QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
L’ex ambasciatore americano all’Onu sulla crisi dopo il voto irlandese
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Cara Europa, se hai paura dei tuoi popoli non hai futuro
di Ferdinando Adornato
LA DENUNCIA DI CATRICALÀ
John Bolton
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80625
Non è solo un problema di Berlusconi: il presidente dell’antitrust lancia l’allarme sull’intreccio di poteri tra banche, assicurazioni, aziende private e di Stato
ebbene la futura configurazione dell’Unione Europea sia una vera ossessione per l’Europa, sono in pochi negli Stati Uniti a prestare attenzione a questo tema. L’Europa si strugge per l’esito del recente referendum tenutosi in Irlanda sul Trattato di Lisbona, ma l’integrazione europea è una questione che non viene assolutamente considerata nella campagna presidenziale americana. Questi due atteggiamenti sono inopportuni e sfavorevoli per entrambe le sponde dell’Atlantico: i leader europei filo-europeisti si stanno spingendo in modo precipitoso ed avventato su una strada non-democratica, e forse persino antidemocratica, e gli americani non stanno comprendendo quella che costituisce una vera minaccia per l’Alleanza transatlantica. Mi trovavo a Dublino appena pochi giorni prima del referendum irlandese. Agli occhi di un osservatore americano, pareva difficile credere che il risultato non fosse un convinto “sì” al Trattato di Lisbona. Tutto l’establishment politico del Paese lo sosteneva, ivi compresi i maggiori partiti politici tranne uno; le spese per la campagna in favore del “sì” superavano di gran lunga quelle per la campagna a favore del “no” e la copertura data dai media all’evento sottolineava la vergogna e l’imbarazzo che ne sarebbero derivati per l’Irlanda in caso di un rifiuto del Trattato di Lisbona.
S
L’Italia è una Repubblica fondata suI conflitto d’interesse…
Nella foto Antonio Catricalà presidente dell’Antitrust
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s eg ue a pa gi na 12
Come aggiornare la legge Basaglia
Intervista al presidente dell’Anm
Fa discutere l’inflazione all’1,7
Luca Palamara: «Non smetteremo di farci sentire»
Una tempesta in un bicchier d’acqua
di Valentina Meliadò
di Gianfranco Polillo
di Enrico Singer
di Maria Burani Procaccini
Chiamato a commentare lo stato generale della giustizia, Luca Palamara annuncia: «Chiediamo alla politica una riflessione. Ma non smetteremo mai di far sentire la nostra voce».
Sul tasso di inflazione programmatica che Tremonti ha fissato all’1,7% si continua a discutere. Economisti e commentatori politici sono scesi in campo per difendere o affossare il principio.
Dall’imperatore del Centroafrica Jean-Bédel Bokassa al dittatore d’Uganda Idi Amin Dada, il continente nero non sembra riuscire ad affrancarsi dalla dittatura. Oggi del presidente Robert Mugabe.
A 30 anni dalla 180 di Basaglia che chiuse i manicomi, bisognerebbe trovare la forza di aggiornare una legge che tentando di spezzare dei tabù ne creò altri. Alti come le macerie delle Torri Gemelle.
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nell’inserto Occidente a pagina 14
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MERCOLEDÌ 25
GIUGNO
L’album di famiglia dei dittatori nel continente
Africa: Mugabe e i suoi fratelli
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
118 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
I malati di mente esistono, basta far finta di nulla
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Nell’intervento a Montecitorio Antonio Catricalà attacca le distorsioni del mercato
Il j’accuse dell’Antitrust di Guido Keller
ROMA.
Chissà come si sarà sentito insignificante Silvio Berlusconi durante la relazione di Antonio Catricalà. Che terribile sensazione d’inadeguatezza si sarà impossessata del Cavaliere mentre ascoltava il presidente dell’Authority per il mercato e la concorrenza scagliarsi contro l’infinità di cartelli finanziari che corrompono l’economia nazionale. La verità è che Silvio si era ormai convinto di essere l’unico depositario dei conflitti d’interessi del Paese e da straordinario egocentrico quale egli è ne andava
sul mercato: negli Stati Uniti sono considerati fatti criminosi puniti con la prigione». E sono tanti questi trust e sono dovunque. Ma è soprattutto nell’intreccio tra banche e assicurazioni che si annida il virus che guasta il meccanismo della libera concorrenza. «Le prime evidenze raccolte nell’indagine conoscitiva sulla governance delle imprese bancarie e assicurative danno conto di un’amplissima diffusione dei legami
tra concorrenti, pur in assenza di situazioni di controllo - ha osservato Catricalà - Con riferimento alle società quotate, il 45% di esse annovera tra i propri soci imprese concorrenti; l’80% conta all’interno dei propri organi di amministrazione persone presenti contemporaneamente nei board di competitori. C’è stata un’impresa con ben 13 persone (Generali, ndr) e un altra con 10 (Mediobanca, ndr) che siedono anche in orga-
ni di governance di altre società dello stesso settore». Dunque una specie di sistema Moggi applicato al mondo degli affari.
Ma non è finita qui. Catricalà ha annunciato l’apertura di ben 23 istruttorie contro le banche per accertare eventuali ostacoli all’applicazione della legge sulla portabilità gratuita dei mutui. «Nonostante la nostra tempestiva presa di posizione – ha detto il presidente dell’Antitru-
I trust sono tanti, ma è soprattutto nell’intreccio tra banche e assicurazioni che si annida il virus che guasta il meccanismo della libera concorrenza fiero, con buona pace della sinistra che per decenni si è rovinata il fegato denunciando l’anomalia italiana. «I cartelli non sono peccati veniali - ha affermato con forza il presidente dell’Antitrust - sono gravi misfatti contro la società perché corrompono la libera competizione delle forze economiche
st – e nonostante un intervento della Banca d’Italia, molte banche si sono ostinatamente attardate in una prassi che noi riteniamo elusiva della normativa che impone la portabilità dei mutui senza alcun onere per i risparmiatori». Infine, per completare la sua requisitoria contro le banche, Catricalà ha denunciato «la prassi iniqua e penalizzante per i risparmiatori e le imprese» di applicare la commissione di massimo scoperto. «Deve essere abolita», ha tagliato corto. Ma per far capire quanto sia diffusa la pratica delle “intese restrittive” in tutti gli ambiti economici, Catricalà ha pure citato l’aumento esponenziale delle sanzioni comminate dall’Authority: 86 milioni di euro. Inoltre, nel 2007 «le concentrazioni esaminate sono state 864, ben 147 in più del 2006. La cifra – ha concluso il presidente dell’Antitrust – costituisce il massimo storico dalla nascita dell’istituzione». Catricalà ha infine condito il suo invito al governo a perseguire l’obiettivo di aprire e liberalizzare i mercati con una considerazione indubbiamente affascinante. «Competizione non significa indifferenza verso i più deboli – ha spiegato nella sua relazione – Il pensiero cristiano conduce al merito e all’impegno personale come passaggi necessari per l’applica-
Parla l’ex presidente dell’Istituto per il Commercio estero: «I Cartelli annientano il mercato»
«Puntare il dito è giusto, ma è meglio trovare soluzioni» ROMA. «Purtroppo si sapeva che questo fenomeno fosse diffuso, ma quello che sorprende sono i numeri, certamente molto più elevati di quanto ci si potesse aspettare. Cifre che indicano la necessità di intervenire in maniera più sistematica: creando quantomeno un dossier in cui questi casi vengano monitorati e denunciati. Certo, sarebbe solo il primo passo. Ad esempio si potrebbe dar vita a un vero e proprio Osservatorio. L’altra misura da adottare potrebbe essere quella di estendere alle imprese private le stesse regole vigenti nel pubblico, che obbligano i dipendenti a rispet-
colloquio con Beniamino Quintieri di Francesco Rositano tare tutte le regole di incompatibilità con altri incarichi» Così Beniamino Quintieri - economista, ex presidente dell’Ice (Istituto per il Commercio estero) e docente universitario alla Luiss e all’Università di Tor Vergata commenta i dati allarmanti diffusi dal presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà. E invita ad una maggiore trasparenza. Quanto al problema della scarsa mobilità bancaria, altro vulnus per la concorrenza, Quintieri vede un’unica soluzione: mettere in competizione i vari istituti di credito, abbassando i costi d’uscita per passare da una banca all’altra.
Professore è d’accordo con la relazione del presidente dell’Antitrust? Si fa bene a puntare il dito contro questo fenomeno, ma credo che si dovrebbe intervenire praticamente, limitando tutte quelle situazioni patologiche in cui i consiglieri d’amministrazione di una società sono in conflitto con gli interessi dei propri azionisti. Purtroppo non è più sufficiente basarsi sull’onesta dei consiglieri. Quindi dice di sì ai cosiddetti metodi esogeni? Penso che potrebbe essere significativo adottare gli stessi criteri che vengono utilizzati
per i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni. Al momento dell’insediamento, infatti, viene chiesto loro di rinunciare a qualsiasi incarico incompatibile con quello che andrebbero a ricoprire. Credo che potrebbe essere utile estendere queste regole anche alle imprese private. Quanto alla scarsa mobilità tra banche, in cui l’Italia è fanalino di coda rispetto agli altri paesi europei, che ne pensa? Il punto è che, in Italia, assistiamo ad una tassa implicita sulla mobilità che scoraggia il cittadino a cambiare la propria banca qualora non rispondesse più
ai propri bisogni. Mi riferisco al fatto che da noi la cifra da corrispondere per passare ad un nuovo istituto di credito è più elevata rispetto ad altri paesi. E questo limita la concorrenza: le banche sono disincentivate ad adottare comportamenti più concorrenziali perché sanno benissimo che il prezzo in termini di perdita clienti sarà comunque limitato. A mio avviso, quindi, ridurre il costo della mobilità è fondamentale per incentivare le banche ad adottare comportamenti concorrenziali. Secondo lei, l’Italia in materia di Antitrust è indietro rispetto agli altri paesi europei? Posso dire con certezza che nei
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Controcanto. Troppa demagogia nella relazione del presidente
Non demonizziamo i cartelli di mercato di Carlo Lottieri annuale rapporto al parlamento presentato ieri al Parlamento da Antonio Catricalà, presidente dell’Antitrust, è stata l’occasione per fare un poco il punto sull’economia italiana. Ed a molti è parso chiaro come il dibattito degradi rapidamente quando i maggiori responsabili governativi ostentano demagogia e populismo. In effetti, è sempre più facile ascoltare filippiche nelle quali ci viene lasciato intendere che esisterebbero soluzioni semplici per problemi solo apparentemente complicati, e che esse sarebbero esattamente in linea con le pulsioni della gente comune. In tale schema, l’economia è rappresentata allora come un gioco “a somma zero”, in cui se c’è qualcuno che guadagna (i ricchi) è solo perché qualcun altro perde (i poveri). A dire il vero, nel rapporto di Catricalà nulla è stato detto contro il cattivo per eccellenza: il “monopolista di mercato”. Mancando il terribile Scrooge, il presidente dell’Antitrust ha però dato enorme spazio ai “cartelli”, anche stavolta accusati di ogni nefandezza. Nell’immaginario collettivo, i cartelli non riscuotono alcun favore. Se perfino Adam Smith è arrivato a sostenere che un poco della nostra libertà è in pericolo quando imprenditori del medesimo settore si scambiano opinioni, non ci si può stupire se l’uomo della strada continua a temere i cartelli in quanto tali: senza distinguere in alcun modo l’uno dall’altro. Bene però farebbe l’Antitrust ad assumere un diverso atteggiamento. Bisogna infatti tenere presente che vi sono cartelli immaginari (1), segreti, quindi non dimostrati né dimostrabili (2), di mercato (3) e legali (4). Poiché si tratta di realtà assai diverse, andrebbero essere giudicate differentemente.Tipicamente, possiamo definire immaginario il cartello che ossessiona i cospirativisti di vario colore, persuasi che dietro ad ogni avvenimento (fosse anche un aumento dei prezzi) ci sia sempre la volontà di qualche piccolo gruppo di malintenzionati. Se le cose non vanno come dovrebbero, è insomma per colpa di un ordito che vede protagonisti alcuni massoni, cattolici o ebrei. Peccato che manchino le prove, e che quindi si tratti di semplice aria fritta. C’è poi il cartello segreto, ma in realtà siamo ancora nel primo caso. A quanto pare, un cartello del genere secondo Catricalà potrebbe essere quello stretto dai fornai, a suo giudizio protagonisti di intese restrittive: «particolarmente odiose quando riguardano beni essenziali come il pane». Per il responsabile dell’Antitrust tale «lotta alle intese segrete può essere rafforzata con nuove metodologie», ma forse egli dovrebbe chiedersi che senso ha combattere intese che - essendo perfino ai suoi occhi segrete e tali rimanendo - esistono solo nel mondo delle supposizioni. Prima Catricalà dovrebbe portare uno straccio di prova in merito a questo accordo cospirativo tra migliaia e migliaia di soggetti: un’intesa che, con ironia, Rosamaria Bitetti ebbe a definire «il cartello della michetta». In realtà, è semplicemente surreale che un settore talmente frazionato possa realizzare una qualche intesa
L’
zione del principio di sussidiarietà ed anche la visione laica occidentale considera il mercato come una forma di garanzia rispetto ad ogni integralismo o estremismo». Bella conclusione, ma non molto suggestiva per un Berlusconi provato dall’improvvisa scoperta di essere solo un monopolista fra i tanti.
paesi anglosassoni si fa più attenzione a questi temi. Anche perché le associazioni dei consumatori vigilano stabilmente sul problema dei costi d’uscita. E quindi esercitano un funzione che in qualche modo riesce a contenerli. È vero che adesso le banche italiane hanno annunciato una riduzione di questa voce di spesa, ma bisogna verificare la veridicità della proposta.
«Le prime evidenze raccolte nell’indagine conoscitiva sulla governance delle imprese bancarie e assicurative danno conto di un’amplissima diffusione dei legami tra concorrenti - ha detto ieri Catricalà C’è stata un’impresa con ben 13 persone (Generali, ndr.) e un altra con 10 (Mediobanca, ndr.) che siedono anche in organi di governance di altre società dello stesso settore». Praticamente una specie di sistema Moggi applicato al mondo degli affari
di cartello: la quale è sempre fragile ed esposta a saltare quando il numero è molto piccolo, e che quindi non è neppure immaginabile dinanzi a numeri tanto elevati. Perché se vi fossero 10mila fornai che sottoscrivono un accordo per alzare il prezzo del pane, sarebbe facilissimo per chiunque entrare in tale mercato, offrire un prezzo più contenuto e acquisire la quasi totalità dei clienti. Quanto si è detto per il pane vale allo stesso modo per le assicurazioni, dato che pure questo settore è composto da un numero molto alto di imprese, nessuna delle quali controlla una percentuale significativa del mercato. La conseguenza è che anche qui è di fatto impossibile che si assista ad un’azione coordinata in grado di alzare congiuntamente i prezzi, tenere bassa la qualità e non offrire altra scelta ai consumatori. Ma immaginiamo pure (perché no?) che in qualche ambito un cartello ci sia. È davvero assurdo sostenere che questo possa bastare a giustificare le accuse dell’Antitrust. In moltissimi casi, in effetti, l’accordo tra produttori è assolutamente utile ed è anzi necessario al buon funzionamento del mercato. Basti pensare all’esigenza di fissare standard comuni: in modo tale, ad esempio, che quando il consumatore ha un pc di un tipo e il mouse di un altro non vi siano problemi di incompatibilità. Come spesso è necessario che due imprese si fondano (per sfruttare i benefici delle economie di scala), egualmente può essere utile che si accordino e cooperino. Anche il fatto che alcune imprese alzino concordemente i prezzi è un’azione che non dovrebbe essere avversata in un’economia libera, la quale riconosca la facoltà delle imprese di offrire prezzi liberamente e accetti davvero il principio della libertà associativa. Quando allora il cartello è illegittimo e da avversarsi? I cartelli vanno combattuti ogni qual volta esso sono tali perché lo Stato sbarra la strada alla concorrenza, ed è questo il caso dei settori egemonizzati dalle imprese pubbliche (basti pensare ai servizi pubblici locali) o anche altamente regolamentati. Più che ostacolare le imprese nella loro libera iniziativa, allora, l’Antitrust dovrebbe prendere di mira i molti ostacoli sulla strada di chi vuole entrare in concorrenza con banche, petrolieri, compagnie telefoniche, imprese energetiche ecc. L’Antitrust potrebbe fare molto, e bene, per questo Paese se sfruttasse i propri poteri e anche la sua moral suasion al fine di far saltare lo statalismo che in vario modo ingessa l’economia italiana. Senza però limitare l’iniziativa privata e la libertà associativa, e quindi senza prendere di petto i cartelli che emergono in un mercato aperto e competitivo. E ancor meglio farebbe il governo a recidere i problemi alla radice: liberalizzando sistema bancario e settore energetico, invece che indossare i ridicoli panni di un Robin Hood capace solo di competere con lo sceriffo di Nottingham quale esattore dei ricchi e, di conseguenza, anche dei loro clienti.
Il governo dovrebbe recidere i problemi alla radice: liberalizzando banche ed energia, invece che indossare i ridicoli panni di Robin Hood
politica
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Il salva-premier passa al Senato. Grazie alla mediazione del Quirinale per ora tace Palazzo dei Marescialli. Ma i magistrati potrebbero esternare quando il testo sarà alla Camera
La tregua armata del Csm di Riccardo Paradisi
ROMA. Tregua armata: forse è questa la formula più appropriata per descrivere il rapporto di queste ore tra il Csm e il governo sulle norme blocca processi e salva premier. Il decreto sulla sicurezza è passato ieri al senato con 166 voti favorevoli, 123 contrari (e l’astensione di Francesco Cossiga) senza infatti che vi sia stato l’atteso parere dell’organo di autogoverno della magistratura sulla sua costituzionalità. Un intervento che il Csm aveva annunciato per ieri mattina, alla luce del testo di legge del governo. Niente invece, silenzio. Perchè?
Ad aver fermato, per ora, l’inziativa del settore del Csm più oltranzista sarebbe stata la faticosa mediazione di
Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale, il cui obiettivo è quello di evitare a tutti i costi un conflitto istituzionale che trascinerebbe inevitabilmente nella contesa politica proprio il Presidente della Repubblica. Che nel caso di un parere di incostituzionalità del Csm sarebbe costretto a pronunciarsi nel merito: contraddicendo l’organo che presiede nel caso di una bocciatura del suo parere oppure, in caso di sottoscrizione, dando l’impressione di aver avallato un suo diktat. Una partita molto delicata insomma che vede coinvolti i maggiori attori politici e istituzionali del Paese. Partita che è solo alle sue battute iniziali. I veri sviluppi infatti si vedranno solo
Il presidente dell’Anm
«Non vogliamo dettare l’agenda alla politica, ma così crolla l’intero sistema» di Valentina Meliadò
ROMA. «Noi chiediamo alla politica una riflessione sulla giustizia. Ma non smetteremo mai di far sentire la nostra voce. proprio perché vogliamo il miglioramento del sistema». Abbiamo chiesto a Luca Palamara, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, un’ampia analisi sullo stato generale della giustizia italiana. Partiamo dall’attualità: con gli ultimi provvedimenti presi dal governo si è ricreata una situazione
quando il provvedimento passerà alla Camera per essere definitivamente trasformato in legge. Perchè è in questo passaggio che il Csm potrebbe pronunciarsi rilevando magari l’incostituzionalità della norma subito dopo la sua approvazione e costringendo il capo dello Stato a prendere una posizione. Un impasse che, si diceva, il Quirinale vuole a tutti i costi evitare incoraggiando un confronto più costruttivo, in vista di un compromesso, tra governo, opposizione e Csm. L’Associazione nazionale magistrati, cogliendo il segnale, propone una sua versione di compromesso: il governo ritiri la norma salva processi e si imbocchi tutti assieme una corsia preferenziale per l’approvazione di un lodo
di tensione tra politica e magistratura, siamo di nuovo allo scontro? Si tratta di scelte che spettano alla politica rispetto alle quali l’Anm ha ritenuto doveroso esprimere valutazioni di carattere tecnico circa le conseguenze che una norma come la sospensione dei processi può determinare sul funzionamento del processo stesso. Le nostre valutazioni sono contenute in apposite schede a disposizione di chiunque e nelle quali vengono sviluppate non considerazioni di carattere politico ma considerazioni che in qualità di operatori del diritto riteniamo di dover fare in quanto abbiamo a cuore il tema che maggiormente interessa i cittadini: quello cioè che il sistema giustizia funzioni bene. Ma sono 15 anni che è in atto lo scontro tra politica e magistratura. Come ripeto le nostre valutazioni sono di carattere tecnico. Bisogna separare ciò che appartiene al linguaggio giornalistico da ciò che appartiene al linguaggio dei magistrati, che non pongono veti alla politica ma si preoccupano solo di far funzionare il sistema. Per questo riteniamo che la norma del blocco dei processi per fatti commessi entro il 30 giugno del 2002 rischi di creare ulteriori e gravi disfunzioni al processo penale che già versa in
una situazione di estrema difficoltà. Presidente, così com’è strutturata oggi, la magistratura italiana garantisce una vera indipendenza o lascia ampi margini di arbitrio? Noi rivendichiamo con orgoglio i valori contenuti nella carta costituzionale, che sono quelli dell’autonomia e dell’indipendenza, e ovviamente ci riconosciamo nel monito del Capo dello Stato, che nel recente incontro con gli uditori giudiziari ha ribadito che tra i valori e i principi irrinunciabili vi sono non solo quelli contenuti nella prima parte della Costituzione, ma anche quelli che costituiscono il titolo IV della seconda parte. Noi oggi riteniamo fondamentale che si ponga al centro dell’attenzione il funzionamento del processo, perché la giustizia così come strutturata oggi rischia di essere poco credibile in quanto versiamo in una crisi di funzionalità del sistema. Lei ha detto che i magistrati sono soggetti solo alla legge, ma le leggi, se mi passa il termine, sono gestite dai magistrati stessi. Non si rischia l’autoreferenzialità? E’ il contrario. La libera interpretazione delle leggi è una garanzia a tutela dei cittadini, perché è grazie alla interpretazione che il giudice può dare una risposta alla continua richiesta che il sistema giustizia è chiamato a fronteggiare. Se il giudice non avesse la possibilità di interpretare le norme non potrebbe dare soddi-
Maccanico riveduto e corretto a tutela della alte cariche dello stato. Ma la maggioranza non sembra avere nessuna intenzione di farsi dettare la
sfazione a tutti i diritti perché sarebbe ancorato ad una rigida indicazione, al vincolo posto dal Legislatore. Quindi è giusto che il Parlamento o il ministero di Giustizia non abbiano alcun potere di controllo sull’operato della magistratura? È proprio questo che rivendichiamo nei rapporti tra giudiziario ed esecutivo, che vengano mantenuti fermi i principi costituzionali, a garanzia non di un privilegio della magistratura, ma dell’autonomia e dell’indipendenza, che in uno Stato di diritto sono una garanzia per la magistratura ma soprattutto per i cittadini. A proposito di rapporto tra potere legislativo e giudiziario, è giusto che la magistratura critichi e – talvolta – scioperi in opposizione alle leggi votate in Parlamento, o decise da un governo democraticamente eletto? Secondo alcuni questa è un’invasione di campo, lei che ne pensa? La magistratura, ovviamente, è rispettosa di tutte le scelte del Parlamento, perché quando parliamo di autonomia e indipendenza della magistratura ci riferiamo ad un reciproco rispetto tra le istituzioni che esistono all’interno di un ordinamento. Il potere legislativo, esecutivo e giudiziario devono coesistere e rispettarsi perché questo è il presupposto per una reciproca legittimazione all’interno di uno Stato di diritto. Quindi perché la magistratura critica o sciopera? La magistratura non critica, non pone veti al Parlamento, che è libero di fare le sue scelte. Abbiamo avuto degli in-
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cedere sulla ricusazione del presidente del collegio giudicante, accusata dagli avvocati di Berlusconi di conflitto di interessi per avere criticato pubblicamente il Premier nel ’96 proprio sulla politica giudiziaria.
