QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA
Alcuni brani di Salvemini consigliano prudenza nell’uso delle parole
e di h c a n o cr
Tre citazioni per consolare il “razzista” Maroni
di Ferdinando Adornato
ESCLUSIVO
di Renzo Foa erto che è diventato facile, fin troppo facile, sprecare impegnative parole come razzismo e discriminazione e lanciare pesanti accuse a questo o quel personaggio pubblico, come sta succedendo in questi giorni a Roberto Maroni per una iniziativa che può non piacere - a me non piace - ma che non va giudicata assolutamente secondo riflessi ideologici. Bisognerebbe cercare di darsi una calmata perché se il ministro degli interni dovesse essere giudicato “razzista” che cosa si dovrebbe dire di autorevoli ed importanti, in certi casi mitologici, personaggi della storia italiana di cui si scoprono alcune “perle”? Ecco, ad esempio tre brevi citazioni tratte dal diario che Gaetano Salvemini annotò tra il 1922 e il 1923, e che uscì postumo sotto il titolo “Memorie e soliloqui” dopo molti anni. Prima citazione. Alla pagina 60, la data è del 4 dicembre 1922, Salvemini parlava di una cena che aveva avuto con l’ambasciatore britannico a Madrid, Esme Haward, in cui si parlò della conferenza di pace di Parigi. Il diplomatico raccontò di Lloyd George e di Woodrow Wilson. «Lloyd George, che poteva orientare il congresso d’accordo con Wilson e imporre la soluzione dei problemi continentali europei, non aveva nessuna idea chiara su niente: si lasciava consigliare non dai tecnici del Foreign Office, ma da ignoti, prevalentemente ebrei».
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XXI secolo
9 771827 881004
ISSN 1827-8817 80703
Cina, Russia, India, Europa: quale sarà il futuro del pianeta? Un saggio del segretario di Stato americano sulle sfide della nuova era
di Condoleezza Rice
alle pagine 2, 3, 4 e 5
s eg ue a pa gi na 23
Parla il segretario di Escrivá
«La crescita è vicina allo zero»
Intervista a Franco Bassanini
Tremonti esclude i tesoretti
«Modello tedesco per una nuova Repubblica»
di Gianfranco Polillo
di Francesco Capozza
di Riccardo Paradisi
di Francesco Rositano
Tremonti dice che il tesoretto non esiste. Poi aggiunge: «La ricchezza da distribuire è un impegno che prenderemo prima dell’estate». Ma se il Paese non cresce, dove sono le risorse?
«Mettiamo in chiaro un concetto: da varie parti si è detto che questa sarà una legislatura costituente. È indubbio, infatti, che una serie di riforme, come quelle costituzionali, vadano fatte».
Il day after dello scontro tra governo e Csm – su cui il capo dello Stato ha cercato con equilibrio di mediare – presenta uno scenario anche peggiore di quello che si poteva già intuire martedì sera.
A 23 anni Julián Herranz era uno dei segretari personali di Josemaría Escrivá de Balaguer, beatificato da Giovanni Paolo II. Adesso, l’amico intimo del fondatore dell’Opus Dei è cardinale di Curia.
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GIOVEDÌ 3 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •
Conflitto istituzionale, tutti contro tutti
Giustizia: una gara a chi è più estremista
NUMERO
124 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Cardinale Herranz, il soldato
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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Da sinistra: le Twin Tower l’11 settembre 2001; Condoleezza Rice con il ministro degli Esteri giapponese Masahiko Komura e il ministro degli Esteri australiano Stephen Smith; monaci birmani che protestano contro il regime dei militari
Esclusivo. Il primo bilancio ufficiale dell’era Bush e le prospettive per un nuovo secolo americano
La nuova sfida: governare con Russia e Cina di Condoleezza Rice è stato un tempo, che abbiamo chiamato significativamente “era post guerra fredda”, in cui sapevamo meglio da dove venivamo che dove stavamo andando perché avevamo capito i cambiamenti epocali che si stavano verificando ma le implicazioni che comportavano erano davvero poco chiare. Poi ci sono stati gli attentati dell’11 settembre, e - come accaduto dopo l’attacco di Pearl Harbor del 1941 gli Stati Uniti sono stati catapultati in un mondo essenzialmente diverso. Siamo stati chiamati a confrontarci con nuove emergenze e con una nuova prospettiva rispetto a ciò che costituiva una minaccia e ciò che poteva presentarsi come un’opportu-
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nità; per questo, come già in passato in seguito a forti traumi, ci sono sia elementi di continuità che di rottura nella nostra politica estera successiva agli attentati dell’11 settembre. Quello che non è cambiato è che i nostri rapporti con le grandi potenze, tradizionali ed emergenti, sono ancora fondamentali; perciò la mia esortazione di otto anni fa di cercare di mantenere buone “relazioni con i grandi Paesi” quali Russia, Cina, India e Brasile ci ha coerentemente guidati, e, come prima, le nostre alleanze nelle Americhe, in Europa e in Asia rimangono i pilastri dell’ordine internazionale, anche se le stiamo evolvendo per andare incontro alle sfide della nuova era. Quello che è cambiato è, in gene-
DEMOCRAZIA POST GUERRA FREDDA Gli Stati Uniti hanno a lungo cercato di coniugare potere e principi, realismo e idealismo; a volte ci sono state lievi tensioni tra loro, ma abbiamo sempre saputo dove risiedano i nostri interessi di lungo termine
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rale, la nostra visione dei rapporti tra le dinamiche interne agli Stati e la distribuzione del potere tra di essi. La globalizzazione ha rinforzato alcuni Paesi ma ha esposto ed esacerbato le fragilità di molti altri, quelli troppo deboli o troppo mal governati per sfruttare determinate possibilità all’interno dei loro confini e prevenire l’espandersi della destabilizzare dell’ordine internazionale. In questa situazione è vitale per la nostra sicurezza nazionale che gli Stati abbiano la volontà e la capacità di assumersi l’ampio raggio delle responsabilità derivanti dalla sovranità, sia all’interno che all’esterno dei propri confini, e questa nuova realtà ci ha portato a qualche significativo cambiamento della nostra politica. Riteniamo infatti che la costruzione di Stati democratici sia ora un elemento essenziale al nostro interesse nazionale, e in Medioriente pensiamo che la libertà e la democrazia siano le uniche idee che possano, con il tempo, portare alla giustizia e alla stabilità, specialmente in Afghanistan e in Iraq. Come in passato, la nostra poli-
prima pagina tica è stata supportata non solo dalla nostra forza ma anche dai nostri valori. Gli Stati Uniti hanno a lungo cercato di coniugare potere e principi, realismo e idealismo; a volte ci sono state lievi tensioni tra loro, ma abbiamo sempre saputo dove risiedano i nostri interessi di lungo termine.
Per questo gli Stati Uniti non sono neutrali circa l’importanza dei diritti umani o la superiorità della democrazia come forma di governo, sia come valore che pratica politica, e questo realismo esclusivamente americano ci ha guidati per gli scorsi otto anni e ci deve guidare per quelli a venire. Per necessità, i nostri rapporti con la Russia e la Cina sono stati fondati più sugli interessi che su principi condivisi.
qualsiasi altro periodo della loro storia, ma questo aspetto non è l’unico traguardo cui la popolazioni punti perché la Russia non è solo una grande potenza, è anche la terra e la cultura di un grande popolo, e nel ventunesimo secolo la grandezza è sempre più determinata dallo sviluppo economico e tecnologico che proliferano naturalmente nelle società libere e aperte.
Questo è il motivo per cui il pieno sviluppo sia della Russia che del nostro rapporto con questo Paese sono ancora in bilico al pari della sua trasformazione interna. Gli scorsi otto anni ci hanno anche obbligati a fare i conti con la crescente influenza cinese, qualcosa che non dobbiamo temere se questo potere viene usato responsabilmente. Abbia-
LA RUSSIA DI PUTIN Il nostro rapporto è stato messo duramente alla prova dalla retorica di Mosca, dalla tendenza a trattare gli Stati confinanti come perdute “sfere di influenza” e dalle sue politiche energetiche che hanno differenti sfumature politiche
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Con la Russia abbiamo trovato un terreno comune, come dimostra l’accordo strategico firmato dal presidente Bush e da Vladimir Putin lo scorso marzo, ma il nostro rapporto con la Russia è stato messo duramente alla prova dalla retorica di Mosca, dalla sua tendenza a trattare gli Stati confinanti come perdute“sfere di influenza” e dalle sue politiche energetiche che hanno differenti sfumature politiche.
Anche gli affari interni della Russia sono stati fonte di forte disappunto, soprattutto perché nel 2000 abbiamo sperato che si stesse avvicinando a noi in termini di valori e principi, ma è utile ricordare che la Russia non è l’Unione Sovietica; non è né un nemico permanente né una minaccia strategica. I russi adesso godono di maggiori opportunità e libertà personale che in quasi
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mo ricordato a Pechino che dalla piena appartenenza alla comunità internazionale derivano responsabilità, sia nell’ambito della politica economica e commerciale che nell’approccio alle questioni energetiche e ambientali, e riguardo le politiche verso il mondo in via di sviluppo. I dirigenti cinesi se ne rendono sempre più conto e si stanno muovendo, anche se lentamente, verso una maggiore cooperazione su molti problemi. Ad esempio,
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in Darfur, dopo anni di inequivocabile sostegno a Khartoum, la Cina ha appoggiato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che autorizza il dispiegamento di una forza di pace composta da soldati delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, e l’invio di un battaglione di ingegneri per aprire la strada a queste unità; certo la Cina deve fare molto di più riguardo questioni come il Darfur, la Birmania e il Tibet, ma noi sosteniamo un proficuo e schietto dialogo con i leader cinesi su questi argomenti. Gli Stati Uniti, insieme a molti altri Paesi, continuano ad essere preoccupati circa il rapido sviluppo cinese di armi altamente tecnologiche. Noi capiamo che quando i Paesi si sviluppano tendono a modernizzare le loro forze armate, ma la mancanza di trasparenza da parte della Cina riguardo le sue spese militari, le sue intenzioni e i suoi obiettivi strategici alimentano la sfiducia e il sospetto.
Sebbene Pechino abbia accettato di approfondire gli scambi militari con gli Stati Uniti, questo deve accadere in una logica di scopi pacifici e in direzione di un reale impegno al fine di rassicurare la comunità internazionale. I nostri rapporti con Russia e Cina sono dunque complicati e caratterizzati sistematicamente dalla competizione e dalla cooperazione, ma in assenza di relazioni accettabili con entrambi le soluzioni diplomatiche di molti problemi internazionali sarebbero vaghe. Il terrorismo transnazionale e la proliferazione di armi di distruzione di massa, i cambiamenti climatici e l’instabilità prodotta dalla povertà e dalle malattie sono pericoli per
CINA: SFIDUCIA E SOSPETTO Gli Stati Uniti continuano ad essere preoccupati circa il rapido sviluppo cinese di armi altamente tecnologiche. La mancanza di trasparenza riguardo le sue spese militari, le sue intenzioni e i suoi obiettivi strategici alimentano sospetto
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L’INDIA, AVAMPOSTO DELLA DEMOCRAZIA La nazione indiana si trova in bilico sulla linea della globalizzazione; questa nazione democratica promette di diventare una potenza mondiale e un alleato nella formazione di un ordine internazionale fondato sulla libertà e il diritto
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tutti gli Stati floridi, inclusi quelli che in epoche diverse si sono confrontati con rivali violenti; è dunque urgente per gli Stati Uniti trovare aree di cooperazione e accordi strategici con la Russia e la Cina, anche quando sussistono significative differenze. Ovviamente questi due Paesi hanno responsabilità e oneri particolari in quanto membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ma questo non è il solo ambito nel quale abbiamo lavorato insieme.
Un esempio è la costituzione del gruppo Sei per la questione del nucleare nordcoreano, che avrebbe potuto portare ad un conflitto tra gli Stati dell’Asia nord-orientale o all’isolamento degli Stati Uniti, visti i vari e vitali interessi in gioco della Cina, del Giappone, della Russia, della Corea del Sud e dell’America; invece si è rivelata un’opportunità di cooperazione e coordinamento per un progresso verificabile del processo di denuclearizzazione, e quando la Corea del Nord, lo scorso anno, ha testato un dispositivo nucleare, gli altri cinque membri del gruppo erano già coalizzati e si sono velocemente rivolti al Consiglio di Sicurezza per una risoluzione. Questo atteggiamento esercita una notevole pressione sulla Corea del Nord e l’ha spinta a tornare a dialogare con il gruppo Sei e a chiudere e smantellare il reattore di Yongbyon. I Paesi membri del gruppo intendono istituzionalizzare questo volontà di cooperazione attraverso la costituzione di un Organo per la Pace e la Sicurezza dell’Asia nord-orientale, un primo passo verso un più ampio stato di sicu-
Da sinistra: aiuti umanitari delle Nazioni Unite nella travagliata regione sudanese del Darfur; Condoleezza Rice con il primo ministro svedese Fredrik Reinfeldt; una protesta di piazza in India
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rezza nella regione. L’importanza di forti relazioni con i protagonisti mondiali si estende anche ai Paesi emergenti. Con questi, in particolare India e Brasile, gli Stati Uniti hanno costruito più profondi e ampi legami.
L’India si trova in bilico sulla linea della globalizzazione; questa nazione democratica promette di diventare una potenza mondiale e un alleato nella formazione di un ordine internazionale fondato sulla libertà e il diritto, e il successo brasiliano nell’usare la democrazia e il mercato per superare secoli di terribili ineguaglianze sociali ha una risonanza globale. Oggi l’India e il Brasile guardano all’esterno come mai prima, certi della loro capacità di competere e di riuscire nel mercato mondiale, e in entrambi i Paesi gli interessi nazionali sono stati ridefiniti nel momento in cui indiani e brasiliani si sono resi conto del loro coinvolgimento diretto in un ordine internazionale democratico, sicuro e aperto e delle responsabilità che ne derivano per rafforzarlo e difenderlo dai maggiori pericoli del nostro tempo. Abbiamo un interesse vitale nel successo e nella prosperità di queste e altre grandi democrazie multietniche con capacità globali come l’Indonesia e il Sud Africa, e così come queste potenze emergenti cambieranno il panorama geopolitico, sarà importante che le istituzioni internazionali cambino anch’esse per riflettere questa realtà. Questo è il motivo per cui il presidente Bush ha reso noto il suo sostegno per una ragionevole espansione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
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Da sinistra: il dittatore nordcoreano Kim Jong-il; il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva; il premier cinese Hu Jintao mportante quanto le relazioni con la Russia e la Cina è il lavoro con i nostri alleati - quelli con i quali condividiamo determinati valori - che sta trasformando le politiche internazionali e offre l’opportunità di espandere la schiera del buon governo, degli Stati democratici rispettosi della legge e di sconfiggere gli sfidanti di questa visione dell’ordine internazionale. La cooperazione con i nostri alleati democratici, quindi, non dovrebbe essere giudicata semplicemente dal modo in cui ci rapportiamo all’uno o all’altro, ma dal lavoro che facciamo insieme per sconfiggere il terrorismo e l’estremismo, andare incontro alle opportunità globali, difendere i diritti e la dignità umane e sostenere le nuove democrazie. Nelle Americhe, questo ha significa-
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vere una nuova storia che parla non solo di sviluppo macroeconomico e commerciale, ma anche della necessità che i leaders democratici risolvano i problemi di giustizia sociale e ineguaglianza. Io credo che uno dei punti forti del nostro tempo sia il nostro rapporto con gli alleati più antichi; l’obiettivo di un’Europa unita, libera e pacifica è molto vicino, e gli Stati Uniti gradiscono un’Europa forte e coerente, perché non ci sono dubbi che l’Unione Europea sia stata un’eccellente ancora per l’evoluzione democratica dell’Europa dell’est dopo la Guerra Fredda. Se tutto va bene, lo stesso accadrà quando la Turchia farà il suo ingresso nella UE, perché l’obiettivo dell’appartenenza all’Unione Europea e alla Nato è stata abbastanza forte da portare più
SUDAMERICA, IL “CORTILE DI CASA” Nelle Americhe, abbiamo rafforzato i nostri legami con democrazie strategiche come Canada, Messico, Colombia, Brasile e Cile, per promuovere lo sviluppo democratico del nostro emisfero. E abbiamo sostenuto la transizione di Haiti
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to rafforzare i nostri legami con democrazie strategiche come Canada, Messico, Colombia, Brasile e Cile, al fine di promuovere lo sviluppo democratico del nostro emisfero. Insieme abbiamo sostenuto Stati in lotta come Haiti nella loro transizione verso la democrazia e la sicurezza; insieme stiamo difendendo noi stessi dai trafficanti di droga, dalle bande criminali e dalle poche deviazioni autocratiche del nostro emisfero. La regione presenta ancora sfide, inclusa la transizione di Cuba e la necessità di supportare, inequivocabilmente, i diritti dei cubani ad un futuro democratico, e non ci sono dubbi che secoli di vecchi pregiudizi verso gli Stati Uniti persistano, ma abbiamo cominciato a scri-
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Paesi a fare riforme necessarie e a cercare una soluzione pacifica agli antichi conflitti con i loro vicini, ma è vero anche il contrario: i nuovi membri hanno trasformato questi due pilastri delle relazioni transatlantiche. Dodici dei ventotto membri della Nato sono ex “nazioni prigioniere”, Paesi che una volta facevano parte della sfera sovietica; l’effetto della loro unione all’alleanza è una rinnovata dedizione alla promozione ed alla protezione della democrazia. Mandando truppe in Afghanistan e in Iraq o difendendo accanitamente la continua espansione della Nato, questi Stati hanno portato nuova energia e fervore nell’alleanza, e negli ultimi anni anche la missione e lo scopo dell’alleanza stessa sono cam-
biate. Molti ricorderanno quando la Nato vedeva il mondo diviso in due parti: l’Europa e “fuori da”, che poteva essere essenzialmente qualsiasi altro posto. Se qualcuno, nel 2000, avesse detto che la Nato oggi avrebbe cacciato i terroristi da Kandahar, addestrato le forze di sicurezza di un Iraq libero, provvisto a sostenere le forze di pace in Darfur, e proseguito nel sistema di difesa missilistica – si spera in collaborazione con la Russia – chi gli avrebbe creduto? La durata e la resistenza dell’alleanza transatlantica è il motivo per cui credo che Lord Palmerston sia in errore quando sostiene che le nazioni non abbiano alleati permanenti. Gli Stati Uniti ne hanno: i Paesi con i quali condividono valori comuni. La democratizzazione sta avanzando anche lungo la regione dell’Asia esposta sul Pacifico, e questo sta allargando la nostra cerchia di alleati e promuovendo gli obiettivi che condividiamo. Invero, sebbene molti ritengano che lo sviluppo della Cina determinerà il futuro dell’Asia, lo stesso farà – e forse ad un livello maggiore – la crescita di un insieme di Stati confinanti sempre più democratici. Questo è lo scenario geopolitico che definisce il ventunesimo secolo, e gli Stati Uniti ne sono al centro. Siamo felici di una forte alleanza con l’Australia, con gli Stati-chiave dell’Asia sudorientale e con il Giappone, un gigante economico che si sta affermando come uno Stato “normale”, in grado di lavorare per la sicurezza e diffondere i nostri valori sia in Asia che nei dintorni, e la Corea del Sud, anche, è diventata un
GLI ALLEATI STORICI Siamo felici di una forte alleanza con l’Australia, con gli Stati-chiave dell’Asia sud-orientale e con il Giappone, un gigante economico che diffonde i nostri valori sia in Asia che nei dintorni, e la Corea del Sud
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partner mondiale la cui storia può vantare un impressionante viaggio dalla povertà e dalla dittatura alla democrazia e alla prosperità. Infine, l’America ha un interesse vitale nell’ascesa dell’India al potere ed alla prosperità, e i rapporti tra i due Paesi non sono mai stati così forti o ampi. È un processo che richiederà un lavoro costante, ma è un’apertura importante sia per i nostri interessi strategici che per i nostri valori. Passiamo alle democrazie emergenti nostre alleate in Africa. Troppo spesso l’Africa è considerata solo come una preoccupazione umanitaria o una zona di conflitto, ma il Continente ha conosciuto transizioni positive alla democrazia in molti Stati, tra cui Ghana, Liberia, Mali e Mozambico. La nostra amministrazione ha lavorato per aiutare i leaders democratici di questi e altri Stati a provvedere alle loro genti, soprattutto combattendo il flagello continentale dell’HIV/AIDS in uno sforzo senza precedenti di energia, immaginazione e compassione; siamo stati anche parte attiva nella risoluzione di alcuni conflitti: dalla firma dell’accordo di pace che ha messo fine alla guerra civile tra nord e sud del Sudan all’impegno nella regione dei
UN’EUROPA FORTE E COERENTE Non ci sono dubbi che l’Unione Europea sia stata un’eccellente ancora per l’evoluzione democratica dell’Europa dell’est dopo la Guerra Fredda. Se tutto va bene, lo stesso accadrà quando la Turchia farà il suo ingresso nella Ue
