QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Su Sarkozy i siluri incrociati di Germania e Polonia
e di h c a n o cr
È meglio dire la verità: l’Europa non c’è più
di Ferdinando Adornato
L’INCUBO INFINITO
di Enrico Singer
L’Italia dovrebbe pensare al futuro. Invece, da quindici anni, è paralizzata dalla stessa guerra. Ci vuole un doppio passo indietro: il premier ritiri l’emendamento blocca-processi e il Csm smetta di agire come una Terza Camera
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Basta! 9 771827 881004
Il Paese non ne può più dello scontro tra Berlusconi e la magistratura
ISSN 1827-8817 80702
on poteva cominciare peggio. Ma, in fondo, Nicolas Sarkozy se lo aspettava. Si possono trovare molti difetti al presidente francese, ma certo non quello di non capire al volo l’aria che tira. E sull’Europa oggi c’è una cappa asfissiante. Non soltanto per l’afa. Nel giorno dell’inaugurazione del semestre di presidenza francese della Ue sono arrivati altri due siluri. Come se il “no”irlandese al Trattatato di Lisbona non bastasse, la Germania e la Polonia hanno bloccato la ratifica dei “sì” già pronunciati dai loro Parlamenti. Il presidente tedesco, Horst Köhler, ha detto che non firmerà il testo che il Bundestag e il Bundesrat avevano votato addirittura nel dicembre del 2007, fino a quando la Corte costituzionale non si prununcerà sui due ricorsi presentati - non a caso - dal partito di estrema sinistra Die Linke e dal deputato conservatore bavarese ed euroscettico, Peter Gauweiler. Il presidente polacco, Lech Kaczynski, che in fatto di euroscetticismo non è secondo a nessuno, non ha invocato giustificazioni costituzionali: ha semplicemete detto che, a questo punto, il nuovo trattato europero non ha ragione di esistere. E per una volta viene voglia di dare ragione al più terribile dei due gemelli di Varsavia (suo fratello Jaroslaw è premier). Non perché il suo comportamento sia giusto. Ma perché è l’ennesima prova che l’Europa politica è davvero finita.
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se gu e a p ag in a 7
In cinque si contendono la vittoria
Le reazioni alla schedatura dei rom
Legge 180: e i diritti umani?
I cattolici del Pdl: «Famiglia Cristiana non ha capito nulla»
Biopolitica senza ideologie
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Luca Volontè
di Robert D. Kaplan
di Pier Mario Fasanotti
Tutela. Per i parlamentari cattolici del Pdl è questo l’unico motivo alla base del provvedimento di schedatura delle impronte dei bimbi rom e che ha scatenato l’ira di una parte dei cattolici.
Riorganizzare il sistema per la salute mentale, modificare la legge 180 e garantire il rispetto dei diritti umani: una nuova “biopolitica” ha il dovere di accettare la sfida lasciando da parte l’ideologia.
Donald Rumsfeld, lottatore dilettante e pilota militare, ha sempre visto il mondo come qualcosa di piegabile alla sua volontà. E la sua precoce carriera è stata senza dubbio un trionfo.
Atto finale della 62esima edizione del Premio Strega. Sono cinque gli scrittori che verranno valutati dalla giuria degli ”Amici della Domenica”, tra grandi attese e polemiche annunciate.
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nell’inserto Occidente a pagina 12
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L’uomo che ha riorganizzato l’esercito e il Pentagono
Parola d’ordine: riabilitare Rumsfeld
MERCOLEDÌ 2 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
NUMERO
122 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
La lunga notte (polemica) del Premio Strega
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Il Presidente, dopo averlo fatto con Berlusconi, bacchetta il Csm. Ma il premier insiste: vado in tv
Lo scontro di Stato paralizza l’Italia L’unico a capirlo è Napolitano di Riccardo Paradisi
ROMA. Il Csm ha il pieno diritto di formulare un parere sui progetti di legge del Parlamento, ma non spetta a lui pronunciarsi sull’incostituzionalità di queste norme. È questo il cuore della lettera che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha indirizzato ieri al plenum del Consiglio superiore della magistratura riunito per pronunciarsi sulla bozza relativa alla norma ”salva premier”già approvata al Senato e in attesa di essere votata alla Camera. Una posizione, quella di Napolitano, in cui è concentrata la massima volontà del Quirinale di mediazione tra Parlamento e Csm e la massima volontà di dissuasione verso atteggiamenti militanti dell’organo di autotutela della magistratura, a cui il Colle ha voluto ricordare confini e competenze. «Non può suscitare sorpresa o scandalo», scrive il capo dello Stato nella lettera che Nicola Mancino ha letto in apertura della riunione del plenum, «il fatto che il Csm formuli un parere, diretto al ministro della Giustizia, su un progetto di legge di assai notevole incidenza su materie di diretto interesse del Csm stesso. Si tratta di una facoltà attribuitagli dalla legge, il cui esercizio è consolidato in una costante prassi istituzionale. I pareri sono dunque destinati a rilevare e segnalare le ricadute che le normative proposte all’esame del Parlamento si presume possano concretamente avere sullo svolgimento della funzione giurisdizionale. Così correttamente intesa – prosegue Napolitano – l’espressione di un parere del Csm non interferisce, altra mia preoccupazione già espressa nel passato, con le funzioni proprie ed esclusive del Parlamento. In questo quadro però, non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al
Csm non spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui, com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre istituzioni». Un messaggio chiaro cui Napolitano fa seguire anche una raccomandazione che suona come un monito: «Confido che nell’odierno dibattito e nelle deliberazioni che lo concluderanno, non si dia adito a confusioni e
del salvapremier, atto che sarebbe stato letto come un’indebita interferenza nei lavori parlamentari. Deciso a non farsi trascinare in un conflitto istituzionale Napolitano ha ritenuto dunque opportuno intervenire per scongiurarlo sul nascere: da un lato ricordando al Csm il perimetro nel quale può e deve muoversi l’organo di cui lui è il Presiden-
ro e la smetta di esternare compulsivamente sulla politica del Paese e dall’altra parte la maggioranza e il governo rivedano il pacchetto sicurezza escludendovi la norma sulla sospensione dei processi e approvando invece il Lodo-Schifani bis per mettere al riparo le maggiori cariche dello Stato da eventuali azioni legali. Un compromesso onorevole
Napolitano: «Il Csm può dare un parere sulle leggi, ma non può pronunciarsi sulla loro incostituzionalità». Berlusconi: «Giovedì spiegherò agli italiani perchè in questo Paese esiste un’emergenza giustizia» quindi a facili polemiche in proposito. La distinzione dei ruoli e il rispetto reciproco, il senso del limite e un costante sforzo di leale cooperazione, sono condizioni essenziali ai fini della tutela e della valorizza-
zione di ciascuna istituzione, delle sue prerogative e facoltà». Una posizione quella del Capo dello Stato alla cui formulazione pubblica avrebbe contribuito in maniera decisiva l’incontro avuto lunedì pomeriggio con i presidenti della Camera Gianfranco Fini e del Senato Renato Schifani. Incontro dove Fini e Schifani avrebbero chiesto a Napolitano un intervento per dissuadere il Csm dall’esprimere un parere non richiesto sulla costituzionalità
te, dall’altro indicando (tacitamente ma con leggibile chiarezza) nella salva premier «un progetto di legge di assai notevole incidenza su materie di diretto interesse del Csm stesso». Un intervento quello di Napoli-
tano da leggere dunque come invito alle parti in causa, governo, magistratura e opposizione, di trovare un margine d’intesa possibile che metta al riparo il Quirinale e il Paese da uno scontro tra poteri dello Stato. Tradotto: la magistratura faccia il suo lavo-
che però rischia di restare un suggerimento visto lo scenario di contrapposizione frontale che si sta ricreando nel Paese. I riflessi dello scontro Csm-governo danno un segnale di quale sia il livello di tensione e fibrillazione nel corpo della politica italiana. A cominciare dal tempismo e dalla durezza con cui Antonio Di Pietro dopo aver incalzato Veltroni per farlo partecipare alla manifestazione di Roma di sabato prossimo indetta da Idv e Mi-
cromega ”contro le leggi sulla giustizia fai da te di Berlusconi” è intervenuto sul campo minato della polemica tra maggioranza e Csm: «Mi auguro – ha detto Di Pietro – che il Presidente Napolitano non firmi e spero che il Csm rilevi la non costituzionalità della norma». E poi ancora, tanto per rasserenare gli animi: «Il salva-premier è una norma criminogena e incostituzionale Mi auguro che Napolitano rilevi la non urgenza, ma rispetteremo la sua decisione. Si può non condividere, ma lo rispetteremo». Si potrebbe aggiungere: ”ci mancherebbe altro” se non fosse che quello di Di Pietro è ormai un gioco continuo ad alzare il tiro polemico per spostare nel suo baricentro l’opposizione a Berlusconi, svuotando d’argomenti e di forza il più moderato Pd. Che infatti resta in difficoltà: apprezza l’equilibrio e la saggezza del capo dello Stato tesa a scongiurare, secondo il capogruppo PD alla Camera Antonello Soro, uno scontro tra poteri costituzionali ma ”la ragione ultima di questi conflitti – precisa la direzione del Pd – compete al governo». Dall’opposizione comunque l’intervento di Napolitano tende ad essere letto come una necessità indotta dall’arroganza della maggioranza, dalla sua ostinazione di trasformare il capitale elettorale in un passepartout buono per ogni sortita autocratica.
A destra ovviamente la lettura è simmetrica. Intervenendo sul Csm – secondo il Pdl – il presidente Napolitano avrebbe ristabilito e prerogative funzioni dell’organo di autogoverno della magistratura che – dice Gasparri – non può dare valutazioni e pareri di costituzionalità, per di più su una legge ancora all’esame del Parlamento e non anco-
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Il costituzionalista indica la strada per uscire dall’impasse
«Il governo dia retta al Presidente, i magistrati smettano di fare le star» di Francesco Rositano ncora una volta il presidente della Repubblica si dimostra fedele al suo ruolo di garante della Costituzione E la lettera che ha inviato all’organo di autogoverno dei magistrati ne è la dimostrazione». Lo afferma il professor Aldo Loiodice, ordinario di Diritto Costituzionale all’università di Bari, che commenta così la lettera che Giorgio Napolitano ha inviato a Nicola Mancino, esortando il vice-presidente del Csm a fare in modo che «il Consiglio superiore della Magistratura non interferisca con le funzioni esclusive del Parlamento». . Professore, quindi ancora una volta il comportamento di Napoletano è stato impeccabile? Mi pare che sia un ‘iniziativa molto serio e responsabile, pienamente consapevole del ruolo di grande rilievo costituzionale che gli viene affidato. Questa sua iniziativa manifesta una capacità di esser sensibile alle legge fondamentale della Repubblica, che invita le espressioni dei vari poteri a non fare invasioni di campo. D’altra parte ha due titoli per intervenire: è capo dello Stato e presidente del Csm. Avendo questi due titoli ha sottolineato che la funzione legislativa deve essere esercitata con piena sovranità, senza interesse. Insomma Napolitano sta dicendo ad ognuno di stare al proprio posto. Stavolta l’ha fatto con i magistrati. Ecco il significato delle sue parole: il Csm non può fare le leggi, perché è compito esclusivo del Parlamento. Ma questo non significa che debbono essere imbavagliati: possono mettere a disposizione del Parlamento tutte le notizie che hanno a disposizione, possono fare delle proposte, ma non in maniera pressante. E senza la pretesa di interferire. Quanto alle cosiddette norme salvapremier qual è il suo giudizio? Con sentenza numero 24 del 2004 di cui la Consulta dichiarò illegittimo il lodo Schifani. Adesso questo nuovo disegno di legge si adegua alla Corte Costituzionale perché prevede la possibilità della sospensione dei processi. Ma introduce una serie di novità: non sono sospese le indagini; c’è la
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ra firmata dal Presidente della Repubblica. Mentre Silvio Berlusconi annuncia che giovedì prossimo andrà in televisione, a Matrix a denunciare l’emergenza giustizia in cui versa il Paese. Tutti dunque ringraziano Napolitano ma nessuno sembra disposto a fare un passo indietro per farne fare due avanti al Paese. Il giustizialismo oggi re-
Barcellona: «Se Di Pietro riuscirà ad imporre al Pd l’agenda politica sarà la fine della democrazia: dovremo scegliere fra giustizialismo e populismo» presso si prepara a sferrare nuovi attacchi mentre la maggioranza non accenna a ripensamenti sul salva-premier. La sintesi teorica di questa situazione di stallo si può lasciare a Pietro Barcellona ordinario di Filosofia del diritto dell’univer-
sità di Catania e componente del Csm dal 1976 al 1979. In un’intervista pubblicata stamattina dal quotidiano La Sicilia Barcellona dice: «Lo scandalo permanente e la delegittimazione continua non servono alle sorti di questo sfortunato Paese. Molti intellettuali di sinistra hanno trovato nella rivoluzione giudiziaria una via per contrastare la crisi della sinistra. Si è così formato un orientamento di una parte delle elite che non teme di sacrificare la dialettica democratica al potere dei giudici quali custodi dei diritti di liberta’ individuali. È la vecchia utopia del governo dei giudici che supplisce una politica corrotta e imbelle. Se Di Pietro – osserva ancora l’ex componente del Csm – riuscirà ad imporre al Pd e alla sinistra il terreno delle scelte e l’agenda politica, sarà la fine della democrazia e l’Italia si troverà a dover scegliere fra il populismo giustizialista di Di Pietro e il populismo paternalista di Berlusconi».
possibilità per il presidente interessato di rinunciare alla sospensione; è consentito ai danneggiati di agire davanti al giudice di civile; è prevista la possibilità di acquisire prove urgenti non rinviabili; e poi vi è la sospensione dei termini di prescrizione. Vi è quindi un quadro diverso. È stata introdotta semplicemente una garanzia per evitare che l’indagine dei giudici possa creare un polverone ai danni delle cariche dello Stato. Un polverone che impedisce di svolgere la sua funzione costituzionale. Quello che non si può fare è questo: utilizzare l’indagine penale quale strumento di abbattimento del prestigio del presidente del Consiglio. Questo no, non è consentito. Insomma, per una democrazia è disdicevole che il magistrato approfitti del politico per aumentare la propria visibilità. A mio avviso quindi si dovrebbero pubblicare i risultati delle indagini senza fotografie né nomi dei magistrati che indagano. Inoltre inviterei i giornalisti a cambiare atteggiamento, cercando di essere più distaccati sia dai politici che dai magistrati. Per ora invece si stanno verificando due atteggiamenti sbagliati: o si appiattiscono sui giudici o si appiattiscono sui politici. Invece devono essere autonomi e dare le bacchettate a chi se le merita, ma solo al momento opportuno. Secondo lei come si può fare per porre fine a questa impasse? Purtroppo non c’è un meccanismo autoritario, perché dovremmo arrivare o alla dittatura dei magistrati o alla dittatura dei politici. Non si può arrivare né all’una, né all’altra. E non è assolutamente possibile trovare un meccanismo automatico che estingua questo problema. Ci vuole una maturazione della sensibilità. Ripeto: una delle cose principali da mettere subito in atto è stabilire che i magistrati non intervengano sui giornali e sulle televisioni né col nome né col cognome. Già questo ridurrebbe dell’80% una serie di iniziative. Quanto alla politica? La politica dovrebbe cercare di ascoltare il presidente della Repubblica, perché è in grado di creare veramente delle occasioni di incontro e di accordo: sta svolgendo un grande ruolo di garante.
Per una democrazia è disdicevole che il magistrato approfitti del politico per aumentare la propria visibilità
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politica
Le reazioni della maggioranza alla polemica della rivista contro la schedatura dei rom
I cattolici del Pdl: «Famiglia Cristiana non ha capito niente» di Vincenzo Faccioli Pintozzi
ROMA. La parola d’ordine è tutela. Per i parlamentari cattolici del Popolo della Libertà, è questo l’unico motivo alla base del provvedimento che prevede la schedatura delle impronte digitali dei bambini rom e che ha scatenato l’ira di una parte dell’elettorato cattolico.Tutela contro lo sfruttamento, contro le sparizioni ed il traffico di esseri umani. Un censimento, insomma, unico strumento in grado di garantire la salvaguardia dei minori appartenenti ad una delle etnie meno controllabili al mondo.
alzato il dito a contrastare Maroni e l’indecente proposta razzista di prendere le impronte digitali ai bambini rom». «Oggi, con le impronte digitali - prosegue l’editoriale - uno Stato di polizia mostra il volto più feroce a piccoli rom, che pur sono cittadini italiani. La Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia (firmata anche dall’Italia, che tutela i minori da qualsiasi discriminazione) non conta più niente. La schedatura di un bambino rom, che non ha commesso reato, viola la dignità umana». Il ministro Gianfranco Rotondi, uno dei “bocciati” dal settimanale cattolico, sottolinea a liberal come la schedatura serva invece «a garantire un uso non criminale dei bambini. In questo senso, ritengo che il ministro Maroni abbia fatto un ottimo lavoro, che tra l’altro apre la strada a quello che già avviene negli Stati Uniti, ovvero la schedatura delle impronte digitali di tutti i cittadini». «Questa - sottolinea il titolare del dicastero dell’Attuazione del programma non è una procedura razzista, ma di-
«Con le impronte digitali - aveva scritto il settimanale dei paolini - uno Stato di polizia mostra il volto più feroce a piccoli rom, comunque cittadini italiani»
E poco male se uno dei settimanali più influenti e venduti del mondo cattolico - Famiglia Cristiana - ha bollato nel suo ultimo editoriale la proposta come «indecente», bocciando nel contempo i ministri cattolici del IV governo Berlusconi. Alla prima prova d’esame, scrive il giornale edito dalle Paoline, «i ministri “cattolici” del governo del Cavaliere escono bocciati, senza appello. Per loro la dignità dell’uomo vale zero. Nessuno che abbia
Perché ha ragione il settimanale
Non fate scandalo degli innocenti di Giancristiano Desiderio
Nella foto un gruppo di rom con neonato: il settimanale Famiglia Cristiana ha duramente stigmatizzato la proposta di Maroni di prendere le impronte digitali a tutti i bambini zingari considerandola violentemente «anticristiana»
venta una sorta di carta di identità per la giustizia. In questo senso, con queste sottolineature, non mi riconosco nelle accuse di Famiglia Cristiana».
Questo, conclude con ironia il ministro, «è un settimanale di cui capisco le esigenze di marketing e di mercato, un giornale che ogni
hi è il bambino? Il bambino è Dio. Si possono prendere le impronte digitali a Dio? Si può schedare Dio? La critica forte e giusta che “Famiglia Cristiana” ha rivolto al governo nasce da qui: la cultura cristiana - la cultura alla quale apparteniamo per tradizione e ragione ci dice che Dio è un bambino. Non solo Gesù Bambino, ma ogni bambino è Dio. Il Dio cristiano è uno strano Dio: essendo un dio umano muore, ma rinasce ogni volta che viene al mondo un bambino. Il paese che si riconosce in questa “religione del bambino” può pensare di prendere le impronte digitali dei bambini rom? Al Viminale già sanno quanti sono e dove sono i bambini romeni. Sono trentacinquemila, tra i sei e i quattordici anni. Non c’è alcuna necessità che siano schedati e archiviati, come fossero tutti piccoli delinquenti. E l’idea che si possano schedare e identi-
C
ISABELLA BERTOLINI «Da cattolica, sono estremamente favorevole alla proposta: non si tratta di una schedatura»
ficare con impronte digitali per controllare i loro genitori e gli adulti di etnia rom in genere è anche più ingiusta. Il bambino, infatti, in questa logica diventa uno strumento di controllo e repressione. Il bambino diventa un “rilevatore umano”.
