QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Dai processi alle intercettazioni: i veri motivi del suo “strappo”
e di h c a n o cr
Ma conviene a Berlusconi la guerra a tutto campo?
di Ferdinando Adornato
LA NUOVA AUSTERITÀ
di Errico Novi nrico Letta rivolge ai suoi l’allarme più grave: «Il cuore degli italiani è per Berlusconi». E Silvio la pensa esattamente così. Interpreta in chiave positiva tutto, dalla sfuriata di Nicola Mancino con le toghe del Csm agli scivoloni grandi e piccoli dei giudici di periferia. «L’ultimo è il ritardo nel processo alla mafia del Gargano, che è costato la scarcerazione dei boss», dicono i suoi. Ogni indizio concorre a rafforzare l’idea del premier: bisogna regolare i conti con la magistratura, ora o mai più. Le cattive notizie non fanno altro che dargli un ulteriore stimolo. È stato così quando ieri è arrivata la notizia delle intercettazioni in uscita sull’Espresso e soprattutto quella, comunque messa in conto, della prima bocciatura formale dal Csm sulle norme blocca processi. Ovvio che ad ogni colpo si debba rispondere con l’innalzamento dell’offensiva. Così nel pomeriggio è stato riunito un vertice a Palazzo Grazioli per ragionare su ulteriori modifiche al disegno di legge che limita l’uso dei controlli telefonici. Si andrà avanti su questa strada. «L’obiettivo è isolare i giudici politicizzati. Si potrebbe parlare di un missile a più stadi: con la riforma della giustizia si avrà misura di quanto il presidente sia determinato». I berlusconiani non hanno dubbi. Ma è davvero conveniente questa strategia del progressivo inasprimento dello scontro?
E
Auto stop
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80627
Un italiano su dieci già lascia la macchina a casa. Gli acquisti delle vetture sono crollati del 18 per cento. Marchionne ha definito “disastroso“ il futuro del mercato e il Censis dice che ora guideranno solo i ricchi. Il caro-petrolio sta cambiando la nostra civiltà…
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se gu e a p ag in a 6
Il finto ballottaggio di Mugabe
Csm: parla Berruti
Riaperto il capitolo intercettazioni
«Abbiamo diritto alle nostre idee»
Ma mettetevi nei panni di Saccà!
di Valentina Meliadò
di Angelo Crespi
di Ferdinando Milicia
di Luisa Arezzo
«Se la legge dice che l’imputato deve essere assolto, il giudice a mio avviso lo assolve quali che siano le sue opinioni». Parla Giuseppe Maria Berruti, Consigliere di Cassazione del Csm.
Quella delle intercettazioni è una storia infinita. L’Espresso in edicola oggi allunga la sequela di dialoghi “rubati”. In questo caso si tratta di ulteriori stralci di telefonate tra Berlusconi e Saccà.
E’ un’Italia delle cicale quella che emerge dalla relazione annuale della Corte dei Conti. Spesa pubblica, fisco, pensioni, sanità ed enti inutili, rimangono le ”spine nel fianco”del nostro Paese.
Il leader dell’opposizione, Morgan Tsvangirai, si è ritirato dalla competizione denunciando le violenze contro i sostenitori del suo partito. Urne aperte, con tanto di militari schierati.
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VENERDÌ 27
GIUGNO
La denuncia della Corte dei Conti
Senza tagli alla spesa più tasse per tutti
2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
120 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Zimbabwe, urne aperte, voto farsa
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Il Censis denuncia: così guideranno solo i ricchi. Il caro-petrolio sta cambiando la civiltà
L’automobile di classe di Nicola Procaccini erso la mobilità classista». Non è uno slogan della sinistra extraparlamentare, recuperato dal pozzo rosso degli anni ’70, ma l’ineluttabile destino italiano dimostrato dall’ultimo rapporto del Censis elaborato in collaborazione con l’Automobile club d’Italia. Secondo i dati dell’inchiesta, se i prezzi del carburante continueranno a salire, la mobilità libera a cui siamo tutti abituati si tramuterà in un privilegio di classe. Scendendo di reddito e condizione sociale, si verificherà un progressivo abbandono dell’uso di auto e motorini. Non illudiamoci che la faccenda non ci tocchi perchè non si tratta di un futuro lonta-
«V
italiani rabberciano dal meccanico le proprie vetture e rinunciano all’acquisto di nuove macchine.
Due indizi non fanno una prova, direbbe il pragmatico investigatore, esaminiamo la terza statistica. Il 12 giugno scorso, l’Unione Petrolifera Italiana ha diffuso un comunicato da cui si
evince un calo vertiginoso del consumo di carburante. Nella nota viene tenuto distinto il dato complessivo, comprendente anche l’industria del Paese, da quello legato ai “prodotti autotrazione”, ovvero auto, moto, camion, etc… Insomma, nel mese di maggio 2008, confrontato con lo stesso mese del 2007, la benzina acquistata da-
gli italiani è crollata del 9.1% (meno 95mila tonnellate). Ciò vuol dire che praticamente un italiano su dieci ha già lasciato l’automobile a casa ed è andato a lavorare con i mezzi pubblici. O in bicicletta. O a piedi. Proprio come in quella drammatica, indimenticabile, ecologissima stagione che nella storia d’Italia chiamiamo: auste-
rity. Tutto inizio il 3 dicembre del 1973. Il nostro Paese attraversava la prima vera crisi energetica dai tempi del dopoguerra per colpa di una serie di congiunture che avevano fatto schizzare in alto il costo del petrolio e conseguentemente del carburante. Lo “shock petrolifero”, come veniva chiamato, era stato provocato dalla guerra
Secondo i dati dell’inchiesta, se i prezzi del carburante continueranno a salire, la mobilità libera a cui siamo tutti abituati si tramuterà in un privilegio di classe no, ma di un presente che è già in essere. Anzi, incrociando i dati del rapporto con una serie di indicatori economici rilevati negli ultimi giorni, ci accorgiamo facilmente di come il carocarburante sia destinato a cambiare profondamente lo stile di vita dell’intera popolazione. Una modifica radicale di abitudini e prospettive sociali. Approfondiamo l’analisi. Pochi giorni fa, Sergio Marchionne ha definito «disastrose le previsioni di vendita di vetture Fiat per il mese di giugno». Per l’amministratore delegato della casa torinese, il dato sulle immatricolazioni confermerà la depressione del mercato dell’auto. Il bello (o il brutto, dipende dai punti di vista) è che la Fiat va persino meglio delle altre case automobilistiche: se l’azienda italiana ha visto contrarsi il numero di immatricolazioni “solo”del 13%, l’intero settore ha perso il 18%. E siccome le disgrazie in economia non vengono mai da sole, i titoli automobilistici come conseguenza dei dati di vendita, sono pure crollati in Borsa. Dunque, gli
arabo-israeliana dello Yom Kippur. I Paesi arabi dell’OPEC avevano deciso di utilizzare l’oro nero come arma di ricatto verso gli occidentali colpevoli di appoggiare Israele: ridussero la produzione e ne aumentarono il prezzo. In più ci fu l’aumento dei costi di trasporto petrolifero causato dalla chiusura del Canale di Suez.
Il rapporto Censis-Aci «Di fronte ad un notevole incremento del prezzo della benzina (2,50 euro), l’utilizzo della macchina rischia di diventare una questione di status, un discrimine sociale. Più la propria condizione professionale è incerta e inferiori sono i redditi percepiti, più si tende a rinunciare alla macchina, sostituendola del tutto o intervallandone l’uso con i mezzi pubblici. Sono soprattutto le categorie che vivono con maggiore incertezza il loro futuro socio-professionale (gli occupati a tempo determinato/ i lavoratori atipici, i disoccupati, gli studenti) e che dispongono di redditi inferiori a preoccuparsi maggiormente di come gestire incrementi di costi così elevati. Comincerebbe a ridurre l’uso dell’auto il 32,1% dei lavoratori atipici, il 36,8% degli studenti e, come conseguenza della ancor più dura condizione economica, il 37,5% dei disoccupati. Se i prezzi continueranno a salire, lo scenario di una mobilità libera ma consapevole confliggerà con una nuova fenomenologia: la mobilità classista. Uno scenario che non ha una valenza puramente sociologica, ma impatta sulla capacità e sulla qualità dell’offerta di mobilità pubblica. Mezzi pubblici locali, interregionali, treni per i pendolari, saranno in grado - rapidamente - di adeguare e magari migliorare i propri standard d’offerta?»
In alto, l’ex presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo. Qui sopra, la locandina del film, simbolo della stagione dell’austerity: “Conviene far bene l’amore” (1975), in cui Gigi Proietti scoprì che, esaurito il petrolio, era possibile generare energia attraverso i rapporti sessuali. Nella pagina a fianco: il semiologo Ugo Volli e il candidato democratico Usa, Barack Obama.
La distorsione del mercato ebbe conseguenze pesanti obbligando i paesi che dipendevano dal petrolio come l’Italia a ridurre i consumi. Ed allora il governo presieduto dal democristiano Mariano Rumor decretò: lo stato di austerity. Quella fredda domenica di dicembre, per la prima volta gli italiani sperimentarono un modo di vivere privo delle rassicuranti comodità del carburante, ma anche ricco di ormai dimenticate consuetudini prece-
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Parla il semiologo Ugo Volli alano i consumi di benzina del 9,1 per cento, crolla il mercato dell’auto, si accorciano i tempi delle vacanze: è finita l’era delle vacche grasse? Di sicuro gli italiani appaiono più poveri alla fine di questo primo decennio del nuovo millennio. Degli effetti psicologici di questo fenomeno parliamo con il professor Ugo Volli docente di Semiotica e Filosofia della comunicazione presso l’Università degli Studi di Torino. Professore un fantasma si aggira per l’Italia, la chiamano recessione, crisi della quarta settimana, difficoltà di arrivare alla fine del mese, faccia lei. Come può incidere questo stato di cose nella mentalità degli italiani? La mia impressione è che ci sia in giro molta frustrazione. Perché accanto al dato reale dell’impoverimento generale – continuiamo a scivolare nella classifica del pil e dietro di noi restano solo Grecia e Portogallo nella Unione europea – lavora un tipo di comunicazione i cui modelli e paradigmi continuano a spingere verso target di vita e di consumo molto alti. Generalmente di lusso. Il mercato delle auto va a picco ma resta la spinta al consumo di auto potenti, le strade magari sono meno affollate ma il sogno di possedere l’oggetto del desiderio resta altissimo. Desiderio che resta insoddisfatto lei dice. Eppure c’è chi sostiene che non è vero che gli italiani siano così poveri. Hanno un patrimonio consistente di rendite immobiliari, una buona qualità della vita…i ristoranti il sabato sera sono pieni e in città non si trova un parcheggio. Se ci siano ricchezze nascoste non lo so, non faccio l’economista. Però ne dubito. Mi ha colpito un dato che riguarda la telefonia mobile: crescono gli sms e diminuisce il traffico delle telefonate. Mi pare significativo il fatto che si cominci a risparmiare anche su questo settore. E mi pare anche significativo il fatto che da qualche anno c’è sempre più gente che rinuncia alle vacanze. E stiamo parlando di ceti medi, non particolarmente disagiati. Insomma rispetto ad aspettative molto cresciute ci siamo oggettivamente impoveriti. Ma allora come si spiega che quelli che una volta si sarebbero chiamati beni sussidiari –
C
denti all’era del benessere industriale. Le strade si riempirono di biciclette e di ragazzini che scorrazzavano per le stra-
«Se non puntiamo sull’intelligenza, vivremo in un’eterna austerity» colloquio di Riccardo Paradisi con Ugo Volli
articoli audiovisivi, videogiochi o apparecchi per la telefonia mobile – hanno avuto nel 2007 un’impennata tra il 40 e il 50 per cento del consumo? A parte il fatto che gli stili di vita e di consumo sono cambiati e che quelli che erano beni di consumo ieri secondari oggi non sono più tali, si deve tenere in con-
de improvvisamente padroni della città. Ma al di fuori del quadro di serenità bucolica, i disagi furono davvero tanti, so-
prattutto durante i giorni feriali. Furono poste delle limitazioni al riscaldamento delle abitazioni, i negozi ridussero l’ora-
siderazione che c’è un indotto molto forte, come dicevo, creato dalla spinta mediatica, dai modelli diffusi, dalla pubblicità. E poi c’è la politica molto aggressiva delle industrie di settore che presidiano e implementano fasce di consumatori mirate. Il gioco vero del guadagno si fa però su modelli di fascia alta. Lo spettro della recessione, ma c’è anche la paura della globalizzazione. L’indiana Tata, restando nel mondo automobilistico, ha acquistato gli storici marchi britannici Jaguar e Land Rover. L’occidente perde un primato dopo l’altro, anche quello della produzione delle auto. È evidente che si stia ridisegnando le geografia della divisione del lavoro nel mondo. Che si accompagna peraltro a un grande problema di scarsità delle risorse. Lei ha fatto l’esempio indiano. Io le faccio l’esempio cinese un Paese che ha sempre più bisogno di energia di carburante. Questo provoca l’aumento del costo della benzina da noi, ma è inevitabile che questo avvenga. Il problema che gli ottimisti non sembrano porsi è la scarsità delle risorse. La torta non può essere divisa all’infinito e la logica profonda della globalizzazione è un funzionalismo economico che elimina possibilità di tutelare beni sociali locali. Ma queste nuove condizioni di vita che si annunciano più aspre, più difficili potrebbero presentare l’interfaccia positivo di una maggiore sobrietà generale? Io non vedo questa nuova cultura della sobrietà perché per le industrie resta vitale spingere i consumi, specialmente sulla fascia alta. Si ricorda che dopo l’11 settembre Bush invitò gli americani a consumare come atto patriottico? Non aveva torto. Fenomeni di neopauperismo produrrebbero infatti nuovi problemi economici. Semmai questa crisi dovrebbe spingere le classi dirigenti del Paese a ripensare il nostro modello: investire sulla ricerca scientifica, estetica: le nostre vere risorse sono l’intelligenza e la bellezza. La cina produce 100mila ingegneri all’anno più di noi. Più che nuove auto serve una nuova strategia politica che investa sull’intelligenza.
rio di apertura, l’illuminazione pubblica fu limitata, le trasmissioni tv finivano per le ore 23, i cinema chiudevano dopo il primo spettacolo serale. Tutti a casa, a ravanare (giuro che questo verbo esiste…) nella borsa al buio, cercando le chiavi per aprire il portone senza l’aiuto della luce amica di un lampione. Il tutto durò più o meno fino alla metà del 1974, poi, progressivamente, si passò attraverso la circolazione a targhe alterne e dopo qualche mese l’emergenza finì.
Di quella stagione, il simbolo più rappresentativo resta il film “Conviene far bene l’amore” in cui Gigi Proietti scoprì che, esaurito il petrolio, era possibile generare energia attraverso i rapporti sessuali. Purtroppo era solo un film. Sono passati più di trent’anni da quel film, e la questione energetica rischia nuovamente di rivoluzionare la vita degli italiani. Abbiamo rinunciato al nucleare, non abbiamo trovato soluzioni alternative efficaci ed oggi con una situazione
geopolitica persino più grave di quella del ’73, ci ritroviamo a cavallo di una bicicletta. Per una certa corrente di pensiero si tratterebbe di una gran fortuna per la nostra civiltà. Sono in molti a ritenere che una “decrescita” economica potrebbe tradursi in un miglioramento della qualità della vita dei paesi occidentali. Mah! Rinunciando ad un’analisi che ci porterebbe troppo lontano, l’austerity non potrebbe comunque essere determinata per coazione, ma, eventualmente, solo frutto di una libera scelta. La sensazione è che sia molto difficile confutare il rapporto Censis-Aci da cui siamo partiti. La sensazione, quasi una certezza, è che la crisi del prezzo del carburante si tradurrà in una clamorosa fonte di discriminazione, destinata a risalire velocemente la scala delle classi sociali d’Italia. Il fatto che la “mobilità classista” si accompagnerà forse ad una maggiore mobilità fisica, a piedi o in bicicletta, è davvero una magra consolazione.
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fisco
La Corte dei Conti lancia l’allarme al governo: la pressione fiscale è ai massimi da dieci anni. E crescerà senza tagli alla spesa
Più tasse per tutti? di Ferdinando Milicia
ROMA. Uscita dalle priorità di Giulio Tremonti, la questione fiscale torna prepotentemente al centro dell’agenda del governo. Ieri, il primo campanello d’allarme l’ha dato la Corte dei Conti nella relazione sul rendiconto generale dello Stato: il livello della pressione fiscale è ai massimi da dieci anni. A confermare la gravità della situazione, subito dopo, le ultime stime di Eurostat: gli italiani – sia per quanto riguarda i redditi personali sia per quelli di impresa – sono al
to. «La moneta europea», ha spiegato il relatore della Corte, Fulvio Balsamo, «ha consentito al nostro Paese di ridurre il peso della spesa per interessi sul Pil di più di quattro punti». Il procuratore generale Furio Pasqualucci, nel corso del suo intervento, ha posto l’accento di migliorare l’attività di riscossione e vendere progressivamente il patrimonio pubblico, stimato in 1800 miliardi, «superiore quindi al debito stesso». Magari evitando gli errori pas-
le. Ma «le tipologie di copertura sono tutt’altro che solide», ha ammonito la magistratura contabile. Una situazione ancora più preoccupante, visto che «una modifica delle misure concordate appare difficilmente realizzabile almeno nell’immediato». Da spingere invece sulle proposte parlamentari per consentire «prolungamenti della domanda di chi ha raggiunto la pensione». Se la situazione non è delle migliori nel settore della spesa pubblica e del fisco,
L’Italia ha bruciato i 70 miliardi di euro risparmiati con l’adesione all’euro. Soldi finiti per pagare le pensioni e sanità, senza alcun beneficio per gli investimenti e il debito pubblico quarto posto in Europa nella classifica tra i più tartassati. Danno all’Erario il 31,4 per cento dei loro guadagni contro una media europea del 23,6.
Come hanno ricordato i togati della magistratura contabile l’Italia è bloccata in una spirale di spesa pubblica elefantiaca e peso abnorme del fisco. Se non si inverte la prima tendenza, non sarà possibile ridurre le tasse. Se l’imposizione non scenderà, non termineranno quelle «implicazioni negative sullo sviluppo delle attività produttive e sulla allocazione dei fattori di produzione». Tradotto, il Belpaese attrarrà meno investimenti e le sue imprese faranno più fatica a conquistare mercati esteri. La soluzione che la Corte dei Conti offre a Tremonti non è nuova, ma in questi anni non è stata mai applicata: riportare la crescita della spesa pubblica a un tasso inferiore dell’aumento del Pil, e pur «mantenendo un atteggiamento prudente sull’andamento delle entrate», sfruttare al meglio i tesoretti che il futuro può riservare. Quindi, la via del risanamento non può passare per un aumento della pressione fiscale. Soltanto così si possono risolvere i problemi di un’Italia sempre cicala. La stessa che, a differenza degli altri Paesi europei, paga di più le incertezze congiunturali vista l’alta spesa per pensioni, sanità o enti inutili. È l’Italia che, secondo un’illuminante immagine offerta dalla magistratura contabile, si è mangiata “il bonus euro”, il risparmio da70 miliardi, ottenuto nel passaggio alla moneta unica sulla spesa passiva per gli interessi. E che «ha disperso nella spesa pubblica», in pensioni e burocrazia, e non diretto a investimenti o nella riduzione del debi-
sati: le recenti cartolarizzazioni, «a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7 per cento». Altro nodo dolente che i magistrati della Corte non risparmiano è la previdenza, strettamente connesso con la spesa pubblica. Nel protocollo welfare del luglio scorso, le misure previste accollavano al sistema previdenziale esborsi aggiuntivi per ulteriori 10 miliardi di euro, per far fronte ai quali vi era stato l’esplicito impegno di attingere risorse – nel decennio 2008/2017 – all’interno dello stesso sistema previdenzia-
certo non è esaltante nel comparto della sanità. La Corte dei Conti ammette che ci sono dei leggeri miglioramenti nella spesa sanitaria rispetto agli anni passati, ma «presenta ancora variazioni di rilievo che richiedono l’estensione delle misure di contenimento ad altri settori (specialistica e diagnostica) e il mantenimento dei meccanismi di responsabilizzazione regionale introdotti negli ultimi anni».