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Grandi Laghi, fino alla partecipazione di un piccolo contingente di forze militari americane - in coordinamento con l’Unione Africana - per porre fine alla guerra in Liberia. Nonostante la guerra in Darfur, in Somalia e in altri posti permanga tragicamente violenta e irrisolta, è giusto notare i considerevoli progressi che gli Stati africani stanno facendo su molti fronti e il ruolo che gli Stati Uniti hanno giocato a sostegno degli sforzi fatti per risolvere i maggiori problemi del Continente. Anche se la capacità degli Stati Uniti di influenzare gli stati più forti è limitata, la nostra abilità di migliorare lo sviluppo politico ed economico pacifico di stati governati con debolezza e non adeguatamente è notevole. Dobbiamo essere disposti ad usare il nostro potere a questo proposito – non solo perchè ciò è necessario ma anche perchè è giusto. Troppo spesso, promuovere la democrazia e promuovere lo sviluppo sono visti come obiettivi separati. In realtà è sempre più evidente che la pratica e l’istituzione della democrazia sono essenziali per la creazione di uno sviluppo economico generale e prolungato. – e che uno sviluppo guidato dal mercato è essenziale al consolidamento della democrazia. Lo sviluppo democratico è un modello unificato politico-economico, e offre un mix di flessibilità e stabilità che consente agli stati di cogliere tutte le opportunità che offre la globalizzazione e portare avanti le proprie sfide al meglio. E per quelli che la
prima pagina pensano diversamente: Che reale alternativa degna dell’America esiste? Lo sviluppo democratico non è solo un sentiero valido verso il benessere e il potere; è anche il modo migliore per assicurare che questi benefici siano ripartiti giustamente nell’intera società, senza esclusione repressione o violenza. Lo abbiamo visto di recente in Kenya, dove la democrazia ha permesso alla società civile, alla stampa e ai leader economici di unirsi per insistere su un patto politico globale che possa arrestare la scivolata del paese verso una pulizia etnica e creare più ampi presupposti per la riconciliazione nazionale. Nel nostro emisfero, lo sviluppo democratico ha aperto
quando il rendimento della democrazia è troppo lento o incapace di soddisfare le grandi aspettative di una vita migliore. Però, per ogni stato che abbraccia l’autoritarismo e riesce a creare benessere, ce ne sono tanti di più che non fanno altro che peggiorare povertà, disuguaglianza, e corruzione. E nel caso di quelli che hanno una economia abbastanza buona, vale la pena chiedersi se essa non migliorerebbe in un sistema libero. Infine, è ancora da capire se il capitalismo autoritario in sé sia un modello indefinitamente sostenibile. É davvero possibile per i governi, rispettare a lungo andare il talento dei propri cittadini ma non i loro diritti? Io, per una volta, ne du-
IL LATO POSITIVO DELL’AFRICA Troppo spesso l’Africa è considerata soltanto come una preoccupazione umanitaria o una zona di conflitto, ma il Continente ha conosciuto transizioni positive alla democrazia in molti Stati, tra cui Ghana, Liberia, Mali e Mozambico
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sistemi vecchi ed elitari a milioni di persone ai margini della società. Queste persone ora chiedono i benefici della cittadinanza a lungo negati, e visto che lo stanno facendo democraticamente, la vera storia nel nostro emisfero, fin dal 2001 no è che i nostri vicini hanno rinunciato alla democrazia e al mercato aperto; è che loro stanno ampliando il consenso delle nostre regioni in supporto di uno sviluppo democratico assicurando che porta esso ad una giustizia sociale per i cittadini più emarginati. Il disordine della democrazia ha portato alcuni a domandarsi se non sarebbe meglio per gli stati deboli passare attraverso un periodo di capitalismo autoritario. Alcuni paesi infatti ce l’hanno fatta con questo sistema, e il suo fascino aumenta solo
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bito. Per gli Stati Uniti, promuovere lo sviluppo democratico deve rimanere una priorità. Infatti non c’è nessuna alternativa realistica che possiamo – o dovremmo - offrire per influenzare una evoluzione pacifica degli stati governati inadeguatamente e con debolezza. La vera domanda non è se portare avanti questa corsa ma come. Dobbiamo innanzi tutto riconoscere che lo sviluppo democratico è sempre possibile ma mai veloce o facile. Questo perchè la democrazia è davvero una complessa interazione di pratiche e culture democratiche. Nell’esperienza di numerose nazioni, specialmente la nostra, vediamo che cultura non vuol dire destino. Nazioni di ogni cultura, razza religione, e livello di sviluppo hanno
abbracciato la democrazia e l’hanno adattata alle proprie circostanze e tradizioni. Nessun fattore culturale si è mai rivelato scoglio insormontabile – non il “militarismo” tedesco o giapponese, non i “Valori asiatici”, non il “tribalismo” africano, non il presunto amore latino americano per i dittatori, non la supposta preferenza dell’Europa dell’est per il dispotismo. Il fatto è che poche nazioni hanno intrapreso la via democratica avendo già una cultura democratica alle spalle. La maggior parte se ne crea una con il tempo – attraverso la dura battaglia quotidiana per fare delle buone leggi, costruire istituzioni democratiche, tollerare le differenze, risolverle pacificamente, e distribuire il potere giustamente. Sfortunatamente è difficile far crescere gli ideali della democrazia nell’ ambiente controllato dell’autoritarismo e averli pronti e a posto appena finita la tirannia. Il processo di democraticizzazione è di solito confuso e insoddisfacente, ma è assolutamente necessario. Si dice che la Democrazia non possa essere imposta, specialmente da un potere straniero. Ciò è vero ma non c’entra con il nostro discorso. È più facile che sia la tirannia a dover essere imposta. La storia oggi raramente è quella che un popolo resiste alla democrazia – il diritto di scegliere chi lo governerà e altre libertà fondamentali. La storia parla invece di gente che sceglie leader democratici che poi diventa impaziente con loro e li ritiene responsabili del compito che si sono assunti di dispensare uno standard di vita migliore. È nel nostro più vivo interesse nazionale aiutare questi leader, supportare le istituzioni democratiche dei loro paesi, e assicurare che i loro nuovi governi siano capaci di mantenerle al sicuro, specialmente quando le loro nazioni hanno avuto esperienza di conflitti invalidanti. Per fare questo sa-
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ranno necessarie collaborazioni a lungo termine radicate in una responsabilità reciproca e l’integrazione di tutti gli elementi del nostro potere nazionale – potere politic, diplomatico, economico e, nel caso, militare. Abbiamo recentemente stabilito cooperazioni produttive con paesi come Colombia, Libano e Liberia. Infatti circa dieci anni fa, la colombia era sull’orlo del fallimento. Oggi, in parte grazie alla nostra collaborazione a lungo termine con coraggiosi leader e cittadini, la Colombia compare come una nazione normale, conistituzioni economiche che difendono il paese, governano giustamente, riducono la povertà, e contribuiscono alla sicurezza nazionale. Ora, dobbiamo costruire collaborazioni a lungo termine con altre nuove e fragili democrazie, specialmente con l’Afghanistan. In questo paese si stanno radicando le basi della democrazia dopo quasi trenta anni di tirannia, violenza e guerra. Per la prima volta nella loro storia, gli Afghani hanno un governo del popolo, eletto in elezioni parlamentari e presidenziali, e guidate da una costituzione che codifica i diritti di tutti i cittadini. La sfi-
no, con il supporto della comunità internazionale, è stato capace di governare bene e produrre ricchezza economica, i Talebani sono in ritirata. Gli Stati Uniti e la NATO, hanno un interesse vitale nel supportare la nascita di uno stao Afghano democratico ed efficiente che possa sconfiggere i Talebani e portare “sicurezza al popolo” – affrontando bisogni fondamentali per la sicurezza, serevizi, uno stato di diritto e le maggiori opportunità economiche. Noi condividiamo questo oniettivo con la popolazione Afghana, che non vuole che non ce ne andiamo ficnhè non avremo portato a termine la nostra missione comune. Noi possiamo farcela in Afghanistan, ma dobbiamo essere pronti a sostenere una collaborazione con quella nuova democrazia per molti anni. Uno dei nostri strumenti migliori per supportare gli stati nel costruire istituzioni democratiche e rafforzare la società civile è la nostra assistenza straniera, ma dobbiamo usarla correttamente. Una delle grandi proposte degli ultimi otto anni è stata la creazione di un consenso bipartisan per un uso più
AVANGUARDIA AFGHANISTAN Gli Stati Uniti e la Nato hanno un interesse vitale nel supportare la nascita di uno stato afghano democratico ed efficiente che possa sconfiggere i Talebani e portare “sicurezza al popolo”, affrontando i suoi bisogni
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da in Afghanistan non nasce da un potente nemico. I Talebani offrono una visione politica che davvero pochi Afghani condividono. Piuttosto, sfruttano lattuale limitazione del governo Afghano, usando violenza contro i civili e i guadagni fatti con il traffico di narcotici per imporre le loro regole. Dove il governo Afgha-
Da sinistra: il presidente russo Vladimir Putin; Condoleezza Rice insieme alla First Lady, Laura Bush; il presidente venezuelano Hugo Chavez
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strategico dell’assistenza straniera. Abbiamo cominciato a trasformare la nostra assistenza in un incentivo per stati in via di sviluppo a giustamente, governare avanzare la libertà economica e investire nel loro popolo. Questa è la vera innovazione dell’iniziativa Millennium Challenge Account.
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politica Per il ministro «crescita vicino allo zero». Ma la spesa cala
a mano destra dovrebbe sempre sapere cosa fa la mano sinistra. È un detto che vale per la vita. A maggior ragione dovrebbe valere per la politica economica e finanziaria del Paese. Ma così, purtroppo, non sembra: almeno a giudicare dalla performance di Giulio Tremonti presso le commissioni Bilancio di Camera e Senato. Ci aspettavamo un intervento sobrio: fatto di cifre e di spiegazioni. Abbiamo, invece, assistito a un duello del ministro contro tutti. Contro l’opposizione, che non capisce la globalizzazione. Contro Mario Draghi – ma che c’entrava? – che non lo segue nella sua crociata contro la speculazione internazionale.
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Per il resto un groviglio di contraddizioni. Si fa fatica a seguire il filo logico del suo ragionamento. La prima affermazione è sulla crescita economica, che non ci sarà. È «molto vicina allo zero», ha detto testualmente. Per la verità non è una novità. Forse qualche indicazione più precisa avrebbe consentito di far pendere il giudizio a favore di Confindustria, che ipotizza un tasso di crescita dello 0,1 per cento, o della Commissione europea, che parla invece dello 0,5. Ci aspettavamo lumi sul tasso di crescita del Pil nominale, che il Dpef stima al 3,6 per cento, prevedendo un tasso di inflazione appena pari al 2,9 (cosa improbabile visto gli attuali andamenti); ma anche queste attese sono andate deluse. Pensavamo che giustificasse il suo pessimismo sulla dinamica delle entrate. E invece soltanto un’affermazione apodittica: il tesoretto non esiste. Per poi aggiungere, senza soluzione di continuità: «Se c’è sviluppo e ricchezza da distribuire questa va distribuita in termini fiscali a favore di redditi da lavoro dipendente, delle pensioni e della famiglia. È un impegno che pensiamo di formalizzare e prendere prima dell’estate». Ossia, se capiamo bene, nei prossimi giorni. Come interpretare queste parole? Se il Paese non cresce e i tesoretti non esistono, dove sono le risorse da distribuire? E allora perché prendere impegni così ravvicinati? Avremmo capito
Tremonti fa il pessimista ed esclude i tesoretti di Gianfranco Polillo se questa decisione fosse stata rinviata alla fine di novembre, quando sarà nota l’entità effettiva del gettito. Ma che cambia da qui a qualche giorno? Mistero. Nel frattempo gli indizi, che non sono una prova, vanno in una direzione contraria. Proprio ieri il ministero dell’Economia ha diffuso i dati sul
pati. La previsione a fine anno è invece catastrofica. La voragine ipotizzata è di circa 46 miliardi, con un peggioramento di oltre il 100 per cento. È anche possibile – noi ne dubitiamo, visto anche l’intervento di Mario Draghi alle stesse Commissioni - ma non sarebbe stato opportuno spendere qual-
tandosi del primo atto della manovra d’estate – da includere nel programmatico. Se si fosse seguita la strada indicata si sarebbe potuto certificare una diminuzione della medesima di 0,3 punti e non un aumento dello 0,2, come invece appare a prima vista. È la stessa cosa: si potrebbe dire. Non
Il responsabile del Tesoro annuncia una stretta nella dinamica delle entrate. Intanto il fabbisogno diminuisce nel primo semestre di 6 miliardi. Ci sono allora le basi per quel taglio delle tasse chiesto anche da Draghi? fabbisogno statale relativo al primo semestre dell’anno. I risultati sono più che positivi. L’anno scorso il deficit di bilancio era stato pari all’1,9 per cento del Pil, il fabbisogno a poco più di 11 miliardi. In questo semestre, il miglioramento complessivo è stato di circa 3 miliardi che diventano 6, se si considerano gli esborsi antici-
che parola sui fattori di rischio che giustificano questa drammatica inversione di tendenza?
Gli elementi di dubbio, come si vede, sono molteplici e hanno un loro fondamento oggettivo. L’impressione, molto epidermica, è che ci sia un po’ di confusione. Che gli uffici del ministero vadano per conto loro, com’è altre volte capitato. Non abbiamo elementi particolari a nostra disposizione, se non la lettura attenta delle carte. Ma non sono coerenti con le affermazioni del ministro. Prendiamo il Dpef. La revisione delle stime formulate dal precedente governo aveva ipotizzato una riduzione della pressione fiscale dal 43,1 al 42,8 per cento. Una piccola riduzione, comunque significativa. Subito azzerata, per aumentarla, in termini programmatici, al 43 per cento. È successo che la nuova previsione incorporava gli effetti dei provvedimenti sull’Ici e sulla defiscalizzazione degli straordinari. Formalmente da inserire nella “legislazione vigente”, ma più ragionevolmente – tratDa sinistra, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Accanto, il suo predecessore in via XX Settembre, Tommaso Padoa-Schioppa
tanto, visto che l’opposizione, giustamente, ha utilizzato questo episodio per denunciare che il governo violava il suo programma elettorale. L’altra soluzione era più trasparente: indicava che la pressione fiscale sarebbe comunque diminuita nonostante le maggiori imposte – che ne aumentano il peso relativo – esclusiva-
mente a carico di banche, assicurazioni, petrolieri, cooperative e stock option.
Questi episodi rivelano, se non altro, una forte sottovalutazione delle esigenze connesse con la comunicazione politica e istituzionale. Che è un fattore cruciale nelle moderne democrazie. Ma non solo. Il cuore della proposta politica dell’attuale governo era riduzione dell’oppressione fiscale e sviluppo delle infrastrutture. Nei quadri programmatici predisposti dalla Ragioneria generale dello Stato non si vede né l’uno né l’altro. La pressione fiscale rimane inchiodata al 43 per cento, con un leggero aumento nei prossimi tre anni. La spesa in conto capitale si riduce bruscamente. Era cresciuta, nel complesso, dal 2001 al 2006. Scende rapidamente, quasi dimezzandosi, nella proiezione al 2013. Una falcidia che colpisce sia gli investimenti sia i trasferimenti alle imprese. Che dire quindi? Che forse Tremonti ha indossato i panni di Quintino Sella e la sua ossessione monetaria. Francamente lo preferivamo nella veste – criticata – del “creativo”. Per il resto si tratta di un atteggiamento anche comprensibile. Tremonti ha bisogno di dipingere a tinte fosche il quadro finanziario, per dare più forza alla sua manovra di contenimento. È un espediente al quale hanno fatto ricorso molti ministri del Tesoro, prima di lui. Non ultimo Padoa-Schioppa. L’importante, in questi casi, è un velo – non chiediamo di più – di coerenza. Se questo viene meno e i numeri non coincidono con le parole, ne va di mezzo la credibilità non della sua persona, ma della manovra stessa. Nel linguaggio alla Greenspan – tutto e il contrario di tutto – questa preoccupazione sembra trasparire. L’impegno a ridurre la pressione fiscale sembra essere ancora presente, anche se in attesa di tempi migliori. O meglio di una maggiore certezza sull’andamento del gettito fiscale. Speriamo che questo accada, perché la lotta a quell’oppressione – su cui il Pdl ha costruito la sua vittoria elettorale – e su cui ha ulteriormente insistito ieri il governatore di Bankitalia è un’esigenza reale e incomprimibile.
politica
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Conflitto istituzionale. Di Pietro contro D’Arcais, Veltroni contro Di Pietro e Berlusconi contro tutti
Una gara a chi è più estremista di Riccardo Paradisi
d i a r i o ROMA. Il day after dello scontro tra governo e Csm – su cui il capo dello Stato ha cercato con equilibrio di mediare – presenta uno scenario anche peggiore di quello che si poteva già intuire martedì sera. Quando si era capito che se la lettera del presidente Napolitano era riuscita a contenere lo scontro istituzionale tra governo e magistratura non era però riuscita a inibire la volontà degli attori in conflitto di tenere orgogliosamente il punto e mantenere minato il terreno politico del Paese. Da una parte infatti Berlusconi annuncia che sarà in televisione giovedì (stasera) per spiegare agli italiani come siano necessari e quanto urgenti i provvedimenti di legge contro intercettazioni e incursioni politiche della magistratura nelle attività di governo. Dal fronte opposto il Csm aggira il monito di Napolitano – «Non spetta all’organo di autotutela della magistratura il vaglio sulla costituzionalità delle norme» – e con un beffardo giro di frasi riesce bizantinamente a insinuare nel suo parere anche il giudizio di incostituzionalità sul ”blocca processi”.
Del resto che si viva nella perpetua vigilia di uno scontro istituzionale in campo aperto lo dimostra il ventaglio di interpretazioni sull’intervento del Presidente della repubblica di martedì. La maggioranza con il suo leader fa capire che il capo dello Stato ha ascoltato il consiglio dei presidenti della Camera – costringendo il Quirinale a precisare che il Presidente della Repubblica non risponde delle sue iniziative – il leader dell’Idv Antonio Di Pietro sostiene che Napolitano sia stato addirittura raggirato da Berlusconi, che «è un’incallito furbacchione», mentre il Pd pubblicamente plaude al presidente della Repubblica, evidenziando la parte della lettera dove Napolitano parla dell’opportunità, da parte del Csm, di esprimere un parere su norme che come il Lodo Schifani bis e la blocca processi hanno un’incidenza sulla rimodulazione della cornice dello stesso Stato di diritto, ma in fondo, come hanno già rivelato indiscrezioni e retroscena, avrebbe preferito che quel parere di incostituzionalità arrivasse. Risparmiando a Veltroni lo sfibrante confronto con Di Pietro giocato sulla precarissima alchimia tra il non lasciare il campo dell’opposizione all’Idv e il mantenere un profilo moderato evitando il risucchio nel populismo dell’ex Pm. Insomma siamo lontani da un recupero, pure minimo, di confronto costruttivo e civile. Anzi nel furore della
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g i o r n o
Betancourt libera: sì unanime della Camera Sì pressoché unanime dell’Aula della Camera alle mozioni di maggioranza ed opposizione per la liberazione di Ingrid Betancourt, la candidata alle presidenziali in Colombia dal 2002 ostaggio delle Farc. L’Assemblea di Montecitorio ha approvato con la sola astensione dei deputati Radicali del Pd le mozioni che impegnano il governo «a sostenere ogni sforzo ed ogni azione diplomatica della Francia e della comunità internazionale a favore di Ingrid Betancourt e degli altri ostaggi delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia in linea con i principi e i valori di libertà e democrazia che appartengono al dna costituzionale, politico e culturale dell’Italia; a fare propria la causa della lotta alla corruzione e al narcotraffico perché si ponga fine a questa barbarie e ad anni di lotte fratricide, che ancora insanguinano la terra colombiana».
I giornalisti dicono no alla censura La Federazione nazionale della Stampa, l’Ordine dei giornalisti e l’Unione cronisti pronta ad intervenire contro il decreto legge sulle intercettazioni. «Se il governo farà ricorso al decreto in materia di intercettazioni scenderemo in piazza». Lo ha detto il segretario della Fnsi, Franco Siddi, concludendo l’incontro «Etica e diritto di cronaca: no alle censure» organizzato di concerto con gli altri due organismi di categoria. rissa c’è chi, come il direttore di Micromega Flores D’Arcais riesce a superare in tremendismo persino Antonio Di Pietro. Fornendo anche uno spartito colto all’estremismo di questa stagione neogisutizialista e populista. D’Arcais descrive come eversori Fini Bossi e Berlusconi, poi definisce censorio e vergognoso l’intervento di Napolitano sul Csm, infine accusa il leader del Pd Veltroni – “colpevole” di non partecipare alla manifestazione di sabato prossimo in Piazza del Pantheon – di inciuciare, per “omessa opposi-
Maggioranza e opposizione leggono strumentalmente la lettera di Napolitano al Csm. Ognuno tenta di tirare a sé il Quirinale zione” con il presidente del Consiglio. Giacobinismo purissimo. Tanto puro e distillato da mettere in imbarazzo anche Furio Colombo, esponente del Pd ed ex direttore dell’Unità al tempo dei girotondi, costretto a chiarire: «Se la manifestazione sarà contro Veltroni io non ci vengo». Ma soprattutto è Di Pietro, per una volta, a dover gettare acqua sul fuoco. Costretto a definire ineccepibile il parere di Napolitano sulle competenze e incompetenze del Csm «e del tutto inappropriate le
critiche pesanti portate al presidente della Repubblica. Non meno lasciano perplessi – aggiunge con insolito aplomb diplomatico e istituzionale Di Pietro – i toni inutilmente aggressivi rivolti al leader del Pd per la scelta di non partecipare all’iniziativa dell’8 luglio. Se davvero, come noi crediamo, il Paese attraversa una fase di emergenza democratica, allora l’opposizione ha una responsabilità su tutte, e l’Italia dei Valori questa responsabilità intende assumersela, quella di evitare inutili divisioni o protagonismi».