Una politica per la sicurezza non può trasformare i fanciulli in mezzi di vigilanza. I bambini rom hanno bisogno di frequentare giardini d’infanzia e scuole, non certo questure e prefetture. Garantire la sicurezza dei cittadini è il compito principale dello Stato. Sicurezza e libertà vanno insieme e cadono insieme. Ma cosa abbia a che vedere l’infanzia dei bimbi rom con la sicurezza e le libertà dei cittadini italiani è cosa che appartiene al campo delle scienze esoteriche. Conosciamo il ministro Maroni come persona attenta e scrupolosa, ma abbiamo anche l’impressione che creda ancora di es-
politica
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CARLO GIOVANARDI «Non si possono chiudere gli occhi davanti a fenomeni denunciati da più parti di minori rom sfruttati con l’utilizzo spregiudicato del nascondere la loro identità»
settimana riesce a montare un caso ad arte per fare polemica e vendere più copie. Mi complimento con chi ha ideato quest’ultima campagna, ma chiedermi di collaborare ad essa è troppo». Per Mario Mauro, vice presidente del Parlamento europeo, il parere espresso da Famiglia Cristiana «è poco motivato. Stiamo parlando di un provvedimento teso a tutelare i minori che non
sere il responsabile del Lavoro. Non c’è giorno che non rilasci un’intervista, che non si lanci in una polemica, che non annunci un provvedimento speciale e risolutivo. Ma il delicato e gravoso compito di governo che ricopre richiede invece umiltà e discrezione. Una volta i governi venivano identificati con i nomi del presidente del Consiglio e del ministro degli Interni. L’attuale governo Berlusconi è, in realtà, il governo Berlusconi-Maroni. Una differenza non da poco che dovrebbe indurre il numero 2 della Lega Nord ad essere più cauto. Non si può garantire sicurezza ai cittadini e alle città annunciando provvedimenti straordinari che dovrebbero riportare magicamente ordine e sicurezza.
Il lavoro di chi guida il Viminale è soprattutto quello di far funzionare la macchina della sicurezza diffusa sul territorio nazionale, facendo quasi di-
hanno un’identificazione certa, una manovra che servirà a proteggerli. Non ha alcun sottofondo razzista, che mi sembra invece presente nella testa di certi editorialisti».
Sulla stessa linea Isabella Bertolini, che «da cattolica», dice a liberal: «Sono estremamente favorevole alla proposta: non si tratta di una schedatura,
menticare la stessa esistenza della “forza dell’ordine”. Purtroppo, il ministro Maroni sembra muoversi nell’altra direzione che conduce a vedere la vita civile attraverso le finestre di una caserma. È probabile che la sua filosofia sia il frutto di inesperienza. Ma è ora di correggersi. La presenza dei rom in Italia non determina il problema della insicurezza. È, semmai, un problema tra i problemi, ma non certo il problema. Il governo, invece, dedicando particolare attenzione ai rom ha quasi indotto a pensare che l’insicurezza derivi dalla presenza dei gruppi di etnia rom nelle periferie delle nostre città. Il problema esiste, ma non come lo ha presentato il governo Berlusconi-Maroni che sembra muoversi più per soddisfare un’immagine di sé che una reale esigenza di sicurezza. Il governo deve interessarsi ai bambini rom per garantirne l’educazione e non per utilizzar-
ma di un censimento che garantisce chiunque non abbia nulla da nascondere. Non si tratta di una discriminazione, ma di una garanzia di legalità. Questi attacchi sono fuori luogo e fuori misura: mi stupisco che ven-
li come deterrente dei reati degli adulti romeni. Bisognerebbe chiedersi qual è l’ambiente sociale in cui vive il bambino romeno e come è possibile fare entrare quell’ambiente sociale in contatto con l’ambiente educativo della società e dello Stato italiano.
È un compito che riguarda il ministro Maria Stella Gelmini e non il Viminale. E siccome il ministro della Pubblica Istruzione si è fatto sentire e ha detto che porterà i bambini rom a scuola, allora, si può dire che anche da questa brutta storia si potrà forse ricavare qualcosa di buono. A volte le cose nascondono un’eterogenesi dei fini: si voleva fare una cosa e se ne ottiene un’altra. Si voleva schedare i bambini rom e magari riusciremo a portarli a scuola. In fondo, proprio grazie alla scuola non si possono raggiungere due scopi: integrazione e controllo?
gano da Famiglia Cristiana». Meno diplomatico Carlo Giovanardi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che in una nota pubblicata ieri ha respinto «con rabbia e sdegno la delirante accusa di Famiglia Cristiana di essere parte di un Governo più o meno nazista» e si chiede «che cosa abbia più a che fare con la famiglia e con i cristiani questo settimanale». «Nessuno possiede la verità assoluta quando c’è da conciliare sicurezza e rispetto della persona - continua la nota - ma non si possono neppure chiudere gli occhi davanti a fenomeni denunciati da più parti di minori rom sfruttati e strumentalizzati con l’utilizzo spregiudicato del nascondere una loro identità». «Ogni persona GIANFRANCO - conclude GioROTONDI vanardi - ha di«La schedatura ritto a una proserve a garantire pria identità, un uso che può essere non criminale certificata ai dei bambini. terzi attraverMaroni ha fatto so una foto o un ottimo lavoro, con l’impronta che tra l’altro di un dito, coapre la strada me accade a a quello chiunque di che già avviene noi si voglia negli Usa» recare negli Stati Uniti. Penso che su queste cose si possa ragionare senza portare come unici argomenti gli insulti».
La vita dell’infanzia nei campi rom appartiene a “un mondo a parte”. Compito di un governo di un paese civile non è quello di certificare l’esistenza della vita particolare di quei fanciulli ma, al contrario, di liberare l’infanzia dei bambini rom dalla sua condizione di “minorità”. Se c’è un mondo senza confini, ebbene, questo mondo è l’infanzia. La nostra cultura cristiana ci insegna fin da quando siamo noi stessi fanciulli che l’infanzia è divina. In questo, soprattutto in questo, noi non possiamo non dirci cristiani. Il rapporto tra noi e i gruppi romeni - almeno qui l’intuizione sui generis di Maroni è giusta - passa attraverso la vita dei fanciulli rom. La nostra cultura ci dice che dobbiamo lottare perché sia una “vita buona”. Il governo non può fare altro che adeguarsi perché, in questo caso, sicurezza dei bambini e libertà degli adulti coincidono.
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pensieri & parole
Nel 2008 le risorse per ricerca e sviluppo caleranno del 1,1 per cento
L’impresa predica bene, ma non investe di Gianfranco Polillo n un anno la pasta è aumentata del 22,4 per cento, il pane del 13 per cento, il latte dell’11, la frutta del 7,6, le carni del 4,1 e gli ortaggi del 3,2. Di conseguenza non c’è scampo all’aumento dei prezzi dei prodotti essenziali. In dodici mesi bevande e alimentari sono aumentati del 6,1 per cento.Vari i primati bruciati: la crescita dell’inflazione al 3,8 per cento è la più alta dal 1996; quella dei prezzi alla produzione, con un + 7,6 per cento, dal 2003. Senza considerare il petrolio che svetta fino a 143 dollari al barile.
I
Se, com’è probabile, raggiungerà presto quota 150, un altro record sarà battuto. Quel-
di Confindustria, Emma Marcegaglia, «non si possono scaricare sulle imprese i costi derivanti dall’aumento del petrolio e delle materie prime alimentari». Quindi la loro traslazione sul consumatore è inevitabile. Ragionamento corretto, ma solo fino ad un certo punto.
Non osiamo pensare a un eventuale contenimento del saggio di profitto. Cosa che in parte avviene per la produzione venduta sui mercati internazionali. La forte tenuta delle nostre esportazioni si deve anche al contenimento dei prezzi in mercati fortemente concorrenziali. Del resto, un po’ di dumping (prezzi alti in casa e più bassi all’estero) costituisce
EMMA MARCEGAGLIA Il presidente di Confindustria ha dichiarato: «Non si possono scaricare sulle imprese i costi derivanti dall’aumento del petrolio». Così il conto viene presentato al consumatore
lo degli anni Ottanta, quando il prezzo reale del greggio era appunto pari a quel valore, ottenuto scontando dalle attuali quotazioni in dollari il peso dell’inflazione da allora maturata. Brutte notizie, quindi. Ma la peggiore è quella dell’andamento dei prezzi alla produzione. Quegli aumenti ancora non si sono completamente scaricati sui prezzi al consumo. Sono, a loro, volta un serbatoio di inflazione che si manifesterà nei mesi a venire.
All’origine di tutto è il perverso ciclo delle commodities (materie prime e prodotti agricoli) i cui aumenti, pari a un multiplo dell’inflazione media, spingono in alto l’asticella dei prezzi. Del resto, dice il leader
il sale delle politiche commerciali. Senza, però, esagerare. Prendiamo il caso del diesel. Il costo di produzione di questo carburante è stato sempre inferiore a quello delle benzine. Si tratta di un prodotto comunque meno raffinato, nonostante il suo perfezionamento industriale. Minori costi di produzione, quindi, e prezzi inferiori. Negli ultimi mesi, invece, si è verificato il contrario. La sua rincorsa rispetto ai prodotti concorrenti è stata degna di un maratoneta. E i rincari conseguenti. Oggi il diesel costa di più della benzina verde. In questo caso gli sceicchi arabi – bersaglio di comodo di ogni tesi giustificazionista – non c’entrano. Il più forte aumento di prezzo deriva da cause tutte
nazionali. Le raffinerie non sono in grado di rifornire un mercato che, proprio a causa dei minori costi d’esercizio, si era sviluppato a un tasso più elevato. L’automobilista, in altri termini, aveva preferito il diesel proprio perché, non tanto l’auto quanto il suo mantenimento, costava meno. In un mercato concorrenziale alla maggiore domanda si sarebbe fatto fronte con un incremento dell’offerta. I tassi di profitto, così, sarebbero rimasti immutati, ma i profitti in assoluto sarebbero aumentati grazie al maggior fatturato. Manco per niente.
“
La Marcegaglia chiede giustamente di alleggerire il peso del welfare e di legare produttività a salari. Ma i suoi associati spesso si mostrano meno rigorosi del dovuto
”
Si è preferito, invece, un doppio guadagno. Lucrare sul dif-
GIULIO TREMONTI
PASQUALE DE VITA
Sarà difficile per il ministro dell’Economia garantirsi la pace sociale con la pasta aumentata del 22 per cento, il pane del 13 e il latte del 11, per non parlare del greggio verso i 150 dollari
ferenziale – la maggior crescita del prezzo – di sacrificando, almeno in prospettiva, qualche volume di vendita. Risultato dell’operazione? Stesso volume di profitti, ma risparmio negli investimenti necessari per potenziare gli impianti.
Questo è un caso emblematico di come funziona, o meglio non funziona, il mercato italiano. La presenza di posizioni dominanti in settori vitali attribuisce al produttore un potere di fissazione del prezzo, che sarebbe impensabile – come avviene per le esportazioni – in un mercato concorrenziale. Se il mercato è protetto, gli investimenti non si fanno. Allora la difesa di un saggio di profitto immutato comporta una to-
tale traslazione dei maggiori costi al consumatore. Marcegaglia ha quindi ragione quando critica la possibile spirale prezzi-salari, invitando i sindacati alla moderazione. Dovrebbe tuttavia completare l’esortazione con un sereno esame di coscienza. Secondo i dati pubblicati dal Centro studi di Confindustria, nel 2008 la crescita del Pil sarà soltanto dello 0,1 per cento, contro una previsione della Commissione Ue dello 0,5. Fin qui nulla di male, salvo un marcato pessimismo. Quello che invece non va sono le cause indicate per un ribasso così consistente: vale a dire il crollo degli investimenti che Confindustria stima del -1,1
Il presidente dell’Unione petrolifera, sempre pronto a difendere la categoria, dovrebbe spiegare perché le aziende non hanno voluto rafforzare i sistemi di distribuzione per limitare il caro benzina
“
L’industria lesina sui fondi necessari per ampliare la domanda. Così, come nel caso dei carburanti, gli altissimi rincari sulle materie prime si scaricano sul consumatore
”
per cento rispetto al 2007. Il dato è sorprendente, specie se si proietta in un più lungo periodo. Una delle cause del ristagno italiano è infatti proprio la drastica riduzione della propensione all’investimento, da parte del sistema delle imprese. Che hanno utilizzato la flessibilità del mercato del lavoro non per produrre meglio, ma per risparmiare denari. Morale della favola: ai lavoratori si può chiedere tutto. Una flessibilità che sconfina nel precariato, bassi salari falcidiati da un’inflazione che colpisce i beni primari, un drastico ridimensionamento del welfare. Il tutto, giustamente, in nome della Patria da salvare. Ma i signori industriali qualcosa nel piatto la vogliono mettere?
il caso
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Da Polonia e Germania due siluri contro Sarkozy nel giorno dell’inaugurazione del semestre francese
La verità è che l’Europa non c’è più di Enrico Singer segue dalla prima ttenzione. Ammettere che l’Europa politica non c’è più non significa dire che, domani, la Ue si scioglierà, che l’euro diventerà una curiosità numismatica e che torneranno le sbarre e i passaporti alle frontiere. Anzi, c’è da scommettere che Sarkozy riuscirà a costruire un qualche compromesso da qui al prossimo ottobre, data del vertice che dovrà fissare un nuovo calendario - e un nuovo meccanismo - per far accettare da tutti il Trattato di Lisbona in tempo per le elezioni europee del giugno 2009. Ma c’è da scommettere anche che sarà un altro compromesso al ribasso se i leader europei non avranno il coraggio di ammettere che la crisi è profonda, che i rattoppi non bastano a tenere insieme l’Unione, che è necessario fissare dei traguardi chiari e condivisi se si vuole correre insieme. Altrimenti tornano inevitabilmente a galla gli interessi nazionali, i sospetti reciproci, le invidie e i L’Europarlamento di Strasburgo dove Sarkozy parlerà il 10 luglio. calcoli per ottenere qualche coNelle foto piccole, dall’alto: il presidente tedesco Horst Köler, sa in più - o di diverso - degli alil presidente francese, il presidente ceco, Vaclav Klaus, tri. Ha ragione il ministro degli il polacco, Lech Kaczynski e il premier irlandese, Brian Cowen Esteri, Franco Frattini, che da vicepresidente della Commissione euro- ha fatto scuola. Soprattutto tra i piccoli un passo indietro». La vepea ha scoperto tutti i segreti e le mise- Paesi dell’Unione e tra i nuovi arrivati, rità è che i francesi, nel rie di Bruxelles, a dire che «l’Europa non come la Polonia o la Repubblica ceca 2005, hanno bocciato con può rimanere paralizzata nelle sabbie del presidente Vaclav Klaus, che sono un voto molto più pesante mobili di negoziati istituzionali che non convinti di dover recuperare posizioni e di quello irlandese (non hanno mai fine». Ma proprio questo sta conquistare spazi di potere. E il mezzo fosse altro perché i franaccadendo perché ognuno cerca di trar- dietrofront tedesco, allora? La Germa- cesi sono 60 milioni e gli re dei vantaggi dalla crisi sapendo che, nia non è davvero né piccola, né ultima irlandesi appena quattro) alla fine, si andrà comunque avanti e che arrivata. Eppure anche nella posizione il primo progetto di nuovo quanto più si sarà strappato in cambio del presidente Köhler c’è un calcolo na- Trattato europeo: quello di un ”sì”, tanto meglio sarà. zionale. Di tutt’altro spessore, natural- che era stato pomposamente. C’è la volontà di dimostrare a mente chiamato ”CostituIl caso del dietrofront polacco è un’opinione pubblica smarrita che le zione” e che fu poi definiesemplare. I gemelli Kaczynski sono maestri nell’arte di ottenere vantaggi per la Polonia nei traballanti equilibri del potere europeo. Che si tratti di un numero superiore di eurodeputati al Parlamento di Strasburgo, di un incarico più importante per il istituzioni tedesche rispettano le regole tivamente affondato dal suo commissario o di un calcolo più fa- fino in fondo. I ricorsi alla Corte cotsti- ”no” olandese arrivato suvorevole del peso del suo voto nelle de- tuzionale saranno, molto probabilmen- bito dopo. Quella doppia cisioni al vertice. Varsavia ha imparato te, rigettati. Ma fino a quel momento bocciatura è la data d’iniin fretta che nelle estenuanti trattative Berlino non vuole fare forzature. zio della fine dell’Europa della Ue l’euroscetticismo è un’arma Per Sarkozy, in ogni caso, il risultato è lo politica. Nel progetto di che paga: che è meglio farsi desiderare stesso. La festa per l’avvio del semestre Costituzione - che aveva piuttosto che dire subito di sì. Ne sa francese è stata rovinata. Tanto che lo richiesto quasi due anni qualcosa Londra, madre di tutti gli eu- stesso presidente ha ammesso che «que- di lavori preparatori - c’eroscettici. Quando Margaret Thatcher, sta Europa così com’è non va» che i suoi rano anche molti orpelli la lady di ferro, nel vertice europeo di cittadini «non si sentono protetti dalla forse inutili, come un motFontainebleau del 1984 gridò «I want Ue nella loro vita quotidiana» che biso- to, un inno e un preambomy money back» (voglio indietro i miei gna «difendere e non spaventare». Nico- lo che aveva diviso per soldi) contestando la politica agricola las Sarkozy ha anche detto che «i fran- l’assenza del richiamo alche favoriva i francesi, ottenne uno cesi cominciano a chiedersi se non con- le comuni radici cristiane. Ma c’era ansconto che la Ue sta ancora pagando. E venga più lo Stato nazionale e questo è che un progetto: il tentativo di coniugare
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Il presidente francese prepara già un compromesso per salvare la Ue dopo lo strappo irlandese, ma il rilancio del progetto europeo ha bisogno di idee, non di rattoppi
federalismo e sovranismo assegnando compiti agli Stati e compiti all’Unione. Caduta la Costituzione, è cominciata una corsa a ritroso che, a Lisbona, ha partorito un testo per regolare, almeno, i rapporti tra i Ventisette: una specie di manuale d’istruzioni per l’uso della Ue che il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, definisce adesso «tre tonnellate di scartoffie che la gente non capisce».
Non è così che si ricostruisce la fiducia nell’Europa. E la strada per superare la crisi innescata dal ”no” irlandese diventa sempre più in salita. Lo dimostra anche l’annuncio di ieri del rinvio al 21 luglio della visita a Dublino di Nicolas Sarkozy che era prevista per l’11 luglio. Ufficialmente la data è stata cambiata per «impegni accavallati», ma a Parigi si dice che il presidente ha preferito prendere tempo per sottoporre una prima bozza della proposta che farà all’Irlanda anche agli altri leader europei che ha invitato alla festa nazionale del 14 luglio e al vertice per il lancio dell’Unione del Mediterraneo che si terrà il giorno precedente. L’ipotesi sulla quale ha lavorato finora Sarkozy è quella di concludere l’iter delle approvazioni nazionali del Trattato (tra l’altro anche il Parlamento italiano deve ancora ratificarlo) in modo da spingere l’Irlanda a riconvocare un referendum. Ma con una diversa domanda agli elettori: volete o no rimanere nella Ue? Un ”sì”, a quel punto, significherebbe automaticamente anche l’accettazione del Trattato già approvato dagli altri. un’abile Senz’altro strategia per ricucire lo strappo. Ma ancora poco per rivitalizzare l’Europa.
