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QUOTIDIANO • DIRETTORE RESPONSABILE: RENZO FOA • DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK CONSIGLIO DI DIREZIONE: GIULIANO CAZZOLA, GENNARO MALGIERI, PAOLO MESSA

La seconda parte del saggio del segretario di Stato americano

e di h c a n o cr

Il mondo ha bisogno di un Medioriente libero

di Ferdinando Adornato

DOPO LA LIBERTÀ

9 771827 881004

ISSN 1827-8817 80704

Ora si fa più forte la pressione su Stoccolma perché il simbolo della pace venga assegnato a Ingrid Betancourt. Contro tutti i terrorismi e le violenze del pianeta

di Condoleezza Rice arliamo di Medioriente, l’arco dei Paesi che va dal Marocco al Pakistan. L’interesse per questa regione è stato obiettivo priorittario della politica dell’amministrazione Bush. Ma il nostro approccio è, in realtà, un’espansione dei nostri principi fondamentali: incorporare diritti umani e promozione dello sviluppo democratico in un unica politica che favorisca i nostri interessi nazionali. La cosa insolita è che il Medioriente è stato trattato come un’eccezione per molti decenni. Lì, la politica americana ha puntato quasi unicamente sulla stabilità. C’è stato un piccolo dialogo, naturalmente non pubblico, sul bisogno di un cambiamento in senso democratico. Per sessant’anni, sotto entrambe le amministrazioni Democratica e Repubblicana, un accordo fondamentale ha definito l’impegno degli stati uniti nel Medioriente: abbiamo supportato i regimi autoritari, e loro hanno supportato il nostro interesse condiviso per la stabilità della regione. Dopo l’11 settembre, è diventato sempre più chiaro che questo vecchio accordo aveva prodotto una falsa stabilità. Di fatto non c’erano alcun canale lecito per l’espressione politica nella regione. Ma ciò non significa che non ci fosse nesuna attività politica. C’era, nelle madrasse e nelle moschee radicali.

P

E adesso il premio Nobel

alle pagine 2, 3, 4 e 5

s eg ue a pa gi na 10

Un grande poeta racconta la Juventus

La Bce porta i tassi al 4,25%

Un libro su Ue e mass media

Trichet amplia la distanza tra Ue e Usa

Dopo il Trattato di Lisbona: l’Europa di carta

di Pierre Chiartano

di Paolo Pombeni

di Riccardo Paradisi

di Roberto Mussapi

«Nessun impegno su futuri rialzi dei tassi». L’aumento del costo del denaro voluto dalla Banca centrale europea non ha chiarito se ci saranno ulteriori strette monetarie nel 2008.

A fine 2007 la stampa parla sempre più di una “ripartenza”del progetto europeo, lasciando intendere che l’impasse sia ormai alle spalle. Entusiasmo istituzionale o sintomo di stallo?

Decreto legge sulle intercettazioni, norma blocca processi, file segreti del processo Mills che tornano dal passato, attesa per le intercettazioni piccanti tra il presidente del Consiglio e ministri.

Un grande poeta rintraccia la genesi “magica e archetipica” della squadra italiana più al mondo, attraverso il suo simbolo per antonomasia: l’ex presidente juventino Giampiero Boniperti.

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Nell’inserto Carte a pagina 12

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Ennesima giornata convulsa sulla giustizia

Tra Espresso e Matrix vince il decreto

VENERDÌ 4 LUGLIO 2008 • EURO 1,00 • ANNO XIII •

NUMERO

125 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Boniperti, il piede della Signora

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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Un movimento che già era nato nei mesi scorsi ora diventa più forte: adesioni in tutto il mondo

Parte la campagna per il Nobel di Luisa Arezzo ei anni di prigionia, sei anni di sofferenze, privazioni e dolore non sono riusciti a piegare Ingrid Betancourt: il suo sorriso timido è quello di sempre, come la sua determinazione a continuare a lottare contro l’autocrazia dei grandi poteri colombiani. Sono passati sei anni da quel 23 febbraio del 2002 in cui venne rapita sulla strada per San Vicente durante la sua campagna presidenziale, ma Ingrid è ancora quella di allora. E non è un caso che il suo primo pensiero sia andato ai compagni di prigionia ancora in mano ai guerriglieri delle Farc. La sua figura, all’indomani della sua prima conferenza stampa da ”libera”, all’indomani dal commosso abbraccio con i suoi figli sulle scalette dell’aereo che li portava a lei da Parigi, è quella di una donna coraggiosa, umana e piena d’amore per il suo Paese.

S

Una donna simbolo che alla logica di violenza e di morte ci si può opporre con un coraggio, una coerenza personale e una speranza che da sole meritano il riconoscimento del Nobel per la Pace. La proposta, partita quasi in sordina qualche settimana, è decollata il 26 giugno con la nascita del Comitato

interparlamentare promotore del Nobel per la pace a Ingrid Betancourt, promosso da Fabio Evangelisti (Italia dei Valori) e subito sottoscritto in maniera trasversale da moltissimi deputati e senatori. Se ne era discusso alla Camera anche mercoledì pomeriggio, poche ore prima dell’annuncio della liberazione da parte del ministro della Difesa colombiano, con la presentazione delle mozioni per la liberazione della Betan-

RIGOBERTA MENCHÙ Se bastasse un Nobel a cambiare qualcosa, il mondo sarebbe diverso. A cambiarlo sono le persone e la Betancourt, che conosco e che è una donna straordinaria, può essere una di loro

court e degli altri ostaggi sequestrati dalle Farc: una discussione che, alla luce dei fatti, ha portato fortuna. Oggi Ingrid è una donna libera e questo rafforza e non indebolisce la sua candidatura al Nobel. Perché il suo spessore e la

sua forza simboleggiano l’abnegazione dell’uomo nella lotta per il riconoscimento dei diritti umani, della libertà e della democrazia. Non solo: la Betancourt ha vissuto la condizione dei rapiti, una condizione sempre più comune nel mondo, condizione che abolisce la Convenzione di Ginevra, cancella la Croce Rossa internazionale, impedisce ogni informazione, diritto basilare nelle democrazie. L’ha vissuta e ne è uscita fuori, sconfiggendo simbolicamente quel terrorismo che è la piaga di questi primi anni del XXI secolo. «È una donna che con il suo esempio restituisce fiducia al mondo - dice Betty Williams, premio nobel per la pace nel 1976 per la sua battaglia a favore di una pacifica soluzione della questione dell’Irlanda del Nord - ma anche una politica che oggi, praticamente, può contribuire a restituire fiducia al suo Paese e a pacificare un’area “di fuoco” come l’America latina». Senza sorpresa, le parole della Betancourt di oggi, sono andate esattamente in questa direzione: ai piedi dell’aereo che ha portato a Bogotà i suoi figli, Melanie e Lorenzo, ha rivolto un appello ai presidenti del Venezuela, Hugo Chavez, e dell’Ecuador, Rafael Correa, perché migliorino le relazioni con la Colombia, anche pensando a tutti gli ostaggi ancora prigionieri delle Farc, e ha espresso l’intenzione di incontrare presto la presidente argentina Cristina Kirchner. «È senza dubbio una donna co-

raggiosa - dice il politologo francese Alain Gerard Slama, le lettere che ha scritto alla sua famiglia sono bellissime. La sua volontà e fermezza è fuori discussione e se le venisse assegnato il Nobel il significato politico sarebbe enorme». Stessa l’opionione di Franco Frattini, che dal dicastero degli Esteri dice «è il simbolo vivente di come la pace, la moderazione e un messaggio di riconciliazione possano essere diffusi in tutto il mondo. Sarebbe un’eccellente candidata». Ed è così: perché Ingrid Betancourt, come Aung San Suu Kyi e Rigoberta Menchú, non è solo il simbolo vitale e sano della lotta per il riconoscimento dei diritti umani,

la mia vicenda personale è racchiusa la condizione di tutto un popolo - dice a liberal - nella figura di Ingrid Betancourt si rispecchia quella delle donne e degli uomini colombiani. Anche lei ha vissuto sulla sua pelle lo smacco di scelte politiche e di vita nette». È commossa Rigoberta Menchù: «Credo che per una donna, in tutte le parti del mondo sia difficile ottenere il rispetto per i suoi diritti, e questo vale anche per quei Paesi che hanno raggiunto un miglior status economico ed una maggior partecipazione politica. Le donne hanno sempre avuto più difficoltà ed hanno più riforme da esigere. Una parte di me conserva la memoria dei morti, ma l’altra afferma la RITA LEVI memoria della viMONTALCINI ta, e questa dobSarebbe biamo difendere. un segnale Il mio lavoro, coimportantissimo me quello della per il mondo Betancourt, è un intero e per tutte lavoro che coinle persone volge molte perche non smettono sone e che è la di combattere. speranza di molte Ho aderito persone. Un Noalla proposta bel per Ingrid sae continuerò rebbe benvenuto, a battermi ma spero che tutti capiscano che riceverlo è come della libertà e della democra- ottenere una laurea, un diplozia, ma anche l’espressione che ma che non cambia la situazioil terrorismo si può combattere. ne. Se bastasse il premio Nobel Ne è convinta Rigoberta Men- per cambiare qualcosa, il monchù premio Nobel per la pace e do sarebbe diverso. A cambiardepositaria della cultura degli lo sono le persone e la Betanindios, una delle poche ad esse- court, che conosco e che è una re sopravvissuta al genocidio donna straordinaria, può esseindigeno in Guatemala.«Se nel- re una di loro».

«Un simbolo di libertà e giustizia» «Sono colpito dallo spessore delle sue dichiarazioni. È stata vittima due volte, prima delle Farc e poi del braccio di ferro tra Uribe e Chavez». Fabio Evangelisti, presidente vicario dell’Idv alla Camera e promotore del comitato per la candidatura della Betancourt al Nobel, esprime tutta la sua soddisfazione per la liberazione di Ingrid Betancourt. «È finalmente libera - dice - e il caso ha voluto che lo fosse il giorno stesso in cui, nell’aula di Montecitorio, è stata licenziata quasi all’unanimità la mozione per la sua liberazione. Andare a letto dopo una notizia come quella, è stato pressoché impossibile. Prima l’entusiasmo e la contentezza che sono progressivamente montati mano a mano che le notizie si sono fatte più attendibili; poi la commozione e la soddisfazione di vedere finalmente il sorriso sui volti dei suoi familiari». «Sottolineo -conclude Evangelisti - che Ingrid Betancourt, già simbolo delle libertà e dei diritti civili per il suo impegno contro la corruzione e il narcotraffico, oggi è assurta a simbolo di forza e speranza per quanti nel mondo ancora subiscono ingiustizie. Proprio per questo abbiamo deciso di proseguire ogni sforzo per l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace».


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Controcanto. Parla il presidente della Delegazione euro-latinoamericana

«Mi dispiace, ma io non sono d’accordo» colloquio con José Salafranca di Benedetta Buttiglione Salazar

Sopra Ingrid Betancourt con il marito Juan Carlos Lecompte; sotto con il comandante del’esercito colombiano Mario Montoya, e nella pagina precedente con la madre Yolanda Pulecio Former

BRUXELLES. Riconosce i meriti i Ingrid Betancourt, ma non al punto da ritenerla ideonea al conferimento del Nobel per la pace. «Come lei ci sono tantissime persone che hanno gli stessi meriti e dignità». Si è espresso con queste parole José Ignacio Salafranca Sanchez-Neyra, presidente della Delegazione all’Assemblea parlamentare euro-latinoamericana Onorevole Salafranca, appena liberata Ingrid Betancourt ha dichiarato che la rielezione di Uribe alla presidenza ha giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro le Farc, è d’accordo? Assolutamente sì. Dobbiamo considerare che finora ad ogni cambio di governo e quindi di politica, le Farc guadagnavano tempo per rior-

una decisione in tal senso, l’Unione Europea rinforzerà la relazione bilaterale con la Colombia, in particolare sui temi sensibili quale quello della lotta al terrorismo nella quale ci dobbiamo impegnare tutti perché ci riguarda tutti da vicino. È importante che la Colombia non sia conosciuta solo come il paese del narcotraffico e della guerriglia: il mondo deve sapere che la società colombiana è costituita di gente viva, lavoratrice, impegnata a costruirsi un futuro migliore lottando ogni giorno per la pace. In Italia ha preso piede già da tempo un movimento che vorrebbe proporre Ingrid Betancourt candidata al premio Nobel per la pace. Lei crede che l’Unione Europea sarebbe favorevole? Considero che una cosa sia elevare Ingrid Betancourt a simbolo della sofferenza di tutte le persone colombiane e di altre nazionalità che sono in questo momento private della libertà ed un’altra cosa è polarizzare questo solamente in una persona. Ci sono molte persone che come lei hanno disgraziatamente sofferto in prigionia o a causa della violazione di altri diritti fondamentali. In questo senso penso sia più opportuno dare importanza a tutta la categoria di coloro che soffrono e non a una persona sola. E poi lo ha detto lei stessa, al momento della sua liberazione, che non dobbiamo dimenticare tutti gli altri. Questa risposta va interpretata come un no al Nobel per la pace a Ingrid Betancourt? Non penso di potermi davvero pronunciare su questo. So che ci sono persone che la considerano una candidata meritevole per le sue qualità e rispetto questa opinione. Finora noi come Parlamento Europeo abbiamo preferito premiare le organizzazioni che si occupano del rilascio di tutti gli ostaggi, non solo di Ingrid Betancourt. Certo, lei come candidata presidenziale e avendo anche la nazionalità francese è stata quella che tutti abbiamo conosciuto di più, ma ce ne sono tantissimi come lei, uguali in merito e dignità. E l’Unione Europea che ruolo ha giocato in questa liberazione? Posso aggiungere che noi come Unione Europea ci siamo impegnati per far inserire le Farc nella lista europea delle organizzazioni terroristiche e questo è stato senz’altro un primo passo verso il loro indebolimento.

È corretto elevare Ingrid Betancourt a simbolo della sofferenza dei colombiani. Ma ci sono altre persone che come lei meriterebbero un riconoscimento così importante come il Nobel

Più forte la posizione di Dario Fo, Nobel per la Letteratura e impegnato in prima persona nella campagna pro-Nobel alla Betancourt: «Non importa se sia stata liberata oppure no, è una donna che non molla e non avrebbe mollato. Gode di una considerazione altissima a livello internazionale e si batte per la pace e la libertà. Se non a lei, a chi dovremmo darlo, è il simbolo massimo della lotta al terrorismo».

È così, Ingrid ha sempre avuto posizioni critiche e scomode verso la corruzione politica colombiana e il narcotraffico, purtroppo dilagante in quel Paese. Ha scelto la politica attiva per dare un senso concreto alle sue battaglie e per la trasparenza nel campo dei diritti umani. Era già stata minacciata di morte e la coscienza dei rischi a cui era sottoposta l’avevano spinta ad allontanare i propri figli dalla Colombia. Ingrid è una donna che lotta per la democrazia del suo Paese, una donna che non ha esitato a mettere a rischio la sua vita per consegnare al mondo e a suoi cittadini una nuova Colombia.

Infatti così ha scritto: «da dieci anni mi batto per il mio popolo, è pericoloso; i miei figli sono stati minacciati, per due volte hanno tentato di uccidermi; sono consapevole del pericolo ma non mi faranno indietreggiare perché la speranza è là davanti a me». Oggi alla parola speranza va aggiunta la sua capacità di resistere, spiritualmente integra, all’incubo del rapimento. Sua madre, Yolanda Pulecio, dopo il suo viaggio in Italia ha detto che sua figlia si è trasformata in un simbolo che ha permesso al mondo intero di conoscere la tragedia che vive la Colombia. Oggi, quella stessa figlia, potrebbe permettere al mondo intero di sperare. Ecco perché è giusto sostenere la sua candidatura al Premio Nobel per la Pace: perché la sua vita, il suo impegno politico, la sua passione civile, la sua sofferenza, hanno dato conto di una donna straordinaria che, come Rigoberta Menchù e San Suu Kyi testimonia un coraggio, una determinazione, ed una incredibile lucidità che le condizioni disumane a cui è costretta dai suoi carcerieri non sono riuscite a cancellare.

ganizzarsi ed elaborare la propria strategia. Il fatto che il mandato presidenziale dura solo quattro anni fa sì che i presidenti abbiano invece un tempo molto limitato per condurre la propria battaglia. È il caso del presidente Pastrana, una persona piena di buona volontà e buona fede che ebbe il coraggio di cominciare una negoziazione politica con i terroristi, senza purtroppo molto successo. Alla fine si rese conto di essere stato completamente preso in giro dalle Farc ed è allora che è stato eletto per la prima volta Uribe. Io considero che la riforma costituzionale che ha poi permesso la rielezione di Uribe ha permesso anche di continuare la lotta contro il terrore ed i colombiani lo hanno chiaramente capito, poiché l’hanno appoggiata pienamente. Adesso se ne vedono i frutti, comincia a ridursi la disparità di forze che c’era tra i governi democratici con poco tempo a disposizione e i terroristi che hanno tutto il tempo davanti. Oggi la democrazia colombiana è avvantaggiata. Considererebbe allora possibile o addirittura auspicabile una terza rielezione? Credo che questa sia una questione nella quale noi dell’Unione Europea non dovremmo entrare. È una decisione che corrisponde interamente al popolo colombiano. Quello che posso dire adesso è che, indipendentemente da


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Ritratti. Suo padre fu ucciso dalle Farc, suo fratello ferito. Chi è Uribe, il presidente “secchione” che dorme poco e fa yoga

Alvaro il vendicatore Partito con la fama del perdente oggi è l’unico leader convincente del Sud America di Maurizio Stefanini on l’80-85% di popolarità in patria, il presidente colombiano Álvaro Uribe Vélez ha una cattiva immagine all’estero. Un po’ perché la Colombia ha oggettivamente una reputazione non eccelsa in materia di diritti umani e onestà dei governanti. Un po’ perché in un momento in cui l’America Latina andava a sinistra, sia pure con varie sfumature, lui è invece rimasto alleato a George W. Bush, e alla sua guerra al terrorismo. Ma anche per l’efficace lavoro di lobbying svolto da varie organizzazioni pro-Farc nel mondo, e di cui si incominciano a intravedere le fila nei computer presi dai militari colombiani al numero due della guerriglia Raúl Reyes dopo la sua morte in Ecuador: un lavoro che dà molto peso al favore di molti europei e nord-americani verso le guerriglie latino-americane, qualunque esse siano. Un partito preso nato e cresciuto anche per effetto di mitologie romantiche, come quelle del colonnello Aureliano Buendía protagonista di Cent’anni di solitudine di García Márquez.