Di Pietro insomma ha scoperto che quando si fa a gara fra puristi come diceva Nenni si troverà sempre qualcuno più puro, che alla fine ti epura. Ma domani è un altro giorno e l’ex Pm, dopo che Berlusconi avrà parlato a ”Matrix”, potrà tornare a fare il suo mestiere. A meno che qualcuno nel Pd non decida di rubarglielo. Come il deputato del Pd Pietro Barbi che ieri dichiarava: «All’opposizione serve un anti-Berlusconismo democratico, perché oggi siamo in un dilemma dal 1994, che è il seguente: il Paese ha bisogno di riforme che si possono fare solo con il concorso di Berlusconi, ma una delle riforme fondamentali che serve al Paese, prima ancora di quelle istituzionali e politiche, è di tipo civile e questa riforma si può fare solo contro Berlusconi visto che egli è per antonomasia il portatore del conflitto di interessi». Questa è l’aria che tira. E non è bella.
Maroni: «Sui minori in linea con la Ue» «Nella procedura di identificazione dei minori nomadi che vivono nei campi rom, non c’è nessuna violazione di nessuna norma: né delle norme europee, né delle carte dei diritti dei minori». Lo ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni nel corso del question time alla Camera, ribadendo che le polemiche dei giorni scorsi sulla possibilità prevista dall’ordinanza, di prendere le impronte ai minori sono «infondate e strumentali, che non tengono conto dei contenuti dell’ordinanza». Il ministro ha anche affermato che il censimento avviato dal governo nei campi nomadi, compresa l’identificazione di «tutti i minori che ci vivono», verrà concluso entro il 15 ottobre.
Aids: pronto un vaccino italiano Nuovo passo in avanti per il vaccino italiano contro l’Aids: oggi l’Istituto Superiore di Sanità (Iss) ha annunciato il via libera alla seconda fase della sperimentazione. A giorni comincerà l’arruolamento di 128 pazienti sieropositivi nei dieci centri che hanno detto sì alla sperimentazione, coordinati dal policlinico di Modena. Il vaccino, messo a punto dal gruppo di Barbara Ensoli presso l’Iss, è prodotto in Italia, presso l’università di Urbino, interamente con fondi pubblici e la sperimentazione è finora stata finanziata complessivamente con 21 milioni di euro.
Frattini: «L’Europa ha bisogno di una forte scossa» «L’Unione europea ha bisogno di una scossa per andare avanti nel processo di integrazione. La gente di problemi concreti, di politiche e non solo di assetti istituzionali. L’Italia farà la sua parte, assicura. A partire dalla ratifica entro l’estate da parte del Parlamento del Trattato». Lo ha affermato il Ministro degli Esteri italiano nel corso di un forum organizzato da un’agenzia di stampa, intervenendo sul no irlandese e su quello polacco all’approvazione del Trattato di Lisbona. E annunciando che presto si troverà il modo per uscire dall’attuale stallo.
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pensieri
L’adesione di Umberto Eco alla manifestazione girotondina dell’8 luglio
Il girotondo di Foucault di Angelo Crespi arebbe facile fare dell’ironia, ma sono convinto che le prese di posizione di Umberto Eco, per la sua indiscussa autorevolezza, debbano essere sempre analizzate con la massima attenzione. Ieri le agenzie e numerosi siti riportavano la notizia che il professor Eco esprimendo solidarietà, ufficializzava la propria adesione alla manifestazione dell’8 luglio organizzata da Furio Colombo, Paolo Flores d’Arcais e Pancho Pardi. Una sorta di riedizione canicolare dei girotondi. Su youtube gira il filmato con cui la troika d’ArcaisColombo-Pardi chiama alle armi il popolo di sinistra: un pezzo di grande neo-televisione.
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Se Eco avesse ancora tempo e voglia di analizzare con gli strumenti della semiologia che lo hanno reso celebre nel mondo il brano ne potrebbe trarre una gustosa “bustina di minerva”. D’Arcais, le mani dietro alla
schiena, le spalle spioventi da sportivo in poltrona, la pancetta in fuori, la cravatta troppo spiovente sulla patta, sembra un ragioniere in pensione. Colombo, al contrario, ha l’aplomb consueto di un alto dirigente della Fiat America, seppur invecchiato, impeccabile nella chioma bianca lucente, di memoria avvocatesca. Pardi in camicia, la giacca tenuta con la mano sulla spalla da ragazzo di campagna,
cratici”per difendere la Costituzione santificata dalla Resistenza, Colombo si lancia in paragoni iperbolici tra Berlusconi e il medico della clinica Santa Rita, infine Pardi espressamente richiama il pericolo del Fascismo.
E proprio su questo punto si riallaccia la dichiarazione di Eco, la cui esperienza in tetrapiloctomia è nota e dunque supponiamo non abbia potuto ammirare il video in questione in cui si va giù di clava e non di bisturi. Dice Eco: «Democrazia non significa che la maggioranza ha ragione. Significa che la maggioranza ha il diritto di governare. Democrazia non significa pertanto che la minoranza ha torto. Significa che, mentre rispetta il governo della maggioranza, essa si esprime a voce alta ogni volta che pensa che la maggioranza abbia torto (o addirittura
Sarebbe interessante una sua analisi semiologica del video di d’Arcais, Colombo e Pardi lo sguardo strafottente, la cravatta troppo corta sul ventre rotondo. Prima di parlare i tre si guardano imbarazzati e sorridono: sembra che neppure loro ci credano. Tralasciamo il tono dell’invettiva e i contenuti che sono opinibiali: d’Arcais fa un appello “a tutti i cittadini demo-
faccia cose contrarie alla legge, alla morale e ai principi stessi della democrazia), e deve farlo sempre e con la massima energia perchè questo è il mandato che ha ricevuto dai cittadini. Quando la maggioranza sostiene di aver sempre ragione e la minoranza non osa reagire, allora è in pericolo la democrazia». Frase in apparenza incontestabile nella sua perfetta retorica circolare. Solo che non tiene conto di una piccola cosa e cioè della dittatura della minoranza, soprattutto delle minoranze organizzate (istituzionali o private), che in Italia hanno tratto forza da una perversa logica elitaria secondo la quale hanno sempre ragione i pochi (di solito professori o ex alti dirigenti Fiat), che solo questi pochi hanno la lungimiranza di difendere la democrazia (ed infatti abusano del termine democratico), che gli altri sono una massa di pericolosi
fascisti ignoranti da educare. In questo senso la storia d’Italia andrebbe letta come una lunga battaglia tra le élite illuminate e il popolo reazionario sempre pronto a seguire le orme di pericolosi leader populisti o tout court fascisti.
Qualche anno fa Umberto Eco radicalizzò questa posizione in un breve libretto dal titolo “Cinque scritti morali” (Bompiani, 1997) in cui veniva inventato l’ur-fascismo, una categoria metastorica che si poteva applicare a molti fenomeni pre e post fascismo. In questo modo, Eco forniva il destro metodologico anche a tutti quei contestatori che da anni ammorbano la politica italiana con la solita litania del “fascismo rimontante”. E che sgranata su youtube da un gruppetto di intristiti rivoluzionari induce quasi alla mestizia.
Napolitano sembra davvero l’unico ad aver capito la situazione attuale. Quasi un personaggio tolkeniano
Il Presidente degli Anelli di Roberto Genovesi i solito mi si chiede di dedicare le mie riflessioni a tutto ciò che è oltre i confini della realtà. A quanto di scritto, disegnato, animato possa aiutare ad alimentare la nicchia escapista che alberga nei nostri cervelli. Per questo stavolta vorrei parlare di Giorgio Napolitano. In questo caso il richiamo all’irrazionale e al fantastico non sta nei contenuti del pezzo ma nella scelta dell’autore, dunque i canoni del mio impegno per questo quotidiano sono comunque rispettati. Ma perché proprio Napolitano? Mi si dice che la gran parte dei pezzi che firmo viene apprezzata da lettori adolescenti o da giovani adulti ed è spesso proprio a quella fascia d’età che si appresta ad uscire dal mondo della scuola per sfidare la giungla intricata del mondo del lavoro che mi rivolgo sia come prota-
D
Sopra il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano; in alto Umberto Eco
gonista che come destinataria degli stessi. Ebbene, quello che per una volta chiedo ai miei lettori è di lasciare da parte fumetti, cartoni animati e romanzi di fantascienza per andare a dare un’occhiata al sito www.quirinale.it.
No, non sono impazzito. Lasciatemi argomentare. L’Italia ha avuto tanti presidenti della
zioni di Berlusconi piuttosto che le nozze di Briatore ma se ci trovassimo davvero in un romanzo di fantascienza, allora la storia ci racconterebbe di un mondo in cui i ragazzi, per sfuggire all’omologazione voluta dai poteri occulti, mettono in atto una rivoluzione silenziosa attraverso lo scambio di proibitissimi sms che invitano a diffondere frasi salienti dei discorsi di un eroe ormai sull’ottantina che si ostina a credere che l’arrendevolezza sia il veleno che brucia le radici della democrazia. Qualcuno ha detto che quando le regole del vivere comunitario si disgregano in favore di comportamenti che alimentano il relativismo culturale, il ricorso ai parametri della tradizione rappresenti un gesto di trasgressione.
Un giro nel sito della Presidenza della Repubblica può essere trasgressivo e (forse) utile Repubblica e siamo tutti d’accordo che qualcuno potevamo pure risparmiarcelo ma le baruffe chiozzotte che le istituzioni alimentano in collaborazione con i media ci impediscono di guardare con lucidità a quei pochi elementi di discontinuità che consentono al nostro Paese di definirsi, anche se solo sulla carta, democratico. È evidente come facciano più notizia le intercetta-
Ebbene, fare un giro nel sito della Presidenza della Repubblica, per un giovane che si nu-
tre delle frasi sgrammaticate di un Moccia o delle elucubrazioni demenziali di una De Filippi potrebbe essere assai trasgressivo e, forse, perfino utile. Potrebbe scoprirvi, leggendo qualche discorso del Presidente - magari quello del 25 aprile per la Festa della Liberazione, oppure il messaggio inviato solo pochi giorni fa al Consiglio Superiore della Magistratura - che mentre il resto delle istituzioni sgomita per tracimare volutamente dai propri limiti, c’è ancora una strada percorribile, c’è ancora un sentiero per impedire “fenomeni di regressione civile”.
Un matto o un profeta, questo ce lo dirà la Storia. Ma l’Italia ha ricevuto una grazia “laica” ampiamente immeritata. Un Presidente che richiama al rispetto dei ruoli, alla condivisione dei valori può dar fastidio a molti ma, diamine, per un ragazzo che si nutre di sogni dovrebbe avere la valenza di un novello richiamo del corno di tolkieniana memoria.
&
parole
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L’ex ministro della Funzione pubblica introduce il prossimo convegno della Fondazione Astrid
«Modello tedesco per una nuova repubblica» colloquio con Franco Bassanini di Francesco Capozza
ROMA. Continua a esserci molta attesa per il secondo incontro fissato per il 14 luglio dalla Fondazione Astrid di Franco Bassanini e Linda Lanzillotta sul tema delle riforme istituzionali. Attesa che risale almeno al 17 giugno scorso, quando personalità politiche e costituzionalisti di varie aree politiche e culturali (da Massimo D’Alema a Stefano Rodotà, da Pier Ferdinando Casini a Luciano Violante da Ferdinando Adornato a Leopoldo Elia, da Cesare Salvi a Salvatore Vassallo - passando per Enzo Bianco, Livia Turco, Giovanni Sartori, Paolo Nerozzi e Dario Franceschini) si erano riunite, su invito di Franco Bassanini e della sua fondazione, in un Hotel del centro di Roma per un seminario a porte chiuse e in quell’occasione molti opinionisti e giornalisti avevano versato fiumi d’inchiostro ipotizzando chissà quale “inciucio” politico stesse per essere messo in atto. Proprio da qui vuole partire il professor Franco Bassanini, ex senatore ed ex ministro, l’unico italiano chiamato da Sarkozy a far parte della commissione Attali per la riforma della Pubblica Amministrazione francese. «Mettiamo subito bene in chiaro un concetto: da varie parti si è detto che questa sarà una legislatura costituente. È indubbio, infatti, che una serie di riforme, da quelle costituzionali a quelle dei regolamenti parlamentari – per non parlare di quelle concernenti la legge elettorale – vadano fatte. Astrid, con l’aiuto di Italianieuropei di Massimo D’Alema e di Arel di Enrico Letta, ha voluto mettere insieme una serie di personalità, per lo più rappresentanti di Fondazioni, Associazioni e Centri studi, che nella passata legislatura avevano trovato una convergenza su alcuni modelli di riforma». Quello del 17 giugno, quindi, è stato solo il primo di una serie d’incontri? Un seminario, in quanto tale, è volto ad approfondire uno o più temi che hanno bisogno, necessariamente, di vari incon-
tri. Questo in particolare è promosso da dodici diversi soggetti, da tempo impegnati nella ricerca, nello studio e nella riflessione sui problemi del Paese e nell’ elaborazione di proposte per risolverli. Si tratta - come è noto - di istituzioni diverse tra loro, ciascuna giustamente gelosa della propria storia, delle proprie peculiarità, delle proprie autonome scelte culturali e politiche. Alcune, si collocano all’interno dell’area culturalpolitica di un partito, altre no. La partecipazione a questa iniziativa comune non prelude alla creazione di alcuna federazione, di alcun coordinamento tra
mo parlando della c.d. bozza Violante? Esattamente. Abbiamo preso atto che da quel modello, proposto nella scorsa legislatura da Violante e approvato con largo consenso alla Camera in commissione affari costituzionali, c’è una notevole convergenza. Quel testo può essere un buon punto di partenza sul percorso di riforme che necessariamente si deve intraprendere. Quindi, in buona sostanza, si profila una“cordata politica”favorevole al sistema tedesco. Sfiducia costruttiva, poteri del parlamento rafforzati... Il sistema tedesco è, nel panorama europeo e occidentale, quello che più si avvicina alla conformazione politica del nostro paese. Come in Germania anche in
“
La “bozza Violante” è buon punto di partenza sul percorso di riforme che necessariamente si deve intraprendere
”
loro. Ciò dovrebbe bastare per smentire ogni interpretazione della nostra iniziativa che la riconduca al dibattito interno ad uno o ad altro partito. Secondo tutti noi, indistintamente, l’alternativa a pessime riforme non è “nessuna riforma”. Sono le buone riforme. Poco fa diceva che a questo seminario partecipano tutte personalità che nella passata legislatura avevano trovato una convergenza su uno o più modelli di riforma. Stia-
Italia non esistono (benché la legge elettorale vigente porti inevitabilmente ad un falso bipartitismo) solamente due famiglie politiche. In Germania la sfiducia costruttiva è uno strumento per lo più di dissuasione. E’ semplice e molto concreto: il Parlamento non può sfiduciare il governo se non ne ha già pronto uno sostitutivo ed una maggioranza pronta a sostenerlo. Negli ultimi 50 anni si registra un solo caso di sfiducia costruttiva in Germania, in tutti gli altri o la crisi è rientrata, oppure si è tornati a dare la parola al popolo. La parola al popolo, appunto. Professore, non vorrei sembrarle banale, ma perché Berlusconi e la sua maggioranza dovrebbero fare la riforma elettorale? D’altronde po-
trebbero benissimo dire “se la maggioranza degli elettori c’è, questa legge elettorale (il c.d. porcellum n.d.r.) funziona benissimo, com’è evidente dalle ultime elezioni”. Guardi, il problema della legge elettorale non si misura solo sull’efficacia che questo o quel sistema di voto ha per garantire la rappresentanza parlamentare. Il problema principale per cui la legge elettorale vigente - definita “porcata” perfino da chi l’ha creata - deve essere cambiata, è che espropria il diritto dei singoli cittadini di scegliere il proprio candidato. Con il sistema delle liste bloccate l’elettore si trova costretto a votare un “calderone” di personaggi più o meno noti senza diritto di replica. Per non parlare, poi, del “premio di maggioranza”: un’anomalia tutta italiana. In nessun paese europeo e occidentale esiste una cosa del genere. Anche questo, nel progetto di riforma su cui stiamo discutendo, viene eliminato. Un sistema fortemente - se non completamente - proporzionale, quindi. Dal punto di vista delle riforme regolamentari, c’è già un progetto ben preciso su cui state discutendo? Un progetto articolato e ben definito strutturalmente non c’è, ma siamo tutti d’accordo su alcuni punti fermi. L’introduzione della sfiducia costruttiva già citata, la riduzione drastica delle possibilità per il governo di ricorrere alla fiducia e ai maxi emendamenti, l’introduzione dello “statuto delle opposizioni” e si badi bene, ho detto delle opposizioni, non dell’opposizione. Più tutta quella che comunemente viene definita “legislazione di contorno” ma di contorno non è, anzi: il sistema del finanziamento ai partiti, l’informazione politica in campagna elettorale, le regole parlamentari sulla formazione e la disciplina dei gruppi e così via. L’Unione di Centro può essere una sponda importante in tal senso? Certamente si. Lo ripeto, ci interessa il merito della questione, nient’altro.
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l governo israeliano ha approvato un accordo per riportare a casa i due soldati israeliani rapiti da Hezbollah il 12 luglio di due anni fa. È un accordo costoso: Israele dovrá liberare un assassino – il libanese Sami al Kuntar – colpevole di aver massacrato una bambina di quattro anni fracassandole la testa a colpi di pietre e calcio del fucile dopo averne ammazzato il padre sotto gli occhi della bimba terrorizzata e due soldati. La madre, nel tentativo di salvare la figlia di due anni da simile destino finí con il soffocarla per impedire che Kuntar li trovasse al suono dei gemiti e singhiozzi della bambina. Insieme a Kuntar, Israele libererà altri prigionieri catturati nella guerra contro Hezbollah di due anni fa; consegnerá i resti di dozzine di miliziani di Hezbollah uccisi in passato, e fornirà informazioni sul fato di alcuni diplomatici iraniani scomparsi. In cambio, Israele riceverà i resti dei due soldati rapiti e delle informazioni sul destino del suo pilota Ron Arad, abbattuto sopra i cieli del Libano nel 1986 e probabilmente trasferito in Iran dove secondo alcuni resoconti sarebbe morto dopo inenarrabili torture. L’accordo insomma costringe Israele a dolorose concessioni in cambio di due cadaveri – un precedente che peserà molto sui negoziati in corso tra Israele e Hamas – con la mediazione egiziana – per la liberazione di Gilad Shalit, l’altro israeliano tenuto in ostaggio da Hamas a Gaza. Se Hezbollah ottiene così tanto in cambio di due morti (e i resti di altri soldati israeliani), che incentivo ha Hamas a Gaza a tenere Shalit in vita, visto che oltretutto Israele ha interrotto il blocco dei punti di passaggio di merci tra Israele e Gaza? E che ragione c’è di pensare che Hezbollah e Hamas non proveranno a catturare altri soldati in futuro, vista l’arrendevolezza dell’esecutivo guidato dal premier israeliano, Ehud Olmert?
I
Sono domande che pesano molto nel dibattito pubblico israeliano, per altro condizionato dall’aspetto umano e umanitario dello scambio. In un Paese dove in ogni famiglia i maschi adulti sono o future reclute o soldati o riservisti, il dramma domestico dei famigliari è vissuto in prima persona. Potrebbe toccare ad altri domani, e l’impegno del governo a determinare il destino degli ostaggi e a riportarli in patria vivi o morti viene vissuto come una garanzia che l’esercito e il governo non lasceranno nessuno oltre confine. Ma la vera domanda che va posta al governo di Olmert è di un altro tipo: secondo il governo
mondo Il prezzo pagato per riportare a casa i due soldati è troppo alto
La resa di Olmert ad Hezbollah di Emanuele Ottolenghi
Da sinistra: Ehud Goldwasser e Eldad Regev, i due soldati israeliani che sarebbero già morti e che potrebbero essere ”scambiati” entro il 15 luglio con il libanese Sami al Kuntar infatti i due soldati sarebbero morti durante l’incursione di Hezbollah che ne portò il rapimento o poco dopo.Tali conclusioni deriverebbero dall’esame del veicolo su cui entrambi viaggiavano e dai resti umani trovati su esso. In base al tipo di ferite che i due avrebbero riportato difficilmente sarebbero
«Che ragione c’è di pensare che i terroristi non proveranno a catturare altri soldati, vista l’arrendevolezza del governo israeliano?»
potuti sopravvivere se non fossero arrivati a un centro medico dotato di tecnologia e risorse atti a curarne le ferite. Non è chiaro se tale valutazione si applichi a entrambi e in quale misura, ma certamente si tratta di un’informazione che il governo aveva già nelle ore successive al rapimento dei due soldati.