Pensioni, L l’altro scalino necessario di Giuliano Cazzola
a Corte dei Conti ha battuto un colpo: le pensioni non sono una questione archiviata, sepolta nel clima di imperante buonismo abortito del dopo elezioni. Il governo avrà sicuramente altre gatte da pelare, ma prima o poi, sarà costretto – il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi lo ha detto più di una volta – a rimettere mano in un sistema a cui Prodi e i suoi ministri hanno infilato, con l’accordo dello scorso 23 luglio e con la legge applicativa, parecchio piombo nelle ali. Nelle scorse settimane ci ha pensato Mario Draghi, con la flemma consueta, a ricordare che gli italiani occupati nella fascia d’età compresa tra i 60 e i 64 anni sono in numero largamente inferiore rispetto a quello degli altri Paesi dell’Unione europea. Partendo da questa considerazione, il Governatore ha indicato, nelle sue Considerazioni finali, alcune misure rivolte ad alzare l’età pensionabile effet-
tiva in un quadro di recuperata flessibilità del pensionamento. Ieri è stata la volta di un altro storico profeta inascoltato, la Corte dei Conti. La magistratura contabile, infatti, ha posto l’accento sulla revisione dei coefficienti di trasformazione ovvero di quei parametri che traducono il montante contributivo in rendita, in relazione all’età anagrafica in cui gli interessati scelgono o maturano il diritto alla quiescenza.
Il tema dei coefficienti di trasformazione è stato nella scorsa legislatura lungamente al centro del negoziato tra l’allora ministro del Lavoro, Cesare Damiano, e le confederazioni sindacali, arrivando poi a una sostanziale mediazione politica, la quale prevedeva l’individuazione dei nuovi coefficienti (in seguito alla revisione prevista sulla base degli indicatori demografici e attuariali), l’apertura di un confronto con le parti sociali (rivolto a trovare
fisco
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I consigli dell’economista Giacomo Vaciago
«Tremonti pensi prima alla spesa» colloquio con Giacomo Vaciago di Vincenzo Bacarani
ROMA. «Per poter tagliare le tasse prima occorre tagliare le spese». Non ci sono alternative per Giacomo Vaciago, professore di Politica economica all’università Cattolica di Milano e direttore dell’Istituto di economia e finanza. Il richiamo della Corte dei Conti al governo è stato esplicito: serve una riduzione «nei grandi comparti» della spesa pubblica che venga mantenuta «su tassi di incremento inferiori al tasso di crescita del prodotto interno lordo». Eppoi l’aver sprecato i risparmi realizzati con l’introduzione dell’euro (non utilizzati per ridurre il debito o per gli investimenti, ma disperso in vari canali), la necessità di «ammodernare l’assetto delle relazioni sindacali nel pubblico impiego» collegando retribuzioni e produttività. Professor Vaciago, la pressione fiscale è ai massimi da dieci anni. Direi che l’unica strada da percorrere in questo momento è quella di tagliare le spese. Poi sarà possibile tagliare anche le tasse, ma soltanto dopo aver ridotto il deficit. Quali i settori da sfrondare? Essenzialmente tre: pubblica amministrazione, scuola e sanità. Se si procede in questo senso si avrà una sensibile riduzione del deficit. In che modo si può agire sulla pubblica amministrazione? È semplice: basta non sostituire il dipendente pubblico che va in pensione. Al suo posto, un computer. Del resto, mi sembra che questo aspetto sia già contenuto nel programma del governo. Invece, per la scuola? Invece lo stesso! Pensi che l’Italia è l’unico Paese al mondo che ha più insegnanti per studente. Il ministero del Tesoro nei giorni scorsi ha consegnato una ricerca sulle scuole italiane: abbiamo quasi più docenti che allievi. Spero che il nuovo ministro della Pubblica Istruzione, Mariastella Gelmini, lo renda presto noto. La ricetta è anche in questo settore ridurre gli insegnanti. Non sarà facile. In Italia da anni siamo andati avanti assumendo uno di destra e uno di sinistra. Mi ricordo che da tempo circolava una battuta proprio sull’Alitalia. Abbiamo una marea di piloti: infatti ne prendiamo uno di destra e uno di sinistra affinché l’aereo voli dritto. Certo, di proteste ce ne saranno. E tante. Più complesso il discorso sui tagli alla sanità?
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Nel programma di governo vedo che non c’è un esplicito riferimento a questo comparto. C’è però un discorso importante riguardo ai trasferimenti alle Regioni sulle quali grava molto la spesa sanitaria. Qui si tratterà di valutare con ragionevolezza e obiettività quali sono le strutture inutili. Non è facile: abbiamo piccole realtà che funzionano e grandi centri inefficienti e viceversa. Ma non v’è dubbio che occorra intervenire. È ovvio che tutti i problemi che riguardano la pubblica amministrazione, la scuola e la sanità vanno affrontati con grande equilibrio. La Corte dei Conti rileva che i 70 miliardi di bonus derivati dall’introduzione dell’euro siano stati dispersi in mille rivoli. Come mai? Ma è normale. Abbiamo avuto questo grosso vantaggio con l’introduzione della nuova moneta e lo abbiamo sfruttato per tamponare le falle. Siamo stati avvantaggiati dall’euro e ne abbiamo approfittato. Lei consiglia di tagliare le spese, ma un governo di centrodestra deve ridurre anche le tasse. Se non ci riesce, sarà costretto a tornare a casa o a non essere rieletto. Il governo dura cinque anni: nei primi tre taglia le spese provocando proteste e malcontento e negli ultimi due taglia le tasse riacquistando consenso. Se seguirà questi ritmi, avrà molte probabilità di essere rieletto grazie al consenso conseguito nel biennio precedente al voto con la riduzione fiscale. Si tratterà, in ogni caso, di partire dalle scelte impopolari. Molto impopolari, ma necessarie. Il governo avrà tutti i sindacati contro, le varie categorie che si ribelleranno. Ma se andrà fino in fondo, la spunterà. Da 15 anni a questa parte in Italia vince le elezioni chi promette di più e va a casa chi non mantiene le promesse. Basta vedere che cosa è successo con l’esecutivo di Prodi: ha diminuito il deficit ereditato da Berlusconi, ma ha aumentato le tasse e non ha più governato. In conclusione, ci aspettano tre anni di sacrifici? I prossimi tre anni saranno di sacrifici. Non vorrei essere nei panni di alcuni ministri. Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, soprattutto, saranno i ministri più impopolari degli ultimi cinquant’anni di storia italiana. Ma se il deficit si riducesse, e se di conseguenza le tasse venissero tagliate, la situazione potrebbe essere ben diversa.
Soltanto riducendo il deficit ci saranno risorse per alleggerire il fisco. Altrimenti Berlusconi perderà le prossime elezioni
La Corte sottolinea che il processo di rientro dai disavanzi strutturali è ancora «problematico». Solo alcune delle Regioni interessate hanno fornito ai tavoli di monitoraggio elementi promettenti sulla strutturalità dei risultati ottenuti.
Una menzione a parte merita l’eterno capitolo degli enti inutili da eliminare e dei Comuni piccoli da accorpare. Al 31 dicembre 2006, ha denunciato ancora il
procuratore generale, ne restavano ancora aperti 110 enti, tra i quali nomi noti come Inam Enaoli, Onmi, Gescal e Enalc. Le procedure di liquidazione di questi istituti sono iniziate negli anni Settanta, ma il contenzioso conta ancora 20mila pratiche irrisolte nel 2006. Non meno allarmante il numero di Comuni con meno di 5mila abitanti: in tutto 6mila, che difficilmente si vuole accorpare in macroaree.
eventuali indicazioni differenti), il conseguente dell’entrata in vigore. Insomma, creando una grande confusione e nessuna certezza. Così la Corte dei Conti ha voluto gettare sul tavolo del governo tutto il prestigio del suo ruolo, ricordando che la sostenibilità del sistema – già traballante dopo il “saccheggio” attuato dal governo di Romano Prodi – non diventi addirittura precaria. Gli effetti della revisione decennale dei coefficienti, infatti, sono intrinsecamente connessi alla realizzazione delle dinamiche della spesa pensionistica nel modello contributivo, sulla base di un semplice presupposto: se si allunga l’attesa di vita è necessario che si lavori più a lungo o che ci si accontenti, a parità di condizioni, di un assegno inferiore. Anche il Documento programmatico economico e finanziario presentato in questi giorni dall’esecutivo ha fatto un chiaro accenno a questa problematica. È forse un segnale? Ce lo auguriamo.
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ROMA. «L’idea di un giudice, la sua opzione politica, non implica la prevedibilità della sua decisione. Il giudice deve rispettare la legge; se la legge dice che l’imputato deve essere assolto il giudice a mio avviso lo assolve quali che siano le sue opinioni». Giuseppe Maria Berruti, Consigliere di Cassazione del Csm e membro delle Sezioni Unite Civili, spiega le dinamiche interne al Consiglio Superiore della Magistratura e il modo di porsi dei magistrati di fronte alla società La magistratura è l’unico potere dello Stato che si autocontrolla. È giusto che sia così, è una garanzia per il buon funzionamento del sistema? La magistratura non è un potere che si autocontrolla, dal mio punto di vista, perché l’autonomia è retta da un sistema di organi che è largamente integrato al livello base dall’avvocatura, e a livello del Csm da componenti eletti dal Parlamento, dal vicepresidente che per Costituzione è un laico, cioè un membro del Parlamento e dal presidente della Repubblica che forma l’ordine del giorno dei lavori. È vero che due terzi dei componenti del Consiglio Superiore sono, attraverso elezioni, espressi dai magistrati, ma la presenza della componente non togata è fondamentale e decisiva, ed è estremamente libera in questo Paese. Non è dunque corretto dire che si tratti di un organo di autogoverno, piuttosto è un organo di governo autonomo, che è cosa molto diversa. Come funziona il sistema elettorale del Csm? L’attuale sistema elettorale ha abolito le liste, il che significa che chiunque si può candidare. Un tempo il sistema era basato su una competizione tra liste contrapposte presentate dalle cosiddette correnti con il proprio simbolo, come i partiti politici, ma oggi non è più così. La riforma del Csm, che è in vigore da diversi anni, ha comportato un sistema elettorale basato sul diritto di elettorato passivo che è facoltà di tutti i magistrati: chiunque può decidere di candidarsi perché non ci sono più le liste con il simbolo, il che naturalmente non toglie che ci siano differenze culturali precise tra i magistrati che portano poi, secondo il principio della libertà di associazione sancito dalla Costituzione, a dar vita anche a gruppi elettorali, ma le liste sono state abolite. Si è detto spesso che le correnti siano in qualche misura riconducibili ad orientamenti politici, e questo per alcuni è una lesione di credibilità della magistratura. Che ne pensa? Lo capisco benissimo, ma io credo innanzitutto che ciò che è trasparente sia positivo. Il fatto che esistano differenze culturali tra
politica Parla un consigliere del Csm nel giorno del parere sulla “salva premier”
«Esercitiamo il diritto di esprimere opinioni» colloquio con Giuseppe Maria Berruti di Valentina Meliadò cittadini liberi è del tutto ovvio, il fatto che queste differenze vengano dichiarate a me sembra una cosa buona, e il fatto che i magistrati abbiano la possibilità di esprimersi liberamente su veri e propri programmi elettorali è estremamente positivo, perché in caso contrario si correrebbe il seguente rischio: la magistratura è un ordine autonomo basato sul cosiddetto potere diffuso, che significa che il potere di un magistrato è identico a quello di un altro salvo le funzioni diverse che svolgono nel processo, ma il potere giurisdizionale è della stessa natura; se non ci fosse una precisa e talvolta anche dichiarata identificazione culturale, e quindi una chiara opzione verso un certo modello di giurisdizione dichiarato e proposto come tale, avremmo delle lobbies, invece abbiamo delle distinzioni culturali molto precise, molto trasparenti e conclamate al Paese. Ora naturalmente rappresento l’istituzione, ma per un certo periodo della mia vita mi sono profondamente riconosciuto nel modo di pensare di una delle cosiddette correnti, il cui programma giurisdizionale è trasparente, pubblico e pubblicato, e questa mi sembra una garanzia di equidistanza e soprattutto di
chiarezza, perchè il Paese sa come la si pensa. Però, a volte, il fatto di sapere cosa pensi un magistrato spaventa l’opinione pubblica. Io non so se l’opinione pubblica è veramente spaventata o talvolta sia indotta a spaventarsi, ma questo è secondario. Io credo che non ci si possa illudere, ciascuno di noi ha delle opinioni che possono essere ipocritamente sottovalutate - e questo a
traverso i suoi pensieri, i suoi scritti e il suo modo di porsi nella società civile è una grande garanzia, a meno di non immaginare di mettere al posto dei giudici delle persone senza idee o peggio con delle idee nascoste (peggio perché il giudice amministra un grande potere e io preferisco sapere); a meno di non pensare questo, dicevo, evidentemente bisogna fare i conti con il principio di realtà: gli uomini intelligenti hanno idee.
“
Le idee di un magistrato non implicano la prevedibilità della sua decisione. Preferisco i giudici con idee chiare a quelli con idee nascoste me sembra un tantino più pericoloso – mentre la conoscenza delle opinioni di un giudice at-
”
Torniamo all’organizzazione del Csm. Perché i giudici togati sono parecchi più dei laici? Due terzi di togati e un terzo di laici nominati dal Parlamento. Tenga presente però che se fosse stabilita una proporzione diversa come, in anni passati, qualcuno avrebbe voluto fare – se ne discusse molto – il rischio molto grande sarebbe quello di togliere l’autonomia che è anche, evidentemente, il riconoscimento della capacità di una categoria di reggersi secondo la legge. Questa composizione è certamente favorevole ai togati, ma è contemperata dal grande potere del vice-
presidente. Tutti i poteri organizzativi spettano al comitato di presidenza che non è elettivo perché è composto dal primo presidente della Corte di Cassazione e dal procuratore generale, che sono figure istituzionali, e la rappresentanza cosiddetta non togata pesa molto di più – come è giusto che sia – del suo valore numerico proprio perchè la Costituzione stabilisce che è dentro il Consiglio che agisce il vicepresidente, il cui ruolo è fondamentale. Parliamo di malagiustizia. Quali provvedimenti prende il Csm di fronte all’imperizia o agli errori di singoli magistrati? Che cosa rischia chi sbaglia? È un argomento che mi rattrista molto perché sono un estensore della sentenza Pinatto. Abbiamo emesso una sentenza che è una “pena capitale”. È una cosa che succede molto di rado? Preferisco non valutare il Consiglio sulla base dei numeri. Ci siamo trovati di fronte ad una riforma dell’ordinamento giudiziario e stiamo applicando questa legge; faccio osservare che il Consiglio Superiore ha due funzioni: quella di giudice, e quando la esplica nella sezione disciplinare applica il codice di procedura, mentre quando riunisce la prima commissione o la commissione di valutazione dei direttivi applica la discrezionalità amministrativa. Questo Consiglio Superiore si sta distinguendo per aver affrontato con grande forza, con un coraggio al limite della temerarietà una riforma dei direttivi che è epocale, rivoluzionaria, perché l’aver stabilito il principio della temporaneità dell’incarico direttivo ha fatto sì che il Consiglio dovesse provvedere alla nomina non di 40, 50 o massimo 60 direttivi l’anno ma 500, e noi lo stiamo facendo valutando i candidati caso per caso, e questo di fatto implica la fine dell’epoca nella quale non si era controllati.
SEGUE DALLA PRIMA
Ma la guerra gli conviene?
Perché mai un governo sostenuto da una maggioranza così solida dovrebbe condannarsi allo scontro permanente? Che si tratti di una prospettiva pesante lo si capisce da tanti piccoli segnali. Quando ieri è stato diffuso l’ordine del giorno del Consiglio dei ministri è saltata agli occhi l’assenza di qualsiasi riferimento al lodo per le alte cariche. Questa mattina il testo sarà discusso, ma come se fosse un’iniziativa semiclandestina. È l’effetto della diplomazia tesa tra Palazzo Chigi e Quirinale. Ci sono conseguenze anche più gravi. Ieri sono state fissate le scadenze della Camera per il prossimo mese. E il lodo bis è calendarizzato in Aula per il 28 luglio. «Pazzesco: è un provvedimento che ancora non esiste e già si prevede quando
di Errico Novi Montecitorio dovrà occuparsene», protestano i capigruppo dell’opposizione. È semplicemente un ulteriore aspetto della guerra permanente: quando si combatte non ci si può soffermare sulle sottigliezze. Al limite si intensifica il fuoco. Gianfranco Fini ha osservato che le raccomandazioni di Giorgio Napolitano sono state recepite dal suo ufficio di presidenza e dalla conferenza dei capigruppo: ci sarà tempo per convertire tutti i decreti, da quello sulla sicurezza alla manovra economica appena varata. Come? Semplice: i deputati resteranno sugli scranni fino al 7 agosto. «E se sarà necessario si andrà oltre», avverte Fini. La maggioranza po-
trà vantarsi di avere finalmente messo il Parlamento a lavorare. Tanto da mettere in pericolo il Ferragosto al mare. Conviene davvero mettersi su questi binari? Non sarebbe meglio accogliere come una preziosa opportunità la mediazione offerta dal Colle e la ragionevolezza di Pd e Udc? No, spiegano dal fronte Berlusconi, «perché la popolarità del governo adesso è straordinaria, e prima o poi l’effetto dello sconto sull’Ici o di altre iniziative del genere svanirà. Bisogna salvare Silvio da questa trappola permanente, si andrà fino in fondo. Con la separazione delle carriere dei giudici e la riforma del Csm: solo un terzo sarà nominato dalle toghe». Ecco gli stadi del missile. Che è lanciato e che Berlusconi non ha alcuna intenzione di fermare.
politica
27 giugno 2008 • pagina 7
L’Espresso divulga nuove intercettazoni tra Berlusconi e il dirigente Rai che va “riabilitato”…
Ma mettetevi nei panni di Saccà! di Angelo Crespi
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Impronte ai nomadi: Gianni Alemanno e Letizia Moratti dicono sì Per il sindaco di Milano, Letizia Moratti, e quello di Roma, Gianni Alemanno prendere le impronte digitali per i bambini Rom (una misura annunciata mercoledì dal governo per bocca del ministro dell’Interno Roberto Maroni) può essere vista come un’opportunità di tutela. Moratti lo ha detto a margine della prima conferenza programmatica dell’Anci (che riunisce i Comuni italiani), in corso a Roma. Il sindaco del capoluogo lombardo, che ha precisato però di non aver letto il testo, ritiene che questo provvedimento potrebbe anche facilitare il compito delle forze dell’ordine. Secondo Alemanno «la proposta del ministro Maroni non è volta a registrare o a schedare i minori nomadi ma a proteggerli. I minori nomadi vengono spesso usati per l’accattonaggio e sfruttati, interscambiandoli da famiglia a famiglia ed evitando così le norme sulla revoca della patria potestà».