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Modificare la legge 180 e garantire il rispetto dei diritti umani degli utenti dei servizi psichiatrici e dei loro familiari
Biopolitica senza ideologie di Luca Volontè
econdo l’Organizzazione mondiale della sanità, nel mondo 1 miliardo e mezzo di persone soffrono di disordini neuropsichiatrici. Secondo il Censis, in Italia il 20 per cento (circa 10 milioni di persone) accusa disturbi psichiatrici di varia natura e intensità; il 4 per cento di disturbi mentali; il 16 per cento di varie forme di disagio mentale; il 30 per cento assume psicofarmaci, mentre il 15 per cento delle famiglie italiane sono colpite, in alcuni dei suoi componenti, da malattie mentali. Sono dati su cui occorre riflettere. La legge 180 del 1978 non decretò solo la chiusura dei manicomi, ma anche l’istituzionalizzazione di una rete di servizi in grado - almeno sulla carta - di assistere i malati psichici, prevedendo anche il trattamento sanitario obbligatorio a base di farmaci da somministrare su richiesta dello psichiatra, (firmata dal sindaco e convalidata dal giudice tutelare) da attuare nel rispetto della dignità della persona e dei suoi diritti civili e politici. Attualmente, nel Paese sono attivi 211 dipartimenti e 707 centri di salute mentale, 1107 ambulatori, 520 centri diurni e 912 strutture residenziali. All’appello mancherebbero circa 7mila operatori della salute mentale. Dunque: alla domanda se la cosiddetta legge Basaglia sia da rivedere o ancora da applicare nella sua attuale versione, rispondo che il disagio c’è, che è diffuso, ma anche inascoltato.
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i servizi per questi malati risultano carenti, insufficienti o in stato di disfacimento. Il contesto sociale non sempre accetta i malati di mente con le loro limitazioni, e anche per questo si registrano difficoltà nel reperire le risorse umane e finanziarie di cui c’è bisogno». Il Pontefice avvertì la necessità di integrare meglio una terapia appropriata con una sensibilità rinnovata di fronte al disagio, «in modo da permettere agli operatori del settore di andare incontro più efficacemente a quei malati e alle famiglie, le quali da sole non sono in grado di seguire adeguatamente i congiunti in difficoltà».
come la Conferenza Episcopale Italiana, da parte sua, si attivò concretamente, partecipando all’avvio di una nuova iniziativa, “Il mattone solidale”, per la costruzione di case e alloggi per malati mentali rimasti soli per la morte dei familiari: il cosiddetto fenomeno del “dopo di noi”. Le principali strade percorse nell’affrontare il problema della assistenza psichiatrica sono dunque due: la deistituzionalizzazione e l’istituzionalizzazione.
Sotto varie forme, con differenti approcci e argomentazioni, la discussione sembra alla fine ricadere solo e unicamente
si, impossibile gestione della convivenza. Tali difficoltà di convivenza sono, al tempo stesso, con estrema frequenza, rilevate dalle stesse persone ritenute insane di mente. Inoltre alcuni temi fondamentali sembrano essere costantemente trascurati o affrontati solo parzialmente.
Lo spirito della Legge Basaglia contiene sicuramente elementi tuttora validi, ma ritenerla intoccabile o indiscutibile rappresenta un errore molto grave
In uno dei primi messaggi del Suo Pontificato, Sua Santità Benedetto XVI espresse «solidarietà alle famiglie che hanno a carico persone malate di mente». «In molte parti del mondo - scrisse il Santo Padre -
La legge 180 non decretò solo la chiusura dei manicomi, ma istituzionalizzò una rete di servizi in grado (almeno sulla carta) di assistere i malati psichici, prevedendo anche il trattamento sanitario obbligatorio a base di farmaci da somministrare su richiesta dello psichiatra
Credo che lo spirito della legge 180 contenga sì elementi tuttora validi, ma ritenerla intoccabile o indiscutibile rappresenta un errore di partenza. Perché se è vero che da un lato la persona affetta da disturbi psichici (specie se molto gravi) possa respirare un po’ serenità, stando dentro le quattro mura domestiche e non internato in un inquietante manicomio, è altrettanto vero che una famiglia obbligata a tenere in casa un soggetto simile sia esposta a mille pericoli e sacrifici non solo economici. È bene ricordare
entro questi limiti, inducendo con la contrapposizione di due schieramenti una rischiosa politicizzazione del dibattito. Non si può negare che la legge 180/78 e i successivi interventi legislativi abbiano cancellato quasi completamente l’orrore dei manicomi - e sottolineo il quasi - ma è altrettanto necessario osservare la crescente protesta dei familiari delle persone ritenute “insane di mente”, che praticamente si sono trovate e si trovano costrette quotidianamente a vivere in situazioni di difficile e, in alcuni ca-
Il primo tema è quello dei diritti umani. La situazione attuale non è certo scevra o immune a tali violazioni: il rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio europeo del 15 marzo 1994, documento 7040, sulla psichiatria e sui diritti umani, riferisce che in psichiatria sono comuni le seguenti violazioni: abusi sessuali, umiliazioni, intimidazioni, negligenza, maltrattamenti. Basterà qui ricordare, inoltre, le recenti dichiarazioni del Sottosegretario alla salute, onorevole Guidi, relative ai risultati delle ispezioni da lui attivate ed eseguite attraverso i nuclei antisofisticazione dell’Arma dei carabinieri. Il quadro è ad oggi ancora allarmante. Il secondo tema è quello della qualità dei livelli di assistenza.
Se è vero che vogliamo migliorarli, non possiamo allora prescindere dal definirli in modo dettagliato, poiché il problema non è solo ”dove” (se a domicilio o in una comunità) le cose si fanno, bensì ”cosa”si fa. L’esperienza e la clinica medica possiedono validi strumenti per definire standard precisi, che a livello legislativo devono essere almeno introdotti come principio. Il terzo tema, che la politica in quanto responsabile della gestione pubblica non può dimenticare, è quello dei ”costi”. È bene qui ricordare che una sanitarizzazione di massa, così come si otterrebbe impostando l’impianto legislativo unicamente sulla “obbligatorietà delle cure”, riguarderebbe almeno 100mila cittadini italiani (ma secondo autorevoli stime questa cifra potrebbe anche raddoppiare nel corso di pochi anni). Se moltiplichiamo il costo assistenziale giornaliero medio (pur utilizzando parametri molto bassi, cioè 150 euro al giorno), per 365 giorni, per 100mila, otteniamo una cifra di spesa annua di circa 5 miliardi e mezzo di euro.
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manicomio non è pertanto ottenibile semplicemente riducendo il problema alle condizioni igienico-sanitarie e al numero dei degenti. Tra gli operatori, gli utenti e i familiari è salita la domanda di soluzioni alternative, di un cosa fare, di un come fare che sia diverso e non ricalchi le orme di un passato nefasto. La domanda è quindi se esista la possibilità di costruire quell’ipotetico percorso che possa portarci, senza traumi insostenibili, al raggiungimento di un così ambizioso obiettivo.
Per questi motivi ogni proposta che si indirizzi semplicemente verso l’istituzionalizzazione o verso la deistituzionalizzazione è destinata a fallire; anche con le nuove forme di istituzionalizzazione di cui si parla, in luoghi piccoli, puliti, con le cure e il decoro adeguati. A tale proposito è opportuno, anche in considerazione del fatto che apparentemente tutti si dichiarano contrari alla reintroduzione dei manicomi, definire esattamente cosa sia in effetti il manicomio o il modello manicomiale, poiché pare che taluni lo identifichino semplicemente con un luogo sporco e di vaste dimensioni.
La migliore definizione di manicomio è indubbiamente la seguente: «Un luogo ove persone che non hanno commesso reati, vengono tenute rinchiuse per mesi, anni o l’intera vita, perché dicono o fanno cose ritenute incomprensibili o irrazionali e dove coloro che li hanno rinchiusi affermano di averlo fatto per curarli». Possono quindi esistere manicomi grandi o piccoli, sporchi o puliti. Il superamento del
Si ritiene che sia possibile rispondere affermativamente, ma, è bene precisarlo sin d’ora, anche che tali risposte richiedono un impegno prolungato e meticoloso. Si tratta di un percorso, di un procedere verso la direzione giusta, che richiede tempo e dedizione. Esistono sul territorio nazionale vari modelli di comunità (poche purtroppo) - dal Piemonte al Friuli e sino alla Sicilia - che hanno organizzato modelli assistenziali differenti. Individuando le risorse inutilizzate (anche immobiliari) dei comuni e delle aziende sanitarie locali e scoprendo quali attività lavorative erano necessarie nella zona, hanno aperto piccole e medie aziende agricole, locande, bar, falegnamerie, laboratori di maiolica artigianale, stabilimenti di itticoltura, etc., coinvolgendo i pazienti come lavoratori in queste attività e fornendo loro un alloggio presso le sedi delle cooperative. I pazienti hanno avuto la possibilità di scegliere tra numerose sistemazioni, attività e mansioni, trovando essi stessi quanto meglio a loro si confaceva. Ci si è poi rivolti agli anziani alloggiati negli ospizi, offrendo loro la medesima possibilità; infine la stessa offerta è stata fatta ai giovani disoccupati del luogo. In questo modo si sono creati nuovi posti
di lavoro e si è evitato di creare comunità e attività ghetto (la locanda dei matti o la cascina dei malati di mente) proseguendo in un percorso di inserimento sociale, non verso l’esclusione dalla società. Le persone, pazienti, anziani, giovani, volontari, che lavorano in queste aziende guadagnano e mantengono se stessi e l’attività cooperativa, con un costo per il Servizio sanitario nazionale ridotto rispetto a quanto avveniva prima. Risultato? I trattamenti sanitari obbligatori non sono quasi più necessari, le ”crisi psicotiche” avvengono in misura drasticamente ridotta, i farmaci somministrati per controllare il comportamento sono stati diminuiti fino al 90 per cento. È compito della politica raccogliere queste esperienze, le azioni che hanno condotto a veri risultati, ben diversi dal semplice controllo sociale o dal far ”stare tranquillo” chi ci disturba. Quelle citate sono “buone prassi” certamente esportabili con successo. In questa sede è anche necessario decidere se l’utente psichiatrico è solamente un paziente, succube ed eventualmente da segregare, o se è anche un cittadino libero che cerca di risolvere i propri problemi, protagonista dei propri cambiamenti. Nel primo caso forzeremo la persona verso passività e rassegnazione (incrementando inoltre le possibilità di violenza), nel secondo verso attività, riscatto e riabilitazione. Ritengo sia opportuno perseguire la seconda scelta, che ha dimostrato di riuscire ad affrontare e risolvere i problemi sul campo e non solo in base ad un approccio ideologico.
Non è possibile assicurare che, tramite questi mezzi, tutti “ce la faranno”. Ma avremo dato a tutti la possibilità di farcela o almeno avremo fornito loro la possibilità di proseguire il loro cammino nella vita, in modo decoroso e degno di una vera società civile. Riorganizzare il sistema nazionale per la salute mentale, modificare la legge 180 e garantire il rispetto dei diritti umani degli utenti dei servizi psichiatrici, nonché quelli dei loro familiari: la politica, anzi la “biopolitica” ha dunque il dovere di accettare queste sfide senza preconcetti e lasciando da parte l’ideologia. Solo così si potrà offrire un beneficio concreto a tante famiglie che vivono il dramma della salute psichica di un proprio caro.
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La denuncia di Echo Movsvy
Politkovskaja il killer è in Belgio di Francesco Cannatà a persona sospettata di aver ucciso Anna Politkovskaja si trova in Europa occidentale. Questo è quanto ha dichiarato ieri il responsabile del gruppo investigativo presso la procura di Mosca, Aleksandr Bastrykin. Secondo fonti riportate dalla radio Echo Moskvy il Paese dove si sarebbe rifugiato il presunto omicida, Rustam Machmudov, dovrebbe essere il Belgio. Dal 1997 su Machmudov pende un mandato di cattura internazionale per «sequestro di persona» cui nei mesi scorsi è stata aggiunta anche l’ipotesi dell’omicidio della giornalista russa, assassinata nell’ottobre 2006 davanti la soglia di casa. Il vicepresidente della commissione per gli affari internazionali della Duma russa, Leonid Slutskij, ha dichiarato che il potere russo nei prossimi giorni si rivolgerà a Bruxelles per iniziare la procedura di estradizione. Slutskij ha detto che «tra Belgio e Russia esiste un accordo che regola questi casi». L’ipotesi che l’uomo si trovi in Belgio è stata confermata ieri a San Pietroburgo. Nell’ambito di un seminario russo-tedesco cui ha preso parte anche Bastrykin, il responsabile delle indagini presso la procura ha sottolineato di ritenere credibile la possibilità che l’uomo si nasconda in Belgio. Julija Latynina una delle analiste più accreditate di Echo Moskvy ha messo in evidenza che il ricercato sarebbe solo l’esecutore materiale dell’assassinio, mentre nulla ancora si sa dei possibili mandanti. Sull’affare la Novaja Gazeta, la testata per la quale lavorava Anna, ha ripetuto quanto detto in occasioni simili. Ogni volta che c’è la possibilità di catturare l’uomo la procura fa sapere ai media mondiali che gli investigatori sanno dove si trova. Il direttore della Novaja, Dimitrij Muratov, ha detto che «le regolari fughe di notizie» sul caso della giornalista uccisa, sono intollerabili. Muratov ha anche detto che il suo giornale si batterà affinché vi sia l’apertura di un’inchiesta penale, solo modo per porre fine «a questo scandalo».
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Il governo turco ha dichiarato aperta la terza fase dei colloqui fra Olmert e Assad
Israele e Siria un dialogo fra nemici di Antonio Picasso lture del Golan terzo round. Ieri il governo turco ha dichiarato aperta la terza fase dei colloqui tra Israele e Siria. Il primo passo, quello più difficile, di questa strategia coordinata dal governo di Ankara e accettata dai due Paesi mediorientali ufficialmente ancora in guerra, sarebbe il ritorno, in tutto o in parte, delle alture del Golan alla Siria. Se cosi sarà la strada verso l’accordo di pace sarebbe spalancata. L’unico ostacolo cui potrebbe arenarsi l’ambizioso disegno, è se Damasco e Gerusalemme avranno la forza sufficiente per giungere al compromesso.
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Fino a oggi i colloqui riservati tra i due Paesi si sono dimostrati produttivi. A luglio però, sia il presidente siriano Assad sia il premier israeliano Olmert avranno bisogno di qualcosa di più concreto. Aprire realmente il capitolo delle negoziazioni ufficiali e concludere il contenzioso. Le buone intenzioni delle parti non si discutono. Il fatto che finora nessuno abbia smentito l’altro è positivo. Se ciò poi si aggiunge la prevista visita quasi contemporanea in Francia di Assad e di Olmert, verso la metà del mese, si può giustamente adottare un atteggiamento di ottimismo. Cruciali i nodi da sbrogliare. La “questione Golan” infatti non è che la punta dell’iceberg di un problema tra due Paesi che mai si sono riconosciuti. Anzi, la storia del Medio Oriente è stata purtroppo scritta proprio sulla base delle tante guerre combattute tra Israele e Siria. E sessant’anni di lotta possono essere conclusi solo con il più meticoloso e paziente dei i lavori diplomatici. Per alcuni aspetti, lo sforzo maggiore è richiesto alla Siria. Damasco, infatti, se vuole tornare
ad avere le agognate alture, sarebbe costretta a rivedere buona parte della sua politica mediorientale. Ciò che le chiede Israele – con l’esplicito appoggio degli Usa e della Francia – è che rinunci all’alleanza con l’Iran e ponga fine alla collaborazione con Hezbollah e Hamas. Richieste non da poco, queste, per l’orgoglioso regime Baath. Bilanciato da parte israeliana dal “sacrificio”che per Israele comporta il dialogo con uno dei suoi più acerrimi nemici. Ed è proprio su questi due punti che le trattative potrebbero saltare. Visti dal versante siriano, i negoziati offrono lo spunto agli oppositori del regime, per accusare Assad di vendere la sua indipendenza diplomatica a Israele. E questo potrebbe indebolire ulteriormente il presidente, le cui ambizioni di
che il popolo d’Israele ha conquistato in 60 anni di storia. Non a caso lunedì, proprio alla vigilia della terza fase dei negoziati, la Knesset ha approvato una bozza di legge che prevede il ricorso al referendum nell’ipotesi che gli accordi di pace prevedano «un ritiro da zone che attualmente sono sotto giurisdizione israeliana». Il rimando a Gerusalemme Est e alle alture del Golan è lampante. Secondo la legge per ratificare un trattato di pace serve il consenso di almeno 80 dei 120 deputati israeliani. Se non venisse raggiunto il numero necessario, la parola passerebbe all’opinione pubblica israeliana, con il referendum. L’iniziativa ha una finalità ben chiara. Il governo Olmert si poggia su una maggioranza di 67 deputati. Si tratta di una maggioranza ai limiti della sopravvivenza, con la quale non si potrebbe approvare, matematicamente, il processo di pace. Il referendum, di conseguenza, sarebbe automatico. In questo caso, non è detto che l’opinione pubblica interna bocci il piano Olmert. Anzi il premier per far approvare il suo processo di pace potrebbe puntare sulla stanchezza dell’israeliano medio per le continue guerre e violenze di cui è vittima. Alla necessità irrinunciabile di sicurezza, asso nella manica di Netaniyahu, Olmert potrebbe rispondere con la carta dell’esaurimento psicologico collettivo. Gli israeliani potrebbero accettare la pace perché sono stanchi di combattere. Indicativo in questo senso, quanto detto dal Ministro della Difesa, Ehud Barak: «l’80 per cento degli israeliani è pronto a un accordo di pace», ha detto l’ex premier. Un numero che fa riflettere e ben sperare Olmert.
Damasco e Gerusalemme, guidate dalla prudente diplomazia di Ankara, devono affrontare lo scoglio delle alture del Golan e convincere Assad ad abbandonare Hezbollah, Hamas e soprattutto l’Iran modernizzare il Paese e aprire una stagione di riforme politico-economiche sono oggetto di pesanti critiche da parte di chi ha ancora nostalgia dell’intransigenza del padre, Hafez el-Assad.
Maggiori sono le difficoltà di Olmert. Il premier israeliano sta attraversando un momento delicato per la sua popolarità. Gli scandali di corruzione, la salute malferma e il processo di pace che, per alcuni, è un suicidio e, per altri, troppo lento fanno di Olmert l’anello debole della catena. L’opposizione del Likud, con l’ex premier Benjamin Netaniyahu in testa, non gli perdona le trattative con Anp e Siria,“svendendo” la terra
Analista Ce.S.I.-Centro Studi Internazionali
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Le spese di Buckingam Palace superano i 50 milioni di euro l’anno. Il più “spendaccione” è Carlo. Malumore dei sudditi
Cara Regina, ma quanto ci costi di Silvia Marchetti
d i a r i o LONDRA.