C

realtà che il nonno materno da cui Gabo fu allevato nei suoi primi anni di vita, e i cui racconti avrebbe poi trasfigurato nei libri. Ma Uribe Uribe, comandante in capo di Nicolas Márquez e di tutti i liberali, poi assassinato nel 1914 sulle scalinate del Congresso, non era altri che il cugino del nonno dell’attuale presidente. Il sangue comune risale a un Gregorio Meija Uribe, trisavolo sia di Rafael Uribe Uribe che di quel nonno. «Aureliano Buendía non solo corrisponde alla stampa ossuta del generale Rafael Uribe Uribe, ma ha la sua medesima tendenza all’austerità»,

Per creare il personaggio del colonnello Buendía in “Cent’anni di solitudine”, Márquez si ispirò a due antenati di Uribe

Eppure, il presidente colombiano che con la liberazione di Íngrid Betancourt ha inferto ora alla più antica guerriglia del mondo un colpo forse risolutivo è pronipote proprio di Aureliano Buendía. Più precisamente: quel personaggio non è mai esistito, ma è nato dalla messa in comune dei tratti di due persone.Nicolas Márquez e Rafael Uribe Uribe, attive negli eserciti liberali in lotta contro i conservatori nella Guerra dei Mille giorni che insanguinò la Colombia tra 1899 e 1902. Il primo, colonnello e modello anche di altri militari nelle storie di García Márquez, non era in

spiegò “Gabo”. I cromosomi di Uribe Vélez non tradiscono. «Lavorare, lavorare, lavorare» è il suo motto. Al liceo lo esentarono dagli esami, tanto era alta la sua media. Da sindaco e governatore convocava i suoi collaboratori alle 6 del mattino. E da senatore, per stare fino a notte fonda a prepararsi i discorsi senza crollare per il sonno metteva i piedi in una bacinella di acqua ghiacciata, agli oltre 2200 metri di Bogotá! Dall’avo caudillo ha anche la passione per i cavalli, hobby principale assieme alla mezz’ora di yoga. Oltre, ovviamente, alla politica: nato il 4 luglio del 1952, a 5 anni accompagnava la mamma ai comizi; a 7 era lui a fare comizi agli amichetti. «Diventerai presidente», gli pronosticò il papà di uno di loro. Dalla famiglia ha ereditato anche

La Betancourt è stata sequestrata durante un comizio in una zona, occupata dalle Farc, diventata una sorta di repubblica comunista indipendente

la familiarità colombiana con la violenza. Come il grande avo anche papà Alberto morì di morte violenta. Nel 1983 in un tentativo di sequestro nel quale il fratello Santiago fu ferito. Responsabili del delitto, le Farc. Da qui l’origine della crociata anti-guerriglia cui ha dedicato da allora la vita.

Rafael Uribe Uribe aveva fama di perdente. «Il colonnello Aureliano Buendía promosse trentatrè insurrezioni armate e le perse tutte», è il famoso attacco alla seconda parte di Cent’anni di solitudine. Progenie di giacobini mangiapreti nato nella Vandea colombiana di Medellín, il suo discendente è invece diventato tra 1982 e il 1986 sindaco della città, e tra 1995 e 1997 governatore del Dipartimento di Antioquia. Come se nella nostra prima repubblica un pronipote di Garibaldi fosse diventato sindaco comunista di Trento e presidente del consiglio trentino. Uomo dalle imprese impossibili, dopo aver rotto con i liberali è divenuto il primo presidente colombiano della storia eletto senza l’appoggio di uno dei due partiti storici. Prima di lui, tra 1998 e 2002 presidente era il conservatore Andrés Pastrana, che voleva fare la pace con le Farc. Per il dialogo aveva concesso un’area «di ripiegamento» in Amazzonia grande come la Svizzera, dove si era recato in elicottero a abbracciare il capo

delle Farc Tirofijo, mentre i guerriglieri lo accoglievano con onori militari. Ma il dialogo con la guerriglia si è rivelato impossibile per il rifiuto delle Farc di sospendere azioni armate e sequestri. Íngrid Betancourt è stata sequestrata mentre provava un comizio in quella «zona di ripiegamento» diventata una sorta di repubblica comunista indipendente, dove le Farc imponevano agli abitanti la legge con colpi alla nuca, tribunali rivoluzionari e altri metodi da Khmer Rossi.

P a s t r a n a fu co s tr e t t o a chiudere il dialogo. Le Farc minacciarono di considerare “obiettivo militare” ogni elettore che si recava alle urne, e la gente esasperata rispose con una valanga di voti al candidato outsider. Il più falco di tutti. Accusato di collusione con i paramilitari di estrema destra che combattono la guerriglia coi suoi stessi metodi, Uribe Vélez ammise che «sì, ci furono abusi, e per questo le Associazioni furono sciolte». Oltre alla laurea in Diritto in Colombia Uribe ha una specializzazione ad Harvard e una docenza a Oxford in «risoluzione dei conflitti». Perciò nel suo primo discorso chiamò alla mediazione internazionale. Le sue parole, soffici nella forma, furono durissime nella sostanza. «I gruppi violenti devono sapere quello che stiamo offrendo: sicurezza democratica con l’idea di abbandonare i fucili. Politica senza armi e senza morte». A Uribe Vélez rimproverano ancora i trascorsi con i parami-


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I retroscena del blitz colombiano preparato da mesi

Tutti i segreti dell’operazione Check di Stranamore n’operazione da manuale, preparata in modo esemplare grazie ad una attività di intelligence straordinariamente efficace, ed eseguita in modo perfetto. Un successo con ben pochi precedenti nella storia delle azioni di liberazione ostaggi. Check, questo il nome della operazioni, ha richiesto mesi di paziente e difficile attività per riuscire a inserire elementi dei servizi di sicurezza all’interno della cellula della guerriglia responsabile della custodia dei più importanti ostaggi in mano alle Farc. Altri agenti hanno infiltrato lo stesso Direttorio di sette membri che guida le Farc, già messe in difficoltà da una serie di rovesci subiti in questi mesi nonché dalla scomparsa di alcune figure guida carismatiche. Un contributo importante è stato fornito dagli Usa, che hanno messo a disposizione del un flusso costante di informazioni intelligence e immagini satellitari, la collaborazione operativa e addestrativa per preparare il blitz e equipaggiamenti “speciali”. Ma tutto ciò non sarebbe bastato se non si fossero verificati due eventi cruciali: la fuga di un ostaggio tenuto prigioniero insieme alla Betancourt, che ha fornito elementi sufficienti per identificare i campi della guerriglia e una straordinaria operazione di guerra elettronica che ha permesso agli specialisti che aiutano le forze di sicurezza colombiane di penetrare la rete di comunicazioni delle Farc e di individuarne i codici e i cifrari, anche grazie alla “hot intelligence”trovata nei dischi rigidi del computer del capo della guerriglia Paul Reyes, ucciso lo scorso marzo. Avendo individuato e posto sotto sorveglianza i diversi campi della guerriglia l’Esercito avrebbe anche potuto scatenare un attacco cruento per eliminare i carcerieri e liberare gli ostaggi. Ma visto il numero dei guerriglieri e degli ostaggi e la loro separazione in tre gruppi, facilmente l’azione si sarebbe conclusa con una battaglia dall’esito incerto. Una operazione antiterrorismo classica “militare” pone innanzitutto l’accento sulla eliminazione preventiva dei guerriglieri, mentre in una missione di “polizia” si privilegia la incolumità degli ostaggi. Si è scelto questo secondo approccio, organizzando una sofisticata beffa. E stato così simulato un ordine del nuovo capo delle Farc, utilizzando probabilmente anche codici e procedure che non sono stati cambiati, una mossa geniale. Che ha richiesto di accelerare i tempi per evitare che codici e frequenze fossero finalmente sostituiti. I guerriglieri hanno così

U

litari e contiguità con il cartello di Medellín. Eppure con il suo governo sono state smobilitate le Autodifese unite di Colombia (Auc), un cartello di controguerriglia fai-da-te diventato poi un cartello di narcos. Certo con un’ampia amnistia: la stessa offerta fatta ai guerriglieri di estrema sinistra, se consegnassero le armi. La situazione dei diritti umani non è proprio limpida, comunque con lui per la prima volta candidati di una sinistra radicale hanno potuto arrivare secondi alle presidenziali e conquistare cariche come sindaco di Bogotá o governatore di Valle del Cauca, il dipartimento di Cali. In passato, gente del genere veniva liquidata dopo i primi comizi. Uribe ha puntato alla riconquista del territorio, arrivando a far scortare dall’esercito le carovane di vacanzieri picnic in zone infestate dalla guerriglia. Importante è stata la riorganizzazione dell’esercito su basi professionali: intelligence capace e creazione di una forza Omega di elite, con l’appoggio Usa. Il cosidetto Plan Colombia; ma anche la fornitura degli aerei Supetucán da attacco da parte di Lula, infastidito dai contatti tra le Farc e le bande di narcos di San Paolo e Rio. Molto contestata la riforma costituzionale che nel 2006 gli ha permesso di ricandidarsi. Ma anche un “esperto” non sospetto come Luciano Violante aveva concluso al tempo di Pastrana che con quattro anni di mandato nessun presidente sarebbe mai venuto a capo delle Farc. L’elettorato lo ha plebiscitato.

Il tasso di violenza è crollato. Dai 28.837 omicidi, 2882 sequestri e 1645 attentati terroristi del 2002, ai 17.198 omicidi, 486 sequestri e 387 attentati del 2007. Finendo con 4159 omicidi, 108 sequestri e 91 attentati nei primi tre mesi del 2008. Le coltivazioni di coca sono scese dai 163.289 ettari del 2000 ai 77.870 ettari del 2006. Nello stesso anno 31.671 paramilitari di destra hanno smobilitato. Le Farc sono state messe all’angolo. Le morti di Raúl Reyes e Iván Ríos, hanno posto fine al mito dell’invulnerabilità. La fine del lader storico Tirofijo. Effettivi ridotti a meno di 8mila uomini. Ultime bande isolate. Ora la perdita del prezioso bottino rappresentato da Íngrid Betancourt. Il nuovo clima stimola l’economia. Ritmi di crescita, 7,5% all’anno. Le Farc hanno ancora varie centinaia di ostaggi. L’Eln, un gruppo minore è tuttora attivo. Il narcotraffico, per così dire, “apolitico” è in ripresa. Uribe non ritiene il proprio compito esaurito. Ha iniziato una raccolta di firme per la revisione costituzionale che permetterebbe la sua terza candidatura. Le perplessità crescono, e anche l’alleato conservatore afferma che se cosi stanno le cose nel 2010 appoggerà un proprio uomo. Le parole di ringraziamento di Íngrid Betancourt fanno credere a nuovi scenari. Araújo Perdomo, attuale ministro degli Esteri, prigioniero delle Farc per sei anni, nominato ministro 50 giorni dopo la fuga. Ora sarà Betancourt a entrare nel governo Uribe?

pressoché spontaneamente consegnato i prigionieri nel luogo e nel momento desiderato dalle forze di sicurezza.

L’inganno, con tanto di ricorso a due elicotteri Mi-17 camuffati, a bordo dei quali si trovava un ristretto e selezionatissimo numero di membri delle forze speciali e piloti a loro volta dissimulati come appartenenti alle Farc richiedeva tempi di esecuzione rapidissimi. E infatti il tutto si è svolto in poco più di 5 minuti. Naturalmente era pronto anche un piano B, che prevedeva in caso di guai l’intervento massiccio delle forze di sicurezza per circondare l’area di atterraggio e convincere i guerriglieri a trattare e arrendersi o, qualora i criminali avessero cominciato a sparare sugli ostaggi, un attacco violento per neutralizzarli il più rapidamente possibile. Ma non ce ne è stato bisogno. A completare il capolavoro, la scelta di non colpire i guerriglieri neanche dopo che gli ostaggi erano al sicuro sui due elicotteri. L’imboscata e un attacco devastante, dal cielo e da terra, avrebbero consentito di eliminare qualche decina di combattenti e di catturare altri prigionieri, oltre al capo del fronte locale, convinto a salire su uno dei Mi-17. Ma si è preferito non concludere con una carneficina una operazione brillante, scegliendo di inviare alla guerriglia un segnale di distensione. Al quale farà seguito un nuovo tentativo di trovare un accordo definitivo. Il governo Uribe deve ora massimizzare il risultato ottenuto e lo shock inferto all’avversario: per liberare la Ingrid Betancourt ha sacrificato tutto quel mosaico di agenti infiltrati e informatori che ha permesso alle Forze di sicurezza di ottenere una serie di clamorosi successi. Agenti che avranno dovuto mettersi in salvo prima del blitz e che ora non potranno più aiutare le altre centinaia di ostaggi in mano alla guerriglia, né consentire altri facili colpi di mano. Se le Farc, ammesso che riusciranno a riprendersi, cercheranno di ripristinare la propria sicurezza interna. Quando un movimento di guerriglia ha un problema del genere si verificano scontri, si regolano i conti, si procede senza riguardo contro colpevoli o innocenti, si crea una distruttiva cultura del sospetto. Sta al governo colombiano sfruttare la finestra di opportunità per tramutare il clamoroso successo politico, strategico, mediatico in una svolta definitiva nel contrasto delle Farc.

Due gli eventi cruciali: la fuga di un ostaggio e una operazione di guerra elettronica aiutata dagli Usa


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politica

Ennesima giornata convulsa tra nuove rivelazioni del settimanale e la rinuncia del premier alla tv

Tra Espresso e Matrix vince il decreto di Riccardo Paradisi

d i a r i o ROMA. Decreto legge sulle intercetta-

L’avvocato David Mills Sotto Enrico Mentana

zioni, norma blocca processi, file segreti del processo Mills che tornano dal passato, attesa per le intercettazioni piccanti tra il presidente del Consiglio e componenti del governo. Il dibattito politico italiano ruota sempre intorno all’ossessione giudiziaria. Non se ne esce, come da una paludosa guerra di trincea. Che logora il Paese prima ancora che le forze in campo: «Le famiglie italiane non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese – dice il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini – le forze di polizia hanno organici decurtati e noi parliamo di intercettazioni».

Ma per il presidente del Consiglio – e per chi vorrebbe tornare a colpirlo con l’artiglieria degli scandali politico-giudiziari – si tratta di cose rilevantissime. Tanto che Berlusconi appena saputo che non sarebbero state pubblicate oggi le intercettazioni, si dice pecorecce, che teme possano crinare l’immagine del suo governo è subito tornato sulla decisione di partecipare alla trasmissione televisiva Matrix di Enrico Mentana. Motivazione: «Non mi pare opportuno e producente intervenire su temi che farebbero passare in secondo piano le tante cose realizzate dal governo per cedere il passo ad argomenti e gossip negativi che inquinano e ammorbano il dibattito politico». Ma questo è solo il primo passo del Cavaliere: il secondo dovrebbe essere l’affondo sul decreto legge sulle intercettazioni. Berlusconi sta pressando An e Lega per portare già oggi alla Camera il ddl e farlo approvare: di modo che quelle intercettazioni non possano più uscire. Le note di Forza Italia e di An, che parlano di tempi maturi e di urgenza del decreto legge, confermano che questa è la direzione che la maggioranza intende prendere. E pazienza se il leader del Partito democratico Walter Veltroni avverte che «Se il Governo non rinuncerà all’emendamento blocca-processi e presenterà un decreto sulle intercettazioni, il Pd darà battaglia in Parlamento». Ormai per Berlusconi la stagione del dialogo costruttivo appartiene a un altro eone politico. Ora l’urgenza è cavalcare l’onda dell’alto gradimento popolare e assestare una serie di colpi decisi a quello che lui chiama lo strapotere della magistratura. Insomma il Cavaliere vuole chiudere le partite giudiziarie ancora per via politica. E sta funzionando da moltiplicatore di questa impazienza la pubblicazione sull’Espresso dei file segreti del processo Mills. Uno di questi, secondo l’Espresso, sarebbe la bozza della memoria con cui Mills aveva ritrattato la sua confessione del 2004. In due righe, non presenti nell’originale depositato, si cita un incontro, avvenuto nel novembre del 2002 tra Mills, l’attuale deputato Alfredo Messina (ex direttore finanziario di Mediaset) e gli avvocati Fininvest alla vigilia della deposizione del legale londinese nel processo Sme Ariosto, in cui era imputato Berlusconi». Episodio che confermerebbe come i rapporti tra Mills e Berlusconi sarebbero sempre stati più che buoni.

d e l

g i o r n o

Fini: «Il Parlamento non è stato leso» «Il ruolo e la dignità del Parlamento nelle presenti circostanze non possono in alcun modo considerarsi lesi, né può ritenersi menomato il ruolo delle opposizioni». È quanto scrive il presidente della Camera Gianfranco Fini nella lettera in risposta ala missiva ricevuta ieri dai leader del Pd, Walter Veltroni e dell’Udc Pier Ferdinando Casini, nella quale esprimevano una forte preoccupazione sul modo in cui il governo sta gestendo il rapporto con il Parlamento. Fini, nella lunga lettera, resa nota oggi, auspica tra l’altro che «in questa legislatura possa svilupparsi una riflessione serena su tali argomenti che attengono non agli interessi dell’una o dell’altra parte politica ma al corretto funzionamento delle nostre istituzioni».

Benedetto XVI leggerà la Bibbia in tv Il Papa leggerà la Bibbia in tv, nell’ambito della trasmissione «La Bibbia, giorno e notte». Il programma andrà in onda su Rai Educational dal pomeriggio del 5 di ottobre fino a sabato 11 ottobre. Al leggio si alterneranno persone di ogni categoria sociale ed appartenenza religiosa. Rabbini, cardinali e Padri Sinodali, operai e studenti, scolaresche e addetti ai servizi di vigilanza pubblica, sportivi e politici, badanti e portatori di handicap, ragazzi difficili e militari.

Tagliati e bruciati: giallo a Londra

Il Cavaliere vuole stringere sul Ddl intercettazioni e chiudere la partita oggi prima che qualcuno le pubblichi. Pressioni su Lega e An È l’elemento che Antonio Di Pietro sente suo. Tanto che il quartier generale dell’Italia dei Valori usa toni preventivamente trionfalistici per la manifestazione indetta sabato prossimo in Piazza del Pantheon a Roma. Pancho Pardi, uno degli organizzatori dell’adunata parla di pullman che verranno da tutta Italia e promette la partecipazione dei girotondi delle grandi occasioni. Il Pd, ha già chiarito Veltroni, non ci sarà; ma Nicola La Torre, dalemiano doc. contrario al Ddl sulle intercettazioni ma non a una legge che punisca chi le diffonde e le pubblica, ci tiene ad aggiungere al ”non partecipo” l’avverbi “sicuramente”. «Fa troppo caldo, io sono un pigro. Non so neppure se ci andrò a ottobre in piazza». Quando però le manifestazioni dovrebbe organizzarle Veltroni. Invece non è escluso che alla manifestazione di sabato ci sarà Arturo Parisi: «Sempre che non contrasti e, anzi, condivida e persegua gli obiettivi del Pd». Parisi è sempre un po’ironico: «Ma scusate – chiede – Veltroni e Di Pietro non sono alleati?»

Due studenti francesi di 23 anni, Laurent Bonomo et Gabriel Ferez, sono stati barbaramente uccisi a Londra, dove vivevano nell’ambito di uno scambio scolastico. La polizia ha trovato i corpi con ferite di coltello alla testa, al collo e al torace in un appartamento a pian terreno di Sterling Gardens, nel distretto di New Cross a sudest della capitale britannica. Sale così a diciotto il numero dei giovanissimi uccisi nella sola Londra negli ultimi sei mesi. Un fenomeno, quello della violenza dei teenager, che preoccupa molto le autorità britanniche.

Vittorio Emanuele: chiesto rinvio a giudizio Il pm di Potenza Henry John Woodcock ha chiesto il rinvio a giudizio del principe Vittorio Emanuele di Savoia e di un’altra dozzina di persone per il reato di associazione per delinquere finalizzata «a commettere piu’ delitti contro la pubblica amministrazione, la fede pubblica ed il patrimonio, in particolare un numero indeterminato di delitti di corruzione e falso».

Brindisi, bus contro tir: 4 morti e 20 feriti Gravissimo incidente stradale sulla statale 172, in Puglia. Quattro persone sono morte e una ventina sono rimaste ferite nello scontro tra un pullman con a bordo una cinquantina di persone si è scontrato con un tir all’altezza di Selva di Fasano, in provincia di Brindisi, sulla cosiddetta «curva della Madonnina». Le vittime sono l’autista del camion e tre passeggeri del pullman, che trasportava un gruppo di anziani diretti ad Alberobello, dove vivono. Il gruppo proveniva da Torre Canne, frazione di Fasano, dove aveva trascorso la mattinata alle terme per un ciclo di cure. Un’iniziativa organizzata dal Comune di Alberobello tramite il Centro sociale per anziani, che mette gratuitamente a disposizione il pullman per le cure termali. I feriti sono stati portati negli ospedali di Fasano, Ostuni e Monopoli.