Caso Orlandi: ispezioni nella presunta prigione
uella delle intercettazioni è una storia infinita. Come nelle migliori favole fantasy, quando pensi di aver terminato di leggere, gli gnomi della fatica ti aggiungono di soppiatto alcune pagine. Una sorta di neverendingstory che da principio invoglia e alle fine risulta stucchevole. L’Espresso in edicola oggi, anticipato ieri con grande enfasi da tutte le agenzie e dai siti dei quotidiani, allunga la sequela di dialoghi “rubati”. In questo caso si tratta di ulteriori stralci di telefonate datate settembre 2007, tra l’allora capo dell’opposizione Silvio Berlusconi e il direttore “sospeso” di Rai Fiction, Agostino Saccà. In più, una serie di altre conversazioni che hanno come soggetto passivo sempre Saccà, alle prese con una serie impressionante di raccomandazioni provenienti un po’ da tutte le parti. Pare ovvio che il decreto legge sulle intercettazioni, approvato dal Consiglio dei ministri poco più di dieci giorni fa, ancora non protegge il pregresso, visto che in futuro sarà consentito di origliare solo in caso di reati per i quali sono previste condanne di almeno dieci anni e per i reati contro la pubblica amministrazione.
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Ma al di là dei risvolti giuridici e penali che seguiranno la mega inchiesta della Repubblica di Napoli, vale la pena soffermarsi sulla questione etica e mass mediatica. Agostino Saccà, direttore di Rai Fiction, si è trovato in un posto di potere che forse non immaginava neppure lui. Non solo per il sostan-
zioso budget che gestisce la divisione Rai in questione, bensì in primis per l’aura simbolica che circonda un incarico del genere. Non è certo colpa di Saccà se metà delle donne italiane aspira al ruolo di soubrette o di attrice. Non è colpa certo di Saccà se la televisione è percepita come il regno della mediocrità, dove anche il più stralunato e impreparato personaggio può sfondare. Non è colpa sua se dunque migliaia di giovani e meno giovani aspiranti starlette, tutte indistintamente carine (così mostrano le foto), tutte indistintamente pre-
Il bello è che Saccà, in Rai dal 1976, annuendo ingenuamente a tutti, il più delle volte non accontenta nessuno. Sono più i fiaschi delle entrature riuscite, ma questo non sembra importare ai raccomandatori che una volta fatta la raccomandazione si mettono il cuore in pace e possono tener cheta la raccomandata. Non ci sorprenderemmo se si venisse a sapere che qualche provino a cui Saccà spediva le “raccomandatine” (un genere nuovo di “letterine”) era addirittura finto, fatto apposta per fare bella figura e togliersi il pensiero.
Non è certo colpa sua se metà delle donne italiane aspira al ruolo di soubrette, se la tv è percepita come il regno della mediocrità
Certo, la cosa meno nobile e che le conversazioni, spesso private, siano così sfruttate da chi ama indignarsi per un nonnulla. E viene il sospetto come ricordava Vittorio De Sica che «l’indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia». Qualche mese fa, Deborah Bergamini, ex dirigente Rai finita nel polverone, si lamentò giustamente, in quanto la sua vita, soprattutto le cose meno pubbliche (relazioni sentimentali, affetti…), era “archiviata” nelle redazioni dei giornali e pronta per essere data in pasto ai lettori. Una degenerazione questa di uno strumento utile per indagare come sono le intercettazioni, ma che andrebbe sempre maneggiato con rispetto. Perché come tutti sanno al telefono anche i silenzi contano, la mimica facciale, il tono della voce. E quello che sembra vero è spesso solo verosimile.
parate (o impreparate), chiedono a destra e a manca favori e raccomandazioni. Quindi non solo sono caduti nella rete Silvio Berlusconi, Fedele Confalonieri, Letizia Moratti, Gennaro Malgieri, Claudio Petruccioli ma anche, dice l’Espresso, Maurizio Costanzo, Clemente Mastella, Piero Fassino e Francesco Rutelli. Ognuno con le sue buone motivazioni per chiamare e chiedere un favore. Cosa che in sé, a leggere i brogliacci, per ora non suscita nessun tipo di perplessità, o per lo meno non le perplessità che la magistratura cerca di provare.
Ieri gli uomini della squadra mobile di Roma hanno perquisito la palazzina di via Pignatelli, nel quartiere Monteverde a Roma dove, secondo la testimonianza di Sabrina Mainardi, sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela Orlandi, la ragazza romana scomparsa venticinque anni fa. Gli agenti della Mobile e della scientifica hanno trovato «un camminamento sotterraneo che arriverebbe fino all’ospedale San Camillo». Questo elemento conferma le parole dell’ex compagna di Enrico De Pedis che, nelle sue dichiarazioni aveva indicato agli inquirenti la presenza di questi «ampi sotterranei».
Roma: il Campidoglio approva mozione per la visita di Benedetto XVI Con 46 voti favorevoli, due contrari e nessun astenuto, il consiglio comunale capitolino ha approvato la mozione per l’invito di Papa Benedetto XVI a una seduta straordinaria del consiglio dedicata al tema del valore universale della citta’ di Roma. Contro la mozione hanno votato Giuanluca Quadrana (Lista Civica) e Andrea Alzetta (Sa).
Morti bianche: una nuova vittima nel grossetano Un operaio rumeno di 47 anni è morto oggi a Scarlino, nel grossetano, in un rogo sviluppatosi all’interno dell’Agrideco, azienda privata di raccolta e smaltimento di rifiuti speciali. Un altro lavoratore ustionato sarebbe ricoverato in condizioni gravissime al Santa Chiara di Pisa. Secondo le prime ricostruzioni, alcuni operai stavano lavorando dentro un capannone dell’azienda quando all’improvviso è divampato un incendio, alimentato da plastiche e pneumatici presenti tra i rifiuti, che ha innescato l’esposione delle bombolette spray vuote presenti anch’esse nell’immondizia.
Caso Contrada: legale scrive a Berlusconi: «Trasferitelo al Celio» «Rimaste sino ad oggi inevase anche le ultime istanze inviate ai Segretari di Stato ed ai ministri della Difesa e della Giustizia, ci vediamo costretti a rappresentare la drammatica situazione al signor capo del Governo, unico che riteniamo a questo punto in grado di ascoltare e comprendere il grido di dolore ed operare conseguentemente ed in fretta». Comincia così una lettera inviata al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi da Giuseppe Lipera, legale dell’ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, condannato a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa.Viste le gravi condizioni di salute, l’avvocato chiede per il suo assistito, «almeno l’immediato trasferimento all’ospedale militare del Celio di Roma».
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pensieri
Inciucio e poi scontro: i rapporti tra Pdl e Pd aprono spazi all’Udc
Manuale per il Centro di Luca Volontè ermi al centro, cioè dinamicamente operosi. Nuovi scenari si aprono già all’orizzonte e alla domanda di posizionamento dell’Unione di centro, a quel “con chi state”, vengono date bel altre prospettive. La mia tesi, indubbiamente secondaria, ma non per questo sbagliata, si fonda sull’analisi della realtà emersa dall’esito elettorale. Il centro c’era, aveva cioè raccolto consensi, ma non aveva spazio di azione politica e non ne avrebbe avuto fintantoché ci fosse stato l’abbraccio mortale, l’inciucio globale tra Veltroni e Berlusconi. Destra e Sinistra che si baciavano ed insieme, come due innamorati si sorreggevano, trovavano fisicamente e politicamente il loro baricentro a metà, nel centro dello schieramento politico. Non era un caso che il dialogo tra i due “pesi massimi” anche nei toni, durante e dopo il confronto elettorale, fosse pure nei toni assolutamente moderato.
F
Contenuti e toni da democristiani senza esserlo e questa fase, contro natura per entrambe le maggiori liste elettorali non poteva naturalmente reggere a lungo. Nel Pd delle ultime settimane, sorge dunque uno scontro che va ben al di la dei contenuti, piuttosto riguarda il posizionamento avuto sin ora di conciliazione nazionale, a prescindere dalle medesime sfide
incompatibilità non riguardano i nodi strutturali, il dialogo si interrompe non per la diversità di ricette sull’immigrazione o sulle politiche familiari, sul rilancio del nucleare o sulla parità scolastica ma su altro. Altro che è più vicino ad una diffidenza di fondo tra le due liste, altro che meglio definiremmo frutto della approssimazione con la quale si è proceduto alla costituzione delle stesse liste, agli ideali ispiratori, alle stesse priorità programmatiche. Tant’è che diversamente da tanti altri, quel clima sereno mi è parso sempre posticcia sceneggiata e quindi godo della fine dell’ipocrita inciucio. Inciucio perché non avvenuto alla luce del sole, nelle aule parlamentari e su argomenti di confronto precisi. Di più, la rottura del punto d’appoggio su cui si reggevano gli ammiccamenti tra le due liste,
Il nuovo scenario ci è piovuto addosso. Adesso tocca alla forza delle nostre idee che interessano e incombono sul Paese. Dall’altra parte, nella Pdl e ancor più nella risorgiva idiosincrasia tra il premier e la magistratura, torna l’atteggiamento che caratterizzò l’inizio ombroso di 7 anni fa, dalla Cirami alla “Mills” potremmo con una battuta affermare. Questi screzi, tali esplosioni di
lascia e riapre uno spiraglio di prospettiva che può far emergere nel tempo tutta l’azione dinamica e di contenuti dell’Unione di Centro. Sarebbe forse inutile afferrare che in politica ognuno ha lo spazio che si merita con la propria azione, nella prima Repubblica forse era così ma nella attuale scelta duo polistica dei mass-media, nemmeno se l’Unione di centro ballasse sui banchi in mutande potrebbe aver più visibilità di quella che ha oggi. Poca o nessuna. Piuttosto penso si debbano cogliere positivamente le circostanze favorevoli che abbiamo di fronte a noi, quelle che abbiamo contribuito a creare e quelle che sono accadute senza il nostro concorso.Vale per il partito dell’Udc, che avrebbe tutto il tempo per organizzare meglio il suo radicamento nei contenuti e nelle presenze, vale per la nascente Unione di Centro che ha più tempo per allargare il coinvolgimento.
Il tempo di queste settimane, le difficoltà nel dialogo tra i due “maggiorenti” aggiunge altre opportunità e allontana la strettoia impossibile del dilemma (con chi andate?), non lo elimina ma lo allontana al traguardo delle prossime elezioni europee, provinciali e comunali. Questo nuovo scenario, tale allargamento dell’orizzonte ci è in qualche modo piovuto addosso, spetta a noi oggi e domani allargare non il divario tra Pd e Pdl ma fare entrare nel pertugio tutta la forza delle nostre proposte e dei nostri ideali, saranno le nostre iniziative a dimostrare se dalle parole, noi stessi saremo capaci di passare ai fatti. Ora dipende molto più da noi, di quanto non potessimo far sino a qualche settimana fa. La fortuna per i laici o la Provvidenza per i credenti ci arride, sprecarla sarebbe definitivamente segnare la morte dello stesso progetto dell’Unione di Centro.
Il Dpef taglia i finanziamenti all’IsMeo, l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente fondato da Giovanni Gentile e attivo più che mai
Come ti cancello un ente che funziona di Luisa Arezzo ue giorni fa il presidente Napolitano ha emanato il decreto legge sul Dpef approvato dal Consiglio dei ministri del 18 giugno.Tra gli enti considerati inutili, e quindi da sopprimere, accorpare o riordinare, ve n’è uno che a noi di liberal tanto inutile non pare: si tratta dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente (IsIAO), nato nel 1995 dalla fusione dell’IsMEO, fondato da Giovanni Gentile nel 1933, con l’Istituto Italo-Africano, nato nel 1906. La valutazione della Corte dei Conti sulla gestione amministrativa è positiva, anche perché dal 2006 ad oggi l’istituto ha quasi dimezzato il disavanzo, pur in presenza di un contributo pubblico che tra il 2002-2005 è diminuito di ben 929mila euro. Non è, quindi, un istituto che abbina un grande prestigio ad una cattiva gestione, come pure alle volte accade. Al contrario, dal 1995 ad oggi l’IsIAO ha razionalizzato le sue spese, riducendo l’organico da 76 a 36 unità, di cui solo 25 in realtà coperte. A questa corri-
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Nella foto in alto, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini. Qui sopra, Giuseppe Gentile (in alto) e Giuseppe Tucci (in basso)
sponde un parallelo aumento delle attività, tanto che il contributo statale oggi copre meno della metà del bilancio dell’Istituto e solo l’80 percento dei costi fissi, con la paradossale conseguenza che una sua eventuale soppressione comporterebbe un aumento dei costi per lo Stato, costretto ad accollarsi l’onere del
derivanti dall’attuale situazione geopolitica, l’IsIAO mantiene, infatti, missioni archeologiche, etnografiche ed etno-linguistiche in Afghanistan, Armenia, Cina, Giordania, Iran, Iraq, Kazakhstan, Mali, Nepal, Oman, Pakistan, Sudan, Tajikistan, Thailandia, Tunisia, Turkmenistan, Uzbekistan e Yemen, a cui si aggiungono le tante ricerche filologiche, storiche, storico-artistiche e storico-religiose portate avanti anche grazie a centinaia di accordi di collaborazione con le più prestigiose istituzioni culturali di Asia, Europa, Africa ed America. Senza contare la biblioteca aperta al pubblico di 200mila volumi e 2500 periodici, delle scuole di lingue orientali che tra Roma, Milano e Ravenna formano più di 1200 studenti ogni anno, delle collane editoriali, più di 400 titoli in catalogo, dei convegni e delle conferenze. Il prestigio internazionale dell’Istituto è dimostrato dalle firme di più di mille studio-
Il paradosso? Un aumento dei costi per lo Stato, costretto ad accollarsi l’onere del personale personale. Di contro, andremmo incontro a una grave perdita di conoscenze e di contatti con i Paesi dell’Asia e dell’Africa. Andrebbero perdute le capacità professionali costruite negli anni ed una rete di collaborazioni che spazia dal Giappone, dove l’IsIAO contribuisce a sostenere la scuola di Studi sull’Asia Orientale di Kyoto, al Mediterraneo, dall’Asia Centrale al Maghreb e giù sino al Corno d’Africa ed oltre. Pur nei limiti e con le difficoltà
si di tutto il mondo che, in sole 48 ore, hanno sottoscritto la lettera aperta al presidente della Repubblica pubblicata sul sito www.giuseppetucci.it (il grande orientalista che contribuì alla creazione dell’Ismeo). Ma che senso ha senso cancellare un istituto che da 75 anni si occupa di Africa e Asia, operando in loco, proprio nel momento in cui l’Africa e l’Asia conquistano la ribalta? E chi terrà i rapporti, nei prossimi decenni, con i loro studiosi, i ministeri della Cultura dei loro governi e le loro istituzioni accademiche? Che senso ha cancellare un istituto che sta pubblicando il primo dizionario cinese-italiano, proprio quando i nostri rapporti con la Cina crescono vertiginosamente? Che senso ha cancellare un istituto che opera in Iraq ed in Afghanistan, proprio quando il nostro impegno per la ricostruzione di quei Paesi è ancora più necessario? La risposta è: nessuno. L’auspicio è che si tratti di una svista burocratica, possibilmente da correggere.
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parole
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Il presidente di Psichiatria Libera contro la Basaglia n Europa ogni 9 minuti si commette un suicidio e il loro numero supera le vittime di incidenti stradali (56000 contro 50000 per anno). E’ questo uno dei tanti campanelli di allarme che riguardano il disagio psichico e che ci inducono a riflettere sulla necessità di dare risposte efficaci ad un problema in clamorosa espansione. Si calcola che un adulto su 5 nel corso di vita ha necessità di cure psichiatriche e che quasi il 20% degli adolescenti presenta problemi psichici.
I
I problemi inerenti la salute mentale costano agli abitanti dell’Unione Europea circa 136 miliardi di euro (di cui 100 sono dovuti alla depressione), tre volte maggiori di quelli derivanti dalle malattie cardiovascolari. La Commissione Europea ha lanciato il Patto Europeo per la Salute Mentale e tra gli obiettivi principali c’è la lotta alla depressione e la lotta allo stigma che colpisce quanti soffrono di malattie mentali. Come stanno le cose in Italia? Se dovessimo valutare i due punti appena evidenziati (lotta alla depressione e lotta contro lo stigma), ci renderemmo conto che, sì abbiamo chiuso i manicomi (unico Paese al mondo, molto lodato dalla comunità internazionale, ma non imitato da alcun altro Paese), però le strutture per l’assistenza psichiatrica non sono in grado di fronteggiare proprio le emergenze segnalate nel Patto Europeo per la Salute Mentale.
La 180 non è riuscita a vincere la depressione di Antonio Cantelmi
Il professor Cantelmi è titolare della Cattedra di Psichiatria presso la Pontificia Università Gregoriana e dirige una Scuola di Specializzazione in Psicoterapia del MIUR
Psichiatria Libera
Prendiamo il caso della depressione. Calcoliamo che circa il 15% delle donne e l’8% degli uomini soffrono di depressione. In Italia fanno almeno 5 milioni di persone. A chi si rivolgono questi pazienti? Secondo l’assetto ideologico vigente dovrebbero rivolgersi ai Centri di Salute Mentali (CSM), luoghi indifferenziati e rigidamente non specializzati per patologia, che infatti dovrebbero erogare servizi per la salute mentale per tutte le patologie mentali. Chiunque conosce i CSM sa che, con grande fatica, a mala pena riescono a fronteggiare alcune patologie (in genere le più gravi e quelle con più alto carico sociale, come la schizofrenia) e che difficilmente un cittadino depresso accederà al CSM.
Fondazione liberal
Legge 180: Prospettive di Riforma La salute mentale al tempo della società liquida Lunedì 30 giugno 2008 ore 16:30 Palazzo Marini - Via del Pozzetto, 158 – Roma
Tavola rotonda Introduce: On. Ferdinando Adornato Presidente Fondazione Liberal
Modera: Prof. Tonino Cantelmi Presidente Psichiatria Libera
Interventi: On. Paola Binetti (PD) On. Carlo Ciccioli (PDL) Sen. Stefano De Lillo (PDL) On. Luca Volontè (UDC) Prof. Giuseppe Tropeano (Psichiatra) D.ssa Maria Luisa Zardini (ARAP) Psichiatria Libera sarà lieta di presentare e distribuire gratuitamente la nuova rivista monografica “Modelli Per la Mente” Ingresso libero, prenotazione obbligatoria Info e Prenotazioni giorgiavinci@yahoo.it 3314634451
Inoltre, in molte Regioni italiane vige una assurda territorialità. In omaggio ad un residuo ideologico, che attribuisce alla comunità sociale gran parte della causalità psicopatologica, il cittadino, in alcune Regioni, è obbligato a rivolgersi solo al CSM territorialmente competente, senza la possibilità di scegliere lo psichiatra. In questo contesto e con queste modalità organizzative diventa altamente improbabile che strutture territoriali obsolete e non specializzate possano fronteggiare una emergenza quale è quella della depressione.
Un rigido assetto ideologico ha smantellato l’assistenza psichiatrica ambulatoriale ed ha impedito lo sviluppo di Centri specializzati per la cura della depressione. Inoltre dobbiamo considerare un dato sconcertante: secondo le modalità organizzative attuali, un paziente depresso non può accedere ad un adeguato ricovero (spesso importante, per una corretta diagnosi e per l’impostazione della terapia, o anche per la prevenzione di comportamenti suicidali o di abuso di sostanze), a volte prolungato (la risoluzione clinica di un episodio depressivo può richiedere anche più di un mese). Gli psichiatri italiani sono considerati fra i più bravi nel mondo (basta vedere i riconoscimenti internazionali e la ricca produzione scientifica italiana), ma la macchina organizzativa è pessima, come dimostra il caso della depressione. Il quadro assume caratteristiche più inquietanti se affrontiamo il tema dello stigma. Cos’è lo stigma? Lo stigma è quel senso di vergogna e di rifiuto che suscita la malattia mentale, mostro multiforme che conduce all’isolamento ed alla condanna sociale. Non c’è dubbio, lo stigma va combattuto con decisione, perché è il vero grande ostacolo che impedisce l’accesso alle cure. Cosa è successo in Italia dopo 30 anni di legge 180? E’ successo che lo stigma è aumentato! Oltre il 70% degli italiani ha dichiarato che, se avesse un parente ammalato di una patologia mentale, se ne vergognerebbe e tenderebbe a nasconderlo! Questo è un segnale di un clamoroso fallimento, che solo una frangia ideologica residuale e minoritaria (ma assai rumorosa e coesa) si affanna a nascondere. E’ evidente dunque che occorre lanciare un Patto per la Salute Mentale per l’Italia, che possa identificare obiettivi e assetti organizzativi congrui con gli obiettivi e liberare la psichiatria da vincoli ideologici di nessuna pertinenza scientifica.