Mantenere la Regina d’Inghilterra e l’intera famiglia reale costa sempre di più ai cittadini britannici. Tra lussuose feste in giardino, ristrutturazioni faraoniche di Buckingham Palace e crociere ai Caraibi nel 2007 i membri della dinastia Windsor – dalla sovrana Elisabetta II al marito, dal principe Carlo alla consorte Camilla fino ai principini – hanno speso ben 40 milioni di sterline, 2 milioni in più rispetto al 2006. Tutti soldi a carico dei “generosi” contribuenti del Regno Unito. In questi giorni sono stati pubblicati i dati sugli stanziamenti a favore di Buckingham Palace, voce per voce. Una lista della spesa che pochi (quasi nessuno) si può permettere in Inghilterra. Stando all’Independent la parte del leone la fa il capitolo viaggi, arrivato oltre la quota di 6 milioni di sterline (600mila sterline in più del 2006). Per la visita reale in America in occasione dell’anniversario centenario della colonia di Jamestown, il governo ha sborsato 410mila sterline per l’affitto dell’aereo privato della sovrana. Inoltre, altre 33,309 sterline sono evaporate per l’organizzazione del viaggio della regina in Uganda. Ma ai frequenti spostamenti di Elisabetta II si aggiungono quelli dei suoi figli. Il “piccolo” Andrea, Duca di York, in qualità di rappresentante speciale del Regno Unito per il commercio e gli investimenti l’anno scorso ha fatto davvero il giro del mondo: è stato a Rio di Janeiro, Miami, Tokyo e Kuala Lumpur. Dopotutto, la monarchia inglese è a capo del Commonwealth, il vasto impero delle ex colonie britanniche con le quali Londra ha ancora dei forti lesoprattutto gami, economici. Ma è Carlo il vero spendaccione: ha buttato via ben 275mila per la romantica crociera di lusso che ha fatto ai Caraibi insieme Ca-
milla Parker Bowles, oggi Duchessa di Cornwall, con tanto di yacht privato in affitto. Il primogenito, come sua madre, ama viaggiare, soprattutto tra le verdi colline inglesi. I contribuenti hanno speso 40,513mila sterline per permettere a Carlo di spostarsi con il Royal Train fino a Liverpool e Amberdeen e altre 18,916 sterline per il suo tour nella contea di Cumbria, dove è an-
A farla da padrone sono i viaggi, seguono i giardini reali, le feste e i party di rappresentanza
di Buckingham (300mila sterline) e lo stipendio versato al fidato tesoriere di corte Sir Alan Reid (187mila sterline). La Regina d’Inghilterra, come sempre, giustifica i costi sostenendo che la famiglia reale ha un’immagine nazionale e internazionale da curare e non si preoccupa a chiedere più soldi. Insomma Elisabetta II, in qualità di Capo dello Stato e della Chiesa d’Inghilterra, ha spese da cui non può tirarsi indietro, per il bene dei sudditi. I suoi obblighi, per prima cosa, includono una perfetta manutenzione di Buckingham Palace. Sir Alan Reid si è detto “rammaricato” che il governo non abbia stanziato più fondi quest’anno per
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Somalia: rapiti dipendenti di Ong italiana Uomini armati hanno sequestrato ieri alle porte di Mogadiscio quattro operatori umanitari somali dell’ong italiana ”Acqua per la vita”. Il governatore della Bassa Shabelle, Abdulqadir Sheik Mohamed, ha precisato che i rapiti sono donna e tre uomini. L’associazione “Acqua per la Vita” è stata fondata da Elio Sommavilla nel 1987 con l’obiettivo di preparare giovani geologi somali a risolvere problemi somali, quali la scarsità di acqua potabile e l’alta salinità, causa prima della mortalità infantile. Dal 21 maggio sono tenuti ostaggio in Somalia anche due operatori italiani, Iolanda Occhipinti e Giuliano Paganini, e il collega somalo Abdirahman Yusuf Arale. Il 22 giugno scorso è stato rapito il direttore dell’ufficio dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) nell’area di Mogadiscio, Hassan Mohamed Ali.
Iraq, aziende accusate di corruzione Dozzine di imprese straniere sono accusate di pagamenti di tangenti verso il vecchio governo di Saddam Hussein. Il valore della corruzione si aggira attorno ai dieci miliardi di dollari. L’accusa, arrivata lunedì mattina in una corte federale Usa, vede sul banco degli imputati il famigerato programma di aiuti dell’Onu, «Oil for food», dal quale sarebbero stati stornati miliardi di dollari. Tra le aziende sotto processo ci sarebbero, il colosso petrolifero Chevron, la banca francese Bpn e l’industria farmaceutica svizzera Roche. Se ciò fosse confermato si tratterebbe della più grande truffa nella storia dell’umanità. Secondo una inchiesta Onu, nello scandalo sarebbero coinvolte 2200 aziende di 66 paesi.
Zimbabwe a occidentali: impiccatevi!
dato a promuovere il rilancio delle comunità rurali. D’altronde non è un mistero che la passione ambientalista e biologica del principe d’Inghilterra abbia un costo elevato per la comunità. Gli impianti di risparmio energetico fatti installare a Buckingham Palace sono costati 300mila sterline.
Dopo i viaggi, come voce di spesa maggiore ci sono i giardini reali di Buckingham Palace: 900mila sterline per il mantenimento e altre 700mila per l’organizzazione dei party, eventi esclusivi per l’alta società aristocratica inglese. Altri capitoli di spesa riguardano la consulenza legale fornita ai Windsor, tra cui quella riguardante l’inchiesta sulla morte di Lady Diana (200mila sterline), il restyling delle vetrate del castello
il restyling delle regge monarchiche, intervento che peserà sulle casse pubbliche per 32milioni di sterline. Il governo, tuttavia, ha già annunciato che per i prossimi tre anni non devolverà più di 15milioni.
Il tesoriere sostiene che negli ultimi 55 anni del regno elisabettiano molte stanze non sono mai state ristrutturate. E poi, si chiede, cosa mai saranno 66 pence a cittadino quando si tratta di assicurare lunga vita a Sua Maestà? Sta di fatto che gran parte dei sudditi non la vede così e s’infittiscono (a ogni pubblicazione delle spese reali), le fila degli anti-monarchici. Il fronte “Republic”, che vuole un sovrano democraticamente eletto, sottolinea che se alle spese dirette della famiglia Windsor si aggiungono anche quelle “indirette”delle forze di polizie addette alla sicurezza il costo pubblico lieviterebbe a 150milioni di sterline. Il portavoce Graham Smith chiede al governo di dare alla regina uno “stipendio fisso” e di fissare dei paletti per gli stanziamenti a favore della monarchia.
Dopo aver truccato i risultati elettorali, il presidente in carica dello Zimbabwe rifiuta ogni soluzione che permetterebbe al Paese africano di uscire da una crisi molto pericolosa. L’ipotesi della Ua, suddivisione del potere con il leader dell’opposizione Morgan Tsvangirai, è stata respinta da Mugabe. Charles Charamba, portavoce del dittatore, ha reagito al fuoco delle critiche dei Paesi occidentali con un: «Che vadano a impiccarsi mille volte..non hanno alcun diritto sulla politica dello Zimbabwe». Nel frattempo Tsvangirai ha abbandonato l’ambasciata olandese di Harare dove nei giorni scorsi aveva trovato rifugio. Il ministro degli esteri olandese ha detto che in caso di necessità i locali della rappresentanza diplomatica di Amsterdam sono a disposizione dell’ex sindacalista.
A vent’anni dal crollo della Ddr Tra poco si compiranno vent’anni dal crollo della Ddr, ma l’ex Germania comunista rappresenta ancora una questione irrisolta per le autorità di Berlino. Tutti i vecchi Laender tedeschi godono di uno status speciale. Lunedì ad Halle il presidium della Cdu ha deciso un programma in dieci punti per lo sviluppo delle zone depresse dell’est tedesco. Il piano prevede la prosecuzione degli incentivi agli investimenti e dei finanziamenti regionali fino al 2013. I due provvedimenti economici comportano un budget di spesa pari a 1 miliardo e 100 milioni di euro, tutti coperti da prelievi fiscali. Il progetto dovrà essere approvato al congresso del partito democristiano previsto per il prossimo autunno.
Immigrati, Mercosur accusa la Ue I Paesi del Sudamerica accusano senza mezzi termini di xenofobia le nuove misure sull’immigrazione decise dalla Ue. I presidenti dei Paesi aderenti al mercato comune, il Mercosur, riuniti ieri a Tucuman in Argentina, hanno in programma una dichirazione comune contro l’ipotesi di arresto ed incarcerazione per gli immigrati clandestini, approvata dall’europarlamento. Il presidente brasiliano Lula ha definito le norme in preparazione, il «vento freddo della xenofobia europea».
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Occidente
Ha riorganizzato l’esercito, rivoluzionato il Pentagono e dato slancio alla lotta al terrorismo. Ma rischia di passare alla storia come il nuovo McNamara. La coraggiosa tesi di uno dei massimi esperti militari statunitensi
RIABILITARE
RUMSFELD di Robert D. Kaplan
onald Rumsfeld, lottatore dilettante e pilota militare, ha sempre visto il mondo come qualcosa di piegabile alla sua volontà. La sua precoce carriera è stata un trionfo: quattro volte membro del Congresso tra i 30 e i 40 anni, direttore dell’Ufficio presidenziale delle opportunità economiche, ambasciatore presso la Nato. Durante la presidenza di Gerald R. Ford diventa, all’età di 43 anni, il più giovane segretario alla Difesa di sempre. Sovrintende alla trasformazione dell’esercito, ora interamente composto da volontari, e combatte per ottenere maggiori fondi per la Difesa in modo da ristabilire il primato strategico nei confronti dell’Unione Sovietica. L’oscuro maestro in persona, Richard Nixon, lo definisce «uno spietato, piccolo bastardo». Se Franklin Delano Roosevelt possedeva, come diceva Oliver Wendell Holmes jr., «un intelletto di seconda classe ma un temperamento di prima», Rumsfeld è stato un uomo con un intelletto di prima ma un temperamento di terza. Il suo carattere gli ha creato pessime relazioni con il Congresso ed ha provocato la cosiddetta Rivolta dei Generali del 2006, quando una mezza dozzina di alti funzionari in pensione chiesero le sue dimissioni. «L’uomo è abile ad ignorare qualsiasi opposizione ed ha una sorprendente capacità nel non ascoltare gli esperti», ha detto di lui il generale dell’Esercito Barry McCaffrey, che sostiene di ammirarne il patriottismo, la sua feroce intelligenza e il suo formidabile fascino. «Ma dare ascolto agli esperti - aggiunge McCaffrey è ciò che ha salvato la carriera di molti alti funzionari non altrettanto intelligenti». Durante gli anni di Clinton, i militari ottengono troppo potere rispetto alla leadership civile, sfruttando abilmente il mancato servizio militare del presidente per ottenere tale risultato. Rumsfeld, una volta fautore del primato civile, passa da un eccesso all’altro. Il metodo della “distruzione creativa” - un’eredità dei suoi anni nel mondo aziendale - era semplicemente troppo per un’istituzione statica e chiusa come il Pentagono. «Rumsfeld era più efficiente come critico del Pentagono che come suo capo», sostiene Richard J. Danzig, segretario della Marina di epoca clintoniana ed attualmente consi-
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gliere di Barak Obama. Un critico vede i problemi, un capo crea consenso. Una vignetta del 2006 definisce Rumsfeld «in errore su tutto». Ma non è così. Ho parlato di Rumsfeld con più di 24 esperti di difesa, repubblicani e democratici, simili tra loro perché di orientamento moderato, molti dei quali con esperienza di governo e le loro impressioni sono molto più misurate di quanto l’immagine di Rumsfeld nei media lascerebbe supporre. Due volte, nel 2002 e nel 2006, gli ho espresso le mie preoccupazioni riguardo l’Iraq, ma quando l’ho cercato un anno fa non ha voluto incontrarmi. Per questo pezzo ha fornito alcuni dati e, occasionalmente, qualche ambigua risposta scritta alle mie domande. Grazie alla sua lunga carriera e al suo personale dinamismo, Rumsfeld ha avuto un’influenza che andrà ben oltre l’Iraq.
La comprensione del pericolo Anche prima dell’11 settembre 2001, Rumsfeld vedeva attorno a sé una situazione di palese incertezza, di evidente e catastrofica sorpresa. Se si considerano le conclusioni tracciate nel 1988 dalla Commissione per la valutazione della minaccia missilistica agli Stati Uniti, che presiedeva e che aveva tra i suoi membri Paul D. Wolfowitz, essa era in aumento; la capacità dei servizi segreti di contenerla stava diminuendo; gli Stati Uniti «potevano avere poco o nullo preavviso prima dell’evento». Non sorprende dunque il fatto che questa minaccia e la necessità di contenerla surclassasse la lista delle preoccupazioni di Rumsfeld quando tornò, nel gennaio 2001, al Pentagono. Così accellerò lo sviluppo del sistema difensivo: agli inizi del 2008 c’erano 24 intercettatori in basi sotterranee in Alaska e California e 25 a bordo di navi nel Pacifico. Per quanto ancora infallibile, questo sistema era (ed è) anche il più costoso per il bilancio del Pentagono, al pari del programma R&D, e i soldi spesi nei missili sarebbero stati usati meglio per contenere minacce nucleari più immediate, come le bombe sporche e il contrabbando di uranio arricchito. Tuttavia le capacità di sistema sono state migliorate e altresì la parziale difesa missilistica darà più potere e libertà d’azione all’America nelle trattative con gli avversari. Non solo: Rumsfeld voleva farla finita con il venerato assunto della deterrenza della guerra fredda ed era vivamente concentrato a cambiare la mentalità del Pentagono, catturata dalla cosiddetta dottrina Powell. Quando Rumsfeld era Segretario della Difesa negli anni Settanta, Colin Powell era un colonnello dell’esercito. Quando Rumsfeld torna al Pentagono, un quarto di secolo dopo, il marchio “Powell”è su tutta la costruzione. Powell era favorevole ad importanti operazioni militari convenzionali con
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un inizio, una fase intermedia e una fine, da adottarsi solo quando un interesse vitale della nazione fosse stato minacciato. La sua dottrina vedeva le forze armate come un bene nazionale prezioso che i “civili sciocchi” non dovevano poter schierare troppo facilmente. Rumsfeld si preoccupò invece del fatto che il mondo fosse troppo disordinato, troppo “liquido”– con crisi pronte a passare da una regione all’altra - per poter assicurare la difesa Usa in maniera graniticamente predeterminata. Certo, violando vari aspetti della dottrina Powell in Iraq, Rumsfeld e i suoi subordinati hanno presumibilmente dimostrato di essere loro gli “sciocchi civili”, ma la dottrina Powell non è perfetta. Il Kuwait è stato saccheggiato nel 1990 mentre Powell trascorreva mesi in Arabia Saudita per organizzare le forze, e la sua dottrina, apparentemente giustificata, ignorava i Balcani degli anni Novanta. La stabilizzazione della ex Jugoslavia e l’espansione della Nato nel Mar Nero indicano che gli interventi nei Balcani erano di interesse nazionale. «Qual è il vantaggio di avere queste superbe forze armate di cui parli sempre, se non possiamo usarle?» ha chiesto il futuro ambasciatore all’Onu Madeleine Albright al futuro presidente dell’Unione dei capi dello Stato Maggiore Powell nel 1993. Nonostante le divergenze con la Albright, Rumsfeld pensava la stessa cosa. Per lui, le truppe statunitensi dislocate in qualsiasi parte del mondo avrebbero dovuto essere pronte a dispiegarsi in una diversa con il minimo preavviso, per combattere o assicurare rifornimenti. Da qui la sua fissazione per il cambiamento dell’atteggiamento globale delle forze armate e l’avvio della loro trasformazione. Queste idee avevano trovato terreno fertile già nel corso dell’amministrazione Clinton, ma si deve a Rumsfeld l’averle portate a termine. A metà degli anni Ottanta, gli Stati Uniti avevano una serie di basi - più o meno grandi - dislocate in Europa ed Estremo Oriente, con 250mila persone in Germania ovest e 125mila nell’Asia Orientale. Dall’11 settembre, a causa di un processo cominciato con le amministrazioni George Bush e Clinton, questi numeri sono scesi a 118mila in Europa e 89mila nell’Asia Orientale. Rumsfeld non era soddisfatto. L’Afghanistan e l’Iraq hanno dimostrato fondate le sue preoccupazioni. Nel 2003, per esempio, l’Austria proibì l’uso del suo spazio aereo e negò agli Stati Uniti qualsiasi permesso di transito in rotta per l’Iraq. Per questo, dal 2004 il Pentagono ha reso noti i piani per portare a casa altri 70mila soldati da quelle guarnigioni, avendo deciso di espandere una rete di siti in Asia, Africa, Medioriente e America Latina a sostegno di forze non permanenti. Basi punto diverse da quelle della Guerra fredda: niente mogli/mariti dei soldati, niente bambini, niente centri ricreativi, niente cani e niente chiese. Una presenza più snella potrebbe rivelarsi di minore ostacolo alle relazioni bilaterali; il numero di accordi con i Paesi che ospitano tali forze sono raddoppiati dalla fine della Guerra fredda fino alla fine del mandato di Rumsfeld, passando da 45 a più di 90, e
ostaggi in Iran. Con la legge, i comandi diventavano unificati e un capo rappresentava tutti i servizi; in tal modo, i comandi di area erano diventati gli elementi burocratici più potenti del sistema militare, con la facoltà di dichiarare guerra. Rumsfeld tentò di interrompere tale catena nominando un ammiraglio della Marina a capo dell’esercito nel Sud, cercando di mettere un generale di Aviazione a capo della flotta navale del Pacifico meridionale, e così via. Dedicò molto tempo ad analizzare i tracciati sulle mappe per capire dove terminasse, ad esempio, il Comando centrale e iniziasse quello del Pacifico. Come avrebbe gestito il Pentagono questo cambiamento? Rumsfeld decise di cambiare l’intera struttura riducendo il potere dei comandi di area e rafforzando quello dei comandi centrali; così il Comando delle Forze Unite ebbe l’incarico di avallare la rotazione delle truppe da un’area all’altra. Il Comando dei trasporti assunse il controllo dei comandi addetti alle opere di recupero navali e aeree e il rifornimento dei materiali richiesti sul fronte di battaglia; il Comando Strategico assunse il controllo dello spazio, della guerra cibernetica, dello spionaggio e della difesa missilistica; il Comando delle Operazioni speciali assunse il controllo del contrasto ad al-Qaeda e si trasformò da semplice forza armata a comando di combattimento talmente efficiente da poter operare autonomamente in qualsiasi luogo. Alcune parti del mondo non erano affidate a controlli quando Rumsfeld assunse il comando, così le assegnò lui: creò il Comando del Nord per la difesa degli Stati Uniti continentali, inclusi Canada e Messico; assegnò la Russia al Comando Europeo e l’Antartico al Comando del Pacifico e all’interno del comando Europeo - che era responsabile per una gran parte dell’Africa - creò il Comando Africa, un innovativo e rivoluzionario strumento burocratico che comprendeva altre agenzie come il Dipartimento di Stato e si occupava di programmi bilaterali diretti e indiretti di formazione e di programmi umanitari nelle zone dei combattimenti. Anche se queste decisioni sembrano oggi ovvie, non lo erano nel momento in cui Rumsfeld le prese.