Un palestinese ruba il mezzo da un cantiere e provoca almeno 4 morti e 15 feriti
Gerusalemme, bulldozer si schianta su un bus ATTENTATO a Jaffa Road, una delle vie principali di Gerusalemme. Un palestinese a bordo di un bulldozer si è lanciato, presumibilmente viaggiando contromano, contro un bus e alcune auto che viaggiavano sulla strada facendo capovolgere i veicoli con decine di passeggeri a bordo. Ameno tre le vittime e 45 i feriti, secondo fonti mediche. Alcuni media locali parlano di quattro-cinque vittime, ma il bilancio, al momento della chiusura di liberal, è ancora provvisorio. Oltre al conducente del bulldozer, freddato da un militare di passaggio, sono rimasti uccisi altri tre, forse quattro automobilisti israeliani. Secondo una prima ricostruzione, il palestinese è riuscito a impadronirsi del bulldozer che si trovava in uno dei cantieri allestiti per la costruzione di una linea di metropolitana e sceso ad alta velocità sulla via principale è piombato nella via Jaffa dove ha investito
numerose automobili, un autobus e passanti sui marciapiedi. Testimoni oculari riferiscono che l’uomo «aveva uno sguardo gelido» anche mentre infliggeva colpi con la grande pala del suo automezzo sul tetto di un’automobile dove, terrorizzata, era prigioniera una israeliana. La donna, dicono testimoni oculari, è rimasta uccisa. Un bambino che era con lei è stato salvato in extremis da uno dei passanti. L’attacco è stato rivendicato dall’Unità Imad Mughnieh delle Brigate dei liberatori della Galilea, un gruppo poco conosciuto che a marzo aveva rivendicato l’attentato alla scuola rabbinica di Gerusalemme. Il gruppo aveva accusato lo Stato ebraico di aver organizzato l’attentato di Damasco del 16 febbraio in cui rimase ucciso Mughnieh, capo militare di Hezbollah. La rivendicazione è stata arrivata con una telefonata all’agenzia France Presse.
E qui arrivano i primi dubbi: se il governo sapeva già la mattina del dodici luglio 2006 che i due soldati potevano essere morti, perché ha lanciato una guerra con lo scopo principale di riportarli a casa? Certo, l’obbiettivo primario della guerra era di annientare Hezbollah, ma esso venne presentato insieme al desiderio di liberare gli ostaggi. Se il pubblico avesse saputo la verità subito, ci sarebbe stato un simile sostegno per l’impresa militare decisa da Olmert e l’allora ministro della difesa, Amir Peretz? Secondo, se tale consapevolezza – della loro morte – è arrivata in un secondo tempo, tramite informazioni di intelligence, perché Israele ha deciso comunque di cedere la sua carta migliore, cioè Kuntar, che sia in Libano sia tra i palestinesi è, per l’efferatezza delle sue azioni di quasi trent’anni fa, ritenuto un eroe della lotta contro Israele? Terzo, la decisione di approvare lo scambio deriva in parte dalla pressione continua esercitata sul governo dalle famiglie degli ostaggi. La loro tragedia è innegabile e la loro sofferenza comprensibile e condivisa. Ma la deterrenza israeliana nei confronti di Hezbollah e Hamas, la sopravvivenza di Gilad Shalit e importanti carte negoziali che Israele deteneva sono ora andate perdute per rilasciare non due ostaggi vivi, ma le loro salme. Com’è possibile che un governo che forse sapeva sin dall’inizio che i due non erano sopravvissuti, non ha tempestivamente informato le famiglie convincendole che di fronte alla morte dei loro cari il calcolo, nel tentativo di bilanciare l’interesse nazionale con il destino dei due soldati, ora doveva cambiare drammaticamente a favore degli interessi del Paese e a scapito di quello delle famiglie? I dilemmi che affronta un governo israeliano – qualsiasi governo – sono certamente dilemmi che i nostri leader europei difficilmente potranno mai capire. All’esistenza d’Israele che è giornalmente minacciata si sovrappongono considerazioni umanitarie che contraddistinguono la grande umanità della societá israeliana. Esprimere un giudizio richiede allora un pizzico di umiltà. Ma nel caso dello scambio negoziato da Olmert con Hezbollah, ci sembra di poter dire che il governo israeliano ha sbagliato e ha messo a rischio la sicurezza del Paese per calmare l’angoscia dei famigliari di due soldati caduti, la cui unica consolazione sarà, al prezzo esorbitante pagato da Israele, di poter dar loro una degna sepoltura.
mondo
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La Corte Costituzionale turca oggi ascolta la difesa dell’Akp di Erdogan e Gul. A giorni la sentenza?
Ataturk non basta più, tocca ai giudici di Francesco Cannatà
d i a r i o d Ankara la Corte costituzionale sta decidendo il destino del partito di maggioranza - Akp - che proprio stamattina si presenterà davanti al Supremo Consiglio per la sua difesa orale. Un verdetto che potrebbe, ancora una volta, cambiare il panorama politico della Turchia. Con i suoi recenti giudizi la suprema Corte turca non è entrata solo nel dibattito politico-ideologico del Paese. Di fatto il massimo organo di giustizia si è trasformato nella principale forza del fronte kemalista di opposizione al governo. La recente sentenza con cui è stata messa in discussione la legge che toglieva il divieto al velo dentro le Università solleva questioni che vanno oltre il problema del copricapo.
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dei principi secolari comportava la reazione dell’esercito. Oggi è il massimo organo della giustizia, custode di una Costituzione scritta nel 1980 sotto la dettatura dei generali golpisti, a doversi assumere questo ruolo sgradevole. L’ultimo «colpo di Stato virtuale» turco si è verificato nel 1998. Occorreva sbarazzarsi del partito islamista del primo ministro Erbakan, accusato di vedere nell’Europa «un club di crociati» e di accanirsi contro la laicità turca fondata sull’educazione, con una serie di misure in favore delle scuole religiose. Una volta dissolto, il partito si è diviso dando nascita a due nuove formazioni politiche.
La più moderata, guidata da Tayyip Erdogan, si è impegnata a rispettare i principi repubblicani e laici. La decisione è stata valutata come l’indizio che la su- Queste promesse, e ancor di più quelle di liberalizzaprema Corte acconsentirà allo scioglimento del parti- zioni economiche, hanno permesso all’Akp di vincere le elezioni del 2002, fare il bis nel to islamico-conservatore della Giu2007 e puntare infine alla più alta stizia e lo sviluppo, Akp, e vieterà carica dello Stato. Oggi per la priper cinque anni a molti dei suoi dima volta dalla proclamazione della rigenti, tra cui il premier Erdogan e repubblica un partito islamista turil presidente Gul, i diritti politici. co possiede la presidenza ed è Esattamente quanto richiesto dalla maggioranza in parlamento. Ma procura della repubblica. Alla base non dispone ancora del potere midelle due decisioni vi è l’accusa che litare e giudiziario. Ecco quello che il partito di governo sarebbe «un hanno voluto ricordare ai dirigenti punto di coagulo di attività antilaidell’Akp i vari prociste». Nonostante i nunciamenti della suoi metodi demomassima magistracratici, l’Akp puntetura. I giudici hanrebbe alla «costruno ribadito che alla zione di uno Stato teocratico sul mometà degli anni ’90, dello iraniano». Il Erdogan si presentava come un «serfronte kemalista, di vitore della sharia». cui fanno parte il Il primo ministro afPartito repubblicaferma di essere no del popolo fondato da Ataturk, la cambiato, ma il diburocrazia di Stato, vieto della vendita l’esercito e gli orgadi alcolici e l’inconi di giustizia, si è raggiamento al risempre arrogato il torno dell’educaziodiritto di decidere ne religiosa sono visui principi fondasti come attacchi almentali della Turla laicità della mezchia moderna. Noza luna. L’Akp è un partito moderato. nostante la vittoria Ma per molti osserdell’Akp abbia travatori questa modesformato i rapporti razione è il risultato di forza all’interno delle minacce di del paese e quella scioglimento del visione del mondo partito provenienti rappresenti oggi un dalla suprema Corostacolo allo svilupte. Un’analisi quanpo della Turchia Haism Kilic, presidente della Corte Costutuzionale, chiamato to meno parziale. contemporanea, il a riunire il Supremo Consiglio per decidere le sorti dell’Akp dogmatismo con cui La Turchia, non è le vecchie elite turche interpretano il secolarismo e l’i- Magreb e nemmeno mondo arabo, ma un miscuglio di dea di Stato e nazione non è mai venuto meno. I ceti oriente e occidente. Eredi dell’impero bizantino e di che si riconoscono nell’ideologia kemalista al momen- quello ottomano, gli intellettuali anatolici non hanno to non hanno nessuna possibilità di vincere le elezio- complessi d’inferiorità e sono lungi dal pensare che ni e vedono in pericolo i propri privilegi nello Stato e modernizzazione, umanesimo e laicità, siano forme di nella società. Per bloccare le attività dell’esecutivo la “occidentalizzazione“ post coloniale da respingere ad sola via percorribile con prospettive di successo è ogni costo. Che le cose si siano estremizzate fino a quella giudiziaria. Una strategia facilitata dai rapporti questo punto, è dipeso però anche dal comportamento di forza presenti tra i guardiani della Costituzione. Ot- dell’Akp. Dopo i trionfi elettorali il partito si è mostrato tra gli 11 giudici supremi sono stati nominati dal to troppo sicuro giudicando di aver definitivamente liprecedente capo dello Stato Ahmet Necdet Sezer. Ma quidato l’opposizione kemalista. Il ritorno in forze delanche quest’arma potrebbe spuntarsi. Ancora pochi la “giuristocrazia” turca, dimostra che Erdogan, venanni di potere del partito di Erdogan e l’ultima fortez- dendo la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, ha fatza kemalista cadrà. In passato la messa in discussione to male i suoi calcoli.
Per superare le proprie difficoltà le élite secolari anatoliche spingono in primo piano la suprema corte del Paese
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g i o r n o
Zimbabwe, no a governo di transizione L’opposizione dello Zimbabwe contesta la risoluzione approvata dall’Unione africana (Ua) per risolvere la crisi politica nel Paese. Il leader del Movimento per il cambiamento diplomatico (Mdc), Morgan Tsvangirai, boccia la proposta di un governo di unità nazionale, ma ribadisce la propria disponibilità a un negoziato con il presidente Robert Mugabe per un “accordo di transizione”. Quindi rilancia le critiche alla mediazione affidata negli ultimi anni al solo Sudafrica, auspicando il coinvolgimento di un inviato dell’Ua. «Un governo di unità nazionale non risponderebbe ai problemi dello Zimbabwe e non rifletterebbe la volontà del popolo dello Zimbabwe», ha dichiarato ieri Tsvangirai. Il leader dell’opposizione ha quindi evidenziato i limiti riscontrati nel documento approvato ieri dall’Ua: «La risoluzione non risponde in maniera appropriata alle violenze in corso nello Zimbabwe, non riconosce l’illegittimità del voto del 27 giugno e non tiene nella giusta considerazione la maggior parte dei leader africani, che si rifiutano di riconoscere Mugabe come capo di Stato. Infine la risoluzione appoggia la proposta di un governo di unità nazionale senza riconoscere il vincitore del primo turno». Tsvangirai, per l’appunto.
Crisi diplomatica tra Teheran e Amman Sarebbe “scoppiata una crisi diplomatica” tra l’Iran e la Giordania. Lo sostiene la tv satellitare al Arabiya. All’origine della crisi ci sarebbe l’irritazione di Teheran per la partecipazione di 12 parlamentari giordani ad un congresso dell’organizzazione di Mujahiddin Khalq dell’opposizione iraniana, tenuto sabato scorso a Parigi. Secondo le fonti della tv araba, «il ministero degli Esteri giordano, ha convocato il rappresentante diplomatico iraniano in Amman per esprimere sorpresa per la convocazione - avvenuta due giorni fa - dell’ambasciatore del Regno Hascimita a Teheran al quale sono state presentate le proteste per la partecipazione di una delegazione parlamentare giordana non ufficiale al congresso». «È stata a titolo personale e non riveste alcuna valenza ufficiale», sarebbe stata la spiegazione data dal governo di Amman.
Spagna, 4 incidenti nucleari in 72 ore Un incidente dopo l’altro: quattro degli otto reattori nucleari spagnoli hanno registrato disfunzioni in meno di 72 ore. Per motivi differenti, ma senza pericolo per le persone o l’ambiente, gli incidenti si sono prodotti tra sabato e ieri. Critiche le organizzazioni ambientaliste, secondo le quali è colpa della pessima cultura della sicurezza con la quale Iberdola e Endesa, proprietarie delle quattro centrali colpite, gestiscono gli impianti. Il Consejo de Seguridad Nuclear (Csn), organismo che monitora la sicurezza atomica, attribuisce invece i fatti a una “sfortunata casualità”. I proprietari delle centrali hanno sminuito l’accaduto, sottolineando che la sicurezza delle installazioni non è stata colpita. Tre degli incidenti registrati sono avvenuti in tre reattori situati a Tarragona, nel nord-est della Spagna, gestiti dalla Associazione Nucleare Asco-Vandellos (Anav), proprietà di Iberdola e Endesa.
Stato di emergenza in Mongolia Il presidente della Mongolia, Nambariin Enkhbayar, ha dichiarato lo stato di emergenza in seguito ai violenti scontri di piazza dopo le elezioni di domenica scorsa che hanno provocato la morte di almeno 5 persone e il ferimento di altre 400. Quasi 6mila manifestanti hanno affrontato agenti di polizia in tenuta antisommossa intorno alla sede del Pprm (Partito popolare rivoluzionario mongolo, l’ex Partito comunista) che è stata data alle fiamme. I manifestanti si erano radunati per protestare contro gli ex comunisti che si erano proclamati vincitori prima che la commissione elettorale nazionale avesse diffuso i risultati ufficiali.
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speciale educazione
Socrate
Mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini annuncia il ritorno del grembiule alle elementari, è in discussione alla Camera un disegno di legge dell’onorevole Aprea che potrebbe aprire nuovi scenari per il sistema della formazione scolastica
QUI SI FA LA RIVOLUZIONE colloquio con Valentina Aprea di Alfonso Piscitelli l caldo di luglio finalmente corposo invita a pensieri marinareschi più che scolastici. Tra i banchi, i diciottenni e i loro professori compiono l’ultimo sforzo – l’esame di maturità, prove orali – prima di chiudere definitivamente libri e registri. Ma in una Roma già avvolta dal torpore dell’estate si apre un nuovo capitolo della riforma della scuola, che stavolta porta la firma di Valentina Aprea. Nella Commissione cultura della Camera, che l’Aprea presiede, incominciano oggi alle 9 i lavori intorno al suo disegno di legge “sull’autogoverno delle istituzioni scolastiche e la libertà di scelta educativa delle famiglie, nonché per la riforma dello stato giuridico dei docenti”. A giudicare dai titoli di testa ci sono tutti i presupposti per un bello scontro ideologico.
I
di studi superiori è fondamentale gettare un ponte con il mondo delle imprese, con tutti coloro che possono essere interessati a finanziare la formazione». Lei mira ad un nuovo modello di scuola “mista”che superi gli steccati tradizionali tra istruzione pubblica e privata. Una scuola con un impianto pubblico, ma aperta agli interventi e alla fantasia dei privati. Sì, abbiamo per questo previsto la possibilità delle scuole di trasformarsi in fondazioni, in realtà statutarie che consentano la sinergia tra soggetti pubblici e privati. Ovviamente tutto all’insegna della trasparenza. Le scuole saranno più autonome, ma anche più responsabili e la scelta educativa delle famiglie avrà più valore. Perché è giusto che siano premiate le
«Più autonomia, nuove classi docenti e apertura delle scuole ai privati» «Siamo pronti a valutare con serenità le proposte che sono state presentate dalle opposizioni e che ugualmente mirano all’obiettivo dell’autonomia statutaria – ci risponde conciliante Valentina Aprea – Il nostro intento è quello di giungere a una più efficace autonomia, alla semplificazione degli organi collegiali, all’apertura delle scuole agli esponenti della società civile, degli enti locali. Soprattutto in certi indirizzi
scuole che riscuotono maggior gradimento da parte delle famiglie, siano esse pubbliche o parificate. Però per rendere efficiente questo meccanismo sarebbero necessari maggiori controlli, perché soprattutto al Sud molte scuole private sono oggettivamente dei diplomifici. Senza dubbio. Per garantire una sana competizione tra le scuole, la qualità è un requisito
indispensabile. Ogni istituto dovrà avere organi di autovalutazione e presentare i propri risultati al vaglio di un sistema di valutazione nazionale. Per innalzare la qualità della scuola la “questione docenti” è fondamentale. La professione docente è stata “proletarizzata” e attende una riqualificazione. Ma la proposta di creare una distinzione “gerarchica” tra docenti “iniziali”, ordinari ed “esperti” non rischia di suscitare forti opposizioni? In altri tempi sì, ma oggi non può. Anche nel programma del Pd era prevista una differenziazione interna alla carriera dei docenti. Se vogliamo, anche Berlinguer ai suoi tempi propose una distinzione di trattamento economico in base a requisiti accertati di preparazione. D’altra parte consideriamo ciò che accade in Europa: dalla Finlandia alla Gran Bretagna alla Svezia tutta una serie di proposte e di leggi mirano a migliorare il servizio offerto dalle scuole con una articolazione delle carriere. In particolare la nostra proposta di distinzione in fasce dei docenti ricorda da vicino la riforma compiuta da Tony Blair in Inghilterra. Ma una volta articolata la carriera dei docenti in tre fasce, ciascuna con i rispettivi scatti di anzianità, ci sarà la copertura finanziaria per garantire un trattamento economico congruo? Il ministro Gelmini è riuscita a ottenere un ritorno di fondi alla istruzione proprio da destinare
Il Presidente della commissione Cultura alla Camera, Valentina Aprea
a questa esigenza. Al di là della doverosa riqualificazione economica la nostra legge prevede di conferire ai docenti uno status giuridico proprio, creando un settore di “professionisti” dell’insegnamento non inglobato nella categoria generica del pubblico impiego. Però la legge propone an-
che concorsi di istituto. E questo non rischia di alimentare favoritismi, proprio in un momento in cui – a livello di università – si afferma l’esigenza di indire concorsi nazionali, per frenare lo strapotere dei “baroni”? Il concorso a livello d’istituto è
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Una buona riforma deve evitare di marcare troppo la discontinuità con il passato
Il braccio violento della legge di Beniamino Brocca na leggenda indiana relativa al palazzo del dio vedico Indra racconta di una rete di gemme disposta in modo tale che osservandone una si vedono in essa, riflesse, tutte le altre. Infatti, partendo da un punto qualsiasi della rete si possono esplorare tutti gli altri gioielli. Non solo, ma questo prezioso “tessuto” è caratterizzato da un continuo movimento il quale determina l’ordine e l’organizzazione della rete stessa. L’immagine, testé evocata, del reticolo dinamico può essere utilizzata per rappresentare l’insieme delle disposizioni contenute nella Proposta di Legge n. 953 (Atto Camera riguardante l’autogoverno delle istituzioni scolastiche, la libertà di scelta delle famiglie e lo stato giuridico dei docenti). In termini meno ermetici si può sostenere che l’articolato in esame presenta da un lato l’impronta della complessità e da un altro lato la proiezione della strategicità.
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solo una tappa di un lungo percorso che prevede la formazione universitaria con il tirocinio, esame di stato, l’anno di praticantato, l’inserimento in un albo regionale, che garantisce il possesso dei giusti titoli e delle idoneità. Alla luce di questo nuovo sistema di reclutamento, le graduatorie scompariranno senza esaurirsi? La prof. quarantenne non di ruolo, inserita in una graduatoria, dovrà inventarsi un nuovo lavoro? I provvedimenti di Fioroni effettivamente tendevano a una cancellazione delle graduatorie, ma io al contrario penso che ci siano diritti acquisiti che il governo deve rispettare. Si tratta di pensare una nuova formazione e un nuovo reclutamento per i docenti che verranno. È un cambiamento fondamentale e in quanto tale deve avvenire con gradualità. Le graduatorie non verranno abolite colposamente.