Un rigido assetto ideologico ha smantellato l’assistenza psichiatrica ambulatoriale ed ha impedito lo sviluppo di centri specializzati per la cura della depressione
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mondo Da sinistra, Barroso, presidente della Commissione Ue e il presidente russo Medvedev. Grande assente, Vladimir Putin
Oggi in Siberia la giornata clou del vertice Ue-Russia, dove rischia di passare in secondo piano la questione georgiana
Memorandum per l’Abkhazia di David J. Smith
TBILISI. Sono passate dieci settimane da quando il presidente russo Putin ha decretato la quasi annessione del territorio georgiano dell’Abkhazia. L’impetuoso torrente di parole scatenato al riguardo dall’Occidente non ha avuto finora nessun effetto. Un atteggiamento che ricorda la famigerata politica dell’appeasement. I leader occidentali si scambiano le strette di mano, ma a che scopo? Ci sarebbe invece molto da fare, se si partisse dal presupposto che quanto sta avvenendo nel Caucaso non è una occasionale disputa tra Paesi, che potrà essere risolta secondo le regole del diritto internazionale mentre i rapporti economici continuano come se nulla fosse. Si tratta di uno scontro con uno Stato che vuole rifare le norme internazionali. Di conseguenza gli affari non possono proseguire come d’abitudine. E questo, proprio oggi che si tiene il vertice euro-russo di Khanti-Mansijisk, in Siberia, con Medvedev e Barroso, va ricordato.
Con un decreto di Putin, la Russia ha inviato in Abkhazia 700 paramilitari pesantemente armati, che Mosca afferma essere truppe di interposizione di pace. Poi sono arrivati i soldati del genio ferroviario. La reazione occidentale è stata dura, unitaria, intensa, ma senza conseguenze, perché i diplomatici si sono rivelati, incerti e ondivaghi. Mosca ne ha preso atto ed è andata avanti. Parigi ha tubato con Putin. Durante una conferenza stampa, Fillon lo ha chiamato due volte «presidente». Jacques Chirac ha espresso la sua «profonda amicizia» nata - parole sue - «dall’eccellente modo con cui Putin ha gestito gli affari russi». Berlino ha fatto gli augu-
ri al presidente russo Dimitrij Medvedev. Russia e Germania sono partner in un «mondo sempre più complicato», ha dichiarato una raggiante Angela Merkel a Medevedev. «La Germania» ha detto Medvedev «è un partner strategico con cui abbiamo un livello molto alto di partnership e contatti politici». Washington cerca l’assenso del Congresso per l’accordo di cooperazione nucleare con la Russia. «Gli Stati Uniti e la Russia devono avere una cornice unitaria di base per sviluppare energia nucleare a scopi pacifici e per permettere la
quanto dovremo confrontarci sulle più importanti sfide globali del XXI secolo».
Tali incongruenze sono il risultato del comportamento occidentale che tende ad isolare il proprio disaccordo con il Cremlino su materie come l’Abkhazia, per tentare di salvaguardare il modo di condurre quelli che si ritengono essere gli affari. I leader russi, al contrario, vedono tutto in maniera unitaria e, imperturbabili, prendono a pretesto ogni occasione per lagnarsi della controparte occidentale.
L’Europa lancia segnali distensivi a Medvedev e Putin, Washington cerca l’assenso del Congresso per l’accordo di cooperazione nucleare con la Russia. Ma il prezzo da pagare è l’Abkhazia crescita mondiale dell’energia nucleare, rafforzando la prevenzione di ogni forma di proliferazione nucleare». Il sottosegretario di Stato di John Rood ha detto al Congresso che l’accordo, «aggiungerà forza e stabilità alle relazioni con il Cremlino in
«Le nostre relazioni dovrebbero essere basate sull’onestà, dobbiamo rispettarci reciprocamente e in questo modo avanzare verso la collaborazione», ha detto Putin a Le Monde durante la sua recente visita a Parigi. Nello stesso spirito le dichiarazioni
sulla Nato. «Come si può essere democratici nel proprio Paese e mostri spaventosi all’esterno? Cosa è la democrazia?» Più tattico Medvedev, che nel suo discorso del 5 giugno a Berlino, ha toccato questioni come i diritti umani e (alcuni) problemi legati alla sicurezza russa. Questo il suo messaggio: «È evidente che le attuali differenze con la Russia siano viste da molti occidentali come un semplice bisogno di avvicinare la politica russa alla loro, Ma noi non desideriamo questo tipo di abbraccio. Cos’è: quello che è permesso a Cesare, non è permesso a nessun altro?». Putin, con il suo stile da capò e Medvedev con il suo comportamento manageriale, segnalano che la Russia, più che essere in disaccordo con l’Occidente su questo o quel problema particolare, non intende accettare l’attuale ordine internazionale. Tirando una somma generale dalle sue analisi sull’era napoleonica, Henry Kissinger scrive: «La diplomazia nel senso classico del termine, ordinare le differenze attraverso il negoziato, è pos-
Il summit sancisce l’avvio dei negoziati per rinnovare l’accordo di partnership strategica fra Ue e Russia
L’agenda di Khanti Mansijisk, capitale degli Emirati siberiani SI CHIAMA KHANTI-MANSISK, dal nome delle prime due popolazioni originarie, ma qualcuno l’ha ribattezzata la capitale degli Emirati siberiani, per via del boom petrolifero che l’ha trasformata in una ricca provincia russa. Il distretto, quasi un milione e mezzo di persone, garantisce il 60% dell’estrazione del petrolio russo (7,5% nel mondo) ed è terzo a livello nazionale nelle estrazioni di gas. il summit che vi si tiene sancisce l’avvio dei negoziati per rinnovare l’accordo di collaborazione e partnership strategica fra Ue e Russia scaduto a
fine 2007 e firmato dieci anni fa, quando la Russia era sull’orlo della bancarotta. L’agenda del summit è ricca e spinosa. Sul fronte energetico Bruxelles chiede garanzie per la sicurezza delle forniture energetiche e degli investimenti stranieri in un settore ancora monopolizzato dallo Stato, ma Mosca sembra preferire accordi bilaterali. Sul fronte della sicurezza, resta la contrapposizione sullo scudo spaziale Usa in due Stati membri della Ue e sull’allargamento della Nato a est. Tra i motivi di tensione Kosovo e Abkhazia.
sibile solo grazie ad ordini internazionali “legittimi”. Ogni volta che esiste un potere che considera l’ordine internazionale, o il modo della sua legittimazione oppressivo… la diplomazia, l’arte di limitare l’esercizio del potere, non può funzionare». Oggi l’artiglieria viaggia via ferrovia, non sui muli, e i modi di gestire il discorso internazionale nell’era di internet, sono differenti di quanto avveniva nell’età napoleonica. Nondimeno, ora come allora, i leader dello status quo trovano difficile dare ascolto alle osservazioni di Kissinger. Trattano la Russia, per tornare di nuovo alle sue parole: «come se le sue proteste fossero un’arma puramente tattica; come se veramente accettasse la legittimità dell’esistente, ma esagerasse solo il disaccordo sui singoli problemi». «Quelli che cercano di mettere in guardia in tempo dal pericolo, vengono trattati come allarmisti», osserva Kissinger. Il colpo di reni russo sull’Abkhazia e l’incapacità occidentale a dare efficacia alle proprie obiezioni, spiega lo sfasamento delle diverse concezioni del mondo. «Se l’Occidente afferra questo concetto potrà fare un sacco di cose!». Ricevere, non celebrare, Putin e Medvedev. Far sapere che all’ordine del giorno vi sono le aggressioni russe». Mettere in soffitta l’accordo nucleare UsaRussia. Il Congresso è in grado di farlo. Ci sono dei passi che i Paesi occidentali devono fare, ma ce ne sono molti di più – centinaia - che riguardano le relazioni quotidiane con Mosca». Sembra troppo duro? Ha detto Winston Churchill, «Un pacifista è qualcuno che nutre un coccodrillo, sperando che alla fine sia lui a sbranarlo».
mondo
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Fiato sospeso nella comunità internazionale per il futuro di un Paese che rischia il bagno di sangue
Zimbabwe: urne aperte, voto farsa di Luisa Arezzo
d i a r i o rne aperte in Zimbabwe per il finto ballottaggio fra Mugabe e sé stesso, visto che il leader dell’opposizione, Morgan Tsvangirai, si è ritirato dalla competizione denunciando le violenze contro i sostenitori del suo partito, l’Mdc (movimento per il cambiamento democratico) e dall’ambasciata olandese di Harare lancia nel vuoto il suo ultimatum «tratto solo prima del voto». Urne aperte, con tanto di militari schierati e incaricati a un ”prelievo”porta a porta, per gli elettori, che difficilmente si potranno rifiutare di seguire un mitra. Urne aperte, metaforicamente parlando, per la comunità internazionale, chiamata a far seguire alle parole di condanna un chiaro piano di azione per fermare la dittatura paradossale dell’84enne Robert Mugabe. Il tutto, mentre la situazione precipita di giorno in giorno evocando sempre più scenari simili a a quelli che sconvolsero il Kenya dopo le contestate elezioni del 27 dicembre scorso, a seguito delle quali si scatenò la mattanza di oltre 1.500 persone e la fuga, fra violenze spaventose, di mezzo milione di kenyoti. Allora, a vincere fu Odinga, ma il risultato venne rovesciato pochi giorni dopo dal presidente uscente Kibaki. Scatenando un inferno fermato dall’ex segretario dell’Onu Kofi Annan dopo lunghi mesi di negoziato.
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Oggi, nonostante i toni siano tesi dal 29 marzo, quando a vincere fu Tsvangirai, non è ancora chiaro chi debba decidere cosa per lo Zimbabwe. Sulla carta e per la comunità internazionale, una soluzione dovrebbe essere prospettata e guidata dalla Sadc, la Comunità per lo sviluppo dell’Africa del sud presieduta dal leader sudafricano Mbeki, ma quest’ultimo sembra essere troppo compromesso con il regime di Mugabe e troppo impegnato a salvare la sua carriera politica in patria, per poter agire in maniera indipendente. Soprattutto, non sembra averne voglia. Degli altri 13 Paesi membri, almeno 5 hanno chiesto un cambio di rotta, ma nessuno ha un’autorità e un peso politico tale, soprattutto a livello africano, per poter modificare la rotta di Mugabe senza un sostegno internazionale. Certo, c’è la condana dell’Onu, sottoscritta anche da Cina e Russia, c’è la posizione americana di non volere considerare l’esito del ballottaggio-truffa, c’è la ferma condanna della Ue che ipotizza sanzioni congiunte, c’è il simbolico ritiro a Mugabe del titolo di “sir”da parte della regina Elisabetta II (e diciamolo, poteva essere ritirato da tempo), c’è lo sdegno dei popoli occidentali a cui si contrappone il permesso dato a Mugabe di partecipare al vertice Fao. Ma nulla sembra arginare la legittimità dell’eroe anticoloniale, anche se è chiaro che tutto questo dei risultati li produrrà, soprattutto se la situazione dovesse degenerare nel sangue o in un colpo di stato militare. Resta l’Unione Africana, che la prossima settimana terrà il suo vertice in Egitto e al quale il dittatore ha già detto di voler andare, da presidente. Ma anche lì nessuno, almeno al momento, ha ancora battuto ciglio alla sua dichiarazione. Se le parole non bastano, bisogna allora immaginare gli strumenti per guidare il Paese fuori dall’emergenza. E questi potrebbero essere non tanto le ulteriori san-
zioni paventate dalla Ue che condannerebbero la popolazione al coma profondo, e probabilmente nemmeno l’invio di una forza peacekeeeping Onu, che rischia di scontrarsi con l’esercito di Mugabe (che oltretutto ne vieta l’ingresso), ma piuttosto un sostegno forte agli oppositori del regime. Tsvangirai in testa. Chiedendo a Mbeki di farsi promotore di una garanzia di “uscita” a quattro stelle per il dittatore. Non solo: bisognerebbe immaginare già da adesso come togliere l’incredibile debito estero dal groppone del Paese una volta uscito Mugabe, come istituire una Commissione per la riconciliazione nazionale, come sostenere la ripresa sanitaria e ali-
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g i o r n o
Corea del Nord, inviato dossier nucleare La Corea del nord ha consegnato alla Cina una dichiarazione in cui illustra dettagliatamente lo stato del suo programma di sviluppo delle armi nucleari. Nell’elenco degli impianti, dei materiali e dei programmi atomici non dovrebbero rientrare le armi nucleari in possesso di Pyongyang, che verranno rese note in una fase successiva del complesso negoziato sul disarmo. Gli Stati Uniti hanno accolto con cauta soddisfazione la notizia della consegna del documento. George W. Bush ha fatto sapere che saranno compiuti passi immediati per alleggerire le sanzioni a Pyongyang revocando le restrizioni commerciali previste dal “Trading with the enemy act”. Se il documento nordcoreano risulterà completo, entro l’11 agosto il presidente americano toglierà la Corea del nord dalla lista nera degli Stati che sponsorizzano il terrorismo.
Aids, via a un piano d’azione da 50 mld Il Senato americano ha spianato la strada a un sostanzioso incremento del programma dell’amministrazione Bush per combattere Aids, malaria e tubercolosi in Africa e in altre parti del mondo. Con un accordo che pone le basi per un voto che darà vita a un programma da 50 miliardi di dollari in cinque anni, più del triplo dell’attuale iniziativa da 15 miliardi di dollari (che già era al più vasta del genere nella storia della lotta all’Aids), Bush potrà annunciare come cosa fatta il progetto nei prossimi giorni al vertice del G8.
Israele, accordo per rilascio prigionieri Israele ed Hezbollah sono pronti a firmare l’accordo per uno scambio di prigionieri che garantirà il rilascio dei due soldati israeliani rapiti nel luglio 2006 dal gruppo sciita libanese. Lo riporta il sito web del quotidiano Haaretz. Le due parti hanno preparato un accordo scritto che verrà sottoposto domenica all’approvazione del governo israeliano. Se approvato, Israele lo firmerà e i mediatori tedeschi che hanno condotto il negoziato porteranno il documento a Beirut per farlo firmare anche ad Hezbollah.
Usa, Corte Suprema: sì alle armi
L’ipotesi Ue di inasprire le sanzioni condannerebbe la popolazione al collasso. Serve un sostegno forte all’opposizione che dia fiducia ai leader africani mentare dello Zimbabwe. Perché probabilmente solo la certezza di avere le spalle coperte potrà aiutare l’opposizione (e convincere i militari in casa e gli altri leader africani fuori) a continuare la propria battaglia senza precipitare nel caos. Infine, come memorandum, qualche dato sul Paese che una volta era il granaio d’Africa e che oggi va al voto sotto scorta: Inflazione: dieci anni fa sfiorava il 12 per cento annuo; l’ultimo dato ufficiale relativo allo scorso febbraio indica il 165mila per cento. La valuta locale non vale neanche la carta su cui è stampata: occorrono circa 30 miliardi per un dollaro Usa; Aspettativa di vita: nel 1990 era di 63 anni, oggi di 35; Mortalità infantile: nel 1990 era di 76 bimbi al di sotto dei cinque anni su mille; nel 2006 di 105; Aids: ne muoiono 3.500 persone a settimana; Occupazione e alimentazione: si valuta che quattro cittadini su cinque siano disoccupati, ed il 35 per cento della popolazione (circa 13 milioni di persone) viva sotto la soglia di sopravvivenza alimentare minima.
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha rafforzato il diritto individuale degli americani ad essere armati. Con una sentenza storica su come interpretare, una volta per tutte, un diritto costituzionale sancito in modo incerto nel 1791, i giudici hanno bocciato un divieto a detenere le armi che era in vigore nella città di Washington.
Iran, boom per agenzia matrimoniale Successo assoluto per la prima agenzia matrimoniale iraniana, alla quale in poche settimane si sono iscritte 50mila persone in cerca dell’anima gemella. Gestita da una fondazione, l’agenzia è sbarcata nel mondo virtuale, offrendo la possibilità a uomini e donne di registrarsi on line dietro il versamento di una quota pari a 20 euro. In cambio, per sei mesi gli iscritti potranno beneficiare dei servizi dell’agenzia, che cercherà di facilitare incontri rigorosamente controllati - tra possibili anime gemelle. La coppia potrà incontrarsi solo tre volte, due in sede e una fuori dall’agenzia e per una durata molto limitata e sempre sotto stretta sorveglianza dei responsabili della fondazione.
Di Paola presidente comitato militare Nato L’ammiraglio Giampaolo Di Paola assume da oggi l’incarico di presidente del comitato militare della Nato, subentrando al generale canadese Ray Henault. Il passaggio di consegne avverrà in una cerimonia al quartier generale della Nato, alla quale parteciperà il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jaap de Hoop Scheffer e i 26 capi di Stato dei Paesi che aderiscono all’Alleanza.
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speciale approfondimenti
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Uno dei “ragazzi del Virgilio” racconta i suoi 40 anni nella Comunità di Sant’Egidio, nata nel 1968 con un’unica finalità: annunciare il Vangelo agli “ultimi della Terra”
COSÌ ABBIAMO RESISTITO AL VENTO DELLE IDEOLOGIE di Mario Marazziti hi trovasse il tempo di andare a vedere cosa è, almeno a prima vista, la Comunità di Sant’Egidio tra maggio e giugno 2008, dopo quaranta anni dai suoi inizi, dopo una riunione di studenti del liceo Virgilio presso la Chiesa Nuova, troverebbe più o meno questo. Procedo con ordine illustrando l’home page del nostro sito internet: www.santegidio.org. Piccola cartina al tornasole di questa realtà. A metà maggio una concentrazione sul programma Dream e sui risultati che ne fanno forse il più efficace programma di prevenzione e cura nell’ Africa Sub-Sahariana, e la Conferenza Internazionale che raccoglie a Roma quindici ministri della salute africani sul ruolo della medicina di comunità come piccolo volano di cambiamento non solo nella lotta all’Aids ma nella riabilitazione di interi sistemi sanitari con poche risorse, e sul ruolo della donna africana da stigmatizzata e emarginata a centro di rinascita della società civile, da malata a donna curata, consapevole, attivista capace di coinvolgere gli uomini, di garantire un futuro ai bambini, inizio di una democrazia vera e dal basso. E tra le news l’apertura del Centro Dream di Nairobi e le iniziative di Wine For Life, un modo in cui i grandi vini italiani sostengono proprio la rinascita dell’Africa e la liberazione dall’Aids. Si capisce la necessità di ingegnarsi, visto che il solo programma Dream, da solo, è diventato la più importante voce di spesa di questa realtà ecclesiale, un’associazione pubblica internazionale di laici riconosciuta dalla Santa Sede ma anche Organizzazione non governativa riconosciuta dall’Unione Europea e con uno statuto Ecosog all’Onu, e che Sant’Egidio rimane, nel panorama delle organizzazioni non governative e delle Onlus la realtà con il minore tasso di spese interne e per autopromozione, visto che tutti i responsabili e tutti gli oltre 50 mila membri in più di 70 paesi del mondo rimangono volontari, no profit puro,“terzo settore senza business”, ma non senza professionalità, anzi. Sempre sulla home page, in un giorno qualunque di maggio si trova l’inaugurazione della casa-famiglia per anziani a Genova e il programma Viva gli Anzia-
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ni!, che è una risposta concreta all’età in più, all’età più lunga che in Italia e nel mondo sviluppato è la più grande conquista dell’ultimo secolo senza che si sappia cosa farne, anzi, cominciando ad averne paura in termini di welfare e di scontro sociale tra generazioni. Mentre il programma Viva gli Anziani! Sta dimostrando come con mezzo euro al giorno per anziano tutte le persone con più di 75 anni possono essere seguite nei loro problemi, riducendo la mortalità incongrua, le morti da caldo e da freddo, offrendo una risposta vera alla solitudine, riducendo la paura, e contribuendo a creare attorno agli anziani i “quartieri solidali” nelle grandi città.