Cogne: tre anni in meno di carcere per la Franzoni Tre anni in meno di carcere per Anna Maria Franzoni, condannata per l’omicidio del figlio Samuele Lorenzi, sconterà 13 anni di prigione anziché 16. La Corte d’Assise d’Appello di Torino ha infatti concesso l’indulto chiesto dal procuratore generale Vittorio Corsi.


Europa

4 luglio 2008 • pagina 7

Il governatore della Bce porta i tassi al 4,25 per cento ROMA. «Nessun impegno su futuri rialzi dei tassi». Ieri, annunciato l’aumento del costo del denaro di 25 punti base (ora al 4,25 per cento), il governatore della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, non ha chiarito se ci saranno ulteriori strette monetarie nel 2008. Non ha risposto a una domanda che incide molto sulle strategie di governi e mercati. La cosa non può che acuire la distanza tra le due sponde dell’Atlantico. Negli Stati Uniti, dove la scelta della Fed di non toccare i tassi ha diviso gli ambienti economici, già si nota che l’atteggiamento di Trichet finisce per «combattere l’inflazione anche mettendo a rischio la crescita». Questo pensano in Lehman Brothers sul ritocco di ieri, che ha portato il tasso ufficiale al 4,25 per cento, quello sul rifinanziamento marginale al 5, 25 per cento e quello sui depositi al 3,25 per cento, con decorrenza dal 9 luglio.

Per i guru di Wall Street Trichet ricalca Greenspan con il suo giocare d’anticipo su un’inflazione ormai al 4,1 per cento. Ma i paragoni finiscono qui. «Questo conferma che sta montando la pressione sui prezzi, ma molta di questa pressione sembra causata dal petrolio. È la solita vecchia storia, solo che oggi è peggio», nota Holger Schmieding, capo economista per l’Europa di Bank of America. Si sa che in Europa l’inflazione è il fondamentale che più incide sulle strategie a medio termine, mentre in America si guarda di più alla crescita o ai fenomeni recessivi. Da una parte si opera per tenere i conti in ordine, dall’altra per lo sviluppo. È una vecchia storia anche questa. Nonostante la divergenza «filosofica», per dirla con Henry Kissinger, in passato ogni movimento dei tassi della Fed veniva seguito fedelmente dalle altre banche centrali dei Paesi sviluppati. Con percorsi differenti e velocità e modalità che seguivano le necessità interne, quelle direttive erano il faro delle banche centrali. Oggi si è a un bivio che avrà sicuramente implicazioni globali. Se la Fed taglia di 325 punti base, Trichet ha rialzato – nonostante i paletti di molti Paesi di Eurolandia - di 250 punti. E quello di ieri potrebbe

Trichet fa crescere la distanza tra Ue e Usa di Pierre Chiartano

In alto, l’Eurotower di Francoforte. Qui accanto, il governatore della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, che ieri ha annunciato un ritocco ai tassi d’interesse di 25 punti base

non essere l’ultimo ritocco verso l’alto del 2008. Dopo il taglio, l’euro ha toccato gli 1,5754 dollari: prima virava sopra quota 1,59. I mercati si aspettavano maggiore chiarezza da Francoforte, fatto sta che in molti, come ricorda il Financial Times, credono che una politica restrittiva avrà benefici sulla moneta comune. Non a caso, martedì il segretario al Tesoro Usa, Henry Paul-

Il banchiere europeo non esclude ulteriori ritocchi e crea nuove incertezze nell’area del dollaro sul futuro dell’economia americana e sulla crescita del petrolio son – giunto in Europa per un tour tra Mosca, Londra e Berlino – era planato a Francoforte per incontrare Trichet. La domanda che si fanno in molti è se il dollaro subirà un declino prematuro come divisa di riferimento. Non c’è accordo fra gli esperti, fatto sta che un differenziale inflattivo fra area dollaro e quella euro può essere la miccia che accende le polveri. Così l’arrivo sul Continente di Robert Rubin – ex collega di

Paulson in Goldman Sachs – a Roma per una conferenza dell’Aspen potrebbe essere un segnale che il Tesoro cerchi appoggi. Il banchiere d’affari Paulson chiede consiglio al “trader” Rubin, anche perché dietro l’angolo c’è Paul Krugman che auspica una nuova new Economy, quella senza Pil, basata più sul capitale umano. Comunque in America si nota che la politica della Bce è ancora legata al dollaro. Come ha ricordato il Financial Times, Trichet non avrebbe alzato i tassi se il rateo di cambio dollaro-euro fosse stato a 1.70. «Tutti oggi riconoscono i problemi dell’economia, ma sono in pochi ad aver capito quanto profondi siano i cambiamenti in atto», aveva affermato Rubin dialogando a Roma con Mario Draghi, martedì scorso. E se per l’ex segretario al Tesoro l’accordo del Wto di Doha «è morto prima di nascere», per il governatore di Bankitalia «è morto strada facendo». Ricostruzioni diversi, ma esito simile. Sta cambiando lo scenario della globalizzazione anni Novanta: è il multilateralismo contro il bilateralismo che ha alzato la voce negli ultimi anni. Ora, al di là delle leve monetarie, serve capire quanto la divergenza delle politiche delle due banche centrali sia sintomo di altro. In questo scenario Usa e Ue, che insieme coprono il 70 per cento delle transazioni valutarie mondiali, potrebbero costruire una nuova alleanza di straordinaria forza e vitalità. Ma nulla esclude un divorzio di fatto, magari non voluto. Il problema è entrato anche nella campagna delle presidenziali Usa. Pur non spiegando come, John McCain dice che «il dollaro vada rafforzato», convinto che la sua debolezza sia la causa «della pressione inflazionistica e del caro-greggio».

Naturalmente l’occhio è puntato sul debito pubblico, in gran parte in mano giapponese, per circa 586 miliardi di dollari, e cinese, per circa 492,6 miliardi (dati Tesoro Usa, febbraio 2008) poi a seguire i Paesi arabi, alla voce oil exporter, con 110,5 miliardi di dollari. Per cui, se da un lato Trichet viene accusato rafforzando l’euro di indebolire il dollaro e rendere il petrolio più caro, dall’altro chi ha in mano i Tbond, non sarà contentissimo di veder svalutare il proprio credito e un mercato di riferimento come quello Usa, che assorbe parte della sua produzione. Si spera che la Bce faccia della crescita un suo mantra, ma anche che il governo Usa intervenga per evitare la recessione.


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pensieri

Non tutti coloro che vogliono l’Unione ci credono davvero

L’europeismo light di Francesco D’Onofrio uscita qualche sorpresa il constatare una sorta di unanimismo europeistico che sembra mettere d’accordo - da qualche anno a questa parte - europeisti originari; europeisti tiepidi; anti-europeisti di destra; anti-europeisti filosovietici; anti-europeisti terzomondisti. Eppure basta ricordare quanto difficile è stato il cammino verso l’integrazione europea, soprattutto durante il lungo periodo della guerra fredda.

S

Sembra quasi che una sorta di incantesimo europeistico si sia ormai impadronito dei tanti avversari del processo di costruzione europea il quale, a sua volta, attraversa ormai una crisi molto seria come dimostrano i referendum popolari francese ed olandese dapprima, quello irlandese di questi giorni e il timore che possano esservi altri referendum nazionali in futuro. È venuto ormai il momento di chiedersi se stiamo vivendo una sorta di europeismo di mo-

da o se vi è una autentica sconfessione delle ragioni che avevano indotto in passato, a destra come a sinistra, ad assumere atteggiamenti parlamentari e sociali di radicale ostilità alle diverse tappe della costruzione europea - missili, serpente monetario ed elezioni del Parlamento europeo - per citare soltanto i contesti nazionali più significativi di contrarietà alle

primo fondamentale nucleo europeistico avvennero ben oltre l’entrata in vigore della costituzione italiana. E, per tutto il tempo, nel quale la guerra fredda ha concorso a determinare la scelta europeistica in chiave filoatlantica, l’opposizione all’Europa – soprattutto da parte della sinistra comunista italiana - si è caratterizzata prevalentemente per le ragioni della divisione del mondo nel campo filosovietico e nel campo americano. Così come non vi era del pari dubbio che talune perduranti pulsioni nazionalistiche italiane avevano finito con il vedere male il processo federativo europeo perché questo di tutta evidenza rappresentava un vero e proprio superamento della formazione degli stati nazionali di modello ottocentesco. Occorre dunque indagare oggi sulle ragioni di fondo che la scelta europeistica ha comportato sul piano dei rapporti inter-

Occorre indagare sulle ragioni di fondo che hanno determinato la scelta europeistica scelte di volta in volta ritenute necessarie per far progredire il processo di costruzione europea. All’origine della scelta italiana della costruzione di un’esperienza democratica dopo la caduta del fascismo non vi è infatti nessuna valenza europeistica della nostra costituzione, perché - come tutti sappiamo - i trattati di Roma costitutivi del

nazionali, su quello dei rapporti sociali; su quelli interni a ciascuno Stato infine.

Molti hanno infatti visto nel processo di costruzione dell’unità europea un insieme di avvenimenti che hanno avuto ed hanno nella scelta del modello democratico occidentale, nella scelta di una politica economica fondata sulla libertà interna e sulla concorrenza internazionale, nella scelta infine di un modello sociale fondato anche se a fatica sul principio di sussidiarietà sia istituzionale sia sociale, tre scelte politiche di fondo. Sarebbe pertanto molto utile se i tanti filoeuropeisti di oggi dicessero chiaramente se accettano questi tre principi fondamentali del processo di costruzione europea o se permangono ragioni internazionali e sociali che fanno discutere non sul come ma persino

sul se del processo europeistico in corso.

Occorre infine che si chiarisca in termini rigorosi il significato della affermazione in base alla quale vi è un radicale deficit democratico nel processo in atto: significa che si vuol proporre la derivazione parlamentare europea anche delle istituzioni di governo europeo, Commissione e presidente del Consiglio in particolare, o ci si limita a lamentare l’anomalia di un Parlamento europeo che non ha voce conclusiva né sulla produzione legislativa europea né sulla formazione degli organi europei di governo? L’europeismo se vuole essere una scelta e non una moda deve indicare pertanto proprio oggi il significato della ratifica del Trattato di Lisbona: solo in questo modo si possono seriamente onorare la lungimiranza di De Gasperi e la passione di Spinelli.

I problemi reali del Paese saranno il vero banco di prova delle capacità del premier

A chi conviene l’antiberlusconismo di Giancristiano Desiderio asterebbe questa osservazione: da quindici anni l’imprenditore Berlusconi è accusato di essere corrotto e corruttore e amico degli amici, ma da quindici anni il politico Berlusconi trae forza elettorale dalle accuse dei giustizialisti, dei giacobini, dei moralisti. Onore al merito del Cavaliere perché chiunque al suo posto sarebbe già morto e sepolto da un pezzo, mentre lui battendosi come un leone non ha mai ceduto né l’anima né il corpo a quei 789 giudici che hanno fatto richiesta di metterlo al sicuro.

B

Noi tutti - il nostro Paese, gli Italiani (con la maiuscola come scrive il Della Loggia sul Corriere) - da quindici anni non sappiamo cosa sia il berlusconismo, ma sappiamo benissimo che cos’è l’antiberlusconismo: è la ragion d’essere di Forza Italia. Dopo quindici anni e una dozzi-

na di governi è arrivato il momento di sapere cosa sia anche il berlusconismo. È arrivato il momento che siano i reali problemi di governo a misurare le capacità amministrative e istituzionali del presidente del Consiglio in carica. Una volta Indro Montanelli

“nobilitate”: “Abbiamo governato cinque anni”, ha detto una volta, “e ora siano una squadra rodata, sappiamo cosa fare e come farlo”. Bene, vediamo cosa sa fare. All’ex pm Di Pietro non conviene perché una volta finito l’antiberlusconismo dovrebbe abbaiare alla Luna, ma non lo farebbe perché la Luna non porta voti. Dunque, non resta altro da fare che piantarla con moralismo e giustizialismo perché ciò che serve alla democrazia non è il giudizio dei giudici ma il giudizio dei fatti.

Il Cavaliere lo usa come uno scudo, mentre Di Pietro non avrebbe più nessuno da attaccare scrisse: «C’è un solo modo per togliersi Silvio Berlusconi dai piedi: farlo governare». Il governo del Paese. Ecco su cosa si deve misurare il capo del governo. Conviene a tutti. Nell’ordine: agli Italiani, ai berlusconiani, all’opposizione. Non conviene solo a due su sessanta milioni di italiani: Berlusconi e Di Pietro. Al Cavaliere non conviene perché una volta finito l’antiberlusconismo non avrebbe più scuse e dovrebbe dimostrare la sua

Si dirà: ma allora l’onestà in questo mondo di ladri non conta davvero un fico secco? Risposta: l’onestà è una cosa e l’onestà politica un’altra cosa. L’onestà non è una virtù morale ma intellettuale: è onesto l’uomo che riconosce i propri errori, non l’uomo che non commette errori e sbagli perché un tale

uomo ancora deve nascere. Ma l’onestà politica oltre ad essere una virtù intellettuale è anche una virtù pratica: è un saper fare la cosa giusta al momento giusto. Ora è proprio questo che l’opposizione deve chiedere al governo: che dimostri di saper fare e non di essere un governo di gente onesta, pia e perbene. L’Italia ha bisogno di un governo, non di un monastero di orsoline. Ha bisogno anche di un’opposizione che sappia negare nei fatti il moralismo del giustizialismo. I fatti di governo ci diranno cos’è il berlusconismo: un valore o un’illusione. Può anche apparire come un paradosso, ma è soprattutto interesse dell’opposizione che Silvio Berlusconi governi senza alcun alibi. Deve governare. Se lo farà bene avrà gloria, se lo farà male si toglierà dai piedi e se lo farà male ma griderà al complotto sarà accusato, finalmente con cognizione di causa, di essere un politico disonesto.


&

parole

4 luglio 2008 • pagina 9

Inizia oggi a Montecatini il Congresso del Partito socialista

«Veltroni,non eravamo meglio noi di Di Pietro?»

l Partito socialista terrà dal il 4 al 6 luglio, a Montecatini, il Congresso fondativo che chiuderà il lungo e travagliato periodo della Costituente. In mezzo ci sono state le elezioni politiche dal risultato disastroso: i socialisti non hanno alcuna rappresentanza parlamentare. Non solo loro, ossia i riformisti, ma tutta la sinistra massimalista si trova senza rappresentanza. Una vicenda che è destinata a lasciare un segno indelebile nella democrazia parlamentare italiana, un triste presagio per il carattere negativo che incombe sul pluralismo politico di un Paese che ha fatto della varietà di opzioni politiche e di culture la forza della propria democrazia. A Montecatini, il Ps dovrebbe saper scongiurare l’ora fatale, riflettendo sugli errori tattici di una piccola formazione politica, sapendo ereditare il meglio della tradizione politica del Psi che, per oltre un ventennio, seppe dettare l’agenda politica ed anticipare i temi che oggi sono all’ordine del giorno nella vita politica italiana. Ovviamente, per lanciare una sfida riformista convincente e per modernizzare veramente il sistema Italia ci vuole il coraggio di Icaro, evitando di commettere il mortale errore di volare troppo vicino a ciò che lo penalizzerebbe, il conservatorismo e il massimalismo.

I

Il Partito democratico ha fatto terra bruciata sull’onda del voto utile. Una trovata il cui risultato finale è stato che ha smosso l’albero politico e frutti elettorali sono andati al Pd oltreché al Pdl, il massimo beneficiario del voto. Il sistema è passato dal bipolarismo al bipartitismo, senza una riforma, ma in base a un tacito accordo tra Silvio Berlusconi e Walter Veltroni. Insomma, il cosiddetto CaW ha funzionato a scapito dei partiti minori. Vero è che l’esperienza del governo Prodi è stata altresì negativa; esperienza dalla quale il Partito socialista non ha saputo trarre alcun vantaggio e dalla quale non ha saputo sottrarsi anche nel momento di peggior declino. Così come, al contrario, ha fatto in modo opportunistico il gruppo dirigente del Pd, che del governo ne era l’anima e l’architrave. Ai numerosi partner di maggioranza ha lasciato il cerino acceso, o addirittura ha gettato loro la croce del deficit di governabilità, o gli ha scaricati senza alcun ritegno come è accaduto con Clemente Mastella. Al leader del Pd si può dire tutto, meno che non abbia avuto il fiuto di capire che il prodismo sarebbe stato portatore di una sonora sconfitta elettorale. Al contrario il Ps ha creduto cie-

di Bobo Craxi e Biagio Marzo

Il Partito democratico ha preferito il giustizialismo invece di apparentarsi col consanguineo riformista Boselli facendosi trascinare in una bolgia populista

camente alla formula dell’ Ulivo allargato, anche quando non c’era più Prodi a Palazzo Chigi. E comunque, l’ha visto come un’ancora di salvezza al momento dell’apparentamento, ma come Godot, Prodi si è fatto aspettare inutilmente, non volendo certamente favorire Veltroni in

Dal congresso socialista dovrebbe partire una chiamata alle armi dei riformisti, dopo l’esclusione da ogni rappresentanza parlamentare. Nella foto Bobo Craxi

alcun modo. Così facendo ha lasciato il Ps solo nella più improbabile e singolare campagna elettorale della storia italiana. D’altro canto, Veltroni ha cambiato spalla al suo fucile, preferendo quella giustizialista di Antonio Di Pietro che continua a vantare il vecchio credito con il

Al leader del Pd si può dire tutto, meno che non abbia avuto il fiuto di capire che il prodismo sarebbe stato portatore di una sonora sconfitta elettorale

gruppo dirigente del Pds invece, di apparentarsi col consanguineo riformista Enrico Boselli. A ben vedere, il Pd con l’Idv non ha fatto un buon acquisto. Gli ha dato la possibilità di avere degli eletti senza grossi problemi e, nel contempo, si è messo una serpe in seno, i cui prezzi politici li sta pagando amaramente. Fare politica con il fiato sul collo di Di Pietro, costringe il Pd a entrare nella bolgia populista e giustizialista, fuori dal normale percorso riformista. Addebitare, ora, la sconfitta socialista a Prodi e Veltroni è troppo comodo e si fa, peraltro, una operazione ingiustificabile di scarico delle responsabilità collettiva. Alla prova dei fatti, non possono essere indicati come gli unici capri espiatori; così si scagionerebbe la dirigenza socialista nel suo insieme anche quando invece, ha le sue responsabilità. Prodi, intanto, ha lasciato la politica attiva, mettendosi persino la cera negli orecchi per non sentire i canti delle sirene, che lo vorrebbero al vertice del Pd. Veltroni non ha fatto altro che portare acqua al mulino Pd ed è, al momento, alle prese con i problemi interni. C’è chi lo vorrebbero, persino, sostituire.