Con il primo punto di vista (quello della complessità) si apre una visione in cui i vecchi concetti della scienza si inceppano e quelli dell’evoluzione equilibrata delle strutture si demitizzano, mentre si affermano i canoni della indeterminatezza nella raffigurazione della realtà; della imprevedibilità delle azioni contro ogni supposizione apodittica; della provvisorietà dei risultati che mette in discussione i precetti cartesiani della semplicità e della chiarezza. Infatti, le norme previste potrebbero essere analizzate separatamente come fossero tanti mattoni impilati uno sull’altro per la costruzione dell’edificio legislativo. Ma questa procedura (basata sul dogma causa-effetto), che ha contaminato la cultura da molti secoli, oggi non regge alla prova dei fatti anche per quanto riguarda il sistema educativo di istruzione e di formazione il quale essendo – come dicono gli specialisti – olocinetico, va scrutato, disegnato e composto in una concezione onnicomprensiva. E poiché la predizione è – come accennato – incerta e transitoria, occorre procedere, in qualsivoglia riforma, con il massimo di prudenza, di moderazione e di saggezza, senza dimenticare che, nella fattispecie, la scuola è un albero antico il quale non sopporta sconsiderate mutilazioni, ma innesti e potature compatibili con la sua tradizione e che i veri rivoluzionari agiscono sempre facendo ricorso alla consapevolezza e al conteggio di ciò che perdono nel compimento di una impresa. I riformatori che hanno impresso un segno stabile e duraturo nella storia, non si sono lasciati sedurre dall’estremismo giacobino e non si sono lasciati allettare dall’oscurantismo sanfedista. I riformatori di oggi, impegnati nel miglioramento della condizione e dell’azione del servizio scolastico dovranno evitare di marcare una discontinuità con il passato ambientandolo, invece, nel presente e nel futuro.
te scolastico, del Consiglio di Amministrazione e del Collegio dei docenti; come si possa accordare la natura di una istituzione con quella di una fondazione; come si possa garantire il raggiungimento di standard nazionali di rendimento attraverso un’accentuazione dell’autonomismo locale; come si possa combinare l’area contrattuale della rappresentanza sindacale insieme all’ampliamento della sfera di azione delle associazioni professionali; come si possa ottenere un coinvolgimento unitario nelle prestazioni da parte della docenza mediante una articolazione della stessa su tre livelli, distinti giuridicamente ed economicamente, tanto simili alle tre categorie del campionato di calcio (serie A, B e C)… Con il secondo punto di vista (quello della strategia) si risponde a una esigenza di senso. Anche le leggi settoriali, per scongiurare il pericolo della parzialità e della contraddizione, devono rispondere a un disegno generale di crescita dell’organizzazione strutturale e funzionale. È questo disegno strategico che orienta sia la manifestazione di una tesi sia la formulazione di una ipotesi. Una strategia all’altezza delle sfide che il sistema educativo è costretto ad affrontare ha come angolo di visuale quello pedagogico; ha come oggetto prospettico l’educazione della persona umana; ha come linee di sviluppo la flessibilità, la sussidiarietà, la quotabilità e la duratività per tutto l’arco della vita.
La scuola è un albero antico che non sopporta mutilazioni, ma solo innesti sostenibili
Si lascia al lettore la responsabilità di un giudizio sui singoli punti della proposta di legge e, in conformità con i propositi enunciati, si segnalano gli effetti possibili del cosiddetto “combinato disposto”. Specificamente si vorrebbe capire come si possa conciliare l’autonomia professionale (compresa la libertà culturale e didattica) del docente con le potestà rafforzate del dirigen-
Una siffatta strategia non si intuisce tra le righe e nelle formule della P.d.L. n. 953 (A.C.). Si percepisce, al contrario, un proposito di forte liberalizzazione (nell’accezione di un adeguamento a parametri liberistici) che, pur in un dissenso ideale (non ideologico), merita il massimo rispetto. Questo assunto critico non impedisce di cogliere anche gli aspetti positivi e condivisibili che il documento, in discussione, contiene.
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speciale educazione
Socrate
Il commento del coordinatore del Gruppo di Firenze per il merito
Improvvisamente l’estate in corso di Giorgio Ragazzini enti giorni fa il ministro Gelmini, di fronte alla Commissione cultura della Camera, dichiarava tra l’altro: »È l’ora del buon senso, del pragmatismo e delle soluzioni condivise… Proporrò modifiche legislative solo dove è strettamente necessario. Abbiamo bisogno di buona amministrazione e buon governo, di semplificazione e di chiarezza». Già da un mese, però, la presidente di quella commissione,Valentina Aprea, aveva presentato una proposta di legge di tutt’altre ambizioni. Si tratta in realtà di un pacchetto di riforme, che riguardano il governo delle scuole, la loro autonomia finanziaria, lo stato giuridico dei docenti. Siamo quindi agli antipodi dell’impostazione Gelmini. La tentazione della Grande Riforma, come insegna l’esperienza, comporta però gravi rischi. Proponendo contemporaneamente cambiamenti profondi in molte materie, anche complesse, è parecchio difficile darne una adeguata informazione, in primo luogo ai do-
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Serve gradualità: le Grandi Manovre provocano un effetto boomerang Bene la libera docenza, cautela con i cda
ANDARE PIANO, ANDARE LONTANO di Giuseppe Lisciani
centi; ed è assai più alto il rischio di resistenze pregiudiziali e ideologiche. Gli insegnanti in genere accettano i cambiamenti di buon senso da cui si sentano valorizzati, mentre rifiutano giustamente tutto ciò che complica inutilmente il loro lavoro.
ue anime si alternano a dare vita e “verve” ai ventidue articoli che compongono la proposta di legge n. 953, presentata a Montecitorio dall’on.Valentina Aprea, presidente della Commissione cultura della Camera: da una parte, la ricerca di modi e ritmi dell’autonomia del sistema educativo e, dall’altra, il disegno di una nuova libera professionalità docente. Riguardo all’autonomia del sistema, tre mi sembrano gli elementi sensibili: 1. fondazione 2. sussidiarietà 3. Consiglio di Amministrazione.
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Discutiamone: 1. È prevista la possibilità, per le scuole autonome, di costituirsi in fondazioni, con l’ingresso di“partners”nei loro organi di governo: enti pubblici e privati, altre fondazioni, associazioni di genitori o cittadini, organizzazioni “non profit”, ecc. Lo scopo è che i “partners” «contribuiscano a raggiungere gli obiettivi strategici indicati nel piano dell’offerta formativa» e aiutino a innalzare gli “standard”di competenza degli studenti oltre che la qualità complessiva dell’istituto. 2. L’on. Aprea considera la sussidiarietà come «la stella polare» del cambiamento progettato nella sua proposta di legge. Secondo il princi-
Mi sembra quindi più saggio e alla lunga più produttivo fare un passo alla volta, con metodo sperimentale. Partendo da tutto ciò che può creare un clima di serietà nella scuola, cioè dal merito e dalla responsabilità. Esigendo da tutti il rispetto delle rego-
pio di sussidiarietà, l’istituto scolastico dovrebbe essere autonomo in tutte le operazioni che non siano incompatibili con le sue funzioni o che non siano espressamente riservate per legge al Comune, alla Provincia, alla Regione o allo Stato. Ogni istituto scolastico – dice la proposta di legge Aprea – gestisce le risorse economiche di pertinenza, stabilita, questa pertinenza, «sulla base del criterio principale della “quota capitaria”», che, a sua volta, dipende dal «numero effettivo degli alunni iscritti» (Art. 11, comma 2). Cioè, le scelte dei genitori che iscrivono i figli condizionano fortemente l’entità dei finanziamenti per ciascuna scuola. 3. Il Consiglio di Amministrazione non ha in realtà il compito di governare l’istituzione scolastica, come sarebbe logico attendersi. L’art. 5 prevede per tale Consiglio soltanto «compiti di indirizzo generale dell’attività di istruzione scolastica», entro i «limiti delle disponibilità di bilancio e nel rispetto delle scelte didattiche definite dal collegio dei docenti». Chi invece provvede alla «gestione unitaria dell’istituzione, ne ha la legale rappresentanza ed è responsabile della gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali e dei risultati del ser-
le. Certo, gli insegnanti “fannulloni” sono pochissimi, ma intanto ledono l’immagine di tutta una categoria. Anche i colleghi “ciucci” (direbbe Paola Mastrocola) sono una minoranza; ma chi direbbe “sono pochi” alle vittime di un medico incapace? È
vizio» è il dirigente scolastico (Art. 4). Il quale è membro di diritto del Consiglio di Amministrazione, ne è anzi il presidente. Credo che la prudenza, dettata dai tempi difficili e dalle non favorevoli contingenze dell’economia e della politica, abbia indotto l’on. Aprea ad ammorbidire un po’l’autonomia finanziaria delle scuole o, quanto meno, a consentire incursioni, residue ma invasive, della “longa manus” dello Stato, come testimonia la figura, qui descritta, del dirigente-presidente (di fatto, amministratore unico e, insieme, dipendente pubblico).
Quando, però, sorge la seconda anima di questa proposta di legge, allora le ragioni della prudenza si avviano giustamente al tramonto. Il progetto di legge, già nella sua presentazione, chiarisce, in tal senso, criteri e prospettive: bandisce la «concezione burocratica del ruolo dei docenti, che non ne valorizza pienamente l’autonomia e le responsabilità professionali»; afferma la volontà di valorizzare e rispettare «la libertà di insegnamento, perché libera la scuola e il lavoro dell’insegnante da vincoli esterni e di tipo burocratico»; riconosce all’insegnante la
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poi fondamentale verificare quanti dirigenti possiedono le capacità minime per gestire una scuola. Penso che un serio censimento darebbe risultati sconfortanti. Insomma, qualsiasi riforma è destinata ad affondare nella palude del pressappochismo, dell’incompetenza e della carenza di etica pubblica, se non preceduta da una ragionevole bonifica. E in questo spirito si cominci, fra le innovazioni proposte dalla Aprea, da quelle propedeutiche a ulteriori progressi. Penso a una compiuta professionalizzazione dei docenti, a partire dalla “piccola” innovazione di un contratto solo per loro. Proseguirei con un ampio dibattito sull’etica professionale, in vista di un codice deontologico, la cui elaborazione sarebbe poi compito degli “organismi tecnici rappresentativi della funzione docente” di cui parla l’art. 20; destinati, questi ultimi, a diventare interlocutori privilegiati del governo e del parlamento in merito a ulteriori riforme.
Detto questo sulla necessaria gradualità dei cambiamenti, sono d’accordo sulla creazione di nuovi ruoli per il governo delle scuole, da affidare a insegnanti competenti e capaci anche sul piano organizzativo. A questi sarebbero attribuite responsabilità relative alla formazione iniziale e all’aggiornamento, al coordinamento di dipartimenti o gruppi, alla progettazione curricolare. Ma per far questo sono necessarie forme di valutazione, ed ecco che cominciano i dolori. Perché di valutazione si fa un gran parlare (spesso a vanvera), ma pochissimo in dettaglio e in concreto. Ci si può attendere, ad esempio, una valutazione attendibile
dai colleghi della stessa scuola? E su quali punti esattamente si verrebbe esaminati? L’articolo 17 parla di efficacia dell’azione didattica e formativa (misurata in che modo?), di impegno professionale nella progettazione e nell’attuazione del piano dell’offerta formativa (ma non si può essere bravi docenti senza occuparsi del Pof?), di contributo fornito all’attività complessiva dell’istituzione scolastica e formativa (?).
Ancora: la trasformazione del Consiglio di Istituto in Consiglio di amministrazione cambia poco, se non implica un salto di qualità nella preparazione dei suoi membri. Continua poi a essere prevista la presenza di genitori e studenti, lasciando a quanto pare alla singola scuola il compito di precisarne il numero. Ma la componente professionale dovrà essere nettamente maggioritaria. Si continua altrimenti a confondere la partecipazione (che può esprimersi nei diritti all’accesso e alla trasparenza e in altre competenze specifiche) con la cogestione “democratica”, che nega in radice la distinzione dei ruoli e l’importanza delle competenze professionali e gestionali necessarie. Quanto al finanziamento in base al criterio prevalente del numero degli iscritti, si può star certi che scoraggerà, piuttosto che incentivare, il rigore e la serietà degli istituti, come dimostra l’esperienza delle facoltà universitarie. Non so se in questo quadro prevalgano le ombre o le luci. Certo è che, senza la gradualità, la concretezza e la convinzione necessarie, la scuola rischia di essere di nuovo stressata dai tentativi di cambiamento, con la conseguente ulteriore demotivazione di molti docenti.
funzione di “elemento costitutivo” di «ogni trasformazione strutturale, normativa e organizzativa della scuola»; dichiara l’intenzione di «proporre una professione che sappia autogovernarsi per la qualità, l’autonomia e la piena responsabilità della funzione, definita come «primaria risorsa professionale della nazione”». In conseguenza delle succitate premesse, si snoda il capo III della proposta di legge, che va dall’art. 12 all’art. 22 e risulta dedicato a «stato giuridico, modalità di formazione iniziale e reclutamento dei docenti»: saranno istituiti albi regionali; è prevista una carriera articolata in tre livelli, senza subordinazione gerarchica (docente iniziale, docente ordinario, docente esperto); si procederà per valutazioni periodiche, riportate nel “portfolio” personale del docente e utili ai fini della carriera; sarà costituito, «al fine di garantire l’autonomia professionale», un organismo tecnico nazionale rappresentativo della funzione docente, diramato in organismi tecnici regionali; sarà istituita, infine, un’area contrattuale della professione docente per meglio garantire «la libertà di insegnamento». Nel suo insieme, anche se, come ho accenna-
Il Ministero dell’Economia ne fa le veci da tre anni
Tesoro, le mani sull’Istruzione di Giuseppe Bertagna a nostra scuola costa molto e, in proporzione, produce poco. Ma come far costare meno la scuola (come accade negli altri paesi Ue) e, allo stesso tempo, renderla meno iniqua e, soprattutto, culturalmente migliore? In questo esordio di terzo millennio, si sono scontrate due strategie per la risposta. La prima è quella dei «riformatori». È la via iniziata nella XIV legislatura dal ministro Moratti. Passare da uno Stato che gestisce in maniera centralistica l’intero sistema educativo a uno Stato che, al centro, lo governa e lo controlla, ma che ne affida l’intera gestione agli enti locali (la Regione anzitutto) e alle stesse scuole (autonomia).
L
Dare più importanza al controllo della qualità dei risultati di apprendimento dei ragazzi che all’uniformità dei percorsi (personalizzazione). Non più avere, come oggi, scuole di serie A (licei) separate da e superiori a quelle di serie B (istituti tecnici), queste a quelle di serie C (istituti professionali) e tutte le precedenti a quelle di serie D (formazione professionale regionale), ma ipotiz-
to sopra, la riforma della gestione finanziaria contiene elementi di prudenza, si tratta di una proposta di legge aggressiva. Qualcuno l’ha anche definita rivoluzionaria e ha detto che l’impatto con la attuale realtà del nostro Paese rischia di avere effetti sconvolgenti. Mi viene perciò la tentazione di suggerire una sorta di “spacchettamento”della proposta di legge, un provvisorio divorzio tra le sue due anime: mettere a decantare, per il momento, l’anima economica, affinché elabori i propri motivi di prudenza e mediti un successivo ingresso, in tempi più favorevoli; lasciar fiorire, invece, con tutto il suo fascino professionale, e magari con ragionevole gradualità, l’anima della libertà di insegnamento.
Non è vero che l’autonomia della gestione economica e l’autonomia della professione docente debbano necessariamente procedere di pari passo. Anzi, in questo caso, io vorrei rivendicare il primato della pedagogia, da intendere qui come primato dell’insegnante sull’amministratore, il quale, appunto, amministra, compra e/o vende il frutto dell’insegnamento. Delineando la questione non in termini di principio ma in termini di
zare un unico sistema educativo territoriale (campus), con percorsi di istruzione di pari dignità. Anche per risparmiare, ma soprattutto per far imparare meglio tutti. Spostare l’attenzione dalla «separazione» tra le discipline e le attività alle «unità di apprendimento». Concepire il docente non più come un «funzionario» ma come un «professionista autonomo» che rendiconta la qualità del proprio lavoro sia verso un’authority valutativa indipendente esterna sia verso le famiglie. La seconda strategia è quella dei «razionalizzatori». Una riforma come quella prima delineata ha bisogno di tempi lunghi per essere realizzata e, soprattutto, di un consenso politico e sociale di cui non solo non si è vista traccia nella rissosissima XIV legislatura, ma di cui non si vede traccia nemmeno oggi. Meglio procedere, allora, con la razionalizzazione dell’esistente: che il sistema educativo rimanga tutto sommato, nelle sue strutture di fondo, come è, ma, in compenso, che lo si smagrisca, costi meno, e che ciò avvenga in tempi brevi. È la via scelta in questi ultimi tre anni, con la politica scolastica ridotta a qualche comma
realtà, sappiamo tutti che gli insegnanti già praticano, in qualche modo, un fantasma di libertà nel loro insegnare. Sarebbe perciò strategico compiere il passo successivo e decisivo: attribuire, per legge, autenticità al loro stato di liberi professionisti. Il nostro Paese si troverebbe a beneficiare, con modica spesa e, per così dire, senza spargimento di sangue, dell’avvio autorevole e bene accetto di una riforma epocale. Chi meglio dell’on. Valentina Aprea potrebbe comprendere e articolare una tale scansione del cammino verso la scuola del terzo millennio? L’on. Aprea ha maturato il suo ruolo e la sua vocazione politica nell’ambito della scuola, lei sa benissimo che gli insegnanti, in questi ultimi anni, sono stati costretti a subire riforme e riformette in overdose. E sa benissimo – come in realtà dimostra anche la sua proposta di legge, di cui stiamo discutendo – che la chiave di volta per un progetto nuovo, condiviso e accettato, con impegno e senza stress, è nelle mani dell’insegnante liberato e responsabilizzato. Non è nelle mani dell’amministratore, specie se l’amministratore continua ad essere lo Stato. O un suo rappresentante.
della legge finanziaria nel 2006 e 2007. Ma anche la via che vede il ministero dell’Economia commissariare quello dell’istruzione. Ciò che è accaduto con il Quaderno Bianco di Fioroni, con l’Invalsi presieduto da un esperto della Banca d’Italia e adesso con l’art. 64 del decreto legge Tremonti. È come se gli economisti dicessero: voi mondo della scuola chiacchierate molto, ma non riuscite mai a elaborare riforme condivise che costino di meno e producano di più; noi vi dimostriamo invece che se non faremo più qualità di quella esistente, faremo tuttavia cospicue riduzioni di spesa.
Dar ragione ai «razionalizzatori» o darsi una mossa per dimostrare che i «riformatori» non sono sognatori? Vedremo presto quale delle due soluzioni sarà privilegiata da due atti. Anzitutto, dal piano che il Ministro Gelmini dovrà presentare entro 45 giorni per obbedire alle ingiunzioni poste dal ministro Tremonti («a. razionalizzazione ed accorpamento delle classi di concorso; b. razionalizzazione dei piani di studio e dei relativi quadri orari, con particolare riferimento agli istituti tecnici e professionali; c. revisione dei criteri vigenti in materia di formazione delle classi; d. rimodulazione dell’attuale organizzazione didattica della scuola primaria; e. revisione dei parametri vigenti per la determinazione degli organici; f. ridefinizione dell’assetto organizzativo-didattico dei centri di istruzione per gli adulti»). Il secondo atto che ci farà capire se prevarranno i «razionalizzatori» o i «riformatori» saranno le decisioni del Parlamento sul disegno di legge Aprea. Esso, infatti, recupera molti segmenti del puzzle riformista bruscamente interrotto con la XV legislatura, a partire da ciò che non fu possibile concludere per il clima avvelenato della XIV e dal recupero di ciò che allora fu fatto ma subito dopo fu eliminato dalla finanziaria 2007: le nuove regole per la formazione e il reclutamento dei docenti. Sì, perché è perlomeno bizzarro pretendere una scuola nuova e di qualità con personale vecchio, per lo più reclutato con regole vecchie che, certo, non hanno dato buona prova di sé.
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economia Nello stabilimento di Mirafiori (a sinistra) la rimodulazione dei turni di lavoro ha creato non pochi malumori tra rappresentanti dei lavoratori e azienda. Un grattacapo in più per l’Ad di Fiat, Sergio Marchionne (in basso), che si dice tranquillo sul futuro del gruppo torinese
Tra calo delle immatricolazioni e spettro di cassa integrazione
Fiat, la crisi riapre lo scontro con Cipputi di Vincenzo Bacarani
TORINO.
Sembra un’estate contraddittoria per la Fiat. Da una parte il crollo del mercato dell’auto (in Italia a giugno 19,5 per cento con Fiat a -16,5), con le temute, conseguenti ripercussioni sui lavoratori come è l’annunciata breve cassa integrazione (quattro giorni collegati alla festività patronale e alla domenica, che in tutto fa una settimana) e tre settimane di ferie a Melfi con i corsi di formazione previsti dal 7 luglio a Mirafiori e Termini Imerese. D’altra parte, c’è un sostanzioso aumento dei turni di lavoro alle meccaniche di Torino. Un controsenso? «Fino a un certo punto», nota Bruno Vitali, responsabile settore auto della Fim-Cisl, «perché a Torino, Fiat produce anche per altre case, almeno per un 20 per cento».
E così accade che in un momento in cui c’è una forte contrazione del mercato e il titolo Fiat in Borsa soltanto ieri è risalito sopra la soglia dei 10 euro (+2,67 per cento) ai lavoratori di determinati settori viene chiesta una maggiore produttività mentre altri corrono il rischio della cassa integrazione. Nello stabilimento torinese di Powertrain Technologies, ad
esempio, (produzione del cambio per Cinquecento, Punto, Panda, Bravo, Ipsilon, Doblò e MiTo) 800 operai su 1400 addetti lavoreranno per 17 turni e alcune decine su 18. Per dare un’idea, finora l’orario era diviso in 15 turni (tre al giorno) per 40 ore alla settimana in 5 giorni, dal lunedì al venerdì. Da settembre si lavora di più: 17 turni alla settimana, tre al giorno più il sabato mattina e la domenica notte per 40 ore in 5 giorni con riposo a scorrimento. Una proposta identica alla fine dell’anno scorso era stata sottoscritta dai sindacati, ma so-
porsi volentieri ai turni di sabato e di domenica, in cambio però di una remunerazione economica. Quanto? «Noi», prosegue il sindacalista della Fim, «chiediamo 3 euro all’ora in più». E la Fiat? «Propone 1 euro e 50». Possibilità di accordo? «Vediamo, ma siamo contrari a un’altra eventuale decisione unilaterale dell’azienda».