Più lateral thinking che incenso, anche se l’ incenso è parte della normale, straordinaria bellezza della liturgie domenicali per la comunità di Sant’Egidio. Ma c’è anche una casa per chi vive per strada che si apre a Roma, dal riuso di un bene ecclesiastico, e questo accade mentre in
Il nostro segreto? La preghiera e la capacità di guardare agli altri al di là degli interessi personali tutta Italia si discute di allarme sicurezza. Sempre sulla home page, un programma di aiuti in Ciad, un incontro ecumenico in Romania e un incontro sulla Chiesa in America Latina e la risposta alla violenza diffusa delle maras, le bande di ragazzini e di giovani che hanno cambiato la vita quotidiana e si stanno mangiando il futuro di un’intera generazione latino-americana. Ma anche la campagna mondiale per fermare la pena di morte, il racconto di un’americana in prima linea contro la pena capitale in California che racconta come è stato assieme e grazie a Sant’Egidio che ha scoperto perché si trattasse di una questione “capitale”per la vita e i diritti umani, anche se aveva già vissuto 35 anni a un quarto d’ora da San Quentin sulla Baia di San Francisco, il più grande braccio della morte d’America. E le iniziative attraverso l’Italia, attorno a “ Il Caso Zingari” - piccolo libro che tenta di togliere il te-
ma della presenza dei rom e dei sinti in Italia dalle banalizzazioni e dai furori del tema “sicurezza”, che nel loro caso si qualifica in genere più come “rappresaglie”e attacchi a bottiglie molotov ai campi, largamente impuniti, da Roma a Ponticelli a Novara: un modo di fare cultura e di introdurre il tema dell’antigitanismo come uno dei buchi della nostra cultura occidentale, vera origine dell’assenza di anticorpi di fronte ai rigurgiti xenofobi o alle colpevolizzazioni di gruppo, “etniche”di tutti gli zingari. Un problema con cui, a differenza dell’antisemitismo, un’intera società ha mancato finora di fare i conti. Ma, ancora più in evidenza, c’è la visita di papa Benedetto XVI alla Comunità nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, il primo Memoriale dei martiri contemporanei, che contiene le memorie e le reliquie di martiri e beati del nostro tempo, tutte persone che hanno dato la vita per il vangelo, la pace, la convivenza pacifica tra etnie diverse, per i poveri, noti e meno noti: da monsignor Romero al pastore evangelico Paul Schneider, massacrato a Buchenwald perché non smetteva di dare speranza e annunciare il Vangelo nel campo, da Frère Christian de Chergé, uno dei sette trappisti, amici di Sant’Egidio, uccisi in Algeria, a Floribert Bwana-Chui, un giovane della Comunità stessa torturato alla frontiera di Goma, Congo, per non avere accettato come guardia doganale di essere corrotto e fare entrare merci avariate.
Ma, se si guarda bene, al di là delle news, c’è la vita normale della Comunità. La preghiera serale, quotidiana. L’uscita, fresca, di un libro, “La fede di Israele” che rappresenta già in se stesso una pagina importante dei dialogo ebraico-cristiano, con contributi, tra gli
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A sinistra una delle tante manifestazioni della Comunità di Sant’Egidio, fondata a Roma nel 1968 da un gruppo di studenti liceali. A destra uno dei tanti poveri della Capitale che ricevono quotidianamente assistenza. In basso un gruppo di bambini africani, emblema dell’impegno di questa comunità per questo Continente. In particolare nella lotta all’Aids
altri, del rabbino capo di Israele Yona Metzger e del rabbino David Rosen, accanto al card. Poupard, Andrea Riccardi, Enzo Bianchi. E c’è una fitta pagina di “amicizia con i poveri”, sotto l’immagine del Pranzo di Natale (che ormai, dopo un quarto di secolo, è diventato un nome proprio e coinvolge ogni anno 150mila persone nel mondo) con quanti vivono per strada, una specie di presepe contemporaneo. La pagina spazia dalle scuole d’arte per i disabili fisici e mentali alle campagne per l’adozione a distanza, per la cittadinanza dei bambini nati in Italia
Basta fermarsi con un uomo in strada per appassionarsi a un intero popolo di “poveri” da genitori stranieri, alle Scuole della Pace in gran parte del mondo, ai movimenti nati dalla Comunità e che costituiscono un tessuto sociale di gente non spaventata dalla globalizzazione, meno spaesata perché capace di trovare ragioni di identità non contro, ma dentro, e assieme ad altri, senza sottrarsi alla fatica di capire, guardarsi attorno, misurarsi con altri. In alto, al centro, compare il nuovo programma “Bravo!”, per la registrazione anagrafica dei “bambini invisibili”, dalla Costa d’Avorio agli altri paesi africani e del Sud del mondo. Da questo dipende la riduzione degli abusi, del traffico umano, dell’illegalità e, al tempo stesso, an-
che una vera chance di democrazia o di composizione di conflitti, visto che milioni di persone esistono, ma ancora non hanno, per assenza di registrazione e documenti, il diritto di vivere come gli altri, e “non esistono”. Insomma, un giorno di Sant’Egidio sfugge un po’ a una sintesi. Ma a ben vedere il centro è quella preghiera serale e personale quotidiana. E’ la parola amicizia, ricorrente. Vangelo, amicizia, poveri. E molto mondo, una specie di piccola comunità senza confini che, a forza di non mettere limiti pre-costituiti proprio all’amicizia si è ritrovata, nel tempo, a essere fortemente impegnata sul terreno della pace e della riconciliazione, fino ad avere avuto un ruolo diretto e decisivo nel negoziato che ha messo fine alla guerra civile in Mozambico (un milione di morti e tre milioni di sfollati), nella conclusione della guerra civile in Guatemala dopo trentaquattro anni di guerra civile e in molte circo-
stanze, ultime la riunificazione della Costa d’Avorio a febbraio 2007, dopo cinque anni di guerra civile e divisione in due parti, e la conclusione della guerra dimenticata (da noi ma non in Uganda del Nord) tra governo e Lord Resistance Army, un conflitto africano caratterizzato dagli eserciti di guerriglieri bambini e dai rapimenti di bambine e giovani.
Preghiera e amicizia senza confini. “Voi, anche quando non siete a Roma siete sempre romani”. Ricordo quando Giovanni Paolo II , sorridendo, lo disse, per indicare questa caratteristica universale, tanto poco “localista” e quella capacità, scritta nella storia di Sant’Egidio, di rappresentare proprio la Chiesa di Roma nel suo primato di servizio nella carità. E ero a Sant’Egidio quando, visitati da papa Wojtyla per il venticinquesimo anniversario, cogliendo un tratto profondo, diceva: “Voi non vi siete posto altro confine che la carità”. continua a pagina 14
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speciale approfondimenti
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segue da pagina 13 Dopo la pace firmata il 4 ottobre 1992 a Roma per il Mozambico (che non ebbe titoli di prima pagina in Italia) una giornalista del Washington Post chiedeva: “Quando avete smesso di aiutare i poveri e siete diventati un’organizzazione di diplomatici non convenzionali?” e “Qual è il vostro segreto?”. La risposta era facile: “Mai. E’ la stessa cosa fermarsi con una persona per strada, ricordarsi che i diritti umani sono diritti umani e non diritti di cittadinanza o geografici, e appassionarsi a un intero popolo di poveri. E, se si guarda bene, la guerra è la madre di tutte le povertà. Il segreto di Sant’Egidio? La preghiera, l’amicizia, la cultura umana e la capacità di guardare alle persone al di là dell’ideologia, l’assenza di ‘vested interests’ che ne consegue”(di interessi personali a volte discutibili). Sant’Egidio, per anni, non ha avuto un logo, un simbolo che la rappresentasse. Bisogna ammettere che non ci si riusciva a farne uno, perché era difficile trovare un tratto unificante. Il nome veniva dal luogo, l’ex monastero che dal 1973 ospita la sede principale e la chiesina di Trastevere che per anni è stato il luogo della preghiera serale. Ma la facciata della chiesa era poco espressiva. Un anziano? Un immigrato? Un simbolo religioso? Per anni non c’è stato. Nell’imminenza di uno degli incontri mondiali interreligiosi per la pace promossi dalla Comunità occorreva fare almeno un manifesto e un logo per il programma. Le scadenze erano quello che erano e, di corsa, si è disegnato un arcobaleno inclinato e si è staccata dal muro una litografia con la colomba di Picasso e qualcuno è andato in tipografia dicendo di mettere una sull’altro, in formato quadrotto, perché quelli erano gli spazi. Il logo di Sant’Egidio nasce così, prima di tutti gli arcobaleni, dalla storia e dalle cose che si vivono, mentre si vivono. Ma rappresenta bene anche la Comunità di oggi, che sa come la guerra che mette fine a tutte le guerre non è stata inventata e come le vittime nelle guerre moderne, so-
La guerra è madre di tutte le povertà no sempre nella popolazione civile. Che al suo interno ha più di venti lingue principali e che crede che non c’è alternativa all’arte di vivere insieme, anche se i tempi sembrano andare in direzione opposta.
Quest’anno cadono cinquant’anni dall’elezione di Giovanni XXIII, come pure i 60 anni della Costituzione italiana e della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Nel cuore della guerra fredda veniva celebrato il Concilio Vaticano II, che radunava i vescovi cattolici del mondo. Lo aveva convocato Giovanni XXIII. Non si faceva un concilio dal 1870; prima c’era stato quello di Trento conclusosi nel 1562. II Vaticano II fu chiuso da Paolo VI nel 1965.Tre anni dopo, nel 1968, la Comunità muoveva i primi passi. Siamo nati sotto l’ombra e alla luce del Concilio. Ai giovani il Concilio aveva rivolto un messaggio:”E’ a nome di questo Dio e del suo Figlio Gesù che noi vi esortiamo ad ampliare vostri cuori secondo le dimensioni del mondo e a intendere l’appello dei vostri fratelli, ed a mettere arditamente le vostre giovani energie al loro servizio. Lottate contro ogni egoismo. Rifiutate di dar libero corso agli istinti della violenza e dell’odio, che generano le guerre e il loro triste corteo di miserie.”L’invito era forte: ampliare il cuore secondo le dimensioni del mondo. E poi cambiarlo: ”costruite nell’entusiasmo un mondo migliore di quello attuale!”. Dalla fede, dalla Parola di Dio, dall’Eucaristia, scaturiva un appello a non lasciare il mondo come lo avevamo trovato. C’erano vari
modi per vivere questo. C’era la via politico-ideologica, fortissima allora e che si sarebbe poi esaurita negli anni Ottanta: era il primato della politica, della rivoluzione, del socialismo in tutte le sue varianti ( o anche l’opposizione muscolare a tutto questo, dentro la stessa idea di primato della politica). Il ’68 era stato anche l’ultimo momento di orgoglio europeo in cui si credeva di avere un’idea da esportare nel mondo intero, per poi più umilmente e confortevolmente ripiegarsi. Ma ci sembrava che non si poteva costruire un mondo migliore senza Dio, senza il suo Vangelo, e senza mettere in gioco se stessi, quindi senza tentare di operare il cambiamento di sé: la conversione del cuore. Dice la Gaudium et Spes: ”ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, guardando al mondo intero e a tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino”(82, 1609). Per cambiare il cuore c’è bisogno di Dio: dell’ascolto della sua Parola, della liturgia, del perdono, della fraternità. Della preghiera. La Gaudium et Spes fu approvata lo stesso giorno in cui Paolo VI e il patriarca Atenagora decisero di cancellare dalla memoria della Chiesa e di considerare sepolta nell’oblio la scomunica che nel 1054 aveva segnato la definitiva divisione tra Roma e Costantinopoli. Il 7 dicembre 1965, più di novecento anni dopo, a San Pietro in Vaticano e a San Giorgio al Fanar a Istanbul venivano dimenticate nell’amore quelle scomuniche.
La Gaudium et Spes rispondeva alla domanda su chi debbono essere i cristiani nel mondo contemporaneo. II ”mondo”, nel Vangelo di Giovanni, non accoglie colui che viene a salvarlo. E Gesù dice ai discepoli: ”Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” (16,35). E prega il Padre: ”Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono nel mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo.” (Gv 17, 15-18). I cristiani non sono del mondo. Ma, dopo il Concilio, c’è stato anche un facile ottimismo. C’era l’illusione che sarebbe bastata una Chiesa più “buona”, meno trionfante e più umile, e il mondo sarebbe cambiato in meglio, quasi automaticamente. Nel contempo, invece, si diffondeva
Non c’è alternativa all’arte di vivere insieme. Anche se i tempi vanno nella direzione opposta nel mondo occidentale la convinzione che la religione, le religioni, erano fatti “residuali”nel grande flusso della modernità e della secolarizzazione. Era un’errore di valutazione di cui risente ancora oggi in Italia un dibattito asfittico sulla “laicità”. L’abbiamo visto: la vita e la storia andavano in altra direzione, sotto la superficie della modernità occidentale ed europea, dal la “rivoluzione verde di Khomeini”alla risorgenza delle radici religiose nelle guerre balcaniche, alla fioritura dei fondamentalismi, alla richiesta di senso in un mondo disorientato da una globalizzazione che delocalizza non solo le merci e la produzione, ma, a volte, le iden-
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In alto a destra e in alto a sinistra due momenti della visita di Benedetto XVI nella Basilica di San Bartolomeo all’isola Tiberina, in occasione del 40° anniversario dalla nascita di Sant’Egidio. Nella pagina a sinistra una celebrazione presieduta da Paolo VI gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.” (1, 1319) Così - continua – la Chiesa è solidale con tutti mettendo a disposizione le ”energie di salvezza che... riceve dal suo Fondatore” (3,1322). La Chiesa dà quel che ha ricevuto: il Vangelo. Questo è il suo modo di essere solidale, non si fa dettare (e non detta) l’agenda dal mondo, dalla pubblica opinione, dalla stampa. Sant’Egidio è figlia del Concilio. Da questi 40 anni sgorga un umanesimo che ha scoperto che si è più umani quando Dio c’entra con la vita, che la preghiera è una cosa seria e che è la “prima opera della Comunità”, la radice vera e profonda della fedeltà evangelica e dell’amore. Paolo VI, concludendo il Concilio, aveva detto quasi con orgoglio: ”L’antica storia del Buon Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio delta terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo.” II papa parla di un ”nuovo umanesimo”, perche noi siamo –più di tutti!i cultori dell’uomo.
Non esiste un mondo migliore senza Dio tità. Fino alla svolta della religione diventata motore e protagonista della vita quotidiana di immense masse e regioni del mondo e del discorso pubblico, mentre il progresso ottimista e un po’ ingenuo che vedeva nella decolonizzazione e nell’avvento di una pace e di un governo mondiali il frutto naturale di un mondo liberato dalla divisione in blocchi e dalla cortina di ferro era destinato (come ai nostri giorni) a lasciare il passo a un forte “spaesamento” e alla vittoria di un mercato globale che non è ancora capace di maggiore giustizia e rispetto della dignità umana.
Paolo VI si era posto il problema del ”mondo” nella sua prima enciclica, l’Ecclesiam suam: ”questa distinzione (tra i cristiani e il mondo) non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la Chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad essa, anzi si congiunge”. Distinguersi dal mondo non è disprezzare o essere indifferenti, ma congiungersi in modo originale, efficace, simpatetico. La simpatia con cui si guardano gli uomini è un riflesso della compassione con cui Gesù guardava la gente, come pecore senza pastore, comprendendone 1’intima debolezza. E il motivo centrale della Gaudium et Spes era ed è la compassione. Così comincia, per chi l’avesse dimenticato o non l’avesse mai letta: ”Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le
oceano e i cristiani piccole isole, dal Pakistan all’Indonesia. Cerca di globalizzare anche la solidarietà e senza perdere il centro che è , anche se ad alcuni suona demodée, il Vangelo e la preghiera. Anche se vivere questo come priorità non corrisponde al cliché dei credenti “impegnati nel sociale”. In dialogo con il mondo, con altri credenti, con uomini e donne portatori di una visione laica, credenti a modo proprio perché portatori di una identità forte e non debole e, per questo, non spaventati dall’altro. Oggi, di fronte a una accresciuta fragilità sociale e a una non nascosta fatica di vivere, soprattutto nei grandi quartieri delle periferie urbane, Sant’Egidio rappresenta una proposta umana, personale, impegnativa, sotto il segno della gratuità, dove non tutto è mercato o competizione: e anche il lavoro, faticoso, di uscire dalla paura degli altri riannodando rapporti, oltre l’ideologia e le caricature dell’altro. Per costruire vivibilità necessaria a tutti, invece dei muri e dei fili spinati. Che è allora, oggi Sant’Egidio? Benedetto XVI, nella sua visita a san Bartolomeo all’Isola Tiberina il 7 aprile 2008, l’ha riassunto così: “Cari amici della Comunità di Sant’Egidio, voi avete mosso i primi passi proprio qui a Roma negli anni difficili dopo il ‘68. Figli di questa Chiesa che presiede nella carità, avete poi diffuso il vostro carisma in tante parti del mondo. La Parola di Dio, l’amore per la Chiesa, la predilezione per i poveri, la comunicazione del Vangelo
Nel ’68 si credeva di avere un’idea da esportare nel mondo, per poi più umilmente ripiegare
Sant’Egidio cerca di essere questo, tutti i giorni, nella periferia umana e urbana di Roma, Napoli, Genova, Messina, delle grandi capitali europee e nel mondo, in più di 70 paesi di questo pianeta in cui le distanze si sono accorciate, ma anche nelle zone rurali africane e sudamericane, là dove l’Islam è un
sono state le stelle che vi hanno guidato testimonian¬do, sotto cieli diversi, l’unico messaggio di Cristo. Vi ringrazio per questa vostra opera apostolica; vi ringrazio per l’attenzione agli ultimi e per la ricerca della pace, che contraddistin¬guono la vostra Comunità. L’esempio dei martiri, che abbiamo ricordato, continui a guidare i vostri passi, perché siate veri amici di Dio e autentici amici dell’umani¬tà. E non temete le difficoltà e le sofferenze che questa azione missionaria comporta: rientrano nella “logica” della coraggiosa testimonianza dell’amore cristiano.” Insomma, una storia tutt’altro che chiusa.
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economia
Dopo sette tagli consecutivi la Fed abbozza un cambio di marcia
Bernanke non tocca i tassi, gli speculatori ringraziano
In alto, il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke. Il banchiere, nonostante gli allarmi lanciati nelle scorse settimane, ha deciso di non rialzare i tassi d’interesse, mantenendoli 2 per cento
di Gianfranco Polillo essuna nuova, buona nuova», è un detto che non vale per la politica monetaria quando le condizioni dell’economia internazionale sono quelle che conosciamo: stagflation alle porte, una speculazione micidiale che moltiplica artificialmente il prezzo del petrolio e delle materie prime, una crescita dell’inflazione che colpisce i poveri della Terra e delle grandi periferie urbane dei Paesi di più antico benessere.