La campagna elettorale passata serva al Ps da lezione: non si spara ad alzo zero sul Pd, quando lo si avrebbe voluto come principale alleato e, inoltre, non si sarebbero dovuti contrabbandare come socialisti argomenti il cui copyright è di Marco Pannella. Una buccia di banana su cui il Ps è scivolato toccando il fondo dello 0,98%. Dal congresso socialista dovrebbe partire una chiamata alle armi dei riformisti per fare squadra e massa critica, con uno spirito pratico che è la cifra del riformismo socialista. Il deficit riformista presente nella cultura di governo dovrà essere colmato al più presto, pena la retrocessione dell’Italia nel girone B. Non é sufficiente dichiarare la propria appartenenza al socialismo riformista, governando con i conservatori e gli indipendentisti del Nord, senza aprire un terreno di confronto politico attivo con le aree politiche contigue ed affini. Un patto riformista, dunque, dovrà essere lanciato e al quale, naturalmente, si stringano coloro che vogliono cambiare democraticamente il Paese Italia. Un patto rivolto tanto ai riformisti di governo quanto quelli di opposizione, superando antichi steccati ideologici e politici. Ai socialisti del Ps il gravoso compito di aprire il cantiere.


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XXI secolo

La seconda parte del saggio del segretario di Stato Usa sulle sfide che attendono l’Occidente

Il mondo ha bisogno che il Medioriente scelga la libertà di Condoleezza Rice segue dalla prima on c’è dubbio che le forze politiche meglio organizzate fossero i gruppi estremisti. Ed era li, nell’ombra, che al Qaeda ha trovato le sue prede, anime in pena che ha poi sfruttato come soldati di fanteria nella sua millenaria guerra contro il nemico di sempre. Una risposta poteva essere combattere i terroristi senza prendere in considerazione questa causa basilare. Forse sarebbe stato possibile gestire queste tensioni soppresse per un po’ di tempo. Di certo la ricerca di giustizia e di un nuovo equilibrio che le nazioni del Medioriente hanno ora intrapreso è molto turbolenta. Ma è davvero peggio della situazione in cui erano in passato? Peggio di quando il Libano era sotto l’occupazione militare siriana?

N

Peggio di quando sedicenti legislatori Palestinesi intascavano personalmente la beneficenza che arrivava da tutto il mondo e di quando hanno sprecato la loro migliore opportunità di creare la pace tra i due stati? Peggio di quando la comunità internazionale ha imposto sanzioni agli innocenti Iracheni per punire colui che li aveva tirannizzati, che aveva minacciato gli stati vicini all’Iraq, e spianato con un bulldozer 300mila esseri umani in anonime fosse comuni? O peggio dei decenni di oppressione e opportunità negate che si sono moltiplicate senza speranza, hanno accresciuto l’odio e condotto al tipo di radicalizzazione che ha portato all’ideologia che sta dietro agli attacchi dell’11 settembre? Lontano dall’essere il modello di stabilità che alcuni sembrano ricordare, il Medioriente dal 1945 in poi è stato distrutto ripetutamente da conflitti civili e guerre oltre frontiera. La nostra attuale linea di condotta è certamente difficile, ma non romanticizziamo sul vecchio accordo con il Medioriente, perchè loro non hanno certo gridato né alla giustizia né alla stabilità. Il secondo discorso ufficiale del Presidente e il mio discorso all’American University del Cairo nel giugno 2005 sono state prese come delle dichiarazione retoriche che scompaiono di fronte ai duri fatti della vita reale. Nessuno può dire che

il progetto di democraticizzazione e modernizzazione del Medioriente manchi di ambizione, e noi che lo supportiamo, riconosciamo pienamente che sarà un duro compito generazionale.

Non un singolo evento e certamente non un discorso potranno realizzarlo. Ma se non è l’America a porre un obiettivo, nessun altro lo farà. Il raggiungimento di questo obiettivo è reso più compicato dal fatto che il futuro del Medioriente è legato a molti altri vitali interessi della nostra nazione: sicurezza energetica, non proliferazione, difesa di amici e alleati, risoluzione di vecchi conflitti, e soprattutto, il bisogno di trovare partner nella battaglia globale contro la violenza dell’estremismo Islamico. Affermare, però, che dobbiamo promuovere o i nostri interessi sulla sicurezza o i nostri ideali democratici, sarebbe presentare una falsa scelta. Certamente, a breve termine, i nostri interessi e i nostri ideali a volte entrano in conflitto. L’America non è una Ong e nelle sue relazioni con gli altri paesi deve bilanciare una miriade di fattori diversi. Ma a lungo termine, il successo dei nostri ideali: libertà, diritti umani, mercato aperto, democrazia e stato di diritto, garantiscono la nostra sicurezza. I leader e i cittadini del Medioriente ora stanno cercando delle risposte alle domande fondamentali sulla costruzione di uno stato moderno: Quali sono i limiti dell’uso del potere, dentro e fuori i suoi confini? Quale sarà il ruolo dello stato nelle vite dei cittadini e nelle relazioni tra religone e politica? Come saranno conciliati i valori e i co-

Da sinistra: fedeli musulmani in una moschea; un estremista islamico; il leader di Al Qaeda, Osama Bin Laden


XXI secolo

4 luglio 2008 • pagina 11

Da sinistra: l’ex primo ministro pakistano Benazir Bhutto; il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad; il presidente pakistano Pervez Musharraf

stumi con la promessa democratica di libertà e diritti individuali, in particolare per donne e ragazze? Come deve essere accolta la diversità etnica e religiosa in fragili stituzioni politiche quando la gente tende ancora a rimanere aggrappato ad associazioni tradizionaliste? Le risposte a queste ed altre domande possono venire solamente dal Medioriente stesso. Il nostro compito è supportare e modellare questi difficili processi di cambiamento e aiutare le nazioni di questa regione a superare le maggiori sfide per la loro rinascita come nazioni moderne e democratiche. La prima sfida è l’ideologia globale del violento estre-

civile, come abbiamo fatto attraverso il Forum e la Middle East Partnership Initiative, e usare la diplomazia pubblica e privata per spingere i nostri partner non democratici a riformarsi. I cambiamenti stanno arrivando lentamente, in termini di suffraggio universale, più parlamenti influenti, e educazione per donne e bambine. Dobbiamo continuare a sostenere le riforme e supportare agenti indigeni di cambiamento nei paesi non democratici, anche quando cooperiamo con i loro governi per la sicurezza. Un esempio di come la nostra amministrazione è riuscita a bilanciare queste tensioni è la nostra relazione con il Pakistan. Dopo che gli USA hanno trascurato per anni la relazione con questo paese, la nostra amministrazione ha dovuto stabilire una collaborazione col governo militare Pakistano per raggiungere un obiettivo comune dopo l’11 settembre. L’abbiamo fatto sapendo che la nostra sicurezza e quella del Pakistan aveva bisogno di un ritorno a regole civili e democratiche. Quindi anche quando abbiamo lavorato con il Presidente Prevez Musharraf per combattere i terroristi e gli estremisti, abbiamo investito più di 3 miliardi di dollari per rinforzare la società pakistana, costruendo scuole e cliniche mediche, fornendo aiuti d’emergenza durane il terremoto del 2005, e supportando i partiti politici e lo stato di diritto. Abbiamo spinto i leader militari Pakistani ad inquadrare il loro paese in una traiettoria moderna e moderata, e per alcuni versi lo hanno fatto. E quando questo progresso è stato minacciato, lo scorso anno, dalla dichiarazione dello stato d’emergenza, abbiamo spinto il presidente Musharraf a togliersi l’uniforme e a tenere elezioni libere.

IL NOSTRO INTERESSE, I NOSTRI IDEALI Il nostro interesse sulla sicurezza e i nostri ideali democratici non sono in alternativa. L’America non è una Ong e nelle sue relazioni deve rispondere a diverse esigenze. Ma alla fine il nostro interesse coincide con la libertà

mismo Islamico, impersonato da gruppi come Al Qaeda, che rigetta con forza i principi base della politica moderna, cercando di rovesciare gli stati sovrani, cancellare i confini nazionali, e restaurare la struttura imperiale dell’antico califfato. Per resistere a questa minaccia, gli Stati Uniti avranno bisogno di amici e alleati nelle regioni che possono e vogliono agire contro i terroristi che si trovano tra loro. Comunque, alla fine questa è molto più di una guerra fatta con le armi, è una lotta di ideali. Per Al Qaeda, vincere sarebbe prendere i legittimi risentimenti locali e nazionali delle società Musulmane e trasformarli in una narrativa ideologica di lotta senza fine all’Occidente, specialmente all’oppressione degli Usa. La buona notizia è che la sua intolleranza ideologica può rafforzarsi solo attraverso brutalità e violenza. Quando le persone sono libere di scegliere come abbiamo visto in Afghanistan, Pakistan e nella Provincia irachena di Anbar, rigettano l’ideologia di Al Qaeda e si ribellano al suo controllo.

Per noi, perciò, la vittoria deve essere offrire alla gente un sentiero democratico per avanzare i propri interessi pacificamente, per sviluppare i propri talenti, fermare le ingiusizie, e per vivere in libertà con dignità. In questo senso, la battaglia contro il terrorismo èuna specie di repressione globale delle sommosse: il centro di gravità non è il nemico che combattiamo, ma le società che loro stanno cercando di radicalizzare. Bisogna riconoscere che i nostri interessi nel promuovere la democrazia, e combattere il terrorismo e l’estremismo ci mettono davanti a delle dure scelte, perchè noi abbiamo bisogno di alleati capaci nel Medioriente che possano sradicare i terroristi adesso. Questi stati sono spesso non democratici, per questo dobbiamo bilanciare le tensioni tra obiettivi a breve trmine e obiettivi a lungo termine. Non possiamo negare agli stati non democratici l’assistenza sul tema sicurezza nella battaglia contro il terrorismo o nella propria difesa. Allo stesso tempo, dobbiamo usare altri punti di forza per promuovere la democrazia e far mantenere ai nostri alleati gli impegni presi. Ciò significa supportare la società

Anche se i terroristi hanno cercato di contrastare il ritorno della democrazia e hanno ucciso tragicamente molte persone innocenti, incluso il precedente Primo Ministro Benazir Bhutto, il popolo Pakistano, alle votazioni, ha inflitto all’estremismo una schiacciante sconfitta. Questa restaurazione della democrazia in Pakistan ci dà l’opportunità di creare il rapporto duraturo e su larga scala che non abbiamo mai avuto con questo paese, aumentando così la nostra sicurezza e ancorando il successo dei nostri valori in una regione problematica. Una seconda minaccia al nascere di un Medioriente migliore viene dagli stati aggressivi che tentano di ostacolare la riforma dell’ordine regionale presente e cercano invece di alterarlo usando ogni forma di violenza, assassinio, intimidazione e terrorismo. Il problema non è se ogni stato in particolare debba avere influenza nella regione.Tutti ce l’hanno, e ce l’avranno. Il vero problema è: che tipo di influenza eserciteranno questi stati, e per quali fini, costruttivi o decostruttivi? È questa fondamentale e ancora irrisolta domanda ad essere oggi al centro di molte delle sfide geopolitiche nel Medioriente, sia che si tratti dell’indebolimento della sovranità del Libano da parte della Siria, dell’interesse dell’Iran ad avere risorse nucleari, o il supporto da entrambi gli stati al terrorismo. L’Iran rappresenta una sfida particolare. Il regime iraniano continua nelle sue politiche distruttive attraverso strumenti statali, come le Guardie Rivoluzionarie e forze le Al

Quds, e attraverso delle deleghe non statali che estendono il potere Iraniano, come elementi di dell’esercito Mahdi in Iraq, Hamas a Gaza, e gli Hezbollah in Libano e nel mondo. Il regime iraniano cerca di sovvertire gli stati e di estendere la sua influenza attraverso la regione del Golfo Persico e il Medioriente; minaccia lo stato di Israele di estinzione e conserva la sua implacabile ostilità verso gli Stati Uniti. E sta destabilizzando l’Iraq, mettendo in pericolo le forze UsaA, e uccidendo innocenti iracheni.

Gli Stati Uniti stanno rispondendo a queste provocazioni. È chiaro che, un Iran con un’arma nucleare o anche solo la tecnologia necessaria a costruirne una, sarebbe una grave minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale. Ma c’è anche un altro Iran. È la terra di grande cultura e straordinaria gente , che soffre la repressione. Gli iraniani meritano di essere integrati nel sistema internazionale, viaggiare liberamente e la possibilità di ricevere un’educazione nelle miglori università. Infatti, gli Stati Uniti gli sono andati incontro, organizzando scambi di squadre sportive, soccorritori in caso di emergenze, e artisti. Secondo numerosi rapporti, gli iraniani sono ben disposti verso gli americani e gli Stati Uniti e le nostre relazioni potrebbero essere diverse. Il governo iraniano potrebbe onorare la richiesta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sospendere l’arricchimento dell’uranio e le relative attività, e la comunità delle nazioni - inclusi gli Stati Uniti - sarebbe pronta a discutere tutta la vasta gamma di problemi che ne consegue, perché l’America non ha nemici permanenti. Fondamentalmente, le numerose minacce poste dall’Iran vanno valutate in un contesto ampio: quello di uno Stato essenzialmente in disaccordo con le regole e i valori della comunità internazionale. L’Iran deve fare una scelta strategica - una scelta che abbiamo cercato di favorire con il nostro atteggiamento – riguardo come e a cosa met-

L’IRAN A UN BIVIO È chiaro che un Iran con un’arma nucleare sarebbe una grande minaccia alla sicurezza e alla pace internazionale. E gli Usa risponderanno a questo pericolo. Ma c’è anche un altro Iran che merita l’integrazione

tere fine ed esercitare il suo potere e la sua influenza: vuole continuare a ostacolare le legittime richieste del mondo portando avanti i suoi interessi con la violenza e aggravando l’isolamento della sua gente? O è aperta a relazioni migliori, che includerebbero maggiori scambi commerciali, una migliore integrazione e una cooperazione pacifica con i suoi vicini e l’intera comunità internazionale? Tehran dovrebbe sapere che cambiamenti del suo atteggiamento determinano cambiamenti del nostro, ma dovrebbe anche sapere che gli Stati Uniti difenderanno vigorosamente i loro amici e i loro interessi fino al giorno in cui tale cambiamento si verificherà. La terza e ultima parte del saggio di Condoleezza Rice verrà pubblicata domani


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speciale approfondimenti

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fine 2007 la stampa parla sempre più di una “ripartenza” del progetto europeo, lasciando intendere che l’impasse sia ormai alle spalle. C’è da chiedersi se si tratti di entusiasmo istituzionale (un fenomeno non infrequente negli affari della Ue) o se davvero si assista al superamento dello stallo istituzionale e ci si affacci su un’epoca in cui l’Unione ritrova un ruolo significativo sulla scena internazionale. In realtà c’è stato un intrecciarsi d’eventi e di personalità alla base di questa fase indubbiamente più movimentata della politica europea. Da un lato vari avvenimenti hanno fatto riflettere i governi degli stati membri sulla necessità di disporre di una risorsa ”comunitaria” per fronteggiare problemi con cui non era facile rapportarsi nel quadro del semplice sistema del tradizionale stato-nazione. L’evento più emblematico da questo punto di vista è stata la crisi energetica con i difficili rapporti con la Russia di Putin. Dal lato opposto sulla scena europea si sono presentati alcuni personaggi, molto diversi fra loro, ma piuttosto capaci di una presenza dinamica: la superstar è stata da questo punto di vista il nuovo presidente francese Nicolas Sarkozy, ma anche la cancelliere tedesca Angela Merkel ha trovato uno spazio di tutto riguardo. Chi invece ha visto la sua immagine appannarsi è stato il premier spagnolo Zapatero, che in anni precedenti aveva tenuto bene la scena, così come è stato il caso di Tony Blair che ha lasciato a giugno 2007 il suo ruolo di premier britannico.

A

Il fatto è che il 2007 è stato un anno di svolte sul piano della leadership. Se la signora Merkel rappresenta una conferma, nonostante abbia da affrontare una situazione interna non proprio rosea, si è assistito a due cambi al vertice non di poco conto come quelli appena ricordati all’Eliseo, e a Downing Street. Insomma è di questo panorama complessivo che si deve tenere conto se vogliamo trarre un bilancio in qualche maniera ponderato di quello che è stato l’anno settimo del ventunesimo secolo, apertosi, per quanto riguarda l’Europa, con la solenne celebrazione dei cinquant’anni dall’avvio concreto dell’avventura unitaria e chiusosi con la sottoscrizione di un nuovo trattato che, per mini che sia, è pur sempre un significativo ripensamento delle regole di governo di una Unione che ha ormai raggiunto dimensioni più che ragguardevoli. La celebrazione dell’anniversario a Berlino, nel marzo, si è conclusa con una dichiarazione comune che è stata quasi unanimemente giudicata dalla stampa come debole: un testo con quel po’ di retorica obbligata, ma senza pronunciamenti coraggiosi e vincolanti. I Paesi membri erano troppo impegnati nelle loro prospettive ”sovraniste”, cioè nella difesa delle sfere nazionali di potere, per potersi spingere più in là, ma una concessione alla pressione dell’opinione pubblica hanno pur dovuto farla: l’inserzione dei temi della salvaguardia dell’ambiente e della lotta ai mutamenti climatici, ha segnato la presa in carico di problematiche molto sentite anche a livello popolare e sulle quali l’insensatezza di un approccio puramente ”nazionale”era evidente a tutti. La cancelliere Merkel, che di questa

Un libro analizza l’impatto mediatico del processo di costruzione comunitaria. Ne anticipiamo l’introduzione

L’EUROPA DI CARTA di Paolo Pombeni

Il 2007 era stato l’anno della svolta sul piano della leadership: è finita l’era di Tony Blair e Jacques Chirac fase è stata l’anima diplomatica, non voleva del resto pregiudicare i possibili passi avanti futuri e dunque ha ritenuto, non senza ragione visto quel che sarebbe avvenuto dopo, che l’importante fosse impedire rotture che poi sarebbe stato difficile ricomporre. Del resto il panorama era tutt’altro che tranquillo. La Polonia dei gemelli Kaczynski era una spina nel fianco col suo populismo sfrenato tradotto in un vetero-nazionalismo, ma diversi Paesi erano sull’orlo di un cambiamento interno e tutti si rendevano conto che si era esaurita la

funzione della Ue ”pifferaio magico” (secondo l’immaginifica definizione di Dahrendorf), cioè l’attrattiva irresistibile della inclusione/partecipazione che faceva abbandonare le vecchie case nazionaliste.

Se da un lato, nel gennaio si era avuto lo scontro con la Russia di Putin sulla questione delle forniture energetiche e nel febbraio il leader russo avrebbe pronunciato il suo aggressivo ”discorso di Monaco”alla 43° conferenza per la sicurezza alzando con forza il tema della garanzia del confine polacco, dall’altro la questione turca non mancava di continuare ad agitare i sonni delle diplomazie. Insomma l’Europa era indotta a prendere in seria considerazione la questione dei propri ”confini” come un tema politico che sarebbe stato miope mettere tra parentesi.