La strategia orientale In senso lato, Rumsfeld spostò il peso del potere militare dall’Europa all’Asia. Egli temeva che, come in Europa, la considerevole presenza Usa nella Corea del Sud e nel Giappone, oltre all’eredità della guerra di Corea e della Seconda guerra mondiale, potesse dare origine a dipendenze non salutari. Comunicò dunque al governo antiamericano di Seul la sua decisione di riposizionare le truppe o lasciare il Paese. Questo rischioso gioco d’azzardo provocò lunghe trattative utili a un successo decisivo: la permanenza a tempo indeterminato delle truppe americane in Corea. e l’accettazione del controllo delle forze alleate in caso di guerra. Rumsfeld ha poi assunto un ruolo guida nella rivitalizzazione delle relazioni militari fra Stati Uniti e Giappone culminato con l’acettazione da parte giapponese di spendere miliardi di dollari per difendersi dai missili balistici nordcoreani e per ospitare il primo gruppo di portaerei da combattimento a propulsione nucleare da dispiegare in posizione avanzata all’estero. Un lavoro da certosino per Rumsfeld: spostare stormi di portaerei da Atsugi, da dove i giapponesi volevano che se ne andassero, a caserme ed alloggiamenti più spaziosi ad Iwakuni. La Stazione aeronautica del Corpo dei marines a Futenma, in una zona particolarmente congestionata di Okinawa ed obiettivo dell’odio giapponese nei confronti dei militari americani, sarebbe stata ricollocata a Naga, in una zona meno popolosa a nord della città. Al contempo, la presenza dei marines ad Okinawa venne ridotta da 18 a 10mila uomini, in modo da dislocare 8mila unità (a spese del Giappone) a Guam, che Rumsfeld stava rafforzando ed equipaggiando di sottomarini, aerocisterne, caccia, bombardieri, e via dicendo. Sebbene l’amministrazione Clinton avesse già iniziato ad ampliare le strutture a Guam, questo è un altro esempio in cui l’intervento di Rumsfeld si è rivelato di vitale importanza per accelerare i tempi del cambiamento. Anche le Filippine sono state uno dei principali obiettivi di Rumsfeld per ridefinire la strategia americana in Asia, la cui importanza è stata sottovalutata. Nel 2002, le Forze operative speciali degli Stati Uniti si sono unite ai militari filippini per ripulire il sud del Paese dai terroristi islamici legati ad al-Qaeda. L’operazione sull’isola strategica di Basilan ha avuto successo e nel 2005 è stata estesa all’isola di Jolo. I militari americani, in special modo le Forze speciali dell’esercito, hanno addestrato i filippini, hanno contribuito a raccogliere informazioni ed hanno effettuato operazioni di aiuto umanitario, anche se sono stati effettivamente i filippini ad impegnarsi nei combattimenti.
Era dai tempi di Napoleone che non si ristrutturava la forza militare in maniera così radicale l’aviazione militare ha firmato più di 20 accordi energetici con i Paesi dell’Africa mentre Rumsfeld era Segretario della Difesa. Si può contro-argomentare che le truppe sono necessarie non solo per combattere, ma anche per dimostrare volontà politica. Come mi ha detto un ex ufficiale democratico della Difesa, «bisogna dimostrare ai russi che la Nato conta ancora», e questo significa dislocare truppe in Europa. McCaffrey, in particolare, ha disapprovato la volontà di Rumsfeld di ridurre ulteriormente il numero di soldati in Germania, notando che le truppe americane presenti lì non solo sono importanti per i polacchi e gli altri europei dell’est minacciati dalla Russia, ma sono anche più vicine al Medioriente di quanto sarebbero se tornassero nella “fortezza America”.
Una nuova struttura di comando Un mondo in cui gli eserciti devono attraversare regioni o emisferi per giungere sul luogo del conflitto richiede una struttura di comando unificata. Rumsfeld non amava il potere dei comandanti in capo su base geografica e il fatto che essi ritenessero di essere i “proprietari” delle truppe. I comandi di area avevano ottenuto nuovi poteri nel 1986 grazie alla legge Goldwater-Nichols, che aveva l’obiettivo di ridurre le rivalità tra servizi diversi esplose al tempo della guerra in Vietnam e al tentativo fallito di liberare gli
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segue da pagina 13 Rumsfeld ha utilizzato il sotegno filippino per un piano volto a dispiegare gruppi di portaerei da combattimento nel Pacifico piuttosto che tenerli sottocosta negli Stati Uniti. Ha concluso un accordo quadro strategico con Singapore ed ha deliberatamente svolto un grosso ruolo nel riavvicinamento fra Stati Uniti e l’India subito dopo la conclusione della Guerra fredda. Alla fine di questo decennio, proprio mentre emerge a livello mondiale una nuova, più flessibile, austera ed estesa costellazione di basi, sostenuta da una struttura di comando maggiormente controllata a livello centralizzato, le tormentate relazioni con importanti alleati asiatici si vanno man mano ricucendo. Questi sviluppi, agli occhi di Rumsfeld, avrebbero aiutato gli Stati Uniti a reagire più rapidamente alle circostanze impreviste, a proseguire la guerra al terrorismo ed a proteggersi da una crescente forza militare cinese senza provocarla inutilmente. Ogni nuova amministrazione dovrà fare i conti con questa eredità di Rumsfeld, ridefinendola o adattandola alle proprie necessità, ma non rifiutandola. In una nota a me inviata, Rumsfeld ha definito queste decisioni «dure, talvolta criticate e persino condannate, ma necessarie e, ritengo, durature».
re dell’esercito Eric Shinseki. L’allora Governatore George W. Bush, in un discorso del 1999 alla Cittadella (l’Accademia militare di Charleston, in Carolina del Sud), parlò di «una rivoluzione nella tecnologia bellica» e della necessità di avere forze «agili, letali, pronte ad essere dispiegate e che necessitino di un minimo sostegno logistico». Rumsfeld sarebbe stato associato alla trasformazione, sebbene essa non fosse effettivamente parte integrante della sua agenda originaria come, al contrario, la difesa missilistica. Per quanto riguarda la trasformazione, Rumsfeld mi scrisse che il suo team «aveva posto in particolar modo l’accento sull’importanza di strutture più orizzontali e decentrate che condividessero e facessero leva sulle informazioni necessarie per un processo decisionale efficace e tempestivo, rispetto ai tentennamenti burocratici che avevano dominato le istituzioni di sicurezza nazionale degli Stati Uniti durante la Guerra fredda». Eppure si potrebbe sostenere che buona parte della trasformazione che si è verificata con Rumsfeld sia stata il risultato della debilitante guerra in Iraq, che ha costretto il Pentagono, e l’esercito in particolare, a cambiare enormemente, con modalità che nessun ministro
Una vera trasformazione Perchè, sotto molti punti di vista, Rumsfeld si è rivelato più astuto nel trattare con la Corea ed il Giappone di quanto non abbia fatto con l’Iraq? Ironia della sorte, la difficile situazione che Rumsfeld ha contribuito a creare in Medio Oriente ha avuto anche l’effetto di trasformare queste relazioni asiatiche – una volta integre ed inviolate – in questioni di secondo piano aperte alla possibilità di essere rinegoziate. Rumsfeld ha avuto inoltre un accesso più immediato alle competenze di area. Egli stesso è stato un aficionado del Giappone sin dai primi anni ’60, una passione che gli derivava dal fatto di aver avuto un padre a bordo di una portaerei nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. Nel complesso, grazie alla quasi cinquantennale presenza di così tante truppe americane in Corea ed in Giappone, coloro che sedevano al tavolo dell’ E-Ring - il cosiddetto anello E del Pentagono dove vengono svolti i lavori più delicati sapevano di che cosa si parlava quando si trattava di questioni relative all’Estremo Oriente. La stessa cosa non si poteva dire per il mondo musulmano. Ma c’è un altro fattore da considerare: l’idea alla base della visione del mondo militare e Pacifico-centrica che Rumsfeld
della Difesa avrebbe potuto gestire da solo.Tuttavia, Rumsfeld ha esercitato pressioni per conseguire uno dei più significativi cambiamenti nell’organizzazione dell’esercito dall’era Napoleonica, modificando l’unità di manovra centrale e le squadre da combattimento, dalle divisioni alle brigate. La trasformazione, secondo Rumsfeld, verteva principalmente sui cambiamenti non in tema di strutturazione delle forze, ma di modalità di combattimento. L’ Exhibit A era l’Afghanistan, dove, come scrisse in un articolo del 2002 su Foreign Affairs, «il XIX secolo incontrava il XXI secolo», dato che le Forze speciali dell’esercito e le truppe della Cia si coordinavano con gli operatori speciali dell’Aeronautica in tema di attacchi di precisione. In verità, Rumsfeld fu uno strenuo sostenitore delle Forze operative speciali (Special Operations Forces Sof). Contro il parere della Marina e superando le sue resistenze, si adoperò per ammodernare i sottomarini con missili balistici ed equipaggiarli con i minisommergibili SEAL per le operazioni subacquee (Sdv) al posto delle testate nucleari Trident, per facilitare l’atterraggio degli operatori speciali sulle teste di ponte o di sbarco. Con il sostegno del Congresso, ottenne il raddoppio del bilancio per le Sof, da 3,5 a 7 miliardi di dollari: questo prova che non è necessariamente sbagliato tutto ciò in cui crede Donald Rumsfeld. Eppure le Sof avevano una duplice tradizione: un’azione diretta (da combattimento) ed un’impostazione da addestramento più soft, stile “abbraccia il tuo fratello indigeno”. Nei suoi primi anni da ministro della Difesa, Rumsfeld era più interessato all’azione diretta. Riteneva che al-Qaeda giustificasse una caccia all’uomo a livello mondiale e poco altro. Soltanto in un fase successiva, dopo che ebbe la punizione che si meritava in Iraq, e come
La tragedia della sua carriera non è l’Iraq, ma l’11 settembre, che non è riuscito ad evitare aveva e che la sua rete di scali per il rifornimento doveva applicare, era che le forze americane dovessero essere leggere e letali, per reagire rapidamente senza radicarsi in alcun luogo. Una lunga occupazione dell’Iraq non rientrava in questa strategia. Piuttosto che preoccuparsi in modo costruttivo dell’Iraq e farsi carico della politica in quel Paese, ha cambiato spesso idea adottando un comportamento ambivalente. Tutti i cambiamenti apportati da Rumsfeld alla presenza militare degli Stati Uniti all’estero devono essere considerati nel più vasto tentativo di trasformare le forze militari in una forza da combattimento. La trasformazione, in particolare dell’esercito, iniziò negli anni ’90 con l’amministrazione democratica e con il capo di Stato maggio-
confermato dalla Quadrennial Defense Review 2006, si convinse che con un nemico imprevedibile – che era facile da uccidere ma difficile da localizzare — bisognava comprendere la lingua e la cultura locali e creare legami con la popolazione indigena. Durante il suo mandato, il numero di militari che parlavano l’arabo crebbe del 30 percento; quelli che parlavano farsi del 50 percento; quelli che parlavano urdu del 76 percento e quelli che parlavano cinese del 57 percento. Ma queste cifre sembrano impressionanti solo perché i numeri di partenza erano molto bassi. Ad esempio, prima dell’11 settembre coloro che parlavano arabo erano 4.384, ma soltanto 5.703 nel 2005. Basti pensare che gli ispanofoni sono 92.852 ed i francofoni 14.097. I futuri ministri della Difesa dovranno fare di meglio.
Il prezzo di aver ragione a metà La vera tragedia della carriera di Rumsfeld potrebbe essere stata non tanto il fatto di non aver previsto l’occupazione dell’Iraq, quanto l’attacco dell’11 settembre. Il 10 settembre 2001 Rumsfeld fece un discorso che strigliava e stroncava la burocrazia del Pentagono, sua principale preoccupazione. Era così deluso e frustrato a causa del ritmo lentissimo dei progressi registrati fino a quel punto che non è chiaro se sarebbe rimasto al suo posto senza l’attacco alle Torri gemelle. «Sapete perché Rumsfeld scelse Wolfowitz come suo vice?» si chiede un ex- funzionario repubblicano della Difesa: «Perché Rumsfeld si preoccupava più dell’organizzazione che della politica ed aveva bisogno di un alter ego per gestire gli affari politici. Rumsfeld intendeva essere il suo braccio operativo». Dopo l’11 settembre la gestione ritornò per lo più nelle mani di Wolfowitz, man mano che Rumsfeld iniziava a concentrarsi sempre più sulla “Guerra globale al terrorismo.” È noto il fatto che a Washington si sostenesse che Wolfowitz, in quanto accademico, non avesse esperienza di gestione – il che, tuttavia, è soltanto una versione parziale della verità. Non era soltanto un accademico: era stato rettore universitario, vice-segretario di Stato responsabile dell’Asia orientale, sottosegretario alla Difesa per gli affari politici ed ambasciatore in Indonesia. Wolfowitz può anche essere stato un pessimo manager, ma nel suo curriculum vitae non se ne trovano molte tracce. In tema di gestione, Rumsfeld è stato talvolta il suo peggior nemico, allontanando, piuttosto che concentrando, l’attenzione della burocrazia, con le sue famose note ed appunti, ironicamente definiti “fiocchi di neve”. Ma Rumsfeld non fece eccezione fra i ministri che indulgevano a parole sulla necessità di prestare attenzione ai bilanci, anche se massicci eccessi di spesa ed un bilancio per la difesa in costante aumento furono le caratteristiche del suo mandato. Secondo il suo revisore dei conti, il comptroller Dov S. Zakheim, Rumsfeld ha ridotto i più di 3 milioni di miliardi di dollari di transazioni impropriamente registrate e non certificate del Pentagono a qualche centinaia di miliardi. Ha creato una sorta di Consiglio d’amministrazione per la Difesa e riformato il sistema del personale operante nel settore della sicurezza nazionale introducendo criteri meritocratici. Spesso si parla di Rumsfeld con lo stesso giudizio negativo con il quale si parla del ministro della Difesa dell’epoca della guerra del Vietnam, Robert S. McNamara. Zakheim ed altri con i quali ho parlato hanno elaborato un’associazione di idee positiva: McNamara fallì in Vietnam, ma riuscì ad elaborare un sistema di pianificazione, programmazione e bilancio che è durato 40 anni. Il tempo ci dirà se Rumsfeld abbia compiuto o meno qualcosa di simile. Inoltre, Rumsfeld può anche aver avuto ragione su altri aspetti: ridurre l’enfasi posta sulle armi nucleari dando al Comando strategico una capacità convenzionale e ri-
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Pagina 12: Donald Rumsfeld e l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre; in queste pagine: l’arrivo di una colonna di tank Usa a Baghdad, il Pentagono e le foto di Paul Wolfowitz, ex vice di “Rummy” alla Difesa e Colin Powell, la cui dottrina venne interamente ridisegnata da Rumsfeld, unico segretario alla Difesa ad aver servito il Pentagono per due mandati non consecutivi, con Ford e con G.W. Bush
ducendo notevolmente gli arsenali nucleari; nominare un sottosegretario responsabile dei servizi e dell’intelligence per rendere meno problematiche le relazioni con la comunità civile responsabile degli stessi temi; sviluppare la nave da combattimento litoraneo, seppur eccessivamente costosa, quale prima fase di una forza navale per la controguerriglia; porre fine al programma Crusa-
tlantico, situato a Norfolk, con un comando alleato per la trasformazione. Su alcuni di questi temi, ha ottenuto notevole aiuto dal tanto vituperato Wolfowitz. Anche la lista degli errori di Rumsfeld è bella lunga, meglio conosciuta, e storicamente più consequenziale. Ad esempio, la sua decisione di andare più o meno da solo in Afghanistan nel 2001 aveva un senso strettamente militare ma non politico. Il fatto di non aver dato alla Nato, sin dall’inizio, un grande ruolo ha fatto sì che molti membri dell’Alleanza avessero ben poco interesse nell’esito dell’operazione, una dinamica che continua ad ostacolare lo svolgimento della guerra. Il suo utilizzo di mercenari, i cosiddetti private contractor in Iraq, aveva un senso al fine di creare efficienza nelle retroguardie, ma dato che la guerra in Iraq era una guerra di tipo irregolare, questi ultimi si sono ritrovati nel bel mezzo del combattimento. Gli abusi perpetrati sui prigionieri ad Abu Ghraib si sono rivelati un abietto fallimento della catena di comando che risale fino al ministro della Difesa, il quale deve esserne ritenuto responsabile. Rumsfeld ha ottenuto un certo riscatto nella Quadrennial Defense Review 2006. Il concetto della “lunga guer-
Nessun successo in Medioriente cambierà la sua immagine, ma la sua eredità è indiscussa der per il sistema d’artiglieria ed utilizzare i fondi per la ricerca in tema di razzi di precisione e mortai per l’Esercito; incoraggiare i marines a fornire molti battaglioni al Comando operativo speciale; contribuire a far espandere la Nato ad est ed accelerare il cambiamento in seno alla Nato stessa, nominando il Generale dei marines, James Jones, per gestire l’organizzazione esercito-centrica, cercando di creare una forza di reazione rapida della Nato e di sostituire il comando alleato supremo per l’A-
libri e riviste
dagli anni Novanta che la Cina è a caccia di materie prime in giro per il mondo per sostenere la sua spettacolare crescita. Ma sembra aver puntato in particolare sul Continente nero. Nel 2006 le importazioni di petrolio dall’Angola avevano superato quelle dall’Arabia Saudita. Lo Stato africano era diventato il maggior fornitore di greggio di Pechino. Nell’agenda cinese c’è: comprare risorse, girando la testa sulle violazioni dei diritti umani dei regimi amici. Alden registra però un primo cambiamento, soprattutto per il Sudan e per alcune reazioni alla loro invasione commerciale. Zambia e Sud africa hanno subito dei danni in campo occupazionale a causa dell’importazioni cinesi. Molte critiche ha sollevato la gestione delle minie-
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re nello Zambia. Il basso profilo politico di Pechino, che acquista senza intromettersi negli affari interni dei Paesi, sembra mostrare la corda, spinto da una serie d’istanze d’ordine internazionale e interne dell’Africa. C’è anche un lato oscuro di questo commercio. Con le grandi aziende di Stato sono arrivate anche le piccole e medie imprese, aiutate dalle autorità delle province del Fujian e del Zhejiang, che stanno incoraggiando l’emigrazione in Africa, coniando una nuova forma di colonialismo dal basso. Chris Alden China in Africa Zed Books 154 pagine – 19,50 euro
ra” elaborata nel QDR non è stato tanto un segno dell’atteggiamento guerrafondaio di Rumsfeld quanto piuttosto della tardiva consapevolezza che l’impostazione indiretta, esemplificata dalla strategia nelle Filippine, mostrava una via per il futuro. Come sostiene la QDR, «Gli sforzi compiuti nei cinque continenti dimostrano l’importanza di riuscire ad operare con e tramite partner [locali], di operare clandestinamente e di sostenere una presenza costante, ma di scarsa visibilità e profilo». Non solo: QDR ha riconosciuto anche la necessità di operazioni di stabilizzazione o di costruzione della nazione. Essa segna un notevole cambiamento di rotta rispetto al Rumsfeld che, all’inizio del suo mandato, non poteva aspettare a ritirare le truppe dalle missioni di pace nei Balcani. Ecco perché, alla fine, Donald Rumsfeld ha avuto ragione. Ma come sostiene Richard Shultz Jr. della Fletcher School, il fatto di avere avuto per troppi anni soltanto parzialmente ragione in tema di strategia operativa è costato a troppi iracheni, afghani ed americani indicibili sofferenze. Nessun miglioramento in Iraq ed Afghanistan confuterà questo verdetto. Per quanto riguarda il resto, gli sviluppi che si verificheranno in futuro in Asia, Africa ed Europa ci diranno molto di più sull’eredità che Rumsfeld lascia: un’eredità che, ironia della sorte, può dare ai futuri segretari di Stato molti più strumenti di quanti necessitino per intervenire con scopi umanitari.