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Ben Bernake, il presidente della Fed, ha sciolto le riserve. E come Quinto Fabio Massimo il temporeggiatore, il generale romano che voleva sconfiggere Annibale con tecniche di guerriglia, ha deciso ch’era meglio attendere. I tassi di interesse, per ora, non si toccano. A inizio mese sembrava il contrario: la Fed aveva lasciato trapelare l’ipotesi di una stretta. Si era messa alla finestra per vedere l’effetto che la decisione avrebbe potuto produrre. Le reazioni non erano mancate, specie in Europa. La Bce insiste da tempo sui pericoli dell’inflazione. Dalla consorella americana la divide innanzitutto una diversa filosofia. Negli Usa il primato è quello della crescita: il veicolo che gli con-
sente di reperire le risorse necessarie per esercitare il suo ruolo internazionale. Se venissero meno, tutto diverrebbe più difficile: non soltanto per i costi rilevanti di quella presenza, ma per il possibile cedimento del fronte interno. Il pragmatismo americano è tale da realizzare uno scambio anche su problemi fondamentali: burro contro cannoni, come si diceva una volta. Ma se il primo scarseggia, le conseguenti proteste legherebbero le mani alla stessa Amministrazione. Per la Bce, invece, il problema non esiste. La politica estera e militare dell’Europa è all’insegna della prudenza e del rispar-
l’inflazione vicino al 3,6 per cento – quasi il doppio del livello di guardia – era inevitabile che le preoccupazioni fossero alle stelle. Così, quando Bernake, agli inizi di giugno, aveva fatto trapelare l’intenzione di alzare i tassi erano stati in molti a tirare un sospiro di sollievo. Finalmente si rompeva l’assedio e l’isolamento. E la stessa Fed, seppure a malincuore, accettava le lezioni di ortodossia. Ma l’illusione è durata lo spazio di un mattino.A distanza di qualche giorno, infatti, nonostante lo sconcerto generale, è stato diramato il contrordine. Nessun cambiamento rispetto ai mesi passati, la politica monetaria ri-
La Bce, che sperava arrivasse una stretta da parte dell’altro versante dell’Atlantico, resta spiazzata. Nessun freno poi all’eccesso di liquidità sui mercati, che è alla base delle folli operazioni sui futures del greggio e delle materie prime mio. Grava sui bilanci degli Stati membri, ma in modo estremamente contenuto. Libera da questi vincoli, l’Eurotower può dedicarsi, con maggiore spirito, al suo mestiere principale: il controllo dell’inflazione. Interviene ogni qual volta si manifestano i primi segnali di surriscaldamento. E con un tasso di crescita del-
mane immutata. E l’Atlantico torna a dividere non solo fisicamente i due continenti. Che era successo? I dati sulla disoccupazione risultavano essere peggiori del previsto. Era il segnale che l’economia americana stava rallentando oltre il dovuto, rendendo necessario un cambiamento nella strategia
ipotizzata. Se i tassi fossero aumentati, il dollaro si sarebbe rafforzato nei confronti dell’euro e dello yen. Le esportazioni sarebbero divenute più care, restringendo ulteriormente il sentiero del possibile sviluppo. Decisione giusta, quindi? Il problema è più complesso di quanto a prima vista potrebbe apparire. L’eccesso di liquidità sui mercati internazionali è il grande carburante che alimenta la speculazione sui prodotti alimentari e le materie prime, portando il loro prezzo ben al di sopra dei costi di produzione. Con differenze che superano il 100 per cento.
Per ovviare al problema sarebbe sufficiente un intervento chirurgico. Pretendere dei depositi a garanzia per ogni contratto sottoscritto, sul mercato dei futures: quello in cui non si scambiano barili di greggio, ma solo barili di carta. L’operazione speculativa diverrebbe più onerosa. Si sterilizzerebbe, inoltre, almeno parte della liquidità in eccesso. Il mercato, finalmente regolamentato, cesserebbe di funzionare come un roulette russa. Ed allora perché non farlo? Perché gli Stati Uniti, che di quella borsa hanno le chiavi, si oppongono. E per farlo sono ricorsi a ogni mezzo. Negano, per esem-
pio, che la speculazione abbia assunto un aspetto patologico. Invocano analisi più dettagliate. Sono come Bertoldo che non riusciva a trovare l’albero dove essere impiccato. Troppo forti sono, infatti, i legami che intercorrono tra quelle patologie e il valore del dollaro. Altro mezzo – questa volta più grossolano – per tagliare le unghie alla speculazione sulle materie prime sarebbe quello di una politica monetaria più restrittiva. Che comunque ne aumenterebbe i costi relativi. Ma anche questa strada sembra essere oggi preclusa. Per risultare efficace sarebbe necessario un concerto internazionale, almeno tra le due sponde dell’Atlantico. Ipotesi che la Fed ha rapidamente archiviato. E allora il cerino torna in mano alla Bce. Che cosa farà Francoforte? Aumenterà i tassi, nonostante Bernake? È possibile che, ancora una volta, trionfi l’ortodossia. Ma sarebbe solo un accanimento terapeutico. La speculazione, come si diceva in precedenza, può essere combattuta solo con uno sforzo congiunto. Se il matrimonio risulta impossibile per volontà dell’altro partner, si rimane da soli rischiando di aggiungere al danno la beffa. Vale a dire un rallentamento congiunturale, mentre i prezzi continueranno a salire.
economia
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Unicredit presenta il piano 2008-2010: stime di crescita del 6,7 per cento. I dubbi di Piazza Affari
Profumo scommette sullo sportello.A Est di Giuseppe Failla
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Confindustria: allarme stagnazione ll centro Studi di Confindustria prevede «una sostanziale stagnazione per l’economia italiana»: la crescita del Pil, quest’anno, si fermerà allo 0,1 per cento, in forte «rallentamento dall’1,5 per cento del 2007». Per il 2009 - si legge negli scenari economici di viale dell’Astronomia - è previsto invece fermarsi allo 0,6 per cento. Previsioni ben più pessimiste di quelle che il governo ha inserito nel Dpef: secondo gli analisti del ministero dell’Economia infatti il Pil dovrebbe crescere dello 0,5 per cento e dello 0,9 per cento nel 2009.
Bankitalia: impieghi deboli a maggio Resta contenuta la dinamica degli impieghi a maggio, frenata soprattutto dalla componente a più breve termine. In particolare, segnala la Banca d’Italia, i prestiti hanno segnato un incremento del 3,2 per cento su base mensile per un andamento tendenziale in crescita dell’8,7 per cento. Ad aprile l’incremento era risultato rispettivamente pari al 2,8 per cento e all’8,8 per cento. Nel complesso lo stock dei finanziamenti si è attestato a oltre miliardi di euro.
MILANO. Sempre più banca commerciale e, in questo filone, nuove scommesse sui mercati emergenti dell’Est Europa. Il destino di Unicredit è un sano ritorno al passato. È questa l’indicazione più interessante emersa ieri dalla presentazione del piano industriale della banca guidata da Alessandro Profumo. «Appare evidente», si legge nel comunicato sugli obiettivi del piano industriale 2008-2012, che il settore creditizio sta tornando alle origini ponendo una grande enfasi alle relazioni con il consumatore, alle reti di distribuzione locali e a prodotti e servizi piu’ tradizionali».
Più in generale, il ritorno al classico è la curiosa nouvelle vague delle banche italiane. Anche IntesaSanpaolo sta focalizzando la formazione interna su una maggiore attenzione al cliente finale. Ma la virata di Unicredit fa in qualche modo più impressione visto che, anche in virtù della fusione con la tedesca Hvb, era ritenuta la banca più moderna del Paese, all’epoca in cui la finanza strutturata, e in particolari gli strumenti ibridi, godevano di una fama decisamente superiore all’attuale. Ma nuove emissioni sono state escluse dallo stesso Profumo. «Non prevediamo nel breve termine», ha detto, «novità, ma ovviamente continuiamo a monitorare il mercato». Nell’elencare il focus, Profumo ha annunciato che i ricavi sono previsti in crescita del 6,7 per cento medio annuo, ma non a caso l’incremento sarà del 19,3 per cento in Est Europa e del 3 all’Ovest. Per l’utile per azione, la stima è di una crescita tra il 10 e il 12 per cento annuo.
Meno derivati e partecipazioni, più risorse sul retail e in Europa orientale. Tagli in Italia Il core Tier 1 dovrebbe raggiungere entro il 2010 il 7,1. Per raggiungere questi obiettivi le risorse per la banca commerciale passeranno dal 68 al 78 per cento, si apriranno 1.300 nuove filiali, con l’assunzione di 11.500 persone in Europa centro-orientale, con conseguenti tagli di 9mila dipendenti tra Germania, Italia e Austria (5.800 già coperti dalla riorganizzazione di Capitalia). La futura crescita della banca, almeno per il prossimo triennio, passerà attraverso la crescita organica. Lo shopping è terminato. Lo ha precisato più volte il presidente Dieter Rampl che, nei mesi scorsi (prima che la crisi dei mercati si aggravasse ulteriormente) aveva auspicato che Unicredit giocasse un ruolo di primo piano nel processo di consolidamento dell’universo bancario tedesco, il secondo mercato di piazza Cordusio. Il nuovo corso di Unicredit sarà molto più domestico rispetto al recente passato, ma la continuità con la precedente era sarà assicurata, oltre che dal management, anche da un identico approccio alle partecipazioni definite non core. Anche se Profumo ieri non ha voluto fornire commenti in merito. «Come abbiamo sempre detto non lo sappiamo. Rampl e io lo vedremo in futuro», ha affermato. Ma la prima a essere messa in vendita dovrebbe essere quella in Atlantia.
Tlc: Italia leader mondiale nei contenuti Dopo la scissione di Schemaventotto, Unicredit ha in pancia il 3,3 per cento del capitale della società autostradale e l’intenzione è quella di cederla quanto prima. Ieri il titolo della società del gruppo Benetton, dopo che Profumo ha detto che sarebbero state cedute piccole partecipazioni non strategiche, ha iniziato a perdere arrivando a cedere il 2,90 per cento. Questo significa che il mercato teme che gli ex soci di Ponzano Veneto possano riversare cospicui pacchetti di azioni sul mercato. Più complessa la situazione relativa alla quota in Mediobanca. Profumo non ha mai fatto segreto di essere intenzionato, nel lungo termine, a uscire dal capitale di Piazzetta Cuccia. Ma non lo farà fin quando la mossa potrà favorire IntesaSanpaolo.
La contrapposizione con l’istituto presieduto da Giovanni Bazoli non sfugge a Profumo, che non ha perso occasione per lanciare una stoccata al presidente del consiglio di sorveglianza di Ca’ de Sass, molto critico nei confronti dell’integrazione Unicredit-Capitalia, temendo una primazia sull’universo Mediobanca-Generali. «Tutte le azioni che abbiamo fatto quest’anno», ha affermato, «dimostrano come i timori di Bazoli non fossero fondati o giustificati». La Borsa non sembra apprezzare il piano e il nuovo corso di Unicredit. Il titolo ha perso il 4,29 per cento, scendendo dei 4 euro già in mattinata per chiudere a 3,94 euro. Profumo non è apparso preoccupato dal crollo. «Bisogna aspettare una reazione complessiva».
L’Italia è leader mondiale nel mercato dei contenuti e servizi per la telefonia mobile, con un fatturato di 1,2 miliardi di euro e un tasso di crescita del 15 per cento, rimasto quasi invariato rispetto al 2006. Lo riferisce una ricerca presentata dall’osservatorio Mobile Content della School of Management del Politecnico di Milano. Grande fermento nel settore, che fattura più del doppio della pubblicità on-line, per l’ingresso delle principali web company mondiali.
Thales smentisce controfferta su Drs Thales ha smentito le indiscrezioni di stampa su un’eventuale controfferta su Drs in concorrenza con Finmeccanica. «La questione della controfferta non si pone - ha indicato un portavoce del gruppo francese - l’operazione tra Drs e Finmeccanica è stata conclusa amichevolmente senza gara».
Opec: prezzo del greggio tra 150/170 dollari Il prezzo del greggio questa estate balzerà a 150 -170 dollari al barile. Lo stima il presidente dell’Opec, Chakib Khelil, intervistato dall’emittente francese France 24. Khelil, nel corso dell’intervista, ha ammesso di non aspettarsi una corsa del petrolio fino a 200 dollari al barile. Per quanto riguarda comunque l’attuale situazione del mercato, il presidente del cartello dei Paesi produttori ha affermato che è la svalutazione del dollaro la principale causa dell’impennata dei prezzi del greggio. La seconda causa della fiammata dei prezzi, ha aggiunto ancora Khelil, è rappresentata delle persistenti tensioni geopolitiche.
Eni accordo con Publigas Eni ha firmato un accordo non vincolante con la società belga Publigas che consente di aggiornare le trattative su Distrigaz. «Eni e Publigas sono ora in trattativa esclusiva riferisce una nota della società italiana - per giungere, entro un periodo di tempo limitato, alla firma di documenti definitivi e vincolanti che includerebbero la rinuncia da parte di Publigas al diritto di prelazione sulla quota del 57,243 per cento di Distrigaz e gli accordi relativi alla corporate governance». Nel frattempo, Gazprom si accinge a esercitare l’opzione di acquisto sulla quota del 20 per cento di Gazprom Neft detenuta da Eni, per circa 4 miliardi di dollari. È quanto ha reso noto il vice presidente di Gazprom, Andrei Kruglov.
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vent’ anni di distanza dal primo numero della rivista Poesia si può dire che la scommessa di Nicola Crocetti è vinta. Portare la poesia fuori dalle camerae caritatis dell’accademia. In altri termini scoprire un pubblico per la poesia fatto non solo di professionisti della cultura, ma innanzitutto di appassionati (non pochi, Poesia vende ventimila copie, distribuite nelle edicole), presentare i classici e i nuovi poeti in un linguaggio frequentabile. Nicola Crocetti, nato a Patrasso 67 anni fa, ha costruito qualcosa di singolare nel panorama italiano. Lo incontriamo al Parma Poesia Festival, manifestazione con cui Crocetti collabora fin dalla prima edizione, che dopo quattro anni si può dire consolidata, sia come presenze che come contenuti. È l’occasione per una conversazione su attualità e prospettive della poesia in Italia. Poesia, Una rivista di poesia con le immagini? Si può dire meglio: Poesia ha dato un volto ai poeti, che prima non l’avevano. Su più di duemila poeti pubblicati si possono contare sulle dita di due mani i poeti per i quali non si è trovata un’immagine, inclusi gli antichi, per i quali abbiamo cercato le raffigurazioni, monete o altro. Questo significa dare un taglio diverso a un genere letterario legato alla cultura alta? No no, questo è un altro equivoco che gira intorno alla rivista. Le persone che scrivono su Poesia sono docenti universitari, critici, poeti. Poesia ha avuto successo ma per dei motivi che non hanno niente a che vedere con la facilità. Anzi, uno dei rimproveri che ci fanno molti lettori è che siamo difficili. Ma lo sono tutte le riviste letterarie, perché scritte in “critichese”. Ho esperienze di studi “americane”, mi sono reso conto di come sia possibile parlare di argomenti difficili usando un linguaggio chiaro, mi sono sempre sforzato di scegliere collaboratori che scrivessero così, e di spingere chi contribuisce alla rivista a scrivere chiaro. Impresa titanica e a volte impossibile. La storia dei generi letterari ed artistici è una storia di spazi contesi. La nascita della fotografia ha spinto la pittura ad abbandonare la raffigurazione “naturalistica” degli oggetti, così è nata l’arte astratta. In una società come questa, in cui gli spazi informativi sono saturati da nuovi media sempre più veloci e disponibili qual è lo spazio della poesia?
poesia
A
La rivista fondata da Nicola Crocetti compie 20 anni
L’Odissea dei versi colloquio con Nicola Crocetti di Bruno Giurato La poesia non è un medium informativo, non deve raccontare quello che è successo. In tremila anni di civiltà occidentale, che cosa ci resta? La parola della poesia. Già i lirici greci non facevano la cronaca di quello che succedeva, raccontavano l’uomo!
col lettore comune e si è crogiolata un po’ troppo nell’ incomprensibilità? Non è una domanda maliziosa, è una domanda sacrosanta. Questo è semplicemente giusto. Non è un segno dei tempi che da diversi anni agli esami di maturità quando
Una scommessa vinta. Portare la poesia fuori dai circoli accademici e liberarla dai professionisti della cultura. Un mensile che viene distribuito nelle edicole e vende ventimila copie a numero A questo punto una domanda maliziosa: non è che la poesia italiana, con tanti anni di sperimentalismo, ha bruciato i ponti
si propone il tema letterario vengano fuori strafalcioni? Sembra ci sia qualcosa di freudiano che incombe negli uffici mini-
Nicola Crocetti
steriali, quasi un tentativo inconscio di far fuori la cultura letteraria... E’la fotografia della realtà in cui viviamo. I funzionari hanno un curriculum di studi che riflette la realtà italiana. Vogliamo parlare del modo in cui sono dette le notizie in televisione? Meglio di no, il «soddisfava» è diventato di preoccupante frequenza. Ci sono degli spazi sui media, delle possibilità perché la poesia venga fuori? Sui giornali non c’è nessuno spazio per la poesia. Le eccezioni sono pochissime. Solo Il Giornale ha una rubrica fissa di poesia, dai tempi di Montanelli. Per caso l’hanno chiesta a me. L’Iniziativa di Liberal, che pubblica due pagine fisse a settimana di poesia è controcorrente e meritoria. Nei telegiornali spesso si sente dire «è uscito l’ultimo Cd di questo o quel cantautore», anche mediocre. Ma si sente mai dire: «E’uscito l’ultimo libro di Luzi, Giudici, Raboni, Zanzotto?» Mai. Dico io: i più grandi poeti italiani sono meno rilevanti dei cantautori anche di terza categoria? Ha deciso di pubblicare il poeta più sconosciuto di tutti, uscirà per Crocetti editore una raccolta di Lorenzo Calogero, morto nel ‘61. Certo è il poeta più sconosciuto di tutti. Un poeta malato di nervi, che trascorre anni in manicomio. Ha lasciato più di ottocento quaderni, ha scritto a tutte le case editrici mendicando la pubblicazione. È un grande poeta, di cui si sono accorte due o tre persone: Sinisgalli, Betocchi, Tedeschi. Ma Calogero non ha avuto la collocazione che meritava. La stessa Alda Merini non è neanche lontanamente paragonabile a Calogero. Da noi non esistono i paladini culturali, cioè non esiste la tradizione del critico affermato che si fa carico di promuovere una persona che se lo merita, perché c’è da sempre il retropensiero che quello gli possa oscurare la fama. Lo stesso Montale che recensisce Calogero lo fa senza generosità. Ma vorrei aggiungere una nota di speranza. Per la prima volta abbiamo un ministro della cultura che è anche un poeta. Non voglio entrere nel merito della sua produzione letteraria, ma Bondi ha dichiarato che intende aiutare la poesia. Per la prima volta nella storia della Repubblica un ministro dice una cosa del genere. Che vuol dire soprattutto prendersi una responsabilità. Onorevole ministro Bondi, facciamo qualcosa per la poesia? Ecco, sì, facciamo qualcosa per la poesia?
sport E se fosse (davvero) tutta colpa di Donadoni?