Da questo punto di vista il 2007 ha contemporaneamente visto l’acuirsi della questione russa e l’assopirsi, almeno relativo, di quella turca. Putin è stato uno dei protagonisti della dialettica europea, sia pure continuando fortemente a far rimanere il suo paese ”esterno” all’Unione (dopo i vagheggiamenti di qualche forma d’inclusione avanzata in anni ormai lontani). La sua prospettiva neo-imperiale, la sua salda presa sul Paese, confermata dalle elezioni del dicembre che lo hanno consolidato in un potere quasi assoluto, sono stati elementi che gli hanno consentito di essere al centro di un complesso intreccio diplomatico. Non c’è qui solo la consapevolezza del peso che la Russia gioca come fornitore d’energia al vecchio continente (ma anche di altre materie prime), così come non tutto si esaurisce nella pur spinosa vicenda dello scudo antimissile che gli americani vogliono costruire ai suoi confini. Il tema è arduo perché per certi versi non è un tema solo ”europeo”, pur essendo la Ue di fat-


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rapporti con l’Africa, che aveva un poco negletto negli ultimi anni. Qui ci si è accorti che il vuoto lasciato dagli europei e dagli americani veniva rapidamente riempito dai cinesi, proiettati anch’essi in una dimensione mondiale dal momento che la loro florida economia consente azioni espansive ben al di là dei consueti scenari asiatici. Del resto non si può dimenticare che la questione dell’adesione della Turchia alla Ue, che peraltro comunque necessita ancora di un lungo cammino, agita sullo sfondo un altro possibile tema di migrazione in un contesto già gravato dai problemi che in questo campo ha introdotto l’inclusione quest’anno di Romania e Bulgaria, nonostante, vale la pena di ricordarlo, le commissioni di studio non le avessero trovate pronte a garantire gli standard ritenuti necessari per l’inserzione di un paese nella Ue. Tutte queste problematiche hanno portato in primo piano il tema della presenza internazionale della Unione, che, curiosamente, interessa un po’ tutti i principali Paesi. Se infatti è vero che Francia, Germania, Gran Bretagna e in parte Spagna, che sono i più attivi nel proporre politiche ”sovraniste”, continuano a voler fare una politica estera ”in proprio”, non è meno vero che tutte, con gradi diversi, vorrebbero usare la Ue come proprio puntello, consapevoli che ormai questo è un ”valore aggiunto”di peso non trascurabile quando ci si presenta nell’arena internazionale. Per paesi poi come l’Italia che hanno più difficoltà a proporsi come protagonisti in proprio nel gioco delle diplomazie, l’ancoraggio all’Europa costituisce una ottima occasione per entrare in una partita in cui altrimenti sarebbero scarsa-

to il tutore del precario equilibrio di quella regione: ci sono gli Usa che hanno interessi forti in campo e che forse non disdegnano una qualche prova di forza con Mosca. Alla fine per il Kosovo sembra profilarsi una situazione in cui l’Europa deve assumersi l’onere di mantenere in piedi quella regione, sia sotto il profilo economico sia sotto quello dell’ordine pubblico, mentre gli Usa si prendono il merito della copertura della decisione indipendentista della maggioranza albanese della popolazione. Si vedrà quanto la carta pacificatrice che Bruxelles vuole giocare, cioè la promessa di una rapida inclusione della Serbia nella Ue in cambio di una sua resa allo status quo possa essere efficace. Quel che è certo è che comunque la Russia non si arrenderà a questa prospettiva che mette in discussione la sua strategia nella regione.

Sul tappeto dei nodi da sciogliere c’è ancor più la questione dell’Iran e della sua corsa al nucleare, che è un altro punto delicato dove s’intrecciano gli scontri fra due storici contendenti come Mosca e Washington e la necessità per l’Europa di non rimanere tagliata fuori da un’area che è di vitale importanza per la sua politica, non da ultimo perché è comunque una delle chiavi che governano la difficile situazione medioorientale, in specie quella libanese dove ancora una volta la Ue si è assunta un compito arduo come la garanzia di mantenere la zona fuori dal processo di destabilizzazione violenta dell’area. Con la Russia di Putin dunque i rapporti sono stati e si mantengono difficili. Il summit di Samara del 18 e 19 maggio 2007 non ha conseguito risultati importanti e la partecipazione di Russia e Paesi europei alla riunione del G8 ad Heiligendamm (5-6 giugno 2007) è servita solo per offrire un palcoscenico a Putin e ai polacchi per amplificare i loro contrasti (tacendo del problema del conflitto di Mosca con l’Estonia, punta di un iceberg di difficoltà nel governo delle relazioni con i Paesi confinati usciti dalla dissoluzione dell’Urss). Ma non è solo su quello che era un confine tradizionale della guerra fredda che l’Europa ha i suoi problemi. In dicembre la Ue ha ripreso in mano il tema dei suoi

una presidenza della Commissione (quest’ultima per di più di maggiore durata) sottolineava tutta l’ambiguità del risultato raggiunto. Sono senz’altro critiche rilevanti, ma va notato che più delle parole in politica contano i fatti. Se dunque alla presidenza andasse un leader di spessore e se l’alto rappresentante fosse un politico abile e rispettato, si creerebbe una situazione tale da promuovere un certo imporsi della Ue sulla scena internazionale. Sembra difficile negare che l’attivismo di Sarkozy sia stato un fattore di incentivazione delle dinamiche dell’Unione. Da questo punto di vista il suo riavvicinamento a Washington non lo ha frenato, poiché sa benissimo che gli Usa hanno bisogno dell’Europa per gestire varie aree di crisi e dunque non disdegnano che la UE si consolidi sotto una leadership che essi possano considerare amica.

Diverso discorso andrebbe fatto per il cambio di leadership in Gran Bretagna. L’abbandono di Tony Blair tra maggio e giugno 2007 non ha avuto la solennità né della chiusura di un’epoca, né di un nuovo inizio. L’immagine di quest’uomo politico, che tanto favore aveva incontrato nell’opinione pubblica mondiale, si era appannata negli ultimi anni e sul fronte europeo le sue iniziali aperture, che talora si erano spinte fino a far presagire una svolta nell’atteggiamento britannico, si erano rivelate inconsistenti. Il suo successore Gordon Brown, già gravato dall’immagine di anti-europeista, non ha potuto avviare alcuna politica minimamente innovativa, nonostante si potesse considerare una spinta a farlo qualche timido tentativo dei conservatori, e del loro leader David Cameron, di parlare d’Europa ”in altro modo”, ma pur sempre di parlarne. Così il cancelliere dello Scacchiere che si era opposto a qualsiasi ipotesi d’ingresso del suo Paese nell’area euro, ha confermato di rimanere sulle sue posizioni con la scelta come collaboratori per le questioni europee di due uomini strettamente legati a lui: John Cunliffe come consigliere per gli affari europei e Jim Murphy come ministro per l’Europa, per altro escluso dal Cabinet, cioè dal rango dei ministri che contano e che formano il cerchio in cui si prendono le decisioni politiche. Eppure ad un certo punto lo stesso Financial Times, che certo non può essere considerato un foglio euroentusiasta, era arrivato a scrivere che il Regno Unito avrebbe dovuto prendere sul serio il problema europeo ed impegnarsi in una politica attiva nel suo seno: un messaggio che Brown ha però interpretato nella vecchia linea del semplice sostegno all’allargamento dell’Europa, come mercato comune sempre più ampio, senza che questo potesse avere però significative ricadute politiche. È tuttavia fantasioso ritenere che si sia di fronte ad una marcia indietro rispetto ad un orizzonte federalista che era a portata di mano. Sin dai tempi della Commissione Delors, che pure è stata quella che ha ottenuto maggiori risultati ed ha goduto di una leadership senza più eguali, la prospettiva dominante è sempre stata quella di una Unione che fosse in realtà un grande coordinamento di stati-nazione che non rinunciavano alle loro prerogative. Nessuna istituzione comunitaria, né la Commissione, né il Parlamento sono mai stati in grado di mettere seriamente in crisi questo impianto, sicché il ”Mini-Trattato” di oggi è un passo avanti, per quanto limitato possa essere. Il vero momento di verifica di quanto lungo possa essere stato questo passo avanti arriverà quando si dovrà muovere dalle parole ai fatti e non sarà tanto presto. Con il 2009 ci sarà il rinnovo del Parlamento Europeo, una scadenza da non sottovalutare. E non sarà una prova facile, sia per le attuali dimensioni dell’allargamento che hanno introdotto non poche disomogeneità nella compagine europea, sia per i probabili riflessi di una situazione internazionale che sarà condizionata dall’evolversi delle crisi attualmente in corso e dall’evoluzione della situazione americana con il rinnovo della presidenza.

Il “Mini-Trattato” di Lisbona, nonostante i limiti, costituisce comunque un passo in avanti mente influenti. Bisogna riconoscere a merito dell’allora ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, di averlo compreso e di avere investito attività ed intelligenza per costruire un ruolo al nostro Paese, senza proclami roboanti, ma con un paziente lavoro di tessitura. È in questo panorama che, a mio giudizio, va inserita la riflessione su quanto è contenuto nel cosiddetto ”minitrattato” che il vertice intergovernativo di Lisbona del 18-19 ottobre 2007 ha finalmente varato, dopo lo sblocco sostanziale della situazione che si era avuto nel vertice del 21-23 giugno a conclusione del semestre di presidenza tedesca. I giudizi con cui è stato accolto questo compromesso sono stati in certa misura di segno opposto. Alcuni hanno sottolineato il sostanziale fallimento dell’ambizione a far fare un salto di qualità alla Ue portandola molto vicina ad una struttura federale. Si è sottolineato come si sia dato un duro colpo all’integrazione fra gli stati tanto sul piano simbolico, con la negazione di qualsiasi valore alla bandiera ed all’inno, quanto sul piano giuridico con la clausola cosiddetta di opting out che consente a qualsiasi Paese membro di sottrarsi a normative decise a livello comunitario. Al contrario non è mancato chi ha sottolineato il passo avanti che si è comunque realizzato con l’accettazione di un vertice comunitario dotato di una certa stabilità (due anni e mezzo che possono anche raddoppiare) e con la creazione di un ”alto rappresentante”per la politica estera e di difesa. In aggiunta c’è da segnalare il superamento che si dovrebbe avere in futuro della clausola dell’unanimità necessaria per tutte le decisioni, una condizione molto difficile da realizzare nell’attuale ampia compagine di stati che si ritrovano nella Ue. Certo i critici hanno notato che la scelta del termine ”alto rappresentante” al posto di quella di ”ministro” per chi si occupa di politica estera comune, così come la compresenza di una presidenza dell’Unione con


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speciale approfondimenti

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Verso il rinnovo dell’accordo di cooperazione scaduto nel 2007

Russia-Unione europea: sulla strada del disgelo di Francesco Benvenuti opo il vertice russo-europeo di un anno e mezzo fa, ad Helsinki, e i successivi, inconcludenti incontri di Samara e Mafra, il cammino comune è ricominciato. A metà maggio la Lituania, che era sembrata voler raccogliere il testimone antirusso lasciato cadere dalla Polonia lo scorso autunno (a causa dell’embargo russo di fine 2006 sulla carne importata da questo paese, contestualmente tolto da Mosca), ha ceduto alle pressioni nella Ue perché abbandonasse la pregiudiziale della ripresa dei rifornimenti petroliferi dalla Russia e della richiesta di indennizzo per i decenni dell’”occupazione sovietica”.Visitando Mosca ai primi di giugno, Ferrero-Waldner ha prospettato l’imminente inizio dei negoziati per la stesura del nuovo Accordo di partnership e cooperazione (Pca), scaduto nel dicembre 2007, nei termini preferiti dai russi: un testo conciso, non dettagliato, una cornice per successivi accordi di settore. Il commissario europeo non ha nascosto, tuttavia, che la trattativa sarà lunga e complessa. Ha ricordato la questione del Kosovo e ha invitato i russi a comprendere le ragioni storiche dell’ostilità loro dimostrata dai nuovi membri europeo-orientali della Ue. Che il vertice Russia/Europa del 27 giugno sarebbe stato decisivo per le sorti del nuovo Pca era stato anticipato

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chner. Si è trattato, forse, anche un modo di esprimere il rispetto della Francia verso il neoeletto presidente russo, nella previsione dell’accoglienza ancora incongruamente “presidenziale”che il presidente francese si apprestava a riservare all’intramontabile Putin a Parigi, pur nella sua sminuita (si fa per dire …) qualità di premier. Più freddo è stato il cancelliere tedesco nell’incontro con Medvedev a Berlino, il 5 giugno, preceduto da una visita di Steinmeier, a Mosca.

La Germania appoggia il progetto del gasdotto North Stream e il ruolo russo di peace-keeping in Georgia: ma Merkel e il suo Ministro degli Esteri sono apparsi ansiosi di vedere passi concreti verso una liberalizzazione in Russia (a cominciare dal trattamento penitenziario di M. Khodorkovskii): forse, incoraggiati dalla recente ripulsa da parte di Medvedev di un emendamento della Duma alla legge sui mezzi di comunicazione, che avrebbe consentito la sospensione di un giornale per l’accusa di “calunnia” per via puramente amministrativa (senza, cioè, passare per un tribunale, come richiesto dal Codice penale russo). Per parte sua, Medvedev intendeva soprattutto esporre alla Merkel la proposta russa per un sistema di sicurezza europeo, del tipo di Helsinki. Il quotidiano semi-uf-

Il commissario Ue Waldner ha annunciato l’apertura di nuovi negoziati con Mosca nell’incontro parigino di Putin con Sarkozy già alla fine di maggio, durante il quale il secondo aveva rassicurato l’ospite della solidità dell’amicizia francese in modo particolarmente esplicito e caloroso. Cordiale e dedicato, anch’esso, al Pca l’incontro di pochi giorni prima a Mosca tra Medvedev e il Ministro degli Esteri francese, Kou-

ficiale ha rilevato con compiacimento che, in questa occasione, Medvedev si è sì dimostrato un “liberale” ma non al punto di farsi dettare dall’estero i tempi delle riforme interne e di trattare sul progetto antimissile Usa in Europa, sul Cfe e sull’allargamento della Nato. Infine, alla vigilia del summit russo-europeo il Commissario europeo al

Commercio, P.Mandelson, ha affermato la necessità di un decisivo cambiamento di percezione reciproca tra Ue e Russia: ma, prudentemente, di ritenere probabile che anche d’ora in avanti il vettore dell’integrazione russo-europea sarebbero stati gli scambi commerciali e l’azione degli imprenditori, piuttosto che l’iniziativa dei politici. A questi ultimi toccherebbe, essenzialmente, di definire il quadro generale e giuridico entro cui progredirà l’integrazione economica (il Pca). L’importante, ora, è che la Russia entri nel Wto e stabilisca una comune politica energetica con l’Ue. Si tratta, evidentemente, di un’impostazione minimalista: molto britannica ma forte anche in Russia. Il summit del 27 giugno, nella città siberiana di KhantiMansiisk, ha infine dato ufficialmente il via al negoziato sul nuovo Accordo . Esso inizierà già il 4 luglio a Brussels.

Si capisce fin da ora che uno dei punti difficili sarà costituito dalle nuove regole europee per il commercio dell’energia. La Russia non vuole che quelle previste dalla Carta energetica europea entrino nel nuovo testo (come ha continuato a insistere Barroso nella conferenzastampa finale), anche se si è impegnata a osservarle egualmente. Solana si è cortesemente detto interessato all’dea russa di sicurezza europea: ma ha ribadito che l’Ue non ha competenza per l’antimissile Usa in Europa. Per parte sua, Medvedev ha polemizzato con i Paesi baltici per i loro tentativi di “riscrivere la storia del XX secolo”, sminuendo il significato della guerra antifascista e del ruolo della Russia in essa. Il presidente russo ha anche detto ai giornalisti di temere che il principio dell’unanimità vigente nella Ue venga strumentaliz-

zato dai singoli paesi-membri ai fini di politica interna (come potrebbe essere successo in Irlanda; o nel caso dei veti posti da Polonia e Lituania alle trattative sul nuovo Pca). Il presidente russo aveva anticipato questo tema in un’intervista rilasciata il giorno precedente alla Reuters, dove aveva lamentato la battuta d’arresto subita dal processo di Lisbona.

C’è da notare che quest’ultima uscita “europeista” di Medvedev contrasta sensibilmente con i toni della Rossiiskaya gazeta in occasione del voto irlandese, presentato come una reazione popolare alla politica degli “euroburocrati”. Il giornale ha sarcasticamente evocato “le tante fatiche dell’Europa” attorno alla carta di Lisbona, Fb) e non ha mancato di ricordare che tutti gli Stati hanno un proprio concetto di “democrazia sovrana”

(cioè: non solo la Russia). L’uscita del Presidente suona, piuttosto, meno lontana dal commento della Nezavisimaya gazeta, che dopo essersi chiesta cosa mai abbiano da rimproverare alla Ue gli irlandesi, che hanno prosperato grazie al suo aiuto, ha visto nel riemergere presso i vertici politici europei dell’ipotesi di un’Europa “a due velocità”il possibile punto di partenza di una riscossa europeista nell’Unione. Ancora una volta, invece, appare distaccato e apatico il commento sul referendum irlandese dell’opinione democratica di opposizione, rappresentata dalla Novaya gazeta, che si è limitata a segnalare il “nervosismo” degli europei dopo il voto irlandese, lo stallo che esso impone anche al processo di allargamento dell’Unione e gli ulteriori ostacoli che alla Carta di Lisbona potrebbero porre Repubblica ceca e Gran Bretagna.


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Nella pagina precedente il presidente russo Dmtri Medvedev (in alto) e Michael Khodorkovskii (in basso) A lato il commissario Ue per le relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner partimento di Stato) hanno in diversa misura criticato i recenti passi russi a sostegno dell’Abkhaziya. L’Europa e gli Stati Uniti sono ormai visibilmente presenti sul campo dove si oppongono la Georgia, da un lato, e le regioni secessioniste di Abkhaziya e Ossetiya meridionale, dall’altro. Già da due anni l’Ue è entrata nel negoziato tra la Moldova e la Transdnistria (assieme a Russia, Ucraina e Usa), al fine del mantenimento dell’integrità territoriale moldava nel rispetto delle preoccupa-

sarabia storica) nella Romania. Ora, la Nezavisimaya gazeta ha fatto appello alle autorità russe perché si rassegnino all’apparizione del mediatore europeo anche in Georgia, dove sembra che questo si muova con l’azione convergente degli Stati Uniti sullo sfondo. Dalla prima metà di maggio si è sviluppata un’intensa e silenziosa azione diplomatica che ha visto M. Bryza (Dipartimento di Stato), I. Alasaniya (rappresentante georgiano all’Onu) e lo stesso Solana recarsi a Tbilisi e Sukhumi per elaborare un piano di autonomizzazione dell’Abkhaziya, basato, da un lato, sul rientro dei georgiani espulsi da questa regione nel 1992-93 e dall’altro, sul ritiro dei militari georgiani dal Kodori. In un primo momento, Kommersant ha sospet-

Diverse le reazioni della stampa russa al no irlandese. Fredda la Novaya Gazeta EUROPA, RUSSIA E “CONFLITTI CONGELATI”

La tensione tra Russia e Georgia si alzata preoccupantemetne all’inizio di maggio sul confine provvisorio abkhazo-georgiano, quando lo Stato maggiore dell’esercito russo ha autorizzato il suo contingente di peace-keeper all’uso della forza

in caso di necessità, e le autorità georgiane hanno paventato l’imminenza di una guerra con la Russia. Entrambe hanno aumentato le rispettive forze militari nella gola del Kodori. A differenza che in occasione dell’incidente missilistico in Ossetiya dell’agosto 2007 (vedi la relativa Analisi), questa volta l’Onu, la Ue e la Nato (oltre al Di-

zioni etno-politiche dei secessionisti. La Transdnistria è abitata in massima parte da russi e ucraini che, dall’epoca della dissoluzione dell’Urss, temono la prevalenza dei romeni in Moldova (ex repubblica federale sovietica di Moldavia) ; o addirittura l’assorbimento della Moldova (la maggior parte del cui territorio è quello della Bes-

tato che ciò potesse aver luogo alle spalle di Mosca. Anche la Nezavisimaya ha insistentemente suggerito che sia in atto un’apertura dell’Europa (e, più discretamente, degli Usa) verso i regimi “non riconosciuti” di Abkhaziya e Ossetiya meridionale. Potrebbe essere imminente una soluzione che, pur salvaguardando formalmente il prin-

cipio l’integrità e la sovranità della Georgia, provveda le due regioni di qualcosa di più dell’autonomia (già proposta dai georgiani; e già respinta dagli abkhazi). Alla fine di giugno Mosca e Tbilisi hanno simultaneamente smentito lo scoop di Kommersant, secondo cui esse avrebbero concordato addirittura un piano di divisione dell’Abkhazia in due zone di influenza. Al tempo stesso, russi e georgiani hanno comunque confermato di stare lavorando intensamente attorno a diverse varianti di soluzione della questione abkhaza, tra le quali potrebbe essere quella ventilata da Kommersant .