La forte crisi dell’auto potrebbe giocare un ruolo fondamentale nella trattativa. La distanza tra azienda e sindacati è notevole. In più la Fiat ha perso una consistente quota di mercato in
A Mirafiori come a Melfi si temono forti ripercussioni per la riduzione delle immatricolazioni. E a breve il sindacato è pronto a presentare all’azienda il conto su premi di produzioni e festivi noramente bocciata dalle assemblee dei lavoratori. «Per una pura questione di soldi», dice ora Vitali. E infatti la Fiat scavalcò sia l’accordo sindacale sia il no delle assemblee affidandosi ai volontari. Ma ora le cose cominciano ad andare in maniera diversa. La difficile congiuntura economica spinge gli operai a sotto-
Europa, Spagna soprattutto, dove già era in sofferenza. A tenere in piedi l’internazionalità del Lingotto, ci pensano il Brasile e la Turchia. Troppo poco se si pensa che soltanto la Cinquecento può dirsi veramente vettura di successo. La nuova Bravo non ha sfondato e suscitano qualche perplessità anche la riedizione della Lan-
cia Delta e la MiTo Alfa. L’amministratore delegato del gruppo, Sergio Marchionne, continua tuttavia a ripetere che – nonostante la crisi – Fiat mantiene «le previsioni sui profitti». E le cifre, dice, «le renderemo note al consiglio di amministrazione del 23 luglio». Intanto però la partita sul fronte sindacale si allarga. Non c’è soltanto la Fiom che, rispetto alle altre organizzazioni Fim, Uilm e Fismic, si dice contraria a «scorciatoie autoritarie» sul tema dei turni e ha deciso iniziative di mobilitazione da domani in poi nei siti torinesi. Lunedì verrà deciso un calendario di incontri a livello nazionale per chiudere questa partita entro luglio, prima delle ferie, con un accordo che riguarderà tutti i lavoratori delle meccaniche in Italia con la parola d’ordine: più turni, più soldi. E, quando verrà settembre, i sindacati presenteranno le richieste per l’integrativo. Nel 2006, dopo 10 anni di astinenza, i rappresentanti dei lavoratori erano riusciti a strappare un premio di produzione di circa 1500 euro l’anno. Un successone conquistato sull’onda di un anno che è stato storico per l’azienda del Lingotto
per quanto riguarda produzione e fatturato. Questa volta le richieste sono più ambiziose: da 2300 a 2500 euro l’anno. Difficile sostenerle di fronte a un mercato che, mese dopo mese, denuncia gravissime difficoltà provocate dalla bolla speculativa sul petrolio, dalla mancanza di incentivi alla rottamazione e da un’inflazione galoppante che scoraggia i consumi. «Non sarà facile», conferma Vitali, «Non siamo certo fortunati a cominciare una trattativa in questo periodo di crisi. Però Marchionne dice che i profitti ci sono e faremo tranquillamente le nostre proposte».
Al Lingotto nessuno si sbilancia in questo delicato frangente. Tutto è rimandato al consiglio di amministrazione del 23 luglio. Per il momento i ritocchi al listino prezzi, resi necessari dall’aumento del costo dei materiali, sono stati contenuti in un aumento medio di poco superiore all’uno per cento. Non è tanto, ma in questo periodo di forte contrazione dei consumi, anche un incremento minimo del prezzo di vendita dell’auto può provocare qualche piccola frenata alla domanda.
economia
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Oggi Jean-Claude Trichet annuncia un adeguamento di 25 punti base, arrivando al 4,25 per cento
Bce,Berlino teme ritocchi a raffica ai tassi di Alessandro Alviani
d i a r i o
d e l
g i o r n o
Ocse: in Italia salari inferiori di un quinto Salari inferiori di quasi il 20 per cento alla media Ocse, con un divario ancora maggiore in termini di potere d’acquisto (-22 per cento), disoccupazione superiore agli altri paesi big europei, uno dei maggiori ”gap” a danno dell’occupazione femminile e un difficile accesso al lavoro per i giovani. Questo il quadro per l’Italia nell’outlook sull’occupazione dell’Ocse. In base ai dati pubblicati dall’Ocse, il salario medio lordo annuo in Italia nel 2006 è stato pari a 31.995 dollari, inferiore del 19,5 per cento rispetto ai 39.743 dollari che costituiscono la media Ocse.
Draghi: Robin Tax peserà sugli utenti La Robin Tax «rischia di pesare troppo su un singolo settore di impresa e di avere effetti negativi per i consumatori». L’allarme è lanciato da Tullio Lazzaro, presidente della Corte dei Conti, durante l’audizione alle commissioni congiunte Bilancio e Finanze di Camera e Senato su Dpef e dl manovra. Sulla stessa linea il parere del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, secondo cui «l’inasprimento del prelievo a carico delle banche potrebbe riflettersi sulle condizioni offerte ai depositanti e ai prenditori di credito e in minori risorse per gli intermediari».
BERLINO. Ormai è un passo che in molti danno per scontato, tanto più dopo la nuova fiammata dell’inflazione, che a giugno ha toccato quota 4 per cento. Oggi la Bce dovrebbe dare il via libera all’incremento dei tassi di interesse di 25 punti base (al 4,25 per cento). Sul fatto che a Francoforte si siano decisi a rimetter mano al costo del denaro dopo un anno di mancati interventi non sembrano esserci dubbi neanche tra gli esperti. «Mi aspetto questo passo», ha spiegato ieri ai giornalisti Norbert Walter, capo economista di Deutsche Bank. Decisivo sarà però il modo in cui tale annuncio arriverà. Nei giorni scorsi si è avuta infatti l’impressione che l’aumento possa essere soltanto il primo di una serie, circostanza seccamente smentita dal numero uno della Banca centrale, Jean-Claude Trichet, ma rilanciata da Walter. Poiché, è il ragionamento dell’economista, il numero uno della Bce nella conferenza stampa di oggi non dirà «non ci sarà nessun ulteriore intervento sui tassi», ma soltanto che tale incremento non sarà un toccasana miracoloso. E «l’interpretazione che ne daranno i mercati il giorno dopo sarà che non si è trattato dell’ultimo intervento». Ciò significa che «continua ad esserci di fatto il rischio che la Bce alzi ancora i tassi al 4,5 per cento». Il tutto è legato, secondo Walter, alla risposta che arriverà dai cambi: «se ci sarà una brusca reazione, non avverrà nessun ulteriore incremento da parte della Banca centrale europea». L’Eurotower dovrà anche tener conto del fatto che – come prevede l’esperto di Deutsche Bank – l’attuale debolezza del dollaro dovrebbe protrarsi almeno per
Biggieri, è ferma la spesa delle famiglie Nell’ultimo anno la spesa delle famiglie, valutata in termini reali, ha registrato una crescita pressochè nulla». Inoltre l’evoluzione delle vendite al dettaglio è rimasta pressochè stagnante». Lo ha speigato durante l’audizione sul Dpef il presidente del’Istat, Luigi Biggeri. «Il pronto superamento dell’episodio di caduta dell’attività produttiva manifestatasi alla fine del 2007 – rassicura però Biggieri - costituisce un segnale positivo che riduce di molto la portata dei timori relativi al rischio dell’avviarsi di una fase recessiva per l’economia italiana».
Eni rinnova accordo con Petrobas
Walter (Deutsche Bank): «Non sarà l’ultimo intervento». Ancora dubbi dal sistema della Germania i prossimi due anni. Per ora, nei suoi sforzi per combattere il carovita, la Bce appare sempre più isolata. Soprattutto dopo che anche Berlino si è unita al coro di quanti in Europa mettono in guardia dagli effetti negativi che un aumento dei tassi avrebbe su un’economia mondiale già in affanno a causa della corsa del petrolio e delle ripercussioni della crisi finanziaria internazionale.
Che la confederazione sindacale tedesca DGB liquidi l’incremento come «veleno puro per la congiuntura», come avvenuto ieri, non è affatto insolito. Che a intervenire in modo diretto per sconsigliare tale passo sia il governo di Berlino, invece, suona del tutto nuovo. Talmente nuovo che, dopo aver definito nel fine settimana la decisione della Bce come un possibile «segnale sbagliato», lo stesso ministro
delle Finanze tedesco, Peer Steinbrück, è tornato sui suoi passi: «Non ho affatto messo in guardia la Bce», ha detto ieri, tentando così di ricompattare almeno in apparenza il governo federale, guidato da una Frau Merkel da sempre baluardo dell’autonomia dell’Eurotower dagli esecutivi nazionali. Quindi, ha aggiunto, l’essere stato affiancato al presidente francese Nicolas Sarkozy nelle critiche a Francoforte è «una deformazione della realtà». L’insolita mossa di Steinbrück potrebbe essere stata dettata proprio dal timore di una serie consecutiva di incrementi. In ogni caso, è il consiglio di Walter, il ministro dovrebbe gettare uno sguardo al passato: alle critiche del collega di partito ed ex cancelliere Helmut Schmidt alla Bundesbank (al «la sua politica dei tassi è estremamente pericolosa», rivolto nel 1981 all’allora presidente della Buba, Karl Otto Pöhl, senza però influenzarne le scelte). «Non credo», conclude Walter, «che Steinbrück avrà più fortuna di Schmidt». Anche perché l’inflazione percepita dai tedeschi non è né del 3,3 né del 4, bensì del 12 per cento.
L’Amministratore Delegato di Eni, Paolo Scaroni, e il Presidente della società brasiliana Petrobras, Josè Sergio Gabrielli hanno firmato ieri a Madrid il rinnovo dell’intesa siglata all’inizio del 2007 in Brasile per la valutazione congiunta di iniziative strategiche integrate. Attraverso questo accordo, Eni e Petrobras confermano la volontà di rafforzare i rapporti di collaborazione attraverso un’ulteriore intesa che rinnova e amplia la partnership tra le due società.
Petrolio: gli stock Usa fermano la corsa Petrolio contrastato dopo la diffusione degli stock strategici Usa, che ha rivelato per il greggio un inatteso ribasso delle giacenze ma anche un ampio aumento di quelle di benzina (importante per i consumi estivi Usa). A Londra la consegna agosto sul Brent quota 141,57 dollari contro 141,07 indicati in precedenza.A New York l’analoga consegna di riferimento sul Wti scambia a 141,21 contro 141,07 prima dei dati.
Alitalia, Scajola chiede sacrifici Il piano industriale che verrà presentato per Alitalia chiederà sacrifici. A dirlo è Claudio Scajola, ministro dello Sviluppo Economico. A proposito di eventuali esuberi il ministro ha detto che «non si sta parlando di una azienda cha va bene, ma che rischia il fallimento». Intanto, entro luglio si attende il piano di risanamento dell’advisor Intesa San Paolo. Le prime indiscrezioni fanno riferimento a 4mila esuberi, ora si parla di un numero maggiore. Da qui l’intervento immediato dell’Anpac, l’associazione dei piloti che in una nota ha precisato: «il personale in esubero, secondo quanto riportato dai principali organi di stampa ammonterebbe ad oltre 6.000 unità, cioè circa il triplo di quanto originariamente previsto nella proposta di Air France-Klm».
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enneth Hensall (un’autorità fra gli studiosi contemporanei del Sol Levante), nella sua Storia del Giappone liquida l’argomento in sette righe, pur riconoscendone l’importanza storica: «Alla fine di maggio del 1905, mentre la flotta russa si apprestava ad affrontare l’ultima tappa del suo interminabile viaggio per raggiungere Vladivostok, fu intercettata e distrutta nello stretto di Tsushima dalla flotta congiunta giapponese, sotto il comando dell’armmiraglio Togo Heihachiro. La vittoria decisiva mise il Giappone in una posizione di vantaggio, quando chiese segretamente al presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt di mediare».
libri
K
Avvenne qualcosa di più. Il Giappone – da quel giorno – conquistò il dominio dei mari dell’Oriente, dimostrando che una piccola potenza dell’Estremo Oriente poteva battere un gigante europeo. I popoli coloniali dell’Asia e del Medio Oriente capirono che i loro padroni non erano invincibili. La sconfitta fu il prologo, in Russia, degli eventi successivi che condussero alla Rivoluzione d’ottobre. Cambiò la geopolitica di una parte consistente del mondo. Eppure, di quella battaglia navale gli storici (anche quelli militari) non si sono occupati a fondo: si fosse combattuta nei mari più vicini all’Europa o agli Stati Uniti, certamente l’attenzione sarebbe stata di gran lunga maggiore. Lo stesso può dirsi – più in generale – della guerra russo-giapponese che anticipò i grandi massacri del XX secolo, favoriti da una tecnologia bellica che stava compiendo passi da gigante. Ci voleva un russo (che vive negli Stati Uniti e insegna in una università del Massachussetts) per colmare la lacuna. Costantine Pleshakov racconta questa storia ne L’ultima flotta dello Zar – L’epico viaggio verso Tsushima (Corbaccio editore, 416 pagine, 26 euro), sostenendo che quella battaglia – combattuta nello stretto di Corea che separa il Giappone dall’Asia continentale – è una delle cinque battaglie navali più importanti della storia, insieme con Lepanto (vittoria della Lega Santa contro l’Islam, nel 1571), Trafalgar (vittoria dell’Inghilterra contro la Francia napoleonica, 1805), Jutland (che oppose la Marina inglese a quella tedesca nel 1916) e Midway (vittoria americana contro i giapponesi, 1942). Per chi volesse approfondire, ci sono eccellenti libri in circolazione: Arrigo Petacco ha raccontato Lepanto in La Croce e la Mezzaluna (Rizzoli), Marco Zatte-
Tutta la verità sulla flotta rossa annientata nel 1905 dai giapponesi
L’ultimo viaggio dei marinai russi di Massimo Tosti rin ha scritto Trafalgar, la battaglia che fermò Napoleone (Rizzoli), Sergio Valzania ha dedicato un corposo volume a Jutland, 31 maggio 1916: la più grande battaglia navale della storia (Mondatori), tutti pubbli-
scorso anno ha pubblicato Il silenzio di Stalin, raccontando come il dittatore sovietico fu preso in contropiede dall’Operazione Barbarossa, l’invasione della Russia da
La mattina della battaglia in molti indossarono biancheria pulita, procedura tradizionale per chi si preparava alla morte cati negli ultimi due anni. Più vecchio è La battaglia di Midway di Donald Sanford, pubblicato una trentina di anni fa da Longanesi, ma ancora reperibile. Pleshakov (che lo
parte dei tedeschi, mentre progettava a sua volta un attacco alla Germania) ha il merito di raccontare la storia come se fosse un romanzo d’avventura
(ma le note, capitolo per capitolo, dimostrano quanto siano state accurate le sue ricerche negli archivi della Russia e dei Paesi Occidentali: mancano i documenti giapponesi per il semplice fatto che l’autore non ha alcuna conoscenza degli ideogrammi ed era quindi ima possibilitato frugare nelle fonti nipponiche). Certe pagine ricordano le spy
story di Ian Fleming, o persino i migliori romanzi di Stephen King, con un’accurata analisi della psicologia dei personaggi principali, a partire dei due comandanti supremi, gli ammiragli Togo Heihachiro e Zinovy Petrovich Rozhdestvenski, che rimase ferito nella battaglia, ma al rientro in patria subì un processo che si conluse con l’assoluzione. Ma racconta anche le strategie militari, concedendo ai russi l’onore delle armi per le condizioni di grave inferiorità nelle quali affrontarono lo scontro. Erano reduci da una navigazione di settimane; le navi erano malridotte e anche il morale e il fisico degli equipaggi era fiaccato. La flotta nipponica era in grado di navigare a una velocità doppia di quella russa che era avvantaggiata dal fatto di conoscere lo specchio di mare nel quale si consumò lo scontro. Il bilancio della battaglia fu devastante per i russi. Delle loro sette corazzate sei furono affondate (Osliabia, Suvaroff, Alexander III, Borodino, Sissoi Veliky e Navarin) e una catturata (Orel); delle quattro corazzate costiere o di seconda classe, una fu affondata (Usciakoff) e le altre catturate (Nicola I, Apraxin, Seniavin); tutti e tre gli incrociatori corazzati (Nakhimoff, Dmitri Donskoy, Vladimir Monomakh) furono affondati; dei sei incrociatori leggeri, uno (Almaz) riuscì a raggiungere la Russia e uno (Izumrud), si incagliò sulla via di Vladivostok, tre (Aurora, Oleg, Jemciug) si fecero catturare internare e uno solo fu affondato. I morti furono circa 5 mila e i prigionieri oltre 6.500. I giapponesi ebbero 116 morti e 558 feriti; persero solo tre siluranti, a testimonianza delle buone qualità delle loro navi, e della pessima qualità dei proiettili russi (e non degli artiglieri: un cacciatorpediniere nipponico, colpito 32 volte, rientrò alla base con un solo ferito a bordo; anche la Mikasa, l’ammiraglia giapponese, fu centrata da 20 colpi ma soltanto un pezzo di artiglieria fu messo fuori uso).
La mattina della battaglia «molti marinai russi indossarono in fretta e furia della biancheria pulita: era la procedura tradizionale per chi si preparava alla morte». A mezzogiorno, quando era chiaro quanto fosse imminente l’attacco giapponese, «gli ufficiali andarono nel quadrato per gustrare un pranzo decente e bere champagne alla salute dello zar che quel giorno festeggiava il suo trentasettesimo compleanno». Era il 27 maggio 1905 (il 14 maggio secondo il calendario giuliano vigente in Russia).
cultura
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Di scena al 51esimo Festival dei due mondi di Spoleto l’opéra-ballet che fa impazzire il pubblico
Tigri e cavalli:la Padmâvatî di Bollywood egli elefanti all’opera si è sempre favoleggiato; vedi quelle vetuste Aide all’Arena o a Caracalla dove solerti inservienti travestiti da antichi egizi, paletta e scopino alla mano, pare tenessero dietro ai pachidermi, pronti a raccattare dal piancito ‘doni’ poco graditi. Si favoleggia, appunto; pure, come certi miti traggono origine da ben determinati fatti storici, così è dato credere che in tempi favolosi barriti si mescolassero a fanfare e Marce trionfali.