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Sono state scomodate ridicole problematiche extracalcistiche. Ma la verità è molto più semplice da spiegare
di Italo Cucci a conseguenza più dolorosa della sconfitta italiana agli Europei è rappresentata dalla necessità di darne spiegazioni. O meglio: spiegazioni intelligenti, analisi approfondite. Quando si vince anche i critici più illustri se la cavano, a seconda delle loro qualità, con poche interessanti battute o semplificando il pensiero debole con abbondanza di punti esclamativi. Ricordo per tutti Gianni Brera che, nel 1982, vinto un Mondiale in cui proprio non aveva creduto, elaborò la brillantissima tesi della Nazionale “squadra femmina”, ovvero gruppo di pedatori in azione di adescamento nella sua attesa difensivistica, pronto a scattare e a ferire quando l’avversario accenna a cadere nella provocazione. Insomma: Italia del maestra contropiede. In alternativa, feste trionfali, assalto al carro del vincitore e via così.
L
La cerimonia della sconfitta è di segno opposto: prima si cerca di scendere rapidamente dal carro dello sconfitto, poi si dà il via al torneo delle motivazioni socioculturalpolitiche. E’ l’occasione, forse unica, per il cronista sportivo di solito relegato nella Serie B del giornalismo (non esiste il giornalista sportivo ma il cronista o critico specializzato: politico, giudiziario, di nera, di bianca, di moda, di cinema, di letteratura, di sport) per esporre al giudizio altrui articolesse intrise di rare profondità. Ora, per farla più semplice, vi esporrò invece la mia tesi, ricavata da cinquant’anni d’esperienza nel ramo, dalla partecipazione a dieci Mondiali e altrettanti Europei nonchè a millanta campionati: l’Italia è stata eliminata ai quarti di finale perché il suo incaricato del gol, Luca Toni, non ha segnato reti valide; ma minima è la sua colpa: l’allenatore Donadoni l’ha lasciato là in mezzo
fino all’ultimo minuto, quando in realtà avrebbe dovuto sostituirlo almeno nel momento in cui aveva mostrato l’incapacità di colpire da solo o con la collaborazione di compagni non adeguatamente schierati a suo supporto. Questo è il dato macroscopico: poi, potrò aggiungere il grave errore di escludere De Rossi dalla prima formazione antiOlanda; la confusione delle scelte a centrocampo in tutte le partite; l’esclusione di Del Piero dalla sequenza iniziale dei rigori antiSpagna. Ma resto a Toni, errore esiziale inspiegabile. Poteva sostituirlo con Borriello e non l’ha fatto nonostante a suo tempo avesse spiegato l’altrettanto inspiegabile esclusione di Inzaghi con la necessità di sperimentare un bomber giova-
La verità sulla errata designazione di Donadoni, una volta spiegati gli errori commessi nell’Europeo, è altrettanto evidente e... storica: è stato chiamato alla guida della Nazionale con un’esperienza limitatissima previa telegrafica segnalazione di Albertini al commissario straordinario della Federcalcio avvocato Guido Rossi, “quello di Calciopoli”. Nomina con peccato originale scontato nell’Europeo. E non mi si venga a dire che è stato condannato da un rigore sbagliato così come Marcello Lippi era diventato Campione del Mondo grazie a un rigore azzeccato. Bugìa. Incompetenza. All’improvviso, il già leccatissimo Lippi, pro-
Italia eliminata ai quarti di finale perché Toni non ha segnato, ma le responsabilità sono dell’allenatore che l’ha lasciato là in mezzo fino all’ultimo minuto ne e potente come il napoletano. Questa è la sconfitta. Quanto bastava per ritenere assolto malamente - il compito affidato al signor Donadoni che già sapeva - come tutti - che in caso di insuccesso sarebbe stato sostituito dal Il Lippi-di-ritorno. tempo definirà questi dettagli oggi volontariamente ignorati dagli psicologi e sociologi in pectore. A distanza di quattordici anni, dopo avere ingaggiato una forte polemica con Arrigo Sacchi che non ritenevo adatto al ruolo di Selezionatore, l’Arrigo ha confessato: «Ho fatto il Ct della Nazionale non perché mi piacesse il ruolo, io sono un allenatore e basta, ma per opportunismo: mi sorrideva l’idea di guadagnare molto e essere meno impegnato di quanto m’era capitato al Milan. Mi sono sbagliato».
fessionista di primissimo piano, torna al centro del dibattito di malelingue, le stesse che a suo tempo lo indussero a rassegnare le dimissioni dall’incarico prima della partenza per Germania 2006. Accettò di buon grado, allora, la fiducia di Guido Rossi (unico gesto corretto della gestione commissariale) sentendo di poter far ingoiare ai detrattori (firme di primo piano) gli insulti che gli avevano dedicato; precisando che poi avrebbe lasciato – vinto o vincitore – per non attirare ulteriori accuse degli invidiosi, come essere amico di Moggi e Giraudo e padre di un dipendente della famigerata Banda Gea. La sua vita, nel biennio, di Donadoni, s’è rasserenata e ha dato la sua disponibilità alla Federazione per il ritorno. Se necessario. Ed era, è necessario
per guardare ai Mondiali del Sudafrica 2010 con rinnovata fiducia (aiuta, peraltro, sapere che gli avversari saranno, in fase eliminatoria, Cirpo, Georgia, Montenegro, Bulgaria e Repubblica d’Irlanda, già, quella di Giovannino Trapattoni).
Dunque: non è successo niente. Abbiamo perso perché inferiori agli spagnoli: questi si sono furbescamente “italianizzati”. Adottando l’italico contropiede. E nella partita decisiva, mentre Toni lottava contro le streghe, Aragones richiamava in panchina il mitico Nino de Oro Torres. Ma questa spiegazione non è bastata agli improvvisati difensori di Donadoni che sono andati a raccattare argomenti e testimoni inattendibili per condannare l’avvicendamento con Lippi: giuro di aver ascoltato con imbarazzo il maivincente Zeman, felicemente accasato in Serbia, impegnarsi in un confronto fra Donadoni e Lippi risultato, a suo dire, “alla pari”. Questa spiegazione non è bastata neppure a quei saccenti operatori dei media che all’uopo hanno scomodato problematiche extracalcistiche ridicole. Un paio di valenti giornalisti - uno dei quali intelligente - durante un dibattito televisivo in Casa Rai hanno scomodato la politica economica nazionale (le crisi del pil, della produzione industriale, dell’Italia e degli italiani i genere) coprendo di elogi la Spagna zapaterista e spiegando che un Paese “quasi” ultimo nelle posizioni europee relative a quei capitoli non poteva non esserlo anche nel calcio “metafora della vita” (guai a noi che glielo spiegammo). Mentre li ascoltavo - quello intelligente in particolare m’era venuta voglia di porgli una domanda: come mai l’Italia è quasi ultima da decenni nella classifica europea della vendita dei giornali? Cari giornalisti, oserei dire colleghi, non sarete, per caso, tutti Donadoni?
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cultura
Sulle tracce di Novak. I talenti inimitabili degli italiani sono la creatività e il volontariato: farli fruttare al massimo è l’unica chance per il nostro futuro
Sognando una nazione di Giuseppe Baiocchi
ulle pagine di liberal il direttore da Washington Michael Novak, il 23 maggio scorso, ha disegnato i criteri «per un riesame critico del cattolicesimo politico». E ha rimesso in luce le radici profonde del capolavoro cristiano che ha costruito i caratteri migliori della società americana. In particolare Novak segnalava come i quattro contributi “italiani” alla mentalità americana (il senso estetico, persone coraggiose e creative, l’etica stoica della Roma antica e medioevale, il ruolo sociale dell’associazionismo laico e religioso) fossero un portato originale ed esclusivo, uno straordinario deposito storico che hanno grandemente aiutato gli Stati Uniti a crescere e coltivare la moderna visione della libertà. È quasi commovente notare l’atteggiamento di ammirazione con il quale Novak descrive l’operosa grandezza della peculiare “societas” italiana e cristiana che ha posto le basi di molte altre conquiste che arrivano sicuramente fino ad oggi: senza ipocrisie e senza retorica suscita legittimamente un quieto orgoglio per la nostra storia millenaria. E tuttavia, con la stessa sincerità, coglie la nostra debolezza, se non addirittura il nostro declino, nella distorsione operata nel vero genio italiano con la introduzione e il peso attribuito al ruolo dello Stato. Come una calamita, negli ultimi secoli, la società europea si è infatti rifugiata nella protezione dello Stato, nel collettivismo che spegne ogni creatività e che mortifica la libertà della persona e che ha condotto a quel “relativismo” etico e culturale così dominante e ossessivo. E Novak fa notare in conclusione che è proprio il “relativismo” che tiene la società immobile e che blocca quella naturale spinta al cambiamento , vera preziosa eredità della cultura ebraico-cristiana. È davvero difficile ritrovare nella nostra cultura politica un’analisi altrettanto incisiva e per il presente impietosa: e tuttavia, nel delineare che “dietro ogni crisi sociale si cela una crisi della visione del mondo, ma anche una grande opportunità”, apre con decisione prospettive di fondata speranza. Ad un patto: che non ci dimentichiamo mai da dove veniamo e
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che abbiamo tutte le potenzialità per far fruttare in modo rinnovato quel nostro patrimonio di cultura e di comune sentire che è davvero unico al mondo. Con il tramonto, spesso ignominioso, di tutte le ideologie che hanno distorto la nostra storia recente, forse diventa finalmente possibile riflettere con serenità sui connotati profondi del Paese. La necessaria e radicale necessità della riforma dello Stato, almeno come l’abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo, sembra riproporre l’esigenza di interrogarsi sulla natura della Nazione. La condizione di “italiano” non è ancora, nelle svolte decisive del presente e tantomeno nella vita quotidiana, quella identificabile e coesa comunità di popolo che avevano immaginato, con la lucidità del sogno, gli antesignani risorgimentali.
E il sentimento di appartenenza ( al di là delle occasioni sportive o della vicinanza popolare ai soldati impegnati in difficili missioni all’estero) si sbriciola spesso di fronte a uno Stato patrigno e inefficiente (basti pensare al “buco nero” dell’amministrazione della giustizia), al rifiuto pregiudiziale delle grandi e piccole infrastrutture, agli egoismi di ceto e di corporazione prima che di luogo.
ancora da percorrere per definire compiuto quel lontano obiettivo: ma forse, per non restare fermi sulle tante deviazioni ideologiche che ci hanno accompagnato in questi ultimi decenni, sarebbe il caso di acquisire piena e indiscussa la certezza che siamo comunque una “civiltà”. Nel discorso pubblico, come nel circuito mediatico, sembra infatti prevalente la tendenza a dimenticare e a nascondere: e tuttavia della peculiare e gloriosa “civiltà italiana” troppi segni del passato, ma anche del presente, riemergono con serena prepotenza espliciti, universali ed inequivocabili. Ed è sicuramente l’assenza di questa consapevolezza che appare rendere lo scenario più cupo e il rincorrersi continuo e a volte assordante della teoria dell’ineluttabile “declino”. E invece basta appena “girare il mondo” (cosa sempre più semplice e quasi scontata per le giovani generazioni), per accorgersi fisicamente che non esiste capitale dove nelle zone eleganti non “parlino” soltanto italiano la cucina e l’artigianato, il cibo e il vestito. E questo è più evidente, se non sfacciato, proprio in quei Paesi che solo da pochi anni si sono aperti all’Occidente e alle asprezze del libero mercato, dopo i lunghi inverni di una triste autarchia all’insegna del “realismo socialista”. Certo: nei ristoranti con il menu scritto in un italiano approssimativo i piatti non riproducono quasi mai il risultato dell’originale; così pure nei negozi di abbigliamento vanno spesso le creazioni più vistose dei nostri stilisti (con il rischio fondato di scoprire solo imitazioni indigene). E tuttavia è ormai davvero planetaria la sensibilità diffusa nell’opinione collettiva che “stile e gusto” per raggiungere ovunque l’eccellenza devono avere in ogni caso il timbro italiano. Ce lo si chiede molto poco in verità: eppure sono proprio gli stranieri, nelle loro città, a cercare di riprodurre quell’impronta come segno di benessere reale e di classe superiore. Questo indiscusso successo italiano non è allora solo “felice colpa” di artigiani e commercianti particolarmente abili e intraprendenti; non è mai un segno di particolare fortuna; ma è semmai il prodotto sempre vivo e pazientemente rinnovato di una intera secolare
Il sentimento di appartenenza degli italiani spesso si sbriciola di fronte a uno Stato patrigno e inefficiente, al rifiuto pregiudiziale delle grandi e piccole infrastrutture, agli egoismi di corporazione Difficile pensare di far parte di una comunità «una di lingua, d’arme e d’altar» (per citare il sempre meno conosciuto Manzoni) quando si vedono in tv le immagini dell’immondizia campana (con le interviste alla gente di quelle contrade sottotitolate in italiano), quando si assiste al crescere quasi ineluttabile di tendenze separatiste, quando si intravede ancora forte il senso di schieramento in impermeabili “piccole patrie” ideologiche, prima che territoriali. È quindi lecito porsi il dubbio se davvero siamo diventati una Nazione (e forse, a questo proposito, non si è ancora affermata la consapevolezza che esiste un difetto di origine, con quell’Unità arrivata quasi all’improvviso e costruita contro la fede e senza il popolo) e di conseguenza che molta e aspra strada comune è
In alto, la firma della Costituzione americana. In basso, Cicerone davanti al Senato romano cultura, appunto di una autonoma e irripetibile “civiltà”.
Che ha per sua natura una storia chiara, un’origine evidente e un ininterrotto processo di affinamento e di ricerca creativa: dare per scontata la complessa realtà del “Made in Italy” come un prodotto solo economico, anche se di sicura qualità, da promuovere e da propagandare rischia di esaurirsi in una superficiale vicenda di mercato esposta alle concorrenze globalizzate. E invece non farebbe male se fin dai primi apprendimenti infantili si interiorizzasse completamente la conoscenza profonda del nostro essere “civiltà”. Una consapevolezza troppo spesso oggi perduta nei meandri ideologici e nei clichè sovrapposti dall’esterno che alla fine ci rendono più incerti, a volte smarriti, spesso più incattiviti, mentre la semplice riscoperta identitaria delle radici da dove veniamo ci potrebbe tranquillamente fare più sereni e quietamente orgogliosi. Perché questa misteriosa magìa di colori e sapori, di saperi e perfino di umori ha come fonte unanimemente riconosciuta la scoperta dell’amore per il “bello”, come portato originale di società intrise di cristianesimo. A partire dai secoli medioevali si sviluppa infatti un fervore creativo che ci ha lasciato un patrimonio ineguagliato. Quando cioè mastri costrutto-
cultura
27 giugno 2008 • pagina 21
ri, artisti e semplici artigiani hanno espresso la bellezza nell’armonia e nelle proporzioni delle forme; quando mecenati e committenti (mercanti e nobili, laici ed ecclesiastici) gareggiavano nel lasciare di sé solo opere d’arte; quando si stabiliva per competizione virtuosa e per diffuso sentire quel gusto tutto interiore del lavoro ben fatto, della tensione al “bello”, perché perfino il più umile degli scalpellini si sentiva con le sue mani pienamente compartecipe dell’opera creatrice di Dio. E in questo contesto diventava logica pure la fioritura delle arti immateriali, come la musica e la poesia. E tuttavia, se il paesaggio storico e artistico di quell’epoca si mostra tuttora visibile, si coglie molto meno il corrispettivo sociale, che pure dello stile italiano era la condizione necessaria e imprescindibile. Ormai gli studi storici hanno ampiamente dimostrato che il fervore creativo si esprimeva altresì in forme infinite di associazionismo di origine laica o religiosa e che toccava tutti gli aspetti della vita: dalle corporazioni di arti e mestieri, alle società di mutuo soccorso, dalle misericordie alle confraternite agli “spedali” per gli infermi alle opere pie di assistenza, educazione e carità. Come se una comunità tesa al “bello” potesse esistere soltanto costruendosi da sola quegli “ammortizzatori” in grado di rendere sopportabile a tutti la condizione dell’esistenza umana. E le diverse società nel corso dei secoli, e spesso sotto nume-
rosi e differenti dominatori stranieri, hanno complessivamente mantenuto quel carattere ospitale e compassionevole che era l’altra insostituibile faccia della medaglia del genio italiano.
E forse il luogo comune degli “italiani brava gente” ha trovato in questo contesto la sua origine e la sua natura positiva. In condizioni statuali largamente deficitarie, rispetto alla formazione rinascimentale dei grandi Stati nazionali: infatti la costellazione di stati fragili e piccoli sembra aver favorito ovunque nella penisola l’autentico primato della società che pure superava i limitati confini, trasferendo, per benefico contagio, la condizione prevalente del “bello” e del “solidale”. Nell’epoca contemporanea in cui l’evidente eccellenza di moda e “design”, di artigianato di qualità e di cultura del cibo, supera ancora tutti i confini nell’intero pianeta, segnando in positivo la nostra creatività sempre feconda, è alla politica che si chiede insieme l’umiltà e l’intelligenza di conformarsi a questo spirito davvero nazionale. Restituire il massimo di fiducia nelle capacità autonome della società, sgombrando il campo dalle pastoie del barocchismo giuridico e dalla complicazione amministrativa e offrendo alla naturale inventiva dell’italico genio la piena possibilità di esprimersi, con la riconosciuta ricchezza della diversità dei territori e delle culture, è sfida insieme indifferibile e appassionante. Con la consapevolezza che il potere e la norma, l’istituzione e la legge e il comando hanno un senso solo se accettano di farsi “cornice”, che certamente regola e controlla, ma che comunque promuove e valorizza con fiducia il primato della società, secondo quel principio (tanto proclamato quanto nei fatti disatteso) della sussidiarietà. I nostri soli talenti, inimitabili, sono dunque la creatività e il volontariato: farli fruttare al massimo delle loro impensate possibilità è l’unica promessa di futuro, ed è insieme l’unica opportunità di farsi finalmente Nazione. Perché è cosa buona e giusta ribellarsi tutti insieme alla cupa profezia dell’ultimo (e menagramo) Indro Montanelli che intravedeva l’avvenire d’Italia come «un pulviscolo umano che abita una terra di morti».
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Calcio,quali i giocatori migliori per Pechino 2008? NON NE VEDO NEANCHE UNO DAVVERO BRAVO, RISCHIAMO LA STESSA FIGURACCIA DEGLI EUROPEI La verità? Nessun giocatore. No, non è retorica, la mia. Né disfattismo o chissà cos’altro. Semplicemente rimango ancorato alla realtà coi piedi ben saldi a terra (e con gli occhi della memoria ancora sgranati di fronte a Italia-Olanda, Italia-Romania e Italia-Spagna). Perché fare, come sempre si fa nel nostro Paese, del finto buonismo dicendo magari che agli Europei siamo stati solo sfortunati, che in caso la colpa è del (ormai ex) ct Roberto Donadoni, che in fondo, in fin dei conti, rimaniamo ancora i campioni del mondo e che la nostra Under 21 alle Olimpiadi farà faville? Ma veramente crediamo che con Pierluigi Casiraghi potremo riscattare qualcosa? L’Under 21 probabilmente avrà gli stessi problemi che ha avuto la nazionale ufficiale italiana. Perché oramai da noi si prende poco seriamente anche l’allenamento. Qualcuno ad esempio spieghi come mai la nostra nazionale rientrava in campo dopo i quindici minuti di pausa del primo tempo, praticamente già stanca. Qualcuno mi spieghi come mai però questo non accadeva alle altre squadre impegnate negli Europei di calcio. Novanta minuti sono novanta minuti per tutti. Per noi però sembrava lo
fossero i primi quarantacinque. Perché dovrebbe andare diversamente coi nostri ”pulcini” a Pechino 2008? Insomma... i giocatori migliori per le imminenti Olimpiadi? Noi spettatori da casa, che nonostante tutto, come sempre, abbiamo tenuto bene (e continueremo a farlo) tutti i novanta minuti di gioco di tutte le partite di calcio.