Le ipotesi di questi due giornali riflettono, evidentemente, non solo i loro sforzi di spremere succulenti leaking da varie fonti diplomatiche ma anche gli ultimi sviluppi della questione transdnistriana. Dopo il vertice Nato-Russia di Bucharest, ai primi di aprile, la posizione russa sull’indipendentismo locale ha trovato uno sviluppo imprevisto. È vero che dai primi del 2007 i russi avevano preso ad affermare che il conflitto moldavo-transdnistriano avrebbe dovuto trovare composizione nell’ambito di trattative bilaterali tra i contendenti (analogamente a quello armeno-azerbaidzhano sul Nagorno-Karabakh: ma a differenza di quello georgiano-abkhazo e georgiano-osseto, per i quali Mosca invocava il precedente kosovaro). Ormai sembra chiaro che la Russia, dopo Bucharest, ha mosso un altro passo e ora favorisce il ritorno della Transdnistria dentro la Moldova in cambio del suo impegno (contemplato, del resto, dalla stessa Costituzione del paese) alla neutralità: cioè, a non aderire alla Nato. Purché, naturalmente, la Romania si decida a riconoscere la frontiera con la Moldova (cosa verso cui la spingerebbe anche il Dipartimento di Stato). L’Ue, nella persona di Solana, ha appoggiato una tale soluzione. La Moldova riunificata potrebbe, così, venire ad occupare in futuro una posizione analoga a quella di Malta, o dell’Austria: nella Ue ma non nella Nato. Ci si domanda se Mosca non abbia già fatto balenare a Tbilisi una soluzione simile. Per ora, almeno pubblicamente, il presidente abkhazo rifiuta di rinunciare all’indipendenza. Questo articolo, scritto da Francesco Benvenuti, lunedì sarà pubblicato dal sito internet www.europressresearch.eu, curato dal «Centro Studi Progetto Europeo»


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economia A destra, il commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani. Toccherà a lui gestire il dossier Alitalia e far luce sui possibili aiuti di Stato che, secondo Bruxelles, potrebbero celarsi dietro il prestito ponte da 300 milioni di euro dato dal governo italiano alla sua compagnia di bandiera per evitare la bancarotta

L’Ad di Intesa promette: «Ogni piano conforme alla normativa Ue»

Alitalia, Passera chiede a Bruxelles una tregua di Ferdinando Milicia

ROMA. «Qualunque soluzione in favore di Alitalia dovrà rispettare le norme comunitarie». È questa la considerazione con la quale il commissario europeo ai Trasporti, Antonio Tajani, ha chiuso l’incontro che ha avuto con Corrado Passera, consigliere delegato di IntesaSanpaolo e advisor per la privatizzazione della compagnia di bandiera. La visita di Passera ieri a Bruxelles rientra nella difficile opera di convincimento di tutti gli stakeholder – oltre all’azionista Tesoro e ai rappresentanti lavoratori anche le istituzioni europee – che il banchiere sta portando avanti tra non poche difficoltà. E Bruxelles è una tappa decisiva per evitare

ERRATA CORRIGE Per uno spiacevole errore, nel numero di liberal di ieri giovedì 3 luglio 2008, il pezzo pubblicato a pagina 6, e dal titolo “Tremonti fa il pessimista ed esclude i tesoretti”, è stato attribuito al nostro collaboratore Gianfranco Polillo. In realtà l’autore del servizio in questione è Francesco Pacifico. Ci scusiamo per l’imprecisione sia con gli interessati sia con i nostri lettori.

ostacoli su un turnaround che – direttamente o indirettamente – non potrà fare a meno di un intervento statale.

L’incontro tra i due è durato circa un’ora e, a quanto si sa, sono stati fissati i confini dentro cui dovrà prendere forma il piano di salvataggio della compagnia. «Ho chiesto espressamente che ogni soluzione a favore del risanamento e del rilancio di Alitalia sia pienamente in sintonia con la normativa comunitaria», ha precisato Antonio Tajani. «Qualsiasi ipotesi che verrà messa a punto per la compagnia dovrà essere ben inserita nelle prospettive e normative europee», la replica di Corrado Passera. Il manager non è voluto entrare nei dettagli del piano, ma ha ostentato comunque fiducia. «Non è nostra abitudine gettare la spugna. La durata del nostro mandato è di 60 giorni», ha ricordato Passera. Ma dopo l’incontro con il commissario europeo per il Mercato interno, Charlie McCreevy, il numero uno di Intesa San Paolo non ha nascosto le difficoltà e il complicato quadro in cui è costretto ad operare ammettendo davanti ai giornalisti che la situazione «è molto difficile». Come se il commissario McCreevy l’avesse messo in allarme su due punti importanti

della vicenda: ossia gli effetti del ricorso di Ryanair e British Airways sulla questione degli aiuti di Stato e sulle modalità di rientro del prestito ponte che il governo italiano ha concesso alla compagnia. Il banchiere ha poi glissato sul numero dei possibili esuberi previsti nel nuovo piano industriale, limitandosi a rilevare che «tutte le cifre finora uscite sono premature». Dei possibili esuberi nella futura compagnia ha parlato invece in maniera più diffusa il presidente di Alitalia, Aristide

Claudio Scajola. «Adesso i numeri li danno davvero tutti, anche perché fa caldo», ha ironizzato, «C’è un advisor che sta lavorando bene. Lasciamolo lavorare e speriamo possa riuscire a farla tornare una grande compagnia aerea». Ha aggiunto il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, «Passera ha detto che quando il piano sarà pronto pronto ce lo farà vedere». A riprova che una conclusione non è così vicina come si spera. Ma se dalla maggioranza si è tentato di rassicurare tutti gli interessati,

Il banchiere ha incontrato Tajani e McCreevy. Il commissario ai Trasporti gli ha spiegato che non ci saranno deroghe, quello al Mercato interno ha ricordato gli impegni sul prestito ponte Police. «I numeri che circolano sui giornali», ha riferito, «sono numeri di fantasia». «I sacrifici», ha però ammesso, «sono quelli che si lasciano immaginare, del resto ce ne erano anche nell’offerta Air France. L’advisor non ci ha ancora dato un’indicazione di piano e quindi dare dei numeri adesso è un po’ come dare i numeri a lotto». Boccia le indiscrezioni, che fissano a quota diecimila il numero di esuberi, anche il ministro dello Sviluppo economico

in primis i lavoratori e con loro i sindacati, dall’opposizione sono arrivate le prime bordate di sfiducia sulla linea seguita attualmente dal governo.

Sferzante il commento Pier Luigi Bersani, ministro dell’Economia nell’esecutivo ombra voluto da Walter Veltroni: «Se il governo davvero farà un’operazione per cui tutto quello che non va, costa ed è in deficit, andrà in una bad company e tutto ciò che va bene in una newco, allora Alitalia la com-

pro anch’io». Toni diversi ma stessa preoccupazione dal suo leader di partito, il segretario del Pd, Walter Veltroni, che ha posto l’accento sul problema degli esuberi: «Sento cifre a sproposito, 4mila o 10mila esuberi. Certo è che per migliaia di persone è a rischio il posto di lavoro, quando bastava chiudere con Air France, qualche mese fa, e Alitalia sarebbe stata in sicurezza». Veltroni torna così su quella che definisce «una magnifica ossessione che vogliamo ricordare al governo», sottolineando che è «a rischio» il lavoro di migliaia di lavoratori e «il futuro delle loro famiglie». Grande preoccupazione tra l’Unione piloti, il sindacato indipendente della categoria che ha chiesto al governo di fare subito chiarezza sulla vicenda Alitalia e sugli eventuali esuberi. «La ridda di voci sul piano in preparazione e sul numero degli eventuali esuberi, che sembrano essere addirittura peggiori di quelli a suo tempo da tutti respinti proposti da Air France- Klm, crea un forte allarme sociale tra tutte le categorie dei dipendenti», ha scritto l’Up in una nota, «Serve subito chiarezza per non ripetere la condotta poco trasparente nella gestione della vicenda da parte del precedente governo».


economia

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L’Ance, l’associazione dei costruttori, chiede al governo più garanzie sulle infrastrutture strategiche

Grandi opere,l’edilizia demolisce il Dpef di Marco Palombi

d i a r i o ROMA. Risorse poche, ballerine e dall’incerto tempo di stanziamento. Nessun intervento sui tempi biblici della burocrazia italiana. Al di là dei cortesi toni di prammatica, questa sono le critiche che l’Ance – l’associazione dei costruttori – ha rivolto al Dpef di Giulio Tremonti durante la sua assemblea annuale per quanto riguarda il capitolo infrastrutturale. Il presidente Paolo Buzzetti ha definito «apprezzabile» che nel testo siano elencate le opere che l’esecutivo ritiene necessarie e ha salutato positivamente l’impegno del governo a rilanciare l’edilizia popolare. Ma le cortesie per gli ospiti – nella persona del ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli – finiscono qui. Come detto il cahier de doléances dei costruttori, gente che mette insieme oltre l’11 per cento del Pil, è di quelli belli spessi: per investimenti onerosi e di lunga durata come le infrastrutture pubbliche serve certezza – spiega Buzzetti – su autorizzazioni, tempi e soldi, ma il «Dpef appena diffuso non coglie del tutto questa gerarchia delle informazioni». Soprattutto sul «quadro

Altra “inaccettabile” disfunzione per le imprese edili è l’annosa questione dei tempi burocratici per l’autorizzazione delle infrastrutture: in media sei anni per arrivare ad aprire un cantiere per opere da meno di 50 milioni di euro, che salgono a otto anni se l’importo è maggiore. E non è che la situazione sia stata migliorata dalla decisione dell’ex ministro Di Pietro di abolire l’uso dei contenziosi extragiudiziari: in soldoni, per risolvere una controversia tra due parti non ci si può più rivolgere a un arbitro terzo, ma procedere per via ordinaria davanti a un magistrato (con il prolungamento di tempi che questo comporta).

E poi c’è la questione fiscale («il comparto è utilizzato per fare cassa”) e l’aumento delle materie prime. Matteoli, dal canto suo, non è Mandrake: ha proposto un tavolo di confronto sui prezzi, promesso certezza sui tempi e anticipato che a metà luglio incontrerà il direttore della Bei. Motivo: le risorse non ci sono. Secondo il ministro quelle pubbliche «saranno ampia-

d e l

g i o r n o

Mediaset, buona la raccolta pubblicitaria La raccolta di Publitalia, la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, «è cresciuta nel primo semestre tra il 2 e il 3 per cento». Lo ha dichiarato il vice presidente, Pier Silvio Berlusconi aggiungendo che se «i primi sei mesi sono andati direi bene e restiamo positivi sul futuro, è tuttavia difficile, alla luce del momento economico, fare previsioni». A fronte dell’incertezza congiunturale, anche il direttore finanziario Marco Giordani ha confermato la difficoltà di elaborare stime sul futuro, ma ha anche sottolineato che «luglio ètornato a crescere sopra il 3 per cento e le condizioni di oggi consentono di prevedere un secondo semestre in crescita».

Il petrolio non fermerà la sua corsa Alexei Miller, amministratore delegato del colosso energetico russo Gazprom, ha affermato ieri di prevedere che il prezzo del petrolio potrebbe arrivare a 250 dollari al barile. Gazprom prevede poi che il gas russo in Europa costerà 500 dollari per ogni mille metri cubi entro la fine di questo anno. A New York, sul fronte delle contrattazioni, i futures sul petrolio con scadenza ad agosto sono stati scambiati a quota 143,84 dollari al barile, in rialzo di 27 centesimi rispetto alla chiusura di mercoledì.

Eni avvia separazione società del gas Eni ha avviato il processo di attuazione dei principi di separazione funzionale previsti dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas (AEEG). Tale processo - si legge in una nota - riguarda le società del gruppo che gestiscono le attività infrastrutturali nel settore del gas oggetto di regolazione (trasporto, distribuzione, stoccaggio e GNL) che, a livello organizzativo, sono state separate funzionalmente dalle attività di produzione e vendita. Il 27 giugno 2008, su indicazione di Eni, i consigli di amministrazione di Snam Rete Gas, Italgas e Stogit hanno individuato nella persona dell’Amministratore delegato il gestore indipendente, previsto dalla delibera 11/07, e deliberato la modifica degli statuti con l’inserimento di clausole relative agli obiettivi di neutralità, non discriminazione ed efficienza nella gestione delle infrastrutture e delle informazioni commercialmente sensibili. Tali modifiche sono già state approvate dalle assemblee di Italgas e Stogit il 30 giugno scorso.

di certezze del finanziamento delle opere». E qui i numeri: l’impegno indicato dal governo per il triennio 2009-2011 assomma teoricamente a oltre 36 miliardi di euro (14 miliardi per la Legge Obiettivo, 10,6 per la rete Anas e 11,6 per Rfi), solo che «non viene riportato alcun impegno del governo nel garantire un livello di stanziamenti adeguato».

Il governo punta sul project financing, i costruttori invece sono più terragni e vogliono vedere il portafogli aperto: «Più che dell’attivazione possibile di risorse e della dimensione di ipotetici volani finanziari vorremmo fossero indicati, chiaramente, i fondi che con auspicabile certezza saranno messi a disposizione negli anni per le opere che sono state individuate». E per chi fosse duro di comprendonio, Buzzetti conclude: «Il governo indichi con chiarezza quali opere saranno realizzate, quando e con quali risorse». Detto questo, e anche ammesso che i soldi arrivino tutti, resta che lo stato italiano investe nelle sue infrastrutture 12 miliardi l’anno in meno rispetto alla media Ue. In dieci anni fanno 120 miliardi: avremmo costruito, elenca impietoso Buzzetti, «quattro Tav Torino-MilanoNapoli oppure 40 Metro C a Roma o 60 Pedemontane Venete o 14 Salerno-Reggio Calabria».

Buzzetti: serve maggiore chiarezza sui fondi e sui tempi. Matteoli: pochi soldi in cassa mente ridimensionate», mentre dalla Ue «nella migliore delle ipotesi» arriveranno 14 miliardi di euro invece dei 25 necessari. Il governo, d’altra parte, sa che le opere pubbliche sono fondamentali per rilanciare la crescita e chiede uno sforzo ai privati: i soldi che mancano, dovranno arrivare dal project financing. Buona idea, che ha un punto debole: pur essendo a disposizione dal 1999 questo strumento è assai poco utilizzato nel nostro Paese. Quale privato rischia soldi su un’opera di cui non può prevedere i tempi di realizzazione, essere sicuro delle risorse impiegate e, spesso, della forma finale che prenderà?

Vendite moto in calo del 5,7 per cento Nel mese di giugno si registra nuovamente una flessione per il settore delle 2 ruote a motore, anche se con cifre più contenute rispetto a maggio. In questo periodo sono stati consegnati complessivamente 70.211 veicoli, circa 4.000 in meno del giugno 2007 (-5,7 per cento). Lo comunica L’Ancma,Associazione Nazionale Ciclo Motociclo Accessori. Le immatricolazioni (di 50cc) si fermano a 50.884 unità (-6,5 per cento), tra queste gli scooter (superiori a 50cc), con 33.991 pezzi venduti, si comportano meglio (-4,8 per cento). Il comparto con il maggior decremento in termini percentuali è quello delle moto con 18.541 vendite (-9,7 per cento), mentre i 50cc arrivano a 19.327 registrazioni (pari a -3,5 per cento rispetto allo stesso periodo del 2007).


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libri Pur calati in pieno scontro ideologico, politici come Aldo Moro non si tiravano indietro rispetto ai valori. Mediavano fino al compromesso, ma non flettevano sui principi

Un saggio di Salvatore Savoia ripropone l’attualità del pensiero di Aldo Moro

Storia maestra? Ecco la prova di Angelo Sanza a mia lunga militanza parlamentare nell’area cattolica mi permette di cogliere l’occasione di questa interessante pubblicazione curata da Salvatore Savoia per ricordare Aldo Moro nel suo lungo impegno alla Costituente (“La Costituzione di Aldo Moro”, Pensa Multimedia). Parliamo del lontano 1947, ma alcuni argomenti sono incredibilmente attuali, come se il tempo che scorre non avesse intaccato i contenuti di un pensiero politico troppo presto strappato al servizio del Paese, oltre che all’affetto dei suoi cari. In questo ultimo periodo, Chiesa ed epigoni del laicismo più acceso hanno incrociato le lame su famiglia, vita ed etica e abbiamo sentito affermazioni di ogni genere. Da un lato la Chiesa che, lungi da essere confinata nel silenzio, dove qualcuno vorrebbe relegarla, ha argomentato punto su punto le proprie posizioni a difesa dei capisaldi della comunità degli uomini nella visione di Dio. Dall’altra parte abbiamo assistito a confronti legittimi su posizioni democraticamente conflittuali e a mistificazioni d’ogni genere. La figura di Aldo Moro torna attuale proprio nel suo intenso impegno costituente durato due anni. Vorrei richiamare alcuni passaggi semplici ma efficaci. Primo fra tutti quello che spiega il concetto di famiglia naturale come concetto culturale e ordinamento giuridico. Nei rapporti fra Stato e Chiesa, in ordine all’acquisizione dei Patti lateranensi nel testo costituzionale, Moro ne sottolineava il valore storico, politico e di senso comune per i cittadini.

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All’epoca essere cattolici non costituiva una colpa da cui farsi perdonare, l’Italia intera lo era e lo stesso Pci aveva difficoltà nel sostenere tesi troppo avverse alla continuità di un’istituzione che aveva stabilito un legame profondo con l’identità italiana. Moro nei suoi interventi rintuzzava continuamente ragioni di ordine formale sollevate dalla parte atea della costituente, difendendo quel processo di maturazione della società italiana che aveva portato alla stipula dei Patti, pur in un periodo storico poco felice. Considerava quella convenzione come «la pace religiosa nell’ambito del popolo italiano».

