzazioni umanitarie. E da parte dell’Ue? Dal governo italiano, dai partiti, di maggioranza e di opposizione? E dai sindacati? E dalle associazioni sociali così attive nella lotta per la pace? Silenzio assoluto. Silenzio assoluto anche da parte dalle federazioni dei giornalisti, quelle internazionali e quelle nazionali. Eppure le organizzazioni dei giornalisti si sono rese conto che le autorità cinesi non hanno rispettato nessuno degli impegni presi nel 2001, al momento dell’asse-
nella provincia di Pechino». Il giro di vite ha interessato in questi giorni anche il mancato rinnovo dei visti a studenti stranieri (che sono migliaia). In altre parole, a meno di 50 giorni dall’apertura dei Giochi olimpici, Pechino esprime una forte preoccupazione. E così non si limita a fare arrestare solo i dissidenti o i potenziali manifestanti ma cerca di neutralizzare tutti coloro che possono danneggiare l’immagine fastosa delle Grandi Olimpiadi 2008. Non preoccupano tanto gli annunci di boicottaggio politico di qualche piccolo Paese o le proteste di una o più associazioni umanitarie, ma l’imprevisto rappresentato dai militanti di gruppi politici delle minoranze. Nel frattempo la Cina ha conquistato un altro grande successo. Qualche giorno fa il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha deciso di non inserire la questione tibetana nell’agenda dei lavori. In altre parole, come hanno richiesto i rappresentanti di Amnesty International, le denunce sulle violazioni dei diritti umani in Tibet non potranno essere discusse nel Consiglio dell’Onu. Un’autentica vergogna per le Nazioni Unite e credo per tutto l’Occidente.