La stessa riserva che viene mossa verso altri tre membri della commissione del Csm – Pepino, Roia e Freda – che dovrebbero impostare una pratica a sua tutela. Gli stessi che ieri hanno insistito sulla necessità che la prima commissione avanzi una richiesta di
sione che ha cominciato nel pomeriggio di ieri la discussione sul testo del decreto legge così come è stato modificato dal Senato. I lavori continueranno in seduta straordinaria oggi pomeriggio e se necessario anche nei giorni successivi. Al termine della discussione generale sarà proposta una risoluzione da sottoporre alla votazione dell’assemblea plenaria dell’orga-
L’intervento del Colle finora è riuscito ad ottenere solo più discrezione da parte del Csm. Ancora lontano il compromesso
linea dall’Anm: non ci dicano i magistrati che cosa dobbiamo fare in Parlamento è la risposta. Al massimo il governo potrebbe mette-
re mano a qualche ritocco tecnico della norma salva processi ma niente di essenziale. E per quanto riguarda il processo Mills, la linea è quella di pro-
contri con il ministro di Giustizia nei quali abbiamo indicato delle priorità per il funzionamento del processo nel settore penale, civile e nell’organizzazione giudiziaria, ma questo ovviamente non ci esonera dal dover fare delle osservazioni – questo è il termine giusto da usare – in merito a provvedimenti che possono avere un impatto sul sistema giudiziario, come ad esempio il reato di immigrazione clandestina. Abbiamo detto che il sistema non è in grado di reggerlo, abbiamo fatto delle osservazioni tecniche. Per quanto riguarda gli scioperi, questi si sono verificati soprattutto in un periodo ben determinato, nel quale l’esecutivo si è concentrato quasi esclusivamente su una riforma della magistratura anziché del processo e della giustizia (riforma Castelli), e in questo caso la magistratura associata ha ritenuto, proprio perché quella riforma dell’ordinamento giudiziario veniva considerata “punitiva” nei suoi confronti, di adottare come forma di protesta quella dello sciopero, che poi ha visto pressoché unanimi tutti i magistrati. Noi riteniamo superata quella fase, auspichiamo che la politica si occupi non di una riforma della magistratura ma del processo, che è quello che interessa i cittadini. Si dice che la polizia arresta e i giudici scarcerano, perché le maglie delle leggi in Italia sono molto larghe e la libertà dei magistrati nell’applicazione e nell’interpretazione è molto ampia. Eccessiva forse? Bisogna calarsi nella realtà pratica, perché per avere la certezza della pena in
primo luogo dobbiamo avere un sistema processuale che funziona. Quando il capo della polizia ne ha parlato ha posto l’accento proprio sulla funzionalità del sistema, che è il primo aspetto che deve interessare i cittadini, perché se il processo funziona possiamo essere in grado di soddisfare e realizzare l’esigenza di certezza della pena, cioè avere una sentenza che in tempi ragionevoli passi in giudicato e quindi possa essere eseguita. Il problema dell’interpretazione delle norme riguarda casi che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica come le scarcerazioni per decorrenza dei termini, la guida in stato di ebbrezza o il rapinatore che viene messo in libertà e commette un reato dello stesso genere. Questi sono casi in cui è stato riproposto ed enfatizzato il cosiddetto errore giudiziario, ma la garanzia della libertà di interpretazione non deve essere messa in discussione in occasione dell’errore giudiziario. È chiaro che può capitare che un magistrato sbagli, siamo 9000, e siamo consapevoli che l’autonomia e l’indipendenza debbano avere come corollario l’assunzione di responsabilità delle decisioni, ma è necessario valutare il caso concreto, i casi singoli in tutti i loro aspetti ferma restando la possibilità di critica anche pubblica dei provvedimenti. Ovviamente i magistrati possono sbagliare, ma di fronte a casi di vera e propria imperizia che cosa rischiano? Il sistema è cambiato, vogliamo affrontare quella che abbiamo chiamato la sfida della modernità. Oggi si pone molto l’accento sul cosiddetto merito e
tutela dei magistrati dopo la lettera di Berlusconi al presidente del Senato Renato Schifani. Insomma il Csm dovrebbe decidere se è l’esternazione in sè a ledere il prestigio della magistratura e non solo di quella milanese. Una richiesta paradossale per il portavoce di Forza Italia Daniele Capezzone visto che «sarebbe doveroso che i tre magistrati si astenessero, sulle materie oggetto del conflitto, dal partecipare ulteriormente ai lavori della prima e della sesta commissione del Consiglio». Commis-
ci sono due strumenti che lo certificano: la temporaneità degli incarichi direttivi e le valutazioni di professionalità, che sono quadriennali, hanno importanza anche per il progresso della carriera e sono la cartina di tornasole per superare proprio certi discorsi. Oggi si tende, anche con il lavoro che è chiamato a fare il CSM, a valutare approfonditamente il merito, cioè come ha lavorato un magistrato, il quale non deve aver paura di sottoporsi a controlli, perché il modello al quale bisogna tendere è quello del magistrato preparato e qualificato, e che soprattutto proceda all’applicazione delle regole in modo imparziale e che si ispiri ai principi di probità e professionalità. E’chiaro che la violazione di questi doveri può comportare una responsabilità disciplinare, che deve però essere attentamente valutata da un giudice preparato e qualificato. La Costituzione non vi impedisce di esprimere opinioni personali, di iscrivervi ad associazioni o di manifestare, però questo talvolta viene percepito come una lesione di credibilità dell’indipendenza della magistratura. Che ne pensa? I magistrati si legittimano con il lavoro, nelle aule di giustizia, con i provvedimenti e le sentenze. Esprimere opinioni come un cittadino qualunque deve essere ammesso perché è una libertà costituzionale; ciò che è necessario, ripeto, è l’imparzialità nello svolgimento della funzione. Voi auspicate, giustamente, un dialogo con l’esecutivo, ma nel dialogo tra politica e magistratura
no della magistratura da trasmettere al ministro della Giustizia, «in modo che possa essere utile al dibattito parlamentare». Nessuna anticipazione per ora sul parere che potrà scaturire dalla commissione ma quel riferimento all’utilità per il dibattito parlamentare sta già facendo sicuramente preoccupare qualcuno.
cosa siete disposti a concedere? Accettereste mai la separazione delle carriere? No. Il dialogo è per tutto ciò che attiene al miglioramento del funzionamento della giustizia, e da questo punto di vista ci sarà ampia collaborazione, ma ribadiamo l’unità delle carriere e il rifiuto di un organo disciplinare esterno al Csm. Qual è la causa della lunghezza dei processi? Qual è il problema vero del sistema? La mancanza di fondi? Di organico? Cosa? Il problema principale che scontiamo è il fatto che negli ultimi anni non ci sono state riforme organiche funzionali al miglioramento del sistema. Le cause della lunghezza dei processi sono molteplici, e noi abbiamo individuato delle priorità, come ad esempio, nel sistema penale, la necessità di eliminare le cosiddette notificazioni inutili, che fanno perdere tempo, i processi contro i contumaci e gli irreperibili – persone che non troveremo mai – oppure il sistema delle impugnazioni, il fatto che tutto viene impugnato. Per quel che riguarda il processo civile c’è il problema del numero enorme dei riti, l’organizzazione giudiziaria, tribunali che ormai per la loro conformazione geografica rischiano di essere inutili, oltre ovviamente alle carenze strutturali, perché è aumentata la domanda di giustizia e il rischio è che il giudice sia l’anello debole della catena che non è in grado di fronteggiare il sistema. I magistrati sanno che questo crea una situazione di disagio e per primi ne soffrono perché vogliono fare molto di più, ma vogliono anche essere messi nella condizione di poterlo fare.
politica
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Pasquino e Feltrin giudicano l’iniziativa dell’ex premier ROMA. Basterebbe il numero. «Centodieci parlamentari sono tanti», premette Gianfranco Pasquino, che accoglie la nascita di ReD con un ampio sospiro di sollievo. «Nonostante l’iniziativa sotto un segno preoccupante: Massimo D’Alema non mi ha invitato». Il politologo bolognese non scherza. «Altro che, lo scriva che l’assenza del sottoscritto è grave». Ma appunto la disattenzione dell’ex ministro degli Esteri non basta a far cambiare idea a Pasquino. «Finalmente ci si rende conto che non ci si può definire solo democratici, che deve essere chiara anche la matrice riformista. L’acronimo è riuscitissimo, richiama l’idea che non si è del tutto sbiaditi, pallidi, evanescenti». Il colore rosso è dunque più di un richiamo, quasi una rivendicazione. Ma con quale prospettiva? È davvero alla viste una decomposizione del Pd? Non è detto, non è
La nave non va, ecco Red la scialuppa di Errico Novi
cultura politica». Può darsi sia così. E però se è vero c’è il rischio che l’associazione che si riferisce a Italianieuropei fagociti addirittura il così destrutturato partito in cui nasce. Il professore bolognese capovolge il discorso. «Si dà per scontato che il Pd debba avere regole e occasioni di discussione interna, giusto? Bene, evidentemente quello che sarà prodotto da ReD sarà importato in qualche modo nell’assemblea. Diciamo che la nuova associazione sarà una GIANFRANCO spina, meglio PASQUINO una spinona nel «È una buona idea, fianco». Divenè giusto anche usare terà insomma quell’acronimo uno stimolo per avvertire che provvidenziale non si è del tutto per alimentasbiaditi. Tenere alti re quella i valori riformisti è elaborazioindispensabile. Con ne identitala chiarezza delle ria che finoidentità sarà anche ra si è rivepiù proficuo lata quasi il dialogo con l’Udc»
questa almeno l’analisi di chi lamenta soprattutto una scarsa rappresentazione dell’identità socialdemocratica all’interno del Pd. Poi di sfumature nei comportamenti politici ce ne sono tante, lo ricorda uno come Paolo Feltrin che nella Facoltà di Scienze politiche di Trieste è abituato a guardare i fatti anche sotto un profilo sociologico: «Le correnti servono anche a immaginare catastrofi, a non lasciarsi trovare impreparati nel caso in cui si verifichino», dice, riferendosi all’eventuale liquefazione del nuovo partito. Ma intanto nella conferenza stampa convocata ieri al cinema Farnese di Roma, la prima cosa che il presidente di Red ha detto è che «non si tratta di una corrente».
E allora di che si tratta? Di una svolta necessaria, spiega Pasquino: «Qualsiasi associazione, rete o luogo di dibattito è assolutamente vitale per il Pd, che non ha nulla del genere e che infatti in questi 8-10 mesi non è stato assolutamente in grado di produrre una
afona. Vorrà dire avere una dialettica interna forte, chissà quanto sostenibile per la il giovane partito veltroniano.
Per il professore bolognese «un luogo di incontro e di dibattito è vitale, visto che il Pd non ne ha». Lo studioso triestino: «Se il partito naufraga, sopravvive almeno la corrente» Certo un rafforzamento della componente socialdemocratica, rifomista, potrebbe produrre anche un altro effetto: rendere più agevole la ricerca di un nuovo centrosinistra, di un’alleanza con l’Udc
fondata sul rispetto e sulla chiara distinzione delle rispettive culture politiche. Secondo Pasquino «è molto probabile che sia così: il dialogo probabilmente sarà difficilissimo, soprattutto se sui temi etici Casini difenderà le posizioni della Chiesa, ma è sempre meglio partire da posizioni chiaramente riconosciute. Solo in questo modo si può costruire un dignitoso compromesso, deve essere chiaro da dove si è partiti e dove si può arrivare. Invece finora è accaduto che i Ds hanno dovuto molto annacquare i valori laici, e l’idea di mutamento, per andare incontro ai cattolici democratici: questo però ha reso pallida l’azione del partito. Tenere alti i valori riformisti è indispensabile».
Il problema non è il coefficiente di rischio che s’impone al Pd. Il punto, dice Paolo Fel-
Tra gli iscritti volti storici del dalemismo ma anche qualche new entry
Identikit della nuova “cosa” di D’Alema ROMA. Il nome fa pensare ad un colore caro alla sinistra, il rosso, ma è solo l’acronimo di ”riformisti e democratici”. Sarà questa quindi l’anima dell’associazione ”ReD”, promossa da Massimo D’Alema e Paolo De Castro, e presentata ieri presso il cinema Farnese di Roma, uno dei locali più storici della Capitale. L’Associazione nasce nell’alveo della ”Fondazione Italianieuropei”, presieduta dall’ex ministro degli Esteri, da sempre impegnata nell’elaborazione culturale della sinistra riformista. Finora hanno aderito 110 parlamentari: volti storici del dalemismo, ma anche qualche new entry di provenienza eterodossa. Avere uno scranno in Parlamento comunque non è indispensabile per far parte di ReD. Può iscriversi chiunque: basta riempire un modulo e pagare
cinquanta euro se si hanno meno di trent’anni e cento per gli ’over’. Per i piu’ entusiasti e convinti c’e’ anche la quota sostenitori, che prevede un versamento di cinquecento euro. Tra gli iscritti ex parlamentari come Paola Balducci dei Verdi, o Francesco Borgomeo (ex segretario personale di Mastella) e Nuccio Cusumano, l’ex senatore protagonista dello strappo con l’Udeur in occasione del voto di fiducia al governo Prodi. Significative le presenze di ex margheritini, come Gigi Meduri, Alberto Maritati, oltre al presidente, l’ex ministro Paolo De Castro. Non ci sono ancora invece Nicodemo Oliverio, già responsabile organizzazione della Margherita e fedelissimo di Marini e Lino Duilio. Presente anche il membro del Csm Vincenzo Siniscalchi.
trin, è «la necessità di sistema: quando non c’è un partito si apre un vuoto e deve pure esserci qualcosa che va a riempirlo. Siccome il Partito democratico non c’è, ed è così nei fatti visto che non ci si può ancora iscrivere, è inevitabile che arrivi qualcun altro a risolvere questa mancanza politica». E poi dov’è lo scandalo, si chiede lo studioso triestino, «giacché da sempre la dialettica interna ai partiti è fon-
PAOLO FELTRIN «Il partito non esiste, non ci si può neanche iscrivere: inevitabile che nasca qualcosa per colmare il vuoto. E poi c’è la precauzione in vista di un eventuale fallimento. Lo scandalo dov’è? Il dibattito interno si fonda sulle correnti» data sulle correnti, sulle fazioni, o sulle sezioni che di si voglia?». C’è appunto il rischio che una struttura organizzata come ReD si riveli più organizzata e quindi ”pesante” del partito di cui fa parte. Feltrin sdrammatizza, ribadisce che «non esiste vita di partito senza il pluralismo interno, il solo pensare che non debba esserci dibattito è come pensare a un non-partito. E ricorda che ci sono anche «Arel, i popolari, persino una rappresentanza interna dei socialisti». Se una cosa del genere la fa D’Alema «è solo mediaticamente più visibile». Soprattutto, ReD farà il suo mestiere di corrente (anche se ieri De Castro ha detto che si tratta di «un momento permanente di dibattito, senza il retropensiero di dover mettere parola sulla definizione del gruppo dirigente»; sì, ma le ambizioni di Gianni Cuperlo dove le mettiamo?). Feltrin continua a farla semplice e ricorda che le componenti «servono a discutere, a trovare qualche punto di equilibrio o mediazione». Finché non guarda le cose da tutt’altra angolatura e ricorda che queste iniziative nascono appunto anche in vista di eventuali catastrofi: «Se il Pd esplode c’è sempre la corrente: in politica, come in ogni altro ambito, vale un principio di precauzione. Evidentemente hanno pensato: intanto facciamo ReD, poi vediamo. Come dar loro torto? Tra fare la corrente e non farla cosa è meglio?». È questo forse il ronzio che rovina di più il sonno a Walter Veltroni.
politica
25 giugno 2008 • pagina 7
Il tasso programmato all’1,7 per cento fissato da Tremonti fa discutere ma non è poi così lontano dalla realtà
L’inflazione in un bicchier d’acqua di Gianfranco Polillo
d i a r i o ROMA . Sul tasso di inflazione pro-
g i o r n o
Veltroni: il ”buco” di Roma non esiste
grammatica, che Giulio Tremonti ha fissato all’1,7 per cento, si continua a discutere. Economisti e commentatori politici, per non parlare delle diverse forze sindacali, sono scesi in campo per difendere o affossare il principio. Pura astrazione teorica, una categoria morta. Un attentato all’autonomia contrattuale, dalle improbabili conseguenze: visto che, da mondo e mondo, i contratti si basano su parametri e valutazioni diversi. Una tempesta in un bicchier d’acqua, quindi? Fino ad un certo punto. Nei giorni scorsi è stato Carlo Azelio Ciampi a ricordare perché nacque quella sorta di “livella”. Era il 1993 e si trattava di impostare una politica dei redditi, che ponesse un freno alle rivendicazioni sindacali. A monte di quella decisione vi era stata una lunga elaborazione teorica, e portata avanti, con rigore, soprattutto da Ezio Tarantelli: l’economista ucciso dalle Br. Il ragionamento poggiava su due distinte premesse.
«Il ”buco” di Roma è una bufala mediatica, una speculazione politica». Lo ha dichiarato ieri il leader del Pd ed ex sindaco della Capitale Walter Veltroni. Che ha aggiunto: «Vi dimostrerò cifra per cifra come il debito di Roma sia cresciuto meno di altre città, e sia inferiore, per fare un esempio, a quello di Milano. A Roma il debito è cresciuto dal 2001 al 2007 del 14,4%, a Milano del 18,2%. Il debito per abitante a Roma è di 2540 euro, a Milano 2840. Se avevano bisogno di soldi - ha concluso - i nuovi ammistratori non avevano bisogno di fare tutto questo can can».
Vaticano: a Marcinkus accuse infamanti Accuse «infamanti senza fondamento nei confronti di monsignor Marcinkus, morto da tempo e impossibilitato a difendersi». Così il Vaticano ha risposto ieri agli articoli di giornali che tirano in ballo la responsabilità dell’ex presidente della Ior nel rapimento di Emanuela Orlandi. Nella nota diffusa, la Santa Sede afferma che «non si vuole in alcun modo interferire con i compiti della magistratura nella sua doverosa verifica di fatti e responsabilità. Ma allo stesso tempo non si può non esprimere un vivo rammarico per modi di informazione più debitori del sensazionalismo che alle esigenze dell’etica professionale”.