Sulla famiglia, la «famiglia naturale», Aldo Moro era riuscito a creare un ponte addirittura con Palmiro Togliatti. An-

glia in quanto società». Non capisco cos’altro dovremmo aggiungere noi o la Chiesa per convincere chi ancora si ostina a mascherare la battaglia sui Dico come un confronto sulle libertà civili. Aggiungo che i costituenti, e Moro in particolare, hanno voluto blindare l’istituto familiare di fronte anche ai poteri dello Stato. La persona umana e la famiglia erano i limiti davanti ai quali lo Stato doveva piegarsi. Cito ancora Aldo Moro: «Quando si afferma che la famiglia è una società naturale, si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte

rato non isolatamente, ma come centrato in tutta la sfera sociale in cui si espande», e la famiglia è la logica espansione della persona davanti a cui lo Stato trova un limite. Questi concetti già nel lontano ’47, in un Paese appena uscito dagli orrori della guerra e in pieno scontro ideologico, venivano considerati come «la garanzia stessa della democrazia». Sulla scuola: puntava tutto sul ruolo che doveva svolgere per sviluppare «la personalità dell’uomo in fieri» nelle sue esigenze morali e spirituali. Tutto un altro approccio rispetto al mero servizio promosso negli ultimi vent’anni dalla scuola italiana, servizio metodologico che abbiamo visto, proprio in questi giorni, emergere con la vicenda dei ragazzi di Catania. Dei ragazzi che chiedono

La figura del presidente della Democrazia Cristiana giganteggia rispetto alla difesa della tradizione cristiana della libertà dell’uomo, in un periodo in cui l’invadenza della cultura massimalista lasciava poco spazio al dialogo datevi a rileggere i resoconti del 15 gennaio 1947 dell’adunanza plenaria, troverete affermazioni che - alla luce delle odierne dispute - tracciano un confine difficilmente superabile e che fu acquisito come patrimonio politico e culturale addirittura dal Pci di Palmiro Togliatti. Cito Moro: «La famiglia è una società naturale, fu adottata come formula dalla prima Sottocommissione quasi all’unanimità. Essa fu proposta dall’onorevole Togliatti, il quale, dopo discussione, concordò su questo punto che nella Costituzione si dovesse dichiarare il carattere naturale della fami-

ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare». Oggi, in un momento di raccoglimento e preghiere, vorrei ricordare a tutti queste parole di Moro sulla famiglia che metterebbero a tacere molti epigoni della decostruzione dei valori ebraico-cristiani della nostra comunità. La battaglia della Chiesa di questi mesi è ben spiegata con le parole di Aldo Moro alla Costituente. Dove sull’articolo uno della Carta si esprime il significato di Stato, che è una diretta emanazione della persona. Moro: «Lo Stato come organismo politico e sociale nasce dall’uomo, conside-

contenuti e un corpo insegnante che risponde picche, richiamandosi al metodo per sfuggire al merito. Moro che aveva vissuto la genesi di questo atteggiamento, cioè l’impossibile convivenza nello Stato di una componente comunista antitetica alla democrazia liberale, era stato più determinato sui valori dell’insegnamento, inteso come strumento «per l’affermazione della dignità dell’uomo».

L’Italia viveva in quel tempo una situazione che portava a temperare tutto, leggi comprese, perché nulla fosse deciso,

niente fosse definito. L’indeterminatezza era utile al mantenimento di un equilibrio politico innaturale e unico in tutto l’Occidente. Leggi vaghe servivano per essere interpretate a seconda della cultura dei loro interpreti: liberali o comunisti. Oggi viviamo ancora - incredibilmente - in quella indeterminatezza purtroppo, con un’unica eccezione però: che pur calati in pieno scontro ideologico, politici, come Aldo Moro, non si tiravano indietro rispetto ai valori. Mediavano fino al compromesso, ma non flettevano sui principi; lo facevano meno di quanto molti politici - figli del laicismo di oggi - facciano, trascinati nello shopping dei valori. In questo la figura di Moro resta comunque nel solco più vero del pensiero cristiano e cattolico. La citazione che Salvatore Savoia fa della frase di Simone Weil sulla «finzione del bene pubblico» è quanto mai pertinente rispetto ad una figura - quella di Moro - che giganteggia rispetto alla difesa della tradizione cristiana della libertà dell’uomo, in un periodo dove l’invadenza della cultura massimalista lasciava poco spazio al dialogo. Una libertà che la tradizione cristiana porta fino all’estrema conseguenza: fino alla negazione stessa di Dio. San Paolo parla appunto di «follia della Croce», per determinare la cifra di un Occidente che vuole costruire la propria identità sulla libera scelta. Libera scelta che Aldo Moro ha saputo esprimere fino alla fine. A figure come la sua e al suo estremo sacrificio dovremmo saperci ispirare noi tutti.


musica

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Il promoter Roberto De Luca annuncia un concerto della storica band inglese il prossimo anno a Mestre

Tremate, i Led Zep sono tornati di Alfredo Marziano Dog” in un blues spettrale ed estrae dal cassetto titoli dimenticati, vecchi lati b di 45 giri, l’epica ballata celtica “The Battle Of Evermore”.

orpresa (e fan già in fibrillazione): il primo annuncio mondiale di un nuovo concerto dei Led Zeppelin, dopo la già leggendaria esibizione del dicembre scorso alla O2 Arena di Londra, arriva dall’Italia. Reduce da un Heineken Jammin’ Festival in tono minore, a dispetto del solito effetto calamita garantito da Vasco Rossi, il promoter Roberto De Luca rilancia anticipando la presenza al Parco San Giuliano di Mestre, l’anno prossimo, dei pesi massimi del rock mondiale: gli U2 e, appunto, il quartetto di “Stairway To Heaven”. Un inatteso colpo di teatro, il suo, ma bisogna dire che i tempi sembrano coincidere: per quella data sarà sicuramente calato il sipario sulla digressione (disco più concerti) che Robert Plant si è voluto concedere accanto alla star americana del country Alison Krauss bloccando a terra il Dirigibile. Che Jimmy Page, in particolare, sembra voler rimettere in volo quanto prima.

S

«Posso assicurarvi», ha raccontato il chitarrista alla stampa dal Giappone, nel gennaio scorso, «che la massa di lavoro che abbiamo svolto per lo show alla O2 Arena, con tutte le prove per metterlo in scena, è stata probabilmente uguale a quella che si svolge per un tour mondiale». «In questo momento», aggiunse allora, «Robert Plant ha in corso un progetto parallelo ed è molto occupato. Lo sarà fino a settembre, quindi non posso aggiungere altro». Fine del telegramma. Il destino, come sempre, è in mano a loro due, il frontman dai perenni riccioli biondi e il guitar god un po’ arrugginito ma sempre luciferino. John Paul Jones, the quiet one com’è tradizione tra i grandi bassisti rock inglesi (Bill Wyman degli Stones, John Entwistle degli Who), tace ricordando ancora lo scherzetto che i due ex compagni gli fecero negli anni Novanta, quando si reinventarono una versione mediorientale e maghrebina del repertorio Zep senza degnarlo di un colpo di telefono. E il giovane Jason Bonham, figlio di John e suo erede sulla seggiola del batterista, non può far altro che incrociare le dita e attendere la chiamata («Fosse per me, ci starei subito», ha dichiarato recentemente alla Bbc). Il gioco di ruolo è ormai ben delineato: Plant, a cui stanno molto a cuore le sorti dell’ottimo disco inciso con la Krauss, “Raising Sand”, continua a frenare mentre “Pagey” vorrebbe schiacciare il pedale dell’acceleratore. Nel frattempo si tiene in eserci-

Da sinistra, in senso orario: la formazione originale dei Led Zeppelin all’esordio; Jason Bonham, figlio del batterista “Bonzo”; Robert Plant insieme a Jimmy Page

zio, salendo sul palco insieme a Jones - con i Foo Fighters di Dave Grohl, l’ex batterista dei Nirvana che dell’indi“Bonzo” menticato Bonham e degli Zeppelin è uno dei fan più sfegatati a livello mondiale (è successo di nuovo a Londra, l’8 giugno scorso, allo stadio di Wembley). Perché le cose oggi stan-

Potrebbe diventare il tour del secolo, capace di stracciare persino il Bigger Bang Tour dei Rolling Stones che incassò 558 milioni di dollari

no così: il Dirigibile stenta a decollare, ma è come se lo si sentisse già ronzare nell’aria, con la musica che torna a rimbalzare da una parte e l’altra dell’Atlantico, “A Wembley Page”, Jones e Grohl ci hanno dato dentro con “Rock And Roll” e “Ramble On”, in concerto con la Krauss Plant trasforma l’hard rock di “Black

Sanno bene, tutti e due, che di Zeppelin c’è ancora fame insaziabile: prova ne sono le centinaia di migliaia di richieste (qualcuno dice addirittura milioni) pervenute per trovar posto tra i fortunati ventimila della O2. Da quel giorno, su una probabile reunion in pianta stabile del gruppo si è espresso chiunque: promoter, manager, giornalisti, colleghi. «Aspetto da un momento all’altro una chiamata di Jimmy», ha confidato alla stampa il ciarliero David Coverdale, vocalist dei Whitesnake e prima ancora dei Deep Purple che si autocandida a fare da spalla alla rentrée dei quattro. Si concretizzasse davvero, potrebbe diventare il tour del secolo, capace di stracciare persino il Bigger Bang Tour dei Rolling Stones che tra il 2006 e il 2007 incassò al box office la bellezza di 558 milioni di dollari. I Fantastici Quattro, che il 29 luglio del 1973 a Tampa (Florida) batterono il record di presenze stabilito otto anni prima dai Beatles allo Shea Stadium di New York, non sono nuovi ad exploit di questo tipo. Ma sanno anche di rischiare grosso, e non vogliono farsi mal consigliare dalla fretta. In fin dei conti, si tratta di fare i conti con un mito che si è sempre alimentato di mistero, e che una tardiva sovraesposizione potrebbe malamente sgualcire. Plant, il più restio a imbarcarsi in un’impresa nostalgica che va contro la sua ostentata voglia di guardare avanti (si dice che per seguire i suoi progetti solisti abbia respinto al mittente un’offerta da 135 milioni di euro: nel caso, chapeau), ne sembra il più consapevole: e come i membri dei Pink Floyd dice “ni” alla reunion, in attesa di una causa o di un’occasione giusta. Gli Zeppelin, come gli Stones, hanno incarnato in gioventù l’essenza del sesso, droga e rock’n’roll, sfasciato camere d’albergo e inventato il rock da stadio. Ma per loro la canzone non è mai rimasta la stessa: ogni nuovo disco, ogni nuovo show serviva ad alzare l’asticella delle ambizioni, a sperimentare ed esplorare spazi nuovi. Erano abituati, loro, a scendere in città come un’orda barbarica, brandendo il martello degli dei e lasciandosi alle spalle, qualche volta, macerie fumanti (Stadio Vigorelli di Milano, 1971). E se ora una serata dovesse andare storta? Se dopo qualche settimana si cominciasse a sentire puzza di routine? Agli dei, anche a quelli del rock, non si addice la mediocrità.


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personaggi

Un grande poeta rintraccia la genesi «archetipica» della squadra italiana più amata al mondo, attraverso il suo simbolo per antonomasia: Giampiero Boniperti

Il piede della Signora di Roberto Mussapi

irca quindici anni fa, nella casa editrice per cui lavoravo, giunse, invitato, con la persona che lo aveva atteso a Malpensa, uno dei maggiori scrittori africani, Hamadou Kouruma, autore di un libro leggendario della letteratura nera, I soli delle indipendenze. Erano le undici del mattino e lo scrittore era un po’ stordito dal jet leg, ma, dopo un caffè italiano, che gustò estatico, e dopo i saluti, subito esclamò: «Ah, aujordui est lundi...». Risparmio la citazione in francese, che traduco letteralmente: «A proposito, oggi è lunedì, che cosa ha fatto la Juventus?».

C

Proveniva dalla capitale del Togo, in cui viveva, e questa, dopo i primi, calorosi saluti, era la sua prima affermazione sul suolo italiano. Probabilmente gli amici presenti, tutti interisti e qualche milanista, ebbero un’ennesima percezione epifanica del senso profondo, magico, archetipico della Juventus. Che non è la squadra della sua città, a differenza delle due milanesi, come attestava la realtà in quella redazione milanese. O lo è anche, ma non principalmente. Così come il Milan è anche una squadra che ha una vasta fama internazionale, che però non ne costituisce la quintessenza, bensì il frutto di meritati trionfi internazionali. Fama abbastanza recente, comunque storica, quando invece il fascino della Juventus, che pure avrà pur avuto una genesi nella storia, è nel fatto che tale genesi è avvolta nelle aure del mito, come la fondazione di Roma. D’altronde ha un nome latino, non legato a una città, universale per antonomasia. E quel nome indica una condi-

zione di perenne giovinezza, l’età di Achille. Poiché alla Juve si parla latino, nomen est omen: in quel nome è già scritto un destino. Un destino appunto universale come la lingua latina, e un destino le-

Ha forgiato nel tempo campioni non sentiti tali solo dai suoi tifosi: da Schillaci a Buffon, da Scirea a Del Piero gato alla gioventù, l’età del Partigiano Johnny di Fenoglio, di Jim Hawkins, il ragazzo che

parte per l’Isola del Tesoro, l’età del sogno e dell’avventura dell’uomo che non è più bambino, che ha doppiato l’età fanciullesca di Pinocchio, ma non è ancora completamente adulto, che è già e insieme non è ancora: dell’uomo ha la solidità, la forza, del ragazzo la fame, il desiderio. Più meno sempre in quel periodo andai in Cina. Niente di simile alla situazione attuale. Quindici anni fa quel paese non aveva le relazioni che da qualche anno lo legano, con discordanti modalità, all’Occidente. I nostri erano ancora mondi lontanissimi. Appena arrivato nella hall dell’albergo di una grande città mi si avvicinò per i bagagli un ragazzino che parlava un inglese comprensibile e un discreto italiano, che subito esibì dicendo: «Italia? Come sta Di Pielo?».

Di Pielo era Del Piero, l’autore di un goal mondiale che lo aveva elevato a figura celebre nel mondo del Sol Levante. Di Pielo è un nome, uno di quei nomi di cui la Juventus, come un potente archetipo, pare es-

sere nello stesso tempo madre, placenta e fabbro forgiatore. La Juve nasce su quei nomi, che in lei vedono la luce, come nelle fiabe nascono in un cavolo i bambini fatati, ma immediatamente si trasforma in vulcanico forgiatore, li fonde, li plasma, li sbalza.

Zidane aveva nel Dna la classe, il talento mostruoso di Zidane. Ma, nonostante le polemiche contro il calcio italiano per un noto, triste episodio, continua a riconoscere che è diventato Zidane grazie alla Juve. Non si tratta di far nascere il campione dove non c’è il talento. Ma di far sbocciare quel talento e disciplinarlo, appunto, forgiarlo. Un po’ come in poesia: poeta ovviamente si nasce, se non lo nasci non lo sarai mai. Ma poeta, anche, si diventa. Se non accetti e onori la tua nascita, non segui la strada, non ti disciplini, ti perdi nelle vaghezze della poeticità, per intenderci, il dribbling

di un Beccalossi. Per questo i nomi della Juventus hanno una doppia identità, quella individuale e quella della squadra. Stratosfericamente lontani dai nomi-bandiera, di cui ogni squadra è capace. Non a caso la Juventus forgia anche campioni che non sono sentiti tali solo dai suoi tifosi, ma anche dagli altri, anche da quelli che non la amano: Boniperti, Tardelli, Scirea, Platini, Schillaci, Ravanelli, Zoff, Gentile, Cabrini, e ora Buffon e Del Piero, e tanti altri, sono campioni di tutti, come nelle altre squadre accade solo eccezionalmente: Riva, Rivera, Bulgarelli, Picchi, Zaccarelli, Kakà, Costacurta, Paolo Maldini, che più sono la loro squadra più sono contemporaneamente altro. Ma nella Juventus non è un’eccezione, e non solo perché senza i blocchi della Juve non si vincono i mondiali. Certo, anche per questo, ma c’è dell’altro, inesplicabile.

Che alle enigmatiche ragioni del fato si debba attingere per comprendere il fascino della squadra che ha più tifosi nel Sud d’Italia e del mondo, che è amata in Romagna come in


personaggi Qui accanto, Giampiero Boniperti da giovane; a sinistra, un’immagine più recente del grande campione juventino; in basso a sinistra, Boniperti fotografato insieme con Giovanni e Umberto Agnelli, e l’avvocato Vittorio Chiusano. Qui sopra il giocatore bianconero Gaetano Scirea, scomparso prematuramente in un incidente d’auto, durante i Mondiali di calcio del 1982

Brianza, in Calabria come in Costa Azzurra, in Giappone come in Venezuela, è confermato anche dalla cattiveria rancorosa che da sempre caratterizza molti (non tutti) suoi avversari, spesso (non sempre) perfidi nemici. L’accanimento di Calciopoli, il piacere con cui pregiudizialmente si è punita solo la squadra mito dell’immaginario italiano e non solo, è sintomatico. Al di là di errori e colpe, il metro di giudizio è stato squilibrato, e l’odio suscitato da importanti mezzi di comunicazione inimmaginabile. Non la giusta punizione, ma scudetti sottratti di cui uno regalato (a una squadra giunta terza con quindici punti di distacco) scandalosamente regalato e incredibilmente accettato (anzi, sollecitato), quando molti campioni, tra cui alcuni del Milan, hanno sempre detto di sapere che quegli scudetti erano stati vinti sul campo.

La Juventus non è stata punita per errori dei suoi dirigenti (non penali, e non provati, ma errori, e poi l’arroganza genera vendetta), ma si è cercato di cancellarla.

Con un nome così è impossibile. Con una storia così è impossibile. Ha resistito dove ogni altra squadra sarebbe crollata. Chi riesce a immaginare, non in un’Inter o una Fiorentina, ma in una squadra che vince sempre tutto, di colpo retrocessa e penalizzata, costretta a svendere molti suoi fuoriclasse, un equivalente come campione e uomo di Buffon o Del Piero, capaci di giurare fedeltà alla squadra in serie B, freschi di un campionato del mondo?

Probabilmente solo un caso: Paolo Maldini, Billy Costacurta, solo loro due, sarebbero scesi con il loro grande Milan anche all’inferno. Sono della stessa pasta dei due bianconeri. La Juventus sa di essere da molti odiata, e sa che è causa l’ invidia. Sentimento che non mi ha mai sfiorato (ci mancherebbe!), che disprezzo in assoluto, ma che esiste, e quindi va accettato. Come è nel Dna juventino. Certo quando il presidente dell’Inter, Moratti, ringalluzzito, urla che vuole ardentemente che la sua squadra sia odiata, ci troviamo di fronte a un caso di emulazione fallita, che degenera immediatamente in involontaria parodia.

4 luglio 2008 • pagina 21

Il poeta Roberto Mussapi, grande tifoso della Juve, ha dedicato questa poesia ai grandi campioni bianconeri che vinsero i Mondiali dell’82

’82, LA JUVE MUNDIAL Li ricordo avanzare inesorabili, distendersi con forza alla vittoria finale: prima, dal buio degli spogliatoi uscivano incerti, poi iniziarono a vincere, sempre di più, sempre. Ricordo Gentile, dominò sempre l’avversario, vincendo ogni torneo, respirandogli sul collo, ognuno cedette spossato, annichilito dalla sua potenza. Ricordo Tardelli, il proiettile e il grido, e l’alto pianto al cielo teso e lucente, Zoff che copriva le spalle con gli occhi ferrigni, ricordo tutti, che per la corsa a testa alta, guardando i nemici lontani, oltre il cavallo, chi per la rapidità d’esecuzione, la mira fulminea con cui finì il portiere, chi per le folate furibonde sulla fascia, i lanci di Cabrini come bombe sul centro. Ma lui, che anticipava come non avendo avversario, che combatteva col tempo e non coll’uomo, che prima di ogni altro fulminò il secondo, rendendo fuori tempo la partita avversaria, lui animato dal suo metronomo interno, col battito del cuore sostituì l’orologio, lui cancellò e rigenerò il tempo. E non fu necessario alcuno scontro, sempre agì di previsione anticipando, sempre determinò il lancio in solitudine, nel cuore della partita ed estraneo al suo strepito, al tumulto di Gentile e Tardelli, alla rapida corsa di Bruno Conti, alle frecce di Rossi. Giocò la partita d’anticipo, contro un avversario invisibile: lineare, apollineo nel correre, silenzioso. Lui più di tutti ricordo, che diresse in silenzio l’esercito e antevide ogni mossa dell’avversario e disegnò la vittoria, tracciò la scia nell’alta marea. Roberto Mussapi da La Polvere e il fuoco, Mondadori, 1997

Una cosa è accettare, magnamente. Una sollecitare, gridare, anch’io, sono più forte, anch’io voglio l’odio. Ricordo un film, Miseria e nobiltà, in cui Totò, invitato in una casa di nobili, si mise in testa una corona, al collo uno scudo stemmato, e si presentò tendendo la mano per riceverne un bacio, pronunciando: «Orsu». Senza accento, of corse. Tornando a noi, la Juventus ha pagato eccessivamente, da sola, e in seguito a una campagna programmata, ma gli eccessi di arroganza si dovevano evitare, perché non appartengono al suo Dna. In tempi non sospetti l’allora astro nascente degli allenatori italiani, Cesare Prandelli, parlando del suo indelebile ricordo degli anni juventini, disse, se ben lessi e se ben ricordo: «Più che juventino sono bonipertiano». Che è il modo classico di essere juventino. Grande calciatore, grande presidente, grande scopritore di talenti, Giampiero Boniperti incarna una rara forma di eleganza in cui passione e educazione convivono. Tenacia e rispetto, caparbietà e understatement. Festeggiare il suo compleanno significa anche festeggiare un pilastro della storia della squadra più amata anche per merito suo. Una squadra la cui natura fatale è segnata anche dalla tragedia, quando altrove si vedono principalmente farse. Dopo lo sgomento del Superga, che portò nel regno degli arcangeli, di colpo, gli undici meravigliosi del Grande Toro, il fato nel suo volto tragico si è accanito contro l’altra squadra nata a Torino. L’Heysel, che risuona ancora nella mente come un coro luttuoso, Gaetano Scirea, esploso in un’automobile, come sottratto al tempo quotidiano da un fulmine scagliato da una divinità crudele… E prima ancora i trentaquattro marinai precipitati da un viadotto mentre da La Spezia correvano in pullman a Torino a sostenere la squadra contro l’Inter. Precipitati in mare, subito nel fondo con le loro giovani vite, perle, quelli che erano stati i loro occhi, e le loro labbra mutate in corallo.