ent’anni dopo essere diventata l’unica superpotenza, la politica Usa avrebbe abbandonato ogni strumento di governo diplomatico, facendo affidamento quasi totalmente sulla potenza militare. Sono queste le tesi del direttore del Centro studi economici Usa-Giappone della NY University. L’accusa è anche quella di aver abbandonato il governo dell’economia mondiale basato sul consenso e la cooperazione. Oggi che l’interdipendenza economica globale grida la sua esistenza, servirebbe guardare più al portafoglio che al fucile. Edward J. Lincoln Winners without Losers Cornell University Press 256 pagine – 27,95 dollari
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erché prezzi alle stelle e scarsità di cibo? Risponde l’autore convinto che la crescita d’una classe media, in India e Cina, con gusti ed esigenze alimentari simili ai nostri, siano parte in causa del caro-cibo. Proprio in quest’area la domanda di latte e dolci sarebbe aumentata esponenzialmente. Solo quella di carne, del 40 per cento negli ultimi 15 anni, secondo le stime di Goldman Sachs. Sono circa cento milioni le persone scaraventate da questa dinamica dei prezzi verso la soglia di povertà e si allarga sempre di più il fronte internazionale a favore delle barriere doganali. Anche negli Usa, dove il Nafta è messo sotto la lente d’ingrandimento. Strauss-Kahn, presidente del Fondo monetario internazionale invece ammonisce: «tutti gli Stati sfamano i propri cittadini grazie al libero commercio». Mark C. Partridge The Global Food Crisis Diplomatic Courier – Summer 2008
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a cura di Pierre Chiartano
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economia A sinistra Robert Rubin, presidente del Comitato esecutivo di Citigroup. A destra Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia
ROMA. Superare la crisi finanziaria e l’onda di sfiducia per evitare – come paventa Mario Draghi – «che i governi riscoprano il valore di formule protezionistiche», considerando «la libertà dei commerci un rischio e il protezionismo stesso un ristoro». L’alleanza tra le due sponde dell’Atlantico può rinascere su queste basi. Se ne è parlato ieri a Roma, in una conferenza dedicata ai rapporti tra Usa e Europa, organizzata dall’Aspen e dal Council for the United States and Italy e dedicata a Gianni Agnelli, trait d’union fra Italia e America. Se l’obiettivo è la stabilità dei mercati finanziari, il mezzo è, usando le parole del governatore di Bankitalia, «garantire regole uguali per tutti». «Non abbiamo ancora raggiunto un accordo su Basilea II al Congresso», gli ha fatto eco Robert Rubin, presidente del Comitato esecutivo di Citigroup e uno dei celebri “Tre moschettieri”, che – con Alan Greenspan e Lawrence Summers – governò l’economia globale negli anni Novanta. «Per le banche d’investimento le regole europee studiate per Basilea II sono migliori», replica Draghi. L’accordo di Basilea è uno dei nodi da sciogliere per raggiungere un concerto di regole che protegga mercati, investitori e soprattutto consumatori dagli effetti delle speculazioni. Draghi ricorda che «permette di aumentare l’equilibrio di bilancio. Chiede un innalzamento dei fondi di garanzia per i veicoli strutturati per tutti gli istituti finanziari». In buona sostanza sarà meno facile emettere prodotti derivati, senza adeguate coperture finanziarie. Un’assicurazione contro i buchi improvvisi creati dalle turbolenze dei mercati. Se Atene piange, Sparta non ride. «Non serve nascondere», aggiunge Rubin, «che i rapporti tra Usa e Ue sono a rischio a causa della centralità che ha
Per il governatore «l’alleanza è necessaria» contro l’instabilità
Draghi: regole comuni per avvicinare Usa e Ue di Pierre Chiartano acquisito l’Asia negli ultimi anni. Si guarda all’Europa giusto per il tasso di cambio. E poi chi si chiama in Europa, quando c’è un problema?». Più esplicito Henry Kissinger. Dialogando pochi minuti prima con Giorgio Napolitano, si è chiesto: «Dov’è
L’ex segretario al Tesoro, Robert Rubin, avverte: «La politica non ha ancora trovato le risposte giuste»
mister Europe?». Se Usa e Ue hanno «masse critiche importanti» serve un sistema che le faccia contare di più sul mercato globale. Anche se «negli Usa c’è un enorme deficit e il risparmio è vicino allo zero», come ammette Rubin.
Da Palazzo Koch arriva un nuovo allarme per gli effetti delle fiammate inflazionistiche
«Con i salari minacciati anche i risparmi» di Serena Mattei
ROMA. Poche parole, ma dirompenti: dopo i salari il carovita può erodere anche i risparmi. Ieri Mario Draghi ha lanciato l’allarme: «I prezzi di materie prime essenziali crescono, stipendi e salari perdono potere d’acquisto, ed è minacciata la tranquillità dei risparmi». Nelle sue Considerazioni finali il governatore di Bankitalia aveva parlato sì della morsa dell’inflazione, ma senza ventilare emorragie di risparmi. Che sia giunta l’ora, da Palazzo Koch, di allargare l’offensiva? «Non c’è dubbio che le famiglie abbiano difficoltà legate al flusso economico in entrata e uscita. Ma non è un problema legato al credito», osserva Giuseppe Piano Mortari, direttore operativo di Assofin. «Le famiglie restano poco esposte verso il sistema bancario, ma si trovano in difficoltà, perché i loro redditi sono inadeguati rispetto al costo vita. È un problema di conto economico, non di stato patrimoniale. E, per intervenire su questo fronte, Draghi sollecita politiche di governo che tengano conto dei problemi legati all’incapienza dei redditi».
«Il carovita», nota Carlo Carbone, portavoce di Assorisparmiatori, «sta intaccando i risparmi in maniera pesante, basta riflettere sui mutui, con rincari del 30 per cento». Per l’Ocse ce la passiamo male: lo stipendio netto medio di un italiano non arriva neanche a 20mila dollari l’anno (circa 13mila euro). E qualcuno guarda ai deflussi di capitali dai fondi come a una conferma della crisi. A maggio il saldo netto dei fondi comuni d’investimento è stato negativo per 8,1 miliardi e ha fatto sprofondare la raccolta netta da inizio anno a -53,3 miliardi, cioè più di quanto si è perso nell’intero 2007 (-53,1 miliardi). «Il bisogno di liquidità può indurre le persone a uscire dai fondi. Chi deve pagare una bolletta, o pagare la retta scolastica, prima di indebitarsi, disinveste», osserva un esperto del risparmio gestito, aggiungendo che il deflusso è legato anche «a ragioni strutturali: tassazione differente tra i prodotti italiani e esteri, oppure politiche commerciali seguite dalle banche che orientano alla vendita di altri prodotti».
Il tema di fondo dell’incontro, mai enunciato apertamente, così come il problema principale di chi è costretto a confrontarsi quotidianamente col mercato globale (che sia quello delle monete, delle merci, dei popoli, della sicurezza o dell’ambiente) diventa la politica. O meglio, il ritardo della politica. «Dobbiamo darci regole. La politica non ha ancora le risposte giuste. La grande scontentezza verso il commercio internazionale è legata ai vantaggi che dà a pochi. Mai come oggi si levano alte le critiche e non saranno scelte facili per chi governa. La disfunzionalità della politica è forte», è l’analisi dell’ex segretario al Tesoro Usa. E la crisi sarebbe stata peggiore senza la collaborazione tra le due sponde dell’Atlantico. «Sono state evitate delle gravi implicazioni sistemiche», ricorda Draghi, «grazie all’intervento della Fed e della Banca centrale europea, che hanno fornito la liquidità necessaria al sistema bancario. Oggi il 30 per cento delle transazioni mondiali è in euro e il 40 per cento è in dollari. La partnership transatlantica è necessaria».
L’alleanza, quindi, è inevitabile. E potrebbe trasformare la debolezza politica europea in forza, dando a Washington quella cifra culturale in più per essere una potenza «ben accetta» a tutte le latitudini. «Più regole, più trasparenza e maggiore equità», sintetizza Draghi. Occorre lavorare molto affinché risalgano gli interscambi tra Usa e Ue. Anche perché, se l’America si sta emancipando dall’inward looking che l’ha fin qui caratterizzata, l’Europa vive un processo inverso. «Il mercato interno ha sostituito quello esterno alla Ue», nota il governatore, anche per la presenza di nuovi soggetti sullo scacchiere geoeconomico, «ma Usa e Ue sono i maggiori investitori diretti all’estero del mondo, oggi come trent’anni fa».
economia L’uscita di Mps dalla controllante Finsoe acuisce l’immobilismo di via Stalingrado
Unipol,tanta liquidità e nessuna preda nel mirino di Giuseppe Failla
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Tfr: buona la riforma sulla reversibilità «La recente riforma della previdenza complementare è stata, senza dubbio, un fatto positivo. In base ai dati della Covip, il numero di iscritti è aumentato nel 2007 del 43 per centorispetto all’anno precedente. Siamo, però, ancora lontani da livelli di adesione e di contribuzione che consentano di garantire un reddito adeguato a chi andrà in pensione nei prossimi decenni». È quanto dichiarato il presidente dell’Ania, Fabio Cerchiai, in materia di previdenza complementare. Per il ministro Sacconi è indispensabile rendere il sistema più aperto alla concorrenza e più rispettoso delle libere scelte dei lavoratori, consentendo la piena portabilità del contributo del datore di lavoro a tutte le forme previdenziali». Sul fronte fiscale, Cerchiai sostiene che un «aumento del fardello fiscale per le assicurazioni appare inopportuno».
Giugno nero per il mercato dell’auto Nel giugno scorso sono state immatricolate in Italia 184.275 autovetture con un calo del 19,5 per cento rispetto allo stesso mese del 2007. Il consuntivo del primo semestre si è chiuso con 1.259.365 immatricolazioni e con una contrazione dell’11,5 per cento. La situazione non è destinata a migliorare nei prossimi mesi, afferma il Centro Studi Promotor, che, di conseguenza, ha ridotto ulteriormente la previsione per l’intero 2008 portandola a quota 2.100.000 immatricolazioni. Ma nonostante le fosche previsioni, l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne, esprime un giudizio positivo per le vendite del gruppo: «Non solo manterremo le previsioni 2008 su profitti e cash flow, ma stiamo anche confermando le previsioni sul 2009».
Brunetta convoca i sindacati
MILANO. Con la cessione del 13 per cento di Finsoe, azionista di maggioranza di Unipol, per un terzo a Holmo e per la restante parte alla stessa Finsoe, si è concretizzato il divorzio fra Unipol e il Monte Dei Paschi di Siena. Formalmente si è conclusa la separazione fra i due gruppi, tradizionalmente di area rossa, iniziata con la contrapposizione fra Giovanni Consorte e Giuseppe Mussari all’epoca della tentata scalata del gruppo assicurativo bolognese alla Banca nazionale del lavoro, che tra l’altro era stata per anni la promessa sposa di Rocca Salimbeni. Rispetto all’epoca delle scalate bancarie in Unipol è cambiato molto. Carlo Salvatori, ex top manager di Unicredit, Intesa e Capitalia, siede sulla plancia di comando al posto di Consorte. La compagnia non solo ha ammainato ogni velleità bancaria, ma ha anche sotterrato l’ascia di guerra rinunciando ai piani di espansione per linee esterne e riconvertendosi a una piu’ cauta crescita Carlo Salvatori organica. L’addio alle armi (e alla Bnl) ha lasciato però in cassa un nutrito gruzzolo che oggi, secondo le stime degli analisti, dovrebbe essere pari a circa 1,4 miliardi di euro. Questa cifra, secondo i progetto originari, dovrebbe essere destinata a ritornare agli azionisti sotto forma di cedole straordinarie a meno che non si palesino occasioni interessanti d’acquisto. La mutata situazione del mercato potrebbe far cambiare i piani della società. Innanzitutto perchè oggi via Stalingrado è ricca di quello che invece manca sul mercato, la liquidità. Gli azionisti sono stati in parte già ricompensati degli sforzi sopportati per supportare le intemerate di Consorte in sede di bilancio 2007. Quindi un ulteriore extra cedola potrebbe essere sacrificata o perlomeno procrastinata. La furibonda correzione del mer-
cato ha falcidiato le quotazioni dei titoli finanziari, facendo diminuire considerevolmente valore e costo di molte possibili prede del gruppo guidato da Salvatori. Unipol quindi si troverebbe nella condizione ideale per diventare predatore e abbandonare la strategia stand alone. Nonostante queste premesse, dal quartier generale di via Stalingrado a Bologna, non giungono segnali di possibili mutamenti strategici. Alla base dell’immobilismo della compagnia, spiegano alcune fonti, contribuisce in maniera preponderante la crisi dell’ala emiliana del centrosinistra, che era stata la colonna che invece aveva sorretto l’espansione consortiana verso la Bnl. Le contrapposizioni in seno al Pd, e in particolare al quasi strappo cui si è giunti con la campagna per la nomina dei capigruppo, e dove i progetti di Walter Veltroni hanno rischiato di arenarsi per la canditature di Pier Luigi Bersani, hanno avuto strascichi. Non solo. I malumori di Massimo D’Alema, molto vicino alla Unipol di Consorte e molto influente sugli equilibri politici dell’universo Coop ancora adesso, hanno reso ancora più incerto il quadro politico interno di riferimento, paralizzando di fatto ogni possibile spinta propulsiva.
Lontana l’era di Consorte la compagnia paga la crisi di Bersani e della dorsale emiliana nel Pd
A rendere lo stallo ancora più definitivo ha contribuito la decisione del Ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, di incrementare la tassazione sulle Coop. Una misura che Aldo Soldi, presidente di Coop-Ancc, ha definito a Repubblica ha definito animata da una logica punitiva. Al di la’ dei giudizi di merito sull’iniziativa, l’universo delle cooperative dovrà fare i conti sull’impatto della Robin Hood Tax. Ulteriori spese, dopo i 234 milioni di euro sborsati a Mps da Holmo e dalla stessa Finsoe per l’acquisto della quota Finsoe, saranno prese in considerazione con la dovuta cautela.
Il ministro per la Pubblica amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, ha ricevuto il presidente dell’Aran, l’avvocato Massella Ducci Teri, al fine di avviare le procedure per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego per il biennio 2008-2009. Massella si è impegnato a convocare al più presto le organizzazioni sindacali per definire un calendario di incontri. Nel tardo pomeriggio di ieri, il ministro ha incontrato i segretari generali Epifani, Bonanni e Angeletti per illustrare le modalità di avvio della nuova tornata contrattuale.
Petrolio in ulteriore accelerazione Il petrolio ha ulteriormente pigiato sull’acceleratore con l’avvio dell’attività negli Usa. La consegna agosto sul Wti si è portata oltre i 143 dollari, sino a toccare un massimo di 143,33, per poi correggere a 143,01 (+2,15 per cento). Analogo andamento sul circuito dell’Ice, dove il future di riferimento sul Brent guadagna il 2,35 per cento a 143,11 dopo un massimo di 143,31. L’altro ieri il mercato aveva registrato i nuovi massimi: 143,67 per il Wti e 143,91 per il brent.
Fondiaria: condannate Mediobanca e Premafin L’ottava sezione civile del Tribunale di Milano ha accolto l’istanza dei piccoli azionisti di Fondiaria, riuniti nella Promofinan, per la mancata offerta pubblica di acquisto di SaiMediobanca sulla Fondiaria, nella complessa acquisizione cominciata nell’estate del 2001 e conclusa nel 2002. A ognuno dei circa 60 azionisti che hanno fatto ricorso contro una precedente sentenza della Corte di Appello è stato riconosciuto un risarcimento di 2,38 euro per azione che dovrà essere versato in solidale da Mediobanca e da Premafin, controllante di Fondiaria.
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storia
Eugenio Di Rienzo traccia un nuovo importante profilo dello storico abruzzese
Gioacchino Volpe, l’anticonformista che disse no alla Repubblica di Salò traniero alla propria patria”: così si dichiara, nel maggio del 1945, lo storico Gioacchino Volpe. Negli anni precedenti, molto ha sofferto dinnanzi all’amaro spettacolo di un’”Italia tagliata in due”. E ancor più pena ha provato allorché questa divisione, provocata dalla guerra e dalla sconfitta, ha scatenato le furie della guerra civile, l’odio fazioso, i regolamenti di conti privati presentati come manifestazioni di pubblica giustizia, il livore e l’impotenza, la prepotenza e il servilismo, la viltà di fronte ai nuovi padroni e la fuga da ogni responsabilità di ricomposizione nazionale e civile. Dinnanzi all’Italia piegata e piagata, Volpe, nazionalista e fascista, monarchico e mussoliniano, non volle scegliere Salò. Possiamo forse stupircene, se consideriamo la sua vicinanza, negli anni del dopoguerra, a quel Msi che i “repubblichini” costituirono nel 1946 all’insegna del “non rinnegare e non restaurare”. Possiamo stupircene se consideriamo la sua militanza intellettuale sul fronte di una cultura emarginata, ignorata, demonizzata dall’antifascismo: una eredità di affetti che il figlio, l’ingegnere Giovanni, raccolse, alla morte del padre, come un testimone. Combattendo, negli anni ’70, una fervida battaglia culturale contro il conformismo, con una casa editrice che pubblicò centinaia di titoli e due riviste “laboratorio” come La Torre e Intervento.
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Ma, nel ’43, Gioacchino Volpe non se la sentiva di scegliere Salò. Perché, appunto, gli sarebbe parso di farlo in nome della “parte”, non della “patria”. E lui, storico “unitario” per eccellenza, riteneva che la Repubblica Sociale, “sorta all’improvviso, nelle condizioni che tutti conoscono, non avesse ancora avuto il suffragio del popolo italiano, come lo ebbe la Monarchia nazionale e unitaria
di Mario Bernardi Guardi nel suo costituirsi, nel 1860, e quindi vivesse di vita di fatto e non di diritto”. E così, pur convinto insieme al cognato Arrigo Serpieri (schierato con il fascismo repubblicano) che l’Italia avrebbe dovuto continuare lo stato di belligeranza all’interno dell’Asse, respinse la proposta di partecipare ai lavori della ricostituita Accademia d’Italia, deplorò il “protagonismo” di Giovanni Gentile che ne aveva assunto la presidenza, sostenne che, “lacerato il corpo della patria, l’unità non poteva ricostituirsi se non intorno al Monarca, rendendo impossibile ogni altra soluzione”.