Rifiuti, Bertolaso: decreto secondo norme Ue
La prima era soprattutto di carattere psicologico. A livello di massa l’inflazione è soprattutto figlia delle aspettative. Se tutti sono convinti che i prezzi aumenteranno, si innesca una rincorsa rivolta ad anticipare il fenomeno, nella speranza di salvarsi, a danno dei vicini. Senonchè il sindacato, scontando anch’esso un futuro tasso di inflazione, calibrava su questa frontiera le proprie piattaforme contrattuali. Che molto spesso le aziende anticipavano, procedendo ad aumentare i prezzi proprio in vista del loro imminente avvio. Dai prezzi ai costi. Dai costi ai prezzi. La marea inflazionistica era così innescata e difficilmente poteva essere arrestata. Per farlo occorreva un atto di volontà, per così dire, extra mercato. Una dichiarazione di intendi. Fissiamo tutti insieme – questo era il ragionamento – il traguardo che vogliamo ottenere e geliamo quindi le attese. Il sindacato faceva la sua parte moderando le richieste, le imprese accettavano un self controllo sull’andamento dei prezzi, le amministrazioni pubbliche non ricorrevano ad aumenti nelle tariffe e nei prezzi amministrati. La concordia nazionale era, in qualche modo, ristabilita. Se la scommessa - perché di questo si trattava - dava esiti positivi, il guadagno era immediato per tutti coloro che avevano partecipato al patto. Se falliva, esistevano meccanismi di recupero per i settori più deboli. Il metodo escogitato - questa è la seconda premessa - voleva combat-
d e l
tere esclusivamente la cosiddetta “illusione monetaria”: l’aumento dei soli redditi nominali, ma non della loro effettiva capacità d’acquisto. Era pertanto impotente nel caso in cui gli aumenti dei prezzi fossero determinati da cause indipendenti dalla volontà dei soggetti partecipi alla trattativa. Era questo il caso dell’inflazione importata:
Il patto implicito di un tasso programmato del caro-vita non riguarda solo il costo del lavoro, impegna tutti: a partire dalla pubblica amministrazione derivante cioè dall’aumento dei prezzi dei prodotti internazionali, a partire dal petrolio. In questo caso, infatti, ogni possibile esorcismo diveniva inconcludente. E l’unica ricetta per far fronte alla maggiore bolletta estera era quella di lavorare di più e meglio. Vi sarebbe stato, in questo caso, una aumento del salario reale e quindi la possibilità di mantenere lo stesso livello dei consumi a prezzi variati. Questo è quindi il quadro storicoteorico di riferimento.Vale ancora?
In un certo senso sì. Il patto implicito nel target “inflazione programmata”non riguarda solo il costo del lavoro. Impegna tutti: a partire dalla pubblica amministrazione. Nella predisposizione dei relativi bilanci le spese programmate non potranno andare oltre la soglia indicata. Misura di carattere generale che rafforza la manovra di governo, rivolta a contenere, nello specifico, una serie di altre poste. Proprio con l’obiettivo di abbattere la spesa pubblica, specie di parte corrente, e quindi accelerare lungo la via del risanamento. È realistico tutto? Per rispondere bisogna scomporre il dato dell’inflazione italiana. Il suo valore è pari al 3,6 per cento.
Ma esso è una media tra quella importata e quella che, invece, trova origine nella dinamica del mercato interno. Nei primi tre mesi dell’anno, il deflatore - vale a dire l’aumento dei prezzi - delle importazioni è stato del 5,5 per cento. L’incremento dei prezzi della domanda interna è stato invece meno della metà: pari al 2,5 per cento. Quanto di questo aumento sia reale e quanto frutto dei meccanismi psicologici di cui abbiamo parlato è difficile da calcolare. Ma quel valore di riferimento relativo all’inflazione programmata, pari all’1,7 per cento, non è poi così lontano dal vero.
L’incontro tra il commissario Ue all’ambiente Stavros Dimas e il sottosegretario con delega ai rifiuti Guido Bertolaso ha sancito di nuovo la stretta collaborazione tra governo italiano e Commissione per trovare una soluzione alla situazione dei rifiuti in Campania. «Il decreto legge sui rifiuti accoglie le modifiche richieste dalla Commissione», ha spiegato ieri Bertolaso. Dimas si è detto sicuro che sarà trovata «una soluzione al problema». «Abbiamo avuto vari incontri e sono state emendate alcune misure che avevano destato preoccupazioni», ha affermato il commissario, sottolineando che «nessuno vuole creare un problema ambientale risolvendone un altro».
Maroni: ai soldati il controllo delle spiagge I militari potranno essere utilizzati per pattugliare i litorali in estate. Lo ha detto ieri il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intervenuto iin commissione Affari costituzionali del Senato. «Nel ddl sulla sicurezza - ha detto il ministro - c’è il reato di immigrazione clandestina. Lo arricchiremo con norme contro la prostituzione e la droga». Maroni ha anche annunciato che Silvio Berlusconi incontrerà venerdì prossimo in Libia Gheddafi per trovare un accordo politico sugli sbarchi di clandestini.
Nuovi media: nasce l’agenzia ”Inedita” Torna il gruppo di giovani giornalisti che oltre un anno fa aveva messo in piedi AsgMedia, la nuova agenzia di stampa italiana e di servizi giornalistici principalmente dedicata agli enti locali e alle istituzioni europee. Dopo uno stop di circa quattro mesi, durante i quali si era decretata la fine inaspettata dell’agenzia, la redazione (come promesso ad aprile scorso) scende di nuovo in campo con l’Agenzia “Inedita”, diretta dal giornalista Tommaso Della Longa (in foto). «La scommessa fatta a gennaio 2007 da un gruppo di giovani professionisti - spiegano i ragazzi dalla sede di via IV novembre a Roma - rimane dunque in piedi. Il gruppo di lavoro che l’ha portata avanti, infatti, ha messo a punto un nuovo progetto a più ampio respiro nazionale ed europeo». Le notizie dell’agenzia ”Inedita” saranno consultabili a breve agli indirizzi www.agenziainedita.it e www.agenziainedita.eu.
pensieri
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La conquista del Vecchio Continente sta avvenendo sotto i nostri occhi
Il grande caos europeo di Luca Volontè on è particolarmente popolare nel nostro Paese, soprattutto negli ultimi decenni, immaginare che il compito della politica sia anche quello di prendere atto della complessità globale dei fenomeni che stanno attraversando la società. Dovrebbe partire da una analisi sufficiente della realtà, ma la politica italiana sfugge a tale pietra d’inciampo e, al pari della società, si assesta a “consumare”freneticamente tutto e subito, beandosi dell’idea balzana che delle generazioni future è meglio infischiarsene. Si potrebbe parlare dell’Europa anchilosata o dello splendore della crescita cinese, invece vorrei spingere lo sguardo (alzandolo di quel poco di cui sono capace) su come le speculazioni finanziarie stiano creando nuovi e preoccupanti protagonisti, i più assolutamente autoritari. Semplifico a partire dalla folle contrattazione che ha fatto schizzare il prezzo del barile di petrolio a 140 dollari con prospettive di ulteriore crescita.
N
Certamente, una interpretazione è quella che vede i fondi sul lastrico per speculazioni immobiliari e finanziari degli ultimi anni, in azione di “recupero crediti” a scapito del prezzo dell’oro nero, del grano e dunque delle tasche dei cittadini di ogni nazione. Ma c’è da chiedersi in quali tasche finiscano i soldi. Arabia e paesi islamici produttori, non propriamente tolleranti e demo-
Aveva ragione Wojtyla nel mettere in guardia dai pericoli del secolarismo senza valori cratici, i produttori centroamericani capeggiati da Chavez, l’oligarchia russa e la Cina, dove una volta pagati gli stipendi dei militari non esistono altri problemi di Stato. L’Europa è fuori e per questo pericolo l’asse franco-tedesco si andrà via via ricostruendo. L’Africa esploderà. Anzi, solo un cieco non riesce a leggere quanto l’immigrazione abbia acquisito, in particolare nell’ultimo
tutto ciò che sarà di valore e acquistabile in occidente, in Europa e in Italia in particolare, sarà preso e digerito. Aveva molte ragioni Giovanni Paolo II ad esaltare la libertà raggiunta nel polmone orientale europeo, l’aveva anche nel metter in guardia l’Europa dai pericoli del liberalismo e secolarismo consumistico, senza valori né virtù. Un nuovo pericolo, una vera e propria conquista dell’insignificante Europa sta avvenendo sotto i nostri occhi. Sono questi i mesi e gli anni in cui lanciare una nuova alleanza tra politica e cittadini, un grande sforzo comune per mantenere un minimo di aspettativa nel futuro dei nostri figli.Vale per l’Italia, vale per l’intera Europa. In questo senso, la pur ricca manovra economica, anche se contiene aspetti postivi, non è adeguata alla sfida che ci troviamo di fronte. Così come nella pantomima del Trattato di Lisbona per l’Europa, l’assoluta assenza di efficacia sostanziale dell’Unione a 27, un circolo di vecchie signore alle
quali si porta ancora rispetto per la loro avvenenza nel passato e che pagano profumatamente per sedere al tavolo, talvolta solo per assistere ai giochi altrui sulla propria pelle. Il coraggioso Tremonti ci ha provato nell’ultimo G8 a picchiare il pugno sul tavolino e quasi gli han tagliato la mano. Più coraggio e più lealtà. Vale per il nostro Paese e per ciò che resta dell’Europa. Dipende dalle singole scelte concrete della politica, ma anche per ciascuno di noi esiste una possibilità e una alternativa all’emigrazione dei nostri figli o alla loro schiavitù se rimangono qui, la responsabilità e la speranza che animarono i Romani nello scontro con l’onnipotenza di Cartagine. Audacia e lotta per ciò che sta più a cuore. Su questo la politica italiana è in ritardo. Francamente, in queste condizioni e per responsabilità di tutti i partiti, all’Italia nessuno sta dando la possibilità di rialzarsi. Anzi, avanti di questo passo, saremo noi a remare nelle “galere”moderne.
Molte priorità dell’esecutivo sembrano rispecchiare i temi cari alle posizioni centriste
ome ha rilevato Casini nel corso dell’ultima riunione del Consiglio Nazionale, la scelta dei centristi di correre soli nelle elezioni politiche di aprile non è stata determinata dall’intento di costituire un terzo polo, bensì da circostanze nuove ed impreviste indotte dalle scelte dell’ultima ora degli ex alleati del centrodestra (costituzione del PdL senza nostro apporto e successiva proposta ultimativa e non negoziabile di adesione dell’Udc alle sue liste, pena nostra esclusione dalla coalizione). La scelta di partecipare alle elezioni schierati a fianco dei vecchi alleati era stata infatti già manifestata fin dal momento della conclusione anticipata della legislatura e ribadita esplicitamente dalla Direzione Nazionale ai primi di febbraio. Solo pochi giorni dopo è sopraggiunta inattesa la predetta proposta di Berlusconi e Fini che ha necessariamente indotto nei centristi una diversa strategia elettorale. L’Udc si è caratterizzata fin dalla sua fondazione per la costante vocazione identitaria, rispetto a temi e valori della tradizione cattolico-democratica. Non sarebbe stato decoroso né coerente entrare nel PdL da parenti poveri arrivati per ultimi e senza una forma di
C
decennio, il doppio significato di “fuga”e invasione. Fuga dalla disperazione e invasione di un continente stanco e vuoto, con pochi nati e ancor meno valori, come è l’Europa. Chiunque dei nostri uomini d’affari intraprenda una trattativa con compagnie russe, cinesi o arabe (nell’accezione islamica del termine), c’è l’enorme stupore della “squadra” di esperti angloamericani, i vagoni di liquidità e la sensazione strana, a fine riunione, di non esser riusciti a entrare in sintonia con i “titolari”. Sono quegli stessi titolari, privati o società pubbliche o Stati che attraverso i loro “fondi di investimento”stanno acquistando quote di società multinazionali e società di consulenza internazionali. I soldi di questi “sovrani”, monarchie talvolta di fatto, vengono dalle tasche dei cittadini europei e delle altre nazioni costrette a subire gli aumenti sconsiderati di questi anni. Di più. Nei prossimi anni
confronto, tenendo conto che il governo ha iniziato la sua attività affrontando con decisione molti dei temi da noi ritenuti prioritari per arrestare il degrado del Paese e favorire le posizioni più deboli, anche attraverso misure di redistribuzione e di equità sociale. Diverse priorità indicate nelle ultime settimane dall’esecutivo sembrano rispecchiare, in larga misura, i temi caratterizzanti le posizioni centriste. Si può discutere e talvolta anche dissentire su alcune particolari ricette e soluzioni, ma sul piano sociale ed economico il percorso appare sostanzialmente aderente alle attese di quell’opinione pubblica che ci siamo impegnati a rappresentare. Questa convergenza non deve ritenersi casuale: è effetto naturale di quelle affinità che hanno giustificato in passato l’alleanza e che, soltanto nel febbraio scorso, spingevano ancora la Direzione Udc all’opzione di centrodestra. Se, come afferma Casini, il suo intento non era il terzo polo e se, comunque, l’obiettivo finale non è l’isolamento, una prudente ripresa del dialogo, lasciando aperta l’opzione di future collaborazioni, si rende a questo punto necessaria. Ritengo che questo tema debba essere posto all’attenzione della Costituente ed esaminato con la dovuta attenzione, affinché il nuovo soggetto politico centrista possa nascere su basi di chiarezza, indicando un percorso preciso che offra rinnovate motivazioni a elettori e simpatizzanti.
Udc e PdL: il dialogo possibile di Alessandro Forlani esplicito riconoscimento di questo patrimonio culturale e di una soggettività negoziale all’interno della nuova formazione politica. In quel difficile e frettoloso contesto, la corsa solitaria non trovava alternative accettabili. Emerge, dunque, con chiarezza, dalle stesse posizioni assunte nel Consiglio Nazionale del 9 giugno, che l’alleanza non è stata rifiutata in virtù di un dissenso ideale o programmatico, relativo ai contenuti della proposta di governo del PdL. Non si può quindi parlare di equidistanza rispetto alle due grandi coalizioni. Diversa è la posizione della Rosa Bianca che invece ha evidenziato fin dagli inizi la chiusura verso la destra. Questo è il tema controverso sul quale rischia a mio giudizio di incagliarsi la nascente Costituente. Occorre interrogarsi sul ruolo di una forza di centro
in questo particolare passaggio politico, tenendo conto dello scenario, direi radicalmente innovativo, che si aperto in virtù dei risultati elettorali. Si è operata una notevole semplificazione, con la perdita della rappresentanza parlamentare da parte di alcuni partiti. È rimasto però il centro, l’Udc, la sola formazione nazionale alternativa ai due poli che abbia superato lo sbarramento della Camera, attestandosi quasi al 6 per cento, nonostante la tenaglia indotta dal “voto utile”. Benché sia collocato all’opposizione il partito conserva tutti gli strumenti istituzionali, mediatici e organizzativi necessari per rappresentare dignitosamente una cultura e uno stile di azione politica. Il sostegno di qualificate espressioni del mondo cattolico e solidaristico, delle categorie produttive, di un ampio settore della cooperazione e del sindacato gli consentiranno di fare la sua parte nelle battaglie politiche del momento. Su questo terreno dovrà svilupparsi il
Se non vogliamo il terzo polo o l’isolamento, una prudente ripresa dei rapporti è necessaria
&
parole
ì, d’accordo, la legge 194, quella che consente l’aborto in Italia, è stata ed è al centro di polemiche incandescenti e persino emblema di un coraggioso e forte richiamo su di una politica a misura d’uomo. Uomo, donna uguale persona: sorgente e fine ultimo di diritti inalienabili. Quanto danno il politicamente corretto ha fatto negli anni, quanta incultura aggressiva, quanta superbia incivile, quanta e quale congrega di buonisti senza cuore, si è diffusa In Italia ed in Europa. Certi tabù di sinistra radical-chic non si toccano. La 194 non si può migliorare. Semplicemente non si può toccare, non ne si può parlare. Ma nel “Silenzio degli Innocenti” c’è un grido di dolore ancora più profondo, grande e diffuso. Un grido soffocato dal pianto di madri, padri, figli e fratelli. Non è retorica. E’ fotografia, come suol dirsi, “della realtà”: il grido dei malati di mente e delle loro famiglie. E’ pauroso e straziante. Il grido dei disadattati mentali e dei barboni che brontolano, cantano o concionano sulle nostre strade. Il grido delle madri, cui solo oggi e di soppiatto, si riconosce la depressione conseguente al parto, condita da difficoltà crescenti e solitudini abissali. Il grido di chi si chiude in una stanza con un computer che poco alla volta sembra mangiargli l’anima. Ma la 180, la legge Basaglia, altro tabù feticcio della sinistra italiana, non si tocca. Dopo 30 anni, dopo millenni in termini di ricerca scientifica, la 180 non si tocca. E chi tenta di toccarla, colpito da quel grido di cui si è detto prima, sconvolta da lacrime e sangue di vite vissute da tanti, troppi uomini, donne, bambini, viene tendenzialmente denegato, emarginato, lasciato solo persino da chi, a sinistra come a destra, dice di pensarla esattamente allo stesso modo.
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mettesse mano al caos organizzato, che desse una speranza organica ed uniforme su tutto il territorio italiano e non solo in poche isole felici d’Italia.Venne a Roma a piedi da Milano, vestendo un saio francescano (era l’anno del Giubileo) e con un cartello in cui chiedeva pietà, speranza e vero amore per i malati più soli del mondo. Pover’uomo!
S
Questa è la cosa più strabiliante da testimoniare: i parenti dei malati di mente sono i più generosi, i più disponibili, i più eroici tra tutti coloro che hanno la sfortuna di avere una malattia in casa. Non vogliono assolutamente disfarsi del loro fardello. Vogliono solo cure vere, assistenza continua, comunità di accoglienza, anche solo diurne, anche solo a tempo. Loro da soli non hanno le forze e le capacità, anche perché a loro volta devono lavorare, con tempi certi ed un briciolo di serenità. Una legge seria che affronti i vari nodi è indispensabile a 30 anni dalla 180. La psichiatria dell’infanzia: qualcosa d’importante, nuovo ed eccezionalmente efficace, che si è sviluppata negli ultimi decenni non può più essere la cenerentola quando, come ci dice l’OMS, un bambino su 4 passa almeno un periodo di depressione e scompensi, specie oggi con il dramma di separazioni e divorzi. Equipe psico-sociopedagogiche nelle scuole servono ad evitare episodi di abuso, psicosi collettive, o vicende criptate tra le mura domestiche e le comunità. Cooperative sociali, centri territoriali d’accoglienza e formazione servono a fare uscire, spesso definitivamente, da compromessi nei bambini. In Italia di centri statali ce ne sono solo 5 o 6. Manca del tutto una rete organizzata regionale o sovraregionale di luoghi ed operatori. Manca il riconoscimento pieno di alcune sindromi dolorosamente in crescita come la depressione. Manca soprattutto il modo ed il dove per affrontare i casi più gravi. Bisogna ripensare il TSO, quel momento ospedaliero, diagnostico ed inizio cure personalizzate di cui non si può fare a meno, proprio nei casi più gravi e spesso improvvisi. Manca una rete di ascolto immediato e di informazione. I CIM non possono mescolare interventi per i malati di mete e per i tossicodipendenti. Va ripensata tutta la struttura dei Dipartimenti sanitari per la malattia mentale, per i quali si deve scegliere meglio e spendere di più. Ci sarebbe tanto da dire perché è una materia resa incandescente dall’incuria e dalla ideologia lobbistica di troppi. Nel nuovo clima finalmente e timidamente bi-partisan, almeno per alcune cose importanti e avvertite, troviamoci tutti accanto ai malati di mente ed alle loro splendide famiglie. Il re è nudo e piange.