Listati a lutto, in quella domenica 18 dicembre 1983, i nostri batterono l’Inter, inutile un prodigio di Zenga, il primo goal, del francese, in onore alla loro morte, il secondo, per la loro resurrezione. Quando escono dal buio dello spogliatoio, il testimone invisibile passato loro da Charles e Boniperti ora assume i volti di Buffon, di Del Piero, di Birindelli, di Vincenzo Iaquinta.


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LA DOMANDA DEL GIORNO

Quale la colonna sonora delle vostre vacanze? LA COLONNA SONORA SARÀ QUELLA DI SEMPRE: ASCOLTO SOLTANTO MINA, BATTISTI E DE ANDRÉ La colonna sonora della mia estate? Quella di sempre, quella degli ultimi trent’anni della mia vita. Mina, Battisti, De André. Non voglio fare la classica bacchettona nostalgica che critica la musica di oggi e se la prende con i giovani che la seguono. Ci mancherebbe altro. Ma volete mettere le atmosfere che ancora oggi riescono a creare canzoni come Fumo blu, La collina dei ciliegi, oppure Bocca di rosa e Parole parole? E non si pensi che la scelta sia dettata dalla mia età, visto che mia figlia (ventotto anni suonati) porta con sé quasi le stesse canzoni. Qualcosa vorrà certo dire.

Agnese Trevisan - Venezia

NON NE HO UNA PRECISA, IN GENERE MI SINTONIZZO SULLE FREQUENZE PIÙ COOL Senza dubbio quella delle frequenze radio che ascolto di più. In particolare ce n’è una che sembra fatta appositamente per me: alterna una canzone di oggi a una dei bei tempi passati, spaziando dagli anni Settanta a oggi con pregevoli zoom sugli anni Ottanta del rock. Ovviamente poi ci sarà l’immancabile tormentone estivo che ci verrà propinato

LA DOMANDA DI DOMANI

Ha fatto bene Berlusconi a rinunciare a Matrix? Rispondete con una email a lettere@liberal.it

quattro-cinque volte al giorno. Mi auguro solamente non sia una di quelle tracce sonore tutte fatte di suoni artificiali elettronici... Piacciono molto, ma dai tredici ai diciotto anni. Grazie e a presto.

Francesco Mori - Milano

LE CANZONI PIÙ GETTONATE DELLA VACANZA? QUELLE BEAT, SOUL E SKA CHE SUONO DA ANNI Ovviamente la colonna sonora delle mie ferie sarà la mia. Mi spiego: da cinque anni ho messo su un gruppetto di giovani artisti che come me amano moltissimo mescolare generi diversi (dal soul al beat e perché no, qualcosina anche di ska). Da poco è uscito il nostro primo album, nulla di che in realtà, nove canzoni pubblicate in modo amatoriale e a tiratura limitata. Ma piuttosto orecchiabili e tutte in lingua inglese (che nel nostro caso si presta di più rispetto alla lingua italiana). Qualche eccezione? Led Zeppelin, Pink Floyd, Dreal Theatre e Alanis Morissette. Ah, dimenticavo: il mio giovanissimo e bravissimo collega Davide Combusti in arte The Niro. Forse l’unica vera rivelazione del 2008.

Danilo Di Gennaro - Roma

L’ULTIMO ALBUM-RACCOLTA DI LIGABUE, L’UNICO CANTAUTORE DAVVERO BRAVO IN ITALIA Uno su tutti, sempre e comunque: Luciano Ligabue. Da poco è uscita la seconda parte della raccolta più bella che abbia mai fatto, tutti i successi dagli inizi allo scorso anno. Due cd e altrettanti dvd che ripercorrono gli ultimi quindici anni di carriera di quello che per me è il cantautore italiano più bravo e completo sulla scena artistica. Ascoltare i suoi brani per me è come rivivere, in modo profondo anche se concentrato, tutti i momenti più significativi della mia vita. Come non lasciarsi avvolgere da Piccola stella senza cielo, Quella che non sei, Eri bellissima, L’amore conta. Oppure, andando davvero molto indietro negli anni, Souvenir, Libera nos a malo, Urmando contro il cielo e Balliamo sul mondo. Insomma... altro che canzonette e tracce da balli latinoamericani di gruppo. Qui si tratta di storia, cari lettori.

IL CONTRIBUTO DEI MODERATI Si sono riuniti a Roma i coordinatori regionali dei Circoli liberal, alla presenza del presidente della Fondazione Ferdinando Adornato, del coordinatore nazionale Angelo Sanza e del segretario organizzativo nazionale Vincenzo Inverso. Nel corso della riunione il presidente Adornato ha ripercorso le tappe che hanno portato nei giorni scorsi alla presentazione dell’Appello per la Costituente di Centro, ed alla sottoscrizione convinta del Comitato dei promotori, di cui oltre allo stesso presidente della Fondazione liberal, ne fanno parte il candidato premier dell’Unione di Centro Pier Ferdinando Casini, i vertici dell’Udc con Cesa, Buttiglione e D’Onofrio, i leader della Rosa per l’Italia,Tabacci e Pezzotta ed i Popolari di De Mita. «Con la presentazione dell’Appello – ha sostenuto Adornato – è di fatto partito a livello nazionale il percorso della Costituente di Centro e le linee programmatiche del documento politico sottoscritto da tutti i leader sarà la base di discussione del seminario di Todi in programma per il prossimo 25 e 26 luglio». «Con il clima teso ed avvelenato che si respira all’in-

LA STELLA NANA

Il mese scorso il satellite della Nasa Swift ha registrato la più potente esplosione stellare mai osservata prima. A generarla è stata la stella Ev Lacertae (nella foto), una nana rossa molto più piccola del Sole. Sembra però che la sua forza sia dovuta proprio alla giovane età

OSCAR LUIGI SCALFARO È ANTIBERLUSCONIANO

I MAGISTRATI DA NOI SONO PERLOPIÙ DI SINISTRA

Quando due colossi del pensiero, della politica e della giustizia come Veltroni e Di Pietro si alleano affinchè il secondo possa aprire un gazebo nel bel mezzo del Parlamento e continuare ad offrire la sua mercanzia giustizialista, che va a ruba tra la nostra sinistra, qualcosa di eclatante sta accadendo. Anche se, non nuovo in assoluto, a dire il vero. La memoria ci riporta alle opere e agli insegnamenti della presidenza di Oscar Luigi Scalfaro, da sempre conosciuto per il suo gusto per la giustizia, per il rispetto, la temperanza e la moderazione con i rivali e gli avversari e per la freschezza e la spensieratezza di giudizio, e al circo mediatico-giudiziario di quei giorni.

Quella dei magistrati di sinistra è, in Italia, una lunga tradizione. E’ noto anche all’estero. La loro specialità, fin da subito, parve chiara: dovevano proteggere gli interessi della sinistra nel pubblico e nel privato. E così non mancarono di fare. I risultati non si sono fatti attendere: fine della Democrazia Cristiana, del Partito socialista e del pentapartito. Durante gli ultimi tre lustri, i Nostri hanno cercato di mantenersi il più possibile fedeli alla loro missione. L’antiberlusconismo che ribadiscono e consolidano in questi giorni è un fresco, solare e chiaro omaggio a questa tradizione. Grato dell’attenzione. Distinti saluti.

dai circoli liberal Susy Ragno - Napoli

terno dei due Poli – ha aggiunto – il nuovo soggetto politico deve richiamare la partecipazione attiva dei tanti moderati che vogliono con il loro contributo rilanciare i valori della Politica ed affrontare con serietà le tante emergenze del Paese». Nel corso della riunione, i coordinatori regionali, nel condividere l’azione politica ed il forte contributo di idee e di proposta di Adornato nell’elaborazione del documento, hanno ribadito la necessità di accelerare l’iter organizzativo della Costituente anche in ambito periferico invitando al senso di responsabilità e di condivisione degli ideali tutti quei dirigenti delle forze politiche, dei movimenti e del variegato mondo dell’associazionismo che credono nella valenza del nuovo progetto. Concludendo la riunione, il coordinatore nazionale Angelo Sanza, ha invitato i responsabili regionali ad attivarsi sui rispettivi territori per aprire un tavolo di discussione con gli altri referenti dellUdc, della Rosa per l’Italia, dei Popolari e di quanti sono convinti che il Centro con la sua cultura, la sua proposta e le sue tradizioni può contribuire al rilancio e rinnovamento della politica.

Lettera firmata

Pierpaolo Vezzani Correggio (Re)

COMUNICAZIONE PER I CIRCOLI LIBERAL TODI - VENERDÌ 25 LUGLIO 2008 - ORE 11 Prossima riunione dei presidenti e dei coordinatori regionali liberal all’Hotel Bramante di Todi. A seguire, l’inizio dei lavori del seminario Vincenzo Inverso segretario organizzativo circoli liberal

APPUNTAMENTI SEMINARIO DI TODI - VENERDÌ 25 E SABATO 26 LUGLIO 2008 Seminario, ore 15.00, Hotel Bramante, in via Orvietana 48 I lavori del seminario, che vedrà la partecipazione tra gli altri di Casini, Cesa, Buttiglione, Vietti, Volontè, avranno inizio il venerdì a partire dalle ore 12.00 e si chiuderanno per le 14.00 di sabato


opinioni commenti lettere p roteste giudizi p roposte suggerimenti blog Il cuore mi dice ch’io ti vedrò stamattina Oggi sì che ci siamo ingannati l’un l’altro; tu speravi in me ed io in te. Mi avrai fatto cercare al solito caffè; ed io ti sto aspettando in casa, come ti scrissi ieri sera... Al più al più sto aspettando la tua cameriera: e spero che non continuerai a fidarti sempre in cose tanto delicate di un servitore... Mi dice il cuore ch’io ti vedrò stamattina; possibile che tu parta... senza nemmen darmi un bacio! Starai lontana due giorni e tornerai per abbandonarmi un’altra volta, e sa il cielo per quanto tempo. Oimé, sono le dieci e tre quarti e non so nulla di te. Mi viene la tentazione di vestirmi e di venire... dove? O miei presentimenti bugiardi! Addio belle speranze! Vado a passeggiare al boschetto così benefico. Mi andrò pascendo delle soavi memorie di quel primo tuo bacio. Buon viaggio. Tornerai tu presto? Ugo Foscolo ad Antonietta Fagnani Arese

LE TOGHE LASCINO DA PARTE LA POLITICA Sono pienamente d’accordo che debbano andare avanti solo i processi che riguardano i reati più gravi - vista l’inefficienza del sistema giudiziario. Devono esser radiati quei giudici che permettono ai rei di gravi atti di uscire per decadenza dei termini. Sono pienamente d’accordo che chi guida la nazione, eletto dal popolo sovrano, debba avere il tempo per governare e non quello di difendersi dai giudici comunisti (o da giudici fascisti quando gli eletti sono di sinistra). Sono pienamente d’accordo con chi sostiene che la magistratura è un organo dello stato, al servizio dello stato e del governo eletto che è sovrano. I giudici devono essere discreti, non politicizzati, devono operare al servizio del popolo, non devono fare esternazioni, massimamente quelle politiche. I giudici non devono commentare le leggi, ma devono applicarle.

Vittorio Baccelli

È GIUSTO RILEVARE LE IMPRONTE AI ROM Mi auguro fortemente che il ministro Maroni, continuerà nel

e di cronach di Ferdinando Adornato

Direttore Responsabile Renzo Foa Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Gennaro Malgieri, Paolo Messa Ufficio centrale Andrea Mancia (vicedirettore) Franco Insardà (caporedattore) Luisa Arezzo Gloria Piccioni Nicola Procaccini (vice capo redattore) Stefano Zaccagnini (grafica)

ACCADDE OGGI

4 luglio 1054 Esplode la supernova che porterà alla formazione della Nebulosa del Granchio 1807 Nasce Giuseppe Garibaldi, grande generale, condottiero e patriota italiano 1865 Viene pubblicato Alice nel paese delle meraviglie 1918 I Bolscevichi uccidono lo Zar Nicola II di Russia e la sua famiglia (data del Calendario giuliano) 1946 Dopo 400 anni, le Filippine ottengono la piena indipendenza 1957 Viene presentata al pubblico la Nuova 500 della Fiat 1987 L’ex ufficiale della Gestapo Klaus Barbie (noto come il ”macellaio di Lione”) viene dichiarato colpevole di crimini contro l’umanità e condannato all’ergastolo 1991 La finlandese Radiolinja lancia la prima rete commerciale Gsm 1997 La sonda spaziale Pathfinder, della Nasa, atterra sulla superficie di Marte 2005 Viene costituita a Roma la Fondazione Italia Usa

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Antonella Giuli, Francesco Lo Dico, Errico Novi, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria), Susanna Turco Inserti & Supplementi NORDSUD (Francesco Pacifico) OCCIDENTE (Luisa Arezzo e Enrico Singer) SOCRATE (Gabriella Mecucci) CARTE (Andrea Mancia) ILCREATO (Gabriella Mecucci) MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Francesco Alberoni, Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Bedeschi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Reginald Dale, Massimo De Angelis, Anselma Dell’Olio, Roberto De Mattei, Giancristiano Desiderio,

voler proseguire sul voler censire e finalmente tutelare tutti i bambini dei campi nomadi, e mi auguro anche che le leggi italiane le faccia l’Italia, senza continue interferenze (come ha già scritto un vostro lettore giorni fa) «di una Comunità Europea, che sino ad oggi per i bambini scomparsi, sottratti ed invisibili non ha fatto nulla». E’ proprio vero, e questo è ciò che accade a tutti i ”bambini invisibili” nei campi nomadi: bambini scomparsi, venduti, affittati, portati da uno stato all’altro come fossero valigie. Bambini mutilati, per renderli ancor più allettanti, per coloro che li sfruttano nell’ambito dell’accattonaggio. Bambini invisibili, tenuti legati come cani. Bambini affittati da una famiglia all’altra, senza nessun controllo. Bambine che sfilano nude in pieno centro a Milano per essere vendute al miglior offerente. Bambini picchiati se non raggiungono il budget previsto nelle elemosine. Bambini soggetti ad essere venduti nell’ambito della pedofilia e del traffico d’organi. Fermiamo tutto questo orrore.

Carla Rocchi - Verona

PUNTURE Maurizio Gasparri è andato a Parigi e ha letto un discorso in francese. Qualcuno ha evocato Robespierre.

Giancristiano Desiderio

E’ possibile fallire in molti modi, ma riuscire è possibile in un modo soltanto ARISTOTELE

Alex Di Gregorio, Gianfranco De Turris, Luca Doninelli, Rossella Fabiani, Vincenzo Faccioli Pintozzi, Pier Mario Fasanotti, Aldo Forbice, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Riccardo Gefter Woondrich, Roberto Genovesi, Arturo Gismondi, Raphael Glucksmann, Alberto Indelicato, Giorgio Israel, Robert Kagan, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Adriano Mazzoletti, Angelo Mellone, Assuntina Morresi, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Andrea Nativi, Ernst Nolte, Michele Nones, Giovanni Orsina, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Carlo Ripa di Meana, Claudio Risé, Eugenia Roccella, Carlo Secchi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania

il meglio di REPETITA IUVANT: MENO SPESA, MENO TASSE «I conti pubblici peggioreranno», avverte il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ascoltato oggi dalle commissioni Bilancio sul documento di programmazione economico-finanziaria. Dà l’idea di una bocciatura il titolo di Corriere.it, che tralascia di riportare il riferimento temporale indicato da Draghi: «Nel corso del 2008». Insomma, un altro bel regalo che ci lascia il Governo Prodi, quello che almeno aveva lasciato i conti a posto... A cadere oggi è l’ultima menzogna alla quale si aggrappava Veltroni in campagna elettorale pur di non scaricare Prodi. Il governo dovrebbe invece attenersi alla ricetta tanto semplice quanto urgente ricordata dal governatore: «La politica economica deve ora abbattere il debito e contribuire alla ripresa della crescita con servizi pubblici migliori e una riduzione del carico fiscale». Riducendo le aliquote su lavoratori e imprese «rafforzerebbe gli interventi volti a dare sostegno alla crescita», perché diminuirebbero le «distorsioni» dell’attività economica e migliorerebbe la competitività delle nostre imprese. Draghi ha chiesto anche, «qualora si delineasse un andamento congiunturale più favorevole di quello atteso», di «restituire il drenaggio fiscale per sostenere il reddito disponibile delle famiglie». Insomma, lo Stato per fare la sua parte non deve inventarsi nulla di particolarmente originale: deve costare di

meno alla collettività, produrre servizi migliori e abbassare le tasse. Promosse a pieni voti le iniziative del ministro Brunetta per aumentare la produttività dell’amministrazione pubblica: «L’introduzione di nuovi sistemi di valutazione del personale, la valorizzazione del merito e la maggior responsabilizzazione dei dipendenti pubblici che il Governo intende perseguire con apposita legge delega, vanno in questa direzione». Draghi torna a battere sul tasto dolente delle pensioni, lasciato in secondo piano dal nuovo governo dopo l’abolizione dello ”scalone Maroni” da parte di Prodi, e spiega che «al fine di contenere la spesa e assicurare ai pensionati futuri pensioni adeguate», dovrebbe crescere «nel medio-lungo periodo l’età media effettiva di pensionamento». Giudizio positivo sull’abolizione del divieto di cumulo, che «muove nella direzione di aumentare il tasso di attività dei cittadini di 60 e più anni, che in Italia è ancora relativamente basso». Da quanto riportato dalle agenzie, gli unici rilievi critici espressi da Draghi sulla manovra triennale riguarderebbero la Robin Hood tax. Non c’è bisogno di essere governatori della Banca d’Italia per capire perché. Come ho scritto più volte, la Robin Hood tax applicata a banche, assicurazioni e petrolieri rischia di ripercuotersi sui consumatori dei prodotti petroliferi, dei servizi bancari e assicurativi.

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Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30



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