Inoltre, come giustamente rileva Eugenio Di Rienzo, professore ordinario di Storia moderna presso la Facoltà di Scienze Politiche di Roma e autore
No, dunque, al fascismo “sovversivo”. No all’opera di riconciliazione in cui, nel pieno della guerra fratricida, era generosamente impegnato un Giovanni Gentile consacrato al martirio. No alla feluca accademica listata dal fascio littorio, ma priva ormai della croce sabauda. E Salò rispondeva con l’”embargo” giornalistico contro il primo volume di “Italia Moderna”, distribuito all’inizio del ’44. “Et pour cause”, visto che nella prefazione “era contenuto l’invito a trovare nella monarchia l’unico
Riteneva che quell’esperienza non avesse ancora avuto il suffragio del popolo italiano. Si oppose al ”fascismo sovversivo” e all’opera di riconciliazione in cui era impegnato Giovanni Gentile di La storia e l’azione. Vita politica di Gioacchino Volpe argomentata, puntuale e documentata biografia intellettuale, “il regime di Salò doveva risultare inviso a Volpe non per questa sola causa, pure determinante. Lo era invece, sicuramente, anche per i suoi rigurgiti di socialismo corporativo, di violenza squadristica, di ormai apertamente dispiegata tendenzialità repubblicana, per il ritorno, in altre parole, agli eccessi e all’anarchia del fascismo movimento, che il fascismo, fattosi Stato, non era mai riuscito o mai aveva voluto del tutto disciplinare e che ora tornava a prendere inusitato vigore nella fittizia ‘repubblica mussoliniana’, la quale così rivelava il suo carattere profondamente anti-nazionale”.
presidio di quella unità nazionale, ora sul punto di venire meno”.
Strano destino quello di Gioacchino Volpe, nazionalista, monarchico, fascista liberale, storico del fascismo, amico dei fratelli Rosselli, amico e poi, a partire dalla metà degli Anni Venti, avversario di Benedetto Croce, che, inizialmente
Benito Mussolini (nella foto grande). Qui sopra, Gioacchino Volpe (in alto) e Giovanni Gentile (in basso)
simpatizzante della rivoluzione in camicia nera, aveva poi stilato il Manifesto degli intellettuali antifascisti, mentre Gioacchino Volpe aveva firmato, con convinzione, quello degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile. Strano destino perché lo storico abruzzese, indubbiamente tra i più grandi del Novecento sia per le sue ricerche di medievista sia per i suoi saggi di storia moderna, finì col pagare un duro prezzo proprio per il suo equilibrio intellettuale e politico. Non era stato un fanatico, non si era fatto vessillifero di un fascismo totalitario e sopraffattore, aveva sempre difeso la sua libertà intellettuale e la sua dignità di uomo, aveva protetto e aiutato, durante il Ventennio, studiosi che non erano certo in odore di santità littoria, non aveva sposato l’estremismo da “ultima trincea” del fascismo salodino, eppure nel dopoguerra fu messo ai margini, allontanato dalla cattedra, crocefisso alla “damnatio memoriae” insieme ai suoi libri da parte di epuratori per nulla campioni di purezza. Visto che col fascismo avevano trafficato in tutti i modi, salvo poi, al momento opportuno, cercare una nuova verginità come antifascisti doc.
Di Rienzo evoca fatti e misfatti con dovizia di documenti e testimonianze, non solo raccontando le opere e i giorni dello storico di razza e dell’italiano perbene (anche nelle sue ingenuità e nei suoi puntigli), ma anche ricostruendo significativi scenari politici e culturali dell’Italia del Novecento. Un secolo breve? Dio mio, quanto è dolorosamente lungo se a un uomo come Volpe non è stato restituito ancora tutto il suo onore, e se si è tentato, e ancora si tenta, di offuscarne la grandezza a colpi di demonizzazione ideologica,pregiudizi o giudizi liquidatori, censure od omissioni. Ma noi non disperiamo...
cultura
2 luglio 2008 • pagina 19
A Spoleto sbarca la lettura dei testi sacri. Stasera è il turno del direttore dell’Osservatore Romano
Il Vangelo secondo Vian colloquio con Giovanni Maria Vian di Francesco Rositano Spoleto, nel festival emblematicamente battezzato “dei due mondi”, non ci sono solo la cosiddetta Bollywood, i concerti di musica classica, i cori gospel. Ma anche momenti di riflessione sulla democrazia con la ”finestra” curata da Ernesto Galli Della Loggia. E occasioni di dialogo tra laici e cattolici, credenti e non credenti. Una di queste è quella dedicata alla lettura dei Vangeli. Da quattro giorni registi, scrittori, direttori di giornali e religiosi stanno portando avanti la lettura dei testi scritti dai discepoli di Gesù: la regista Cristina Comencini di rito valdese ha letto Matteo; lo scrittore Giorgio Montefoschi Luca; Suor Tatiana Avdokushina Marco. Stasera sarà il turno di Giovanni Maria Vian, che ha portato sul suo “Osservatore Romano, le firme di ebrei, musulmani, ma anche non credenti. Un grande assertore della necessità di superare gli steccati in favore di uno confronto costruttivo: «Più si superano le barriere - afferma -, più si mettono in comune il mondo dei laici e quello dei cattolici, e meglio è. Anche dal punto di vista culturale». Il direttore del quotidiano
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vaticano leggerà il Vangelo di San Giovanni nella chiesa di Sant’Eufemia. Sarà una lettura che, nelle intenzioni di Vian, vuole rendere unico protagonista il testo. «Il Vangelo verrà letto senza alcuna aggiunta, senza alcuno sfondo. Basta pensare che nella Chiesa di Sant’Eufemia ci saranno solo il leggio, il lettore e gli spettatori. Direttore, qual è la novità di questo festival? La novità è che due laici come Giorgio Ferrara, direttore artistico del Festival, ed Ernesto Galli Della Loggia che ha la responsabilità di questi momenti di riflessione sull’attualità e la democrazia, hanno pensato di inserire in cartellone anche la lettura dei Vangeli. E l’hanno rivolta a persone diverse: una regista affermata come Cristina Comencini, che è di confessione valdese; uno scrittore come Giorgio Montefoschi; una suora cabrinaina, russa che vie-
ne dalla Siberia. E poi ci sono io, che attualmente dirigo l’Osservatore Romano. È importante che questo evento affermi anche solo il valore culturale dei testi biblici. Soprattutto in un momento come questo in cui la conoscenza dei testi sacri è in regresso. Purtroppo è uno stile diffuso, nel quale ha molto inciso la spinta alla secolarizzazione diffusa nella
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Com’è stata proposta la lettura dei Vangeli a Spoleto? Era impossibile proporre una lettura integrale: sarebbe stata troppo lunga. Inoltre, nessuno di noi lettori, è un attore professionista. I testi sono stati alleggeriti da Galli Della Loggia, che fatto dei piccoli tagli per arrivare ad un tempo ragionevole. Comunque la lettura ad alta voce ha impressionato anche me che ho una conoscenza approfondita di questi testi, non solo da credente, ma anche da studioso. Quel che posso affermare è che la gente resta affascinata. Viene in mente quello che successe a Pasolini quando, su consiglio di don Giovanni Rossi, lesse tutto d’un fiato in meno di un’ora il Vangelo di Matteo. A lei è stata assegnata la lettura di Giovanni. Qual è la specificità di questo testo rispetto agli altri tre? Si distingue dagli altri perché è una lettura radicale della vicenda di Gesù. Si articola tra simboli e lunghi discorsi ed è il Vangelo che ha più ha destato più inteeresse nella tradizione
I testi scritti dai discepoli di Gesù continuano ad affascinare. Lo stesso Pasolini lesse d’un fiato Matteo, rimanendone colpito nostra società. D’altra parte io che ho insegnato per tanti anni queste materie in Università conosco bene il problema. E ho notato che c’è stato un declino di questa conoscenza. Basta pensare che metà dei francesi non ha una Bibbia in casa: è una cosa gravissima. Per cui, in questo contesto, è significativo riaffermare quantomeno il valore culturale dei testi sacri. E iniziative come queste lanciano un segnale positivo di ritorno di interesse.
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cristiana. Per rendersene conto pensiamo al simbolo che viene usato per rappresentarlo: l’aquila. Questo è l’unico uccello che può volare guardando il sole con gli occhi aperti. Poi Giovanni ha anche una grande profondità teologica. Del resto, gli orientali lo il teologo: è l’unico Vangelo che, nel prologo, fa il verso alla Bibbia («in principio era il cielo e la terra»). Ed è il Vangelo che identifica sempre Cristo come Dio. A suo avviso qual è l’apporto che il lettore può dare a questi testi? Io credo che il testo vada letto nudo e crudo. O come diceva San Francesco “sine glossa”. D’altra parte è talmente forte che annulla il lettore. Sia per il mondo laico che per il mondo cattolico è un fenomeno molto positivo e dovrebbe essere analogo intersse del mondo cattolico verso aquello lacio. Più si superano le barriere, più si mettono in comune questi due mondi, meglio è. Anche dal punto di vista culturale, Anche perché. Già ci sono molti. Hanno sri, abbuamo pubblicato lo scritto di uno studioso giordano che è musulmano e quindi. Se lei vede la lettera che mi ha scritto il papa il 27 ottobre è prproop un compiti affidat all’Osservatore Romano
A sinistra la chiesa di Sant’Eufemia, a Spoleto, dove stasera il direttore dell’Osservatore Romano leggerà il testo dell’evangelista Giovanni. In basso alcuni fotogrammi del film ”Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini
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libri
Atto finale della 62esima edizione del premio letterario. Cinque gli scrittori che verranno valutati dagli ”Amici della Domenica”, tra grandi attese e polemiche annunciate
La notte dello Strega di Pier Mario Fasanotti
empo di premi letterari, tempo di polemiche. A tal punto da constatare quanto di più ovvio ci sia al mondo: non esiste una competizione - tantomeno quella sportiva - senza il pepe della polemica. Che spesso dal borbottio passa alle grida e agli insulti. Ma questo è lo specchio di una società che pensa o finge di pensare ad alto volume. Se allo Strega, al Campiello, al Viareggio e a tante altre centinaia di tenzoni libresche si vorrebbe, o si dovrebbe, porre l’alloro sulle parole, capita sovente che si sentano più parolacce che parole. E questo dà un bello schiaffo all’immagine che l’uomo medio ha dell’editoria e delle tante giurie. Tantopiù che l’homo italicus è automaticamente portato ad annusare puzza di pastette, di scambi sottobanco, di fastidiosissimi inciuci, è caratterialmente propenso a fare spallucce ripetendo (sentenza senza appello) quel che diceva Bartali, ossia che è tutto sbagliato, che è tutto da rifare. E’ costume antico. Tanto è vero che al Premio Campiello del 1970 Goffredo Parise commentò così il quinto posto conseguito nella cinquina con il suo Crematorio di Vienna: «Eran trecento, eran giovani e forti, ma il morto sono io». Un epitaffio autoironico che l’anno scorso avrebbe dovuto ispirare Carlo Fruttero nella medesima occasione lagunare (con trecento votanti) e invece l’ottantenne maestro di ironia e di distaccata signorilità non ricordò affatto l’esempio. Furono in tanti a stupirsi della stizza esplosa nella metà della ditta Fruttero&Lucentini, applaudito per tre minuti interi ma battuto da Mariolina Venezia (con Mille anni che sto qui, Einaudi).
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Re Carlo che tornava dalla guerra senza il bottino incautamente promessogli che in altre circostanze aveva criticato e velenosamente snobbato -dette una sciabolata alla giovane signora lucana affermando che si trattava di «letteratura bassa». Non si trattano così le donne, viene da indignarsi. Tantopiù che il narratore torinese, orbato dell’acutissima bonarietà del romano Lucentini, si è sempre speso contro contro una letteratura fintamente alta. Peccato, infine, che Fruttero abbia confessato di non aver
letto il bel romanzo della Venezia, lasciato probabilmente sul pavimento di casa sua come una videocassetta (la tv, che orrore!). Rimanendo nel Piemonte che la tradizione vorrebbe compassato e in stile, come un arredo di palazzo Savoia, c’è da registrare un’altra stizza. Quella del professor Guido Davico Bonino, esperto di teatro, curatore di raccolte letterarie per la Einaudi e corsivista de La Stampa.
Bersaglio è il conterraneo Giuliano Soria, patron del Grinzane Cavour, reo di averlo escluso dalla giuria senza nemmeno avvisarlo. Davico Bonino c’è rimasto male e ha detto: «Soria è un personaggio particolare, diciamo così. Con me sono stati tutti maleducati. Ho saputo da una segretaria di non far parte più della giuria, ma non è questo il punto. I premi letterari sono una nobile e inutile istituzione, non fanno vendere una copia». Ci risiamo: le accuse alla giostra letteraria scoccano come frecce quando uno viene escluso, quando perde. Dopo decenni di fatiche e paroline in corridoio per essere determinante, per dire la propria, per sponso-
rizzare amici, per promuovere chi davvero merita. Si passa disinvoltamente dalla gravità senatoriale del giurato alla fronda più o meno chiassosa che ribalta in un sol giorno una radica-
bella frustrazione quella del numero due, comprendiamo) al Campiello. Scrisse una lettera a Il Giornale vomitando tutta la sua delusione parlando di «fascismo aculturale antifascista della piccola borghesia italiana» a proposito della «giuria popolare dei trecento
lettori “politicamente corretti” scelti da Andrea Riello e dalla sua organizzazione». L’industriale Riello gelidamente rispose: «Ma l’ha obbligato il medico a partecipare?». Tre anni
Si contendono la vittoria Diego De Silva, Lidia Ravera, Cristina Comencini e i favoriti Paolo Giordano ed Ermanno Rea. Ma la sfida appare sempre più un duello tra grandi case editrici tissima fede nei premi agli scrittori. Insomma: loro non mi vogliono? Chi se ne frega, tanto quelli non contano nulla. Oggi non s’aspetta più l’intervistatore. Si scrive ai giornali. E’ il caso di Giancarlo Marinelli, vicentino, scuderia Bompiani, che l’anno scorso arrivò per la seconda volta al secondo posto (una
fa sbattè la porta Alberto Bevilacqua arrivato quinto con la sua Pasqua rossa (Einaudi). Parlò di «giuria di villeggianti». Il sangue ribolle nelle vene dei perdenti. Italo Calvino venne sconfitto ben quattro volte allo Strega, nel 1968 rinunciò al Viareggio con un telegramma: «I premi letterari sono istituzioni ormai
svuotate di significato». Avrebbe scritto le stesse parole nel caso avesse vinto? Certamente no. Più pacato e indubbiamente più coerente è Sebastiano Vassalli (i suoi libri sono editi da Einaudi) il quale sulla copertina delle sue opere c’è scritto da qualche anno a questa parte: «Per volontà dell’autore, questo libro non concorre a premi letterari».Vassalli ha raccontato che all’inizio l’editore storse un po’ il naso e che la sua decisione non attirò certamente il plauso di colleghi scrittori, di critici o di altri editori. Una convinzione può essere letta in tante maniere: come superbia, come un essere fuori gara per ragioni di nobiltà, di idealità, di rifiuto del mercimonio.
Nulla va mai bene. Scatta qualcosa di quasi bestiale anche in persone di grande intelligenza e mitezza. Nel 1952 fu Alberto Moravia a imporsi allo Strega. S’infuriò il bizzarro ma anche timido Carlo Emilio Gadda che bollò il rivale con queste parole: «Un autentico deficiente». Senza avere la statura di Gadda, capitò più o meno la stessa cosa a Mario Fortunato (autore di I giorni innocenti della guerra, Bompiani) che in aperta platea criticò aspramente il colle-
libri
2 luglio 2008 • pagina 21
A sinistra la vincitrice del 56esimo Premio Strega, Margaret Mazzantini, e le copertine dei libri dei finalisti 2008: Comencini, Rivera, De Silva, Rea, Giordano. Sopra, la vincitrice del Premio del ’63 Natalia Ginzburg; accanto, il luogo della premiazione Ninfeo di Valle Giulia; sotto, la scrittrice Melania Mazzucco fotografata dopo la vittoria della 57esima edizione nel 2003 ga che lo sconfisse allo Strega dello scorso anno, Niccolò Ammanniti. Conosco personalmente Fortunato da molti anni e credo che il suo exploit, che non rientra assolutamente nei suoi canoni caratteriali, avesse una qualche ragione connessa alla già troppo sbandierata vittoria della Mondadori. «Raramente» dice Fortunato «è davvero il migliore a vincere. Di premi ormai ce ne sono troppi, ormai servono più a chi li promuove che agli scrittori». Se occorre qualche consolazione, conviene come sempre pescarla in altri paesi. Per esempio l’Inghilterra.
E’ stata Zadie Smith (autrice tra l’altro di Denti bianchi, Mondadori) ad attaccare l’aspetto commerciale dei vari concorsi: «La maggior parte dei premi letterari si interessa solo teoricamente di letteratura. L’obiettivo principale è consolidare il marchio di società telefoniche, di produttori di birra, di marche di caffè e anche linee di surgelati». Nessun nome, ma i riferimenti sono più che palesi: Orange è un gigante della telefonia che
sponsorizza l’Orange Prize, Iceland è la ditta di surgelati che sosteneva fino a poco tempo fa il Booker Prize. Peccato che la Smith abbia vinto il Whitbread Prize, dal nome della fabbrica di birre che stava dietro al premio fino al 2006. E lei non ha certo rifiutato né l’assegno né la notorietà. Ernesto Ferrero, scrittore (vinse lo Strega con N, Einaudi, nel 2000) e direttore della Fiera del Libro di Torino, è convinto che sia proprio il premio romano intitolato a un vecchio liquore giallo «a spostare le vendite». E aggiunge: «Forse si dovrebbe smettere di omaggiare i senatori delle lettere, per concentrarsi invece sugli emergenti». Lo svecchiamento della giuria dello Strega è prossimo. L’attuale presidente Tullio De Mauro, linguista di fama ed ex ministro della Pubblica Istruzione, ha preso il posto di Anna Maria Rimoaldi, la signora potente cresciuta all’ombra di Maria Bellonci e a capo, per così dire, degli “amici della domeni-
ca”, il gruppo che dal dopoguerra in poi si riuniva a casa della scrittrice e sceglieva la cinquina da gettare in pasto alle votazioni del Ninfeo di Valle Giulia.