A 30 anni dalla legge 180, aiutiamo i malati mentali e le loro famiglie
Basta! Non possiamo far finta che non esistano
Rivediamo la 180, aggiorniamola. 30 anni son troppi per una legge che volle spezzare un tabù ma che ne creò altri, alti come le macerie delle Torri Gemelle. Una legge che chiuse i manicomi, spesso ridotti a semplici, insopportabili luoghi di contenzione e che non voleva, come si dice un po’ frettolosamente, negare la malattia o la necessità di cura. Il guaio è che si era in un periodo storico in cui gli esami erano di gruppo, cultura e scienza erano denegate e sbeffeggiate in nome dello spontaneismo, della vita en plain aire, dell’ideologia di un altro “buon selvaggio”: la massa, etc. I manicomi furono chiusi ma si aprì ben poco al di fuori delle braccia stanche ed impreparate di un padre, di una madre, di un fratello, di un figlio. Qua e là, a “macchia di leopardo”, sorsero centri di accoglienza e cura, per la maggior parte privati e spesso non troppo dissimili dai vecchi manicomi, e magari guidati dagli stessi “basagliani”
di Maria Burani Procaccini divenuti baroni. Si fecero regolamenti applicativi della legge 180, pomposamente chiamati “progetti obiettivo”. Ma la Sanità Pubblica ridusse sempre più il suo intervento diretto, in denaro e progettualità; riservò il ricovero ospedaliero solo al malato parossistico, accompagnato dalla forza pubblica e dal certificato del Sindaco. Naturalmente il pochissimo tempo in cui la legge consentiva e consente il ricovero ospedaliero non permette una diagnosi seria e quindi un serio progetto di cura personalizzato. Solo e soltanto sedativi, pacche sulle spalle dei parenti, o peggio, repulsione e stigma a tutti. Poi, dopo una settimana, il malato torna a casa perché è“semi-sano”ma ha dietro un corredo di ricette con cure da cavallo da fare presso il CIM (la ASL locale) e poi di nuovo in ospedale, più malato di prima, secondo l’aurea regola della “sindrome della porta girevole”. Nel frattempo i “basagliani”sono arrivati ai vertici della psichiatria della sanità pubblica e privata; hanno okkupato primariati e direzioni mediche. Baroni politicamente corretti ma senza cuore e con poca scienza però infinitamente buoni e bravi per assioma e fede.
istanze delle famiglie ed anche dei tanti psicoterapeuti e psichiatri consapevoli e preparati ma soprattutto dediti ad affrontare i problemi della persona, del malato rispettando la sua dignità, ignorata e calpestata, cosa fa? Sì, propone una legge che intervenga a colmare i buchi neri di 30 anni di storia scientifica e civile. Una legge che non butti all’aria tutto il passato ma corregga ed organizzi il presente, lasciando come giusto alle Regioni l’operatività e progettualità territoriale. Apriti cielo! Le prefiche anti-Ferrara sono educande e suorine, rispetto alla lobby basagliana-sinistra. E’ una cosa tremenda: spuntano ovunque, a sinistra come (meno) a destra. Ti sbattono sui blog, tirano fuori interessi assolutamente inesistenti e spingono all’odio e all’aggressione persino personale. Terrorizzano tutti, minacciano le associazioni di familiari. I pavidi politici di ogni colore, anche chi ha il malato in casa e segretamente ti fa conoscere il suo dolore impotente, si mimetizzano. La lobby è potente, ricca ed aggressiva. Ricordo un impavido e splendido personaggio: un ingegnere lombardo il cui fratello “in cura” (si fa per dire) da anni si era gettato da una finestra. L’ingegnere, come tanti, tantissimi parenti di malati, aveva fondato una associazione di mutuo soccorso: la “Chiesetta”. Chiedeva una legge che
Al posto della Basaglia serve una legge che non butti all’aria tutto il passato ma corregga ed organizzi il presente
In questa dimensione da paura un povero Cristo di politico disponibile, da autentico kamikaze, a dare una mano, a prospettare una legge che accolga le
mondo
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Il primo ministro libanese Siniora e quello israeliano, Olmert
Perché il nuovo assetto istituzionale di Beirut può rallentare il dialogo fra Israele e Libano
Olmert e Siniora,una coppia in crisi di Antonio Picasso er Israele la tregua raggiunta a Gaza con Hamas – ammesso che regga – è solo la parte di un tutto. Dalla conferenza di Annapolis nel novembre 2007 a oggi, quella che sta facendo Olmert, tra mille ostacoli anche domestici, è un’operazione di ampio respiro, finalizzata a chiudere davvero alcuni capitoli del processo di pace. Lo dimostra il dialogo con la Siria, che sta andando avanti, come pure il tentativo di aprire le trattative con il Libano. In questo caso si ha a che fare con una new entry nella complessa agenda di politica estera in mano al premier israeliano. Il nodo della questione è la restituzione al Libano delle Fattorie di Shebaa. Una striscia di terra fertile di appena 25 chilometri quadrati, alle pendici delle Alture del Golan – e per questo rivendicate anche da Damasco – che Israele occupò durante la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967. Da allora – anche dopo il ritiro israeliano dal Libano del Sud nel 2000 – le 14 fattorie“incriminate” vengono amministrate come parte del Golan israeliano. È la prima volta che se ne parla. E questo è già un segno positivo. Tuttavia, paradossalmente, la complessità del problema risiede proprio nei suoi punti di forza. Firmare la pace, infatti, risulterebbe vantaggioso a entrambi i Paesi, i quali si vedrebbero alleggeriti di un problema annoso, ma che ha perso il suo valore strategico rispetto a quando nacque. Shebaa, infatti, come tutto il complesso montuoso del Golan, poteva tornare utile all’artiglieria israeliana per controllare i vicini nemici: l’esercito siriano e le forze sciite di Hezbollah presenti nel Libano del Sud. Oggi però la tecnologia militare ha eliminato il pro-
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blema. Di conseguenza, sempre come il Golan, Shebaa è divenuta una questione puramente politica. E se davvero i due governi intendono sedersi al tavolo, la carta geografica risulterà uno strumento quasi superfluo rispetto alla disponibilità all’ascolto, al dialogo e alla reciproca fiducia.
Una trattativa di questo genere potrebbe essere ancor più facilitata se Israele e Libano si rendessero conto di due fattori a loro disposizione. In primis che sono entrambi Stati sovrani. Ed è raro quanto prezioso trovarsi di fronte a simili situazioni, in cui gli interlocutori almeno si riconoscono vi-
Shebaa, contesa a Gerusalemme da Damasco e Beirut, è uno dei maggiori punti di attrito fra i tre governi cendevolmente come “pari grado”. Negli ultimi anni, sia il governo di Beirut sia quello israeliano hanno dovuto confrontarsi – militarmente o in termini diplomatici – con partiti politici e gruppi armati del peso di Hezbollah, oppure rientranti nel vasto arcipelago delle realtà palestinesi. Protagonisti fondamentali nel panorama me-
diorientale, ma tutti privi del riconoscimento statuale in ambito internazionale, che è invece proprio di Israele quanto del Libano. Infine va ricordato che, sostanzialmente, Israele e Libano stanno dalla stessa parte. Olmert e Siniora, sebbene quest’ultimo non sia ancora riuscito a formare un nuovo governo, sono entrambi alleati degli Usa e di tutto l’Occidente. Non bisogna dimenticare poi che Israele, in passato, ha appoggiato più volte i maroniti libanesi. Una vicinanza implicita che, a rigor di logica, potrebbe facilitare i negoziati. Ciononostante, i freni e gli impedimenti sono maggiori del previsto. Le difficoltà di Olmert in-
Da dove nasce la disputa sulla zona tra l’altura del Golan e la frontiera israelo-palestinese
Il rebus delle fattorie di Shebaa di Rodolfo Bastianelli
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uella per le fattorie di Shebaa è una disputa che risulta difficile da decifrare viste le limitate dimensioni del territorio ed il loro irrilevante peso economico. Situate tra le alture del Golan e la frontiera israelo-libanese, quest’area di 25 kmq è contesa da Siria e Libano e rappresenta uno dei maggiori punti di attrito tra i governi di Gerusalemme, Beirut e Damasco. Le origini della disputa risalgono alla fine del primo conflitto mondiale quando, con il crollo dell’Impero Ottomano, alla Francia venne affidato dalla Società delle Nazioni il mandato sulla Siria ed il Libano e alla Gran Bretagna quello sulla Palestina. In seguito, nel 1923 le due potenze si accordarono segnando una demarcazione riconosciuta nel 1949 come linea armistiziale da Israele, Siria e Libano dopo il primo conflitto arabo-israeliano, mentre nessun confine venne tracciato tra la Siria ed il Libano essendo entrambi mandati francesi. Da questo deriva la contesa per il possesso delle fattorie di Shebaa. Infatti, anche se per alcune carte georgrafiche la zona si situe-
rebbe in territorio siriano, il governo libanese ha sempre contestato questa affermazione, tanto che negli anni ’60 i due Paesi istituirono una commissione tecnica incaricata di studiare il problema. E forse sarebbe rimasta solo una disputa giuridica se gli eventi accaduti in Libano non avessero fatto emergere il problema sulla scena politica mediorientale. Quando il “Paese dei Cedri” sprofonda nella guerra civile, Israele prima decide nel 1978 l’operazione“Litani”e poi nel 1982 avvia una più vasta azione militare, denominata “Pace in Galilea”, con lo scopo di eliminare l’attività dei gruppi armati palestinesi e far ritirare le truppe siriane. L’impegno militare israeliano si protrarrà fino al Duemila, quando il governo di Barak decise il completo ritiro dell’esercito dal Libano per compiere un gesto distensivo verso il mondo arabo alla vigilia della conferenza di pace di Camp David. Da questo momento la questione di Shebaa diventa un rebus per la diplomazia internazionale, l’Onu e un tema caldo per Hezbollah e Israele.
fatti, dalla debolezza della sua maggioranza alla Knesset, al rischio personale di impeachment, non trovano una soluzione. E dopo aver trattato con Hamas per la tregua a Gaza, quella di scendere a compromessi con il nascente governo libanese – di cui farà parte anche Hezbollah – potrebbe diventare un motivo in più per arrivare alle elezioni anticipate. Il governo libanese, dal canto suo, soffre della sua stessa mancata formazione. Perché l’accordo di Doha, a fine maggio, ha sì permesso l’elezione del presidente della Repubblica, ma non ha avviato lo sperato processo di normalizzazione politica del Paese. Siniora infatti è stato incaricato di formare un esecutivo di unità nazionale, con la partecipazione di esponenti di Hezbollah e di Amal.Tuttavia, il compromesso tarda a essere raggiunto e la crisi sta riemergendo.A queste debolezze politiche, infine, si aggiungono gli impedimenti giuridici, che fanno delle Fattorie di Shebaa un caso di rivendicazione territoriale praticamente unico. A differenza delle alture del Golan, annesse al territorio israeliano con una legge ratificata dalla Knesset nel 1981, lo status giuridico-amministrativo di Shebaa non è mai stato definito. Questo porta alla conclusione che le modalità di trattative sono differenti. Se la Siria, che finora è rimasta a guardare, decidesse di reclamare Shebaa, l’oggetto del contendere rischierebbe di essere spartito fra tre Paesi. Come volevasi dimostrare appunto: non è la geografia stavolta a muovere i governi, ma la politica. Resta da capire chi, tra questi tessitori del Medio Oriente, ne sia più avvezzo. Analista Ce.S.I.
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L’Alta corte di Lahore rigetta la candidatura di Nawaz Sharif alle elezioni parlamentari di domani
Pakistan, colpo grosso di Musharraf di Vincenzo Faccioli Pintozzi
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Attentato a Baghdad, muore un italiano Un civile italiano è stato ucciso a Baghdad in un attentato che ha visto la morte anche di due soldati americani, sei iracheni e due civili. Lo riferisce l’ambasciata Usa in Iraq. L’attentato è avvenuto nel quartiere di Sadr City, roccaforte della comunità sciita.
Usa, svolta diplomatica con Teheran?
lla fine, lo scherzo del presidente Musharraf ha funzionato. L’Alta corte pakistana ha rigettato la candidatura di Nawaz Sharif, ex primo ministro e leader della Lega musulmana N, che aveva dichiarato l’intenzione di partecipare alle elezioni parlamentari “di riserva”previste per domani. Complice la paura di restaurare i giudici epurati lo scorso novembre, manifestata in più riprese dai mancati accordi fra la Lega ed il Partito popolare, il nemico storico dell’ex generale si trova così con le mani legate, impossibilitato a prendere parte attiva alla vita politica del Paese. Secondo il politico, quella emessa due giorni fa a Lahore è una sentenza politica, basata su una cospirazione che mira a tenerlo lontano dal terzo mandato di premier, il grande obiettivo che Sharif si è prefissato sin dal 2005. In realtà, i giudici si sono limitati a considerare “plausibili”le accuse mosse a Sharif nel 1999 dall’allora generale Musharraf, che lo riteneva colpevole di aver dirottato un aereo su cui era a bordo per cercare il colpo di Stato. Nell’ottobre di quell’anno, infatti, Musharraf rovesciò il governo civile dopo avere affermato che l’allora premier Sharif aveva dirottato il volo commerciale sul quale stava viaggiando, tentando d’impedire il suo atterraggio a Karachi. Musharraf assunse il potere esecutivo e si autoproclamò presidente nel 2001. Da allora, fra i due politici si è verificato un continuo scambio di accuse e sgambetti di ogni tipo, di cui questa sentenza segna l’ultimo atto. Al momento, Sharif non sembra intenzionato a piegare la testa. La Lega musulmana ha infatti annunciato di voler presentare appello con-
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La Lega musulmana vuole ricorrere in appello, ma il tempo manca e le urne aprono fra poche ore tro la decisione: i giudici, sostiene, sono stati nominati in maniera illegale dal presidente Musharraf dopo l’epurazione di novembre e quindi il loro pronunciamento non è valido.Tuttavia, è quasi impossibile che riesca a compiere questo miracolo giuridico in tempo utile per presentarsi alle urne. Queste dovranno assegnare 8 seggi nazionali e 30 provinciali, che non sono stati decisi durante le consultazioni di febbraio perché alcuni eletti si sono ritirati o sono nel frattempo morti. Con molta lungimiranza politica, quattro seggi oggi scoperti erano stati selezionati nelle roccaforti della Lega musulmana N, un escamotage che rendeva sicura l’elezione di Sharif.
La sentenza ha risuonato come un fulmine a ciel sereno nell’agone politico pakistano. La Commissione elettorale, incaricata di seguire le elezioni di febbraio e di giugno, non aveva accettato la candidatura del leader musulmano a causa delle accuse ancora pendenti contro di lui, ma ad inizio mese lo aveva invitato a ripresentarsi. I popolari, certi del suo prossimo mandato, avevano puntato su un primo ministro di transizione per tenere aperta la possibilità di un insediamento dell’alleato ad Islamabad. Ora, salta tutto. La situazione sembra ancora più tragica se si pensa, come scrive un editorialista del Daily Times, che la pericolante situazione
L’amministrazione Bush sta considerando l’ipotesi di aprire una sezione d’interessi a Teheran, dove ritornerebbe 29 anni dopo aver rotto le relazioni diplomatiche con la Repubblica islamica e chiuso l’ambasciata, dove per 444 giorni studenti khomeinisti tennero in ostaggio il personale della rappresentanza. A rivelarlo sono fonti diplomatiche, secondo cui l’amministrazione starebbe valutando questa possibilitaà - mentre si rafforzano le sanzioni contro Teheran per via del suo programma nucleare e resta sul tavolo l’opzione di un intervento militare - allo scopo di avviare un canale di dialogo diretto con studenti e dissidenti attraverso una presenza sul terreno. Esattamente come avviene a Cuba, dove gli Usa hanno una sezione d’interessi che si occupa di visti e di attività culturali, pur senza intrattenere un rapporto di alcun tipo con il governo ospite. del Pakistan è legata una volta di più alla questione dei giudici epurati. Il loro reintegro, divenuto il leit motiv della campagna elettorale dei due grandi partiti vincitori – Lega musulmana e popolari – è divenuto una sorta di telenovela infinita che squassa il Paese con proteste pubbliche e manifestazioni che dimostrano come la popolazione non sia contenta dell’operato dei leader attuali. D’altra parte, dice una fonte del ministero degli Interni, non era pensabile che Asif Ali Zardari (vedovo di Benazir Bhutto e reggente del Partito popolare) avesse realmente l’intenzione di reintegrare un sistema giudiziario indipendente dall’esecutivo. Troppe le accuse di corruzione che pendono sul suo capo, e troppo lontano l’amore dimostrato dal popolo nei confronti la sua defunta moglie, per pensare che una magistratura indipendente ne avrebbe consentito gli abusi politici. Le alternative diminuiscono ogni giorno che passa. Il braccio di ferro sui giudici è sempre più teso, ed allontana sempre di più i due alleati di governo, che non riescono a fronteggiare l’avanzata degli estremisti islamici nel Paese. Questi hanno ottenuto persino un territorio autonomo, che sembra stia divenendo un campo di addestramento per terroristi islamici di tutto il mondo. Sempre più grave anche la situazione economica, con un’inflazione galoppante ed un basso tasso di crescita, mentre si registra lo scontento della comunità internazionale davanti ad un governo troppo debole per garantire la sicurezza degli investimenti esteri. Dall’angolo, concluso con successo il suo ultimo scherzo, Musharraf tace e sorride.
Missili contro Israele, tregua in bilico Tregua interrotta a Gaza, dove alcuni missili Qassam sono stati lanciati contro Israele, malgrado giovedì fosse stato deciso un cessate il fuoco. Due razzi hanno colpito la città di Sderot, un terzo ha colpito la zona industriale. Uno dei missili si è abbattuto nel cortile di una casa, provocando danni. Il servizio di soccorso israeliano ha riferito che due persone sono rimaste ferite in modo lieve.Ehud Olmert ha definito l’attacco «una grave violazione della tregua».
Germania, elezioni il 29 settembre 2009 Le prossime elezioni legislative tedesche si svolgeranno il 27 settembre 2009. L’appuntamento elettorale è stato concordato nel corso di un vertice tra i partiti della Grande Coalizione al governo, Unione Cdu/Csu e Spd. La data viene definita come «la più probabile», anche se ancora non vi è una conferma ufficiale da parte del governo e dell’ufficio elettorale.
Cina, da oggi i turisti entrano in Tibet Il Tibet domani riapre ai turisti stranieri. Ad annunciarlo è l’agenzia cinese Xinhua citando un funzionario della regione himalayana. Secondo la Xinhua, un piccolo numero di turisti stranieri dovrebbe iniziare ad arrivare a Lhasa, capitale tibetana sconvolta il marzo scorso dalle proteste anti-cinesi, a partire da oggi.
Somalia, pirati rapiscono 4 tedeschi Altro colpo messo a segno dai pirati che infestano le acque somale: il bersaglio questa volta non è stato un mercantile, ma un piccolo yacht con a bordo quattro turisti tedeschi, tra cui una donna e un bambino. L’imbarcazione navigava sotto costa di fronte alla cittadina di Lasqorey, al largo della regione autonoma del Puntland, nel nord-est della Somalia.
Israele, si suicida picchetto per Sarkozy La visita di Sarkozy in Israele ha avuto un tragico epilogo. Un soldato impegnato nel picchetto d’onore per salutare il presidente francese, in partenza dall’aeroporto di Tel Aviv, si è sparato, morendo sul colpo. L’incidente ha fatto scattare l’allarme al Ben Gurion. Le televisioni hanno ripreso le immagine del presidente e di Carla Bruni portati in tutta fretta dentro l’aereo. Polizia e agenti di sicurezza hanno subito circondato anche il premier israeliano Olmert, facendolo allontanare. Due soldatesse vicino al suicida sono svenute.
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il caso
Per l’ex ambasciatore Usa all’Onu, la crisi Ue può danneggiare la solidarietà transatlantica
Europa, se hai paura del popolo non hai futuro di John Bolton segue dalla prima Eppure quando i cittadini in carne ed ossa sono andati al voto, si sono espressi inequivocabilmente per il “no”. Ancora una volta , in tutta Europa, i leader politici si sono mostrati stupiti, come è sempre accaduto quando ai cittadini che essi dovrebbero presumibilmente rappresentare viene consentito di votare per esprimere il loro parere. Al vertice dell’Unione tenutosi a Bruxelles una settimana dopo il voto, i capi di stato e di governo giravano in tondo in
stituzione di quel Paese lo prevede con chiarezza e senza mezzi termini.
Il timore del voto popolare indica il timore nei confronti del popolo e questo non è certo un buon segno per il “progetto” europeo. Non soltanto i leader dell’Unione cercano di impedire i referendum, ma manifestano il loro disprezzo nei confronti del risultato quando esso “è negativo” e non rientra in quelli che erano i loro piani. Nonostante il risultato negativo dei precedenti referendum tenutisi in Francia
«Non riuscirete mai a costruire un’effettiva ed efficace Europa transnazionale evitando scientemente di sottoporvi al vaglio ed al giudizio del popolo che rappresentate» una situazione di caos e scompiglio e sono ritornati nelle loro capitali senza alcuna strategia chiara per il futuro. Mi sia permesso di fornire un piccolo amichevole consiglio da outsider. In primo luogo, i leader dell’Unione non riusciranno mai a costruire un’effettiva ed efficace Europa transnazionale evitando scientemente di sottoporsi al vaglio ed al giudizio del popolo che rappresentano. Ai leader può anche non piacere ciò che gli elettori pensano, e potrebbero anche non riuscire ad ottenere quel tipo di Unione che vorrebbero davvero conseguire, ma continuare a contrastare e contrariare il popolo non farà altro che creare risentimento e sfiducia, il che potrebbe frustrare e far fallire l’intero progetto. Se l’idea di cancellare ed annullare le differenze nazionali in Europa fosse così popolare fra i cittadini così come lo è fra i leader politici, non si correrebbe alcun rischio nell’organizzare referendum su ciascuna fase successiva dell’integrazione europea. Ma questa è decisamente la strada opposta a quella che i leader dell’Unione hanno deciso di intraprendere. Al contrario hanno inequivocabilmente rifiutato ogni proposta di indire referendum ed hanno dovuto accettare quello irlandese soltanto in quanto la Co-
ed in Olanda sull’ineffabile predecessore di questo Trattato, nonché quello del recente referendum irlandese, i leader dell’Unione insistono che l’esito di quelle consultazioni popolari non significa affatto ciò che in realtà significa in modo alquanto ovvio. Ritengono che il “no” sia frutto di disinformazione, motivato dal timore e dall’aver frainteso quanto statuito dal Trattato, nonché manipolato da detrattori animati da secondi fini e che non comprendono i meriti del Trattato stesso. Secondo i leader europei non esiste un “tema”chiaro che abbia motivato il voto negativo, ma soltanto una strana combinazione di motivazioni che non riflettono una “reale” maggioranza contraria ad un’Europa federale. In tal senso, i leader dell’Unione manifestano non soltanto sdegno
Parla Mister Euro
Ma Juncker non ci sta: «Più Ue vuol dire più democrazia» colloquio con Jean-Claude Juncker di Maria Maggiore
BRUXELLES.
per l’istituto del referendum, ma anche un disprezzo ancora più profondo per i loro compatrioti. Il voto che si esprime alle elezioni, siano esse politiche o locali, riflette esattamente lo stesso tipo di dinamica utilizzata nei referendum. Gli elettori votano a favore o contro candidati o partiti per tutta una serie di svariate ragioni, alcune buone altre meno. Le coalizioni politiche vincenti sono diverse per definizione, e contengono talvolta molti elementi contraddittori, come dimostrano varie coalizioni parlamentari europee. I politici che non se ne rendono conto esprimono un’arroganza che può essere estremamente dannosa nelle società democratiche. Il fatto di denigrare chi ha votato “no” ci dice davvero molto di più su chi denigra che non sugli elettori stessi.