Marco Valensise - Milano
ADESSO SIAMO NELLE MANI DI CASIRAGHI, L’UNDER 21 DOVRÀ RISCATTARE IL NOSTRO ONORE Già, stanno per iniziare le Olimpiadi di calcio a Pechino. Se non fosse che lì ci deve andare la formazione italiana dell’Under 21, proverei a fare un bizzarro esperimento. Sarà pure strano, soprattutto alla luce di tutte le polemiche che i nostri azzurri (anzi, l’andazzo francamente imbarazzante dei nostri undici all’Europeo appena trascorso), ma io rischierei e più o meno confermerei tutta la rosa di giocatori che è scesa in campo su ordine di Roberto Donadoni. Il motivo? Semplice: secondo me non era la nazionale a essere difettosa, ma proprio il ct. Credo che la stessa squadra, allenata però da Pierluigi Casiraghi, potrebbe invece stupirci in positivo. Ma così non può essere. E allora non rimane che sperare che l’Under 21 azzurra, qualunque essa sarà, riporti in auge la nostra tradizione di campioni.
Amelia Giuliani - Potenza
LA DOMANDA DI DOMANI
CON LO SCHEMA VINCENTE DEL 4-3-3 PORTEREI VIVIANO, MOTTA, MONTOLIVO E CURCI
E’ giusto secondo voi prendere le impronte a tutti i bimbi rom? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Parliamo in questo topic della nazionale under 21 che andrà a fare le olimpiadi...stasera c’è l’amichevole contro l’Olanda. Ricordiamo che la nazionale sarà aperta per le olimpiadi anche a quelli nati nel 1985. L’Italia secondo me può essere tra le favorite... Ecco la formazione che vorrei (schema 4-3-3): 1 - Viviano (1985); 2 - Motta (1986); 6 - Coda (1985); 5 Criscito (1986); 3 - De Ceglie (1986); 4 - Nocerino (1985); 8 - Cigarini (1986); 10 - Montolivo (1985); 7 Cerci (1987); 9 - Pozzi (1986); 11 - G. Rossi (1987). Senza contare che abbiamo anche in porta Curci (1985) e Sirigu (1987).
COSTITUENTE “VERA” ALL’INSEGNA DEL BENE COMUNE Il Consiglio Nazionale dell’Udc ha dato avvio alla Costituente dell’area moderata, nella convinzione che la spinta alla semplificazione bipartitica e leaderistica cui tendono Pd e Pdl, non sia effettivamente rappresentativa della realtà politica e sociale italiana. Il percorso che ha portato alla nascita del Pd è stato molto lungo, nei fatti è nato quasi dieci anni or sono con la caduta del governo D’Alema I e la nascita del D’Alema II, e molto complesso, come era prevedibile per un processo di avvicinamento, incontro e poi fusione tra culture e tradizioni diverse ed in alcuni casi storicamente antitetiche, quali quella comunista, quella socialista post comunista, e quella discendente da una costola della sinistra democratica cristiana. Nonostante tutto, però, sono ancora molteplici le questioni aperte all’interno del movimento di Veltroni; su tutte il ruolo che al suo interno avrà la componente cattolica, che sembra essere sempre più marginale, ma anche i rapporti con la sinistra radicale con la quale il Pd continua
OGGI, PESCE!
Nel Lago Lemano, in Svizzera, un’enorme forchetta d’acciaio inossidabile offre ai turisti un “assaggio” di ciò che vedranno su una delle sponde: il Museo dell’Alimentazione, dove potranno scoprire tutto sul cibo. Dalla coltivazione alla lavorazione, fino alla tavola
CHE SIANO TORNATI QUEI TEMPI (ANTIBERLUSCONIANI)? Nella vecchia casa della politica appena imbiancata era tutto un fiorire di buona volontà, grazia e stile a cui non eravamo sinceramente più da tempo abituati. Tutti erano, o sembravano essere, d’umore empatico e buono e comprensivo, tutti disposti e tutti pronti al dialogo e a lavorare tutti insieme per il superiore interesse dell’Italia e per il bene comune. L’abnegazione, la temperanza e la moderazione sembravano insomma di gran moda. Un momento quasi celestiale. Apprendiamo però or ora che i nostri stimati politici si sono lasciati tutti andare. Hanno ridotto i loro virtuosi, commendevoli e, immaginiamo, tremendi sforzi e sono tornati alle loro abituali abitudini e ben note, anche se tristi,
dai circoli liberal Sandro Terranova - Bari
a governare in molte amministrazioni locali. Dall’altra parte il Centrodestra ha seguito un percorso inverso, scegliendo di schierare il cartello elettorale del Pdl alle elezioni e posticipando rispetto ad esse la costituzione del nuovo soggetto politico che nascerà dalla fusione di Forza Italia e An. L’assenza di un profondo dibattito sulle ragioni del nuovo partito ha anche in questo caso lasciato delle questioni aperte. In primo luogo la questione dell’ ”anarchia dei valori” di cui ha parlato il presidente Berlusconi a proposito del Pdl. Per questi motivi crediamo ci sia nel Paese uno spazio politico per una riaggregazione delle forze moderate, e auspichiamo che il processo che caratterizzerà la “Costituente Popolare” sia un processo vero, di ampio respiro, finalizzato a mettere in relazione le migliori personalità e capacità del nostro Paese, nell’interesse del Paese. Aspiriamo ad un grande partito moderato, che sappia porre la persona, nella sua assoluta dignità, al centro della propria prassi politica, che nasca dal basso, che sappia selezionare la propria classe dirigente in funzione del merito e delle capa-
maniere. Che siano tornati i bei vecchi tempi (quelli dell’antiberlusconismo) tanto cari ai quotidiani Repubblica, l’Unità, e tanto cari anche ai magistrati di sinistra, ai docenti dell’ideologia, a Romano Prodi, a Oscar Luigi Scalfaro, alla Rosy Bindi e ad Antonio Di Pietro? Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
GLI EX PCI... COME IL GLICINE Egregio direttore, cosa c’è di più romantico e avvolgente, ad esempio, di un glicine? Solamente gli ex comunisti saldamente rampicanti e intrecciati sui banchi dei due rami del nostro Parlamento. Cordialmente ringrazio per l’ospitalità.
Lettera firmata
cità individuali. Un partito aperto, in grado di dialogare attivamente con la società civile; un partito rappresentativo e non autoreferenziale, un partito dei cittadini ancor prima che dei dirigenti. Un partito che sappia proporre i propri programmi per la società italiana, e sappia confrontarsi in Parlamento su quelle grandi riforme, economiche, sociali, istituzionali, ormai imprescindibili per il nostro Paese. Mario Angiolillo LIBERAL GIOVANI
APPUNTAMENTI TODI - 10 LUGLIO 2008 Ore 12.00, Hotel Bramante Prossima riunione nazionale dei coordinatori regionali e dei presidenti dei Circoli liberal
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Fedeli e immaginarie... ”cure domestiche” Cara Signora, sono a volte insopportabile, quando scappo di casa, per esempio, ma se poi ti guardo rattristato so di toccarti il cuore; e quando sono in casa provo a mostrarti che non sono così male e mi basta una carezza per sentire il tuo amore, mammina. Persino se mi dài un colpetto e Padron Glenn dice: «Basta fuori di qui, cagnaccio» sei dalla mia parte, non è vero? Poiché ogni giorno dell’anno sei tu a occuparti di me, cara mamma. Mi netti le orecchie, mi porti a spasso e che buone pappe mi prepari. Lo apprezzo molto e qui ho cercato di dire quanto ti voglio bene per le tue cure quotidiane. Il tuo setter, Nicky. Glenn Gould a sua madre Florence (Il curioso biglietto venne scritto all’età di sette anni, quando Glenn decise di vestire i panni del suo cane Nicky).
TRENT’ANNI DOPO LA LEGGE BASAGLIA E’ ricorso il mese scorso il 30° anniversario della storica riformaBasaglia che, il 13 maggio 1978, segnò la fine in Italia dell’esperienza di custodia nei manicomi, intesa come luoghi di segregazione dei malati di mente, sostituendoli con servizi territoriali alternativi predisposti dalle Regioni. La legge 180 si ispirò alle tesi antisegregazioniste sostenute e praticate dalla scuola dello psichiatra triestino Franco Basaglia. Fino ad allora, infatti, la legge prevedeva l’obbligatorietà della ”custodia” dei malati di mente nei manicomi, in cui spesso i ricoverati vivevano in condizioni disumane. L’attività professionale di BAsaglia - primario degli ospedali psichiatrici di Gorizia dal ’61 e poi di quello di Trieste - si espresse nella progressiva chiusura degli ospedali psichiatrici che dirigeva e nell’ideazione di organismi alternativi. Con la fondazione dei Centri di igiene mentale e delle comunità-alloggio, Basaglia predispose luoghi aperti per accogliere pazienti dimessi e bisognosi di ricevere continuamente l’assistenza di medici, e abitazioni gestite dagli ex ricove-
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
27 giugno 1905 I marinai russi a bordo della corazzata Potemkin si ammutinano 1910 Emiliano Zapata e Francisco Madeiro si sollevano contro il neo e rieletto Porfirio Diaz, dando inizio alla rivoluzione del Messico 1974 Alla Camera, il pacchetto di provvedimenti fiscali. Aumenteranno tasse e benzina e saranno istituite ”una tantum”su case, auto e tivù 1976 Le diarie sono inadeguate: il 20% dei professori si ritira dalle commissioni d’esame 1979 Furiosa battaglia aerea nei cieli libanesi, dove si affrontano i Mig siriani e gli F15 israeliani 1980 Ore 20,59’,45’’. Un Dc9 Itavia partito con due ore di ritardo esplode nei cieli a nord di Ustica. Nessun superstite: 81 tra passeggeri ed equipaggio, tra cui 13 bambini 1998 Alla Hawaii viene per la prima volta clonato un topolino
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
rati per coloro che avessero la necessità, solo saltuariamente, dell’assistenza medica. C’è da ricordare, però, che un primo passo verso una sostanziale modifica dell’atteggiamento dello Stato era stata, nel ’68, la legge 431, che aboliva la funzione di custodia dei manicomi, attribuendo a essi scopi specificamente terapeutici, e prevedeva l’istituzione di Centri di igiene mentale territoriali, consentendo al malato di chiedere volontariamente l’accesso a un ospedale psichiatrico, e cancellava la norma dell’iscrizione dei ricoverati al Casellario giudiziario. Ma fu solo nel 1978 che decadde il principio.Va rilevato purtroppo che la legge 180 non fu affiancata da strumenti atti a garantirne la realizzazione. Si apeì così in Italia una complessa fase di transizione verso l’integrazione del disagio psichico. Dagli anni Ottanta (e fino ad oggi), il dibattito perse risonanza e interesse. E così, le vite dei malati di mente, tra servizi carenti e sia pur coraggiose sperimentazioni di socializzazione, hanno conosciuto i nuovi muri dell’indifferenza sociale, civile e politica. Basta osservare l’ultima campagna elettorale per rendersene conto.
Angelo Simonazzi Poviglio (Re)
PUNTURE Walter Veltroni è un leader a metà. L’altra metà è Massimo D’Alema.
Giancristiano Desiderio
“
La cultura: un ornamento nella buona sorte, un rifugio nell’avversa ARISTOTELE
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di SALVARE LO ZIMBABWE Mica adesso verranno a dirci che Mugabe è come Saddam Hussein? Che dispone del più forte esercito dell’area e che attaccarlo sarebbe una catastrofe? La comunità internazionale - termine troppo vago - diciamo le democrazie, dovrebbero raccogliere il grido d’aiuto lanciato oggi in una conferenza stampa da Morgan Tsvangirai, leader del Movement for Democratic Change e rivale del dittatore Mugabe, rifugiato da domenica all’interno dell’ambasciata olandese per timore di essere arrestato o addirittura assassinato. «Occorre un contingente di pace per salvare il mio Paese. Devono agire al più presto le Nazioni Unite e la Sadc (South Africa Development Community, n.d.r.)», cioè la comunità economica dei Paesi dell’Africa australe. Laddove per «contingente di pace» intende probabilmente un intervento militare capace di porre fine al potere dell’affamatore Mugabe. «Subito dopo l’arrivo delle forze di pace le Nazioni Unite e l’Unione africana devono mandare osservatori elettorali per preparare nuove elezioni presidenziali – ha scritto ieri il capo dell’opposizione sul quotidiano britannico Guardian - La battaglia che si sta combattendo in Zimbabwe è tra democrazia e dittatura, giustizia e ingiustizia, giusto e sbagliato. La comunità internazionale deve diventare qualcosa di più di un partecipante morale: si deve mobilitare». D’un tratto ci si accorge che il regime change in versione neocon e l’interventismo liberal, o diritto/dovere di ingerenza, alla Clinton e alla Blair, come in Kosovo, sono sempre di attualità. Sudan, Birmania, Zimbabwe, dovrebbero essere i casi di scuola. Commentatori conservatori (Wall Street Journal, Ti-
mes) e liberal (Guardian), fino a Susan Rice, il principale consigliere di politica estera di Obama, guardano al ricorso alle armi per rimuovere il despota Mugabe. Gli incubi Rwanda, Mogadiscio e Bosnia sono appena dietro l’angolo. Ancora una volta a Washington e a Londra rivolgiamo lo sguardo, sperando nel coinvolgimento di un’acquisita consapevolezza umanitaria e sensibilità democratica da parte dei leader africani.
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STORICO IN CINA, OPERAIO REINTEGRATO Sentenza storica in Cina, Paese che non vanta una lunga tradizione in fatto di diritti personali. Ma forse qui la politica potè più della tradizione. La multinazionale americana Ibm dovrà infatti pagare 45mila yuan (oltre 4 mila euro) di risarcimento a un suo impiegato cinese,Yuan Yipeng, licenziato dopo essersi ammalato di depressione. Lo ha stabilito la Commissione per le dispute del lavoro a Shanghai. L’azienda dovrà inoltre, su ordine della Commissione, riattivare a Yuan il contratto di cinque anni. Assunto dall’Ibm nel 2006, Yuan si era poco dopo ammalato di depressione. Dopo essersi accordato con l’azienda per prendere un periodo di congedo per malattia, sarebbe stato ingiustamente licenziato nonostante il miglioramento delle sue condizioni psichiche fosse stato accertato dal Centro di salute mentale di Shanghai. Lu Jun, un attivista per la tutela dei lavoratori con disagi fisici e mentali, ha dichiarato al quotidiano China Daily che la vicenda costituisce un nuovo importante passo verso il rispetto dei diritti umani.
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PAGINAVENTIQUATTRO C’è un problema di sicurezza? L’unica è chiamare un di Giampiero Ricci uesto inizio di estate cinematografica ci offre e ci offrirà un proliferare di titoli che vedono e vedranno ancora le evoluzioni sul maxi schermo di supereroi e vigilantes tratti dall’universo fumettistico della Marvel e della Dc Comics. È infatti da poco nelle sale Iron Man, a breve vedremo invece il sequel del Batman di Christian Bale e un Edward Norton nei panni di Hulk. Dopo la trilogia di Spiderman e degli X-Men, il Daredevil di Ben Affleck, Ghost Rider con Nicolas Cage e il Punitore, tutte uscite recentissime e aspettando a venire sul grande schermo Thor, le origini di Wolverine, i Vendicatori e gli Watchmen, si può certamente parlare di una tendenza oramai consolidatasi quella della Hollywood che veste i panni dei supereroi. Ciò è certamente il frutto delle possibilità connesse all’affinarsi degli effetti speciali digitali, che hanno reso possibile la resa credibile su celluloide di icone del mondo fantasy diventate fondamentali nella genesi e nello sviluppo di un senso estetico, letterario ed artistico per tutte le giovani generazioni a partire dagli oggi trentaquarantenni. Ma quello che salta agli occhi è sempre di più il rapporto scambievole di ansie, angosce, rabbia, insicurezza, senso di giustizia e di impotenza che tali icone,
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Il personaggio Marvel “The Punisher”. Nella foto in basso, Thomas Jane, che lo interpreta nella sua ultima incarnazione cinematografica
SUPEREROE continuamente rinnovandosi, rimangono capaci di tessere con l’immaginario dei milioni di individui che fanno la fila per passare qualche ora in loro compagnia. La giustizia e il senso di sicurezza sono uno dei temi centrali dell’universo supereroistico e ogni successo di botteghino di questo lato del mondo fantastico è un inequivocabile segnale di paura spedito al mondo reale. Agli albori della nascita del Comic World vi era il rischio dell’olocausto nucleare, l’invasione comunista, il ’68 e la sua guerra all’idea di “famiglia”, l’emancipazione femminile. Oggi i supereroi combattono il terrrorismo e il male dell’insicurezza e della violenza metropolitana. Non è certo una novità questo rapporto scam-
Questi miti moderni elaborano un’idea di crimine più realista del “bel pensiero” che ha condizionato le istituzioni democratiche occidentali bievole tra senso popolare e mondo del fumetto ma quanto al cinema, il fatto è che ai giorni nostri si assiste ad una curiosa inversione di tendenza nella storia ultradecennale del suo intreccio con i comics. Erano infatti i comics inizialmente ad attingere dal cinema o dalla letteratura per proporre riduzioni giovanilistiche in chiave pop di tematiche attuali, di universi mitologici, di mode, tendenze.
Negli anni ’60 i primi episodi dei Fantastici Quattro della Marvel (“The Skrulls from outer space”,“The end of the planet X”) rimandavano chiaramente all’immaginario tratto dalla fantascienza degli anni ‘50, a mostri, extraterresti, Guerre di mondi ed eroi come Thor, il figlio di Odino, erano un buon viatico per diffondere tra le giovani generazioni miti asgardiani e olimpici attraverso media indipendenti per definizione e accattivanti. Negli anni ’70 andando in crisi l’industria dei supereroi, di pari passo con il fallimento della
guerra in Vietnam che implicitamente mise in discussione il concetto stesso di eroe, erano le calzamaglie e il gusto stravagante delle loro tenute, l’accento nei personaggi ad un anticonformismo che doveva cambiare la società a venire adottato dal mondo supereroistico che sfondava anche dentro il nascente movimento hippy.
Ma è dagli anni ’80 in poi che si spalanca la strada per l’eroe controverso e insicuro in una società ancora più controversa e più insicura. Spiderman e Wolverine nello splendido “Perceptions” di Todd McFarlene - autore cui si deve il maquillage dell’Uomo Ragno in versione tutto evoluzioni e ragnatele filamentose di oggi vanno sulle tracce di un orribile serial killer pedofilo, scagionando il mostro fumettistico di turno per scoprire il colpevole in un ispettore della polizia. Il Matt Murdock alias Daredevil, uscito dalla saga “Rinascita” dell’allora giovane Frank Miller, cui ci si è evidentemente ispirati nel film sopraccitato, di giorno è un avvocato che aiuta gli spiantati, di notte un vigilante che si fa giustizia da solo: dove non arriva la legge arriva lui. Batman e il Punitore eccedono anche questa dicotomia per trasformarsi spesso in dei vendicatori, uno mascherato, l’altro no, entrambi endemicamente dubbiosi sulle capacità delle istituzioni di riuscire a tutelare la propria cittadinanza. Fascisti, per i democrats, eppure espressione i supereroi più violenti, oltre che di una giustizia fai da te, di una marcata fiducia nella buona volontà di uomini giusti - come il Commissario Gordon amico di Batman. Siamo ad una elaborazione dell’idea di crimine, ad una critica molto più realista, coraggiosa e scorretta del “bel pensiero” dietro l’indulgenza che ha condizionato le istituzioni democratiche occidentali negli ultimi decenni in materia di sicurezza, meno elementare di quella cui erano abituati i lettori dei comics. Oggi certa letteratura, certa critica per cui il supereroe resta solamente il“nuovo mito”della società consumista è divenuta oramai residuale ed è proprio vero a guardare questa cinematografia sembra quasi che non siano più i supereroi ad essere ancorati alla realtà ma la realtà ancorata ai supereroi.