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Ma le tigri no, nessuno aveva mai neppure osato immaginarle su un palco. Ebbene, a Spoleto, inaugurandosi il Festival dei due mondi n° 51 con Padmâvatî di Louis Laloy (libretto) - Albert Roussel (musica), un opéra-ballet finora apparso in Italia solo due volte (nel 1952 a Napoli, nel ’71 a Firenze), il Teatro Nuovo ospita, in sequenza, un cavallo vero accanto ad altri finti, un elefante, e – addirittura – una tigre (al guinzaglio). Il pubblico, divertito come una scolaresca al circo, accompagna le diverse tappe della sfilata faunistica con mormorii di sorpresa e applausi a scena aperta, riversando infine tutta la propria gratitudine sul regista cinematografico indiano Sanjay Leela Bhansali, artefice della messinscena insieme a Omung Kumar Bhandula (scene), Rajesh Pratap Singh (costumi), Philippe Grosperin (luci) e, soprattutto, al coreografo Tanusree Shankar. Più o meno alla stessa ora, nell’ex Chiesa di S. Nicolò il regista svizzero Luc Bondy e un manipolo di attori francesi non men che superlativi presentava in lingua originale (con sopratitoli) La seconda sorpresa dell’amore, un Marivaux del 1727 tanto abile nel dar corpo teatrale a capziosissime disquisizioni intorno alla natura e al valore delle passioni, quanto servito dai suoi interpreti con un’eleganza sconfinata. Bondy non rinuncia al suo pallino per le valigie né a colorire lo scioglimento lieto con una patina densa di dubbio e malinconia (idem), tale da proiettare un’ombra inquieta su tutto il precedente vorticare di paure sospetti trame puntigli qui pro quo che coinvolge i due nobili destinati ad amarsi – la vedova Marchesa e il Cavaliere orbato d’una fidanzata fattasi monaca –, i loro servi fedeli, i due vilains – il Conte, che aspira alla mano della nobildonna, e Hortensius, il di lei bibliotecario-lettore. Acquista così pieno significato la spaziosità della recitazione, che può apparire lenta (e invece ha un ritmo interno inscalfibile) solo a chi non vuole o non sa cogliere le sfumature di una dizione irreprensibile e di una gestualità eloquentissima. Una prima italiana in tutto degna d’un festival animato da prospettive e ambizioni internazionali, purtroppo passata davanti a una platea sì festevole ma irrimediabilmente sparuta. Non sono di quelli che per elogiare il nuovo corso spoletino di Giorgio Ferrara, si sente in dovere di gettare fango e disdoro su Francis
di Jacopo Pellegrini Menotti, figlio di Giancarlo (il fondatore del Festival) e responsabile delle scelte artistiche nell’ultimo decennio. Costui, pur tra inciampi e cadute, ha saputo mettere a segno qualche riuscita non dubbia, anche in virtù dei consigli elargiti fino all’ultimo dal gran genitore; buon’ultima, l’anno passato, la bellissima versione di Maria Golovin, parole e musica di Menotti padre. D’altra parte, a osservarlo da vicino, il cartellone 2008 appare sbilanciato in favore del teatro di parola (l’ambito elettivo di Ferrara), mentre i cromosomi di Spoleto sono sempre stati quelli d’un festival a forte
gredienti del genere. Non dissimile, sebbene fondata su basi culturali completamente diverse e indipendenti, l’atmosfera che si respira nell’opera di Roussel. Il cui sottotitolo, opéra-ballet, se da un lato evoca una forma di spettacolo in voga nella Francia barocca, definisce in realtà un tipo di rappresentazione musicale, «in cui le danze, i cori, la magia di scene e luci abbiano una parte preponderante» (da un’intervista del compositore alla rivista Excelsior, ottobre 1912). La vicenda storica (1303) alla base della trama vede la bellissima Padmâvatî (ovvero Padmani o Padmini), moglie di Ra-
L’opera di Louis Laloy (libretto) e Albert Roussel (musica) definisce in realtà un tipo di rappresentazione musicale,«in cui le danze, i cori,la magia di scene e luci abbiano una parte preponderante» propensione musicale; il numero limitato o nullo di repliche per ogni appuntamento attesta poi una crisi strutturale del pubblico, che ha origini lontane. A poco, per adesso, è valso il deciso (e saggio) abbassamento dei prezzi, occorre riconquistare la fiducia e l’interesse degli spettatori: una sfida lunga difficile quanto esaltante, da giocarsi sul tavolo della fantasia e della qualità. Quantunque meno d’una dozzina, Ferrara potrà contare sulla gratitudine eterna degli appassionati di Bollywood – l’Hollywood indiana – che hanno assistito alla retrospettiva dedicata a Bhansali. Nel mio caso, gratitudine doppia: assistendo al celebre Devdas (un successo a Cannes nel 2002, primo film indiano candidato all’Oscar), credo infatti d’aver meglio compreso le intenzioni estetiche e spettacolari del cineasta riguardo a Padmâvatî. Nella pellicola citata l’usanza tipicamente indiana d’intrecciare mélo e parentesi canoro-coreografiche leggere (spesso collegate alla vicenda principale da allusioni simboliche) inclina alla tragedia, pur conservando intatti tutti gli in-
tan Sen (Rawal Ratan Singh), signore di Chittor (oggi Chittorgarh, nel Rajasthan), negarsi alle brame di Allouddin (Ala-ud-din Khilji), sultano di Delhi, che ha cinto d’assedio la città, fino al punto d’uccidere il consorte ferito in battaglia e d’immolarsi sulla pira accanto a lui. Due atti non lunghi e poveri d’azione esterna, il classico triangolo amoroso, lui-lei-l’altro, inserito in un congegno abbastanza lasco da accogliere spesso e volentieri episodi coreografici: un puro divertissement nell’atto I, più integrati nel contesto nel II, laddove si canta meno e più a proposito, allentando cioè i vincoli d’una declamazione che nel quadro precedente appare modellata su quella del Pelléas et Mélisande di Debussy. Bhansali affronta Padmâvatî in presa diretta, senza porsi il problema di un autore francese che nel 1913 sceglie un soggetto esotico, lo mette in musica negli anni della Prima guerra mondiale, lo fa eseguire all’Opéra di Parigi nel ’23: i rossi e i blu intensi e caldi dei suoi film, quella fotografia appena sfocata negli esterni, visti come at-
traverso il velo d’una nebbiolina impalpabile, si ritrovano pari pari nelle luci nette e mutevoli, nei fumi abbondanti che avvolgono il cartiglio appeso sopra il boccascena con su scritto il nome dell’eroina (sembra la didascalia d’un film muto), i lumini al proscenio, le foglie di loto sparse all’intorno, le stoffe preziose, le colonne tortili, le finestre a sesto acuto, le guglie, un’altalena di liane, i simulacri divini indù – l’immagine di Ganesha sul velario dell’atto I, il tempio di Shiva nel second’atto, segnalato dagli attributi specifici del dio: il triangolo, il tridente, il toro Nandi, suo mezzo di trasporto; né mancano le apparizioni, previste in partitura, di Kali, Durga e di altre sacre figure femminili (grazie a Massimiliano Farau per la preziosa consulenza in materia religiosa). L’unica libertà il regista se la prende nell’epilogo, ed è una libertà ben intonata al manicheismo etico e alla regola della morale univoca regnanti a Bollywood: il malvagio Allouddin, atterrito dall’olocausto della regina, si pente, mentre sul fondo assistiamo all’apoteosi celeste degli sposi. Le danze, nelle quali melodie dal profilo orientale (temi originali indiani e africani si alternano ad altri inventati da Roussel, che simulano una provenienza esotica alterando secondo e quarto grado della scala) vengono incalzate da ritmi scabri e incisivi, memori dello Stradella vinskij ‘barbaro’ (Sagra primavera), prevedono a più riprese l’intervento di cori a bocca chiusa o vocalizzanti suoni inarticolati. A Spoleto quello importato dallo Châtelet di Parigi, insieme all’allestimento, canta male proprio come uno dei nostri. Il direttore Emmanuel Villaume compie il dover suo, tenendo saldamente in pugno l’intrico di ritmi e tonalità sovrapposte nella fitta partitura, non coprendo le voci, non indugiando, come s’addice a una musica che non persegue la stasi e l’annullamento del tempo, ma continua a basarsi sulla concatenazione degli accordi secondo una logica consequenziale: una musica, insomma, più vicina a Dukas che a Debussy. Un’auspicabile maggiore limpidezza nel dipanare la tela motivica avrebbe necessitato d’un’orchestra più omogenea e precisa negli archi della pur discreta Sinfonica nazionale di Praga, forte di ottime prime parti (legni, arpa, violoncello).
Non sarà facile scordare, nei panni della protagonista, la giovane e bella Nicole Piccolomini, voce di contralto come non se ne incontravano più da tempo, fonda scura e morbida come una notte senza stelle. Adeguati tutti gli altri (l’esperto Surian è Allouddin, la brava Nadin l’ancella Nakamti, assegnataria d’un assolo che nella preziosità del rivestimento timbrico s’avvicina alla coeva Turandot di Puccini), anche se personalmente avrei scambiato le parti tra il Bramino (Philippe Do) e Ratan-sen (John Bellemer): quello ha il volume che manca al re, questi la dolcezza di cui l’altro difetta.
società
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Il cardinale spagnolo lancia una sfida a laici e cattolici: «I valori non sono né di destra, né di sinistra, né di centro»
Herranz,il soldato colloquio con il cardinale Julián Herranz di Francesco Rositano
ventitré anni Julián Herranz era uno dei segretari personali di Josemaría Escrivá de Balaguer, beatificato da Giovanni Paolo II nel 2002. Adesso, l’amico intimo del fondatore dell’Opus Dei è cardinale di Curia, presidente emerito del Consiglio per i Testi legislativi e presidente della Commissione Disciplinare della Curia Romana. E membro di moltissime commissioni, dicasteri e congregazioni vaticane. Tra questi, il Pontificio Consiglio per i Laici e la Congregazione per la dottrina della fede. Dal tempo dell’università di anni ne sono trascorsi tanti (oggi il porporato ne ha 78), ma è rimasto un “soldato” indefesso di quegli stessi valori che una volta difendeva in ambito accademico. E che, a suo avviso, appartengono a tutti gli uomini: credenti e non credenti. Eminenza, qual è il contributo che l’Opus Dei può dare alla missione della Chiesa e alla società? Il ruolo dell’Opus Dei è quello di contribuire, attraverso le proprie attività formative ed apostoliche, a tradurre in realtà vissuta la dottrina cristiana della chiamata divina alla santità e all’apostolato. Ciò significa che tutti hanno la possibilità, che per i cristiani è un dovere battesimale, di incontrare Cristo, conformando la propria vita con la Sua, e di diffondere il Suo messaggio. Tale chiamata divina va vissuta nelle variegate circostanze del tessuto quotidiano: gli im-
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pegni familiari, sociali, di lavoro, e così via. Questa dottrina, messa fortemente in luce dal Concilio Vaticano II, appare oggi decisamente ostacolata dal prepotente secolarismo laicista che vorrebbe eliminare la fede o relegarla nel solo ambito della coscienza personale, per cancellare così ogni possibile segno o manifestazione religiosa nella vita pubblica, sociale e
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La chiamata divina va vissuta negli impegni di ogni giorno. Eppure il secolarismo laicista vorrebbe relegarla alla sola coscienza personale
Basilica di San Pietro, 22 ottobre 2003. Giovanni Paolo II consegna l’anello cardinalizio all’allora monsignor Julián Herranz
Dei, seguendo la dottrina della Chiesa, riconoscono la giusta autonomia delle realtà temporali, ma sanno che ciò non significa che queste realtà create possano essere staccate da ogni riferimento a Dio. Anzi, l’Opus Dei sottolinea in modo speciale il valore santificante e santificatore dell’ordinario lavoro umano, che Cristo stesso ha voluto trasformare a Nazareth in strumento di redenzione. Per il cristiano il lavoro non è un ostacolo alla fede e all’incontro personale con Cristo, ma un’occasione per vivere la propria fede in modo più completo, impegnandosi per compiere la Volontà divina nel fare bene il proprio dovere, con il desiderio di offrire a Dio il proprio operato e di servire gli altri. Questo trasforma la vita del singolo – che cresce in santità di vita e in impegno apostolico–, ma trasforma anche la società rendendola un luogo più gradevole e solidale.
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persino familiare (penso ai centri educativi e culturali, alle organizzazioni politiche, militari o sindacali, ai diritti dei genitori all’educazione dei figli secondo le proprie convinzioni, ecc.). Ovviamente, i fedeli dell’Opus
Il medico con la porpora Il Cardinale Julián Herranz è nato il 31 marzo 1930 a Baena, diocesi di Córdoba (Spagna). Primo di quattro fratelli, ha compiuto gli studi liceali a Madrid, dove suo padre (medico) si era trasferito con la famiglia. Nel 1949 conosce l’Opus Dei e vi aderisce, iniziando un intenso apostolato negli ambienti universitari: prima a Madrid, poi a Barcellona, nella cui università ha ottenuto la licenza in Medicina, con specializzazione in Psichiatria. Frequenta il Seminario internazionale dell’Opus Dei a Roma e il 7 agosto 1955 viene ordinato sacerdote. Chiamato nel 1960 nella Curia Romana per occuparsi di questioni riguardanti la disciplina del clero, risiede da allora stabilmente a Roma, anche se negli oltre 45 anni di servizio alla Santa Sede ha realizzato missioni in tutto il mondo. Durante il Concilio Vaticano II ha collaborato nella Commissione che ha preparato il Decreto Presbyterorum Ordinis, ed ha iniziato rapporti di lavoro ed amicizia con noti teologi e canonisti. A seguito del cambiamento di titolo della Commissione, divenuta nel frattempo Pontificio Consiglio per l’Interpretazione dei Testi Legislativi, il 15 dicembre 1990 Giovanni Paolo II lo ha nominato Segretario del nuovo dicastero assegnandogli la Sede titolare di Vertara e consacrandolo Vescovo nella Basilica di San Pietro il 6 gennaio 1991. Il 19 dicembre 1994 è stato promosso Arcivescovo e Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi. È stato creato e pubblicato Cardinale da Giovanni Paolo II nel Concistoro del 21 ottobre 2003.
Spesso, in passato e per certi versi ancora oggi, i movimenti e le associazioni cattoliche, ma anche realtà istituzionali come l’Opus Dei, sono stati visti con una certa prudenza anche dalle gerarchie ecclesiastiche. È stato rimproverato loro di essere realtà spesso troppo chiuse con il rischio inevitabile di allontanarsi dal sentiero tracciato dal Magistero. Che ne pensa? Nella vita della Chiesa c’è stata sempre, in modi diversi, una certa tensione tra carisma e istituzione e, nel caso delle nuove fondazioni, tra carismi fondazionali e strutture giuridiche organizzative della pastorale. Nel caso dell’Opus Dei, essendo il suo fondatore, San Josemaría Escrivá, anche un uomo di diritto, un canonista, egli seppe lavorare sempre con squisita fedeltà al carisma ricevuto e con delicata obbedienza al Magistero e alla Gerarchia della Chiesa. È così che la Santa Sede poté pervenire, 25 anni
fa, all’erezione dell’Opus Dei in Prelatura personale, ciò che, fugando ogni possibile pregiudizio, ha garantito il perfetto inserimento dell’istituzione nella pastorale organica della Chiesa universale e delle Chiese particolari. Quanto alle altre realtà ecclesiali sorte attorno al Concilio Vaticano II con diversi nomi e configurazioni organizzative, mi sembra che se alcune hanno avuto all’inizio una certa chiusura in se stesse o un atteggiamento esclusivista o elitario (e perciò hanno trovato non poche resistenze e tensioni), adesso la situazione è molto cambiata, anche grazie all’affettuoso interessamento dei Romani Pontefici, specialmente di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, e all’impegno dei Vescovi diocesani perché, nel rispetto dei loro diversi carismi, tutte le componenti ecclesiali possano contribuire armonicamente all’edificazione della Chiesa. A suo avviso qual è la strada per difendere, anche a livello politico, quel-
società
li che Benedetto XVI definisce valori non negoziabili? La fede cristiana e la Chiesa non si possono identificare mai con una ideologia politica o ridursi ad essa. Il ruolo della dottrina sociale della Chiesa, come ha detto Benedetto XVI, è di contribuire alla purificazione della ragione, alla difesa della legge naturale e al risveglio delle forze morali. Sta poi ai fedeli laici, con una coscienza rettamente formata grazie ad un’adeguata preparazione dottrinale, mettere in campo le iniziative adeguate per costruire un giusto ordine nella società, partecipando in prima persona alla vita pubblica; difendendo democraticamente i valori che ritengono importanti. Per quanto riguarda la Prelatura dell’Opus Dei posso assicurare che i suoi fedeli fanno ciò con piena libertà e responsabilità personale. Questi valori (la dignità della persona e della vita umana, il matrimonio come unione stabile di un uomo e una donna aperta alla fecon-
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dità, la famiglia fondata sul matrimonio, il diritto alla libertà religiosa, sia di culto che di coscienza, e così via) sono validi per tutti perché hanno come fondamento la centralità della persona nel diritto e come riferimento ultimo il bene comune della società. Si tratta di valori che si trovano al di sopra delle semplici connotazioni politiche di tipo partitico (destra, sinistra o centro) e costituiscono un “comune denominatore” di verità e di valori “non negoziabili”, nella cui promozione e difesa sono moralmente tenuti ad impegnarsi tutti, qualunque sia lo specifico partito politico cui aderiscano. Quando era presidente del Pontificio consiglio per i testi legislativi si è occupato molto di matrimoni e del loro scioglimento. Cosa pensa degli istituti del matrimonio e della famiglia nel mondo contemporaneo? Come tanti altri giuristi e socio-
logi, cattolici e non cattolici, sono personalmente dell’opinione che la verità antropologica sull’essenza dell’istituzione familiare è l’unica che possa garantire la tutela dell’identità naturale e culturale del matrimonio e della famiglia di fronte all’abuso delle ideologie, soprattutto del fondamentalismo
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pletamente autonoma in tutte le modalità di realizzazione soggettiva? Oppure alla persona il cui esercizio della libertà è ordinato e regolato non soltanto dall’istinto e dal desiderio ma dal necessario rispetto dell’insieme dei diritti e dei doveri che derivano dalla dignità della persona e della vita umana, e dal bene comune della società? È evidente che nel primo caso (quello dell’ideologia libertaria del relativismo etico) rientrano alcuni Stati, pochi, che hanno introdotto l’assimilazione giuridica al matrimonio di qualunque convivenza civile, persino omosessuale, e nel contempo hanno liberalizzato al massimo le procedure per il divorzio (il “divorzio express”), l’accesso alla procreazione artificiale e alla manipolazione degli embrioni, ecc. Nel secondo caso, invece, rientrano molti Stati (democratici, non teocratici né fondamentalisti; liberali e non libertari), che privilegiano nelle loro leggi quelle forme di convivenza sociale che sono ritenute da sempre adeguate alla realtà antropologica dell’uomo e della donna, e che favoriscono (come dimostra l’esperienza di sistemi giuridici civili plurimillenari) il bene comune della società e la tutela di importanti valori sociali, quali la stabilità della famiglia, la promozione della natalità e la difesa della vita, i diritti e l’educazione dei figli, ecc. Cosa possono fare i cattolici e l’Opus Dei contro quella che il Papa definisce ”dittatura del relativismo”? Quali sono a suo avviso i temi su cui laici e cattolici possono trovare una strada di collaborazione? I cristiani sono tra coloro che, al giorno d’oggi, hanno ancora fiducia nella capacità della ragione di distinguere il vero dal falso, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Altri, invece, subiscono le conseguenze dell’attuale crisi di senso e pensano che nulla di vero possa essere conosciuto; pertanto diventano sempre più preda del relativismo che è fonte di un vuoto esistenziale. Il compito dei cristiani è risvegliare in ogni uomo di buona volontà la passione per il bene, la verità e la giustizia, nella consapevolezza che Dio ha creato il mondo e ci ha dato la capacità di conoscerlo e curarlo. Ma oggi anche molti intellettuali non credenti rifiutano l’agnosticismo e il relativismo come metodo di pensiero. Nello storico dibattito promosso dall’Accademia della Baviera tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger, emerse un importante invito alla concordia e
Il matrimonio come unione stabile di uomo e donna, il diritto alla libertà religiosa, valgono per tutti: mettono in primo piano la persona
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relativista e della cosiddetta “ideologia del genere”. Sono consapevole che quando si parla di “centralità della persona nel diritto” e di “verità antropologica” del matrimonio sorge immediata la domanda: a quale concezione di persona ci si riferisce? Alla persona come la intende la filosofia relativista e libertaria che la considera com-
al sereno impegno intellettuale. Habermas, senza rinunciare alle sue opzioni filosofiche di fondo, non religiose, riconobbe che sia la cosiddetta cultura laica (la “ragione secolare”) sia la cultura cristiana (la “ragione della fede”) dovrebbero instaurare un dialogo che è fonte di arricchimento e di complementarietà reciproca, soprattutto nei temi cruciali oggi più dibattuti. Anzi, Habermas era d’accordo con molti altri intellettuali liberali (si potrebbero citare anche non pochi italiani) nell’indicare nella natura corporea dell’uomo e nella dimensione antropologica della famiglia una piattaforma efficace per l’auspicabile dialogo circolare tra fede e ragione, di cui ha oggi tanto bisogno la nostra società occidentale. Benedetto XVI da poco tempo ha festeggiato tre anni dall’elezione. Come giudica finora il suo Pontificato? In che modo giudica i passi di avvicinamento verso l’islam, verso la Cina e verso la Chiesa Ortodossa? Come legge, infine, il viaggio del Santo Padre negli Stati Uniti e l’arrivo del presidente americano George Bush in Vaticano? Il Santo Padre, così come il suo predecessore Giovanni Paolo II, è un esempio per tutti i cristiani. La nostra fede è aperta al dialogo, perché fa leva su quella base di razionalità che ciascun essere umano possiede. Si può dire che il dialogo autentico, condotto con lo scopo di giungere alla verità, è la passione dominante di Benedetto XVI. Con il suo operato stimola ciascun battezzato a riscoprire la bellezza e la profondità della fede, e ad agire portando la propria personale testimonianza di fronte al mondo, senza paura, instancabilmente impegnati a far toccare con mano l’amore di Dio per l’uomo. Questo è stato lo stile con cui il cristianesimo si è diffuso sin dagli inizi nella società pagana. Oggi, di fronte alla secolarizzazione, le diverse fedi sentono forte la responsabilità di costruire insieme un terreno di dialogo per il bene dell’umanità. Ma non solo, anche il cosiddetto laicismo sta iniziando a vedere le conseguenze di un mondo senza valori. Il Papa ha raccolto pienamente questa sfida e sta gettando le basi per la ricostruzione; egli invita tutti a non confidare solo nel progresso tecnico o nelle strutture politiche, ma a sentire la forza di una “speranza affidabile”, quella fondata in Dio, perché come ha scritto nella sua enciclica “Spe salvi”,“chi ha speranza vive diversamente, gli è stata donata una vita nuova”
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LA DOMANDA DEL GIORNO
Quale il libro da portare quest’estate in vacanza? NON SARÀ PROPRIO UNA LETTURA DA SPIAGGIA, MA IL MIO CONSIGLIO È ”GOMORRA” DI SAVIANO
NON C’È IL MINIMO DUBBIO, FEDERICO MOCCIA: FRESCO E AGILE COME LA CANICOLA D’AGOSTO
D’accordo, qualcuno potrà anche dire che non è propriamente una lettura leggera che si addice al solleone estivo da spiaggia cool... eppure io in vacanza consiglierei a tutti Gomorra di Roberto Saviano. Sono circa 300 pagine che se lette molto attentamente possono sì choccare, ma anche (e questo in realtà è l’aspetto più importante) aprire gli occhi su una realtà orribile e ormai sempre meno sotterranea tutta italiana. La camorra campana, le diverse dinamiche che muovono tutti clan del napoletano e del casertano, le collusioni dei politici con gli affari della micro e macrocriminalità. E l’esempio, tutto concentrato nel capitolo ”Don Peppino Diana”, di come poter contrastare il lerciume che si nasconde sotto la montagna di monnezza della Campania (ma non solo lì, purtroppo). Se poi proprio non si riesce a infilare in valigia un libro così impegnato, allora consiglio di arrendersi a Elementare, Randolph. Le investigazioni di un simpaticissimo cane di razza labrador senza dubbio potranno distrarre, continuando a mantenere sempre accesa l’immaginazione.