«L’Europa deve andare avanti unita e trovare, insieme, e non contro l’Irlanda, una soluzione al no del 12 giugno. Solo in extremis, se ogni tentativo fallisse, si potrebbe ragionare su un gruppo di Paesi che vada avanti più spedito. Accettarlo oggi significherebbe ammettere il fallimento dell’Europa». È un fiume in piena, un misto di saggezza, buon senso democristiano e ironia, Jean-Claude Juncker, premier lussemburghese e “Mister Euro”, presidente ancora per un anno dell’Eurogruppo. Non si rassegna all’ultima batosta ricevuta dagli irlandesi, il candidato numero uno della Presidenza dell’Unione, l’uomo a cui si attribuisce il merito di aver inventato, alla fine degli anni ’80, il principio dell’opt-out sull’euro per gli inglesi (non partecipare alla moneta unica, ma consentire agli altri di avanzare). «Si continua a ignorare la crisi europea e adesso lo sport preferito dai miei colleghi leader è insultare gli irlandesi: non avete capito il voto, avete votato per ragioni slegate dal Trattato di Lisbona, e così via», spiega Juncker da un’aula dell’Università Libera di Bruxelles, una settimana dopo lo schiaffo irlandese. «Invece bisognerebbe prendere atto che
l’opinione pubblica è spaccata, metà degli europei vuole più Europa, più integrazione, più politica comune. L’altra metà vuole fermarsi, o addirittura fare marcia indietro, spaventata in parte dalla globalizzazione. Secondo me quest’ultima si sbaglia, reagisce a un problema vero, la minaccia del mondo esterno, con una soluzione sbagliata, richiudersi in se stessi nei nazionalismi. Ma dove potrebbe andare l’Irlanda da sola senza la coperta dell’Europa?».
Aggiungete l’ormai profondo fossato tra i cittadini e la classe politica in generale, dategli l’opportunità di esprimersi in un referendum popolare su materie vaghe e complicate come un trattato europeo e il mix esplosivo è pronto. «Però io credo che chiedere l’opinione dei cittadini sia giusto, dovevamo anzi cominciare prima», continua Mister euro. «Solo che dobbiamo spiegare l’Europa nel modo giusto, per esempio finirla con questo gioco al massacro per cui Bruxelles è dipinta come il teatrino degli interessi nazionali, Parigi ci ha tolto questo, Londra si è impuntata per quest’altro. I ministri vengono in Europa e poi raccontano ai giornalisti le loro verità in chiave nazionale. Provate a leggere giornali di vari Paesi dopo una riunione ministeriale del 27.Vi sembrerà che i ministri stavano a incontri diversi, tanto diverse sono le loro verità». Sì, ma da dove ripartire, da dove far ri-innamorare la gente al progetto europeo? «Innanzitutto dai numeri. Oggi il Pil europeo rappresenta il 50 percento di quello
il caso
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Mentre l’Europa si sta impegnando in un’impresa molto rischiosa cercando di ignorare la voce onesta dei suoi stessi cittadini, sono in pochi negli Stati Uniti a farci caso. Un’Europa maggiormente integrata rifletterà quasi certamente un’Europa meno democratica, come dimostrato dalle reazioni nei confronti del referendum irlandese. E un’Europa gestita sempre più dalle sue élite sarà un’Europa con opinioni molto diverse – e direi molto più anti-americane – rispetto ad un’Europa delle nazioni ancora legate ai propri elettori. Se altrimenti fosse, e se gli atteggiamenti anti-americani dell’opinione pubblica fossero così diffusi come alcuni tendono a credere, di certo il progetto europeo - visto come alternativa ad un’Alleanza transatlantica
dominata dagli Stati Uniti avrebbe un maggior sostegno popolare.
Ad ogni modo, vi è un’opinione pubblica sia negli Stati Uniti che in Europa e, considerato il prezzo elevato della benzina, il notevole deficit di bilancio nazionale ed una guerra impopolare in Iraq, molti americani si chiedono contro cosa esattamente stiamo proteggendo l’Europa. Sebbene la Nato sia presente in Afghanistan,Washington è ben consapevole dei distinguo che caratterizzano la partecipazione di molti Paesi europei che forniscono truppe per questa missione, che portano a mettere in discussione la validità stessa della Nato nel caso in cui si comportasse in modo così frammentato in un’effettiva situazione di combattimen-
«Se il sentimento anti-americano dell’opinione pubblica fosse così diffuso, il progetto europeo - visto come alternativa ad una Nato dominata dagli Usa - avrebbe un maggior sostegno»
mondiale e quello asiatico il 24 percento. Nel 2034 europei e asiatici avranno lo stesso Prodotto interno lordo. Poi la popolazione. Nel 1900 il 20 percento degli abitanti del mondo era europeo. Oggi l’11 percento della popolazione mondiale sta in Europa, nel 2025 il 7 percento e nel 2050 l’Europa avrà solo il 4 percento della popolazione mondiale. Siamo quindi obbligati, prima che innamorati a costruire l’Europa, altrimenti verremo cancellati dalla Storia». John Bolton, consigliere del Presidente americano Bush, sostiene che nell’arroganza di certi leader europei, che snobbano il risultato del referendum, si mostra la debolezza del progetto europeo. «Vorrei sapere dal Signor Bolton quante volte il presidente Bush ha chiesto agli americani che ne pensano delle spese militari in Iraq, o della poltica delle guerre
preventive. Però devo ammettere che si poteva fare di più. Abbiamo sbagliato, finora, nel non costruire l’Europa sociale. Dobbiamo dare dei segnali concreti ai cittadini e, lo ripeto da tempo, dovremmo per esempio, fissare un salario minimo garantito in tutti i Paesi. Darebbe un segnale di unità europea e sarebbe una cosa tangibile»
A questo punto, se l’Irlanda non riesce a uscire dall’impasse del No, si può pensare alle “cooperazioni rafforzate”, la famosa Europa a due velocità?«Guardi, per il momento preferisco non pensarci, lo diceva Delors, se parliamo di Europa a due velocità, la situazione deve essere proprio drammatica, significa che abbiamo fallito. Non credo che siamo arrivati lì. Se, però, al No irlandese se ne aggiungeranno altri, come quello ceco o polacco, allora il qua-
dro cambierebbe». Ma un’Europa più politica, più integrata in materie sensibili, come la difesa, significherà una revisione dei rapporti transatlantici? E viceversa, se costriamo la difesa comune come vuole Sarkozy, gli Stati Uniti, rischiano di girarsi dall’altra parte e disimpegnarsi in Europa? «Ma scherza! Ammesso che alcuni Paesi, per esempio Francia, Germania, Spagna e Italia, decidano di investire di più nelle spese militari, non si sganceranno mai dal legame con l’America. È come il peccato originale, resta, a maggior ragione in questi tempi di debolezza europea. E gli Stati Uniti? «Secondo me sarebbero ben contenti se gli europei si assumessero tutti i costi e i rischi delle crisi del continente, come quelle dei Balcani negli anni Novanta. Ma per il resto l’interesse strategico a restare legati all’Europa mi sembra intatto».
to. Inoltre, in termini generali, gli americani non comprendono i tecnicismi ed i tatticismi delle questioni strutturali europee, il che significa che sono effettivamente molto simili all’europeo medio. Se gli europei vogliono una politica ed una capacità di difesa più integrate a livello di Unione, e se gli Stati Uniti sono così impopolari in Europa come viene ripetutamente sostenuto, allora molti americani augureranno ogni bene all’Unione europea affermando “che si difendano da soli.” In breve, se l’Unione europea non starà attenta, potrebbe anche ottenere ciò che molti dei suoi leader affermano di volere. Pertanto, le conseguenze potenzialmente negative che un’Unione troppo concentrata e ripiegata su se stessa ed una mancanza di interesse da parte degli Stati Uniti potrebbero avere sulla solidarietà transatlantica sono davvero reali. L’Europa è ora solo apparentemente pronta a ritornare sulla questione della sua struttura futura in ottobre, poco prima delle elezioni presidenziali americane che si terranno a novembre. Forse per allora entrambe le Parti saranno più disposte a guardare alle questioni transatlantiche in una prospettiva più ampia, il che potrebbe essere un vantaggio per entrambe.
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speciale esteri
Occidente
Il caso dello Zimbabwe non è isolato in Africa dove i regimi antidemocratici sfruttano ancora l’alibi della lotta al colonialismo
MUGABE
E I SUOI FRATELLI di Enrico Singer ra il settembre del 1986 quando incontrai Jean-Bédel Bokassa nel castello di Hardricourt, non lontano da Parigi, che l’allora presidente François Mitterrand gli aveva concesso per il suo esilio. Lui che si era autonominato imperatore del Centroafrica nel 1977 e che si era fatto cesellare una corona simile a quella di Napoleone, suo idolo, lui che aveva regalato a Valéry Giscard d’Estaing un imbarazzante sacchetto di diamanti, lui che aveva avuto 17 mogli e 50 figli, lui che nel 1974 si era convertito all’islam con il nome di Salah Eddine (il “feroce saladino”) Ahmed Bokassa prima d’indossare il mantello imperiale come Bokassa I, in quei giorni stava preparando il suo ultimo, rocambolesco tentativo di rientro in patria paracadutato da un aereo - che fu anche la sua fine. Era stato il più feroce e sanguinario dittatore d’Africa, ma nel tetro castello di Hardricourt viveva come un recluso: era l’immagine concreta di quello che appariva il tramonto di un’epoca. Il suo degno amico, il dittatore dell’Uganda, Idi Amin Dada, era stato rovesciato nel 1979 e l’Africa sembrava sul punto di affrancarsi dalle tante dittature che avevano segnato il pe-
E
ni che, come lui, accusano i loro oppositori di essere al soldo dell’Occidente e giustificano così le peggiori nefandezze. Del despotismo degli ultimi, ma ancora numerosi, dittatori africani molto si è scritto da quando Robert Mugabe ha ingaggiato la sua guerra senza quartiere a Morgan Tsvangirai, l’ex minatore che ha osato sfidarlo nella corsa alla presidenza. Ma in questa vicenda c’è un aspetto di cui poco si parla: è quello dei nuovi padrini dei tiranni. Se Robert Mugabe, a 84 anni, è un ex militante del cosiddetto “comunismo all’africana”, permeato di slogan marxisti e sostenuto, nei primi anni del suo potere assoluto, dai soldi di Mosca, ora il puntello dei regimi come il suo arriva da altre centrali.
I nuovi alleati dei dittatori africani hanno interessi diversi. Da una parte c’è la Cina del boom economico che cerca petrolio e altre materie prime ovunque e che non guarda davvero al rispetto dei diritti umani per decidere con chi tessere i suoi rapporti commerciali. Anzi, se c’è oggi un neocolonialismo in Africa è proprio cinese. L’altro alleato dei dittatori è l’islamismo fondamentalista che cerca di estendere la sua influenza in questa parte del mondo. Non è certo un caso se nel deserto della Mauritania sono state segnalate anche basi dei terroristi di al Qaeda e se la rete di Osama bin Laden si è installata in Sudan o in Somalia. Se le prime vittime dei regimi dittatoriali sono i popoli africani che vivono senza la garanzia dei diritti politici e, spesso, di quelli umani, la miscela tra le dittature e i suoi nuovi sponsor è una minaccia pericolosa per tutti. L’alleanza con la Cina sconvolge il mercato energetico già avvitato in una corsa al rialzo dei prezzi che mette in ginocchio l’economia europea. L’alleanza con il fondamentalismo islamico, e in qualche caso con il terrorismo, è ben più micidiale. L’Europa che si divide anche sull’opportunità di estendere le sanzioni contro i regimi dittatoriali africani forse s’illude ancora che siano arrivati al tramonto.
Il ditattatore sulle orme di Amin e di Bokassa con nuovi sponsor: la Cina e al Qaeda riodo post-coloniale. Ma le gesta di Robert Mugabe in queste ultime ore dimostrano che, in realtà, poco, troppo poco, è davvero cambiato.
Idi Amin Dada che aveva servito nell’esercito coloniale britannico - come Bokassa era stato sergente maggiore nell’Armata della Francia libera - quando Londra ruppe le relazioni diplomatiche con l’Uganda, nel 1977, dichiarò di avere vinto l’Inghilterra e inventò per sé la decorazione di Conqueror of British Empire. Anche oggi le colpe - quelle vere e quelle presunte - del colonialismo sono il più comodo alibi di Mugabe e degli altri dittatori africa-
Il dittatore dello Zimbabwe Robert Mugabe (a sinistra) circondato dalle sue guardie del corpo e da sostenitori. Nella pagina a fianco (in basso) i padri-padroni del Sudan, Hasan al Bashir, dello Swaziland re Mswati III e (in alto da sinistra a destra) dell’Eritrea, Isaias Afewerki, del Camerun, Paul Biya, del Centroafrica, François Bozize, del Ciad, Idriss Deby, della Guinea, Lansana Conte, della Guinea Equatoriale, Teodoro Obiang, della Mauritania, Ahmed Taya, e della Repubblica del Congo, Denis SassouNguesso. Sono tutti al potere dopo elezioni contestate e nei loro Paesi non sono garantiti i diritti civili. Anche se soltanto tre sono stati colpiti da sanzioni dell’Onu e della Ue
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Dal Sudan alla Guinea, dal Camerun al Ciad: è lungo l’elenco dei Paesi sottomessi al potere assoluto
Album di famiglia di undici tiranni di Rossella Fabiani n viaggio nell’Africa dei dittatori non può non partire che dallo Zimbabwe che il segretario di Stato statunitense, Condoleezza Rice, ha definito «uno degli avamposti della tirannia». Di questo Paese Robert Mugabe è il padre-padrone assoluto dal 1980, l’anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il dittatore vanta un curriculum di barbarie lungo un quarto di secolo, le ultime contro i latifondisti bianchi: i whitefarmers di quella che era la Rhodesia. Nato a Katama nel 1924, Mugabe fondò il partito Zapu (Zimbabwe African People’s Union) nel 1960 che, tre anni dopo, nel 1963, si trasformò nell’attuale partito chiamato Zanu (Zimababwe African National Union). Dopo dieci anni di prigione per attività sovversive e diversi anni di esilio in Mozambico, Mugabe conquistò la carica di comandante supremo della guerriglia contro la minoranza bianca di Ian Smith. Dopo la conferenza della Lancaster House, nel 1979, Mugabe diventò primo ministro nel 1980 e infine presidente nel 1987. Il dittatore dello Zimbabwe, imbevuto del pensiero marxista-leninista, non ammette nessuna critica al suo governo. Gli oppositori vengono sistematicamente torturati, perseguitati, imprigionati, uccisi. La sua politica ha portato lo Zimbabwe alla fame. Ma per i difensori del regime queste sono soltanto calunnie. Il pensiero di Mugabe continua ad essere lo stesso di quando si nascondeva nella foresta: la colpa è degli occidentali, dei bianchi e degli europei. Nel frattempo Mugabe e i suoi compagni continuano ad ammassare ricchezze, a dilapidare I beni dello Stato e riducono lo Zimbabwe in uno dei paesi più poveri del pianeta.
U
Omar Hasan al-Bashir è l’uomo forte di Khartoum con all’attivo due guerre, una ventennale contro il sud che si è da poco conclusa, l’altra in Darfur, dove permane una catastrofe umanitaria che il governo sudanese continua a minimizzare. Nato a Hoshe Bannaga, al-Bashir arriva
al potere nel giugno 1989 grazie all’appoggio dei fondamentalisti islamici che volevano un intervento più incisivo del governo per risolvere la guerra civile ventennale con le forze sudiste dello Splm/a (Sudan’s People’s Liberation Movement/Army) che aveva causato più di due milioni di vittime. Al-Bashir abolisce il Parlamento, mette fuori legge i partiti politici e inizia una campagna di islamizzazione nazionale. Nel 1993 diventa presidente, vince le elezioni del 1996 e impone la legge marziale nel 1999: vengono annullate alcune garanzie costituzionali e l’esercito prende il controllo della situazione. E ancora. Per consolidare il suo potere dittatoriale chiude in carcere il leader islamista al-Turabi e i suoi. Questo gesto, tuttavia, non ha impedito ad al-Bashir di continuare a fare affari con Bin Laden e con il movimento di alQaeda per consolidare l’Islam in Sudan. Neanche il boicottaggio delle elezioni del 2000 ha impedito ad al-Bashir di continuare il suo regime. La legge marziale non è mai stata annullata e con la vicenda del Darfur e delle milizie Janjaweed, al-Bashir è diventato uno dei dittatori più spietati dell’Africa. E’ accusato non soltanto di genocidio, ma anche di consentire la tratta degli schiavi nel Paese. Gli accordi di pace con lo Splm/a nel 2005 non hanno migliorato la situazione politica. Da cinque anni nel Darfur si combatte una guerra di persecuzione e di oppressione contro milioni di sudanesi, gestita dal presidente-dittatore con ferocia.
Grazie a un colpo di Stato contro suo zio, Francisco Macias Nguema, nel 1979 conquista il potere Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che le organizzazioni per la difesa dei diritti umani considerano uno dei più feroci despoti della storia contemporanea del continente africano. L’attuale presidente ha mantenuto alcune delle pratiche brutali di suo zio: tortura e persecuzione per i suoi nemici, prigione e condanne contro i suoi oppositori. Obiang ha ammassato una fortuna colossale e ha portato all’estero centinaia di milioni di dollari messi a disposizione della sua famiglia, dei suoi parenti, dei suoi amici e dei suoi sostenitori. Il denaro è frutto delle esportazioni delle enormi risorse energetiche, minerali e natu-
rali del Paese, senza tralasciare quelle dell’agricoltura e della pesca. La Guinea Equatoriale è il quarto paese per la produzione petrolifera dell’Africa subsahariana. Il dittatore controlla l’esercito, la difesa e la sicurezza. In questo modo è riuscito ad evitare di essere rovesciato nel 1981 e nel 1983. Le immense ricchezze provenienti principalmente dal petrolio, con 4.849 miliardi di dollari guadagnati nel 2007, non hanno di fatto migliorato la situazione economica del Paese, che conta intorno ai 620mila abitanti. Molti sono gli immigrati che vengono dai paesi vicini per lavorare nei campi e nelle infrastrutture legate alla ricognizione delle risorse. La Guinea Equatoriale è anche tristemente conosciuta per il traffico di bambini che provengono dal Camerun, dalla Nigeria e dal Gabon. I piccoli vengono sfruttati e ridotti allo stato di schiavitù nella totale indifferenza del regime.
Il presidente a vita del Camerun, Paul Biya, ha obbligato il suo predecessore, Ahmadou Ahidjo, a lasciare il paese dopo le sue dimissioni nel 1982. Da allora Biya, che è nato a Mvomeka’a nel 1933, regna sovrano nel Camerun: ha vinto le elezioni nel 1982, 1988, 1992, 1997 e 2004. I risultati di tutte queste elezioni sono stati manipolati e Amnesty International ha criticato il governo di Biya per la mancanza di libertà di stampa, la violazione dei diritti umani e il controllo dei mezzi di comunicazione. Nel 1992 l’opposizione costrinse Biya a introdurre il sistema dei partiti, ma in realtà non è stata mai rispettata la libertà dei movimenti politici d’opposizione al momento delle elezioni. Biya, ex seminarista, avvocato e politico, non ha alcuna intenzione di lasciare il potere, né di accttare elezioni libere. Oggi è considerato uno dei grandi dittatori africani disposto a combattere contro i suoi nemici e i suoi oppositori proprio come Mugabe nello Zimbabwe. continua a pagina 16
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Dal Sudan alla Guinea, dal Camerun al Ciad: è lungo l’elenco dei Paesi sottomessi al potere assoluto
Album di famiglia di undici tiranni di Rossella Fabiani n viaggio nell’Africa dei dittatori non può non partire che dallo Zimbabwe che il segretario di Stato statunitense, Condoleezza Rice, ha definito «uno degli avamposti della tirannia». Di questo Paese Robert Mugabe è il padre-padrone assoluto dal 1980, l’anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il dittatore vanta un curriculum di barbarie lungo un quarto di secolo, le ultime contro i latifondisti bianchi: i whitefarmers di quella che era la Rhodesia. Nato a Katama nel 1924, Mugabe fondò il partito Zapu (Zimbabwe African People’s Union) nel 1960 che, tre anni dopo, nel 1963, si trasformò nell’attuale partito chiamato Zanu (Zimababwe African National Union). Dopo dieci anni di prigione per attività sovversive e diversi anni di esilio in Mozambico, Mugabe conquistò la carica di comandante supremo della guerriglia contro la minoranza bianca di Ian Smith. Dopo la conferenza della Lancaster House, nel 1979, Mugabe diventò primo ministro nel 1980 e infine presidente nel 1987. Il dittatore dello Zimbabwe, imbevuto del pensiero marxista-leninista, non ammette nessuna critica al suo governo. Gli oppositori vengono sistematicamente torturati, perseguitati, imprigionati, uccisi. La sua politica ha portato lo Zimbabwe alla fame. Ma per i difensori del regime queste sono soltanto calunnie. Il pensiero di Mugabe continua ad essere lo stesso di quando si nascondeva nella foresta: la colpa è degli occidentali, dei bianchi e degli europei. Nel frattempo Mugabe e i suoi compagni continuano ad ammassare ricchezze, a dilapidare I beni dello Stato e riducono lo Zimbabwe in uno dei paesi più poveri del pianeta.