De Mauro ha introdotto delle novità. La principale è la turnazione del comitato direttivo, ossia l’organismo che sceglie i romanzi e definisce anche la composizione della giuria dei Quattrocento Amici della Domenica. Finora era formato da persone che restavano in carica senza limiti di tempo. Il nuovo regolamento scatta dal prossimo anno, ovviamente. Insomma, dopo tre anni, uno deve lasciare il posto a qualcun altro, nell’intento, anche, di abbassare l’età media che oggi è ben oltre i cinquant’anni. Occorre ricordare che ventuno giurati sono in carica dagli anni Cinquanta, ma il grosso, ossia duecento, sono entrati negli anni Novanta. La composizione, dice De Mauro, è varia: 120 sono scrittori, una settantina sono professori universitari. Ci sono poi quaranta giornalisti, tredici critici letterari, una decina di politici capeggiati da Giulio Andreotti, infine rappresentanti di istituzioni. Punto scottante: quanti sono i rappresentanti delle case editrici? Cinquanta. Sono definiti «lobbysti». Quest’anno, come ogni anno, si parla di manovre dei grandi colossi editoriali, in primis Mondadori e Rizzoli. E saranno questi due, secondo i voti presi alla prima scrematura dai narratori e secondo
le voci, a contendersi lo Strega edizione 2008. Ma non è così automatico. Con la gestione Rimoaldi si aveva il vantaggio - dicono in molti - di dare visibilità anche alle piccole case editrici. Raramente vincevano, comunque sfilavano sulla passerella, come è capitato alla casa editrice romana minimum fax grazie ai racconti (genere che i grandi editori snobbano) della trentenne napoletana Valeria Parrella, passata poi a Einaudi. Già: come mai il suo ultimo e ottimo romanzo Lo spazio bianco non è entrato in cinquina? L’editore torinese ha preferito scommette su Diego De Silva (Io non avevo capito niente). Stavolta di piccoli editori ce n’è soltanto uno, Nottetempo, che presenta La seduzione dell’inverno di Lidia Ravera, giunta ultima nella pre-selezione. Scattano poi certi automatismi mediatici. Ossia si prendono in considerazione, sulle pagine dei giornali, solo i due presunti duellanti: Paolo Giordano (La solitudine dei numeri primi, Mondadori) ed Ermanno Rea (Napoli ferrovia, Rizzoli). E gli altri? Sono già considerati buoni solo per il terzo e quarto posto? Perché non ipotizzare la vittoria di Cristina Comencini, autrice de L’illusione del bene (Feltrinelli)? Vengono due sospetti. Il primo: avremo un Premio Campiello con quattro donne e un solo uomo: vuol dire, magari, che si ha la coscienza a posto per “il già dato” alla fortissima “quota rosa”? Secondo sospetto: la Comencini è anche una brava regista: viene in mente l’antico pregiudizio secondo cui se uno scrive un romanzo non è altrettanto bravo a girare un film e viceversa. Per lo Strega i sospetti si sprecano. Se vince Rea si avrebbero, in teoria, due vantaggi. Il primo: l’alloro a un autore Rizzoli, rispettando quindi l’alternanza tra le grandi case editrici. Il secondo: la vittoria a uno scrittore che parla di Napoli tra romanzo e reportage, quindi un omaggio sentimental-politico a una città oppressa dalla mondezza, anche se Rea la spazzatura non l’annusa per niente.
La battaglia, in ogni caso, sarà aspra anche perché i principali contendenti trattano temi di grande attualità e di notevole presa sul pubblico. Giordano parla di adolescenti, Rea di una città sull’orlo del precipizio sociale, Comencini della malinconia e della delusione di un uomo di sinistra che s’interroga su come mai nessuno alla fine vuole fare i conti con il comunismo (quello che è stato, non quello sognato), De Silva delinea la confusione di un povero avvocato napoletano (siamo di nuovo entro le maleodoranti mura partenopee) coinvolto suo malgrado nella camorra.
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Ha fatto bene la Rai a reintegrare Saccà? GIUSTO CHE SACCÀ SIA TORNATO AL SUO POSTO, PRIMA VERIFICARE E POI PRENDERE PROVVEDIMENTI
INTERESSIAMOCI A QUESTIONI PIÙ SERIE, LA POLITICA DEVE RITORNARE CENTRALE
Certamente la Rai ha fatto bene a reintegrare Agostino Saccà. Non trovo infatti giusto sospendere il direttore di RaiFiction per via delle intercettazioni (e della relativa discutibilissima pubblicazione sui maggiori quotidiani nazionali). Bene ha fatto il giudice del lavoro di Roma, Giuseppina Vetritto, ad accogliere il ricorso dei legali di Agostino Saccà contro la sospensione da direttore e riordinandone la riammissione immediata in servizio. Credo che prima di decidere di sospendere un dirigente occorra prima di tutto una verifica accurata degli elementi che si hanno a disposizione, e dopo un’attenta, attentissima analisi della situazione.Verificare l’effettivo coinvolgimento di Saccà nel giro di raccomandazioni e assunzioni (le ha davvero fatte?) sarebbe stato giusto e doveroso. E proprio per dirla tutta, sarebbe stato opportuno anche effettuare le giuste indagini senza che l’Italia intera ne fosse messa al corrente. L’Espresso, come al solito, preferisce ”fare notizia” e vendere qualche copia in più invece di lavorare con l’etica e tutelare il buon nome dell’Italia. Cordialità.
Non è mai facile avere un’opinione netta, convinta e convincente di fronte a casi delicati come quello che ha investito di recente la politica italiana e gli alti dirigenti della Rai. Insomma, proprio non so dire con assoluta certezza se la riammissione a direttore di RaiFiction di Agostino Saccà sia giustissima o sbagliatissima. Certamente la questione delle intercettazioni è sì spinosa, ma a volte una pratica necessaria per fare luce nel buio dei ”traffici”nostrani delle raccomandazioni. Ma francamente, tutto sommato, sono rimasto un po’ interdetto alla notizia della sospensione di Saccà. Come mai allora nessun altro (a parte la conseguente gogna mediatica e politica successiva alla pubblicazione delle intercettazioni telefoniche) ha subìto provvedimenti duri? E’sempre la solita storia: in Italia il più delle volte si applicano due pesi e due misure a seconda dei casi e delle persone coinvolte. Non sarebbe meglio a questo punto scegliere di interessarsi a questioni più serie e a interesse veramente nazionale, e solo successivamente alle decisioni delle varie commissioni di inchiesta, riportare le inutili quisquilie di attricette e veline?
Riccardo Melis - Cagliari
LA DOMANDA DI DOMANI
Quale il libro da portare quest’estate sotto l’ombrellone? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Alfredo Corradi - Roma
IL REINTEGRO DEL DIRETTORE DI RAIFICTION DIVENTA UN PRECEDENTE TROPPO PERICOLOSO Ma certo che no. Ha sbagliato e anche di grosso. Reintegrare Agostino Saccà come direttore di RaiFiction è un errore madornale che rappresenterà un pericoloso, anzi pericolosissimo precedente per il futuro. Le intercettazioni pubblicate negli ultimi giorni (ma si dice che ne arriveranno di altre e ben peggiori di quelle rese note) gettano luce su un inquietante ”andazzo” tutto italiano che coinvolge squallidamente politica e pubblica informazione. Non solo non andava riammesso in Rai Saccà, ma bisogna oltretutto dare una forte scossa a tutti quei politici invischiati in affari di basso profilo come quelli emersi. Hai visto mai che in Italia cambi davvero qualcosa.
ADDIO LUGANO BELLA Giuseppe Baiocchi ha affrontato su liberal il tema dell’Unità del nostro Paese. C’è un unico passaggio che non condivido e cioè l’affermazione che l’Unità d’Italia è stata costruita «contro Dio e senza il Popolo». Se per «contro Dio» si intende Porta Pia, questo è un innegabile fatto storico. Tuttavia quando si realizza una cosa contro qualcuno, vuol anche dire che qualcuno vi si oppone, secondo legittime ragioni, ma dal proprio punto di vista. La conflittualità con la Chiesa ha comportato atteggiamenti estremi reciproci e la generazione originale di un termine “laico” che solo in Italia ha il significato che abitualmente diamo. Ma anche solo in Italia abbiamo avuto storicamente la sovrapposizione geografica tra la potenzialità di una unità politica statale nazionale e l’esistenza di uno stato confessionale, quello della Chiesa. La concezione antagonista e reciprocamente annullante Sato-Chiesa è stata dagli italiani pagata a caro prezzo quando il Paese, bisognoso di riforme e modernità democratica, nel sovrapporsi della crisi econo-
BARBASABBIA
Una complessa scultura di sabbia esposta lo scorso lunedì 30 giugno, al primo Festival internazionale delle ”sculture in polvere”, nella città bulgara di Burgas, a circa 400 chilometri (oltre 250 miglia) ad est della capitale Sofia
BARLUMI DI GIUSTIZIA NELLA DITTATURA CINESE
QUELLI DEL PD E LA POZZA DELL’ANTIBERLUSCONISMO
Le proteste, questa volta, sono servite. Dopo che migliaia di persone erano scese in piazza contro l’insabbiamento dell’inchiesta sulla morte di una quindicenne nella provincia cinese di Guizhou, le autorità hanno deciso di riaprire l’indagine per chiarire le cause del decesso. Che in Cina finalmente si riaccenda la speranza di poter avere davvero una giustizia giusta? La donna infatti aveva subito violenza dal figlio di un politico locale. Speriamo che questo rappresenti un precedente importante. E che serva davvero a qualcosa la colletta che i manifestanti hanno fatto affinché i parenti della vittima possano sporgere denuncia e sostenere le spese legali.
Ci hanno messo due mesi a imparare di nuovo l’antiberlusconismo quelli del Partito democratico e, alla fine, hanno capito che la pozza degli antiberlusconiani è davvero il loro mondo. Non avevamo dubbi. Non potevano essere felici gli ex comunisti e cattocomunisti che, da almeno tre lustri, sognano il carcere e la damnatio memoriae per il Silvio e i suoi sodali, mentre ora non potete immaginare che bei momenti passano, fra spruzzi, schizzi e lazzi, con i loro compagni della sinistra radicale, dell’arcobaleno, dell’intellighenzia, coi verdi, con l’Italia dei valori, e con Antonio Di Pietro. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.
dai circoli liberal Greta Gatti - Milano
Gino Lanfranchi - Viterbo
mica del ’29 con le magagne ereditate dal primo conflitto mondiale, si trovò un Parlamento frantumato, tra una sinistra divisa in socialisti e rivoluzionari comunisti e una destra divisa tra il “diavolo e l’acqua santa”, repubblicani, liberali e cattolici. Da quella prima crisi della partitocrazia, sfociata in una dittatura, l’Italia, in quanto a partitismo, non si è mai più sollevata e non è sbagliato ritenere che, se gli Italiani hanno un’indole naturale contro di essi, a parte poi l’approfittarne meschinamente, l’origine è questa. L’Italia quindi non ha mai avuto l’esperienza di partiti moderni che si alternano al potere in modo democratico: tale era il basso livello si scolarizzazione e alto l’alfabetismo, che credo sia ridicolo ritenere che dietro i partiti del pre-fascismo vi fosse un Popolo veramente cosciente e consapeviole. Come si può vedere da allora in realtà è cambiato poco in Italia, salvo la parentesi della Dc che garantì democrazia e progresso, ma resistette soprattutto per l’impossibilità di un’alternativa di governo a causa del mondo diviso in due blocchi. Per questo la Costituente di Cen-
Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)
tro dovrebbe partire dalle origini del senso stesso dell’Unità d’Italia e dall’impossessarsi dei Padri della Patria e cioè di coloro che lo furono anche in modo antagonista, ma che ora, nel 2008 si vergognerebbero di queste sfumature ideologiche. Non è condivisibile quindi una visione del processo unitario realizzato «Contro Dio». Su «Dio», altra cosa è la questione dell’eredità dogmatica ateista che il marxismo ha lasciato diffusamente in Europa. Così il «Senza il Popolo», perché se si leggessero i testi sacri del Risorgimento, come i «Doveri dell’Uomo» di Mazzini, si potrebbe notare che le parole più usate sono Dio e Popolo. Ma Mazzini, oramai per la stragrande maggioranza degli Italiani è si il cognome di un personaggio reale, ma di Anna Maria in arte Mina. Donna che fece comunque molto per gli italiani, e si ritirò esule a Lugano. Anche se per motivi un po’ diversi dai malinconici anarchici in fuga a fine ‘800. Ma anch’essi cantavano. Cantavano «Addio Lugano bella». Leri Pegolo CIRCOLO LIBERAL PORDENONE
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Ricordo l’arco teso di una bocca fresca e ridente Avendovi detto questa mattina che vi amavo, mia vicina di ieri sera, provo ora meno vergogna a scrivervelo. L’avevo già capito quel giorno a Nizza nella città vecchia, quando i vostri grandi e begli occhi di cerbiatta mi avevano cosi turbato che me ne ero andato al più presto per evitare la vertigine che mi procuravano. Di questa notte benedetta ho soprattutto conservato il ricordo dell’arco teso della bocca semiaperta di giovane fanciulla, di una bocca fresca e ridente, che proferiva le cose più ragionevoli e più spirituali con un suono di voce cosi incantatore che sognavo che vicino a una Luisa come voi, non avrei voluto essere nient’altro che il Taciturno. Dopo un minuto vertiginoso di speranza non spero più, se non che voi permettiate a un poeta che vi ama più della vita di eleggervi sua signora e di dirsi, mia vicina di ieri sera a cui bacio le adorabili mani, il vostro appassionato servitore. Guillaume Apollinaire a Lou
RINNOVIAMO IL CONTRATTO CON L’AMA CAPITOLINA Risale a dicembre 2007 l’ennesima e quarta proroga del contratto di servizio tra l’Ama spa e il Comune di Roma che come ogni anno, immancabilmente dal 2005, viene perpetrata a discapito dei servizi offerti sul territorio ai cittadini in termini di raccolta rifiuti e pulizia della città. Il contratto, ormai obsoleto, si è reso complice, insieme ad un management incompetente e a una gestione partitocratica dell’azienda Ama, di gravi inefficienze, di servizi fantasma e di sperperi conclamati a danno dei contribuenti. Uno degli obiettivi primari dell’amministrazione comunale dovrebbe adesso essere quello di concludere in tempi brevi l’iter di approvazione degli indirizzi programmatici per la predisposizione del contratto e poi, coinvolgendo fattivamente i consigli municipali, definire in tempi brevi la stipula di un nuovo contratto per la gestione dei rifiuti urbani e i servizi di igiene urbana che vada nella stessa direzione delle linee programmatiche del sindaco Alemanno in termini di snellimento e modernizzazione dei servizi. Eliminando sprechi, inefficienze
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
2 luglio
e doppie funzioni. In questa ottica, è importante analizzare la prospettiva legata allo sviluppo di un global service municipale nella gestione complessiva dell’ambiente, in un sistema concorrenziale che veda coinvolte aziende o cooperative private e riducendo dunque il monopolio dell’Ama; ed eliminando altre prestazioni aggiuntive previste dal servizio giardini con un notevole risparmio per le casse capitoline e il sensibile aumento della soddisfazione dei cittadini.
Silvia Moretti - Roma
MA È DAVVERO RAZZISTA IL MINISTRO MARONI? Ho letto che Famiglia cristiana si è scagliata contro il ministro Roberto Maroni a causa della decisione di rilevare le impronte digitali a tutti i bimbi dei campi nomadi. Un’operazione «razzista e indecente», l’ha definita. Eppure mi domando: non è più razzista ancora colui che fa finta di nulla lasciando i piccoli rom in balia di aguzzini che li vendono, picchiano e sfruttano?
Rita Ferrari - Ancona
1871 Vittorio Emanuele II di Savoia entra solennemente in Roma dopo averla conquistata a discapito dello Stato Pontificio 1897 Guglielmo Marconi brevetta, a Londra, la radio 1938 Appare per la prima volta su Topolino l’ispettore Manetta 1939 Superman esordisce in Italia negli Albi dell’audacia 1955 Finisce il Governo Scelba, il quarto della II Legislatura 1966 Negli Stati Uniti esce l’album Aftermath dei Rolling Stones 1985 Viene lanciata la Missione Giotto dalla base di lancio di Kourou 1987 Nilde Iotti diviene la prima Presidente della Camera dei Deputati italiana donna 1990 In Arabia Saudita 1426 pellegrini muoiono schiacciati dalla folla a La Mecca 1992 Václav Klaus è l’ultimo Primo Ministro della Repubblica Socialista Ceca, prima della separazione dalla Slovacchia 2000 Finale degli Europei a Rotterdam: Francia batte Italia 2-1 al golden gol
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
PUNTURE Roberto Maroni da quando è diventato ministro degli Interni ha suscitato molte polemiche. L’ultima è quella sulle impronte dei bambini rom. Comunque vada, Maroni lascerà un’impronta.
Giancristiano Desiderio
“
Un uomo tirava a sorte tutte le decisioni. Non gli capitò maggior male che a quelli che riflettono PAUL VALÉRY
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
il meglio di LA VERITÀ SU OBAMONEY Piccole storie di ordinaria obamamania ai massimi livelli del sistema mediatico italico. Mario Calabresi in un suggestivo reportage apparso su La Repubblica una settimana fa ha scritto che il 93% dei finanziamenti alla campagna di Obama è costituito da contributi dell’importo di meno di 200 dollari, e che il “tesoro” raccolto da San Barack durante le primarie (287 milioni di dollari, contro i 115 di McCain) è “formato in maggioranza da piccole donazioni: 25, 50 e 100 dollari”. Secondo il corrispondente di Repubblica, “grazie ad internet e al messaggio di cambiamento è stata costruita una campagna popolare dove il peso delle lobby e delle multinazionali scompare”. S’avanza quindi un gioioso pueblo di piccoli finanziatori, che marcia “con due gambe: studenti e pensionati”. Francamente, questo dato del 93%, ci è subito sembrato del tutto inverosimile; ma non abbiamo trovato in giro nessuno che lo confutasse. (...) Ci siamo tenuti il dubbio, finché oggi sul New York Times David Brooks ha spiegato che quella di un tesoro di Obama costituito per oltre dal 90% da piccole donazioni di privati non è altro che una leggenda metropolitana, messa in giro dallo stesso Obama “in momenti di esaltazione in cui egli stesso si lascia contagiare dal proprio fervore retorico”. Dati alla mano, Brooks spiega che le donazioni da meno di 200 dollari rappresentano non il 93, bensì il 45% del mitico “tesoro di Obama”: meno della metà di quanto dichiarato da Repubblica. Inoltre, le donazioni individuali costituiscono sì una bella fetta dei finanziamenti raccolti dal candidato democratico, ma provengono per lo più da professionisti dell’industria dell’informazione, da dirigenti del mondo bancario e finanziario, da medici, da avvocati. In una parola: la “clas-
se dirigente”. Altro che “studenti e pensionati”...
Italian Blogs for John McCain italianblogs4mccain.blogspot.com
I CAMPI ROM SONO DEI LAGER E’ accettabile dal punto di vista costituzionale, legale e morale che in Italia ci siano comunità in cui intere famiglie non sono iscritte ad un’anagrafe, non hanno un documento identificativo, non hanno un lavoro in regola e i bambini possono saltare la scuola dell’obbligo, per essere mandati dagli adulti a “fare soldi”? (...) Quindi di cosa parlano coloro che dicono che è discriminante chiedere a queste comunità di comportarsi come gli italiani e gli altri stranieri? (...) Discriminante è lasciare che questa gente viva al di fuori delle regole della società in cui s’insedia, è lasciare in mani sbagliate centinaia di piccoli rom (...). Bambini e adolescenti al di sotto dei 14 anni non sono punibili e vengono sfruttati come minuta manovalanza per commettere reati. (...) Non solo. Quando vengono pizzicati, declinano una sfilza di nomi diversi per impedire di arrivare ai loro sfruttatori-genitori. Occorre intervenire con determinazione, non solo per bambini rom, ma perché essendo in migliaia sono una massa manovrata da adulti disonesti, che infrangono le leggi, rimanendo impuniti. Non si capiscono, quindi, gli strali di “Famiglia Cristiana” e del mondo cattolico alla proposta di Maroni, le cui dichiarazioni (...) saranno strumentalizzate da soliti noti, quelli che si stracciano le vesti quando la Chiesa interferisce sui Dico o sull’aborto. (...) Invece di parlare di “Stato di polizia”, (...) farsi un giro per i campi rom, per appurare che quelli sono i veri lager, dove i bambini crescono fra immondizia e topi, destinati ad un futuro di sfruttamento, a volte persino sessuale.
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