Non c’è dubbio, l’assoluto e incontrastato re delle letture da salsedine estiva è lui: Federico Moccia. I suoi libri, tutti, sono freschi come una frivolezza primaverile. Le sue trame, tutte, sono avvolgenti come la canicola d’agosto. Il suo stile, tutto, è agile come una nuotata nelle secche delle coste laziali. Praticamente suggerisco la sua opera omnia, da divorare stesi sulla sdraio, al bagnasciuga o di sera prima di coricarsi. Almeno due volte al giorno, tutti i giorni, fino alla fine dell’ultima pagina. Unica controindicazione, l’età. Da non leggersi assolutamente sotto la soglia dei trent’anni. Gli adolesecnti rischierebbero seri effetti collaterali che potrebbero renderli soggetti disadattati quando non addirittura dissociati dalla realtà. Ai trentenni e più potrebbero al contrario far pure bene. Difficile che gli anticorpi a quell’età cedano di brutto. Certo, a meno che il trentenne in questione non si chiami Alex, di anni non ne abbia già quasi quaranta, non si innamori di una diciassettenne liceale, e non voglia coronare il suo sogno d’amore vivendo in un faro in mezzo al Mare Nostro. Lo dicevo io: fresco come una frivolezza primaverile, avvolgente come la canicola d’agosto, agile come una nuotata nelle secche delle coste laziali. Cordialità.
Amelia Giuliani - Potenza
Gaia Miani - Roma
LA DOMANDA DI DOMANI
PERCHÉ NON FARCI TUTTI ADDOMESTICARE DAL MERAVIGLIOSO ”PICCOLO PRINCIPE”?
Avete già in mente la colonna sonora delle vostre ferie? Rispondete con una email a lettere@liberal.it
Tra le ultime uscite, dico la verità, non ne trovo uno che sia uno di libro intrigante. Credo poi che in vacanza bisogna portarsi dietro un libro sì ”leggero” ma che abbia anche una morale, più o meno condivisibile che sia. Io con me porterò Il Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupéry. Un vero e proprio classico (per carità, letto, straletto e strastudiato da tutti) per tutte le età, e in cui ognuno può davvero trovare la distrazione di una fiaba come le rivelazioni profonde nascoste tra le righe delle diverse storie. Un libro che può davvero «addomesticare». Come la volpe del piccolo principe.
LA PRESIDENZA FRANCESE DELL’UE: UNA NUOVA EUROPA CHE GUARDI AL FUTURO La bocciatura del Trattato di Lisbona da parte dei cittadini irlandesi rappresenta una battuta d’arresto ma non certo la fine del processo di sviluppo dell’unificazione europea, come ha giustamente detto il neo presidente Sarkozy. Il caso irlandese mostra, come era già avvenuto in altre occasioni del recente passato, che quando i cittadini europei sono chiamati ad esprimere un giudizio sul processo di unificazione tendono a scaricare su di esso l’insoddisfazione per la difficile situazione economica, anche quando, come nel caso del Trattato di Lisbona, i temi economici sono trattati solo marginalmente. Un insieme di regole condivise è, però, condizione essenziale per rendere l’Unione europea più democratica, perché le decisioni siano più rapide ed il sistema più trasparente ed efficiente, dotandola di nuove competenze in materia di sicurezza interna, politica estera, immigrazione, energia, fiscalità. Questo percorso non può essere interrotto, invocando anacronistiche barriere doganali o involuzioni
LO SMOGGOMETRO
E’ inquinata l’aria che respiriamo? Per i parigini rispondere è semplice: nei cieli un pallone aerostatico di 7 metri di diametro cambia colore a seconda dello smog. Quando è verde lo smog è sotto controllo, giallo e arancione indicano valori intermedi. Guai in vista se si tinge di rosso
LA RAI? È SOLO L’ESTORSIONE DI UNA TASSA CHIAMATA CANONE Rai e Saccà: una storia comunque sia marcia come l’azienda stessa, che dovrebbe immediatamente essere liberata dalle catene della lottizzazione politica e librealizzata per il suo e il nostro bene. Troppi gli interessi politici e assolutamente assurda. L’estorsione di ùna tassa chiamata Canone! Rai libera.
Alberto Moioli
IN ITALIA FINISCE SEMPRE TUTTO A TARALLUCCI E VINO Letto su un quotidiano: «Il Csm boccia, Napolitano lo bacchetta». Facciamo un passo indietro: le leggi o si rispettano o si abrogano. Per legge il capo del Csm è Napolitano! Mi si dice: sì, però, è solo formale, in pratica... Allora c’è da chiedersi: perché il Presidente del Csm ”in pratica” non ha lasciato agire con pieni poteri il
dai circoli liberal Greta Gatti - Milano
nel localismo. Bisogna, invece, completare il passaggio dall’Unione monetaria ad una fattiva Unione politica ed economica. Non basta la politica monetaria per garantire lo sviluppo dell’Unione europea, né si può delegare alla Bce il ruolo di guida in questo processo. E non si può continuare ancora per molto a privilegiare il controllo dell’inflazione rispetto alla crescita economica. Urge la mediazione della politica, con organi europei più efficienti e maggiormente rappresentativi dei cittadini, anche stimolando tutti gli Stati membri ad attivare delle politiche coerenti nei principali ambiti di interesse, dalla politica economica, alla politica estera e di difesa, alla politica dei valori. Obiettivo dichiarato è la creazione, di una grande Europa delle opportunità, per guardare con fiducia al futuro e in cui sentirci realmente “Cittadini d’Europa”. A tal fine, per generare maggiore consapevolezza nei cittadini, sarebbe certamente d’aiuto l’avvio di un dibattito vero e partecipato, al termine del quale si potrebbe davvero portare con fiducia al vaglio dei cittadini europei il Trattato, o qualcosa di anche più ambizio-
suo vice? E quando questi non è in armonia con Napolitano? Dice una locuzione latina, ubi maior minor cessat, si riferiva ai due Catoni (quando c’è chi vale di più, chi vale meno si deve mettere in disparte). Nel nostro caso torna in ballo l’altra: ”tutto finisce a tarallucci e vino”?
L. C. Guerrieri - Teramo
ANTONIO DI PIETRO E IL MAGO DI OZ Sembra tutto nero a chi indossa un paio di occhiali da sole giorno e notte. Anche le stelle che ci fanno da tetto in queste belle e calde sere d’estate. E così, a quanto si dice, pare ad Antonio Di Pietro e ai suoi sodali del PD. Non vorremmo che il mago di Roz, Gros e Gof (sic), per intenderci non il mago di Oz, avesse fatto uno scherzo al fine e misurato Tonino e a quei delicati, illuminati e raffinati degli ex compagni.
Pierpaolo Vezzani
so, come quella Costituzione, apportando le giuste modifiche, che fu varata dalla Convenzione europea. Una riflessione, infine, va rivolta all’identità della nostra Europa. Un’Unione che sappia essere realmente espressione di tutti i cittadini è un’Unione che non dimentica la propria storia e la propria tradizione, soprattutto in riferimento alle proprie radici cristiane. Anche questo è un dibattito dal quale non si può più fuggire. Mario Angiolillo LIBERAL GIOVANI
APPUNTAMENTI TODI - VENERDÌ 25 E SABATO 26 LUGLIO 2008 Seminario, ore 15.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 15.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato
opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog QUANDO IL GIORNALISMO SPOSA IL SENSAZIONALISMO
Maledico l’ambizione che mi separa da te Non è passato giorno che non t’amassi; non è passata notte che non ti stringessi fra le braccia; non ho preso una tazza di thè senza maledire la gloria e l’ambizione che mi tengono lontano dall’anima della mia vita. In mezzo agli affari, alla testa delle truppe, percorrendo i campi di battaglia, la mia adorabile Giuseppina è sola nel mio cuore. Se mi allontano da te con la velocità di un torrente del Rodano, è per rivederti più in fretta. Se, nel mezzo della notte, mi alzo per lavorare ancora, è che questo può anticipare di qualche giorno l’arrivo della mia dolce amica. La mia anima è triste. Un giorno tu non mi amerai più, dimmelo, saprei almeno meritare la sfortuna! Addio, donna, tormento, speranza, felicità e anima della mia vita, che io amo, che temo, che mi ispira dei sentimenti teneri che mi chiamano alla natura. Se tu mi amassi di meno, non mi avresti mai amato. Sarei allora proprio da compatire. Napoleone Bonaparte a Giuseppina Beauharnais
ALEMANNO CONTINUI LA LOTTA ALL’ABUSIVISMO COMMERCIALE Fa bene il sindaco di Roma Gianni Alemanno a procedere verso una centrale unica per il contrasto all’abusivismo commerciale. Va inasprita la lotta alla contraffazione da parte delle Forze dell’ordine e occorre un’azione sistematica, continua e coordinata per combattere un fenomeno che costituisce circa il 25 per cento del mercato globale (ed è aumentato del 1600 per cento negli ultimi 10 anni). C’è ormai un percorso di filiera che va dalla produzione, spesso in fabbriche clandestine e a scapito di ogni tutela dei lavoratori, dell’ambiente e dei minori utilizzati, ai centri di smistamento abusivi, come i magazzini contenenenti 20.000 paia di scarpe e grandi come campi di calcio sequestrati dalla Guardia di Finanza a Tivoli, fino alla vendita al dettaglio su strada. Alemanno dunque fa bene a battere la strada della lotta all’abusivismo commerciale, ma che col tempo non si torni a una linea morbida: ci vuole costanza e coerenza nell’azione di contrasto a simili problemi. Cordialmente ringrazio per l’attenzione.
Caterina Melia - Roma
e di cronach di Ferdinando Adornato
Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)
ACCADDE OGGI
3 luglio 324 Battaglia di Adrianopoli: Costantino il Grande sconfigge Licinio, che fugge da Bisanzio 1883 Nasce Franz Kafka, scrittore austriaco 1962 In seguito ad un referendum la Francia dichiara l’indipendenza dell’Algeria 1964 Il presidente statunitense Lyndon Johnson firma il Civil Rights Act (1964), che proibisce la segregazione nei luoghi pubblici 1969 Rivolta di Corso Traiano a Torino. Forti cariche di polizia accompagnano una manifestazione operaia, per certi versi è l’inizio anticipato dell’Autunno caldo 1971 Muore Jim Morrison, cantante statunitense 1976 Uganda: un commando israeliano libera gli ostaggi dell’Airbus dell’Air France nell’aeroporto di Entebbe 1985 Francesco Cossiga presta giuramento come ottavo presidente della Repubblica italiana 2005 Il Partito Democratico Albanese di Sali Berisha vince le elezioni politiche in Albania
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,
Ancora una volta, filmati choc pubblicati dai nostri quotidiani. Quelli online, s’intende. Io non ne posso davvero più. E’ mai possibile che una persona sia costretta a scelte radicali come quelle di non fruire del servizio informativo via Internet? Stavolta è toccato al video di una anziana signora che muore fare il giro di mezzo mondo. Il filmato mostra la sofferenza di una donna mentre viene letteralmente ignorata dal personale medico in un ospedale di Brooklyn. Ma vogliamo pensare, se non proprio al rispetto e alla dignità della vittima (che insomma, prima di esere morta era, appunto, viva) quanto meno al rispetto e alla dignità dei familiari della povera donna? L’informazione italiana continua a inanellare figuracce su figuracce. Oltrepassando ormai qualunque limite della decenza e della moralità. Mi auguro che si torni al più presto ai livelli di un tempo: quando il giornalismo non era sensazionalismo, ma solo e soltanto ricerca della verità.
Alessandra di Gregorio Opera (Mi)
SEGUE DALLA PRIMA
Salvemini per consolare il “razzista” Maroni di Renzo Foa Seconda citazione a pagina 83, era l’8 dicembre dello stesso anno. Salvemini raccontava di un lungo colloquio con Giuseppe Donati, suo amico di lunga data e dirigente del partito popolare. Una parte della conversazione fu dedicata a Teodoro Mayer: «Mayer, senatore, direttore de Il piccolo ha detto a Donati che il Sonnino doveva essere intellettualmente svanito negli anni della guerra: “La sua politica non aveva nessuna logica, e nessuno ha mai potuto capirla”. Di nuovo: “ma voi, - ha detto Donati – l’avete appoggiata”, “Lo sostenemmo perché era il solo uomo che ci assicurasse di condurre la guerra a fondo”. – Mayer è triestino ed ebreo: credergli sarebbe ingenuità». Terza citazione. Alla pagina 154, era il 10 gennaio 1923, era annotato un colloquio con Don Brizio Casciola, sacerdote um-
bro modernista, allora legato a Donati e poi convertitosi al fascismo. «Don Brizio mi ripeté ieri sera quel che mi raccontava a Firenze nella primavera passata. Lloyd George, strumento di finanziari ebrei si era accordato con Lenin: Lenin lasciava mano libera alla finanza inglese in Russia e Lloyd aiutava i bolscevichi ad impadronirsi dell’Italia e della penisola balcanica». Stando ai parametri di giudizio del 2008 queste tre citazioni, di cui una quasi sprezzante, direttamente su una persona citata per nome e per cognome, verrebbero giudicate pericolosamente antisemite, ma qualcuno può onestamente dire che Gaetano Salvemini fosse antisemita e, soprattutto, se Roberto Maroni oggi dovesse essere giudicato razzista, come si dovrebbe definire Salvemini dopo la shoa? Siamo seri…
il meglio di
PUNTURE La più bella fiction che potrebbe fare Raifiction potrebbe essere Raifiction. Il copione c’è già e non costa nulla.
Giancristiano Desiderio
“
Le peggiori cricche? Senz’altro quelle composte da un uomo solo GEORGE BERNARD SHAW
”
Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania
NAPOLITANO E I FANATICI Cos’è un fanatico? Chi ha una sola visione della vita, e riesce a vedere solo il proprio punto di vista. Sono in tanti, troppi in Parlamento e fuori a soffrire di questo disturbo. Gli ultras berlusconiani che vogliono vietare le intercettazioni telefoniche, invece di limitarle ragionevolmente (...) da una parte, e dall’altra gli ultras anti-berlusconiani che hanno il dogma della colpevolezza di Berlusconi, non essendo capaci di ipotizzare la sua innocenza (...). Tra questi due partiti degli ultras, si è infilato con molta intelligenza il Presidente della Repubblica. E’ in-
tervenuto contro i fanatici in toga (quelli del Csm), quelli che volevano dare un parere costituzionale non di loro competenza sui provvedimenti del governo Berlusconi. Sarebbe dovuto succedere già anni fa, ma le toghe in Italia sembra proprio godano di speciale immunità: politica (...). Un grazie quindi a Napolitano che ha cercato di frenare i giudici del Csm e un augurio all’Italia di uscire presto da questo corto circuito, che sta sviando la classe politica dall’occuparsi dai temi più indispensabili alla gente comune.
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PAGINAVENTIQUATTRO Il rapporto tra i musicisti e la poesia
Siamo un popolo di poeti o di di Bruno Giurato oeta e cantautore. Il complimento si riserva ai grandi nomi, ma si presta a conclusioni facili, speculazioni pubblicitarie, generalizzazioni su due forme d’arte, la musica e la poesia, che da qualche secolo (nientemeno che da quel ”divorzio”avvenuto nel Duecento di cui parlava Gianfranco Contini) camminano su strade non sovrapponibili. Il Parma Poesia Festival ha dedicato un omaggio a Piero Ciampi, il tormentato cantautore livornese che, post mortem, non solo ha conquistato il pubblico, ma ha convogliato affetti e velleità dell’Italia che si scrive da sé le proprie canzoni. È stata l’occasione per chiacchierare, dietro le quinte del Teatro Regio, con alcuni cantautori ospiti della manifestazione parmense. Per capire il rapporto tra poesia e canzone nel cantautorato «classico» (quello dei De Andrè, dei Guccini, dei De Gregori) e nelle nuove forme. Incontriamo per primo Samuele Bersani, che da qualche mese è chiuso in studio per comporre e registrare il nuovo disco. Quanto della poesia italiana o straniera è filtrato nelle sue canzoni? «L’influenza della poesia per me - ci risponde - è passata attraverso il cinema, attraverso gli sceneggiatori che hanno scritto le storie dei film. Per esempio Tonino Guerra, che è un poeta, ma ha lavorato con Fellini. Poi ho incontrato i libri di poesia. Per esempio quelli di Raffaello Bandini. E Alda Merini». C’è la famosa lamentela secondo cui la lingua italiana non sarebbe adatta a scrivere canzoni rock. Come la vede? «Quando sono in studio le parole arrivano per ultime. All’inizio per i provini usavo un finto inglese. Sicuramente non ho mai scritto canzoni con“nananana lalalala”, perché questi suoni non mi aiutano. Adesso “appoggio” qua e là anche delle parole in Italiano, che poi mi servono come spunto».
P
Incontriamo Niccolò Fabi, studi in filologia romanza, una carriera che si è evoluta dagli esordi di Capelli (Sanremo ’97) verso una scrittura più introversa ma di gran gusto armonico e una certa pensosità nelle liriche. «Ho grande rapporto col poetico, più che con la poesia», ci dice. «Con quell’effetto che aiuta a vivere gli istanti in maniera più significativa, rispetto a ciò che significano comunemente». Fabi, lei in pratica ci sta citando la teoria del “luogo alto”di Leopardi, approfondiamo. «È uno sguardo più che una pratica letteraria. Si
CANTAUTORI? può trovare in una poesia di E.E. Cummings o in un rovescio incrociato di John McEnroe. Si tratta di dare a delle angolazioni del reale quel famoso lato in più. Quando mi sono cimentato nello scrivere mi sono accorto che la poetica sentimentale delle canzoni era uno spazio occupato, quindi mi sono dedicato ai dettagli. Oggi scrivere “vedrai vedrai” alla Tenco è impossibile. Nel 2008 le canzoni bisogna andare a cercarsele negli interstizi delle cose».
Pino Marino è forse il più brillante dei giovani cantautori dell’ultima scuola romana. Nato artisticamente al Folkstudio, finalista al premio Tenco 2006 con il suo disco Acqua, luce e gas, è una delle anime del collettivo Angelo Mai, una sorta di centro sociale d’essai che fino all’anno scorso si trovava nello stabile di Rione Monti, e ora è in attesa di nuova collocazione. «Non si può traghettare la poesia nella forma canzone», afferma Marino. «Lo stesso De Andrè: non mi trovo d’accordo nell’accostarlo alla poesia. Se una sua canzone viene letta, non suona nella stessa maniera. Lui stesso ci teneva a togliere l’equivoco. Forse l’unico cantante italiano che può essere letto indipendentemente dall’essere cantato è Piero
Ciampi, non De Andrè, che è un cantautore colto, ma non ha nulla a che vedere con i poeti». Lei è l’esempio che i cantautori oggi sono molto diversi da quelli della vecchia scuola. Adesso si tende a lavorare in gruppo, creando un dialogo musicale tra i vari strumenti… «Sì, è così anche per me. Ma oggi la forma cantautorale si è espansa anche a gruppi. L’ultimo disco degli Aftehours è molto cantautorale. Manuel Agnelli è più cantautore di Sergio Cammariere, che nell’immaginario collettivo viene visto come tale».
Per ultimo sentiamo Morgan, al secolo Marco Castoldi, che dopo il traino di X Factor è il personaggio musicale del momento. Ma oltre ai suoi capelli impossibili (che hanno provocato un botta e risposta stizzito con Aldo Grasso) la sostanza musicale c’è. Facciamo due chiacchiere mentre mangia in piedi al bouffet. Non per questo si spazientisce. Mastica e parla tranquillamente circondato di donne piuttosto adoranti. Per metterci alla pari siamo tentati di afferrare una focaccia al prosciutto crudo, ma soprassediamo.
Samuele Bersani: «Sono stato influenzato dal cinema e dai versi di Raffaello Bandini e Ada Merini». Niccolò Fabi: «Oggi scrivere ”Vedrai vedrai” è impossibile, bisogna valorizzare i dettagli». Morgan: «Sono due cose diverse è sbagliato metterle Morgan, quali sono stati i poeti della sua vita? «Una volta ho visto Ungaretti in televisione, ero bambino. Poi ho visto Pasolini. Saba e Ungaretti uguale vecchio. Pasolini uguale giovane, anche quando era vecchio». Perché il maggiore complimento che si fa a un cantautore è dire che sembra un poeta? «È insultante per il cantautore. E anche per il poeta. C’è l’idea che la poesia sia una cosa nobile e che la canzone sia una cosa bassa. Ma “è talmente bella che sembra una poesia”lo si dice anche dell’azione di un calciatore». Però i testi di certi cantautori si trovano nelle antologie di letteratura per le scuole. «È sbagliato mettere insieme le cose. Magari trovi Gozzano, Palazzeschi e poi De Andrè. Ma stiamo scherzando? Si dovrebbero fare magari dei corsi di canzone. La canzone è un’altra roba, innanzitutto formalmente, poi è un altro mestiere. Il cantautore è una figura borghese, un poseur. Il poeta è uno che agisce veramente».