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Omar Hasan al-Bashir è l’uomo forte di Khartoum con all’attivo due guerre, una ventennale contro il sud che si è da poco conclusa, l’altra in Darfur, dove permane una catastrofe umanitaria che il governo sudanese continua a minimizzare. Nato a Hoshe Bannaga, al-Bashir arriva
al potere nel giugno 1989 grazie all’appoggio dei fondamentalisti islamici che volevano un intervento più incisivo del governo per risolvere la guerra civile ventennale con le forze sudiste dello Splm/a (Sudan’s People’s Liberation Movement/Army) che aveva causato più di due milioni di vittime. Al-Bashir abolisce il Parlamento, mette fuori legge i partiti politici e inizia una campagna di islamizzazione nazionale. Nel 1993 diventa presidente, vince le elezioni del 1996 e impone la legge marziale nel 1999: vengono annullate alcune garanzie costituzionali e l’esercito prende il controllo della situazione. E ancora. Per consolidare il suo potere dittatoriale chiude in carcere il leader islamista al-Turabi e i suoi. Questo gesto, tuttavia, non ha impedito ad al-Bashir di continuare a fare affari con Bin Laden e con il movimento di alQaeda per consolidare l’Islam in Sudan. Neanche il boicottaggio delle elezioni del 2000 ha impedito ad al-Bashir di continuare il suo regime. La legge marziale non è mai stata annullata e con la vicenda del Darfur e delle milizie Janjaweed, al-Bashir è diventato uno dei dittatori più spietati dell’Africa. E’ accusato non soltanto di genocidio, ma anche di consentire la tratta degli schiavi nel Paese. Gli accordi di pace con lo Splm/a nel 2005 non hanno migliorato la situazione politica. Da cinque anni nel Darfur si combatte una guerra di persecuzione e di oppressione contro milioni di sudanesi, gestita dal presidente-dittatore con ferocia.
Grazie a un colpo di Stato contro suo zio, Francisco Macias Nguema, nel 1979 conquista il potere Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, che le organizzazioni per la difesa dei diritti umani considerano uno dei più feroci despoti della storia contemporanea del continente africano. L’attuale presidente ha mantenuto alcune delle pratiche brutali di suo zio: tortura e persecuzione per i suoi nemici, prigione e condanne contro i suoi oppositori. Obiang ha ammassato una fortuna colossale e ha portato all’estero centinaia di milioni di dollari messi a disposizione della sua famiglia, dei suoi parenti, dei suoi amici e dei suoi sostenitori. Il denaro è frutto delle esportazioni delle enormi risorse energetiche, minerali e natu-
rali del Paese, senza tralasciare quelle dell’agricoltura e della pesca. La Guinea Equatoriale è il quarto paese per la produzione petrolifera dell’Africa subsahariana. Il dittatore controlla l’esercito, la difesa e la sicurezza. In questo modo è riuscito ad evitare di essere rovesciato nel 1981 e nel 1983. Le immense ricchezze provenienti principalmente dal petrolio, con 4.849 miliardi di dollari guadagnati nel 2007, non hanno di fatto migliorato la situazione economica del Paese, che conta intorno ai 620mila abitanti. Molti sono gli immigrati che vengono dai paesi vicini per lavorare nei campi e nelle infrastrutture legate alla ricognizione delle risorse. La Guinea Equatoriale è anche tristemente conosciuta per il traffico di bambini che provengono dal Camerun, dalla Nigeria e dal Gabon. I piccoli vengono sfruttati e ridotti allo stato di schiavitù nella totale indifferenza del regime.
Il presidente a vita del Camerun, Paul Biya, ha obbligato il suo predecessore, Ahmadou Ahidjo, a lasciare il paese dopo le sue dimissioni nel 1982. Da allora Biya, che è nato a Mvomeka’a nel 1933, regna sovrano nel Camerun: ha vinto le elezioni nel 1982, 1988, 1992, 1997 e 2004. I risultati di tutte queste elezioni sono stati manipolati e Amnesty International ha criticato il governo di Biya per la mancanza di libertà di stampa, la violazione dei diritti umani e il controllo dei mezzi di comunicazione. Nel 1992 l’opposizione costrinse Biya a introdurre il sistema dei partiti, ma in realtà non è stata mai rispettata la libertà dei movimenti politici d’opposizione al momento delle elezioni. Biya, ex seminarista, avvocato e politico, non ha alcuna intenzione di lasciare il potere, né di accttare elezioni libere. Oggi è considerato uno dei grandi dittatori africani disposto a combattere contro i suoi nemici e i suoi oppositori proprio come Mugabe nello Zimbabwe. continua a pagina 16
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speciale esteri
Occidente
segue da pagina 15 Se la Repubblica Centroafricana è nelle mani del generale golpista François Bozize, il minuscolo Swaziland è nelle mani di un giovane re, Mswati III, più preoccupato di scegliere ragazze vergini da sposare e lussuose Mercedes per la sua residenza piuttosto che occuparsi dei bisogni di una popolazione poverissima e falcidiata dall’aids. Re Mswati III detiene il potere assoluto e la totalità delle ricchezze del paese mentre il 70 per cento della popolazione vive con appena 80 centesimi al giorno. Mswati, nato nel 1968, è diventato re nel 1986. Studiava alla Sherbone School, nel Dorset in Inghilterra, quando gli comunicarono la morte di suo padre, Sobhuza II. Il suo paese vanta il primato mondiale dei malati di aids e a niente sono valse le critiche del modo sul modo in cui il re Mswati III gestisce l’emergenza sanitaria. Celebre una sua dichiarazione: «tutti i malati di aids dovrebbero essere individuati e sterilizati». Nel settembre del 2001 tutte le donne non sposate e i cittadini con meno di 18 anni sono stati obbligati alla castità (umcwasho) per fronteggiare i pericoli dell’aids. Il periodo di castità andava dal 9 settembre 2001 fino al 19 agosto 2005. Ma è stato lo stesso Mswati a violare il provvedimento quando ha voluto come tredicesima moglie una ragazza di 17 anni. Mentre il 35 per cento della popolazione è afflitta dall’aids e la metà dei cittadini vive sotto la soglia della povertà, il monarca ha pensato di spendere 45 milioni di dollari per acquistare un jet privato. La cifra che ha speso è equivalente al budget della sanità per un periodo di due anni. Mswati nomina i ministri, i due terzi del Parlamento e i giudici. È anche il comandante supremo delle forze armate. Il re dello Swaziland continua a mascherare il suo despotismo sotto la copertura delle “tradizioni africane”.
Sulla costa orientale c’è Isaias Afewerki, presidente dell’Eritrea, ultimo paese africano nella classifica della libertà di stampa. In Ciad Idriss Deby, che ha preso il posto del sanguinario dittatore Hissene Habrè, è stato di recente accusato di comprare armi con i soldi che la Banca Mondiale ha donato al suo Paese per realizzare progetti di sviluppo. Sull’Atlantico c’è anche Maaouiya Ould Sid Ahmed Taya, che dal 1984 guida una Mauritania dove ancora esiste il problema della schiavitù. Più a Sud, c’è Lansana Conte, che governa la Guinea con il pugno di ferro da più di due decenni, e nella Repubblica del Congo c’è Denis Sasso-Nguesso, protagonista di una sanguinosa guerra civile nella fine degli anni Novanta, durante la quale i miliziani a lui fedeli, riuniti nel gruppo armato Cobra, si sono macchiati di atrocità contro la popolazione.
L’ultimo vertice tra le Ue e i Paesi africani che si è tenuto a Lisbona: anche in quella occasione gli affari hanno avuto ragione dei principi. Nella foto della pagina a destra, il leader dell’opposizione dello Zimbabwe, Morgan Tsvangirai, che si è ritirato dal ballottaggio e si è rifugiato nell’ambasciata dell’Olanda
Soltanto tre Paesi africani (Zimbabwe, Sudan e Ciad) sono nel mirino di Onu e Ue
Embargo, arma spuntata di Raffaele Cazzola Hoffman obert Gabriel Mugabe; presidente; data di nascita, 21 1924». febbraio Recita così la prima riga dell’elenco ufficiale dei personaggi legati al regime dittatoriale dello Zimbabwe su cui pende un embargo totale sull’intero territorio dell’Unione europea. In base alla «posizione comune 2004/161/Pesc» del Consiglio europeo con validità prorogata fino all’anno prossimo, il padre-padrone dell’ex Rhodesia non può essere intestatario (in
«R
Al congelamento finanziario si aggiunge anche il divieto per Mugabe e un numero più ristretto di personaggi a lui vicini di mettere piede sul suolo europeo. In teoria, se il dittatore o qualcuno degli altri “proscritti” aggirasse l’embargo potrebbe essere arrestato sull’istante. Anche se poi, come è avvenuto in dicembre per il vertice UeAfrica a Lisbona e poche settimane fa per il vertice Fao a Roma, Mugabe può sfruttare le occasioni ogni tanto concessegli dall’extraterritorialità delle
Il bisogno di materie prime spesso supera l’orrore per i crimini di molti regimi forma diretta o tramite società e intermediari a lui riconducibili) di soldi o altri beni sul territorio comunitario. Lo stesso vale per sua moglie, quasi tutti i ministri, compreso quello degli Esteri che in teoria dovrebbe rappresentarlo nel mondo, il capo della polizia e numerosi altri esponenti della nomenclatura. È insomma un’autentica «black-list» di ben 76 nomi quella stilata da parte della Ue in risposta ai crimini dell’ineffabile Mugabe, lanciatissimo verso l’ennesima conferma-bufala alla guida dello Zimbabwe.
istituzioni ospitanti. Lo Zimbabwe è certamente il caso più noto di Paese africano sotto embargo. Ma non l’unico.
Il Sudan sta subendo le sanzioni economiche e militari della Ue per la repressione nel Darfur. Anche le Nazioni Unite sono intervenute. Il presidentedittatore Omar al-Bashir, probabilmente aiutato dal fatto che, al contrario dell’incontenibile Mugabe, limita al massimo i viaggi all’estero e di rado rilascia dichiarazioni pubbliche, è rimasto immune da sanzioni individua-
li. Il Sudan è da alcuni mesi sull’orlo di un pericoloso conflitto col vicino Ciad. Le truppe sudanesi, che fanno base proprio nella regione posta sotto il comando del famigerato generale el-Hassan, sono accusate di sconfinamento e di appoggio ai movimenti ribelli che vogliono rovesciare il presidente del Ciad, Idriss Deby. Eppure la “vittima” Daby è tutto meno che uno stinco di santo.Tanto è vero che sia le Nazioni Unite, sia l’Unione europea hanno emesso varie risoluzioni per vietare i commerci militari con il governo del Ciad. E’ significativa soprattutto la scelta europea. Per renderla operativa è stato infatti essenziale l’appoggio della Francia. Un fatto, questo, piuttosto clamoroso. Infatti fino a poco tempo fa l’ex potenza coloniale del Ciad tra molte critiche aveva in qualche modo giocato un ruolo di mediazione a favore di Deby raffreddando l’intransigenza europea in cambio del mantenimento di una forte influenza politica e della presenza di un contingente militare. Sempre sul versante orientale dell’Africa, ma spostandosi verso meridione rispetto al Sudan, si arriva in un Paese che oggi non è colpito da alcun embargo in vigore, ma che appare sempre sull’orlo di ricevere un “cartellino rosso”dall’Onu e dall’Unione europea. Nel 2001, insieme alla confinante Etiopia, l’Eritrea subì le sanzioni dell’Onu perché accusato di orchestrare un traf-
fico clandestino di armi per sabotare gli accordi di pace dell’anno prima e avviare l’ennesima guerra nel Corno d’Africa. Oggi la situazione “border-line” dell’Eritrea è molto simile a quella in cui si trovano altri regimi africani a rischio sanzioni come Camerun, Congo, Guinea e Repubblica Centrafricana.
Facendo un bilancio delle attuali sanzioni internazionali in vigore nei confronti delle dittature del Continente nero si nota che gli unici Paesi liberticidi verso cui l’Onu o l’Unione europea hanno in atto misure restrittive concrete e incisive sono lo Zimbabwe e, pur in misura più ridotta, il Sudan e il Ciad. Tre Paesi in un Continente composto da 53 nazioni, molte delle quali sono dittatoriali, è un numero molto esiguo che fa riflettere su due elementi: il ritardo con cui le organizzazioni internazionali si muovono; la mancanza di una visione d’insieme al posto della quale emerge un’ottica emergenziale per cui le potenze mondiali, una volta individuato uno o due casi eclatanti quali sono oggi quelli dello Zimbabwe o del Sudan, distolgono l’attenzione da tutto il resto. Un caso evidente è quello della Guinea Equatoriale. Il dittatore Teodoro Obiang sta in una botte di ferro grazie al sostegno della Cina, grande importatrice del suo abbondante petrolio a buon mercato.
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L’Africa deve ammettere che il suo sottosviluppo è colpa della mediocrità di molti suoi leader
Il colonialismo è solo un alibi di Justice Malala rano soprattutto leader politici e uomini d’affari gli 800 delegati riuniti al Forum mondiale economico per l’Africa che si è tenuto a Cape Town pochi giorni fa. C’era anche il nostro presidente e quelli di molti Stati africani e tutti erano coscienti che aleggiava un certo fetore al centro della sala, ma nessuno voleva riconoscerlo. Ci giravano intorno sperando che se ne andasse; pranzarono, presero un cocktail, tornarono e quel cattivo odore era sempre lì. Verbalizzarono una serie di stupidaggini riguardo gli squilibri commerciali e l’aumento vertiginoso dei prezzi, e ritennero di essersi così impegnati a risolvere i problemi che davvero affliggono il loro mondo, come il prezzo del petrolio, ma non fu sufficiente. L’odore era sempre più forte e tutti continuavano a non parlarne, perchè se qualcuno vi avesse accennato avrebbero anche dovuto esaminarne le cause.
cercato di ottenere un terzo mandato come presidente dell’Anc. Ci si può solo augurare che Mbeki capisca che, quando la gente parla dei leader africani che non vogliono cedere il potere, si riferisce a persone come lui.
E
Poi è arrivato Raila Odinga, primo ministro del Kenya, che ha rotto la cospirazione della negazione e ha puntato il dito contro il fetore, sapendo bene di cosa stava parlando. Si trattava esattamente dello stesso marciume che ha portato il presidente del Kenya, Mwai Kibaki, ad ottenere irregolarmente la rielezione alle consultazioni dello scorso dicembre, un furto che ha provocato la morte di 15mila persone a causa dei violenti scontri che ne sono seguiti. Odinga ha avuto il coraggio di parlare del nocciolo della questione, mentre gli altri leader africani hanno taciuto; ha detto che l’Africa dovrebbe smettere di usare il suo passato di vittima della colonizzazione come un alibi, e accettare che la responsabilità dello stato di sotto-
sviluppo del Continente è della mediocrità della guida politica, mentre i Paesi asiatici sono andati avanti; ha sostenuto che «è una disgrazia che in un Paese africano le elezioni possano rimanere in sospeso senza che vengano annunciati i risultati per più di un mese, e che i leader africani tacciano in proposito, perché questo in Europa non accadrebbe. Bisogna sapere quello che si intende e intendere quello che si dice quando si parla di sviluppo africano. La strada che è stata scelta è responsabile della situazione attuale, e i capi di Stato africani hanno svogliatamente tentato di condividere le responsabilità del potere».
libri e riviste
l’alleanza del libero commercio fra i sud del mondo ad aver proiettato i rapporti tra Asia e Africa ai primi posti del trade internazionale. Ne è convinto l’autore che è consulente della World Bank e un collaboratore di Foreign Affairs. Si parla d’investimenti che possono diventare una grande promessa per il continente cenerentola. È il primo lavoro sistematico sull’argomento e valuta la penetrazione nel Continente nero dei due giganti asiatici: Cina e India. Sono 450 le imprese esaminate, che operano in quattro Paesi: Sud Africa, Tanzania, Ghana e Senegal, per dare la misura di quanto la penetrazione commerciale sia in atto. Una preoccupazione per un Occidente, Ue ed Usa, che vede ormai il terzo po-
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sto nelle esportazioni occupato da Cindia. Proprio le esportazioni dall’Africa all’Asia, sono triplicate negli ultimi 5 anni. E si è passati dalle ancora richiestissime materie prime ai semilavorati, ai beni di consumo e al turismo, per una classe media che, sia in Cina che in India, incomincia a crescere e a consumare. Broadman però avverte una pericolosa asimmetria in questo rapporto. Cioè la quota parte delle esportazioni africane sono solo l’1,6 per cento dell’import asiatico dal resto del mondo. Harry G. Broadman Africa’s Silk Road World Bank publisher free on website
Le parole di Odinga sono state una sana diversione dai sorrisi vacui e dalla falsa cortesia tipiche di questi incontri. Era chiaro che non era lì per mangiare e bere; ha vinto le elezioni, il risultato gli è stato sottratto e non ha ricevuto alcun sostegno dai leader africani.Voleva dire la verità e lo ha fatto. Bisogna solo sperare che i convenuti lo abbiano ascoltato, perché le sue parole dovrebbero averli fatti vergognare tutti, visto che in questa sala c’erano i valorosi africani che hanno mantenuto un vile silenzio mentre Robert Mugabe arrestava, torturava e derubava i suoi conterranei, e c’era Thabo Mbeki, che solo sei mesi fa ha
l caso sollevato dalla corte di giustizia turca contro il Partito giustizia e sviluppo (Akp) del premier Erdogan, continua a produrre preoccupazione in Occidente. Per l’autore il primo ministro non è laico, neanche liberale o democratico; sarebbe solo la versione turca di Putin. E la questione del conflitto fra secolarismo e islam in Turchia non è di facile risoluzione. Prove di affidabilità di Erdogan e del suo partito ce ne sono poche, se da un lato ha promosso molte riforme, dall’altro sembra aver utilizzato il processo d’adesione alla Ue solo per districarsi nella rete di controlli costituzionali che la Turchia ha eretto a difesa dello Stato laico. Michael Rubin The case against Turkey’s ruling Party The American–June 20, web exclusive
I
Tuttavia è incoraggiante vedere che ci sono dirigenti sudafricani in accordo con le tesi fuori dal comune di Odinga. La donna d’affari Wendy Luhabe ha rivelato i suoi personali sentimenti quando ha lamentato la scarsa qualità della leaderhip politica del Continente, ma ha sostenuto che se Odinga rappresenta il nuovo volto dell’Africa c’è speranza. «I nostri leader, semplicemente, non stanno accettando la sfida», ha detto, aggiungendo che «c’è una crisi di leadership nel mondo e il Sud Africa non fa eccezione». Ha puntato il dito contro la «cospirazione del silenzio dei governanti africani» riguardo i problemi più gravi, e questo, ha sostenuto, rende difficile per il Continente «trasformare le sfide in ciò che vorremmo considerare opportunità senza precedenti». Noi cittadini comuni incolpiamo i nostri politici per le condizioni in cui ci troviamo, eppure li lasciamo fare. I sudafricani, e gli africani in generale, devono partecipare molto di più alla vita delle loro democrazie; non dobbiamo solo votare, ma far sentire la nostra voce. I migliori democratici sono come i membri del sindacato dei portuali di Durban, che due mesi fa si sono rifiutati di scaricare i rifornimenti di armi destinati al regime di Mugabe. Non hanno solo alzato la voce, hanno agito. L’era del Grande Uomo in Africa è finita, e i cittadini comuni devono assicurarsi che non torni mai più. Editorialista del Sunday Times (Sud Africa)
a guerra che seguì la proclamazione dello Stato d’Israele nel 1948, vista da una prospettiva che potremmo definire «revisionista». Le responsabilità individuali e nazionali che portarono all’esodo di massa dei palestinesi, messe sotto la lente d’ingrandimento dello studio dei documenti civili e militari resi disponibile dalla parte non araba. Morris, che è il padre dei nuovi storici israeliani, spiega le modalità in cui quell’esodo si svolse e il problema dei profughi. Racconta le ragioni che hanno spinto gli studiosi israeliani a riesaminare, oltre i miti del sionismo e del nazionalismo ebraico, la realtà della fondazione di Israele. Morris rivede il 1948 con gli occhi di oggi, pensando che senza una completa separazione «ci sarà una guerra perpetua finché uno dei due popoli rivali verrà gettato in mare o nel deserto». Benny Morris 1948 Yale University press – 594 pagine – 26 dollari
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a cura di Pierre Chiartano
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cultura
La struggente vita politica e familiare di un basco dell’Eta nel romanzo di Bernardo Atxaga ”Il libro di mio fratello”
L’uomo che sotterrava le parole di Massimo Tosti Arriva da Einaudi l’ultimo romanzo di Bernardo Atxaga ”Il libro di mio fratello” (a sinistra la copertina). Lo scrittore basco è divenuto famoso in tutto il mondo quasi venti anni fa con ”Obabakoak”, scritto in euskera, la lingua basca, e da lui stesso tradotto in spagnolo
vete mai visto quelle enormi palle d’acciaio che si appendono a una gru e servono a demolire edifici?», domanda Joseba a un certo punto del racconto. L’immagine è la stessa utilizzata trent’anni fa (con diverso valore simbolico) in Prova d’orchestra. «La gru alza la palla, e poi la lascia cadere. È esattamente ciò che è accaduto nei Paesi Baschi. Solo che laggiù la palla ha perso il controllo». Joseba è uno dei personaggi de Il libro di mio fratello, l’ultimo romanzo di Bernardo Atxaga (vincitore del Grinzane Cavour nella sezione riservata agli scrittori stranieri, e del Premio Mondello), lo scrittore basco divenuto famoso in tutto il mondo – quasi venti anni fa – con Obabakoak, scritto in euskera, la lingua basca, e da lui stesso tradotto (e riadattato) in spagnolo. Joseba è lui stesso, anche se la voce narrante è quella di David (uno dei suoi migliori amici, suo «fratello»: e questo spiega il titolo), morto nel 1999.
«A
David aveva tenuto una specie di diario, un libro autobiografico (stampato in tre copie: «David diceva scherzando che tre esemplari sono tanti e che si sentiva un pallone gonfiato»), con la preghiera che Joseba ne portasse una alla biblioteca di Obaba (il paese immaginario nel quale erano nati, evocato già nelle precedenti opere di Atxaga). Dopo averlo letto, Joseba decide che quell’opera merita di essere conosciuta da un pubblico più vasto e la riscrive in spagnolo, intrecciando i ricordi dell’amico scomparso con i propri. «I fautori della dittatura
militare, guidati dall’odio nei confronti dei baschi», spiega Joseba, «avevano collocato la palla d’acciaio molto in alto, e così aveva avuto inizio tutto quanto». Ai tempi della guerra civile, ai tempi di Hitler e di Franco, quando ci fu il bombardamento di Guernica, «il primo della storia contro i civili». Quello fu il principio. «Poi, con gli anni – è impossibile guidare la palla d’acciaio dove si vuole – quanti erano stati vittime si trasformarono in carnefici». È una tragedia ancora attuale. L’Eta, il braccio armato del-
nezza, delle amicizie, della terra d’origine. Che sono sentimenti radicati profondamente nei popoli che si portano addosso la sofferenza, e negli uomini che sono andati a vivere lontano (negli Stati Uniti) come Davide, come Joseba, come – per suggerire un esempio simile (per molte ragioni) – l’armeno William Saroyan di Che ve ne sembra dell’America?. Gente che deve fare i conti, per tutta la vita, con la patria lontana e sofferente, e con una lingua che rischia di essere inghiottita dal nulla. Davide – l’a-
L’opera rappresenta uno straordinario omaggio alla nostalgia della giovinezza, delle amicizie, della terra d’origine e della lingua euskera, ormai soppiantata da quella spagnola l’autonomismo basco, ha mietuto vittime, ma i baschi non hanno visto riconosciuti i propri diritti (appoggiati da molte personalità di livello internazionale, come – per esempio – il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga). Il racconto politico è importante in questo romanzo di Joseba Irazu Garmendia (che si chiama proprio come il personaggio del libro, anche se dal 1972 ha scelto lo pseudonimo con il quale è diventato famoso, coniugando il nome di battesimo di un amico – Bernardo che gli prestò la prima macchina da scrivere, permettendogli di realizzare i primi racconti, con quello di un suo bisnonno), ma non rappresenta l’unica chiave di lettura. Il libro di mio fratello (Einaudi, 398 pagine) è uno straordinario omaggio alla nostalgia: della giovi-
mico strappato alla moglie americana e a due figlie ancora piccole, all’improvviso («Così era la morte, quello era il suo modo di agire») – aveva escogitato un gioco (apparentemente macabro) per insegnare alle due bambine alcune parole in euskera. Quando erano morti tre criceti che tenevano in casa, li aveva sepolti in tre piccole tombe nel cimitero di Stoneham, in California. «Disse alle bambine che sotto questa terra soffice le loro mascotte avrebbero dormito dolcemente, e lo accettarono con allegria, si sentirono molto rincuorate. Ma poco tempo dopo, si ruppe lo spremiagrumi, e Liz (la figlia più grande), che aveva allora sei anni, decise che gli si doveva dare sepoltura. Poi toccò a una paperetta di plastica che si era bruciata cadendo sopra il barbecue. E più tardi a un carillon
che aveva smesso di funzionare. Non ci eravamo subito resi conto che le bambine rompevano apposta i loro giochi. Soprattutto la piccola, Sara. Fu allora che David inventò il gioco delle parole».
Iniziarono a sotterrare le parole della lingua basca. Joseba al cimitero trova le scatole di fiammiferi nelle quali sono conservate le spoglie delle parole. In uno c’era scritto mitxirrika, «il nome che si usava a Obaba per dire farfalla». In un’altra si «nascondeva una frase completa: Elulla mara-mara ari du. Si diceva a Obaba quando nevicava dolcemente». La vita di Davide aveva subìto una svolta drammatica, alla fine dell’adolescenza, quando aveva scoperto che suo padre era stato un assassino, al servizio della dittatura. Quella rivelazione l’aveva spinto a scegliere l’opposizione dura al regime, con la conseguenza di essere arrestato e torturato. Soltanto l’amnistia – dopo la morte di Franco – gli aveva ridato la libertà, e la voglia di fuggire altrove, per crearsi una nuova esistenza, in California, come amministratore di un ranch di uno zio. Aveva dettato lui stesso la lapide per la propria tomba: «Mai fu più vicino al paradiso di quando visse in questo ranch». Incisa sulla pietra in tre lingue: l’inglese, lo spagnolo e – naturalmente – l’euskera. Loro, i baschi – confessa Atxaga – si sentono come l’ultimo dei mohicani. Ma quella lapide è un atto d’amore verso l’America, che ha braccia larghe per accogliere tutti. Anche se – ha dichiarato di recente lo scrittore, «paradiso e inferno si toccano».
cultura na corte «senza femminino» non si può di certo chiamare Corte. Il problema non è da poco: a Unità d’Italia raggiunta, tra i vari nodi all’ordine del giorno, c’è infatti pure questo. Anche perché, oltre che la vedovanza, il neo-re Vittorio Emanuele II vede venire meno la compagnia delle due figlie, Maria Clotilde e Maria Pia, entrambe spose giovanissime. Del resto - come scrive Carlo Fiorentino nel bel libro La corte dei Savoia, Il Mulino, pp.365, euro 27 - «non poteva costituire un’alternativa la bella Rosìn, “un donnone grande e grosso che parla in dialetto piemontese, che è il più orribile gergo che esiste nella cristianità”». Rosìn, amante storica del “re che fece l’Italia”, all’anagrafe fa il nome di Rosa Varcellana ed è spesso ospite del Teatro Regio di Torino «durante i balli di carnevale, con un enorme medaglione contenente il ritratto del re che le pendeva nel mezzo dell’abito con grande scandalo dei presenti». Scandalo che non si placa neppure quando - a parziale risarcimento di un matrimonio già annunciato e sfumato per la tenace azione di Cavour - Vittorio Emanuele le concede il titolo di contessa di Mirafiori e Fontanafredda. Perfino Pio IX si scaglia contro «la pratica immorale, che da diversi anni tiene la sua Maestà con donna triviale e disonorata e con pubblico scandalo». A non alleviare la situazione della corte è poi lo stesso re, fin da giovane piuttosto restio ad assecondare cerimonie e riti: «Vittorio Emanuele non amava molto mostrarsi al popolo in veste ufficiale e non dissimulava il suo orrore per tutto ciò che era rappresentazione ed etichetta». Le cose iniziano ad andare un po’ meglio solo quando da Torino ci si trasferisce a Roma, e a reggere le sorti della Corona ci sono Umberto e Margherita. Per quest’ultima, in particolare, è una vera ovazione: «Margherita - scrive Fiorentino - si era calata nelle vesti regali, consapevole che se si voleva radicare nell’antica sede del pontefice (il Quirinale, n.d.r.) il culto della monarchia, tale culto lo si doveva personificare, e la sua figura era l’unica che potesse offuscare il mito del “papa prigioniero” che un’accorata regia in Vaticano alimentava in opposizione allo Stato liberale». La corte, dunque, inizia finalmente ad essere Corte, anche se l’avvento della Sinistra storica non aiuta di certo a farle
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U
Carlo Fiorentino racconta i retroscena della casa regnante
La Corte dei Savoia tra amori e intrighi di Filippo Maria Battaglia spiccare il volo. Quando, dopo le elezioni del 1876, De Pretis & Co. scalzano gli eredi di Cavour, il bel mondo, seppure con qualche tentennamento, è costretto ad aprire agli uomini nuovi case e salotti. Ma i pregiudizi persistono: pochi nobili e troppi parvenu, lamenta il giro regale. Non è un caso che
Dall’amante di Vittorio Emanule II, agli interessi particolari della regina Margherita per Carducci. Questi i passaggi piccanti del libro
«soltanto Nicotera aveva titolo di ballare a corte una quadriglia o un valzer con la regina, poiché disponeva di un titolo nobiliare». Margherita resta comunque il faro: è colta, aggraziata, persino sensuale. E con lei, a brillare, sono due protagonisti della vita politica e culturale che fi-
Il Re Vittorio Emanuele II con Rosa Varcellana. A sinistra il Mausoleo dedicato alla “bela Rosìn”
niscono con l’essere inevitabilmente rivali: Marco Minghetti e Giosuè Carducci. Di quest’ultimo, alla fine degli anni Sessanta, sono note le simpatie repubblicane, che gli fanno persino rifiutare onorificenze e vari titoli regali. Fino a quando - siamo nel novembre 1878 - il vate non incontra la regina. È un colpo di fulmine, o meglio «un fatale incontro», testimoniato nell’ode Alla Regina d’Italia: «fulgida e bionda ne l’adamantina luce del serto tu passi, e il popolo superbo di te si compiace qual figlia che vada all’altare». Ma a restare folgorato non è solo Carducci. Un giovanissimo D’Annunzio, ad esempio, scrive in quelle stesse settimane: «Ella ha nel suo spirito una vivacità, una gajezza e una volubilità tutta parigina; e nella sua eleganza un gusto originalissimo. La leggerezza della sua andatura, la grazia delle sue attitudini, la perfezion di forma del suo busto, l’esilità del suo piede sono ormai celebri». Tra i politici, spicca invece Marco Minghetti, vero e proprio mentore regale. Bellissime e accorate sono le lettere che i due si scambiano (pubblicate da Leo Longanesi nel secondo dopoguerra). Dal politico bolognese la regina impara il latino, ma non solo. Come racconta Fiorentino, «nelle sue lettere suggeriva anche gli orientamenti ideologico-culturali della regina, i cui interessi, peraltro, sembravano inizialmente discostarsi dalla colta ma un po’ angusta sensibilità del leader della Destra Storica». Naturale che con simili presupposti si possano adombrare a corte gelosie di ogni specie. Ed infatti è chiaro come proprio Minghetti, «forse per antagonismo politico-ideologico, forse per gelosia personale, intendesse surrettiziamente sminuire agli occhi di Margherita la figura poetica e intellettuale di Carducci». Così, fino al dicembre 1886, i rapporti tra il futuro Nobel e la regina si congelano, salvo riprendere con costanza e reciproca simpatia, tanto da far sussurrare equivoci atteggiamenti. Come quando, ad esempio, dopo un discorso ufficiale tenuto a Roma dal poeta degli Juvenilia, «Margherita si complimentò con l’oratore e ne prese il braccio per discendere le scale e conversare con vivacità con lui». Maliziosi rumours, che rimarranno alla storia come i pochi guizzi di una corte incapace a rapportarsi con i fasti e le vivacità degli altri regni d’Europa.
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cinema
Dall’Incredibile Hulk al Cavaliere oscuro, tutti i supereroi cinematografici protagonisti dell’estate
Weekend col mostro di Francesco Ruggeri state? Tempo di mare, di sole e di supereroi. Agguerriti, numerosi e pronti a sbarcare nelle nostre sale con lanci megagalattici. A dire il vero, facciamo ancora fatica ad abituarci. Ormai c’eravamo rassegnati al binomio caldo/cinema chiusi. Sembra ieri che intorno ai primi di giugno sulle sale cittadine calava impietosa la saracinesca. Chiusa baracca e burattini, arrivederci a settembre o al massimo a fine agosto. Ma la musica è cambiata. E’ bastato poco: serviva semplicemente sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda giusta. Quale? Quella americana. Perché è col caldo bollente che i grossi produttori delle major americane di turno fanno uscire i loro assi nella manica. Blockbuster strombazzati lungo tutto l’anno, produzioni da centinaia di milioni di dollari e compagnia bella.
E
Da qualche tempo in qua si è accodata anche l’Italia. E ha fatto bene. Basti dare un’occhiata al listino delle nostre case di distribuzione per i mesi di luglio e agosto. Roba che nemmeno a Natale, quando i cinema pullulano di gente e popcorn. Un piccolo assaggio? Vi spariamo subito due titoli: L’incredibile Hulk e Dark Knight (da noi Il cavaliere oscuro). Il che ci consente di aprire una parentesi sul ritorno massiccio dei super eroi nel cinema attuale. Dopo la bella sorpresa avuta con Iron Man (campione d’incassi in patria e non solo), interessante variazione sul tema del supereroe condita da non troppo action e molta commedia sofisticata, è la volta di Hulk, il mostro verde più famoso della storia. In primis la cosa ci ha stupito. Il perché è semplice da indovinare. La riduzio-
ne cinematografica più recente del famoso fumetto Marvel risale al 2003. Che senso ha riprovarci dopo nemmeno cinque anni? Semplice, l’Hulk firmato da Ang Lee aveva scontentato tutti. I produttori, che avrebbero voluto qualcosa di più spettacolare e meno forzatamente filosofico; il pubblico, che ha risposto picche e perfino la stessa Marvel, poco convinta dell’operazione sin dall’inizio. La parola d’ordine era dunque una sola: cambiare. Non tanto la storia, ma il regista, gli interpreti e lo spirito di fondo con cui affrontare il gi-
tanto arrosto, in soldoni un’escalation supervitaminica ed elettrizzante di azione al cardiopalma.
Il che non ci ha francamente stupito. Ripensando ai tre film precedenti del regista (i due capitoli di Transporter e Danny The Dog) ci siamo chiesti come avrebbero fatto i produttori a far scalare qualche marcia a un cinema su di giri come il suo. Poi abbiamo capito. Semplicemente non c’hanno nemmeno provato. Basti considerare l’incipit del film, il primo quarto d’ora, roba
Dopo il flop dell’uomo verde firmato Ang Lee, ci riprova a luglio il regista Louis Leterrier, portando sul grande schermo un eroe più fisico, tormentato, ossessionato dai suoi battiti cardiaci ma alla costante ricerca della propria amata gante verde. Se Ang Lee aveva confezionato un racconto in cui Hulk, intrappolato fra complessi edipici, digressioni mitiche e tinte filosofiche, sembrava più che altro una scusa per dire ”altro”, la scelta caduta sul cineasta transalpino Louis Leterrier ci è parso un vero ritorno di fiamma alla vera anima del fumetto. Poco fumo e
di sicuro impatto popolare, ma volendo anche abbastanza teorica. In quindici-minuti-quindici succede di tutto, il film potrebbe già finire. Rivediamo con un bell’effetto ottico (tipo bolla trasparente) i primi esperimenti condotti sul corpo di Bruce Banner (il protagonista) e la sua successiva e impressionante trasformazione in un essere che di umano non ha più nemmeno il ricordo. E poi di seguito la sua drammatica fuga,
In alto, l’Incredibile Hulk del regista Louis Leterrier; a sinistra, il protagonista di Hellboy2, diretto da Guillermo Del Toro; a destra, una scena dell’ultimo film su Batman Dark Knight (Il cavaliere oscuro), di Christopher Nolan
l’amore interrotto con la giovane dottoressa (l’unica a cui stanno davvero a cuore le sue sorti) e l’accanimento con cui il generale di turno lo insegue nel tentativo di catturarlo e servirsene per scopi non proprio ortodossi. Insomma, un gran bel ”bailamme”di punti di vista e di (possibili) punti di fuga. Al centro di tutto, il mitico Bruce Banner. Impossibile equipararlo agli altri supereroi di nostra conoscenza. Per una semplice ragione. Per tutti vale l’ormai celeberrimo motto dell’arrampicamuri più famoso della storia (Spiderman), vale a dire grandi poteri uguale grandi responsabilità. E, aggiungiamo noi, gran belle soddisfazioni. Per Hulk no. Il suo potere gli porta solo un gran male. Braccato come il peggior delinquente del pianeta e asfissiato sino all’ossessione dal timore che i suoi battiti cardiaci superino una certa soglia. Dovesse malauguratamente succedere, il finimondo sarebbe dietro l’angolo. La trasformazione pure… Ma lui continua imperterrito ad esistere e a resistere. Con la consapevolezza d’essere un uomo solo e (in potenza) un mostro la cui forza sovrumana non può nemmeno essere messa a servizio della comunità. Non gli resta che fuggire, fuggire e ancora
fuggire. Leterrier azzecca perfettamente il bandolo della matassa. E prova a filmarlo. Prima di tutto incollandosi al braccialetto da polso che Banner fissa continuamente col timore di veder salire le pulsazioni e poi alla palestra in cui un maestro orientale gli insegna precise tecniche di rilassamento. Subito dopo esplode una delle parti più intense e inaspettate del film: quella brasiliana. Il rifugio di Banner si trova infatti in una favela di Rio De Janeiro dove vive come l’ultimo dei disperati. Brandina sempre sottosopra, televisore dal quale imparare qualche frasetta in più di portoghese e un cane che gli fa compagnia, manco fosse il Will Smith di Io sono leggenda. Un reietto della società, insomma, intenzionato però a far sì che le cose prendano al più presto una piega diversa. La piega ha gli occhi intensi di un barista amico che offre asilo a Bruce e a far sì che si ricongiunga con la sua amata.
Eccoci allora al secondo punto nevralgico del film: il mèlo. Avevamo covato il sospetto che Leterrier fosse un romanticone perso già pensando a certi frammenti di Danny The Dog. Ora ne abbiamo la riprova schiacciante. Il suo ’incredibile’ Hulk passerà infatti alla storia del genere come l’opera in cui il mostro verde tira fuori un cuore (e un anima) grosse come una casa. Perché fra una pallottola schivata, un piano elevato-
cinema
re scagliato contro i nemici manco fosse una palla da baseball e un furore schizzato da orbite verdi come non mai, non può fare a meno di fare gli occhi dolci (più o meno..) alla sua bella. Da antologia dunque la sequenza in cui, salvandola dal fuoco incrociato dell’artiglieria ultrapesante, la porta in salvo in una grotta, ma anche quella finale in cui le raccoglie una lacrima con lo sguardo attonito di chi sta scoprendo tutto un altro mondo. Fra La bella e la bestia e King Kong, Leterrier si dimostra dunque cineasta sopraffino, imbottito di riferimenti giusti e capace di mediare come pochi altri hanno fatto fra le ragioni dell’industria e quelle del cuore. Senza rinunciare a un grammo di personalità autoriale, il che non guasta mai.
Una parola sugli interpreti: Banner è il magnifico Edward Norton, capace di non sbagliare un colpo e di alternare con sorprendente nonchalance ruoli completamente diversi. La sua amata risponde al nome di Liv Tyler (bel talento, peccato che ultimamente stia facendo poco), mentre Tim Roth e William Hurt interpretano rispettivamente l’inflessibile militare che darà del filo da torcere a Hulk e lo spietato generale.Torniamo dunque a noi, anzi ai supereroi in procinto di invadere le sponde italiche. Sul finire di luglio, i patiti di buon cinema e del sempreverde Batman avranno pane per i loro denti.
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In realtà ormai da mesi non si parla d’altro. Il cavaliere oscuro (sequel di Batman Begins) è diverse cosette insieme. Prima di tutto un evento mediatico, scoppiato all’indomani della morte di Heath Ledger con un clamore impressionante.
Il povero Heath infatti (ventisettenne attore australiano di belle speranze), è stato trovato morto nella sua stanza d’albergo. All’inizio si pensava al suicidio, i referti subito successivi hanno invece stabilito con certezza che s’è trattato di tragica fatalità, causata da mix mortale di sonniferi. Il caso ha voluto che Il cavaliere oscuro sia quasi interamente centrato sul Joker, interpretato dallo stesso Ledger. Il resto lo immaginate. E da quel momento in poi si è cominciato a parlare di film maledetto. Lo stesso Jack Nicholson (interprete del Joker del Batman burtoniano) si è soffermato a lungo sulla valenza malefica del personaggio e sulle difficoltà psicologiche che anche uno come lui (!) affrontò per la parte. Altro aspetto da non sottovalutare: il prequel del film (diretto sempre dal regista inglese Christopher Nolan e uscito in sala nel 2005) aveva riscosso una marea di consensi. Ergo, attesa elevata al cubo. Altro film da tenere d’occhio: parliamo di Hellboy 2. Esce nelle nostre sale il 18 luglio (in contemporanea con l’America) ed è il sequel del primo film diretto nel 2004 da Guiller-
mo a vedere. E poi? Per il momento è tutto. Perlomeno restando nell’arco di tempo dei prossimi due mesi. Saltando invece al 2009, troviamo alcune chicche degne di nota. Il 1 maggio del prossimo anno infatti vedrà la luce nelle sale ameriX-Men Origins: cane Wolverine, lo spin-off (messo in cantiere già da qualche tempo) dedicato all’X-Men più affascinante, Wolverine appunto, interpretato dall’atletico e carismatico Hugh Jackman. Prima ancora (tra la fine del 2008 e il gennaio del 2009) sarà invece la volta di The Spirit, adattamento cinematografico del fumetto creato negli anni Quaranta da Will Eisner. Di che tratta? Di un giustiziere notturno in cerca di criminali da punire… A dirigere le danze in cabina di regia sarà Frank Miller (quello di 300 e Sin City), dunque siamo più che fiduciosi.
mo Del Toro. Due parole sul personaggio: nato dalla fervida immaginazione di Mike Mignola e apparso per la prima volta su una pubblicazione della Dark Horse, è un demone gigantesco e nerboruto, un vero mostro evocato nel ’44 dai nazisti per scopi non proprio umanitari. Fin quando il profesor Broom lo prende sotto la sua protezione, spingendolo dalla parte del bene. Il primo Hellboy non ha proprio brillato al botte-
ghino (in America ha incassato appena 59 milioni di dollari), ma nel frattempo le quotazioni di Guillermo Del Toro sono schizzate alle stelle. Dopo aver diretto La spina del diavolo e Il labirinto del fauno (vincitore di svariati Oscar, nonché grosso successo di pubblico e di critica), è diventato improvvisamente il regista sul quale i produttori americani scommetterebbero ad occhi chiusi. Con Hellboy 2 lo hanno fatto, stare-
E per finire, una ciliegina sulla torta. Nell’ultima bellissima sequenza de L’incredibile Hulk avrete notato l’irruzione in campo (un vero e proprio cross-over) di Robert Downey Jr., ovvero Iron Man. Si avvicina al bancone del bar e si rivolge al generale, parlandogli di una futura alleanza delle forze del bene, riunite in un unico gruppo. Allusione colta al volo. Downey si riferisce al gruppo degli Avengers (da noi uscirà come I vendicatori). Una vera anticipazione spifferata in diretta dal grande schermo…
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Secondo voi Donadoni si dovrebbe dimettere? SENZA IL MINIMO DUBBIO DICO SÌ, DONADONI SE NE DOVREBBE ANDARE A CASA
IL DISASTRO-ITALIA CI SAREBBE STATO COMUNQUE, LA NAZIONALE HA INIZIATO A GIOCARE GIÀ STANCA
Roberto Donadoni avrebbe già dovuto dimettersi. In realtà la ”sua” nazionale ha brillato solamente durante lo scontro con la Francia, per il resto... bisognerebbe stendere un velo. Con l’Olanda la squadra non ha saputo reagire (è vero, il primo gol era parecchio dubbio, ma insomma si poteva tranquillamente fare qualcosa), si è imbambolata e lasciata travolgere dalla furia degli Orange senza nemmeno provare a pareggiare seriamente. E poi contro la Romania? Se non ci fosse stato Buffon neanche ci saremmo arrivati forse a scontrarci con la Francia. E’ vero, anche in quella partita l’arbitro annullò un gol valido al nostro altissimo ma sfortunatissimo Luca Toni. Eppure non s’è visto un impegno reale. E arriviamo così all’incontro con la Spagna. Una formazione imbarazzante che avrebbe potuto fare molto ma che ha totalizzato sì e no tre occasioni gol in tutta la partita. Con Del Piero che abbiamo visto entrare in campo francamente troppo tardi. Se ci fosse stato Lippi... Dunque senza il minimo dubbio dico sì, Roberto Donadoni se ne dovrebbe andare di corsa a casa.
Ma basta con tutto questo livore e risentimento contro Donadoni. E’ pura ipocrisia. Tutti pronti a dargli contro dopo le partite con l’Olanda e la Spagna, ma tutti pronti ad ammorbidirsi subito dopo aver sbattuto fuori l’eterna rivale e poco simpatica Francia. Nessuno mai che provasse veramente a capire che al di là del nostro ct e al di là dell’obiettiva sfortuna che ci ha colpiti (l’infortunio di Cannavaro sopra ogni altra cosa), la nostra era una squadra già stanca all’inizio degli Europei 2008. Il nostro campionato di calcio è stato palpitante fino all’ultima giornata, molti dei convocati oltre al campionato hanno giocato in altre competizioni come la Champion o la Coppa Uefa. Gli Europei sono iniziati praticamente subito dopo. Secondo me già essere arrivati ai Quarti ha rappresentato molto. Sicuramente a Donadoni si può fare qualche appunto sui titolari e così detti ”panchinari”, ma siamo porprio così sicuri che se De Rossi avesse giocato già contro l’Olanda sarebbe andara diversamente? Siamo proprio così certi che se Del Piero fosse sceso in campo prima contro la Spagna adesso saremmo ancora in gara? Per piacere, guardiamo e analizziamo la realtà per quella che è, lasciamo in pace Donadoni e non riesumiamo Lippi.
Gaia Miani - Roma
Fausto Bonelli - L’Aquila
LA DOMANDA DI DOMANI
IL CT FORSE NON SI DOVREBBE DIMETTERE, MA ADESSO SERVONO PIÙ LUCIDITÀ E PIÙ POLSO
Polo Nord, è giustificato l’allarme lanciato dagli ambientalisti? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Questa demonizzazione di Donadoni non mi piace. Non credo sia stata solo ed esclusivamente opera sua la disfatta totale dell’Italia agli Europei di calcio. E’ però indubbio che Marcello Lippi avrebbe avuto più polso e avrebbe saputo maggiormente ”fare squadra” rispetto a Roberto Donadoni. Certo che il ct era nevrotico, tachicardico, e che questo può aver influito sul rendimento della nazionale. Ma è altrettanto vero che aveva tutti i media e gli esperti contro. I riflettori erano tutti accesi su di lui. Provateci voi a fare sempre scelte giuste e dare la carica a undici calciatori.
DIVIDI ET IMPERA Nel Veneto la Lega sta contrastando il progetto di Galan di federalizzare Forza Italia Veneto. Per Galan è diventato insopportabile subire i continui “ricatti” della Lega. Che da una parte è totalmente immersa nel potere clientelare locale, ma dall’altra ne vuole sempre di più. Situazione amplificata dall’esito elettorale, che ha visto nel Veneto la cooperativa del Pdl pareggiare o soccombere, come voti, alla Lega. Al Nord il voto utile per eccellenza è stato per la lei. Che senso aveva votare il partito di Berlusconi? Meglio una forza sua alleata che rappresenta gli interessi locali. In tal modo Berlusconi sarà costretto a fare i conti e mantenere gli impegni. Con la storiella del voto utile Berlusconi ha risolto un problema, ma ne ha anche creato un altro: ha coperto uno spazio, quello dell’Udc, ma ne ha scoperto un altro, in favore di un partito visceralmente antirisorgimentale disgregante. Galan è stato penalizzato nella composizione del governo, nel quale il “suo” Gava non ha trovato spazio, concesso invece ai suoi nemici regionali, Sacconi e Brunetta.
LA STELLA FANTASMA
Da dove viene l’alone luminoso fotografato dal telescopio Spitzer? A produrlo è una “stella fantasma” individuabile solo ai raggi X. Si chiama SGR 1900+14 ed è una stella incredibilmente densa e con un campo magnetico circa 800 mila miliardi di volte più forte di quello terrestre
MA DOV’È ANDATA A FINIRE L’OBIEZIONE DI COSCIENZA?
LASCIA O RADDOPPIA QUESTA SINISTRA?
Ennesimo caso di scaldalo nella sanità. Stavolta dal Nord Italia ci spostiamo a Napoli, dove (notizia di ieri) sono state indagate quattro persone per pratica di aborto clandestina. Cosa che francamente continua (già, continua, perché ahinoi i casi non sono mai isolati purtroppo) a lasciarmi senza parole. E’ davvero possibile che in Italia, nel XXI secolo, ci siano ancora persone capaci di abortire alla quattordicesima come alla venticinquesima o addirittura trentesima settimana di gravidanza? E con quale coscienza un medico può appoggiare questa orrida scelta e addirittura farsi esecutore materiale di quello che in realtà è un vero e proprio infanticidio?
Ma lascia o raddoppia, questa sinistra? Se lascia l’antiberlusconismo più o meno viscerale, ci sarà il passo d’addio di tanti. Per Di Pietro prima di tutto, ma anche per un certo numero di magistrati, di docenti universitari, di sindacalisti, di burocrati, di amministratori pubblici, di politici dell’opposizione e pure di invidiosi. Un addio, per noi, in realtà di rara mestizia. E se invece raddoppia? Se, a dispetto dell’opinione degli scommettitori, torna in corsa l’odio, che cosa succederà? La risposta è semplice: di tutto e di più. Come nel 1994. Speriamo che lo tenga presente Pier Ferdinando Casini. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
dai circoli liberal Lidia Negri - Napoli
Agata Sabbatini - Otranto
Conseguenza del patto Bossi-Berlusconi. Che sapeva che la Lega avrebbe raccolto il dissenso anche antiberlusconiano. Per assicurarsi il potere ha diviso l’impero: dividi et impera.Vedi la vicenda Formigoni, altro “castrato” nella composizione del governo. In Veneto si dà per scontato che il prossimo governatore sia della Lega. Berlusconi ha così generato un nuovo virus letale disaggregante. E che la febbre cresce, lo dimostra il voto in Sicilia. Nella fase della discesa in campo, Berlusconi si giustificò storicamente come fattore di unità del Paese. Agli albori di tangentopoli amplificò mediaticamente l’antipartitismo con Rete 4 e le dirette davanti i Palazzi di Giustizia, costringendo gli altri media a fare altrettanto. Poi con FI vinse le elezioni ponendosi al centro di un’aggregazione politica geograficamente divisa: al Nord, Polo della Libertà con la Lega; al Sud, Polo del Buongoverno con An. Azzerando il progetto politico di Segni, ne strappò il testimone. Sostituito Segni gli fu facile rappresentarsi come unico fattore di unità del Paese in quanto l’Euro era ancora lontano e si temeva la fuga secessioni-
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
sta. Ma la richiesta di più potere della Lega non è altro che un approfittare della situazione per acquisire maggior forza e affidabilità per il salto di qualità. Infatti lo scenario pone ora questo progetto agrodolce perché all’interno di un recinto valutario e politico europeo tranquillizzante. Già si parla dell’Aspeniano Tremonti quale cura, e cioè futuro leader e componente chimico coagulante, internazionalmente rassicurante. Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
APPUNTAMENTI TODI - 10 LUGLIO 2008 Ore 12.00, Hotel Bramante Prossima riunione nazionale dei coordinatori regionali e dei presidenti dei Circoli liberal
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Sei tutto: l’avventura e la mia sposa Tesoro, tu sei tutto in una cosa sola: l’avventura e la mia sposa. Tu lo sei e io lo sono per te. Non sei soltanto tu una respirante risonanza, lo sono anch’io. Uno specchio concavo che cattura la tua luce, la accumula e corroborato da essa la riflette ardente su di te. A volte mi par d’essere un ragno che tesse una scintillante tela piena di brina e di riflessi solari - una rete di pensieri, lavori, sentimenti, parole e tenerezza, che ti cattura e deve essere casa tua - piena di tutto ciò di cui senti la mancanza, una rete tesa tra le rose e l’oleandro, delicata e solida, un filo, sfavillante d’argento, e lieve abbastanza per i tuoi leggeri passi di funambola, e una rete sotto l’azzurro del cielo e sopra l’acqua, in cui tu puoi lasciarti cadere tutte le volte che vuoi, ti reggerà e ti lancerà di nuovo in alto. Erich Maria Remarque a Marlene Dietrich
L’UDC DEVE DIVENTARE ALTERNATIVO ALLA SINISTRA Caro direttore, seguo dal n° 1 il suo quotidiano, essendo un iscritto Udc, con qualche modesto incarico a livello locale, ma con tanta insoddisfazione per la politica suicida di Pier Ferdinando Casini. Sul numero del 17 giugno Alfonso Sardo titola il suo articolo per le elezioni siciliane ”Otto province su otto per il vecchio centrodesta” e segue l’articolo a pag 4. A me pare che questa sia l’unica vittoria dell’Udc, dopo quella di Roma per il sindaco Alemanno(quando gli iscritti si sono ribellati ai ”ni” e ai ”so” di Casini), a dimostrazione che solo uniti al centrodestra si vince. Noi con i nostri ideali (ad esempio ”Famiglia”: Casini divorziato, come del resto anche Fini e Berlusconi) non abbiamo fatto molta strada, anzi. Agli altri, vedi Pdl e Lega, abbiamo lasciato i voti. Caro Casini (non certo Cesa sempre evanescente) svegliati, dimostra di essere veramente con i fatti alternativo alla sinistra; ci sono rimasti tre senatori (tutti siciliani, la nostra validissima ed unica donna senatrice Monacelli a casa!) e solo trentasei deputati. Alla fine la politica si fa con i voti e da
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
25 giugno 1876 Il capo indiano Cavallo Pazzo vince la battaglia di Little Bighorn annientando il 7° Cavalleggeri del tenente colonnello Custer. Unico sopravvissuto, un cavallo dal nome indiano ”Comanche” 1886 Il 19enne Arturo Toscanini debutta come direttore dell’Orchestra di Rio de Janeiro. Abbandonata la sezione dei violoncelli, sale sul podio per dirigere ”Aida” di Giuseppe Verdi 1946 Si aprono i lavori della Costituente, che dovrà redigere la Costituzione della Repubblica italiana 1967 Nel corso di una trasmissione televisiva internazionale, i Beatles eseguono per la prima volta la loro nuova canzone ”All you need is love” 1972 Juan Peron viene eletto presidente dell’Argentina 1974 Da oggi nelle edicole ”Il Giornale nuovo” di Indro Montanelli 1997 Scompare a 87 anni il documentarista marino Jacques Cousteau
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
rappresentanti nei due rami del Parlamento. Per favore non facciamo la fine del ”Centro Francese”, nato centrino e poi scomparso. Cordialità.
il meglio di
Eriberto Polidoro Gualdo Tadino (Pg)
MINISTRO GELMINI, RIFORMI LA SCUOLA ITALIANA Oramai non ci sono più parole per commentare la situazione della classe docente italiana. Ma non solo. Vogliamo parlare dei così detti ”tecnici esperti” del ministero dell’Istruzione? La figuraccia fatta di fronte a tutto il Paese in occasione delle ultime prove scritte degli esami di maturità dovrebbe veramente far pensare. Ma soprattutto agire. E’ vero, il ministro Mariastella Gelmini ha già fatto saltare la prima testa (che però sembra aver dichiarato al Corriere della Sera che lei non ha colpa e che il responsabile è ancora là); ma è davvero sufficiente? Non sarà che bisogna riformare alla radice tutto il sistema dell’istruzione italiano? Grazie per l’ospitalità sulle vostre pagine e buon lavoro.
Amelia Giuliani - Potenza
PUNTURE C’è un modo per risolvere il problema della leadership del Pd e la guida della Nazionale: Donadoni leader del Pd e Veltroni sulla panchina azzurra.
Giancristiano Desiderio
“
La ricchezza è una buona serva, ma la peggiore delle amanti FRANCIS BACON
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
L’ONU SI ACCORGE DEL DRAMMA DEGLI STUPRI DI MASSA Da sempre lo stupro di massa in guerra è stato presente, ma è da un decennio ch4e questo viene usato militarmente per scopi ben precisi, pulizia etnica o come deterrente contro eventuali rivolte. L’Onu si accorge finalmente di questa tragedia e con la risoluzione 1820, firmata da oltre 30 stati membri tra cui l’Italia, ha finalmente ammesso che lo stupro di massa è una tattica militare ed è equiparata ad atti di terrorismo internazionale. Gli Usa, favorevoli alla risoluzione puntano il dito sulla Birmania dove lo stupro è all’ordine del giorno, ma si dimentica troppo facilmente dei propri militari che si sono macchiati in questi anni di atti simili. Ban Ki-Moon applicherà la tolleranza zero verso cose simili, mettendo dentro allo stesso calderone anche i caschi blu che in passato sono caduti nello stesso vizietto. Human Right Watch e Amnesty International hanno esposto il loro apprezzamento nei confronti di una risoluzione che finalmente alza il tiro contro gli stiupri di massa. Non è dello stesso avviso l’Unifem che si è detta sconcertata dal ritardo con cui l’Onu ha centtrato il problema, un problema che colpisce le donne in guerra più della morte degli stessi soldati. Avverte che in Africa c’è ancora molta omertà su fatti del genere. Ed in effetti basti pensare ai “campi-stupro” in Sudan. Quel Sudan violento, che in Darfur miete vittime ogni giorno e miete vittime di ogni genere. Quel Sudan violento protetto dalla Cina, dal Sud Africa, Indonesia e Libia. In Africa quindi ed è la denuncia partita dal NY Times, il Darfur e il Congo Orientale sono veri e propri “super campi stupro” dove sono troppe
le donne che quotidianamente sono vittime di aggressioni sessuali. Il tutto nell’indifferenza di Onu, Ue e Usa, che con questa risoluzione cercano probabilmente di lavarsi la coscienza.
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CHIAMAMI AQUILA Piccolo aneddoto. Dopo ottime (e celebratissime) performance nella produzione e promozione di slogan, logo e brand, gli Obama-boys si sono prodotti in una gaffe da veri principianti. In un comizio a nella sua Chicago quattro giorni fa, Obama, forse inebriato dal fatto di giocare in casa, si è fatto prendere un po’ la mano e si è presentato con un buffo blasone aquilato che scimmiotta, in termini di involontaria (?) parodia quasi goliardica, quello presidenziale, con tanto di logo obamista del sol dell’avvenire al posto dello scudo, e con il motto “vero, possumus” (che vorrebbe essere “yes, we can” in latino) al posto del tradizionale “e pluribus, unum”. Ovviamente non c’è nulla di meno presidenziale che farsi un “proprio” stemma pseudo-presidenziale da operetta durante la campagna elettorale. I commenti sardonici prevedibilmente piovuti da ogni dove hanno quindi risvegliato un po’ di buon senso tra i consulenti del giovin Barack, che hanno prontamente provveduto a ritirare dal mercato l’eccentrico prodotto - il quale ha così avuto vita persino più bereve di quella del famigerato “sfondo verde” del comizio di McCain a New Orleans. A proposito della presunta superiorità del team di Obama sul piano della comunicazione e dell’estetica...
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PAGINAVENTIQUATTRO La top model britannica di colore, tra risse e sfilate, raccoglie fondi per i più bisognosi
Naomi Campbell,risse e sfilate ma tutte PER CARITÀ di Pier Mario Fasanotti pprendo con estiva indifferenza che Naomi Campblell ama Milano più di ogni altra città. In vestaglia-kimono, la modella che ruba cuori e applausi aggiunge di considerare “famiglia” i graziosissimi sarti Dolce e Gabbana. E’ andata a mangiare da Bice, locale prediletto da Montanelli. «A Milano ci sono il business e la solidarietà» sociologizza Naomi «E’ una città dove è bello vivere e fare lo shopping». Chi può dare torto a una persona che guarda il mondo da dietro i vetri blindati di una Mercedes o sgambetta per via Solferino o via Montenapoleone con due gorilla al seguito? E la solidarietà, che c’entra? Spiegazione: Naomi raccoglie fondi per i bisognosi. Racconta di essere riuscita a far dare dalla Fiat - «che ho fermamente sollecitato» due bus per il trasporto dei bambini di un centro ricreativo. Brava, bis. Tutti noi non avremmo potuto così «fermamente» sollecitare Yaky o Lapo Elkann. Saremmo rimasti appesi per stagioni intere al centralino torinese.
A
quentato anche da alcuni preti. Il sindaco Moratti invoca la presenza dei militari. Via Padova è una delle tante zone a rischio di Milano. Come quella attorno all’ex Lazzaretto: i residenti “non dormono più” per il baccano, le risse notturne e le bottiglie che volano. Hanno fatto ricorso alla Procura, che dovrà accertare come mai molte vetrine di locali sono oscurate. Si parla di “girone infernale”.
Naomi potrebbe canalizzare la sua solidarietà anche in quei monolocali (affitto: tremila euro mensili) dove vivono 15-20 cinesi in attesa di smistamento in fabbriche semiclandestine per lavorarci 16 ore al giorno. Sulla presenza dei militari c’è disputa. Letizia Moratti sostiene che la gente non ha paura di loro, «semmai dei delinquenti». Il vescovo, cardinale Dionigi Tettamanzi, non ci sta: «Militarizzare la città serve solo ad aumentare il senso di smarrimento. La paura non passa per un decreto». Il filosofo di sinistra Salvatore Veca dice due cose. La prima: ci vuole pazienza. La seconda: da tempo è la chiesa ambrosiana a essere «il punto di riferimento nella valutazione etica». Passi per la “pazienza”, virtù dei filosofi che meditano nel silenzio dei loro studi con aria condizionata. Ma far confusione sul concetto di autorità, be’ questo no. Il sindaco si chiama Moratti. E’ lei a decidere sulla città chiamata a governare. E’ ormai di moda (e sacrosanto) dire che la sicurezza non è né di destra né di sinistra. Il filosofo Paolo Del Debbio esce dal teorema buonistico: «Per la sinistra dietro un reato c’è sempre un’ingiustizia sociale, dietro un reo un poveretto. E in questo modo scompare la responsabilità individuale». Si attende la parola definitiva di Naomi Campbell.
La modella di colore dopo essere stata condannata ai ”lavori socialmente utili” da un tribunale inglese è arrivata a Milano. E dalla city ambrosiana dispensa opinioni, giudizi e grandi atti di inaspettata bontà La generosità ha formidabili scorciatoie se si è vip. E, come si dice, c’è un bel ritorno di immagine. Tra i longobardi sarà più tranquilla la Campbell dopo quel che le è capitato all’aeroporto di Londra: non trovando il bagaglio al terminal ha cominciato a insultare tutti, poliziotti compresi, come un’immigrata cui è stata strappata la figlioletta. Il tribunale l’ha multata (5000 sterline) e l’ha condannata a fare “lavori socialmente utili”. Lei s’è scusata con i bobby dicendo d’essere stata innervosita dalla British Airways. Sull’aereo qualcuno l’avrebbe chiamata “modella golliwog” (bambola che rappresenta grottescamente un uomo nero). Visto che le sue gambe lunghe sono in questi giorni a Milano, si potrebbe suggerire ai magistrati di Londra di delegare all’Italia - che ha buon cuore - l’esecuzione della pena. La modella potrebbe fare “lavori socialmente utili” allontanandosi dalla city ambrosiana e spostandosi verso piazza Loreto, dove qualche giorno fa è scoppiata una maxi-rissa tra immigrati. Con accoltellamenti e con assenza di polizia o militari. Da quella piazza parte viale Padova, detta anche la nuova Kasba. Qui è nato un “Centro identitario” per italiani che si sentono “rifugiati”in casa propria. Pare sia fre-